Alle radici dell'europa2

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COLLANA DI ANTROPOLOGIA Il corpo dei simboli. Nodi teorici e politici di un dibattito sulle mutilazioni genitali femminili Mila Busoni - Elena Laurenzi Antropologia. Pratica della Teoria nella Cultura e nella Società Michael Herzfeld Vivere l’Etnografia Francesca Cappelletto Comparativa/mente Pietro Clemente - Cristiano Grottanelli Alle radici dell’Europa. Mori, giudei e zingari nei paesi del Mediterraneo occidentale.  Volume I: secoli XV-XVII Felice Gambin Tutto è relativo. La prospettiva in Antropologia Bruno Barba Alle radici dell’Europa. Mori, giudei e zingari nei paesi del Mediterraneo occidentale. Volume II: secoli XVII-XIX Felice Gambin “Umano, troppo umano” Riflessioni sull’opposizione natura/cultura in Antropologia Alessandro Lutri - Alberto Acerbi - Sabrina Tonutti


ALLE radici RADICI alle DELL’EUROPA dell’europa Mori, giudei e zingari zingari nei paesi del Mediterraneo Mediterraneo occidentale. occidentale del VolumeII: I: secoli secoli XVII-XIX XV-XVII Volume ATTI CONVEGNO INTERNAZIONALE ATTI DEL CONVEGNOInternazionale INTERNAZIONALE Atti DEL del Convegno (Verona, 15 (Verona, e 16febbraio febbraio2007) 2008) (Verona,14, 1515ee 16 16 febbraio 2007)

a cura di FELICE GAMBIN

SEID


© Copyright SEID Editori 2010 Via Antonio Giacomini, 26 – 50132 Firenze e-mail: info@seideditori.it Tutti i diritti sono riservati. È vietato riprodurre, archiviare in un sistema di riproduzione o trasmettere in qualsiasi forma o qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per fotocopia, registrazione o altro, qualsiasi parte di questa pubblicazione senza l’autorizzazione scritta dell’editore. È obbligatoria la citazione della fonte. In copertina:

Particolare della Sinagoga del Tránsito (Toledo)

Impaginazione: gabrielecrobeddu.com Stampa: Free Books s.r.l. - Città di Castello (Pg) Prima edizione digitale 2013 Isbn 9788889473443


Presentazione della collana

L’antropologia è stata per tanti decenni una scienza-pattumiera, una scienza che studiava gli scarti delle altre scienze umane; l’oggetto dei suoi studi sugli scarti altrui l’ ha resa per tanti versi una scienza “ impura”, da osservare magari con interesse ma sempre da una debita distanza. A stretto contatto con i pensieri d’altri, essa ha incorporato tanti concetti e tante logiche in seno al proprio corpus teorico, divenendo così una scienza “bastarda”, che accetta suggerimenti e innovazioni dai gruppi umani più ininfluenti, dalle pratiche apparentemente più effimere. Popoli politicamente insignificanti nell’arena mondiale (i Kwatiutl, i Trobiandesi, i Nuer, i Bororo, i Balinesi…) sono entrati nei pensieri delle centinaia di migliaia di studenti che, ormai nelle Università di tutti i continenti, si sono trovati a sostenere un esame di antropologia; i filosofi dogon, guaranì, winnebago ecc. sono stati chiamati nei suoi testi a dialogare con Parmenide o Aristotele, con Russel o Wittgenstein. La sua natura “bastarda” le ha permesso fin dall’ inizio, pur nelle contraddizioni di tutti gli etnocentrismi in cui si trova immersa, di declinare una posizione critica più o meno esplicita verso l’etnocentrismo stesso che la produceva, dimostrando in continuazione con le proprie etnografie che altri mondi sono possibili, sempre. Ipersensibile ai mutamenti nei rapporti di forza internazionali, interculturali, e intraculturali (in primis quelli di genere), così come alle diverse sensibilità nei rapporti tra uomo e ambiente, l’antropologia nel corso dei decenni ha costantemente rielaborato i propri concetti, i propri approcci e i propri dibattiti. La presente collana intende contribuire in modo sistematico a divulgare questi sviluppi, offrendo lavori di studiosi, italiani o stranieri, che contribuiscano con la loro originalità ad illuminare un tema, a proporre una sintesi, a chiarire un dibattito in corso. In seguito all’entrata in vigore del nuovo ordinamento dell’Università italiana, con l’aumento degli insegnanti di materie antropologiche e con la nascita delle prime lauree in Antropologia, l’esigenza di un potenziamento editoriale della disciplina è imprescindibile. Gli studenti e i docenti devono avere accesso a sempre numerosi e aggiornati sussidi didattici. La speranza del direttore della collana e della SEID Editori è di poter contribuire a questo compito.

