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E io ho visto

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Ignoranti

Ignoranti

Difficile da credere, oggi. Difficile da concepire quanto, solo cinquant’anni fa -oggi in riferimento e richiamo-, era prassi e uso diffuso. Addirittura, è impossibile richiamare certi fatti, talune consuetudini con la fiducia di essere compresi nel proprio racconto, nella propria rievocazione temporale.

Quando partii per svolgere il servizio militare, allora obbligatorio, il quattro dicembre Millenovecentosettantuno, era un sabato mattina, quell’atto costituiva il primo stacco dalla famiglia di origine. Quell’allontanamento, quella separazione disegnava e definiva un Tempo: c’era stato un Prima e ci sarebbe stato un Dopo di diverso svolgimento. Se vogliamo considerarla anche così: con quel distacco preordinato, il Ragazzo che era sarebbe diventato l’Uomo che sarebbe poi stato.

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Ancora, e in sovra mercato. Avendo genitori che avevano vissuto la tragedia di una guerra, la Seconda mondiale, l’immagine del figlio-militare sfociava anche in malaugurata ipotesi del figlio-soldato, del figlio che avrebbe dovuto combattere, nel caso in cui...

Quindi, non solo separazione fisica forzata, ma evocazione di immagini non ancora scordate, non ancora elaborate, non ancora rimosse: tanti/troppi furono i disastri individuali, i bombardamenti dal cielo, le privazioni, le paure, le fughe verso la campagna, le incertezze e le certezze terribili che ciascun genitore aveva avuto modo di vivere e subire, solo una manciata di anni prima.

Quattro dicembre Millenovecentosettantuno, sabato mattina, verso la Stazione Centrale di Milano, a piedi, data la breve distanza dall’abitazione di famiglia, con in tasca il biglietto per Orvieto, il piccolo borgo umbro abbarbicato su una rupe di tufo. Per godersi un simile panorama, molti sono disposti a pagare, ma nessuna recluta vi prestò la minima attenzione, quel quattro dicembre. Bella destinazione, se e quando ci si muove per diporto, per turismo.

Anzi, ottima addirittura: sono impagabili gli affreschi del Duomo. In particolare è inestimabile la cappella di San Brizio, o cappella Nova, nel transetto destro del Duomo di Orvieto. È celebre e celebrato il ciclo degli affreschi con Storie degli ultimi giorni, avviato nelle vele da Beato Angelico e Benozzo Gozzoli, nel 1447, e completato da Luca Signorelli, nel 1499-1502. Allora, nel Settantuno di servizio militare, tutto questo mi fu indifferente, e non riuscì a lenire lo strazio di un’avventura grottesca, quanto inutile, quanto superflua.

In seguito, nel Duemilatré, a margine di una iniziativa del Grin / Gruppo Redattori Iconografici Nazionale, complici Daniela Pasqualin, allora responsabile della comunicazione Epson, e Lello Piazza, ai tempi presidente dello stesso Grin, una visita guidata mi/ci avvicinò allo spessore e valore degli affreschi.

Invece, Orvieto, nel senso di Ottantesimo Reggimento fanteria Roma, presso la Caserma Piave, per svolgere le trafile del Car / Centro Addestramento Reclute, non rappresentava un’opzione agevole. Il rigido inverno umbro non veniva certo attenuato dall’assenza di vetri alle finestre della camerata, ovviamente priva di qualsivoglia forma di riscaldamento. Per dirla a chiare lettere, ci si vestiva di tutto punto per andare a dormire. Altrettanto ovviamente, tralasciamo i dettagli sui servizi igienici (sei cabine con gabinetto alla turca per quattrocento reclute), che definirli tali -“igienici”- richiedeva una grande dose/dote di fantasia, e sull’igiene della sala mensa. Ed evitiamo di sottolineare quanto l’ipotesi di formare Uomini fosse interpretata dagli ufficiali preposti in maniera quantomeno stravagante.

Con tutto, il servizio militare, che poi, dal febbraio Settantadue, e per un anno solare, avrei svolto nel conforto di una allocazione milanese, a qualche fermata di filobus da casa, con la divisa azzurra dell’Aeronautica Militare, e i relativi bonus e privilegi, impartì subito le sue lezioni fondamentali.

Uno: sta nel gruppo (in milanese, stà in del grópp / anche, stà schisc, stai quieto); ovvero, non ti distinguere mai, non aderire mai a selezioni guidate dai sottufficiali o dagli ufficiali; insomma, è meglio essere uno di mille, che uno di cinque. Due: evita ogni incarico, con qualsiasi mezzo; ovvero, a patto di non danneggiare con la propria azione un commilitone (nel qual caso sopraggiunge la giustizia di caserma, in forma di gavettone, al minimo), è doveroso e imperituro sfuggire dalle funzioni comandate. Tre: non cercare alcun conforto in applicazione di qualsivoglia intelligenza. In caserma, regnano l’ignoranza e la stupidità. Quattro, Cinque, Sei... a ciascuno, le proprie cadenze.

Così, subito domenica mattina cinque dicembre, in un cortile nel quale vagavano circa mille reclute disorientate (tutto sarebbe cominciato il lunedì seguente), approssimativamente informato sulla Fotografia, che avrei avvicinato più tardi, individuai un “Laboratorio fotografico”. Ne chiesi notizia, e proprio il tenente di picchetto mi spiegò che era locale suo privato, dove stampava le sue fotografie. Mi spacciai per assistente di Gianni Berengo Gardin, del quale avevo sentito parlare -l’avrei conosciuto in seguito e su altro mio passo fotografico-, e ottenni l’incarico di occuparmene, con relativo esonero da altre mansioni “militari”. Così, ogni mattina, mentre i miei compagni partivano per le esercitazioni, io mi chiudevo in quella camera oscura, dove stavo da solo per tutta la giornata, e sono rimasto solo e tranquillo per tutte le giornate del Car: ovvero, mi sono imboscato. Senza fare niente d’altro per due mesi.

Solo un dettaglio aggiuntivo, la cui confessione -ormai- non implica più nulla; casomai, quanto di illecito è caduto in prescrizione. Partendo per una licenza natalizia, quel dicembre Settantuno, il tenente mi chiese quanto distasse Milano da Chiasso (Svizzera), dove allora le sigarette costavano meno che in Italia. Ovviamente, a fine licenza, tornai a Orvieto con un paio di stecche di sigarette, acquistate di contrabbando (allora fiorente nelle strade del centro di Milano). Una attenzione dovuta.

«Difficile da credere, oggi. Quando partii per svolgere il servizio militare, allora obbligatorio, il quattro dicembre Millenovecentosettantuno, era un sabato mattina, quell’atto costituiva il primo stacco dalla famiglia di origine. Quell’allontanamento, quella separazione disegnava e definiva un Tempo: c’era stato un Prima e ci sarebbe stato un Dopo di diverso svolgimento».

Quattro dicembre Millenovecentosettantuno, cinquant’anni fa. Mio padre mi aspettava sulla strada, per salutarmi alla mia partenza per il “militare”.

E io ho visto piangere mio padre. ■ ■

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