Elisabetta Vanni
Amira Da Damasco in viaggio verso la veritĂ
Fuoco Edizioni
© Fuoco Edizioni – www.fuoco-edizioni.it Stampa La Cromografica, Roma (Italia) Novembre 2015 ISBN 97-888-99301-20-0 Ogni riferimento a persone o fatti reali è dettato da coincidenza casuale o pura licenza artistica.
A tutti coloro che difendono la propria unicitĂ . A Luca, soprattutto.
Preambolo
Nella stiva non c’era neppure lo spazio per allungare un braccio, una accanto all’altro da ore interminabili, settantacinque persone che non si conoscevano costrette a dividersi la poca aria viziata che si riciclava con sofferenza. Tutte stivate su un vecchio peschereccio che non avrebbe potuto sopportarne trenta, di persone. Non si vedeva il boccaporto da dove ci trovavamo e se non fosse stato per la puzza di pesce marcio avrei perfino dubitato di trovarmi in mare; non assomigliava nemmeno a un mezzo di trasporto reale quel legno senza vie di uscita, ma a un vascello immaginario che conduce verso l’ignoto. Per quante parole mi sforzi di cercare deve essere chiaro che noi non eravamo destinati all’immortalità come coloro che cento anni fa salirono sul Titanic, noi eravamo semplicemente persone destinate alla fuga, soltanto se fossimo riusciti a scampare la morte. Eccolo qui, il senso di questo viaggio, racchiuso nell’assurdità di quella misera nave in mano alla provvidenza. Ciascun passeggero immerso nei propri incubi pronto a sussultare ad ogni onda, senza più la forza di provare speranze. Io e mia cognata avevamo deciso di raggiungere l’Europa in questo modo perché mia nipote Amira, a differenza nostra, non aveva i documenti per l’espatrio e questo viaggio si faceva per lei, andava fatto a tutti i costi, non si poteva più rimandare; quella era l’unica via di fuga che eravamo riuscite a trovare. «Se ce l’hanno già fatta centinaia di siriani e iracheni di cui direttamente o indirettamente siamo venute a conoscenza, perché non dovremmo farcela noi?» Abbiamo pensato io e Sarah. Non siamo certo ingenue e indifese donne. Ce la potevo fare, 5
dovevo aiutare Amira a sbarcare su un nuovo futuro. Pensavo che lei meritasse di conoscere un periodo di pace, a qualsiasi costo, anche se non ce lo aveva mai chiesto. Il viaggio era iniziato ormai da molte ore e io mi guardavo intorno con insistenza. Mi chiedevo se fra i nostri compagni ci fossero anche imprenditori, scrittori, artisti o comunque persone che come me avessero già in mente il momento in cui questa avventura si sarebbe trasformata in un racconto da tramandare. Forse però erano solo miserabili, tutta gente incapace di trovarsi un ruolo in patria, sotto le bombe a grappolo di Assad, tra gli spari dei ribelli, non avevano trovato la forza di combattere. Li ho contati uno ad uno, c’erano cinquantadue uomini, diciotto donne adulte e cinque ragazze, la più giovane avrà avuto meno di dodici anni. In quel tempo infinito qualcuno si era sentito male e alcune donne avevano anche vomitato, una dietro l’altra come in un gioco di specchi. Osservavo spesso Amira e mi inorgogliva vedere come mia nipote si imponesse di rimanere tranquilla, di non mettersi ad urlare nonostante ormai le fosse chiaro di aver subito un inganno, ne sono certa, la vedevo, contavo ogni saliva che deglutiva, ogni volta che la buttava giù compiva un atto di repressione su se stessa. Portata fuori dalla sua casa di Damasco con la scusa di un breve viaggio, adesso si ritrovava su una barchetta di migranti disperati che probabilmente non sarebbero mai arrivati a destinazione. Non comprendeva la ragione di quell’infernale traversata verso l’Europa, si arrovellava di domande, ma non poteva neppure immaginarlo il vero motivo, sempre che di vero ci fosse qualcosa oltre alla fame e all’asfissia. Ogni minuto che passava il caldo diventava più soffocante, non c’era abbastanza aria per tutti, sentivo il sudore che mi colava dal ventre giù lungo l’inguine fino a strofinarmi sulle gambe. Ma su tutto, ciò che mi dava più fastidio 6
Amira
