Š Fuoco Edizioni - www.fuoco-edizioni.it Stampa Universal Book - Rende (CS) 1^ Edizione italiana - Agosto 2013 ISBN 9-78889736369-9 In collaborazione con il Centro di Studi Strategici Carlo De Cristoforis CESTUDEC di Como I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
«La verità è così preziosa che bisogna proteggerla sempre con una cortina di bugie». Winston Churchill (da La Seconda guerra Mondiale, V, p. 447, 1948-1954)
Prefazione
Il tema dell’Intelligence Economica, ampiamente e profondamente trattato in questa nuova opera di Giuseppe Gagliano riguardante la tradizione francese ma non solo, è divenuto particolarmente importante dopo la caduta del muro di Berlino. Gli Stati-nazione, gli USA per primi, hanno riconvertito i loro apparati di Intelligence spostando l’attenzione sulle nuove minacce asimmetriche, derivanti principalmente dall’organizzazione del mondo scaturita dalla forza d’urto della terza ondata della globalizzazione. Come ben evidenziato nei capitoli relativi a Christian Harbulot ed Eric Denécé viviamo in un mondo sempre più complesso, nel quale la guerra tradizionale è stata sostituita dal commercio, dalle infowar e dalle cyberwar, molto meno costosi in termini di vite umane e più profittevoli. Il denaro, soprattutto quello elettronico, si nasconde e si dilegua e qualsiasi Stato rimane paralizzato di fronte a questo processo che pare non avere limiti e confini. Questi aspetti sono stati sottolineati attraverso lo studio completo di quello che è accaduto in Francia a partire dal rapporto Martre del 1994, già pubblicato in Italia da CESTUDEC a cura di Giuseppe Gagliano. Inoltre, i molti esempi di casi reali dovrebbero sensibilizzare gli imprenditori ed i manager del nostro paese che, nonostante la riforma dell’Intelligence del 2007, stenta ancora a creare quel metasistema articolato a supporto della governance complessiva. Se il mercantilismo misurava la forza di uno Stato dal saldo della bilancia commerciale, con i mercanti come protagonisti nella triplice veste di uomini d’affari, marinai e soldati, dobbiamo porci la domanda di chi sono e cosa rappresentano oggi gli imprenditori ed i manager. In questo ambito occorre sicuramente ricordare le posizioni di Eric Delbecque e Christian Harbulot messe in luce da Giuseppe Gagliano, che evidenziano il rischio del patriottismo economico, inteso come ideologie protezioniste ed isolazioniste. Viviamo in un mondo in cui le nazioni comprano e vendono simultaneamente: chi distrugge un concorrente elimina anche un cliente o un po-
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tenziale cliente. Sono tre forze principali in atto che emergono da una lettura attenta del libro: il capitalismo, con la tensione costante a conquistare sempre nuovi mercati, le innovazioni tecnologiche, per ottenere un vantaggio competitivo duraturo, e la volontà politica dei grandi paesi leader. Dall’opera si evince che questo sistema produce vincenti e perdenti, anche analizzandolo solo in termini di scambi commerciali, con un forte impatto sui redditi e sulla vita delle persone. Oggi, l’offshoring ingigantisce ancor di più vantaggi e svantaggi aumentando l’incertezza riguardo ai cambiamenti indotti dalla globalizzazione dei commerci; incertezza che ha ricadute pesanti sulla fascia della popolazione in maggiore difficoltà rendendo più difficili le risposte dei governi. Tra le organizzazioni che si sono meglio globalizzate, sono menzionati i sodalizi criminali e mafiosi che vanno a ridimensionare il ruolo delle frontiere geografiche diventando attori nel mercato in grado di infiltrarsi nel tessuto imprenditoriale anche attraverso discutibili intermediari. Nella visione proposta da Giuseppe Gagliano il benessere economico e sociale di uno Stato è considerato strategico e da difendere, a qualsiasi costo, perché alla base dello svolgimento regolare della vita democratica. In un’Europa che conta oltre venti milioni di PMI, con ogni Stato assolutamente determinato a difendere la propria ricchezza nazionale, il sistema paese Italia deve capire che l’Intelligence Economica può diventare un eccezionale strumento a supporto della Governance Politica. Intrecciando i dati di questo nuovo libro con il rapporto della Commissione Europea, SBA Fact Sheet 2012, si evidenzia come l’Italia sia principalmente guidata dal segmento delle micro imprese, anche se negli ultimi anni si è registrata una crescita delle medie. La PMI in Italia rappresenta il 99,9% del totale con una forte prevalenza nel settore manifatturiero, secondo in Europa solo alla Germania. Il comparto delle grandi imprese, quello teoricamente più significativo nella competizione globale, conta poco più di tremila aziende contro le quasi cinquemila della Francia. Nella lotta che porta ogni Stato/Nazione a difendere i campioni nazionali può risultare difficile per l’Italia, a corto di risorse economiche, capire quali aziende supportare e come farlo. Imparare da paesi che storicamente hanno una tradizione in questo ambito, nel lavoro di Giuseppe Gagliano
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è indicato chiaramente come la Francia abbia compreso che l’Intelligence Economica fosse necessaria per la rinascita competitiva del sistema industriale, può certamente permettere una maggiore diffusione della cultura di Intelligence Economica. Francesi, americani, inglesi, giapponesi, russi, israeliani, tedeschi, ci insegnano che per conquistare nuovi mercati occorre possedere le informazioni necessarie: tutti, anche le PMI italiane e non solo i campioni nazionali, hanno la necessità di raccogliere, elaborare ed utilizzare le informazioni per prendere delle decisioni o generare delle attività. Dal libro si evince che la proposta di valore di un paese/impresa diviene l’obiettivo del competitor che dovrà lottare per non perdere terreno, cercando di capire quali possono essere le opportunità, anticipando le mosse dell’avversario e riducendo il fattore di rischio del proprio patrimonio, soprattutto del capitale intellettuale, vero intangible asset. Come competere su scala internazionale e supportare adeguatamente il sistema produttivo quando un paese non riesce a fare rete o se la pubblica amministrazione non è efficiente? Dopo una prima lettura di questo nuovo lavoro di Giuseppe Gagliano si comprende bene che il sistema di Intelligence Economica dovrebbe fornire informazioni all’attenzione dei policy maker, politici e rappresentanti delle aziende considerate campioni nazionali da difendere, non solo però facenti parte del comparto grandi imprese come ampiamente suggerito dagli studiosi francesi che rivolgono la loro attenzione a tutta la PMI composta da oltre due milioni e trecentomila imprese. L’apparato industriale italiano, con milioni di piccole e medie imprese che spesso competono nel mondo in settori strategici contro i colossi degli altri paesi magari organizzati in public company, potrà trarre enormi vantaggi se saprà capire il valore dell’Intelligence Economica. L’accesso all’informazione ed alla tecnologia di milioni di persone, di qualsiasi ceto sociale, permette lo scatenarsi di cambiamenti reali. Ogni persona nel mondo è in grado, o lo sarà a breve, di perseguire i propri fini attraverso una molteplicità di interconnessioni informatiche e tecnologiche che potranno generare infinite comunità. Sarà un mondo nel quale istituzioni governative, aziende, organismi no profit, comunità locali, gruppi di persone online coesisteranno all’insegna del pragmatismo economico:
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Giuseppe Gagliano, mettendo in luce il pensiero di Eric Denécé, scrive che lo scopo è saper usare l’informazione come strumento di sviluppo economico e di difesa dei propri interessi. In questo scenario prefigurato dall’autore, l’Intelligence Economica diventa non solo fondamentale ma risorsa necessaria per sopravvivere; occorre fare in modo che almeno un attore dello Stato-nazione possa trovarsi al tavolo delle trattative e rappresentare gli interessi della cittadinanza, o della maggior parte della stessa. Le grandi democrazie occidentali, prima fra tutte l’Italia, devono rivedere la spesa pubblica, spending review, operando tagli che colpiscono il sistema sociale, welfare, generando attriti e spinte antagoniste. Anche i ministeri della Difesa e degli Interni dovranno sottoporsi ad una forte dieta dimagrante: strutture create secondo logiche passate non sono in grado di contrastare le minacce emergenti o semplicemente costano troppo e sono al di sopra delle nostre possibilità. Il quesito principale che questo libro porta alla luce è come fare per potenziare l’Intelligence Economica e sostenere la competitività del sistema paese, preservare il benessere dei cittadini e lo svolgimento dell’attività democratica. In Italia, nel 2012, oltre il 68% del valore aggiunto è stato generato dalle PMI contro il 58% dell’Unione Europea. Questo dato impone che si operi una discriminazione e che si supportino come nell’esperienza francese ampiamente descritta da Giuseppe Gagliano, realmente e non solo a parole, le aziende che rappresentano, pur con le loro piccole dimensioni, punte di eccellenza. Possiamo spingere le considerazioni degli esperti presentati nel libro anticipando un modello di intelligence economica che superi le pessimistiche considerazioni che vedono il sistema imprenditoriale italiano piegato alla globalizzazione, che spazzerà via le PMI in quanto la loro dimensione è poco significativa per la competizione in atto, andando invece a valorizzare le imprese che pur con organizzazioni ancora in fase di sviluppo rappresentano cavalli da corsa su cui puntare per ottenere un ritorno dell’investimento a beneficio di tutta la società italiana. Le PMI dovranno imparare ad utilizzare massicciamente l’OSINT come suggerito da tutti gli esperti studiati da Giuseppe Gagliano. Si tratta di informazioni del settore privato che possono aiutare a reperire dati in paesi in via di svi-
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luppo o non coperti, in organizzazioni non governative e nel mare di internet. La bontà dell’OSINT, utilizzato massicciamente dalle aziende multinazionali, sta nel fatto che le informazioni sono ottenute con mezzi etici e legali, dunque facilmente fruibili e condivisibili nel quotidiano. Solo una Governance Politica aperta al cambiamento, strutturata ed organizzata potrà consentire al sistema produttivo italiano di continuare a competere nel mondo. Dal libro emerge che la sfida in atto è nuova e complessa allo stesso tempo. Sono necessari approcci e strumenti di Intelligence Economica che permettano di selezionare dove impiegare le risorse, sempre scarse, per ottenere il massimo risultato di ritorno non solo in termini di profitti ma anche di benessere sociale ed ambientale nella logica della triple bottom line. Tra gli intangible asset descritti in questa completa iniziativa letteraria meritano sicuramente una particolare attenzione le risorse umane che operano, ed andranno ad operare, a supporto delle imprese. Si tratta di nuove figure professionali, altamente specializzate, con competenze trasversali in grado di fare comprendere all’azienda e all’imprenditore il significato vero dell’Intelligence attraverso un processo di formazione e apprendimento culturale continuo. Come sottolineato nell’interpretazione dell’autore di Emmanuel Lehmann e Franck Decloquement occorre preparare operatori competenti, e non solo teorici di stampo accademico, che sappiano fare attività di intelligence sul campo. Un’Intelligence Economica che aiuti l’Italia nella competizione in un mondo in cui è in gioco la sopravvivenza dei sistemi di welfare e nel quale le imprese competono tra di loro come pure gli Stati, che spesso sono in conflitto diretto o indiretto con gli Enti locali la cui importanza è ben evidenziata da Eric Denécé. Considerare e valorizzare i territori, entrati anch’essi nella competizione, pone alcune domande fondamentali: come possono gli Enti locali competere quando è lo Stato stesso che rallenta la loro capacità attraverso, ad esempio, il freno alle imprese dovuto all’inadempienza contrattuale nei termini di pagamento della Pubblica Amministrazione ai fornitori privati? Credo che con quest’opera il CESTUDEC e Giuseppe Gagliano abbiano reso un servizio importante al nostro paese e alle nostre imprese a cui, da oggi in avanti, spetta il compito di aprirsi all’Intelligence Econo-
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mica, senza improvvisazione, avendo consapevolezza dei pericoli generati sul bilancio dalla guerra economica quotidiana. I risultati dell’esperienza francese sono sotto gli occhi di tutti: basta leggere i nomi delle aziende italiane divenute, negli ultimi anni, di proprietà francese. Vogliamo credere che sia capitato tutto per caso oppure, come evidenziato dall’interpretazione che Gagliano dà del pensiero di Emmanuel Lehmann e Franck Decloquement, pensare che alla base di questo successo strategico vi sia un atteggiamento diffuso di Intelligence Economica dei nostri cugini d’Oltralpe? Massimo Franchi Direttore Esecutivo per le relazioni con le imprese di CESTUDEC, Centro Studi Strategici Carlo de Cristoforis, attivo nello studio dei temi della sicurezza, della difesa, dell’intelligence e della storia militare. Consulente di management, socio qualificato APCO-CMC, certified management consultant presso ICMCI, formatore manageriale, socio AIF, si occupa di progetti di internazionalizzazione, riorganizzazione strategica e commerciale, analisi e studi di mercato, per imprese italiane e straniere. Esperto in sistemi di Governance, CSR, Europrogettazione, Balanced Scorecard ed Intelligence Economica è giornalista pubblicista, iscritto all’Ordine Nazionale, e direttore responsabile della rivista di cultura aziendale Capitale Intellettuale, www.capitale-intellettuale.it È Docente presso A.A.C. Business School nei Master in Gestione d’Impresa PMI, Gestione delle Vendite ed Allineamento Strategico e Sviluppo dei Manager e Team Building. Ha ideato il percorso di Alta Formazione per Manager in Intelligence, Sicurezza e Operazioni in aree di crisi, presso il quale tiene il modulo in Intelligence Economica. Ha lavorato in aziende multinazionali, di cui è stato membro del comitato di direzione, con incarichi manageriali in ambito marketing, vendite e comunicazione ed è stato ufficiale in ferma dell´Esercito Italiano ed ha prestato servizio al Comando Regione Carabinieri Toscana. È ufficiale riservista dell’Esercito Italiano.
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Laureato in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali all’Università di Parma, indirizzo imprese-mercati-istituzioni, diplomato nel Master Universitario in Governance Politica all’Università di Pisa e nel Master in Sicurezza e Intelligence LUNIG con il patrocinio del Consorzio per gli Studi Universitari di Verona. Ideatore e promotore del progetto di Intelligence Economica Defence of Small and Medium Companies SMC, per la difesa e la tutela del patrimonio imprenditoriale italiano, collabora con diversi centri studi strategici italiani e stranieri, tiene seminari e conferenze sui temi della strategia e dell’internazionalizzazione. Principali interviste ed articoli pubblicati: - Franchi M., “L´intelligence economica a supporto della governance italiana” in CESTUDEC, 19 marzo 2013. - Franchi M., "CIPI Foundation: intervista a Paolo Raffone" in Capitale Intellettuale Anno 4 N.1:16-17, Ed. A.A.C. Consulting, Parma, 2013; - Franchi M., "Intelligence economica e il modello Defence of Small and Medium Companies: Fonti Aperte e Big Data" in CESTUDEC, 5 dicembre 2012. - Franchi M., "La guerra economica del quotidiano" in Editoriale Capitale Intellettuale Anno 3 N.3:1-1, Ed. A.A.C. Consulting, Parma, 2012; - Franchi M., "L´Intelligence economica ed il modello Defence of Small and medium Companies" in Capitale Intellettuale Anno 3 N.3:18-24, Ed. A.A.C. Consulting, Parma, 2012; - Franchi M., "WTO e competizione tra gli Stati" in Capitale Intellettuale Anno 3 N.2:8-12, Ed. A.A.C. Consulting, Parma, 2012; - Franchi M., "Aria di crisi permanente: quali opportunità" in Editoriale Capitale Intellettuale Anno3 N.2:1-1, Ed. A.A.C. Consulting, Parma, 2012; - Franchi M., "Intelligence Economica" in CESTUDEC, 21 maggio 2012; - Franchi M., "Il nuovo centro ricerche Chiesi a Parma: Andrea Chiesi, Emilio Faroldi Associati" in Capitale Intellettuale Anno 2 N.3:14-18, Ed.