Leonardo Piasere



a Dino Coltro, amico di sinti e rom, in memoriam



Indice

Presentazione della collana

V

Felice Gambin Dentro la soglia: mori, giudei e zingari [Atto secondo]

XIII

Silvia Monti Apertura del convegno

1

Paola Ambrosi Il personaggio gitano nel teatro andaluso della metà dell’Ottocento

3

Henriette Asséo La Belle Égyptienne: esthétique de la Bohémienne en France à l’époque moderne

21

Davide Bigalli «Sua antiga nobreza»: António Vieira e il mondo ebraico

41

IX


ALLE RADICI DELL’EUROPA

Marc Bordigoni La dernière Bohémienne e ou l’aveu d’un roman populaire du XIX siècle

53

Ivan Caburlon L’apporto gitano nella formazione del flamenco: teorie a confronto

61

Michela Canteri La rappresentazione dell’“altro”: gli zingari sulle montagne del Delfinato

71

Matteo De Beni «Fabricaron los mahometanos una fábula»: Feijoo e la tradizione dell’Ebreo Errante

79

Gianni Ferracuti L’«Abencerraje» e il pirata inutile: come sopravvivere in un mondo barocco e gettare le basi della rivoluzione francese

93

Felice Gambin L’oro dei moriscos e la letteratura apologetica sull’espulsione

105

Emilio González Ferrín La Tercera España: el alma morisca

127

Niccolò Guasti «Acabar la empresa comenzada»: il dibattito sull’espulsione dei gitani nell’arbitrismo castigliano del primo Seicento

139

Pietro Ioly Zorattini Musulmani ed ebrei nella Casa dei Catecumeni di Venezia fra Cinque e Settecento

161

Silvia Monti Amori interetnici e ragion di stato. Mori ed ebrei nella tragedia neoclassica spagnola

177

Valentina Nider La doppia dissimulazione di Enríquez Gómez: La culpa del primero peregrino

195

Elisa Novi Chavarria Mobilità e lavoro: zingari ferrari a Napoli e nel Regno (secoli xvii-xviii)

211


Indice

Leonardo Piasere Il patriota risorgimentale e gli zingari

225

Giulia Poggi Il tesoro di Ricote

243

Giovanni Ricci Fantasie sessuali sul turco nella prima età moderna. Qualche scheda

255

Leonardo Romero Tobar Los gitanos en la literatura romántica española

265

Raffaella Sarti Tramonto di schiavitù. Sulle tracce degli ultimi schiavi presenti in Italia (secolo XIX)

281

Juan Carlos Villaverde Amieva Recetarios médicos aljamiado-moriscos

299

Indice dei nomi a cura di Paola Bellomi

319

XI



Dentro la soglia: mori, giudei e zingari [atto secondo] Felice Gambin

Il volume raccoglie gli interventi presentati al convegno internazionale tenutosi a Verona nel febbraio 2008, il secondo dopo quello del 2007, sui rapporti che si sono costruiti nel Mediterraneo occidentale tra le comunità locali maggioritarie e tre importanti minoranze culturali: i mori, i giudei e gli zingari. Caratterizzato da uno spiccato taglio interdisciplinare, l’incontro ha approfondito le modalità di costruzione delle identità minoritarie, nazionali ed europea, attraverso l’analisi e la riflessione su alcune produzioni letterarie, artistiche e storico-culturali di diversa tipologia dei secoli XVII-XIX . La molteplicità degli approcci e delle scelte metodologiche degli interventi, dovuti a studiosi di filosofia, di storia, di antropologia e di letteratura, ribadisce la complessità del tema affrontato, e nello stesso tempo l’impossibilità di comprenderlo con poche chiavi di lettura, peraltro alla lunga euristicamente inefficaci. Difficile è dare conto degli stimoli venuti dalle tre giornate del convegno, contenere e governare la molteplicità di voci e di lingue diverse delle tante radici dell’Europa nei secoli XVII-XIX.   Per ragioni diverse nel volume non figurano i contributi di Mónica Manrique, La presencia de judíos en España (finales del XVIII y principios del siglo XIX), di Jamal Ouassini, Viaggio nelle corti andaluse, di Andrea Zinato, «Kantigas», «koplas» e «romances» della diaspora sefardita (secoli XVII-XIX).

