#16
16.0. #dolore Come sta andando il tuo match contro la Crisi? Durante i primi round, ogni cosa ti si cuce addosso e non la perdi più. Ma può sempre bussare il dolore, come è successo a me a Cirauqui. E il match prende la piega sbagliata. Il dolore toglie slancio e tinge della sua tinta ogni nuova esperienza. Ma il viandante che soffre sa che anche da quel dolore deve saper ricavare qualcosa, in termini di significato. Altrimenti non arriverà alla fine. Negli stop forzati, scribacchio una canzone. Oggi, però, dovrò sospendere il lavoro creativo e collegarmi con l’Italia, per una nuova intervista.
16.1. #messaggi (Lisa, Santo Domingo de la Calzada) La mattina, presto, ho ricevuto una telefonata. Sul display un nome familiare... e una vaga apprensione si è trasformata in elettricità. José “Paul Gaugin” Manuel si trovava davanti al primo cartello della regione di Castilla y León, dove qualcuno ha lasciato un biglietto con un messaggio per me. «Per me...?» Capita di esserne testimoni, a saper osservare certe cose: messaggi nella bottiglia, canti nella conchiglia, disegni nella grotta. Tutti dettagli per essere insieme ancora, nella distanza.
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Fermo a una piazzola sulla statale poco oltre Santo Domingo, rivedo la ragazza del parco in avvicinamento. La cosa giusta al momento sbagliato: sto filmandomi col cellulare, come un capitano mentecatto che redige per sé un diario di bordo. Immancabilmente, sto raccontando la leggenda dei galli della Calzada. Mentre la dea incede, valuto se far finta di parlare con gli uccelli, come san Francesco, ma poi ci ripenso. Finirei nella mimesis, facendo il verso dell’upupa e cose del genere. No, le dirò semplicemente che sto raccontando per il pubblico – patetico! – la leggenda dei galletti della Calzada. «La conoscevi quella storia dei polli? Non pensi che sia un modo per spiegare quel che succede qui? Piccoli miracoli di crisi e rinascita, storie di santi che si intrecciano con quelle dei pellegrini, polli che giubilano, fontane di vino, fiori pelosi...» «Sì... è bello se la vivi così» replica lei, senza entusiasmo. Ecco, lo sapevo. Adesso la conversazione crollerà vertiginosamente, come l’altra sera. «Perché... tu come la vivi...?» «Così» conferma. «È già il secondo anno che vengo qui. Ho lasciato gli Studi Sociali con l’idea di venire a lavorare sulla strada. Può insegnarti molto di più il Cammino di tutta quella roba! E tu che cosa fai qui?» «Ah, io... sono qui a sconfiggere la Crisi Globale. Con le canzoni...» Resta in silenzio per quel po’ d’istanti che basta a fare un’eternità. «Ah... interessante...» Lungo la striscia di terra battuta che costeggia la statale, parliamo di un’infinità di cose. Provo a raccontarle del big bang di questi giorni, alle prese con la trappola che mi sono costruito da solo: intensificare l’esperienza per farne arte. «Sai, ogni giorno mi dico che non posso lasciare nulla d’intentato. Ma è così difficile...» «Perché difficile? Che cosa vorresti fare adesso?»
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«Adesso...?» «Sì, adesso!» «Fammi pensare...» e l’unica cosa che mi si agita in mente è che questa giornata non deve finire mai. Almeno finché sono con questa ragazza incantevole. «Vorrei andare per quei campi oltre la statale e correre in mezzo ai papaveri.» «E che ci vuole?!»