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A.A.C. Consulting, Parma, 2011; - Franchi M., "L´intervista: Stefano Landi" in Capitale Intellettuale Anno 2 N.1:14-16, Ed. A.A.C. Consulting, Parma, 2011; - Franchi M., "Globalizzazione e sicurezza economica" in Capitale Intellettuale Anno 2 N.2:1-1, Ed. A.A.C. Consulting, Parma, 2011; - Franchi M., "Intervista a Massimo Galassini, Usco S.p.A." in Capitale Intellettuale Anno 2 N.2:14-17, Ed. A.A.C. Consulting, Parma, 2011; - Franchi M., "Una nuova governance per affrontare la complessità " in Capitale Intellettuale Anno 2 N.3:1-1, Ed. A.A.C. Consulting, Parma, 2011; - Franchi M., "Il Mercato: il grande sconosciuto" in Capitale Intellettuale Anno 1 N.1:6-7, Ed. A.A.C. Consulting, Parma, 2010;
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Premessa
Per la prima volta presentiamo al lettore italiano la riflessione strategica francese contemporanea relativa alla guerra economica, analizzando la produzione saggistica principale dei più accreditati analisti francesi e, in particolare, di Eric Dénecé, Christian Harbulot, del generale Jean PichotDuclos, di Eric Delbecque, di Philippe Baumard, Emanuel Lehman, Franck Decloquement ponendo particolare attenzione agli scritti di Harbulot. Riguardo alle tematiche affrontate in questo volume è doveroso precisare che il presente saggio costituisce il completamento dei tre volumi pubblicati in precedenza, e cioè quello sulla guerra cognitiva edito da Fuoco, La guerra psicologica. Saggio sulle moderne tecniche militari, cognitive e di disinformazione (2012), quello sulla genesi dell’intelligence francese edito da Aracne, La genesi della intelligence economica francese (2013) e, infine, il terzo volume edito da Fuoco, Intelligence economica. Saggio sulle moderne tecniche di strategia di impresa (2013). Nonostante l’apparente eterogeneità dei contributi presentati è agevole individuare la presenza di un approccio metodologico e politico comune, di un orientamento strategico analogo e infine di tematiche ricorrenti. In rapporto all’impostazione metodologica posta in essere dagli autori considerati, questa può essere individuata nel realismo politico in senso lato (senza cioè un’adesione specifica da parte degli analisti francesi alle diverse scuole di pensiero che caratterizzano il realismo politico novecentesco) che risulta essere in grado di comprendere la dinamica sempre conflittuale delle relazioni internazionali; la visione politica – ed è il secondo aspetto – che emerge in modo ora esplicito (come in Harbulot e Pichot-Duclos) ora implicito è l’adesione al gollismo per il quale la Francia non deve rinunciare ad avere una politica di potenza in Europa, che potrà essere dispiegata proprio grazie alla guerra economica. Quanto al paradigma strategico al quale aderiscono gli autori del nostro saggio è certamente quello post-clausewitziano, poiché pone l’enfasi sulla centralità
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della guerra dell’informazione (e quindi della guerra psicologica), che riveste un significato di enorme rilievo nel contesto della guerra e della intelligence economica. Quanto alle tematiche comuni che sono emerse da un raffronto comparato fra gli autori, queste sono individuabili: - nella consapevolezza (presente soprattutto in Harbulot e Pichot-Duclos) dell’intrinseca fragilità e vulnerabilità della UE; nella subordinazione – nel contesto internazionale – della politica alla logica dell’economia; - nell’esistenza di una logica polemologica del mercato che pone de facto gli autori di questo saggio da un lato in aperta opposizione al neoliberismo e dall’altro li induce ad attribuire un ruolo di estremo rilievo allo Stato; - nella centralità della geoeconomia come strumento d’interpretazione privilegiato per comprendere la realtà del mondo contemporaneo; - nella consapevolezza della rilevanza della dimensione storica per comprendere la genesi, la trasformazione del capitalismo e soprattutto la centralità della potenza economica; - nel ruolo centrale che viene attribuito all’approccio nipponico e angloamericano alla guerra economica e nella conseguente necessità di adattarlo alle esigenze francesi; - nella sinergia costante che dev’essere attuata fra Stato e impresa prestando particolare attenzione al ruolo dei servizi segreti, la cui competenza nel contesto della intelligence economica dev’essere rafforzata; - nella centralità che la globalizzazione – e la conseguente smaterializzazione del territorio – ha acquisito; - nella fondamentale importanza che viene a rivestire la guerra economica (strumento dell’egemonia geoeconomica) per conseguire una logica di potenza in grado di arrestare e contenere l’influenza americana; - nella rilevanza che le ong alter global ed ecologiste hanno acquisito in funzione destabilizzante, attuando una vera e propria guerra asimmetrica nei confronti di Stati e imprese; - nella necessità di progettare una politica economica in grado di regolamentare il mercato senza cadere nel mercantilismo e nel liberalismo caro
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Guerra economica e intelligence
a von Mises e von Hayek, di attuare una sorveglianza preventiva nel contesto della intelligence economica allo scopo di realizzare una strategia globale di sicurezza nazionale e di salvaguardare la societĂ industriale e la modernizzazione tecnologica. - infine, nella urgenza da parte della Francia di promuovere una strategia offensiva e non meramente difensiva e attendista. Giuseppe Gagliano Presidente CESTUDEC (Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis)
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Introduzione
Come ha ampiamente dimostrato la riflessione strategica francese, la guerra economica si è affermata nel sistema internazionale come un conflitto capace di coinvolgere sia gli Stati sia le imprese private, imponendosi in un contesto globale, nonostante la presenza di numerose organizzazioni internazionali. Lo scontro a livello economico si è radicato con forza soprattutto dopo la conclusione della Guerra fredda e si presenta come un conflitto in crescita, nel quale non solo gli attori coinvolti sono spesso tra loro interdipendenti, ma agiscono all’interno di una rete globale che non ha dei riferimenti geografici o giuridici precisi e unici, complicando ancora di più la lettura del quadro d’insieme. Per annientare il proprio nemico nella guerra economica qualunque mezzo è lecito – dalle misure protezionistiche fino allo spionaggio o alle attività di lobbying – e non vi sono strutture che determinino limiti o stabiliscano un ordine. In particolare, con l’enorme diffusione dei mezzi di comunicazione, la guerra economica si è avvalsa sempre più di un suo strumento efficace: la guerra dell’informazione. Gli attori coinvolti, siano essi Stati o imprese, usano questo strumento per aumentare il proprio raggio d’azione a livello planetario (basti pensare alla possibilità di comunicare in tempo reale da una parte all’altra del mondo), ma anche come mezzo marcatamente offensivo (manipolando a proprio vantaggio, per esempio, le informazioni destinate ai consumatori). Si comprende, perciò, quanto sia necessario che lo Stato e le imprese prendano coscienza di queste tematiche e sappiano usarne gli strumenti, condividendo quanto più possibile le informazioni ricavate, sia per reagire agli attacchi sia per combattere attivamente risultando vincitori. Nel mercato globale, le imprese hanno il compito di salvaguardare i propri azionisti e difendere i propri dipendenti, come del resto lo Stato avrebbe l’obbligo di sostenere e di proteggere le imprese private, in particolar modo quelle che rappresentano un interesse strategico, in una logica che vuole che il potere pubblico tuteli “l’interesse nazionale”. In sostanza, la guerra economica definisce il proprio spazio geografico
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attraverso tre elementi: l’informazione; la presenza economica dello Stato e dei privati sul territorio straniero e la normalizzazione. Basandosi sulla metodologia dello studio dell’informazione, la guerra economica analizza la diffusione di contenuti e di notizie, soprattutto a mezzo stampa, consapevole di quanto la trasmissione di informazioni possa condizionare gli attori politici e, chiaramente, l’opinione pubblica. Oggi la guerra economica cerca di analizzare scientificamente (soprattutto in termini quantitativi, ma anche semantici) la trasmissione di notizie per identificarne le fonti primarie, i maggiori canali di trasmissione, quanto le informazioni influenzino le scelte economiche e se sia possibile valutare gli effetti degli attacchi. Individuare quali siano le armi degli operatori economici per instaurare un conflitto e architettare attacchi ai rivali permette di comprendere anticipatamente, per esempio, quanto potrà essere grave la diffamazione di un prodotto o di un marchio a seconda della strategia adottata. In definitiva la guerra economica, tramite il suo strumento principale, la Guerra dell’Informazione, analizza sia l’immissione sia l’effetto delle informazioni che possono riguardare l’ambito economico. Il secondo elemento, la presenza di attori economici nei Paesi stranieri, si concretizza nelle Camere di Commercio, delle strutture di rappresentanza che facilitano le relazioni economiche tra gli Stati, contribuendo all’espansione delle proprie imprese nel mercato dello Stato ospite. Nonostante le Camere non siano ugualmente utili in tempo di guerra come gli avamposti marittimi, esse sono contatti stabili all’estero che promuovono la mutua conoscenza evidenziando, per esempio, le opportunità d’investimento alle proprie imprese. Conoscere a fondo la realtà locale dove s’intende avviare un’attività economica è di fondamentale importanza per la buona riuscita degli affari. Inoltre, le Camere di Commercio possono promuovere il proprio Paese facendo una “buona pubblicità” che può influenzare molto, e positivamente, le istituzioni del Paese ospitante. Il terzo elemento fondante è la normalizzazione, intesa come procedimento politico e tecnico che costruisce un impianto normativo, il quale regola le opportunità e i vincoli degli attori economici. Questo terzo pilastro è di grande importanza per la disciplina; inoltre, non è riconducibile a nessuna delle dottrine geopolitiche. Storicamente, gli Stati si sono impegnati nell’approvazione di norme che proteggessero i mercati interni o
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Introduzione
che promuovessero la loro espansione all’estero. La normalizzazione mira a evitare la conflittualità fra Stati, soprattutto fra vicini. Un altro aspetto della guerra economica è l’intelligence economica, pratica ormai diffusa che prevede la raccolta e l’utilizzo (non sempre legale) di informazioni sensibili che possono danneggiare gli avversari. In realtà, molte di queste pratiche strategiche sono state incluse e metabolizzate attraverso un altro nome: guerra dell’informazione, disciplina di origine militare risalente alla Guerra fredda, che include anche la manipolazione della conoscenza. La guerra economica, affinandone gli strumenti e appropriandosi delle strategie, è riuscita a orientare la guerra dell’informazione verso il solo ambito economico, dandole un nome più appropriato: guerra cognitiva. La guerra cognitiva, nello specifico, si occupa di confrontare le differenti capacità di produrre, mettere in rapporto ed eludere elementi di conoscenza in un contesto conflittuale, facendo ricerche in tutti i campi che trattano i processi comunicativi (dalla psicologia all’informatica). Uno dei concetti base della guerra cognitiva stabilisce che, in uno scontro, non esiste solo il rapporto fra un attore forte e uno debole, ma anche il contrario. Un’immagine chiara è quella di Davide e Golia, dove non solo esiste la forza bruta del gigante, ma anche l’utilizzo più intelligente della conoscenza da parte del primo, che infatti sconfigge il più forte. Qual è, quindi, il rapporto fra guerra asimmetrica e guerra cognitiva rispetto alla guerra economica? La guerra cognitiva abbraccia sia la dimensione privata sia quella statale, non occupandosi solo di disinformazione, ma anche della conoscenza nel suo insieme. La guerra d’informazione sarebbe riduttiva per la dimensione statale, mentre la guerra cognitiva usa tutti gli strumenti della conoscenza, della tecnologia e dell’informazione per rovesciare il rapporto forte-debole. Si può tentare di delineare una definizione di “intelligence economica” descrivendola come l’insieme di azioni coordinate di ricerca, di trattamento, di distribuzione e di spiegazione di informazioni utili agli attori economici. Per attori economici s’intendono tutti gli attori in grado di operare nell’ambito economico sia all’interno di un territorio definito sia a livello globale. È evidente che questa disciplina ha bisogno di sistemi che possano raccogliere informazioni, dando vita a un processo che coinvolge
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attori diversi, i quali ricevono delle spinte da un potere politico o economico con delle chiare visioni geoeconomiche e strategiche. Non limitandosi a informazioni provenienti esclusivamente da fonti riservate, l’intelligence può lavorare anche grazie a sistemi open source come Internet, libri, conferenze, convegni e mezzi di comunicazione di massa. Gli attori economici, di fatto, dialogano anche attraverso questi mezzi. Paradossalmente, il problema dell’intelligence economica non sta tanto nel raccogliere informazioni per farne una strategia, quanto nell’avere fonti che raccolgano le informazioni e le elaborino in modo comprensibile per chi decide Allo scopo di illustrare un caso concreto di guerra economica, si può prendere in considerazione la ricostruzione fatta dalla Scuola di guerra economica parigina relativa all’OPA da parte di Mittal su Arcelor e la situazione della siderurgia europea di fronte alla globalizzazione finanziaria. Da molti anni l’aumento di acquisizioni, unioni e joint venture dimostrano il consolidamento della competitività dei mercati. Con tutto ciò si riscontra che alcune OPA si contraddistinguono per essere delle azioni finanziarie ostili tese a neutralizzare l’avversario. Questo genere di manovre strategiche preoccupano sia gli operatori economici, che vedono il mercato reagire in conseguenza a queste azioni, sia gli Stati, che potrebbero altresì intervenire soprattutto per proteggere i settori di grande importanza nazionale. Il caso di studio qui proposto, l’acquisizione di Arcelor da parte di Mittal, è emblematico perché riguarda uno dei simboli dell’industria europea nonché la base di numerosi altri settori produttivi e strategici: il settore siderurgico. Gli attori coinvolti erano nel 2005 i due maggiori colossi dell’acciaio: mentre Mittal aveva un numero superiore di dipendenti e primeggiava per quantità di materiale prodotto, Arcelor vantava la movimentazione d’affari più consistente. Ciò testimonia l’ottima salute di Arcelor ed esplica la strategia di Mittal: non si trattava dell’acquisizione di un impero in rovina, bensì di un gigante in buona salute che aveva appena inglobato la canadese Dofasco. In questo modo Mittal, acquistando agevolmente un’azienda sana, si è garantita un enorme vantaggio sugli altri concorrenti, spiazzando tutti con una prova di forza che nessun operatore
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economico o politico europeo poteva prevedere. Per riflettere sui possibili interessi strategici di quest’OPA si analizza qui di seguito la campagna di comunicazione e le pressioni esercitate su tutti gli attori in gioco, dal mercato dell’acciaio fino all’opinione pubblica. Per quanto riguarda il mercato dell’acciaio tra il 1980 e il 2005 si nota che, da quando i minerali provenienti dall’ex Unione Sovietica sono entrati nei mercati mondiali nel 1992, si è registrato un aumento dei prezzi e della domanda di minerali ferrosi e dell’acciaio. Questo materiale è prodotto in un centinaio di Paesi circa, ma sostanzialmente solo un piccolo gruppo di Stati ne dirige l’andamento sul mercato: il 42% di quest’ultimo è concentrato, infatti, nelle mani del Brasile e dell’Australia. Con la crescita stupefacente degli ultimi anni, la Cina rappresenta il 40% della produzione globale, con 349 milioni di tonnellate di acciaio nel 2005. Questa produzione va a soddisfare il mercato interno, destinando solo il 3% all’esportazione. Uno dei primi momenti di crisi si è verificato quando la Cina ha deciso di limitare l’esportazione di coke, usato nell’alimentazione degli altiforni siderurgici, facendo impennare il prezzo di questo materiale al 600% e dimostrando perciò come una scelta economica (motivata dal desiderio di totale indipendenza) abbia evidentissime ripercussioni strategiche. Per chiarire nel dettaglio la conflittualità posta in essere la Scuola di guerra economica analizza gli attori coinvolti. Partendo dalla Mittal, la maggior parte delle quote azionarie di questa società apparteneva alla famiglia Mittal attraverso fondi collocati giuridicamente in paradisi fiscali. Nonostante questa scelta possa essere giustificata da ragioni economiche e fiscali, può celare altri interessi che la guerra economica dovrebbe indagare. Dopo l’acquisizione dell’Arcelor, la famiglia Mittal è comunque rimasta il socio di maggioranza con il 51% della proprietà, mentre la restante era di proprietà a diversi fondi di investimento e istituzioni. Questa configurazione del pacchetto azionario ha reso impossibile una nuova OPA da parte di Arcelor per riconquistare la sua proprietà, denotando una grande intelligenza strategica da parte di Mittal. Procedendo con l’analisi di Arcelor, bisogna premettere che maggiore è il numero dei proprietari di una società, più difficile ne risulta l’acquisizione: infatti, convincere più attori a cedere le azioni è più arduo. Perciò,
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da un punto di vista strategico, Arcelor scoraggiava gli avversari al suo acquisto attraverso un azionariato ampio. Inoltre, la società godeva di un grande appoggio politico internazionale grazie a stretti rapporti con i governi e al suo carattere strategico, simbolo di un’Europa unita. I principali proprietari, protagonisti dell’evoluzione dell’azienda erano: - il governo del Lussemburgo: azionista storico, rappresentato all’epoca da Jean-Claude Juncker. Il primo ministro, che era anche un importante politico in ambito europeo, inizialmente si oppose all’OPA di Mittal; - il governo belga: una delle sue regioni, la Wallonie, era uno degli azionisti di Arcelor. Dopo una consulenza della Banque Lazard, anche quest’attore si dichiarava contrario alla cessione dell’industria alla Mittal; - Colette Neuville, proprietaria al 2,5% e rappresentante dei piccoli azionisti, non si espresse. Nonostante la sua piccola quota, Neuville poteva svolgere un ruolo importante data la grande frammentazione di Arcelor; - il maggior azionista nonché l’uomo chiave dell’azienda, il franco-polacco Romani Zaleski. Per far valere i propri interessi Mittal influenzò decisori e opinione pubblica grazie a una rete di collaboratori: - John Ashcroft, esponente della destra repubblicana statunitense, segretario alla Giustizia tra il 2001 e il 2005. A fine carriera istituì una sua agenzia di lobby e fu assunto da Mittal per l’integrità morale e per le relazioni con diversi membri di governo europei; - Anne Méaux, responsabile del servizio stampa di Giscard d’Estaing, direttrice della comunicazione di Alain Madelin, intratteneva relazioni durevoli con responsabili di primo piano della destra francese; - le banche partner di Mittal Steel. Cinque banche hanno lavorato all’OPA in modo complementare: Goldman-Sachs, Crédit Suisse, HSBC, Citigroup e Société Générale. Goldman-Sachs ha giocato un ruolo fondamentale nella partita, mentre Société Générale ha aperto una linea di credito di otto miliardi di euro per Mittal. Goldman-Sachs è anche stata protagonista per conto di Arcelor, insieme a Citigroup, nell’OPA contro Dofasco.