XIII


ALLE RADICI DELL’EUROPA

In questo senso, converrà ricordare che in occasione del convegno, i cui risultati vengono ora consegnati alle stampe, si tenne anche un concerto di musica arabo andalusa dell’Ensemble Jamal Ouassini. Lo spettacolo, Al Kafila (La carovana). Percorso musicale da Bagdad a Cordova, ha proposto un itinerario musicale tratto dal repertorio attribuito alle antiche scuole della musica araba (scuola irachena, egiziana e siro-babilonese). Musiche che si propagarono in diverse aree geografiche del mondo arabo e non solo sino a giungere in Nordafrica, per poi approdare in Andalusia, durante il periodo più fiorente della civiltà musulmana. È in Andalusia che la musica araba si fonde con le espressioni locali e con quelle delle comunità ebraiche e gitane . I fenomeni di contaminazione e di meticciato culturale ascoltati rinviano inevitabilmente a quello che molti anni fa Karl Vossler aveva indicato come il primo rinascimento europeo, un rinascimento genuinamente europeo dimenticato e rimosso in quanto si esprimeva in arabo: al-Andalus. Emilio González Ferrín giustamente ripropone nel suo saggio il tema di al-Andalus come uno dei primi rinascimenti europei e come un momento cruciale dei grandi processi di fertile orientalizzazione che l’Europa già aveva conosciuto grazie al cristianesimo e all’ebraismo. Accanto alle interpretazioni di Américo Castro, che nel suo celebre libro del 1948 interpretava la storia della penisola iberica sulla base del contributo delle tre culture (cristiana, musulmana, ebraica), egli sostiene che non ci fu una Spagna delle tre culture, come afferma l’autore di España en su historia, ma una Spagna con una sola cultura e tre religioni. È questa la cultura di al-Andalus, radicalmente altro da una banale riduzione a ciò che è andaluso, e che s’infiltra e raggiunge, senza colpo ferire, i confini dell’Europa grazie, tra gli altri, ai traduttori di Toledo e alla diaspora dei giudei espulsi. Una Spagna che, per dirla con i versi di un celebre poema di Borges, si alimentava dell’Islam, della cabala e della notte oscura dell’anima. Una Tercera España - benché secondo molti si tratti di un’identità mitizzata e costruita ex post - che poteva essere e che non è (stata) e che si è rifugiata nell’erasmismo lasciandolo riaffiorare in molte opere, come testimonia, tra gli altri, il personaggio morisco di Ricote descritto da Cervantes nel Don Chisciotte. Anche Giulia Poggi dedica il suo intervento alla figura del morisco nell’opera di Cervantes, argomento che ritorna con insistenza nella letteratura degli anni  In quell’occasione nell’Aula Magna del Polo Zanotto, il pubblico, stipato oltre ogni limite, in piedi, nei corridoi e a ridosso delle uscite, ha potuto conoscere le eleganti melodie e forme della musica arabo andalusa, che a sua volta influenza nei secoli gran parte della cultura musicale mediterranea. Tra gli interpreti Jamal Ouassini (violino, voce e percussioni), Abdesslam Naiti (kanoun), Mostafa Bakkali (oud e voce), Omar Benlamlih (canto solista e percussioni), Otmane Benyahya (durabuka, rik, bendir) e Piera Pelanda (voce solista).

XIV


Dentro la soglia: mori, giudei e zingari

immediatamente seguenti ai decreti che, tra il 1609 e il 1614, sanzionarono l’espulsione dai territori spagnoli dei musulmani convertiti, più o meno sinceramente, al cristianesimo nel corso del Cinquecento. Al di là dei diversi statuti narrativi, il tema si snoda dal Coloquio de los perros fino al Persiles, passando per la seconda parte del Quijote. In particolare il morisco Ricote, che Sancho incontra all’indomani della sua esperienza come governatore, rappresenta un singolare intreccio di motivi economici, politici e religiosi. Ordito che, se da un lato rimanda all’integrazione dei moriscos con i cristianos viejos, dall’altro rivela i tratti che diversificavano, all’interno di un tessuto sociale condiviso, questi due gruppi. In particolare il divario fra il contadino Sancho e il ricco commerciante Ricote, tornato in patria dopo la cacciata per recuperare un tesoro nascosto, induce a un confronto fra il disprezzo del denaro in quanto bene materiale e la sua utilizzazione in funzione pratica e precapitalista. L’intervento di chi scrive attraversa il motivo dell’oro dei moriscos, reso in termini narrativi da Cervantes, nelle opere apologetiche sull’espulsione e in alcuni romances. Tutte le vicende della minoranza morisca rinviano, nei modi più disparati, al tema del denaro e delle ricchezze: i moriscos avari e che accumulano l’oro, nascondendolo o ingurgitandolo, sono elementi sui quali si costruisce l’immagine identitaria dei moriscos (e dei giudei). Oltre ai racconti che narrano di tesori celati sotto terra o ingeriti e nascosti tra le viscere dei moriscos espulsi, il cosiddetto «tesoro de moros» tratteggia anche raccapriccianti e tremendi slanci spirituali. I soldati spagnoli uccidono sensuali e prolifiche more dal cui grembo aperto dalle spade cristiane escono anime di fanciulli che vengono battezzati poco prima di morire entrando così, per loro buona sorte, nelle glorie del cielo. E, tuttavia, al di là dei riferimenti a profezie e premonizioni sulla nuova epoca e nuova età dell’oro che si sarebbe spalancata per gli spagnoli con l’espulsione dei mori battezzati dai territori spagnoli, la letteratura apologetica abbaglia e ha incantato con i tesori dei moriscos e ben ha nascosto ai più il fallimento di un disegno messianico e apocalittico di una Spagna come impero universale capace di raccogliere tutte le genti sotto la fede cattolica. Lo studio di Gianni Ferracuti si centra su due testi lopiani che sviluppano la vicenda de El Abencerraje, novella anonima del 1551 che racconta di mori nobili, raffinati e amanti cortesi, in contrasto con l’immagine del moro insolente e guerriero. Molte le ipotesi avanzate dagli studiosi sull’atteggiamento del drammaturgo dinnanzi all’espulsione dei moriscos, materia da lui rielaborata e ripresa in numerose occasioni: secondo molti egli è ostile ai decreti di Filippo III, per parecchi non prende posizione, per altri ancora li condivide. Ferracuti osserva le diverse caratteristiche che esistono tra i protagonisti della prima delXV