era un odore che non riconoscevo più come mio. Tutti si sforzavano di trattenere le urine, una donna era svenuta e il marito cercava di farle aria controvoglia. Amira si concentrava su quello che le diceva sempre suo padre e cioè che il corpo non ha ragioni: «L’unica cosa che conta è la mente e con i pensieri si può cambiare la realtà, pensa alla vasca da bagno del grande Hammam di Damasco, alla musica delle gocce d’acqua che vi si gettano» ripeteva sottovoce come fosse una preghiera «le menti non sudano». Con il passare delle ore ciascuno cercava di parlare il meno possibile per risparmiare un po’ di forze. Amira quasi sollevata non sentiva più la dolce voce di sua madre cercare di raccontarle storie per rassicurarla. L’ultima volta che l’aveva vista era accanto a lei, aveva uno sguardo disperato e, seduta con la testa fra le mani, fissava il fondo della barca. Subito dopo la prima notte passata tra quei corpi ammucchiati i miei occhi avevano cominciato a dare una forma, un colore e un carattere alle dovute differenze. C’erano maschi che non riuscivano a toglierci gli occhi di dosso, c’erano giovani che si concentravano più sul corpo delle donne mature, in particolare sul mio perché mi comporto sempre come se non conoscessi timidezze, fingendo bene, e questo li rassicurava. Ce ne erano molti, la maggioranza, che avevano le pupille così ferme da sembrare ciechi, stavano morendo di paura. «La barca della morte» ripetevano «siamo sulla barca della morte» come se dirlo cancellasse la possibilità che ci accadesse il peggio. Era un rito, giocavano con le parole e si davano coraggio sostenendo la propria voce con ritmo, cantando una ninna nanna macabra che nessuno aveva voglia di ascoltare ma che rassicurava. C’erano donne che non smettevano di strusciare le gambe una contro l’altra e piagnucolare. E poi ce n’era una che invece non si è era mai mossa di un millimetro in ventiquattro ore di viaggio fino 7
all’attimo in cui sussultò per vomitare un liquido bianco e giallo di odore nauseabondo. Infine, c’era un tizio, particolarmente alto e magro ma con la voce perentoria, che faceva di tutto per attirare l’attenzione parlando a voce alta. Si sentiva un leader e io conoscevo bene quella sensazione di persona insicura che si maschera dietro l’adrenalina. Non smetteva di ripetere che lui era già stato in Europa molte volte e che se avessimo seguito alla lettera quello che diceva tutto sarebbe andato bene: «L’importante è la prudenza» affermava «fidatevi e vedrete che nessuno morirà i primi giorni». Avrei tanto voluto prenderlo a calci per farlo tacere, non sopportavo di vedermi allo specchio sotto spoglie maschili, lo trovavo superbo, orgoglioso e inutile. Nel silenzio che dopo lui mi circondava, oltre a sognare atti rivoluzionari, mi lasciavo andare ad immaginare la faccia di chi, in quel preciso momento, stava guidando la barca. Noi abbiamo fatto tutto tramite il padre di Khan, perché suo figlio maggiore aveva fatto lo stesso viaggio poco più di un anno prima. Adesso si trovava a Parigi e da lì cercava di far entrare anche suo fratello, ma il vecchio non voleva. «Cosa rimane a me, allora?» ci aveva gridato quando andammo a parlargli e Sarah aveva tentato di sostenere che quello era un misero pensiero egoista e ignorante e gli aveva proposto di farlo venire con noi. Lui si era rifiutato però ci aveva dato una mano facendo tutto il possibile per farci acquistare tre cari posti su quella nave da pesca. Chissà gli altri come avevano fatto a trovare i soldi? Li guardavo, i miei sconosciuti compagni di viaggio, avrei voluto fare loro molte domande, ma ormai il silenzio regnava sovrano e un unico nome ricorreva instancabilmente su tutte le bocche, “Allah”. Solo lui poteva aiutarci. Stavamo per arrivare, ormai eravamo quasi alla fine di quella estenuante traversata. Inaspettatamente iniziavo a prendere in 8
Amira
considerazione che quelle potevano essere le mie ultime ore di vita, allora, per orgoglio, ho cercato di raccogliere le energie rimaste e mi sono rivolta ai miei compagni di sventura: «Sicuramente saremo accolti con coperte e qualcosa di caldo da bere, non è poi vero che in Europa fa tanto freddo» dissi, fingendo come mio solito. Quel poco che sapevo era quello che ricordavo del racconto di mia cognata, una delle poche donne ad aver viaggiato sul treno BaghdadBerlino, poco prima che la ferrovia fosse bombardata. Ah, la mia amatissima cognata, che altri non è che la madre di Amira; erano passate ore da quando era salita sul ponte insieme ad altri adulti senza far ritorno. Mi rivolgevo a mia nipote e le ripetevo di non preoccuparsi che quando la nave si fosse fermata, ormai dovevamo pur essere vicini a gettare l’ancora, l’avrebbe potuta riabbracciare. Amira adesso aspettava, contava i minuti che la separavano dall’approdo in quel porto sconosciuto. Era la prima