16.2. #messaggi2 Ha le ginocchia sbucciate. E io il tendine che fa scintille. Sono i nostri souvenir dai grandi laghi di papaveri. Nelle mani, una provvista di bulbi secchi che usiamo come maracas. Riprendiamo la rotta, scintillanti. Con quelle gambe da ragazzina e l’apparecchio ai denti, snocciola tutto un sapere sul Tempo secondo i Maya – un tempo che non è una linea e nemmeno un cerchio ma una spirale – ed è come ascoltare un’anziana che abita in un’adolescente. E poi parliamo del Tempo secondo Bergson: una durata instabile che contiene in sé passato, presente e futuro, un flusso in cui corriamo tremanti avanti e indietro come gocce di mercurio. E poi parliamo di Into the Wild di Sean Penn, e di quanto siamo stati male entrambi dopo averlo visto. Io c’ho messo tre giorni per riprendermi! Sono perfino sicuro che non sia un capolavoro, ma certe volte è più importante quello che vuoi dire di come lo dici. E, dopo tutto, quel ragazzo è ciò che siamo stati almeno un paio di secondi della nostra vita (guardai quel film corpo a corpo sul futon dell’incrociatore sentimentale Fulgida Stella, e lei emise la sua condanna... e una parte di me le dava ragione, ma proprio non ce la feci a condannare Supertramp). E poi parliamo di voragini. Quelle voragini affettive che si concedono agli animali, alle bestie – alla fine, più profonde di quelle che abbiamo concesso a tanti di quegli esseri umani!
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E poi parliamo dei nostri animali, che non abbiamo esitato a lasciare soli. E poi parliamo in codice parole segrete, parole che credevamo di non poter condividere. Quando le chiedo quanti anni abbia mi risponde serena: «Diciannove». «No, non posso crederci! E sei qui da sola?» «Ora sì. Ma ho iniziato coi miei e con mio fratello. Poi la mamma e il suo uomo sono tornati a casa e sono rimasta con Thomas. Ma ora è più indietro.» «E non hai paura?» «D’incontrare gente come te?» Un sorriso di nuovo le schiude le labbra su denti e protesi brillanti. «È più grande di te?» «No, diciassette.» «E non sei preoccupata?» «Un po’... ma se la caverà.» «E come mai non siete assieme? Avete scazzato?» «No, il fatto è che... è troppo legato a me, e odia tutti quanti. Perché crede di non essere amato dal mondo. Deve solo imparare a non buttare addosso al prossimo la sua paura. Dunque, abbiamo pensato che sia meglio così: separati. Ognuno per la sua strada. Ma insieme.» «...» «A lui piace un sacco fermarsi a guardare tutte le fontane, cercare i muschi, mettere i piedi a mollo. Qualche giorno fa ho visto una fontana bellissima e gli ho lasciato un messaggio. Una cosa per lui. Sono sicura che si fermerà.» Sotto i tetti di Grañón facciamo un bagno d’ombra, lungo la strada stretta in cui si snoda il pueblo semi abbandonato. Penso al messaggio che mi aspetta da qualche parte lungo la strada, azzardo ipotesi passando in rassegna i volti di Jeanne, di Laura, di Peter, di Barbara, di José Antonio, ma vorrei che fosse scritto da questa ragazzina al mio fianco.
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«Be’, io mi fermo qui. Per registrare qualcosa. È tempo di un’altra canzone. Ma tranquilla, puoi restare se vuoi...» «Oh, no. Io sono lentissima. È meglio che vada.» «Sì, certo...» «Senti, grazie di tutto. Per una volta non ho dovuto conversare di stronzate come vesciche, male ai piedi, il caldo, gli albergues. Com’è che ti chiami?» «Orlando.» «Dimmi anche il cognome, così ti cerco su Facebook...» «Manfredi.» «È un bel nome?» «Non lo so. È un po’ raro. A me piace. E tu com’è che ti chiami?» «Lisa...» Poi pronuncia un cognome piuttosto olandese. «E a te piace?» «Lisa mi piace. Ma il mio cognome fa troppo olandese!» «Be’, allora smettila di essere così olandese e abbracciami.»