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le Novelle per Marzia Leonarda e della commedia El remedio en la desdicha: un morisco che si considera un buon cristiano e muore da buon cristiano, l’uno, e un musulmano nobile e cortese, l’altro. Incrociando le due opere con le riflessioni barocche sulla dissimulazione, è possibile vedere in Lope la teoria, e forse la pratica, di un dissenso silenzioso, ma altamente corrosivo, nei confronti del regime e il farsi strada di un atteggiamento propriamente barocco di chi, evitando una contrapposizione frontale con il potere, si garantisce attraverso le strategie della maschera e della prudenza un margine di libertà. Il saggio di Juan Carlos Villaverde Amieva ha come oggetto di indagine una serie di manoscritti aljamiados che testimonia la presenza di comunità musulmane in territori spagnoli. Senza dubbio, molto si è scritto negli ultimi anni sui moriscos ma assai poco si sa di questi testi, quasi sempre miscellanei, scritti a mano dagli ultimi musulmani spagnoli e redatti in una lingua romanza impiegando caratteri arabi. Il non averli presi in considerazione ha finito per ritenere che tali comunità fossero dedite alle più stravaganti pratiche magiche e superstiziose, così come si narra negli atti dell’Inquisizione o in altre fonti archivistiche. Villaverde Amieva richiama l’attenzione su alcuni manoscritti aljamiados, provenienti soprattutto dalle comunità aragonesi, e prova, diversamente da quanto si sostiene, che erano in uso, fino all’espulsione, vere e proprie pratiche mediche e terapeutiche moresche. Merito dell’autore è anche quello di offrire alcune ricette per la cura dell’uomo (e della donna, gravida o meno che fosse) e documentare, attraverso un’analisi linguistica e lessicale, le relazioni di tali testi con eventuali fonti islamiche e cristiane, le aperture e le resistenze culturali della comunità morisca alla cultura araba e a quella spagnola. Una comunità che - è il caso di sottolinearlo - costruisce la propria identità altra differenziandosi sia da quella islamica sia da quella che la monarchia spagnola sta realizzando in quegli anni attraverso gli statuti di limpieza de sangre. Anch’essi legati all’ambito iberico sono i lavori che si soffermano, da più punti di vista, sui destini e sugli stereotipi della minoranza ebrea. I giudei, dopo la strage di Siviglia del 1391, le conversioni, dapprima consigliate poi forzate, la cacciata definitiva da parte dei Re Cattolici nel 1492, seguita pochi anni dopo dall’espulsione dai territori portoghesi, vagarono in tutti i più remoti angoli del Mediterraneo, verso l’Italia centro-settentrionale e i Paesi Bassi alla ricerca di una patria e di un’identità. In un ambiente e in una temperie culturale che vedono infittirsi le invettite contro gli ebrei e i conversos e prendere corpo il timore di congiure ebraico-converse contro la cristianità, interessante è il caso del portoghese António Vieira XVI