volta che mia nipote si trovava per così tanto tempo vicino a questa donna di fama indiscutibile, che poi ero io davanti ai suoi occhi. Aveva sentito parlare spesso di me in tutte le riunioni di famiglia, per lei fino a quel momento mi dovevo essere formata più come un mito che come una persona in carne e ossa. A Damasco ci si incontrava raramente e tutte le volte dopo un breve saluto, io mi rinchiudevo in qualche stanza per parlare in pace con sua madre, l’amica con la quale riesco sempre a lasciarmi andare senza ritegno. Tu non l’hai conosciuta ma Sarah è una donna di una complessità interessante con la quale mi ha sempre fatto piacere parlare e confortarmi. Quella sua aria mite la rende perfetta per tutte le più recondite fantasie che si abbia voglia di svelare. Particolarmente piacevole era ascoltarla parlare dei suoi sogni, come se esistesse veramente la possibilità di concretizzarli. Lei 9
li raccontava con un’ingenuità pura e allo stesso tempo disarmante che non mi annoiava mai. Uno di quei sogni si stava realizzando su quella barchetta, rischio affondamento, e solo adesso mi rendo conto della sua assurdità. «Amira deve conoscere la verità, Ban, aiutami, vieni con noi questa volta.» Quando, finalmente, qualcuno gridò “terra”, sentii il mio corpo rilassarsi di colpo, senza lasciarmi la possibilità di decidere per lui. Fino ad allora solo la paura mi aveva tenuta in piedi ma, da quel momento, tutto iniziava ad apparirmi confuso. Sentivo già crescere la voglia di tornare indietro eppure possedevo ancora un pizzico di acidità che mi fece pensare che almeno avrebbero potuto scegliere un’espressione meno scontata per festeggiare l’agognato arrivo. È durato solo un attimo quell’inutile flusso di pensieri perché all’improvviso mi sono sentita spingere fuori bruscamente e la luce mi ha tolto la vista, gli occhi bruciavano, le tante voci, alte, incomprensibili, mi assordavano, sul volto ho sentito aria fresca, anzi fredda e un odore di mirto forte, dove ci trovavamo? Qualcuno si stava rivolgendo ad Amira, ma lei lo guardava senza pronunciare parola, sembrava stordita, mi pareva distrutta. «Ici Riou Port» ripetevano le voci straniere «Ici, Riou» la strattonavano. Perché parlavano in francese se eravamo diretti in Italia? Cosa volevano da noi e perché urlavano? Anche Amira avrebbe voluto che la lasciassero stare, ma quelli non ci ascoltavano, continuavano a spingerci. L’ho vista puntare i piedi e urlare, con tutta la rabbia alimentata a fame e disperazione, l’ultima parola che le sue orecchie avevano udito: «Riuuuuuuuuuuuuuuuuu!» Così l’hanno catalogata. Nome: Riu, Cognome: UUU, Provenienza: Siria. 10
Capitolo Primo – Mi presento al nuovo
Ho solo quindici anni e la testa piena di pidocchi, mi prude da morire, forse mi succhiano il sangue e sicuramente anche un po’ di cervello. Chiedo scusa fin d’ora a tutti i lettori del mio Blog se le parole che leggerete da qui in avanti non assomigliano per niente a quelle dell’Amira che scriveva dalla Siria. Non è facile per me sapervi in lotta per la sopravvivenza, mentre io sono persa dietro la folle ricerca di serenità della parte femminile della mia famiglia. Perdonatemi vi supplico e, se volete, seguitemi nel tentativo di ricostruire quello che mi è successo negli ultimi mesi perché ho bisogno di condividere con voi il mio viaggio in Occidente. Quando sono scesa dalla nave non capivo dove fosse finita mia madre, l’ultima volta che l’avevo vista stava andando in coperta insieme a quell’uomo alto e logorroico. Lui, dopo lo sbarco, lo avevo rivisto fuori sul piazzale ma mia madre non c’era. L’avevano presa i gendarmi? E perché proprio lei? Solo lei? Eravamo ancora tutti? Forse ci stavano smistando, avevano intenzione di metterci in stanzoni separati, evidentemente. Le donne mi sembravano tutte nello stesso in cui anch’io mi trovavo, ma lei mancava all’appello. Dove era finita? E se fosse fuggita? Avrei dovuto fermarla, non dovevo salutarla con tanta disinvoltura, perché aveva seguito quegli uomini? Una donna può permettersi questo? Dove credeva di essere? Mi sono trovata a pensare, e a dir il vero neppure per la prima volta, che mia madre fosse completamente pazza, lei sempre con quell’aria mite, da bambina ingenua, che si butta nel fuoco perché non ha ancora capito che 11
