Il corpo vissuto Psicopatologia e clinica
Primo Lorenzi
SEID
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Afrodite Lely, British Museum (Londra).
Impaginazione: gabrielecrobeddu.com Stampa: Free Books s.r.l. - Città di Castello (Pg) Prima edizione digitale 2013 Isbn 9788889473368
INDICE
pag.
1
1. Corpo ed esperienza somatica: il corpo vissuto
”
11
2. Riconoscere e riconoscersi: cambiamenti e corpo vissuto
”
17
3. Il corpo vissuto fra malattia e guarigione
”
35
4. L’esperienza somatica in rapporto ad alcuni momenti del ciclo vitale umano
”
43
5. Corpo e cultura. Stili somatici di esistenza e possibili evoluzioni cliniche
”
69
1. Le patologie del corpo vissuto
”
95
2. Il corpo come teatro: le manifestazioni “somatiche” dell’Isteria
” 105
3. Il corpo del malato psicosomatico
” 117
4. Il male nel corpo: l’esperienza ipocondriaca
” 125
Introduzione PRIMA PARTE PSICOPATOLOGIA
SECONDA PARTE CLINICA
V
IL CORPO VISSUTO
5. Il corpo trasformato: dall’esperienza dismorfofobica ai deliri di metamorfosi
” 143
6. Le esperienze di metamorfosi: espressioni cliniche
” 151
7.
” 171
L’esperienza somatica nell’anoressia
8. Il rapporto medico-paziente nelle patologie del vissuto corporeo
” 181
9. Conclusioni riassuntive
” 191
Bibliografia
” 194
VI
INTRODUZIONE
Il titolo di questo lavoro vuole volutamente alludere all’opera di E. Minkowsky sul “tempo vissuto” (Minkowsky E., 1933). L’allusione sottende un modo di impostare la ricerca volta ad una visitazione di un ampio settore della patologia psichiatrica a partire da un esperienza soggettiva, che nel nostro caso è dato dal vissuto corporeo. La sofferenza umana e tutte quelle condizioni che i medici si preoccupano di curare non si verificano “nel” corpo, come subliminarmente si suggerisce nel pensiero medico classico, ma nella vita. Spesso, ma non sempre, il corpo, inteso nella sua accezione biologica, fornisce la testimonianza più concreta di questa sofferenza. Del resto questa considerazione vale per molti altri aspetti della nostra esistenza, a prescindere da quelle condizioni che l’immaginario collettivo prima, e i medici poi, hanno etichettato come “malattie”. Bisogna pertanto avere la consapevolezza epistemologica che non sempre la radice della sofferenza sta lì, “nel corpo”, anche quando il corpo, oltre che fornirci una concretizzazione di questa, si presta a divenire il punto di attacco, più facile e “accessibile”, alla sofferenza stessa. Quando cioè si presta a divenire la porta di accesso, pragmaticamente più agevole, per inserirci in quella catena di causalità che, lasciata al suo sviluppo naturale, porta in una direzione a noi non gradita e che consideriamo patologica. Così una patologia come quella ansiosa, non si può leggere come un esclusivo problema somatico, anche quando cerchiamo di attenuarla (o anche risolverla!) con interventi prevalentemente 1
IL CORPO VISSUTO
somatici come quelli farmacologici. Anche quando assumiamo un vertice interpretativo neurofisiopatologico, il fenomeno “ansia” non si può comprendere (e nemmeno essere rappresentato) se non all’interno di una relazione o di un contesto esistenziale. Né va dimenticato che un intervento sul corpo come quello farmacologico ha (e nell’ansia in modo particolarmente evidente!) un significato ed una valenza di tipo relazionale. Pensiamo a quanto infatti c’è di terapeutico, anche solo nell’atto del prescrivere, con possibilità di variazioni a seconda del contesto, del modo e naturalmente di chi prescrive una stessa cosa, magari anche senza nessuna valenza farmaco – biologica: l’uso del placebo e i suoi effetti ne sono la testimonianza concreta (Schneiders P.B., 1972). Se vogliamo essere precisi dunque dobbiamo asserire che, quei costrutti mentali che vengono indicati come malattie, non vanno pensati come qualcosa che avviene solo dentro il corpo, bensì come dei costrutti mentali che cercano di rappresentare la risonanza soggettiva di un qualcosa che avviene in primo luogo nella vita. Questa consapevolezza epistemologica non dovrebbe essere mai abbandonata. Nemmeno quando assumiamo il vertice più medico. In verità questa centralità del corpo nella comprensione, definizione e cura delle malattie, è un punto di vista che la medicina ha storicamente assunto nella sua rifondazione moderna, circa quattro secoli fa. Ne è stata conseguenza, non di poco conto, un atteggiamento profondamente riduzionista nella comprensione della sofferenza umana. Allo stesso tempo è stata la premessa culturale