Dentro la soglia: mori, giudei e zingari

studiato da Davide Bigalli. Il gesuita, noto soprattutto per il suo impegno a favore delle popolazioni americane, svolse un’intensa attività di diplomatico presso la corte di Giovanni IV di Braganza ed elaborò un ambizioso progetto di riconciliazione nazionale in un Portogallo dissanguato dalle interminabili guerre con la Castiglia. In decisa opposizione alla politica di confisca dell’Inquisizione, egli indicava la necessità di fare ricorso alle ricchezze degli ebrei, sia di quanti erano fuggiti all’estero, in particolare ad Amsterdam, sia dei cristiãos novos che vivevano nel regno. Il suo progetto di pacificazione, che intreccia istanze politiche ed economiche con bisogni pastorali e missionari, s’inserisce nel quadro delle sollecitazioni sebastianiste legate al ruolo messianico del monarca portoghese. António Vieira, proprio durante la permanenza olandese, le frequentazioni degli ambienti della comunità giudeo-portoghese e le conversazioni con Menasseh ben Israel, viene mutuando sia la concezione ebraica del regno millenario sia il ruolo dell’America nel disegno provvidenziale e apocalittico. Ebbene, nella profetica História do Futuro si asserisce che il Portogallo è il luogo da cui proviene la cristianizzazione universale e che esiste un legame tra i destini dei lusitani e quelli del popolo ebraico esule nelle terre iberiche. I giudei, sin dall’origine insidiati nel regno, non avendo partecipato al dramma della crocefissione ed esenti della macula del deicidio sono ingiustamente perseguitati in quanto hanno mantenuto - secondo il gesuita - «sua antiga nobreza». Il saggio di Valentina Nider esamina un’opera di Antonio Enríquez Gómez, commerciante e drammaturgo ben integrato nell’ambiente madrileno, che fuggì in esilio perché accusato presso l’Inquisizione. Egli rimase in Francia per oltre venti anni, durante i quali ebbe contatti con le comunità di commercianti marrani spagnoli e portoghesi e lì pubblicò la maggior parte delle sue opere non drammatiche. Già in anni precedenti all’esilio le sue commedie di tema veterotestamentario mettono in luce l’abilità dell’autore nel soddisfare sia il pubblico cattolico sia quello capace di cogliere il ricorso a motivi e temi della tradizione ebraica. La culpa del primero peregrino (1644), scritta durante gli anni francesi, si rivela un eccellente banco di prova per studiare la cultura e la religiosità di un cristiano nuevo, il suo presunto criptogiudaismo o la definitiva conversione al cattolicesimo. Considerata una commedia in linea con l’ortodossia cattolica, un’attenta analisi di questo racconto della creazione del primo uomo e della prima donna e della loro successiva cacciata dal paradiso rivela il sapiente gioco che l’autore instaura fra l’ambiguità del testo poetico, fondata soprattutto sull’imitazione delle Soledades di Góngora, e le note a margine che rimandano alla lettura canonica dell’ipotesto biblico. Un buon esempio della strategia letteraria improntata alla dissimulazione, sia nei XVII


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confronti dell’ortodossia cattolica sia nei confronti di quella ebraica, è la parte relativa alla creazione della prima donna e il riferimento alla creazione di un androgino primigenio, che rinvia al neoplatonismo dei Dialoghi d’amore di Leone Ebreo. Matteo De Beni analizza la carta erudita di Benito Jerónimo Feijoo dedicata all’Ebreo errante, la celebre e misteriosa figura nata dalla leggenda secondo cui Gesù Cristo, sulla via del Calvario, avrebbe maledetto un giudeo condannandolo a vagare sulla Terra sino alla fine dei tempi. L’eclettico benedettino - senza mai mettere in discussione la verità di fede che, anzi, egli cerca di conciliare con la scienza sperimentale - ne smaschera e contesta l’esistenza, giungendo a sentenziare che si tratta di una mera superstizione diffusa da qualche ciarlatano che si sarebbe spacciato per il mitico personaggio al fine di trarne profitto. C’è di più. Feijoo, senza mai fare riferimento ad alcuna tradizione ispanica dell’Ebreo errante, attribuisce la creazione della leggenda ai musulmani che hanno stravolto il senso delle Scritture. Si tratta di una critica veemente e del tutto infondata che mostra la persistenza dei pregiudizi nei confronti della civiltà islamica anche in un’opera come quella di Feijoo che tanta importanza ha avuto nel rinnovamento della cultura spagnola nel corso del Settecento. Sempre nell’ambito della letteratura settecentesca, Silvia Monti s’intrattiene, invece, sul tema degli amori interetnici nella tragedia neoclassica spagnola. In modo particolare il saggio s’incentra sulla Raquel di Vicente García de la Huerta, opera che descrive la storia degli amori del re castigliano Alfonso VIII con la bella ebrea di Toledo. Una vicenda, già ampiamente sfruttata dal teatro barocco, che narra le astuzie e le ambizioni di Raquel e di come lei, giovane appartenente ad una comunità temuta ed odiata, riesca a convincere l’invaghito re, incapace di controllare la propria passione e che per questo trascura i doveri di Stato, a revocare l’editto di espulsione degli ebrei da lui stesso emesso. Ma in molti altri testi gli autori neoclassici mettono in scena amori interetnici, in prevalenza legami sentimentali tra mori e cristiane o tra cristiani e more. È il caso dell’Hormesinda di Nicolás Fernández de Moratín, de La muerte de Munuza di Gaspar Melchor de Jovellanos, del Pelayo di Manuel José Quintana, del Don Sancho García, Conde de Castilla di José Cadalso, de La condesa de Castilla di Nicasio Álvarez de Cienfuegos. Stessi perfino gli episodi rappresentati, mitizzati o leggendari, da quelli relativi alla conquista musulmana a quelli della successiva reconquista. Come segnala Silvia Monti, in tali opere - dove gli amori interetnici, ambientati in un contesto musulmano fortemente idealizzato, s’intrecciano con la ricerca delle caratteristiche proprie del governante XVIII