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La rete di rapporti di Arcelor si presentava complessa e spesso basata su relazioni di tipo personale e clientelare, in cui gli attori si muovevano seguendo interessi propri e in cui sussistevano interessi che sovrastavano quelli dei singoli attori: - banche partner di Arcelor. BNP Paribas e Calyon storicamente avevano sempre sostenuto Arcelor dal punto di vista finanziario. Merrill Lynch e UBS invece strutturarono la strategia. Molti altri istituti sono intervenuti: Michael Zaoui per Morgan Stanley (fratello di Yoel Zaoui, artefice della strategia di Mittal) fu incaricato dal consiglio di amministrazione di Arcelor di valutare l’offerta di Mittal; - DMG Michel Calzaroni. Agenzia di comunicazione internazionale, al centro di battaglie di borsa per colossi alimentari e dell’energia francesi; - opinione pubblica. Arcelor si affidò a Publicis Groupe, al secondo posto nel mondo per la consulenza e l’acquisizione dei media. - Skadden Arps. Studio di avvocati internazionale che per tre Paesi (Francia, Belgio e Gran Bretagna) reclutò dodici elementi per formare la sua squadra di professionisti. Proseguendo con l’analisi dell’OPA, si nota facilmente che fu ideata anzitutto un’ottima campagna di comunicazione. Per le grandi imprese la capacità di comunicazione è una risorsa essenziale, soprattutto se la partecipazione azionaria diffusa, come era il caso di Arcelor, i cui piccoli investitori costituivano l’85% dell’azionariato. Ciò costituì un problema per l’acquisizione da parte di Mittal, più dell’aspetto legale, regolamentare, economico e delle leggi anti-trust. Mentre l’operazione veniva approvata dalle autorità sulla concorrenza di Stati Uniti, Canada e UE, Mittal si impegnò, con un grande dispendio di risorse economiche, nel convincere le migliaia di investitori ad aderire al progetto. Della trattativa fu importante l’intervento di una delle personalità nominate in precedenza: Anne Méaux. Per Mittal, Méaux scelse la strategia della comunicazione multipla con lo scopo di convincere gli investitori della validità del progetto. Gli strumenti utilizzati furono molteplici, dalle conferenze stampa alle pagine pubblicitarie sui quotidiani per stimolare
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gli investimenti, dalle call conference ai viaggi presso le sedi della Mittal. Nell’ottica della guerra economica, le strategie comunicative di questo tipo inviano segnali ostili alla controparte. Senza tralasciare alcun aspetto, la strategia inerente all’OPA si occupò anche di curare la comunicazione con i sindacati. Dal febbraio 2006 Mittal Steel si impegnò nel tentativo di comunicare alle rappresentanze sindacali di Arcelor le intenzioni del piano industriale sottostante l’OPA. Si concentrarono sui vantaggi in termini di livelli occupazionali e di condizioni di lavoro, assumendo la responsabilità di mantenere inalterati gli impegni presi precedentemente da Arcelor. Anche per gli azionisti e la stampa fu elaborata una comunicazione ad hoc. Le agenzie di comunicazione rivolsero tutti i propri sforzi alla creazione di un’immagine positiva del leader Lakshmi Mittal, descrivendolo come un self-made-man di successo, limpido e appetibile sia per gli imprenditori sia per l’opinione pubblica. Per fare ciò sfruttarono la stampa specializzata e i settimanali a grande tiratura. Lo scopo era quello di fare apparire Mittal come un imprenditore di successo che partecipava alla vita economica del Paese e non come un imprenditore estero che delocalizzava e attuava una “colonizzazione al contrario”, sia economica che culturale. La risposta mediatica di Arcelor, che era concentrata sulla denigrazione dell’avversario e cercava al contrario di dipingerlo come un concorrente di serie inferiore, ottenne in realtà il risultato opposto e rafforzò ulteriormente Mittal. Anche l’offerta economica fu descritta come scadente, definendola “indiana”, cioè povera e scarsa, non considerando dunque il ruolo economico di primo piano dell’India, Paese che stava crescendo notevolmente e a ritmo sostenuto. Per proteggersi dall’offensiva della Mittal, Arcelor cercò in tutti i modi di sedurre i suoi piccoli azionisti, scoraggiandoli dall’OPA e offrendo loro il doppio dei dividendi concessi nel 2005. Questa mossa era una delle poche in mano ad Arcelor ed era motivata dalla convinzione di poter fare affidamento sul potere pubblico. Proprio perché il punto di forza dell’Arcelor risiedeva nell’insieme di piccoli azionisti, nell’aprile del 2006 l’impresa offrì loro un ulteriore aumento dei dividendi per poi sfoderare un’altra carta a un mese di distanza:
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Arcelor annunciò di aver ricevuto un’OPA da parte dell’industria russa Severstal. Se l’affare avesse avuto buon esito, la quota che sarebbe passata a Mordachov, il magnate di quest’azienda, sarebbe stata del 32%, garantendo agli azionisti la distribuzione di dividendi ancora superiori. Il gruppo di azionisti non si mostrò inizialmente entusiasta e, di conseguenza, la Severstal decise che avrebbe ridotto la sua partecipazione al 25%, imponendosi così come l’azionista più forte, ma allontanando la Arcelor dall’OPA della Mittal e rassicurando i piccoli azionisti sui loro ancora ottimi guadagni. L’ennesima mossa vincente operata da Mittal fu il contatto diretto con il gruppo di azionisti dell’Arcelor: quasi tutta la dirigenza dell’azienda, incluso Lakshmi Mittal, incontrò oltre il 70% degli azionisti, instaurando una comunicazione diretta che li convinse della genuinità del loro progetto d’acquisto. La Mittal Steel riuscì così a comprare il 34% del pacchetto azionario nel maggio 2006. Proseguendo con l’acquisizione, la Mittal formò il nuovo consiglio di amministrazione in Lussemburgo, soddisfacendo le richieste di alcuni azionisti su questioni quali la trasparenza delle decisioni e il rispetto delle divisioni dell’azionariato, ossia i punti più criticati a Lakshmi Mittal. Furono così dissipate le restanti preoccupazioni degli azionisti. A fine maggio avvenne un altro passaggio fondamentale: in rapporto a un fondo d’investimento speculativo, Goldman Sachs richiese insieme a circa il 30% degli azionisti di modificare le procedure di approvazione della richiesta della società russa Sevastal. Da questo punto, la situazione volgerà rapidamente al termine con l’intervento di Zaleski, l’azionista di maggioranza dell’Arcelor. Grazie all’alterazione delle procedure richiesta da Goldman Sachs, egli riuscì ad acquistare oltre il 7,8%. Infine, il 25 giugno, Arcelor si fuse con Mittal Steel, accettando un’offerta per gli azionisti ancora più proficua del 10%. Con questo caso si esemplifica l’importanza della guerra economica, che mira a salvaguardare i settori strategici di una certa area, salvaguardandone le risorse e assicurando lo sviluppo occupazionale dei settori affini e dello sviluppo industriale in senso stretto. Accanto all’aspetto squisitamente economico la Scuola di guerra economica parigina pone l’enfasi anche sull’aspetto geopolitico. Infatti, se-
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condo una prospettiva geopolitica, sono molteplici le implicazioni nascoste dal caso in esame, quella più interessante vede l’OPA di Mittal come un’operazione tesa a frenare l’espansionismo cinese. Partendo da un’analisi che considera il ruolo degli Stati Uniti, si evidenzia quanto questo Paese dalla conclusione della Guerra fredda porti avanti un certo unilateralismo nella politica estera, diretto a mantenere il titolo di prima potenza economica. Chiunque si opponga o tenti di sfidare il gigante americano diventa un rivale, specialmente a livello economico. La Cina perciò si presenta come un pericoloso competitore, capace persino di portare avanti con successo alleanze con i Paesi africani: investendo in settori come l’istruzione e la sanità senza fare richieste su temi quali diritti umani o lotta alla criminalità, Pechino si assicura degli alleati in un altro continente guadagnando dai propri investimenti. Inoltre, il governo cinese ha saputo spingersi fino in Sud America, non solo tramite accordi economici, ma con progetti culturali che divulgano la cultura e la lingua cinese. In Asia, Cina e India hanno stretto un importante accordo che tende a realizzare molto di più che un semplice contenimento della rivalità storica: istituire nel continente un clima di cooperazione che sappia rivaleggiare con gli Stati Uniti. Proprio perché l’India è l’unico attore regionale del continente in grado di contenere la Cina, gli Stati Uniti si sono adoperati per fare di questo Paese un proprio partner commerciale, come sancito dall’accordo firmato fra i due Stati nel 2000. Per garantire la propria crescita economica e assicurarsi una certa indipendenza da altri attori, Cina e India si sono adoperate per aumentare la produzione e la lavorazione dell’acciaio. La Cina, che nel 2005 aveva un consumo di questo materiale pari a un terzo di quello mondiale, è divenuta nello stesso anno un grande esportatore. Nello stesso periodo, anche l’India aveva prodotto acciaio in eccesso, mettendo a rischio il rapporto domanda-offerta. In un momento tanto delicato per il settore siderurgico l’OPA di Mittal era perciò mal vista dal mondo politico, che temeva un cambiamento dell’equilibrio strategico tra gli attori. Dal punto di vista degli Stati Uniti Mittal possedeva delle caratteristiche che la rendevano interessante e proficua: - secondo l’autorità del Paese, il gruppo Mittal Steel non era indiano;
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- la regione di espansione economica per questo gruppo era la Cina, tanto che nel 2004 aveva acquistato il 37,17% di una società cinese produttrice d’acciaio, il primo gruppo straniero a ottenere questo risultato. Gli Stati Uniti hanno perciò visto di buon occhio la fusione di Arcelor e Mittal: mentre la comunità finanziaria locale si diceva favorevole, il Dipartimento della Giustizia aprì un’inchiesta a riguardo per accertarsi di poter continuare a importare grandi quantità di acciaio tramite Arcelor. Inoltre, anche su un piano finanziario, l’OPA di Mittal su Arcelor confermò la tendenza generale alle grandi aggregazioni su pochi e stabili poli mondiali, in un’ottica strategica. Una riflessione finale su questo tema riguarda il comportamento dell’Unione Europea la quale, pur essendo nata dalla CECA, l’organizzazione per il libero commercio del carbone e dell’acciaio, non ha adottato alcuna misura di difesa di un settore dal valore economico, strategico e simbolico così grande. Di analogo interesse, nel contesto della guerra economica, sono le riflessioni dei colonelli cinesi Liang e Xiangsui, autori del celebre volume Guerra senza limiti. Se Clausewitz aveva paragonato la guerra a un camaleonte, i colonnelli cinesi, allo scopo di connotare in modo più chiaro le nuove forma di guerre, assimilano la guerra a una specie di drago dotato di torso, testa e arti interscambiabili da disporre a piacimento e far muovere liberamente in ogni direzione. Fra le tipologie indicate nel saggio dei colonnelli cinesi certamente la guerra economica – che gli autori chiamano finanziaria – occupa un ruolo di rilievo. Un esempio di guerra finanziaria promossa dagli Stati Uniti viene egregiamente illustrata dai colonnelli cinesi. È noto come gli Stati Uniti si siano opposti alla proposta giapponese di creare un fondo monetario asiatico equivalente al Fondo Monetario Internazionale ed è altrettanto noto come gli Stati Uniti richiesero il potenziamento di un piano di soccorso attraverso il Fondo Monetario Internazionale di cui gli Usa erano – e sono – tra i maggiori azionisti. Ciò naturalmente implicava – secondo i colonnelli cinesi – che i Paesi asiatici sarebbero stati costretti ad accettare la politica di liberalizzazione economica promossa dagli Stati Uniti. A questo riguardo proprio l’FMI concesse un prestito di 57 miliardi di dollari alla
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Corea del Sud e ciò avvenne solo a condizione che quest’ultima aprisse completamente il suo mercato consentendo ai capitali americani di comprare le imprese coreane a prezzi estremamente bassi. Ebbene – commentano i colonnelli cinesi – questa richiesta non è forse una rapina a mano armata che ha consentito – e consente – a Paesi come gli Stati Uniti di ottenere accesso illimitato ai mercati di un’altra nazione? Insomma, non è forse molto simile a una forma di vero e proprio colonialismo economico? D’altra parte gli attacchi promossi dal celebre finanziere Soros contro i mercati asiatici non sono forse un altro esempio illuminante di guerra finanziaria? L’incremento su base decennale nei fondi generali americani da 810 miliardi di dollari a 5 trilioni di dollari non sono un’altra forma di guerra economica analoga all’abbassamento del tasso di credito del Giappone? Naturalmente non è solo il miliardario Soros ad avere il controllo della guerra finanziaria: basti pensare a Li Denghui, che ha usato la crisi finanziaria del sud-est asiatico per valutare la moneta di Taiwan in modo da attuare un’efficace attacco al dollaro e a Hong Kong, o pensiamo alle azioni offensive nel campo della guerra economica portata in essere da Morgan Stanley e da Moody’s. Tuttavia, l’esempio più illuminante è la guerra finanziaria subita dal sud-est asiatico che ha consentito di mettere in ginocchio le tigri asiatiche. Ora, se l’insieme di queste offensive di natura economica fanno sinergia con le guerre di tipo tradizionale, ci troviamo di fronte a un esempio efficace d’azione combinata fra diverse tipologie di guerre. L’insieme di questi esempi serve a dimostrare, secondo i colonnelli cinesi, che la guerra finanziaria si è ormai trasformata in un’arma iperstrategica poiché è estremamente distruttiva, è facilmente manipolabile e consente azioni dissimulate. Nel complesso, la guerra finanziaria è sostanzialmente una forma di guerra non militare il cui potere distruttivo però è analogo a quello delle guerre tradizionali. Proprio per la sua potenza ed efficacia la guerra finanziaria sarà destinata ad acquisire sempre più importanza nell’ambito della sicurezza nazionale degli stati moderni, e questa dimostra in modo evidente come sul piano strategico ci si trovi oggi di fronte a una guerra onnipresente o senza limiti, poiché è possibile pianificare una guerra sia in
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una sala da computer sia in una borsa. E dunque alla domanda dove sia il campo di battaglia nella strategia attuale la risposta non può che essere: dappertutto. Bibliografia École de guerre économique, «Opa de Mittal sur Arcelor. La sidérurgie européenne dans le chaudron de la globalisation financiére », Sentil Analyses & Solutions, n. 39, 2006. Christian Harbulot, La machine de guerre économique, Economica, 1992. Id., La main invisible des puissances, Ellipses, 2005. Christian Harbulot e Didier Lucas, La guerre cognitive, Lavauzelle, 2002. Qiao Liang-Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, Leg, 2001. Didier Lucas e Alain Tiffreau, Guerre économique et information: les stratégies de subversion, Ellipses, 2001.