dell’immenso progresso delle capacità interventive e curative della medicina moderna (Le Goff J. et al., 1985). Il passaggio è stato così cruciale e carico di conseguenze che vale la pena spenderci alcune parole. Circa all’inizio del ’600 è avvenuta nel mondo medico una rivoluzione culturale drammatica, di cui i promotori stessi sembrano non avere avuto la piena consapevolezza. Volendo schematizzate avvenne che, quasi in contemporanea ed in diverse aree dell’Europa, si affermò il c.d. “paradigma anatomoclinico”. Un modo di mettere in rapporto la evidenza clinica con le evidenze date dallo studio e dall’indagine del cadavere. Il paradigma anatomo-clinico cambierà il modo di pensare la malattia, la sofferenza ed in ultimo anche la stessa identità medica (Grmek M.D., 1983). Va tenuto presente come, agli inizi del ’600, la medicina fosse tutt’altro che ai primi passi. Senza contare l’importante contributo degli antichi, i medici medioevali prima e della prima modernità poi, avevano sviluppato una semeiotica finissima, capace di descrivere fino nei più minuti aspetti i cambiamenti del malato, quali appaiono dai segni del corpo e dall’atteggiamento della persona, dal suo comportamento e dai suoi vissuti. In quel tempo si era già dato un vero e proprio trionfo della scienza dei segni: la semeiotica clini2
Introduzione
ca. Si erano individuati i sintomi clinici (coglibili al letto del malato), delle malattie più importanti e anche di quelle minori. A fronte di questo grande sviluppo della osservazione clinica difettavano però le capacità interventive. Perché queste siano possibili (ora come allora) è infatti necessario individuare una catena di causalità, individuarne i percorsi che portano alla patologia (una fisiopatologia cioè) e infine cercare di inserirsi in questi percorsi (patologici) per indirizzarli, con interventi specificamente mirati, così da ricondurli o su una via fisiologica o almeno in una direzione più accettabile. Di questi interventi, ma anche della definizione della via fisiologica e della patologia, il medico si è sempre proposto come l’interprete. Rivelando la sua ascendenza religiosa proprio nella ricerca di una via di salvezza che passi attraverso una lettura diversa (e implicitamente superiore!) della realtà. Capacità che viene assunta con studi e esperienze cui è stato dato (in passato in maniera esplicita, attualmente in modo più criptico) un valore iniziatico. In realtà anche allora (parliamo sempre della situazione della medicina all’inizio del ’600), si era cercata una correlazione fra la evidenza clinica e un sistema di riferimento fatto da realtà “altre” pensate come “precedenti” (e, in qualche modo, causanti) la evidenza clinica. Con l’idea che durante questo percorso, potenzialmente ricostruibile, si potesse trovare la causa della patologia, e comunque un anello causale in cui potersi inserire per fermare, o indirizzare in altro modo, il “processo“ morboso. In altre parole, l’assunto di base era (come è anche ora) che fra la patologia (coglibile dal medico nella sua evidenza semeiologico clinica) e le sue cause remote ci debba essere un tempo e uno spazio popolato di passaggi su cui, grazie alla conoscenza e alla tecnica, si può cercare di intervenire. La correlazione più antica (e in quei tempi ancora in grande auge!) era di tipo clinico- spirituale. Secondo questo paradigma la malattia, con le sue evidenze semeiologiche, sarebbe scaturita da una rottura del rapporto dell’uomo con il dio o comunque dall’intervento di forze con cui la persona malata sarebbe venuta malamente in contatto. I riferimenti abbondano. Vale la pena di ricordare la vicenda biblica di Saul che, persa la benevolenza del Signore, si ammalerà e arriverà a perdere il regno e la vita. Ovvero quella di Nabucodonosor che, responsabile della distruzione del tempio di Salomone e della cattività babilonese, viene colpito dalla vendetta del signore di Israele e si trasforma in una bestia. Forse qui (nel libro di Daniele della Bibbia) il primo caso “psichiatrico” della letteratura occidentale (Nardoni G., 1959). E si tratta di un caso di metamorfosi licantropica. E poi ci sono le piaghe di Giobbe o ancora (cambiando orizzonte culturale) la ferita di Filottete o la morte di Eracle. Il paradigma clinico spirituale ha il suo riferimento nei meccanismi di pensiero dell’uomo comune che tendono ad ascrivere a cattive influenze (dal malocchio alla maledizione…) la comparsa della malattia. Il medico (ma 3