brucia, che ti annienta. È sempre stata protetta da mio padre ma questa volta c’era solo mia zia che poteva fermarla, tenerla accanto a sé e proteggerla, ma non l’aveva fatto. La zia forte, il suo mito, eccola là che non sembrava neppure chiedersi dove fosse finita sua cognata. Allah, dimmi che è solo un sogno, un incubo dal quale mi sveglierò presto, dimmelo, dammi un segno, svegliami. Lo ripetevo, a testa bassa. Lo stomaco bruciava, si ribellava a quella costrizione. Non era quello il mio posto, lontano da voi, dai miei compagni del liceo, dal pianoforte, dalla mia casa, dal mio computer. Me lo avevano sequestrato appena messo piede sull’isola e se non me lo avessero ridato? Possibile che mentre a casa mia c’erano persone che rischiavano la vita per liberare il nostro paese, io dovevo rischiarla per fuggire dietro a una evanescente madre? Non ce la facevo più, non sopportavo più quelle donne che parlavano, parlavano e non dicevano nulla. Mia zia mi guardava e mi osservava continuamente, sembrava che per lei non fosse importante chiedersi dove era finita mia madre, questo da un lato mi dava una speranza, forse lei sapeva che stava bene, il gran segreto che non volevano dirmi, forse, era ingenuo e futile quanto loro. Ma d’altronde una parte di me sospettava che la zia, probabilmente, non sprecherebbe neppure una lacrima, neanche se la vedesse morta, mia madre come qualsiasi altra persona. Non l’avevo mai vista piangere questa donna che, se ci ripenso, non avevo mai visto neppure commuoversi o addolcirsi. È sempre misurata, composta, con quell’aria di chi tanto il peggio l’ha già vissuto. Avrei voluto che mi aiutasse, che si alzasse e si strappasse i capelli per attirare l’attenzione e farsi dire dov’era sua cognata e invece non faceva niente, aveva gli occhi fissi su una donna che stava chiedendo il dottore per suo figlio da alcuni minuti e 12
Amira
adesso una guardia si era avvicinata a loro con una misera brandina su cui farlo riposare. Tutto qui, nient’altro meritavamo evidentemente. Né letti, né attenzioni, figuriamoci se potevo pretendere risposte. Dovevo trovare una soluzione da sola, non ce la facevo più a lasciare che gli altri decidessero per me. Ma come potevo muovermi? Come facevo a tornare sulla barca per vedere se c’era ancora qualcuno o qualcosa, insomma sentire se avevano visto o avevano ascoltato? Cosa mi stava succedendo? Da quando eravamo partite mi sentivo come dentro un vortice che mi comprimeva facendomi girare a vuoto, senza spiegazioni e senza una ragione. Dovevo pagare dazio perché non ho mai sognato l’America o la vecchia Europa? Già, volevano che fossi come loro, che vedessi il mondo con i loro occhi e, invece, l’unica cosa che ho sempre desiderato è vivere di musica. Di musica mia, di note del mondo che ci appartiene. È semplice, no? Banale. Dite? So che anche voi, come me, non fuggireste mai perché la possibilità più grande sta nelle nostre mani e in quello che riusciamo ad elaborare anche in tempo di guerra. Purché nella nostra terra. Non ricordo più chi è stato il primo a chiamarmi la blogger del piano. Mia madre non se ne è neppure mai accorta, non sa niente di quello che scrivo. «Amira, spegni quel PC non puoi mica passare tutto il giorno davanti a uno schermo, le cose importanti sono altre». È per questo che mi ha trascinato in questo squallore? Per mostrarmi le cose importanti? O per farmi scomparire? La mia testa tornava continuamente sui soliti pensieri. Non ce la facevo più a star seduta a sentir quelle donne parlare e raccontarsi, come al solito. Non avevano più alberi a cui aggrapparsi, moschee in cui nascondersi, divani su cui accoccolarsi, teiere da mostrare, trucchi da sfoggiare; non avevano più niente queste donne sedute per terra. Potevano solo essere se stesse. Chiusi gli occhi 13
e cercai di immaginarmi il futuro; per farlo avevo bisogno di silenzio e musica, niente piÚ parole. Avrei voluto implorare le mie compagne di sventura di trascorrere il resto della loro vita come faceva mia nonna; impastando e mischiando i colori del latte con quello delle verdure, con pensieri liberi e segreti. Quando tornai a guardarmi intorno mi era definitivamente chiaro perchÊ il piano è sempre stato cosÏ importante per me; la sua voce mi piace molto piÚ della mia. Lui prima e il computer adesso sono gli unici mezzi che mi permettono di comunicare. Pensate che bello se al mondo esistessero solo la musica e la parola scritta: quante idiozie ci risparmieremmo!
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