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Cap. 1 - Guerra economica e guerra dell’informazione nell’interpretazione del generale Jean Pichot-Duclos
La nostra attenzione si soffermerà nell’analisi della seconda parte del saggio Les guerres secrètes de la mondialisation – Guerre économique, guerre de l’information, guerre terroriste (Le guerre segrete della globalizzazione – Guerra economica, guerra dell’informazione, guerra terrorista) del generale Jean Pichot-Duclos, nella quale l’attenzione dello studioso francese è rivolta alla guerra economica. Nel delineare il contesto generale, l’autore cerca anzitutto di evidenziare la pertinenza della guerra economica. Oggi la Germania è divenuta un alleato all’interno della NATO, un membro a pieno titolo dell’Unione Europea e uno dei principali partner della Francia. È stata però la prima nazione ad aver formulato, in piena prima guerra mondiale, un concetto nuovo di guerra commerciale che prefigurava quello di guerra economica, di cui ai nostri giorni osserviamo quotidianamente lo svolgimento. Non a caso già nel 1915, nella sua opera premonitrice Il piano di guerra commerciale della Germania, l’assistente ingegnere tedesco Samuel Herzog affermava che “ogni commercio è una guerra”. D’altronde, bisogna ricordare che la maggior parte dei conflitti bellici ha implicazioni economiche. Il sofisma che nega la guerra economica con il pretesto che “la guerra distrugge mentre l’economia costruisce” si basa sul rifiuto di considerare che lo scontro sia cambiato per dimensione e livello. Nel novecento la concorrenza contrapponeva imprese liberali; dal 1989, come conseguenza della mondializzazione, a contrapporsi sono Stati o blocchi economici, che mettono in gioco mezzi governativi per conquistare o conservare dei mercati, come dimostra l’esempio americano. La guerra contro l’Iraq e l’intervento della NATO in Kosovo probabilmente non sarebbero avvenuti se non fosse implicata la politica petrolifera araba degli Stati Uniti; l’invasione del Kuwait e le atrocità serbe hanno solo fornito i pretesti necessari all’applicazione della politica di Washington. L’aspetto finanziario della guerra contro il terrorismo islamico dà
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infine un’attualità nuova al concetto di guerra economica. Nel prefigurare quali saranno le nuove poste in gioco nella Guerra Economica, l’autore suggerisce che l’evoluzione delle azioni di guerra economica sarà strettamente legata alle questioni globali essenziali. La prima fra esse è probabilmente l’acqua, che condiziona la vita degli esseri viventi e rimane indispensabile per l’industria: secondo la PAI (Population Action International), nel 2025 2,8 miliardi di abitanti vivranno in 48 Paesi con difficoltà o carenza di rifornimento idrico; 40 di questi si trovano in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale o sub-sahariana. La seconda posta in gioco globale è quella dell’energia, che è la causa degli eventi che insanguinano il Medio Oriente da un secolo a questa parte ed è capace di alimentare crisi internazionali. Una terza questione planetaria è quella demografica. Le previsioni dell’ONU stimano per il 2050 una popolazione tra i 7,9 e i 10,9 miliardi di persone, a seconda dell’importanza delle epidemie di AIDS e dell’efficacia delle misure di controllo delle nascite assunte dai Paesi prolifici, che sono anche i più poveri. La questione demografica rimane dunque esplosiva e potrebbe costituire uno dei fermenti più pericolosi delle guerre della globalizzazione, in particolare in campo economico, religioso e terroristico. Una quarta posta in gioco di natura strategica è costituita dal controllo delle risorse dei fondali marini, ovvero i noduli polimetallici che giacciono in distese sottomarine di pepite di metalli di grande densità. La Francia possiede perciò, con 2,083 milioni di chilometri di “zona economica esclusiva”, la seconda estensione mondiale dopo gli Stati Uniti. Una quinta questione capitale è rappresentata dal controllo delle tecnologie del futuro, garantito da due tipi di azione complementari: l’investimento finanziario in ricerca e sviluppo e l’attuazione di una politica di intelligence tecnologica. La sesta posta in gioco, nel contesto della globalizzazione, è quella per il controllo dei sistemi d’informazione. Si tratta di assicurarsi il controllo del “contenitore” e del contenuto, da cui derivano le grandi manovre commerciali che caratterizzano l’attuale paesaggio mediatico. La settima questione strategica nell’era della globalizzazione riguarda i modelli culturali in senso ampio, che influiscono sulla formazione, sul modo di vivere e quindi sul consumo dei prodotti. Bisognerebbe menzionare anche la posta in gioco costituita dall’Europa: accettata dagli Stati
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Uniti a condizione che ne sia vassalla, è internamente oggetto di lotte d’influenza relative alla sua stessa concezione. La sorte dell’Europa, fondamentale per gli europei, non presenta però il carattere trasversale delle questioni citate precedentemente, tutte passibili di dar luogo a potenziali conflitti armati. Bisogna poi essere coscienti dei nuovi vincoli che pesano sugli attori della vita economica. La prima serie di vincoli è legata alla necessità di innovare. Negli ultimi due decenni del novecento le imprese hanno dovuto far fronte a una serie di nuove esigenze: produrre utile prima di un anno; produrre in grandi quantità e vendere subito i prodotti innovativi; disporre di una rete di informazione; moltiplicare i partenariati d’impresa per abbassare i costi. Una seconda serie di vincoli risulta dalla necessità di raggiungere la dimensione critica a livello internazionale per affrontare efficacemente l’offerta concorrente e per soddisfare quantitativamente la domanda. Questi ultimi anni sono stati ricchi di esempi di concentrazioni, acquisizioni, fusioni che hanno generato dei mastodonti finanziari, industriali e dei servizi, come la nascita di Arcelor (di cui abbiamo parlato nell’introduzione del nostro saggio), leader mondiale dell’acciaio, l’avvicinamento fra Euler e Hermès, i numeri uno francese e tedesco delle assicurazioni, o l’eliminazione impietosa dei concorrenti che vale a Microsoft il controllo di più dell’80% dei software del pianeta. Ogni medaglia ha il suo rovescio e l’anticipazione e l’audacia hanno i loro rischi. Il mondo delle telecomunicazioni se n’è reso conto nel corso del 2001, quando gli operatori europei hanno visto evaporare 22 miliardi di euro in occasione dello scoppio della bolla finanziaria gonfiata da una vera e propria speculazione sui benefici stimati. In questo mondo globalizzato sta emergendo dunque una nuova forma di scontro: la Guerra Economica. Per delineare il contesto internazionale della Guerra Economica, si può osservare che si è dovuta attendere la caduta del regime sovietico perché gli scontri economici si rivelassero in tutta la loro intensità e dimensione mondiale. Con la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, l’America si scopre unica superpotenza, mentre rinasce la competizione economica. Tutto diventa particolarmente più veloce poiché le nuove tec-
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nologie dell’informazione e della comunicazione si sviluppano in maniera esponenziale, tanto che il volume d’informazioni create raddoppia ogni quattro anni. In ogni caso, la corsa al dominio mondiale, non appena lanciata, sembra vinta dagli Stati Uniti. In effetti, mentre il suo vecchio rivale, la Russia sovietica, sprofonda nelle proprie contraddizioni interne, l’America rivede tutte le sue priorità strategiche ed economiche. Secondo M. W. Christopher, segretario di Stato di Clinton, la sicurezza economica americana dev’essere considerata priorità assoluta nella politica estera e bisogna farla progredire con le stesse energie e risorse del periodo della Guerra Fredda. A questo scopo sono stati creati, dal 1993, il Consiglio Economico Nazionale (NEC) e il Consiglio Nazionale di Sicurezza (NSC), l’Advocacy Network e l’Advocacy Center, che raggruppano tutte le agenzie federali interessate dal commercio internazionale e consigliano le imprese. Inoltre, il sistema nel suo insieme si incarica di eliminare gli ostacoli, attraverso pressioni politiche dirette sui governi, consigli prodigati dall’FMI o dalla Banca Mondiale ai Paesi indebitati e la raccolta di tutte le informazioni necessarie. Inoltre, un arsenale giuridico adattato alla nuova situazione permette di condurre una politica vigorosamente protezionista. Insomma, tutto avviene come se un’analisi globale della situazione fosse sfociata in un dispositivo sistemico di dominazione dell’economia mondiale. Così l’America domina oggi il mondo, definendosi “la sola nazione indispensabile” come ha dichiarato il presidente Clinton all’indomani della sua rielezione. L’entrata nella “civiltà dell’informazione”, la corsa ai nuovi mercati lanciata dalla fine della Guerra Fredda e la mondializzazione dell’economia hanno creato un forte bisogno di tecnici della raccolta e del trattamento dell’informazione, cioè di specialisti dell’intelligence. Allo stesso tempo, il crollo dell’apparato sovietico e il riposizionamento americano sul campo della geo-economia hanno liberato contingenti di ufficiali d’intelligence. Dal 1991 migliaia di specialisti venuti dal KGB e dalla CIA hanno contribuito a rendere più offensiva la gestione delle imprese russe e americane. Ciò spiega l’inasprimento della competizione internazionale e i frequenti eccessi costatati. Bisogna convincersi che il know-how proveniente dalla difesa è indi-
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spensabile per proteggersi dai predatori senza scrupolo e utile per ottenere legalmente le informazioni necessarie. Bisogna tuttavia distinguere l’azione degli Stati, che non comporta alcuno scrupolo di legalità, e quella delle imprese che non possono permettersi attività illecite, perché il rischio è troppo elevato in caso di fallimento: le sanzioni sono talmente alte che il gioco non vale la candela. Va poi considerato che la globalizzazione coinvolge anche l’illegalità economica, che fa spesso nascere dei gruppi intercontinentali strutturati e la guerra economica del crimine, cioè quella delle economie mafiose. La loro estensione folgorante è stata favorita da un insieme di fattori di cui il più determinante è stato lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione, che permettono trasferimenti istantanei e ripetuti di somme importanti. La molteplicità dei paradisi fiscali ha poi disegnato una mappa planetaria della delinquenza finanziaria. Le somme coinvolte sono gigantesche: secondo l’FMI nel 1996 sono stati riciclati 120 miliardi di dollari, mentre l’intero bottino del crimine organizzato mondiale sarebbe stimato intorno ai 1700 miliardi di dollari. Almeno 61 Paesi ospitano reti mafiose transnazionali e la stima degli effettivi al soldo della mafia sarebbe di 450.000 persone. Fra le attività criminali delle mafie, la droga è la più redditizia, e frutta annualmente 350 miliardi di dollari. Le altre attività illegali e lucrative sono numerose: traffico di medicinali, frodi, delinquenza informatica, false speculazioni immobiliari, false vincite al gioco, trasferimento illegale di denaro, aste e prestiti falsi, contraffazione, malversazioni, contrabbando, corruzione e prostituzione. Se le frodi e il crimine sono sempre esistiti in diverse forme, ciò che è radicalmente nuovo è la scala raggiunta. Più in generale, le somme totali lecite e illecite scambiate quotidianamente sono enormi, dal momento che la finanza speculativa è divenuta il motore effettivo dell’economia mondiale. Insomma, siamo oggi immersi in una “economiacasinò” in cui le attività illegali – la guerra economica del crimine – sono inestricabilmente mescolate alle operazioni legali. Bisogna tuttavia reagire e l’offensiva terroristica del settembre 2001 lo ha dimostrato, scatenando involontariamente una vera e propria internazionalizzazione della risposta poliziesca. Mai la collaborazione fra Paesi e servizi era stata così organizzata, così profonda e così rapida. Da parte
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sua, dal 1999, l’Europa ha creato un’istituzione di polizia europea, l’Europol, inizialmente destinata alla lotta contro il crimine organizzato e la droga. Sradicare le economie criminali significherebbe rimettere in discussione i principi stessi della mondializzazione finanziaria come sistema autoregolato, superiore a tutte le istanze politiche, economiche e sociali. Nessuno, però, lo auspica veramente, perché le grandi organizzazioni criminali dispongono già di una capacità di fuoco finanziario in grado di destabilizzare l’economia mondiale. Per quanto riguarda invece i modelli statali di guerra economica, il primo che si può analizzare è quello giapponese. Il Giappone, infatti, è la prima nazione industrializzata ad aver concepito il proprio sviluppo facendo ricorso sistematico a una politica offensiva di intelligence e di gestione delle fonti d’informazione aperte, mobilitate al servizio dell’economia. L’originalità del dispositivo si basa su tre caratteristiche: priorità data alla preservazione dell’indipendenza nazionale; economia come spazio vitale; ricerca all’estero delle conoscenze necessarie. La punta di lancia del dispositivo è stata fin dall’inizio la rete delle società di commercio, la cui azione è un modello di dinamismo poiché consiste, anzitutto, nell’anticipare la domanda del mercato mondiale. Queste società investono molto all’estero e una delle missioni che si sono date è di essere l’interfaccia tra il mercato interno giapponese e i mercati esteri per assicurare una veglia migliore sui bisogni e sui prodotti emergenti e un migliore sbocco della produzione. Un altro punto di forza della strategia giapponese è la sua politica di influenza, i cui obiettivi sono molteplici, come il trasferimento di tecnologia, l’infiltrazione delle élite locali e la difesa dell’immagine del Giappone (per esempio con il finanziamento di attività caritatevoli e di ricerca umanitaria, o la lotta contro i detrattori). Lo studio attento delle legislazioni straniere permette poi di migliorare la penetrazione dei mercati, per non parlare del vantaggio dato dal tentativo giapponese di OPA sulla scienza mondiale (tecnoglobalismo) attraverso il finanziamento di grandi programmi di ricerca, la creazione di una rete mondiale di 250 laboratori nipponici all’estero o il finanziamento di cattedre universitarie in Europa e in America. I principali insegnamenti da trarre dall’esempio giapponese riguardano anzitutto i metodi di conquista dei mercati e la costruzione di una cultura
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collettiva dell’informazione fatta di azioni offensive a lungo termine e di una ricerca tecnologica abbinata alla preoccupazione permanente di redditività in una prospettiva di potenza nazionale. Senza dubbio il Giappone affronta oggi grandi difficoltà, dovute alle conseguenze di una folle speculazione finanziaria e immobiliare occorsa fra il 1986 e il 1991, all’accumulo di crediti a rischio e alla comparsa della concorrenza cinese, ma sta preparando riforme audaci in campo fiscale, industriale e in materia di organizzazione, e soprattutto sembra pronto a rimettere in discussione la gerontocrazia che lo dirige. Sta nascendo una nuova élite in un Paese il cui vantaggio principale resta una stupefacente capacità di mobilitazione intorno agli obiettivi nazionali. Per quanto riguarda il modello tedesco, invece, l’originalità della sua modalità d’azione risiede nella definizione dello spazio vitale (lebensraum) e nell’adattamento della politica economica a questo concetto. La metodologia si basa su un’alleanza tra industria e apparato bancario, poiché la ricerca sistematica dell’informazione economica è considerata prioritaria per tutti. Inoltre, lo scontro commerciale è trattato come una guerra (si pensi alle dichiarazioni di Samuel Herzog) e la Germania costituisce così la prima economia da combattimento della mondializzazione degli scambi. I suoi principi fondamentali sono i seguenti: visione strategica ed evolutiva della potenza, applicata sul campo con un’alternanza di astuzia e brutalità secondo le necessità del momento; pratica del doppio linguaggio; considerazione dell’intelligence per posizionarsi con forza sui mercati. Ciò che i giapponesi hanno attuato trent’anni dopo e gli americani cinquant’anni più tardi era già operativo in Germania fin dagli anni ’20. Oggi una delle forze del commercio tedesco risiede nei legami e in una cooperazione naturale fra rappresentanti istituzionali e del settore privato. Altri esempi sono i circoli privati di imprenditori tedeschi, che nel 1993 hanno creato un “Comitato per la conquista dell’Asia e del Pacifico” sostenuto da tre reti importanti: camere di commercio, associazioni economiche e industriali, società di commercio specializzate sull’Asia. Nella pratica, le società di commercio sono concepite come proiezioni all’esterno dell’economia nazionale e giocano un ruolo decisivo nell’aiuto alle imprese della madrepatria che vogliono insediarsi all’estero. Bisogna inoltre insistere sul ruolo importantissimo svolto dalle banche e dalle so-