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anche lo sciamano, lo stregone, il sacerdote, l’esorcista …) hanno il compito di inserirsi nelle catene di causalità che legano l’evento morboso con la sua sorgente spirituale, per ripristinare lo “status quo ante” o estirpare il male come nell’esorcismo. I medici però si erano già allora allontanati da questa lettura dell’evento morboso. Senza escluderne la possibilità si dedicavano alla ricerca secondo altre correlazioni. Una era molto semplice: troppo semplice! Al punto che era lasciata a tecnici senza aurea sacerdotale: gli aggiustaossa, i maniscalchi, i cerusici… Se c’era un osso rotto questi intervenivano tecnicamente per ripristinarlo, una ferita per richiuderla, un ascesso per fare uscire il pus. Era una correlazione troppo semplice, ma decisamente somato centrata. I medici veri (i c.d. “medici filosofi“), con marcate aspirazioni sapienziali, si dedicavano a correlazioni più complesse per intervenite sul fenomeno morboso. Andava sempre per la maggiore la teoria ippocratica degli umori per cui i fenomeni della malattia (la clinica) sarebbero stati la conseguenza di uno squilibrio umorale. Ad essa praticamente tutti i grandi medici dell’antichità e del medioevo si erano in qualche modo rifatti (Grmek M.D., 1983). C’era poi la correlazione clinico astrologica. Un costrutto esplicativo referenziale molto articolato, ricco di aspetti esoterici e sapienziali, che cercava di far derivare i fenomeni clinici da condizioni astrologiche. Ad esempio un dato evento morboso veniva letto, in un’ottica rigorosamente causalistica, come causato da una particolare congiunzione astrale che interveniva sul particolare assetto astrologico di quella persona, determinato dalla condizione degli astri al momento della sua nascita. In qualche modo riproponendo uno schema epistemologicamente non tanto dissimile da quello adottato dalla medicina moderna quando legge i fenomeni morbosi come conseguenza di un incontro fra cause attuali e fragilità pregresse come nella c.d. “teoria della vulnerabilità” così come attualmente elaborata per la spiegazione di alcuni fenomeni morbosi (Zubin J., 1986). Nel parametro di riferimento clinico - astrologico venivano ipotizzate misure atte a prevenire e/o attenuare certe influenze astrali negative. Vale la pena di ricordare quello che avvenne sul letto di morte di Lorenzo il Magnifico che moriva giovane per, probabilmente, una nefrolitiasi gottosa. In seguito a complesse considerazioni di tipo essenzialmente esoterico astrologico, i medici accorsi al suo capezzale fecero applicare sul corpo di Lorenzo un impiastro fatto con un trito di perle e lapislazzuli che avrebbero avuto il potere di attenuare una influenza astrale negativa. Fra questi medici c’era Marsilio Ficino, per il tempo, l’autorità in campo medico in una città come Firenze che all’epoca non era certo periferia del mondo. Il movimento spirituale, culturale, scientifico, sapienziale dei Rosa Croce era agli inizi del ’600 quello in cui si incarnava quanto di più sofisticato il pensiero medico avesse fino a quel momento prodotto (Le Goff J. et al., 1985). 4
Introduzione
È in questo contesto, e con questi antecedenti, che si afferma il paradigma anatomo clinico ad opera essenzialmente di Morgagni e Vesalio in Italia, di Laennec in Francia, di Harvey in Inghilterra. I fondatori della nuova medicina vivono in realtà diverse, ma hanno a comune una intuizione: rapportare i dati della clinica, già raccolti da tutta la tradizione medievale, con le evidenze risultanti dalla dissezione anatomica del cadavere. Per fare un esempio, grazie all’applicazione di questo paradigma (o schema interpretativo referenziale) si notò che il cadavere di pazienti affetti da itterizia, rivelava grossolane alterazioni anatomiche del fegato (cirrosi). Mettendo insieme i due dati si arrivò alla conclusione, all’epoca decisamente rivoluzionaria, che l’itterizia potesse essere considerata una malattia del fegato e non la conseguenza di una cattiva influenza astrale o di un malocchio o della perdita della grazia divina. Un cambiamento dello schema con cui si guarda la realtà apre la strada a nuove “evidenze”, ed immediatamente mette da parte le vecchie. Spesso senza neanche procedere ad una puntuale confutazione. Il paradigma anatomo-clinico si affermò come lo schema operativo referenziale trainante, se non esclusivo, di tutta la nuova medicina che da allora si
Rembrandt van Rijn, Lezione di anatomia.