Dentro la soglia: mori, giudei e zingari

ideale e del buon governo - possiamo scorgere, in linea con le idee illuministiche, affermazioni che indicano un certo spirito razionalmente tollerante nei confronti dell’altro, ma senza che vengano mai meno lo slancio patriottico e le preoccupazioni per le virtù nazionali, perseguite attraverso la lotta al diverso e allo straniero. Anche gli zingari condividono con mori e giudei una serie di elementi generalizzanti e precostituiti di varia natura dominata da inquietudini, paure, sospetti. Pure essi sono un’alterità minacciosa e ingombrante che subisce costanti processi di allegorizzazione nel corso dei secoli. Il loro è un profilo delinquenziale definito dal furto, dall’inganno, dall’erranza, dalle pratiche divinatorie. La stigmatizzazione negativa dei tratti caratteristici degli zingari denuncia l’alterità di un modello sociale e culturale avvertito come diverso da quello cristiano. Dentro la formazione di queste immagini stereotipate, fittizie e lontane dalla realtà, modellate sulla riduzione semplificante dell’altro si muovono i contributi presentati in questo volume. Figure e ritratti che le produzioni letterarie e storico-culturali di diversa tipologia creano, rielaborano e alimentano nel nostro immaginario. Echi di mondi e culture antitetiche si possono cogliere nella trattatistica seicentesca spagnola di orientamento giuridico, politico ed economico. Come evidenzia il saggio di Niccolò Guasti questo tipo di letteratura affronta il tema gitano in base ad una prospettiva repressiva simile e parallela a quella che caratterizzò la lotta alla povertà affettata, al vagabondaggio e al brigantaggio. Banditi durante l’epoca dei Re Cattolici (1499), all’indomani dell’espulsione dei moriscos, decretata nell’aprile del 1609, si assiste a un crescente interesse per i gitani e da più parti si rifà strada la necessità di espellerli, così come già accaduto per le altre due più importanti minoranze presenti nei territori iberici. La percezione che l’amministrazione regia e la Chiesa svilupparono circa i gitani fu indubbiamente diversa rispetto a quella che caratterizzò gli ebrei e i moriscos, definiti fin dal XVI secolo castellanos nuevos. Accanto all’immagine delle comunità zingare perpetuamente sradicate ed erranti, prive di dimore, senza mestieri e contesti di appartenenza stabili, Elisa Novi Chavarria indaga la presenza del radicamento di molti zingari nel Mezzogiorno d’Italia e l’attività di fabbri da loro esercitata sul territorio delle province del Regno di Napoli in epoca moderna. In molte fonti letterarie, iconografiche e cronache viene riferito della lavorazione del ferro o del rame come mestiere ricorrente tra gli zingari. Molte di queste maestranze qualificate assai spesso s’integravano nelle comunità locali, acquisendo posizioni di XIX


ALLE RADICI DELL’EUROPA

un certo prestigio e raggirando, quando vennero adottati, i provvedimenti di espulsione nei confronti degli zingari in virtù delle loro abilità nel mestiere di ferrari e ramari. Tutto ciò fino a quando non vi fu una crisi produttiva del settore e un consolidamento del sistema corporativo delle attività manifatturiere che portò ad un’evoluzione dell’intero processo produttivo. Analizzando diverse fonti inedite, tra le quali le Capitolazioni formulate dalli Consoli delle dieci Arti riunite dei Ferrari del 1745 (in parte presentate in appendice al suo saggio), l’autrice apporta nuovi materiali per una più corretta comprensione dell’intrecciarsi tra mobilità e sedentarietà degli zingari. Henriette Asséo volge la propria attenzione sulle relazioni e sulle differenze tra l’immagine della zingara nelle arti e nella cultura barocca e gli abituali atteggiamenti di ostilità e timore della società francese in età moderna, così come documentano gli atti legislativi e i materiali di archivio delle varie realtà municipali. Innanzitutto va precisato che, fino alla Déclaration del 1682 di Luigi XIV contro i bohémiens, esisteva un sistema di connivenza e di vincoli assai complesso tra famiglie bohémiennes e la piccola nobiltà del tempo che implicava un radicamento territoriale di gruppi familiari organizzati in compagnie militari. In questo sistema, poi andato in frantumi a causa dei mutati equilibri tra poteri centrali e poteri periferici, si spiega la vicenda di Léance, la bella zingara accolta nei salotti di corte e che seduce con le sue grazie nobili, poeti e pittori che la cantano e la ritraggono. La vicenda di Léance, la belle égyptienne, non è per nulla isolata. Nella prospettiva di una semiologia storica, così come è stata proposta da Carlo Ginzburg, Asséo s’intrattiene sulla coesistenza nella realtà e nell’immaginario della bohémienne errante e sospetta con quella che - cara anche a Caravaggio - legge la buona ventura nei salotti nobiliari. L’analisi indica come la cultura del tempo, espressione della dissimulazione onesta (ma non sempre) delle apparenze, amasse mettere in scena, anche in occasione dei balli a corte, gli zingari ma soprattutto zingare seducenti, le stesse che venivano, ad un tempo, braccate nei vari provvedimenti legislativi e scrutate dallo sguardo giudiziale. Indubbiamente il romanticismo ha contribuito in modo decisivo alla costruzione dell’immaginazione ziganologica. Per i romantici il mondo gitano rappresenta l’ultima sopravvivenza della perduta libertà di una vita improntata alla naturalità dell’esistenza e dei sentimenti, lontana e in contrapposizione alle costrizioni della vita borghese. E non manca neppure l’identificazione dello scrittore romantico con l’universo gitano. Come documenta molta letteratura europea del tempo e attestano i libri di viaggio, l’immagine dell’identità dello zingaro viene riproposta in un duplice atteggiamento di ammirazione e di rifiuto. XX