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cietà assicurative in questa economia da combattimento: fin dall’inizio del novecento il banchiere tedesco aiuta il proprio cliente a trovare dei mercati, rendendolo partecipe delle informazioni che possiede. Questi sono i principi e la pratica dell’economia da combattimento tedesca e l’esistenza di una cultura scritta su questo concetto ne favorisce l’attuazione. Tuttavia, si è assistito a una rimessa in discussione di questi principi e pratiche: con la profonda riforma fiscale messa in cantiere dal cancelliere Shröder è stata posta in essere una vera e propria riforma del capitalismo tedesco tradizionale, anche se una simile evoluzione richiederà del tempo. Gli insegnamenti che si possono trarre dal “modello tedesco” sono: un progetto collettivo capace di unire tutte le forze private e istituzionali; una cultura del segreto che permette di sigillare intenzioni, competenze e debolezze; l’anticipazione dell’evoluzione dei mercati; la costanza nel perseguimento degli obiettivi. Passando al modello americano, si può affermare che quella realizzata dalla prima potenza industriale mondiale è una dinamica di economia imperiale, contemporaneamente difensiva e offensiva, con lo sviluppo sistematico di una politica d’influenza che mira ad abituare il resto del mondo a pensare come vuole l’America. Il raggiungimento di questo strumento molto elaborato di dominazione è stato progressivo: gli anni ’80 sono stati di allerta e di reazione, con la perdita del controllo della fabbricazione dei microprocessori, il brevetto sistematico di tutti i software e la protezione delle tecnologie di difesa da parte del Pentagono, mentre gli anni ’90 sono stati di affermazione di una dottrina di sicurezza economica del tempo di pace, con la creazione del NEC e dell’NSC, il lancio del National Industrial Security Program e la creazione di una Commissione per gli investimenti esteri negli Stati Uniti. Dall’arrivo del presidente G. W. Bush all’inizio del terzo millennio, l’America repubblicana si è riconciliata con una concezione imperialista della propria potenza e gli attentati dell’11 settembre hanno fornito un pretesto preziosissimo per dare un contenuto a questa nuova politica. L’originalità della procedura americana si basa sui seguenti punti: rinnovo occulto della dottrina Monroe (fin dal 1945 gli Stati Uniti hanno voluto succedere alle potenze europee nei loro imperi coloniali); sviluppo di una strategia di conquista commerciale di ampiezza mondiale (la domi-
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nazione americana è assoluta nel tessile, nel petrolio e nell’alimentazione animale, mentre i campi degli armamenti, dell’agricoltura e dei prodotti culturali sono teatro di uno scontro senza sconti); connivenza fra autorità federali e società multinazionali (fornitura di “informazioni cruciali”, protezione giudiziaria, dottrina di sicurezza economica che protegge i gruppi esportatori); ricerca del controllo dell’informazione o information dominance; dominio tecnologico per il controllo delle reti; dominio culturale attraverso l’imposizione degli standard educativi, economici, gestionali, eccetera; dominio giuridico attraverso la deregolamentazione dei mercati e dei servizi pubblici o attraverso il controllo dei testi in vigore. Altri due esempi che mostrano bene la diversificazione dell’offensiva americana sono la dominazione dei sistemi di controllo dell’economia di mercato (le principali società di consulenza, di controllo di gestione e agenzie di rating sono quasi tutte anglosassoni) e la dominazione degli organismi internazionali, sia attraverso la potenza finanziaria, sia attraverso la presenza di rappresentanti nei posti di responsabilità di NATO, OCSE, FMI e Banca Mondiale. I forum di Davos, di Bilderberg, della Trilaterale hanno inoltre un’importanza capitale nella strategia americana di global dominance e bisogna infine citare la rete di banche centrali e la comunità bancaria internazionale che, sebbene ufficialmente indipendenti, hanno tutte lo sguardo rivolto alla Banca Federale Americana. Le lezioni da trarre dall’esperienza americana sono le seguenti: una strategia di potenza e di supremazia economica che presuppone un approccio globale delle situazioni; una politica di controllo totale, offensivo e difensivo, della società dell’informazione; un’intelligence umana efficace in campo economico perché basata su una sinergia fra settore pubblico e privato. Il grosso punto debole – secondo l’autore – è l’incapacità di una minima autolimitazione che permetterebbe di evitare reazioni di rigetto. L’abituale brutalità dei metodi impiegati per imporre al mondo il modello di vita americano e il disprezzo dei tabù sociali, religiosi e culturali locali provocano reazioni di odio che gli americani sembrano non comprendere, ma le cui conseguenze possono essere incontrollabili. Mentre tutte le potenze industriali hanno preso in considerazione la guerra economica e attuato i dispositivi e le procedure adeguati, la Francia istituzionale volta le spalle al buon senso e all’efficacia. Già nel 1992, nel
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rapporto “Intelligence economica e strategia delle imprese” si illustrava anzitutto una costatazione di carenza in materia (assenza di politica statale, disinteresse degli eletti, inutilizzo quasi totale del potenziale della francofonia, inattività dei sindacati, ecc.) e si formulavano tre proposte prioritarie: mettere l’informazione aperta, detenuta dalle amministrazioni, al servizio degli attori economici; organizzare reti d’aiuto allo sviluppo regionale, soprattutto per la formazione; creare una fondazione di imprese incaricata di promuovere l’utilizzo dell’intelligence economica, secondo la logica delle fondazioni tedesche. La ricaduta più concreta di questo lavoro fu la creazione, nel 1995, del Comitato per la Competitività e la Sicurezza Economica, presieduto dal primo ministro e composto da sette personalità incaricate di consigliarlo sulle questioni riguardanti gli scopi del comitato. Il rapporto di presentazione descriveva la problematica, chiarendo che nel nuovo contesto mondiale, l’informazione è diventata una materia prima strategica e che, rispetto alla capacità d’azione dei suoi partner principali, la Francia dovrebbe prendere coscienza di questo ruolo strategico. Jospin, però, non rinnovò il mandato di tre anni ai sette saggi, senza prevedere ai vertici dello Stato alcun organismo capace di guidare e di coordinare una strategia nazionale di guerra economica. Non c’è dunque da meravigliarci se la Francia non smette di retrocedere in campo economico. Per esempio, in termini di ricchezza nazionale per abitante, la Francia è passata dall’8° al 10° posto all’interno dell’Unione Europea. Alle cause ideologiche ben note (formazione inadeguata, tasse insensate sull’impresa, varie dittature sindacali) si aggiungono sicuramente le conseguenze di una carenza istituzionale. Anzitutto, la ricerca è male indirizzata; si soffre un ritardo nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione; in cinque anni il totale dei finanziamenti pubblici destinati alle imprese è diminuito di quasi il 40%; vi è un’importante fuga di cervelli; si nota un indebolimento del commercio estero; le imprese francesi non investono più in Francia, da cui deriva l’aumento della disoccupazione. Il male è ben noto e proviene da un sistema superato nelle strutture e nelle procedure: troppo Stato, troppi organismi, troppe leggi, troppi controlli, troppe scartoffie. Ne deriva un’economia imbalsamata, senza rapporto con le realtà del mercato.
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La situazione, però, può essere rimediata, tanto più che questo Paese dispone di vantaggi evidenti: la Francia possiede la seconda rete diplomatica al mondo; 250 milioni di persone nel mondo parlano o capiscono il francese; è ancora un Paese esportatore importante; è il terzo Paese per produzione di sapere scientifico e tecnico. In attesa di una miglior presa di coscienza delle sfide e dei vantaggi da parte del potere esecutivo, non mancano le iniziative assunte nel contesto dell’intelligence economica. L’Istituto di alti studi della difesa nazionale ha avviato, nel 1995, un percorso di formazione in intelligence economica destinato ai quadri superiori delle imprese e delle amministrazioni. Il Ministero dell’Economia, delle Finanze e dell’Industria ha poi perseguito un’azione di sviluppo dell’intelligence economica e strategica, creando un’apposita sotto-direzione. Inoltre, questo Ministero finanzia attraverso le direzioni regionali delle azioni di formazione e dei programmi coordinati dalla Direzione dell’azione regionale e delle PMI. Da parte loro, gli organismi di intelligence come la DGSE, la DST, la DRM e le Dogane hanno adattato, con fortune alterne, i propri dispositivi all’intelligence economica. Le università e le grandi scuole hanno previsto insegnamenti specifici: si contano oggi undici master di secondo livello dedicati completamente o in parte all’intelligence economica. I gruppi industriali si mettono spesso in mostra per notevoli successi internazionali: Michelin, numero uno mondiale degli pneumatici, costituisce un esempio anticipatore; Elf deve i suoi successi mondiali alla propria cultura iniziale di intelligence; negli anni novanta, Alcatel aveva sviluppato una politica di reti in Asia che si era rivelata molto produttiva. Le PMI hanno impiegato forse del tempo a entrare nella logica dell’intelligence economica, ma numerosi esempi positivi mostrano che il concetto avanza. In conclusione, vediamo da un lato un Paese ricco di quadri e mano d’opera capaci d’iniziativa, e dall’altro uno Stato occupato nel paralizzare queste forze vive. Purtroppo, si deve dunque riconoscere che il grande fallimento nazionale dell’intelligence economica francese è dovuto al fatto che lo Stato ha cercato d’imporre alle imprese la propria visione centralizzata e amministrativa della gestione dell’informazione, mentre l’insieme della società civile vive, al contrario, una relazione di tipo reticolare che supera le frontiere nazionali.
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L’intelligence economica e strategica può essere una risposta alla guerra economica e la su formulazione ufficiale in Francia è stata data dal Rapporto Martre: - l’intelligence economica è l’insieme delle azioni coordinate di ricerca, di trattamento, di diffusione e di protezione dell’informazione, aperta al 90%, cioè ottenuta legalmente, con lo scopo di ispirare e guidare la strategia degli attori economici (Stati; enti locali; imprese); - è una misura collettiva (logica di condivisione) e offensiva (logica di anticipazione); - presuppone un’organizzazione di reti, strumenti specifici e una politica di formazione all’interno, di lobby e di influenza all’esterno. Vale la pena soffermarsi sul contenuto della parola “intelligence” che, presa qui nella sua accezione anglosassone, ha un triplo significato: cercare di sapere, in vista di un’azione, che si prepara sempre per una strategia d’influenza. Quest’ultima ha a sua volta tre aspetti: quello positivo di propaganda e lobby, quello negativo della disinformazione e quello reattivo della controinformazione in caso di attacco informativo. Vediamo dunque chiaramente che questo concetto va ben al di là di quello di “veglia”. La finalità dell’intelligence economica è doppia, in funzione del livello di impiego considerato e della logica che ne deriva. Per gli Stati si tratta di preservare gli interessi mondiali di potenza, sviluppando all’esterno una politica d’influenza e all’interno una cultura d’intelligence. Vediamo quindi che oggi l’azione dello Stato in questo campo è divenuta indispensabile, contrariamente alla teoria liberale pura, ma il suo ruolo deve limitarsi alla creazione delle condizioni favorevoli. Per le imprese, invece, si tratta anzitutto di preservare la propria indipendenza, indispensabile per lo sviluppo in un mondo in crescita. L’urgenza principale è, molto spesso, quella di creare una cultura collettiva d’intelligence sensibilizzando tutti, formando qualche quadro e predisponendo le strutture adeguate, le più leggere possibili. Tutti gli attori della vita economica sono dunque coinvolti in questa politica d’intelligence. La mondializzazione degli scambi economici sottopone gli attori a una tripla contraddizione. In primis, la concorrenza dev’essere gestita come
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una fase dei rapporti con l’altro, che può seguire o accompagnare una fase di cooperazione. Il campo delle politiche di difesa offre dei buoni esempi: nel 2002 bisogna cooperare fra Stati per sradicare il terrorismo ma, allo stesso tempo, gli stessi mezzi di ricerca spiano i partner. La seconda incoerenza contrappone la modalità di sviluppo e le culture ed è lì che l’intelligence economica è preziosa, poiché prende in considerazione le realtà più impercettibili sul terreno. Per esempio, in Arabia Saudita le mogli degli inviati stranieri devono dar prova della massima discrezione nell’abbigliamento per non compromettere la missione dei loro mariti. Il paradosso legalità/illegalità costituisce il terzo fattore contraddittorio che bisogna gestire, come abbiamo visto anche precedentemente. Insomma, è più che mai una logica di rapporti di forza a reggere l’economia mondiale. Gli Stati hanno tutto l’interesse di dissimulare i dispositivi nazionali che si sforzano di aggirare, fra le altre, le esigenze dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, la supremazia degli interessi nazionali su quelli dei partner, i principi di sicurezza economica contro quelli della libera concorrenza, anche se proclamati in maniera eclatante, e la connivenza nazionale di fronte alle leggi di mercato. Questa politica invisibile è essenzialmente di competenza degli attori più potenti: Stati, blocchi economici (UE, NAFTA, Associazioni delle Nazioni del Sudest Asiatico, Mercosur), società multinazionali, insiemi regionali, ciascuno all’opera sullo scacchiere della propria categoria. Ci sono anche degli “scacchieri invisibili” che presuppongono una politica centralizzata, la quale comporta piani strategici di medio-lungo periodo, un approccio globale (politico, culturale, economico) e trasversale, il controllo di determinati fattori chiave e la divisione del terreno da parte delle società multinazionali. Attori principali dell’economia, in quanto generatrici della ricchezza, le imprese sono necessariamente i primi “soldati” della guerra economica. È utile sottolineare qui qualche aspetto spesso trascurato nella loro pratica quotidiana. La filosofia dell’intelligence economica è offensiva e anche il vocabolario ha un’importanza capitale: si preferirà la parola “ricerca” a “raccolta” o “veglia”, che hanno una connotazione passiva. Ciò potrebbe sembrare in contrasto con la questione della sicurezza dell’informazione, essenziale
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in un mondo di predatori, ma è nel comitato di direzione che si deve definire la politica di intelligence economica per preservarne il carattere offensivo e non presso gli addetti alla protezione. Vista l’essenzialità della funzione di protezione dell’impresa, bisogna considerare con realismo il nuovo ambiente in cui le minacce si diversificano. La minaccia concorrenziale è la più spettacolare, ma vi sono anche la minaccia tecnologica, risultato dell’improvvisa comparsa delle nuove tecnologie; la minaccia giuridica, derivante dall’evoluzione delle legislazioni, in particolare quella europea; la minaccia all’immagine, che consiste in attacchi informativi con l’obiettivo di distruggere l’immagine dell’impresa; e infine la minaccia ambientale, che può risultare da una politica generale sfavorevole all’impresa, da incidenti ecologici e dal rischio di terrorismo. L’intelligence economica e strategica è affare del “padrone”: senza la sua spinta e il suo appoggio sarà difficile modificarne le abitudini e l’organizzazione. Il caso celebre della London Controlling Section, messa a punto nel 1940 da Churchill per definire e pilotare la guerra dell’informazione contro Hitler e gli aspetti di guerra economica del conflitto imponendo le proprie visioni agli stati maggiori, ne è un esempio. È dunque il titolare stesso che deve imporre il cambiamento. Bisognerà poi sviluppare progressivamente un patriottismo economico tipicamente anglosassone: prima l’impresa, poi l’impresa-Paese. Solo una cultura collettiva permetterà l’attuazione di una gestione offensiva dell’informazione che ne esalti il valore strategico, adottando atteggiamenti nuovi, come il superamento della visione tradizionale ingegnere/gestionale, che non si preoccupano degli scacchieri sui quali ci si muove, però pesano sia sul prodotto sia sull’ambiente; l’integrazione di tecniche e dispositivi tecnologici (Internet, Intranet, sistema di criptaggio) per trarre maggiori benefici dall’informazione; la valorizzazione del fattore umano, non dimenticando che l’informazione è voluta, cercata, trattata, distribuita e usata da uomini attraverso delle macchine; l’organizzazione della funzione d’informazione attraverso la decompartimentazione del suo ciclo di vita. L’assoluto rispetto della legalità non esclude l’astuzia, cioè “l’arte della levatrice” che può benissimo essere insegnata e si rivela preziosa. L’intel-