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IL CORPO VISSUTO
è andata progressivamente costruendo. In verità non senza pesanti resistenze sia da parte del mondo laico, che all’interno dello stesso mondo medico (Kronenfeld J.J. et al 1982; Murray R.H. et al., 1992). L’idea di corpo che questo atteggiamento ha veicolato ha finito per essere sempre più avvicinabile a quella di un corpo - cadavere e non ad un corpo che potremmo definire “vissuto”. Qui possiamo individuare una delle molle del successo, ma anche un limite di questo nuovo corso della medicina, perché il corpo del malato, che ha finito per prendere campo nella mente del medico, è stato sempre meno un corpo vero, vissuto, e sempre di più un’astrazione tratta da dati empirici colti nell’osservazione del cadavere. Così l’affermarsi di un tale paradigma ha aumentato le capacità interventive riducendo quelle comprensive. Ha permesso un enorme aumento delle possibilità di fornire aiuto concreto riducendo però le possibilità, da parte del medico, di saper intercettare bisogni, fantasie, paure del malato. Di fatto ha costituito un potenziale grave “vulnus” alle capacità comunicative fra medico e paziente: medico e malato si sono spesso trovati a parlare di cose diverse. Il medico è stato in qualche modo travolto da questa esaltazione di un corpo peraltro non vivo. Ha finito per considerare “vero” quello che era un’astrazione, sia pur tratta da evidenze empiriche, a loro volta evinte dallo studio di un corpo senza vita. E poi applicate a un corpo in vita e più ancora a un corpo “vissuto”, da intendersi, come vedremo in seguito, come la modalità che ciascuno di noi ha di vivere la propria egoicità somatizzata. Fedele a questa linea di pensiero le scuole di medicina moderne hanno spinto a chè, nell’immaginario dei medici in formazione, l’idea di corpo coincidesse con quella di corpo biologico. Questo però, promettendo una conoscenza oggettiva, off usca i vissuti soggettivi che costituiscono la trama profonda della malattia e la radice prima della sofferenza. In realtà la sofferenza che il paziente narra, e che costruisce la trama essenziale di ogni idea di malattia, è un evento soggettivo, mal localizzabile. Fuoriesce dai confini del corpo e pervade l’intera vita modificando la qualità delle relazioni, la forma degli affetti, il ritmo delle attività, la considerazione di sé. Se pensata con queste caratteristiche la sofferenza umana, il male di vivere, ma anche il dolore connesso con l’esperienza di malattia, diventano realtà non localizzabili (o solo parzialmente localizzabili) nel corpo. Senz’altro non solo nel corpo biologico. Per cui: o ci apriamo ad una portata tendenzialmente metafisica dell’esperienza del male, o dobbiamo rivedere la nostra idea di corpo, molto al di la dei suoi limiti materiali. Fino a farne sopra tutto una esperienza soggettiva, un modo per rappresentare la nostra esperienza di esistere. Questo lavoro ha la scopo di recuperare una dimensione diversa per leggere l’esperienza somatica. E non solo nello esercizio estetico-metafisico di descrivere una dimensione soggettiva dell’esistenza, ma in un’ottica molto pratica, 6
Introduzione
volta a individuare un paradigma che rapporti i segni clinici della malattia ad una esperienza somatica soggettiva e alle sue alterazioni. Si manterrà dunque l’“episteme” che sottende l’operatività medica, compreso il suo “scire per causas”, partendo però da un paradigma referenziale non centrato sull’anatomia, ma su l’esperienza somatica, sulla rappresentazione (più o meno dichiarativa) che ciascuno di noi ha del proprio corpo. Il discorso verrà articolato partendo proprio dalla definizione delle coordinate strutturali che definiscono la fisiologica esperienza somatica per indicarne subito gli snodi critici. I punti cioè da cui l’esperienza fisiologica del proprio corpo si può alterare per dare dimensioni potenzialmente patologiche. Sarà questo l’argomento della prima parte (psicopatologica) del lavoro. Partendo dalle alterazioni del consueto vissuto somatico si può sviluppare una linea di pensiero atta a leggere molte condizioni patologiche (molte malattie) che appaiono conseguenza di un’alterazione del vissuto somatico: da condizioni al limite della fisiologica ad altre che costituiscono veri e propri capitoli di patologia psichiatrica. E questo sarà il tema della seconda parte (clinica) del lavoro, dove molti quadri morbosi che costituiscono capitoli importanti delle attuali nosografie verranno visitati secondo questa linea di pensiero. In questo ambito una particolare attenzione verrà posta nella particolare modificazione a cui va incontro la relazione medico paziente in presenza delle patologie (e anche delle condizioni di vita non necessariamente patologiche) che comportano una modificazione della fisiologica esperienza del proprio corpo.
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