16.3. #messaggi3 C’è una piccola collina ai piedi di Grañón. Sulla cima oltre la salita, un cartello territoriale della Castilla y León. Dev’essere lì il messaggio che sto cercando! Guardo alla sinistra del cartello, come da istruzioni, ma il biglietto non si vede. Avrò sbagliato segnale? Guardo a destra, in alto, in basso. Dov’è che mi ha detto José Manuel? Cerco negli angoli, nelle rientranze, nei coni d’ombra di tutti i cazzo di cartelli di Castilla ma nulla. Forse i messaggi sono a scadenza? Dopo un po’ scompaiono. O forse quello per me è stato spostato più avanti, chilometri e chilometri, dove i giorni distilleranno nuovi significati. Ma sì, è bello anche così: sapere che qualcuno, in un angolo di mondo, ti ha lasciato un messaggio che rimane sconfinatamente inaccessibile, nello spazio dell’immaginazione.
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16.4. #fantasma Troverò un posto tranquillo dove fermarmi, mi siederò all’ombra, aprirò la mente e chiamerò a raccolta sedici giorni stupefacenti, aspettando lo squillo del telefono. Viloria de Rioja è un altro di quei villaggi fantasma, spopolati e deserti. E avendo dato i natali a santo Domingo – fantasma per eccellenza del Cammino – l’impressione è ancora più vivida. Tutto “parla” di santo Domingo. Ma lui non c’è. E così anche il paese di Viloria: ha fatto nascere Domingo ma il paese non c’è. Nessuno in giro, tutto chiuso. Nessuna casa animata da attività o rumori. Dove finisce e sfocia la calle principale, perfino il bar sulla piazza arroventata ha le serrande abbassate. Mancano venti minuti all’ora stabilita. Ho bisogno di un tempo tecnico per recuperare la SIM italiana e sostituirla a quella spagnola. Un cartello di legno a bordo strada segnala un Refugio Acacio e Orietta. Davanti alla facciata, accanto l’uscio, vedo la targa di Acacio – non di acacia – e Orietta, ma il rifugio non c’è. Chiuso. M’infilo sotto il gazebo dell’albergue. Ho tutto quello che mi occorre. Mancano dieci minuti alla chiamata.
16.5. #radiocamino2 Lo stomaco manda segnali di protesta e il cervello è in pappa. Devo attaccare le provviste prima della telefonata. Divoro velocemente un bocadillo da Grande Depressione, recupero la scheda italiana ma non trovo la graffetta che serve ad aprire quell’ordigno snobistico chiamato iPhone. Frugo nello zaino e nella trousse in cerca di una minuteria qualsiasi per fare scattare l’infame, quasi invisibile cassettino. Ci provo con aghi, forcine, forbicine e ogni più piccola propaggine del coltello multiuso, ma niente. Intanto, tavolo e raggio d’azione intorno al gazebo sono diventati un ammasso ontico tra lo spogliatoio e la discarica. Mancano pochissimi minuti. Mi
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getto sul mio bagaglio, in un duello disperato: «Dove cazzo è finita la chiavetta dell’iPhone, eh?!». Lo zaino del Topper inerme, in un silenzio gandhiano. Mancano due minuti. «Ti prego, ti prego, ti prego!...». Al suolo il brillio di una spilla da balia, cui piombo sopra come un falco. Prendo il cellulare, infilo nel pertugio ampio come un culo di un moscerino la spilla e finalmente il cassettino scatta! Cambia la maledetta SIM, richiudi il cassettino – manca un minuto, forse meno, dai! – e in quell’istante fatale l’apparecchio sguscia dalle mani come le saponette piccole degli hotel a due stelle e si schianta, perfettamente orizzontale, con lo schermo al suolo. Voglio morire. «E buon giorno, chiedo scusa: sono Riccardo Caccioni della radio. Parlo con Orlando Manfredi?» «Pronti! Eccomi, eccomi...» «La posso disturbare? Tutto bene?» «Benissimo...!» «Allora passo la chiamata alla regia e rientriamo in onda.» Ancora sul ciglio dell’inferno e con lo zigomo appoggiato al display in frantumi ma il telefono miracolosamente funzionante, congedo il mio intervistatore. «Per ora so soltanto di essere nudo, davanti al rischio. Il resto si vedrà. Buen camino a lei e a tutti in ascolto.» Brividi di freddo lungo la schiena. Bene, posso collassare, svenire, ridere o piangere per un secolo intero.