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ligence economica è, prima d’ogni altra cosa, un affare di uomini e non di software. Le imprese devono dunque scegliere, formare e impiegare meglio i propri uomini e saranno informate con più certezza se aggiungeranno l’intelligenza umana alle prestazioni dei sistemi automatizzati. Infine, è bene far evolvere il dispositivo d’intelligence dell’impresa da specialisti esterni, perché è una delle risposte principali alle sfide poste dalla guerra economica. Il ruolo dello Stato nella guerra economica è triplo, cioè istituzionale, strumentale e pedagogico, oltre che di definizione del quadro giuridico nel quale si muovono gli attori. A quest’atteggiamento difensivo, la maggior parte degli Stati aggiunge una postura offensiva per aiutare le proprie imprese. Per quel che riguarda la Francia, meritano di essere osservati il quadro giuridico e gli organismi governativi che intervengono nella guerra economica. Sono quattro i testi ufficiali che costituiscono il corpo della dottrina francese in materia di guerra economica. Il primo è l’Ordinanza del 7 gennaio 1959 sull’organizzazione della Difesa, in cui si precisa che una concezione globale della difesa associa alla difesa militare una dimensione civile ed economica. Il secondo testo ufficiale è il Libro bianco sulla Difesa, del 1994, che prende atto della mondializzazione degli scambi, considera minacce nuove (come la droga e i trasferimenti di tecnologia) ma resta fondamentalmente nella logica di crisi e conflitti aperti che ispirano l’Ordinanza del 1959. Essi sono, di fatto, due testi obsoleti. Il terzo testo è molto più soddisfacente: è il decreto del 1995 con cui si crea un comitato per la competitività e la sicurezza economica (CCSE); sfortunatamente, però, questo strumento è solo consultivo. Il quarto testo è il Codice penale rivisto nel 1992 e di cui il libro 4 tratta dei “crimini e delitti contro la Nazione, lo Stato e la pace pubblica”, fra cui figurano gli atti di intelligence, di rilascio d’informazioni, di sabotaggio e di fornitura d’informazioni false, a vantaggio di un’entità straniera. I testi legislativi costituiscono l’ossatura dell’arma giuridica, che costituisce un’importante barriera non tariffaria. Un’altra barriera di questo tipo è la regolamentazione. Ma anche i brevetti sono un campo di scontro: nel marzo 1997 si sono riuniti i rappresentanti degli Stati membri della convenzione sul brevetto europeo, per adottare o rifiutare la proposta di
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“soluzione globale” formulata dall’Ufficio europeo dei brevetti, che consisteva nel ridurre al solo inglese lo status di lingua ufficiale dei brevetti europei. Se adottata, questa “soluzione globale” sarebbe stata una “sconfitta globale” per la Francia e la francofonia. Si può affermare dunque che il quadro legislativo e normativo francese ha diversi punti forti e punti deboli. Per quanto riguarda gli organismi governativi, si ricorda l’SGDN, che dipende dal primo ministro e assicura la difesa civile ed economica del Paese e la sicurezza di difesa. A questo titolo, controlla i trasferimenti di tecnologia, le esportazioni di armamenti e tratta i problemi legati alla sicurezza dei sistemi d’informazione. Il governo dispone di due organismi incaricati della protezione delle istituzioni, delle persone e dei beni: la DST (Direzione della Sorveglianza del Territorio) e la DPSD (Direzione della Protezione e della Sicurezza di Difesa), che si occupano rispettivamente di controspionaggio interno e della lotta contro il terrorismo, della protezione del segreto e del patrimonio scientifico e tecnologico. Il governo dispone infine di un servizio offensivo, la DGSE (Direzione Generale della Sicurezza Esterna). Bisogna anche menzionare le Dogane, che dipendono dal Ministero delle Finanze e hanno messo in piedi una vera e propria rete di intelligence rappresentata in molte ambasciate, e Tracfin, organismo operativo specializzato nella caccia al denaro illecito. Un esempio mirabile in quest’ambito disciplinare è quello svedese. Piccolo Paese di nove milioni d’abitanti, la Svezia svolge un ruolo economico ben più importante di quanto si possa credere, nonostante una geografia sfavorevole e l’assenza di ricchezze naturali. La spiegazione principale è fornita dal suo ambiente politico ostile: vicina alla Germania e alla Russia, ha appreso presto a diffidare di questi potenti vicini e ha integrato l’intelligence nel cuore del proprio sistema politico ed economico. Sicuramente, la piccola dimensione della Svezia permette di riunire rapidamente una comunità in cui ognuno conosce l’altro, perché tutti sono usciti dalle stesse università. Tuttavia, rappresenta un modello di mobilitazione operativa poiché riesce a mettere in simbiosi i mestieri e le generazioni al servizio dell’economia del Paese. L’esempio svedese dovrebbe ispirare nella ricerca di un modello di sicurezza economica. La parola “sicurezza” tende oggi a sostituire la parola “difesa”: è sen-
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z’altro più ricca nella misura in cui comporta aspetti offensivi e permanenti, esige anticipazione, è continua e dinamica; mentre l’atteggiamento difensivo consiste nell’attendere l’iniziativa dell’altro. Di conseguenza, un dispositivo di sicurezza economica sarà tutto tranne passivo. Quello americano, infatti, riflette questa concezione e i risultati ottenuti nell’esportazione ne confermano la validità. Lo Stato vi ha un ruolo di pilota e di motore, ricorrendo ai propri mezzi governativi e facendo convergere gli sforzi delle reti private, pur mantenendo un ruolo orientativo e non operativo. Da parte francese, il dispositivo nazionale di competitività e di sicurezza economica si ispira all’esempio americano, ma con notevoli differenze, poiché il Ministero delle Finanze vi occupa un posto preponderante a discapito dei Ministeri degli Esteri, della Difesa e del Commercio, i servizi di intelligence non sono esplicitamente menzionati e si tratta di orientamenti e non di obiettivi definiti dal governo. Gli esempi britannico, tedesco, giapponese, svedese e americano dimostrano quanto siano stati fruttuosi gli apporti della difesa all’intelligence economica, che si tratti di metodologia, del trasferimento di competenze umane, di reti d’intercettazione elettronica, sono il know-how e i mezzi militari ad aver permesso lo sviluppo rapido della funzione intelligence al servizio dell’economia. Ci sono almeno tre aspetti di quest’eredità interessanti per l’impresa. I trasferimenti di metodologia, fra cui il vocabolario militare, hanno ormai impregnato il management: si parla di strategia, di stato maggiore, di manovre, di attacco e difesa… vocabolario bellico che mostra bene come un approccio “operativo” ai problemi sia divenuto normale. I trasferimenti di competenze e di know-how avvengono tramite la cooperazione delle direzioni di personale militare e d’impresa. In un momento in cui le carriere militari sono spesso più corte rispetto al passato, le direzioni del personale militare devono aiutare i militari a riconvertirsi, mentre quelle del personale d’impresa possono beneficiare di personale formato e di qualità. Ci sono dei saperi che la difesa potrebbe addirittura mettere a disposizione delle imprese; del resto già il Concorde fu costruito grazie a una partecipazione massiccia della difesa in fondi e competenze. Infine, ogni volta che i mezzi d’intelligence captano un’informazione utile alle imprese, pos-
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siamo considerare che partecipano al loro fianco nella guerra economica. Dunque alla “difesa economica” prevista nell’ordinanza del 1959 deve succedere un concetto nuovo di “sicurezza economica”, il quale non può essere che offensivo, poiché l’anticipazione è divenuta la condizione indispensabile dell’efficacia. Dobbiamo anche ricordarci del passato: Luigi XV costituì il secret du roi (un gabinetto segreto), mentre Napoleone creò la Società d’incoraggiamento per l’industria nazionale, destinata a osservare le scoperte e l’organizzazione economica delle potenze rivali. Bisogna anche individuare le leve della sicurezza economica del tempo di pace, che risultano da due linee di forza: la connivenza interna, il cui principio più importante è di rimanere uniti contro il concorrente estero; l’influenza esterna, derivata dalla definizione di priorità strategiche conosciute dai principali attori, ma accuratamente dissimulate ai terzi. I principi che reggono queste azioni comuni sono l’unità d’azione, la fusione delle competenze civili e militari (particolarmente netta nella comunità dell’intelligence) e, infine, l’abbinamento dell’intelligence aperta e segreta in tutti i centri di fusione e di trattamento dell’informazione. L’informazione aperta viene così arricchita, producendo un beneficio per tutti gli attori pubblici e privati. Questi ottimi principi non sono abbastanza praticati in Francia, mentre un esempio notevole di sinergia pubblico-privato è dato, ancora una volta, dagli Stati Uniti dove si sa far tesoro della creatività del settore privato. Sono i think tank o “serbatoi di pensiero” che, dopo aver trionfato sull’URSS, oggi riorganizzano il mondo proponendo soluzioni a tutti i problemi: pensioni, mondializzazione, lotta contro il crimine organizzato, guerra in Iraq, guerra in Afghanistan, effetto serra, ecc. La Casa Bianca, il Congresso, il Senato, l’esercito, le amministrazioni e i media sono loro clienti. Senza pretesa di esaustività, in Francia una serie di misure per adattare le strutture e creare gli strumenti necessari all’attuazione di una politica di sicurezza economica realmente operativa potrebbe essere la seguente: la creazione di un consiglio nazionale di sicurezza con una branca economica particolare; la riattivazione del CCSE; ogni ministero dovrebbe essere arricchito di una direzione della guerra economica; le amministrazioni dovrebbero creare dei collegamenti per lo scambio d’informazioni con gli
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attori sul campo; il Ministero delle Finanza dovrebbe disporre di un fondo d’intervento per aiutare le imprese; il contenuto dei corsi di economia dovrebbe essere sottoposto a un’epurazione delle menzogne marxiste; lo sviluppo interno della Francia dovrebbe infine essere ripensato tenendo conto dei fattori della comparsa dell’Europa, che esige una ridefinizione delle regioni, e dello sviluppo delle nuove tecnologie, che permette oggi una redistribuzione del lavoro su tutta la superficie del Paese. Insomma, per garantire la sicurezza economica del Paese ci vuole uno Stato lucido nei suoi obiettivi, ben organizzato nelle sue strutture, non egemonico nei suoi interventi e riconciliato con gli imprenditori creatori di ricchezza. Bisogna anche che il governo sia risoluto nel condurre una politica di potenza. Dunque della guerra economica mondiale non si può che constatare la realtà, mentre le lobby parigine di funzionari e di professori cripto-marxisti rigettano l’idea di nazioni unite in un’Europa autonoma. L’urgenza per la Francia è dunque nella riforma dello Stato, della politica bancaria e dei programmi di insegnamento, perché a dei consumatori rousseauiani e assistiti succedano degli imprenditori il cui orizzonte sarà planetario. Per quanto attiene invece alla comparsa della guerra dell’informazione, si può precisare che, proprio come la guerra economica, essa per certi aspetti è vecchia quanto il mondo e se ne trovano tracce fin dai racconti biblici. L’elemento nuovo di questa pratica antica è la massa prodigiosa di informazioni create, la velocità della loro circolazione grazie alle reti moderne come Internet e la capacità crescente di trattamento che gli attuali computer conferiscono. È dunque cambiata la scala tecnica, così come quella dell’ampiezza del terreno, dal momento che questi diversi parametri interagiscono a livello planetario. Se ammettiamo, con Toffler, che l’informazione è divenuta la materia prima dell’attività umana e che il suo possesso esclusivo o in anteprima è oggi la fonte principale del potere e della ricchezza, constatiamo che si tratta davvero di una guerra mondiale permanente e senza esclusione di colpi quella che si dichiarano gli attori politici ed economici, pubblici e privati, per assicurarsene il controllo. Prima di definire il concetto di guerra dell’informazione, è utile considerare che dato, informazione e informazione a scopi d’intelligence sono
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tre stati dello stesso processo informativo, secondo la concatenazione: dato à informazione à comunicazione. Il dato è legato allo stato di “essere” e la sua caratteristica principale è di esistere per se stesso, mentre il senso gli viene attribuito nel corso di un processo di elaborazione. L’informazione è legata allo stato di “sapere” e può essere grezza e neutra, oppure elaborata progressivamente a vantaggio di un committente per cui assume un valore economico crescente. L’informazione a scopi d’intelligence è legata all’“azione”; è anzitutto un elemento di decisione, riveste un carattere confidenziale e appartiene a un processo d’azione poiché ne è la causa. L’azione generata dalla decisione modifica quindi i fatti che richiedono un nuovo sapere per prendere nuove decisioni: questo è il ciclo dell’intelligence, concetto derivato dalla difesa e utilizzabile da tutti gli attori pubblici e privati. Il ciclo dell’intelligence è lo schema di principio che regge il funzionamento di tutti i servizi d’intelligence e si svolge secondo quattro fasi : l’orientamento generale viene espresso in base alle necessità d’informazione che determinano le linee di ricerca; lo sfruttamento consiste nel trattamento, nell’analisi e nella sintesi dei prodotti della ricerca; la diffusione permette di dare a ognuno ciò che gli spetta in applicazione del “bisogno di sapere”. La chiusura del ciclo consiste infine nel comparare le necessità di informazione con le risposte apportate. Non è sempre agevole classificare l’informazione, in particolare da un’angolatura di confidenzialità si parla di informazione aperta o “bianca”, pubblica; di informazione sensibile o “grigia”, che risulta dal grado di confidenzialità dei metodi di appropriazione; di informazione chiusa o “nera”, cioè segreta. Il volume d’informazione maggiore è pubblico, dunque di accesso legale. L’accesso all’informazione segreta è invece lecito, a condizione di esserne autorizzati. Il suo volume è scarso ma di grande valore, perché spesso richiede grossi mezzi per elaborarla. La si considera segreta perché riguarda il dominio strategico ed è in genere all’origine delle decisioni. L’informazione sensibile riguarda invece le persone e la vita dell’impresa o dell’amministrazione ed è difficile da proteggere. Per quanto riguarda la formulazione del concetto di guerra dell’informazione, con la guerra del Golfo è comparsa una linea di frattura tra quella americana e quella francese. Per l’esercito americano l’infowar è data dalle
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azioni al servizio della strategia militare nazionale, che mirano a raggiungere la superiorità nel campo dell’informazione agendo sull’intelligence e sul sistema d’informazione dell’avversario, moltiplicando e proteggendo allo stesso tempo i propri effettivi. Si nota qui la persistenza a confinare il concetto nel campo militare, mentre per i francesi la guerra dell’informazione riguarda tutti gli aspetti politici, economici, culturali e militari della nuova civiltà dell’informazione. Wim Schwartau si è spinto oltre definendo tre classi di guerra dell’informazione: infowar privata, limitata alla protezione dei sistemi elettronici individuali; infowar dell’impresa; infowar globale, che riguarda la sicurezza nazionale. Le diverse azioni condotte in questo quadro obbediscono a tre imperativi: sapere prima dell’altro; impedire all’altro di sapere; inquinare le informazioni dell’altro. Si condurranno dunque tre tipi di battaglia: la battaglia per l’informazione, che ha sempre obbedito a una logica di predazione; la battaglia contro l’informazione, secondo una logica d’interdizione; la battaglia attraverso l’informazione secondo una logica di manipolazione. La battaglia per l’informazione è anzitutto la fase classica di appropriazione dell’informazione, cui si dedicano tutti i servizi d’intelligence statali e privati. Ne sono un esempio gli Stati che dispiegano i loro sistemi di ascolto per captare di continuo i segnali elettronici portatori d’informazioni pubbliche e private; ma anche le imprese sono a volte inclini a spiare i propri concorrenti. Inoltre, nella fase attuale di globalizzazione dell’informazione, il controllo di quest’ultima può divenire anche un potente strumento di influenza, come nel caso di Microsoft, che tenta di eliminare tutta la concorrenza per conservare l’esclusività del mercato dei software. La prima finalità della battaglia contro l’informazione è di garantire la sicurezza stessa dell’informazione amica attraverso una politica di protezione fisica (locali, persone, controlli di accesso), tecnica (barriere informatiche e procedure quotidiane) e giuridica (adattamento di leggi e regolamenti). È possibile anche sabotare l’informazione avversaria, sia attraverso aggressioni fisiche, come il furto di computer o dischi fissi, sia per via informatica con la cancellazione delle memorie o l’iniezione di virus, worm e altri agenti negativi. La battaglia attraverso l’informazione è il terreno più frequentato e gli