Dentro la soglia: mori, giudei e zingari

Il lavoro di Paola Ambrosi analizza alcune testimonianze letterarie sulla figura del gitano spagnolo, le modalità della sua costruzione e i procedimenti retorici impiegati. L’indagine, condotta su un corpus significativo del teatro popolare andaluso della prima metà dell’Ottocento, si sofferma sull’importanza della lingua impiegata da personaggi che si possono definire gitani e sulle diverse posizioni dei vari scrittori. L’impiego della lingua caló è paradossale e umoristico; la ricercata artificialità scopre un atteggiamento critico nei confronti dell’assimilazione passiva dello stereotipo del gitano esaltato nella cultura europea dell’epoca. Non a caso, come precisa Paola Ambrosi, i personaggi gitani si muovono sulla scena con il linguaggio e i ritmi propri del teatro di burattini e recitano come maschera di grande duttilità che custodisce, soprattutto, i bisogni e le paure di chi non è gitano. Intorno alla creazione di identità fittizie e il bisogno di scaricare sull’altro i conflitti e i disagi interni alla propria comunità, si muove anche il contributo di Michela Canteri. L’esame di alcuni récits de croyance, diffusi oralmente nella regione del Delfinato, lascia trasparire il pensiero e le paure dei montanari dei dipartimenti di Isère, Drôme e Hautes-Alpes. In tali racconti leggendari, le cui tematiche sono il mondo del fantastico e del soprannaturale, la società maggioritaria attribuisce agli esseri fantastici che popolano la zona delle alpi francesi caratteristiche e stereotipi che appartengono agli zingari, dalla diversità linguistica alla difformità fisica, dalla propensione al furto ai poteri magici legati alla chiromanzia e alla stregoneria. La modalità di costruzione dell’immagine dell’altro è ben esemplificata nella storia della genesi del flamenco, espressione artistica che racchiude influenze di varie origini etniche, storiche e geografiche. Ivan Caburlon ricostruisce il dibattito sugli avvenimenti riguardanti la sua nascita e sottolinea la facilità con cui il flamenco si è prestato alla proliferazione di leggende e miti intorno ad esso, a volte non esenti da speculazioni di carattere politico, sociale o culturale. Questa libertà nella formulazione delle ipotesi è dovuta all’innegabile scarsità di fonti scritte a disposizione che documentino i primi momenti della sua vita. Se nei primi entusiastici studi viene assegnata la paternità del cante all’etnia gitana, nelle ricerche più recenti l’apporto dei gitani viene invece ridimensionato, privilegiando piuttosto fattori quali il romanticismo europeo e il nazionalismo ottocentesco. Come indica Caburlon, pur essendo universalmente riconosciuto il peso che le comunità gitane hanno avuto nella sua trasmissione ed elaborazione artistica, il binomio flamenco-gitani, così radicato nell’immaginario collettivo, deve essere integrato con altre componenti culturali e sociali. XXI


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Leonardo Romero Tobar focalizza la propria attenzione sui gitani che s’incontrano nei romanzi d’appendice e negli articoli di costume della letteratura romantica spagnola. Si tratta di testi che, attraverso la prosa giornalistica del primo Ottocento, diedero origine ad un vero e proprio genere letterario, il costumbrismo, consacrato a descrizioni di scene, costumi e personaggi legati alla realtà spagnola del tempo. Lo scenario nel quale ci s’imbatte con i gitani è in prevalenza andaluso e ciò ha finito per identificare l’intera Andalusia e la sua cultura con il gitanismo. In queste opere essi vengono descritti dagli autori spagnoli, come gli altri scrittori romantici di tutta Europa, impiegando in modo inerziale gli stereotipi in uso: il loro essere ladri, impostori, nomadi, ostili alle regole della società dei payos. Altro elemento che li contraddistingue è la divisione in base al genere. Mentre gli uomini si dedicano al commercio illegale degli animali, agli spettacoli pubblici, alla lavorazione del ferro, le donne leggono la mano e sono ballerine. E se le anziane sono spesso mezzane e streghe, le giovani sono sensualmente attraenti, dotate di una bellezza angelico-diabolica. Le zingare - come prova Carmen, autentico mito moderno - seducono, amano e diventano un’ossessione della libido degli europei. Come ha mostrato in più occasioni Leonardo Piasere, se i maschi zingari restano quasi sempre appiattiti nell’ambito del mostruoso, le donne, infantili e diaboliche, sono oggetto di amour fou. È nello scenario del grande mito occidentale del legame indissolubile dell’amore alla morte che s’inscrive, prende forma e si sviluppa lo stereotipo dell’eroina zingara come femme fatale, come agente scatenante pericolosi legami e incontrollate passioni. Accanto a giovani e seducenti fanciulle zingare - giovinette che tanto devono sia all’esito straordinario della Gitanilla di Cervantes (alle sue riscritture, rielaborazioni e plagi), sia alla stagione delle zingaresche - nell’Ottocento c’imbattiamo in altre immagini della zingara all’interno della produzione letteraria europea. Ne è prova il contributo di Marc Bordigoni che analizza un libro pubblicato da Mme Charles Reybaud nel 1856 con il titolo La dernière bohémienne. Il romanzo, di grande successo popolare, appare in un decennio particolarmente importante per quello che riguarda la ziganologia: da una parte il crescente interesse per le misurazioni del cranio degli zingari, dall’altra parte l’arrivo in Francia di gruppi familiari rom provenienti dall’impero austro-ungarico. L’opera, ambientata in una Bretagna chiusa e conservatrice, narra le avventure di Mimi, la quale, nata dagli amori del padre artigiano con una saltimbanco di strada, presto diventa orfana di entrambi e viene cresciuta da una famiglia di nobili bretoni. A lei, appunto l’ultima zingara, ben diversa dalla visione romantica incarnata dall’Esmeralda di Victor Hugo e dalla CarXXII