16.6. #vesciche Neanche il tempo di soppesare il silenzio di una tregua, che si presenta in controluce un viandante con passo trascinato. Non saluta ma fissa l’uscio sprangato. E mi crolla accanto, sedendo all’ombra del gazebo.
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«How possible... how possible?!» mormora a mezza voce. Domando se c’è qualcosa che possa fare ma lui non molla: «How possible...?!» e si richiude in un silenzio ostile. Qui bisogna prenderla alla larga: un po’ d’acqua? Cioccolato? Il giovane ringrazia e si presenta come Benjamin. Poi però ritorna al mutismo, alternando how possible a momenti d’incazzatura sottotraccia. Passo agli argomenti cuscinetto come il caldo, il tempo, il male ai muscoli, le infiammazioni. Il bisbetico inizia ad aprirsi e quando il discorso cade sulle ampollas – le vesciche – s’illumina d’immenso. Sostiene di conoscere un metodo infallibile per scamparle e di averlo imparato da un vecchio guru. «Do you wanna know it?» Se lo voglio sapere? Certo che lo voglio sapere. Anche se ’sta cosa del guru già mi spaventa di brutto. «Don’t ever change your socks!» Mai cambiarsi le calze?! «No, I can’t believe it...» E adesso mi ci metto io: «How possible... how possible?!». «Believe me. It smells a bit but it works!» Ma è geniale! Sì, certo, puzzerà un po’ ma insomma. Poi comunque la notte ti sfili le scarpe e: «Could you tell me please... how long have you keeping the same socks?». Quanto le avrà tenute queste calze ai piedi? «Don’t ask me.» «Ah.» E a questo punto ho la certezza di trovarmi di fronte a lui: il marrano dai piedi fetidi! Il nemico del povero José Manuel. Il pericolo pubblico numero uno. L’unico uomo in grado di sconvolgere il sonno dei pellegrini. How terrible!
16.7. #coelho «How possibile!» riattacca il marrano. Si lamenta di aver fatto centinaia di chilometri per arrivare qui e adesso il rifugio è chiuso.
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«How possibile!» E daje. Non si dà pace. Ci provo a dirgli che sulla strada bisogna cambiare programmi, che nulla andrà come sì è pianificato, ma peggioro solo le cose. «Do you know who the owner of this place is?» domanda stizzito. E che ne so di chi è questo posto: «Acacio e Orietta...?». «No, they only work here but don’t own it. Paulo Coelho is the owner.» Probabilmente sono dentro alla messinscena di una nemesi geniale, una vendetta del new age contro di me: trovarsi stravaccato sotto il gazebo di Paulo Coelho, senza saperlo, e con il telefono frantumato. E, all’improvviso, comprendo che c’è un nesso chiarissimo tra l’ennesimo guru cazzone, il marrano dai piedi fetidi e Paulo Coelho. Ma certo! Ed è in virtù di questo nesso ineffabile che ora so perché odierò sempre i libri di Paulo Coelho. Dice che rimane ancora un po’ qui, il marrano. Un giorno o due, dovessero mai arrivare Acacio, Orietta o addirittura il Maestro. E a ’sto punto, per me, è proprio il caso di andare. Non vedo l’ora di telefonare a José Manuel e raccontargli tutto.
From Sa nto Domingo de la Calza da to B elora do Km: 24.6 – Steps: 58790 Playwish: Wander ing Spir it, Mick Ja gger
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