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esempi di manipolazione dell’informazione nei campi più vari abbondano. Può esserci la menzogna pura e semplice, come nel caso della perdita da parte della Francia di un Mirage 2000 durante la guerra in Bosnia, la cui causa fu manipolata dallo stato maggiore della NATO; può esserci anche l’uso di un’informazione parziale che evidenzi i difetti piuttosto che le qualità. L’informazione può essere usata come esca, come nel caso della morte del generale Dudayev, ucciso dall’esercito russo all’inizio della prima guerra cecena. Si possono anche manipolare le immagini cinematografiche o televisive con l’impiego di tecniche subliminali per influenzare l’opinione pubblica, come nel caso della trasmissione dell’immagine del presidente Mitterrand per 2.949 volte da parte del canale Antenne 2 durante la campagna elettorale del 1988. Bisognerebbe, infine, citare l’arma della diceria, di origine sconosciuta, incontrollabile e addirittura ricorrente. Molto spesso è il prodotto di un’azione malevola destinata a indebolire un avversario; quando raggiunge una determinata ampiezza, la stampa ne prende il posto. Quanto alla disinformazione in sé, è al tempo stesso una manovra menzognera e il suo risultato consiste nel far pervenire un’informazione destinata a modificare la percezione delle cose e ad agire sulle decisioni, le opinioni o i comportamenti. Infine, la controinformazione consiste nel fornire argomenti per mettere in dubbio la veridicità di un’informazione precedente ed è normalmente emessa per ristabilire la verità. Per quanto riguarda i problemi e i conflitti nella società dell’informazione, si può partire dall’analisi dei problemi tecnici. Una delle caratteristiche della società dell’informazione risiede nell’obbligo in cui il decisore si trova a gestire le contraddizioni permanenti nate dalle nuove logiche o tecniche e che implica una necessaria gestione dei contrari. È nel dominio della tecnica che troviamo il numero maggiore di esempi di contraddizioni. In materia di classificazione, i campi “aperto” e “chiuso” pongono chiaramente un problema. L’informazione aperta è immediatamente disponibile e la sua abbondanza e il suo rinnovamento permanente ne esigono l’utilizzo immediato, pena la loro scadenza. Al contrario l’informazione chiusa è molto più rara e il suo valore presunto è grande; tuttavia, le procedure di sicurezza necessarie ne aumenteranno considerevolmente il tempo di utilizzo. In periodo di crisi bisognerà gestire il paradosso sicu-
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rezza/lentezza o velocità/indiscrezione: non potendo sacrificare la sicurezza, il decisore deve sempre essere arbitro di due esigenze contrarie. Sul paradosso velocità di diffusione/serietà dell’analisi, i professionisti dell’intelligence e della stampa si trovano spesso in concorrenza. Nella logica delle guerre dell’informazione che vige attualmente, la necessità di proteggere l’informazione durante il suo trasferimento da un mittente a un destinatario s’impone in molti casi. Grazie anche alla rivoluzione apportata dai computer, è tecnicamente possibile rendere ermetiche ai non iniziati le informazioni trasmesse a un corrispondente. Il problema posto oggi dalla crittologia deriva da questa possibilità, per esempio nel caso degli Stati la cui sovranità territoriale tradizionale è danneggiata dalla facoltà che ormai hanno gli individui di scambiare tra di loro informazioni non controllabili. In Francia esistono due sistemi cifrati autorizzati, uno a chiave “simmetrica”, l’altro a chiave “asimmetrica”. In entrambi i casi, un “terzo di fiducia” situato fra il mittente e il destinatario centralizza un certo numero di codici, che permettono alle sole autorità approvate di venire a conoscenza del contenuto dei messaggi scambiati. È pur vero che in materia di protezione la Francia si è lasciata distanziare nei campi dell’elettronica e dell’informatica: mentre gli Stati Uniti hanno investito quasi tre miliardi di dollari in tre anni a favore della sicurezza dei sistemi d’informazione, mentre la Francia vi devolve appena l’1% di questa somma. A livello dell’Unione Europea, la situazione è molto complessa poiché i Paesi rimangono protezionisti in materia di crittologia. Di fronte alla necessità di lottare contro le piaghe internazionali (terrorismo, droga, mafie varie), l’Unione Europea è posta davanti a un dilemma: o rifiutare le proposte degli Stati Uniti sulle modalità tecniche delle intercettazioni, o accettarle a rischio di veder consolidare il predominio americano sull’insieme delle reti. D’altro canto, i rischi informatici costituiscono uno dei problemi importanti che si pongono alla società dell’informazione in via di informatizzazione generale. Fra i mezzi per garantire la sicurezza dei sistemi d’informazione, l’anti-compromissione elettromagnetica mira a impedire l’intercettazione delle radiazioni degli schermi e dei conduttori. La sicurezza informatica cerca, invece, di premunire qualunque sistema
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informatico contro le aggressioni tecniche, le cui principali sono worm o programmi parassiti che si spostano nel sistema; virus che innescano l’autoriproduzione di una data sequenza e possono disattivare determinate funzioni dei software; “bombe logiche” che si auto-attivano in una data prefissata e distruggono i dati-bersaglio; i “cavalli di Troia” che, presentandosi come funzioni standard, possono esportare dati immagazzinati sul disco fisso; spyware che spiano gli internauti, annotano i siti visitati e raccolgono le parole chiave digitate sui motori di ricerca. Quest’arsenale distruttivo è attivato dai pirati informatici le cui azioni sono punite a norma di legge; le loro motivazioni vanno dalla sfida intellettuale (decifrazione del codice di sicurezza del software Navigator di Netscape) ai reati comuni (decodificazione di numeri di carte di credito a scopo di furto), all’azione a favore di servizi stranieri (intrusioni massicce e ripetute nei computer della Scuola Politecnica, provenienti da Israele). Bisogna ricordare che molto spesso sono delle indiscrezioni o delle negligenze a permettere ai pirati di entrare nei sistemi informatici: password rivelate a terzi (70% dei casi), documenti lasciati in giro, chiacchiere, computer lasciati accesi e connessi a Internet durante la pausa pranzo, eccetera. Di qui l’importanza delle operazioni di sensibilizzazione collettiva e di formazione individuale. Infine, bisogna sottolineare l’estrema fragilità di una società dell’informazione dipendente da reti informatiche alla fin fine molto vulnerabili. In un momento di terrorismo mondializzato, bisogna considerare che i rischi informatici sono reali e che degli attacchi sofisticati possono avere conseguenze collettive drammatiche. Oltre ai problemi tecnici, si presentano anche i problemi di organizzazione. Riferendoci alle tre età della società umana definite da A. Toffler, vi è anzitutto la società agraria, caratterizzata da gerarchie verticali tradizionali e in cui la comunicazione è discendente, poiché la verità è divina. La società industriale genera l’urbanizzazione e la vocazione alla dissoluzione di qualunque gerarchia in favore di una collettività ugualitaria; in questo sistema l’informazione non può essere che di massa, cioè apparentemente omogenea e orizzontale. La società emergente, quella dell’informazione, dovrà inventare un nuovo modello fondato su una molteplicità
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di reti e caratterizzato da celerità, reattività e sicurezza, secondo la filosofia incarnata da Internet. Questi nuovi dati obbligano a ripensare l’esercizio dell’autorità in un senso più collegiale, poiché ogni rete possiede un’identità propria che può condurla a proporre la propria soluzione o a contestare le decisioni. Tutte queste tendenze dovranno essere confermate con lo sviluppo di questo terzo tipo di società. La filosofia della rete è la diversità, il mutuo arricchimento attraverso l’informazione, la condivisione, la velocità ma anche la gestione della complessità. Possiamo dunque affermare senza rischio di sbagliarci, che il modello asiatico (le cui radici affondano nel taoismo e nel confucianesimo) è particolarmente adatto alle esigenze della società reticolare, mentre il modello “cartesiano”, che è stato la nostra forza per tre secoli, è divenuto obsoleto. Eredi di Aristotele e di Cartesio, noi siamo infatti predisposti a separare ed escludere, a ridurre per semplificare, a esercitare un pensiero sequenziale, a privilegiare il breve termine e a scegliere un’organizzazione verticale, mentre i discepoli del taoismo preferiscono una logica unificatrice, un arricchimento mutuo, un pensiero globalizzante, la priorità a lungo temine e un modello di organizzazione trasversale. Esistono poi i problemi etici. È necessaria una definizione della parola etica: una dottrina che definisce le regole delle nostre azioni, cioè dei nostri doveri. Si parla sempre più di etica dal momento che crescono gli scandali in numero, in natura e a livello gerarchico. Nel nostro caso, il dibattito riguarda tre aspetti: i limiti posti dall’etica all’efficacia per i privati; lo status dei media nella società dell’informazione; la frontiera fra responsabilità statale e rispetto delle regole della democrazia. La guerra economica mondializzata spinge gli attori individuali o d’impresa a privilegiare i risultati, anche a discapito del rispetto di principi, regolamenti e leggi. Nel caso di un’impresa, è auspicabile e prudente redigere un “codice etico” di cui sarà a conoscenza qualunque dipendente; questo documento può per esempio prevedere il divieto di screditare la propria impresa, di eseguire falsi colloqui a scopo di assunzione, di usare metodi illegali, eccetera. Resta pur vero che l’ignoranza non è ammissibile: affinché la legge o i contratti non possano coprire pratiche inopportune, bisogna esserne perfettamente al corrente per tutelarsi. Infatti, in caso di conflitto fra etica e legge, quest’ultima avrà l’ultima parola.
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La mondializzazione dei mercati genera tipologie originali di conflitti fra attori economici. Se ne possono illustrare tre diversi che oppongono: 1) la società civile a un’istituzione internazionale (OCSE); 2) un sindacato professionale, l’UIT (Unione delle Industrie Tessili), a un’altra istituzione internazionale (la Commissione europea); 3) due gruppi industriali di dimensione internazionale nel contesto di un mercato nazionale. Il primo caso è la disputa dell’AMI. L’accordo multilaterale sugli investimenti fu discusso per più di tre anni all’interno dell’OCSE e mirava a proteggere meglio le società che investivano all’estero, impedendo agli Stati di trattarle meno bene che gli investitori nazionali. Sembrava rispondere a una necessità ma, curiosamente, fu tenuto segreto fino al giorno in cui il movimento Public Citizen di Ralph Nader lo rivelò su Internet. L’accordo s’inscriveva, infatti, nella strategia di esportazione americana: la potenza finanziaria degli investitori di questo Paese permetteva loro di eliminare qualunque offerta concorrente. Questa disputa è un caso di scuola le cui tappe furono le seguenti: fuga di un documento confidenziale su Internet; inizio di un dibattito fra internauti sul contenuto dell’AMI; eco attraverso i media sui temi dell’eccezione culturale, dell’arroganza delle multinazionali, sulla sovranità dei popoli, ecc.; manifestazione simbolica davanti alla sede dell’OCSE a Parigi; il governo francese richiede l’abbandono del progetto. Insomma, l’affaire AMI mostra bene una delle nuove forme di scontro suscitate dalla mondializzazione: l’irruzione della società civile nel campo delle organizzazioni internazionali. Il secondo caso è quello dell’Unione delle Industrie Tessili contro l’Unione europea. Il 3 maggio 1993 l’UIT scatenò un’operazione mediatica senza precedenti nello scenario europeo. Un gran numero di quotidiani rappresentanti gli otto Paesi membri dell’UIT riprodussero a pagina intera un testo offensivo che attaccava di petto Bruxelles per il suo atteggiamento giudicato favorevole agli accordi del GATT sull’industria tessile. Questo testo fu seguito da altri sette che si succedettero a un giorno di distanza, ognuno su un tema preciso ma tutti chiusi dal leitmotiv della disoccupazione. Gli otto temi erano i seguenti: Bruxelles presenta il conto al settore tessile come già aveva fatto con l’agricoltura; richiesta di rinegoziazione degli accordi del GATT; nel settore tessile Bruxelles lascia l’Europa senza
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difesa né controlli né sanzioni; apertura del mercato europeo ma permanente chiusura degli altri mercati nel mondo; sfruttamento del lavoro minorile al di fuori dell’Europa; la contraffazione come furto di competenze, di marchio e di impieghi; solo Bruxelles (ed evidentemente l’Inghilterra) è favorevole all’accordo del GATT, mentre i singoli Paesi europei sono contrari; anche l’agricoltura e le altre industrie richiedono la rinegoziazione degli accordi del GATT. Questo vero e proprio bombardamento mediatico provocò uno shock presso i funzionari della CEE, messi pubblicamente di fronte alle proprie responsabilità. In ogni caso, gli accordi del GATT furono rinegoziati e furono ottenute migliori protezioni giuridiche in materia di apertura dei mercati, di contraffazione, di lavoro minorile e riguardo agli altri temi sollevati. Proprio l’impatto mediatico osservato è il motivo d’interesse di questo esempio: un sindacato privato costrinse un’istituzione internazionale ad ascoltarlo e a seguirlo. Il terzo caso è dato dal conflitto all’estero fra due imprese private su un mercato nazionale. Nell’esempio dato, l’arma principale sarà la manipolazione dell’informazione supportata da aggressioni fisiche ai negoziatori francesi. Il caso risale alla primavera del 1990 e coinvolge due grandi imprese d’informatica (una francese e una straniera) su un contratto per l’informatizzazione della rete di agenzie fiscali di un Paese dell’Europa centrale. La manipolazione delle informazioni vi svolge un ruolo preponderante e si registrano, infatti, operazioni bianche (pubblicazione di una serie di articoli da parte di ex funzionari del Ministero delle Finanze locale che denunciano l’aggiudicazione del contratto a prezzi esorbitanti da parte francese, presentandolo come un cattivo affare), operazioni grigie (fallita la prima operazione, si tratta di impedire la conclusione del contratto denunciando “l’incompetenza” della società francese) e operazioni nere (danneggiamento delle auto dei dirigenti francesi, intimidazioni e pestaggi). Queste manovre d’intimidazione provocarono però un effetto contrario, poiché la società francese conservò il contratto, soprattutto grazie all’intervento dell’ambasciata francese presso il Primo ministro locale, indignato da questi procedimenti illegali e immorali. Considerando gli Stati e la guerra dell’informazione, si osserva che secondo le rispettive culture e tradizioni militari, gli Stati adottano approcci
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differenziati. Si possono considerare anzitutto la campagna condotta da Churchill per ingannare Hitler sul luogo dello sbarco in Normandia, vera e propria nascita della guerra dell’informazione moderna, e poi le attuali scuole russa e americana e il caso francese. Il successo decisivo dello sbarco del giugno 1944 è in gran parte dovuto allo stesso Winston Churchill, il quale concepì di persona il cosiddetto piano JAEL: consisteva in una lunga serie di piani secondari (ve ne furono almeno diciannove) riguardanti azioni clandestine destinate a persuadere Hitler che lo sbarco avrebbe avuto luogo nel Passo di Calais, e non in Normandia. A questo scopo aveva costituito la London Controlling Section, organismo molto ristretto (una decina di persone tutte esercitanti alte funzioni commerciali, finanziarie o intellettuali) situato in locali sotterranei sotto Westminster e dotato di un arsenale di mezzi speciali, fra cui l’intercettazione dei messaggi radio segreti dei tedeschi, informatori come il gruppo Schwarze Kapelle e la SO, sezione americana delle operazioni speciali dell’OSS, antenata della CIA. L’obiettivo generale era di condurre il nemico a commettere errori strategici nei confronti delle operazioni alleate precedenti il giorno X dello sbarco. I campi coinvolti dall’azione della LCS erano multipli: gestione delle fonti segrete, controspionaggio e sicurezza, operazioni speciali (sabotaggi e azioni violente), guerra politica e intossicazione. Quest’ultima era l’aspetto più importante e consisteva nel fornire al nemico frammenti d’informazioni, che l’avrebbero condotto a cattive decisioni, e che potevano anche comportare “sacrifici strategici”. È così che la guerra fu vinta e la parte che Churchill assunse nella vittoria resta di prima importanza: lasciò dietro di sé l’esempio stesso di quel che la guerra dell’informazione moderna poteva essere. A lui spetta l’ultima parola, pronunciata davanti a Stalin nel 1943, alla conferenza di Teheran, per cui in tempo di guerra, la verità è così preziosa che dovrebbe sempre essere preservata da un baluardo di menzogne. In Russia sono i servizi d’intelligence e di sicurezza dello Stato a essere incaricati della conduzione generale della guerra dell’informazione; in caso di conflitto, la guerra elettronica militare costituisce lo strumento essenziale. L’approccio russo è caratterizzato dai seguenti punti: è necessario sviluppare una teoria scientifica di questa forma di guerra prima di definirne l’organizzazione; grande importanza del fattore psicologico e mo-
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rale; guerra sia a livello geostrategico che tattico; grande importanza attribuita a ricerca e sviluppo. Insomma, l’approccio russo al problema sembra ben più globale e meno ipocrita di quello americano, in ogni caso più vicino a quello che pare essere in gestazione in Francia. C’è poi la dottrina americana dell’information dominance: si tratta di giungere al controllo totale dell’informazione in tutti i campi (civile, militare, tecnico, umano, mediatico e culturale). Naturalmente, il discorso ufficiale continuerà a fingere che solo l’ambito della difesa sia coinvolto dalla guerra dell’informazione. Con la nuova economia fondata sul sapere, nasce un nuovo paradigma: la guerra della conoscenza. Se l’avversario ha assimilato le tecnologie dell’era dell’informazione, bisognerà distruggerne i sistemi d’informazione e di comando; inoltre, una parte importante dei combattimenti si svolgeranno sul campo di battaglia dei media. Appare così un concetto nuovo: la Strategic Information Warfare, concetto globale che ricopre allo stesso tempo la Conventional Warfare, la Command and Control Warfare e l’Information Warfare con le relative caratteristiche. L’obiettivo strategico di controllo totale dell’informazione sul campo di battaglia è stato in gran parte raggiunto con la guerra in Afghanistan. I diversi sistemi di sorveglianza e di attacco hanno comunicato in tempo quasi reale, giacché ormai non passano più di venti minuti fra la scoperta e il colpo, tempo che dovrà essere ridotto quasi a zero in un futuro prossimo. Le conseguenze di queste conquiste sono di capitale importanza, soprattutto sul piano politico e strategico: in questo modo, infatti, l’America deterrà prossimamente il monopolio della gestione delle crisi. Gli Stati Uniti avevano voluto e proclamato la propria superiorità nella guerra dell’informazione; ora che hanno magistralmente raggiunto questo successo è difficile pensare che potranno fermarsi qui. L’affaire PROMIS (acronimo di Prosecutor’s Management and Information System) è un esempio di quanto appena affermato e della pratica americana. È la storia di un conflitto fra gli interessi strategici dello Stato americano e quelli commerciali della società Inslaw Inc., sfociato nell’azione di pirateria ai danni di un prodotto commerciale di quest’ultima, che fu modificato e distribuito a 80 servizi d’intelligence, fra cui quelli di alcuni Paesi dell’Est, a qualche banca e a buona parte dell’amministrazione
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federale da parte del Ministero della Giustizia. A oggi il ricorso di Inslaw non ha avuto alcun risultato concreto a causa della ragion di Stato. Un altro esempio è la rete Echelon, l’espressione stessa della potenza americana e della volontà di attuare il concetto di information dominance. Si tratta di una rete di telecomunicazioni planetaria basata su 120 satelliti, 52 basi d’ascolto in più di 20 Paesi e parecchie decine di super-computer CRAY, capaci di intercettare più di tre milioni di comunicazioni telefoniche, via fax o Internet, al minuto. Storicamente fu messa a punto, a partire dal 1947, fra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna; in seguito, la si estese al Canada, all’Australia e alla Nuova Zelanda. Dopo la scomparsa dell’URSS, Echelon fu riorientata verso le ricerche di informazioni economiche e politiche a tutto campo, quindi anche contro gli stessi alleati della NATO. Si trattava dunque di un’azione a dir poco disonesta, in particolare da parte dei britannici. La potenza di Echelon è senza uguali, in particolare da quando il numero degli internauti è esploso. Inoltre, la NSA che la controlla è un organismo molto potente, che disponeva già nel 2001 di agenti e bilancio superiori a quelli di CIA e FBI messe insieme. Un aspetto importante è costituito poi dalle strategie d’influenza. La mondializzazione degli scambi ha creato un’interazione costante fra politica ed economia: le risposte apportate alla guerra economica dagli Stati e dai gruppi industriali lo dimostrano abbondantemente nel campo delle strategie di “intelligence”. All’origine del concetto moderno di reti mondiali d’influenza politica discreta ci sono i britannici, attraverso la formazione a lunghissimo termine di élite internazionali cooptate grazie all’appoggio dell’alta finanza. L’uomo che enunciò il concetto e dispiegò le prime maglie della rete è Cecil Rhodes, che fece sue le convinzioni di John Ruskinil, il quale pensava che degli uomini superiori dovessero creare una società partendo dalla quale avrebbero esercitato un controllo quasi assoluto lle nazioni. Per quel che riguarda i soli Stati Uniti, possiamo citare il Council on Foreign Relations, la conferenza Bilderberg, la Trilaterale e il Forum di Davos. Il CFR fu creato nel 1921 su iniziativa del colonnello E. Mandell House; la sua azione serve un mondialismo che, attraverso una rivoluzione silenziosa al posto della rivoluzione per strada, realizzerà la grande sintesi fra capitalismo e socialismo. Quest’azione si esercita secondo quattro prin-
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cipi: commercio e aiuto ai Paesi meno sviluppati; assunzione dei grandi problemi internazionali (energia, materie prime, commercio) da parte di istituzioni sovranazionali; il nemico non è il comunismo, ma lo sono i suoi eccessi; le sovranità nazionali devono sparire a poco a poco in grandi raggruppamenti economici e geopolitici. La conferenza Bilderberg, creata nel 1954, è una conferenza elitaria permanente di circa duecento membri. Alla fine della seconda guerra mondiale, gli individui di mentalità internazionale che controllavano tanto l’economia quanto l’esecutivo statunitense miravano a instaurare un Nuovo Ordine Mondiale a direzione americana e coperto dagli slogan dell’ONU, con una politica a due facce: da un lato, un aiuto economico massiccio all’Europa, dall’altro, una potente macchina militare. Nonostante la retorica umanitaria, la prima non cercava altro che di garantire i mercati del commercio americano e fare in modo che, nei successivi vent’anni, tutte le istituzioni economiche europee passassero sotto controllo americano. La Trilaterale, creata nel 1973 da S. Brzezinski, D. Rockefeller e D. Owen, è basata sui tre poli economico-industriali di America, Europa occidentale e Giappone e si organizzerebbe in modo da armonizzare i loro rapporti come entità economiche. L’intento è quello di sviluppare l’interdipendenza fra Est e Ovest e contemporaneamente affrontare con l’Est i problemi del Sud del mondo. Il gioco sporco è consistito, soprattutto negli anni ’70, nel lottare da una parte contro gli eccessi sovietici e, dall’altra, nell’apportare un sostegno economico grazie alle maggiori imprese della Trilaterale (gruppi Otto von Amerongen, Schlumberger e Agnelli) lasciando che l’URSS distruggesse i governi che disturbavano la propria azione mondialista. Insomma, sembra chiaro che il gioco trilateralista è fabiano, adattato al nostro tempo: i suoi membri sono globalmente favorevoli al socialismo e alla visione di un mondo organizzato o riorganizzato secondo criteri puramente economici, opposti ai concetti di patriottismo e di Stato-nazione. Il Forum di Davos fu creato nel 1971 per, ufficialmente, familiarizzare dirigenti d’azienda e banchieri europei con i metodi di gestione americani. Entro il 2000 sarebbero dovute essere al massimo 200-300 multinazionali a controllare sul pianeta tutto ciò che è ricerca, sfruttamento, produzione,
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spartizione delle materie prime, che sono l’elemento chiave della nostra epoca. Oggi, circa trent’anni dopo la sua nascita, questo forum è divenuto il club dove si ritrovano ogni anno i principali attori dell’economia globalizzata, un buon numero di uomini politici (capi di Stato e di governo) e, più recentemente, anche sindacalisti. Insomma, di fronte alla scelta di questi temi d’interesse planetario trattati dal club dei grandi decisori mondiali – di cui molti appartengono anche alla conferenza Bilderberg, alla Trilaterale, al CFR – si può validamente considerare il forum di Davos come una delle maglie della rete d’influenza mondialista dove si tenta di elaborare e di mettere in pratica un pensiero unico. Della rete mondialista di dominio americano dovrebbero essere descritti anche altri nodi: l’Irex, l’Istituto Atlantico, la Pilgrim’s Society, il club Aspen, eccetera. Per completare questa descrizione della tela mondialista sotto influenza americana bisogna poi parlare di B’nai B’rith, organizzazione in gran parte segreta riservata agli ebrei, la cui testa si trova negli Stati Uniti e le cui ramificazioni ricoprono l’insediamento planetario della diaspora. Si tratta della più antica, vasta e senza dubbio influente organizzazione ebraica internazionale, fondata a New York, vicino a Wall Street, nel 1843 e composta da diverse centinaia di migliaia di membri. Numerosi dirigenti di quest’organizzazione occupano ruoli importanti nell’amministrazione americana, in particolare nelle squadre presidenziali. La sua immagine è necessariamente vaga, poiché le informazioni a riguardo sono rare: non si trova nulla né presso la Biblioteca del Congresso a Washington né presso la British Library di Londra. Il potere d’influenza di B’nai B’rith appare dunque considerevole; sembra tuttavia difficile, per quanto profondo è il suo insediamento in America, distinguere la sua influenza da quella degli Stati Uniti stessi. In ogni caso, è naturale immaginare che una leva di simile potenza sia usata da questo Paese che ne ospita la frazione più notevole. Infine l’AIPAC, rete che i giornalisti americani chiamano “lobby proIsraele”, è il più recente degli influenti gruppi di pressione negli Stati Uniti e nel mondo. Iniziata la penetrazione delle leve di comando del governo americano sotto il presidente Reagan, il gruppo fu protetto da Clinton e ha raggiunto oggi la sua massima potenza con 37 eletti alla Camera dei rappresentanti, 10 al Senato e 2 al Consiglio di Sicurezza. Le pressioni
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che esercita sono sentite oggi come intollerabili e anche l’ONU si è piegata alle richieste di questa lobby annullando una missione d’inchiesta sui massacri perpetrati a Jenin, in Palestina, da parte dell’esercito israeliano. D’altra parte, l’Europa è divenuta più recentemente uno degli obiettivi politico-economici principali degli Stati Uniti. Si tratta di controllare direttamente o indirettamente le istituzioni europee e gli Stati stessi, favorendo perciò l’allargamento dell’Unione per diminuirne la coesione. Così l’Europa non sembra essere nient’altro che il terreno del gioco di strategia americano, sotto gli occhi dei nostri uomini politici il cui silenzio assordante rivela l’accecamento o la complicità tacita con l’ideologia mondialista dominante che sottende la politica estera degli Stati Uniti. La caratteristica di una strategia planetaria è di dipendere da un arsenale diversificato di mezzi. Alle grandi reti d’influenza descritte sopra bisogna aggiungere quella delle società industriali e commerciali ben conosciute, delle banche, ma anche degli studi di consulenza che penetrano le nostre imprese durante i loro interventi e ne scoprono tutti gli ingranaggi. Senza dubbio sono stabilite clausole di confidenzialità, ma bisogna sapere che questi studi sono essi stessi consigliati dalla rispettiva centrale, esterna alla Francia. In guerra economica, la conquista di segmenti di mercato all’estero non si fa solo grazie all’offerta di prodotti, ma anche attraverso l’approccio indiretto della domanda. Quest’ultima potrà essere orientata nel senso voluto con una politica di influenza che si eserciterà prioritariamente in direzione dei responsabili locali. Per fornire solo un esempio recente, si può citare la politica americana di accerchiamento dei mercati attraverso una combinazione sottile di azioni pubbliche e private. In Bosnia, sono state dispiegate parecchie centinaia di ufficiali civili per scoprire i bisogni di ricostruzione; allo stesso tempo il personale delle ONG accampava un’immagine positiva dell’America. Si può anche citare l’azione di lobbying impiegata a Bruxelles dall’azienda produttrice di sigarette Marlboro, che vi mantiene una squadra di più di venti agenti per influenzare in senso favorevole le decisioni relative all’industria del tabacco. Le ONG deviate si presentano, di fatto, come nuovi strumenti di conquista dei mercati emergenti. Gli anni ’90 hanno visto fiorire nuove strategie di intelligence economica sistematicamente indirette, che mirano ad
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assumere il controllo di nuovi mercati. Gli Stati Uniti o i gruppi finanziari e industriali che li guidano si nascondono spesso dietro organizzazioni non governative (ONG), che selezionano astutamente progetti a forte legittimità politica internazionale: sviluppo, educazione, sanità, diritti umani. Così potranno essere investiti i centri di decisione, gli standard giuridici, tecnici e culturali dei Paesi bersaglio. Recenti interventi nell’ambito dell’ONU sono stati i teatri della Cambogia, di Haiti e della Bosnia. Altri processi d’influenza indiretta, a vantaggio dell’economia attraverso la raccolta di informazioni sul campo, consistono nella strumentalizzazione degli organismi internazionali di aiuto allo sviluppo, come la Banca Mondiale o la Commissione Europea. Le operazioni di assunzione del controllo delle economie emergenti sono condotte il più delle volte da ONG, che dispongono di fondi molto consistenti. Questi organismi, in particolare le ONG giapponesi e americane, sono in realtà strutture parastatali, vere e proprie teste di ponte di operazioni commerciali offensive all’estero attraverso il loro insediamento “culturale”. A tale proposito Pichot-Duclos fa riferimento al volume Mémoires de septvies, scritto da J. F. Deniau, nel quale l’autore illustra brevemente i punti spiegatigli da un ministro americano durante i negoziati del GATT del 1979: esisterebbero tre campi in cui non ci sarà pace, ma solo armistizi, cioè l’agricoltura, l’aereonautica e la cultura. Quest’ultima è, in effetti, il vettore che precede o accompagna i prodotti commerciali che aprono la strada all’influenza politica. Con le nuove tecnologie, le possibilità d’influenza culturale non sono mai state così grandi come oggi, insieme al rischio di monopolio di qualche attore (privato o pubblico) sulla fabbricazione di un immaginario uniforme e di modi standardizzati d’essere, di comportarsi e di pensare. In questa prospettiva, la disputa dell’“eccezione culturale” riveste un carattere strategico. Nel 1993, la Francia e l’Europa hanno ottenuto che gli Stati che lo desiderassero potessero fare eccezione all’obbligo contenuto nel trattato del GATT, di liberalizzare i loro servizi in materia di cultura e di audiovisivi. Ne va, in effetti, della salvaguardia delle identità culturali nazionali, dal momento che non si capisce cosa il mondo guadagnerebbe dalla loro dissoluzione in un magma “monoculturale”: la ragion d’essere di quest’ultimo non è altro che di preparare la via ai prodotti e allo stile di vita e di pensiero americani.
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In conclusione, bisogna sottolineare che la guerra dell’informazione è diventata l’anticamera della “guerra cognitiva”, o lotta per il controllo della conoscenza, tutta svolta sulla base di informazioni dettagliate, e di cui è la sintesi. Questo controllo permette all’iniziato di andare a vedere “dall’altra parte dello specchio” e di comprendere le molle che spingono le decisioni e le azioni dei responsabili ufficiali o occulti. Bibliografia Jean Pichot-Duclos, Les guerres secrètes de la mondialisation – Guerre économique, guerre de l’information, guerre terroriste, Lavauzelle, 2002.
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