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men di Prosper Mérimée, il destino riserva soltanto la vita di strada. La dernière bohémienne è intrigante sia per gli scarni riferimenti etnografici, sia per l’ambivalenza del titolo che indica gli zingari come l’ultimo gradino nella scala delle razze umane. In una società di casta come quella descritta dall’autrice, non vi è nessun processo di assimilazione degli zingari attraverso una mobilità controllata, più semplicemente essi occupano il più basso livello dell’ordine sociale. In questa prospettiva, è emblematico il contributo di Leonardo Piasere sul primo libro sugli zingari della storia italiana: Origine e vicende dei Zingari (1841), opera di un giovane attivista nazionalista con un certo ruolo nel campo dell’editoria di divulgazione di allora: Francesco Predari. Il volume del comasco, che annoda resoconti etnografici settecenteschi con idee nazionaliste di stampo romantico, assegna agli zingari una propria originalità, anche se moralmente negativa, nel mondo delle nazioni di allora. Più che gli ultimi uomini liberi, gli zingari sono l’ultima nazione scellerrata: inutile cercare le loro origini in India o in Egitto o altrove. La nazione degli zingari immaginata da Predari, studioso ed editore del napoletano Giambattista Vico, fonda le proprie radici nella preistoria. Essi sono un popolo assolutamente singolare, un popolo antistorico. In tal modo, come afferma Piasere, il patriota Predari considera gli zingari non «italianizzabili», posti nel tempo altro delle «prime nazioni» e fuori dalla storia delle coeve lotte nazionali per l’identità. Ed è superfluo aggiungere che nulla importa più se si tratta di quei maschi deformi e guerci o di quelle femmine belle e seducenti che negli stessi anni andavano in scena nell’occidente europeo. Nell’incontro-scontro tra mori, ebrei, zingari e società maggioritarie svolgono un ruolo particolare quei microcosmi di alterità e di multiculturalità che prendono forma quando uomini e donne varcano la frontiera fra una fede e l’altra. In questo senso, come mostra Pietro Ioly Zorattini, le Case dei Catecumeni sono spia della diffusa presenza in età moderna di individui provenienti da culture e religioni diverse dalla società cattolica maggioritaria. Il suo intervento ricostruisce una storia delle conversioni degli infedeli a Venezia, città privilegiata di contatti tra popoli e culture. La Pia Casa dei Catecumeni di Venezia è un’istituzione esemplare nel quadro della politica conversionistica inaugurata dalla Chiesa della Controriforma nei confronti degli infedeli. Sorta nel 1557 sul modello della Casa di Roma, fondata da Ignazio di Loyola nel 1543, essa risulta di grande interesse per aver accolto, se paragonata alle altre analoghe istituzioni in Italia, un numero assai significativo di catecumeni, soprattutto di fede islamica. La ricerca di Ioly Zorattini rientra nel tema più XXIII


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generale della conversione nelle religioni monoteiste, che viene interpretato dagli studiosi non come un evento esclusivamente religioso, bensì come un fenomeno socio-culturale particolarmente significativo per la formazione di nuove identità. Varcando la frontiera fra una fede e l’altra i convertiti mutavano la propria condizione sociale e il proprio modus vivendi, sfuggivano ad un’identità prestabilita e oltrepassavano gli angusti confini imposti dall’appartenenza ad un determinato gruppo religioso e sociale. Tuttavia, varcare le frontiere e venire in contatto con l’altro implicavano la reciproca riduzione in schiavitù di cristiani e musulmani, fenomeno che vede un forte declino soltanto nel corso del Settecento. Raffaella Sarti offre un censimento degli ultimi casi di schiavitù attestati nella penisola italiana e ricostruisce i percorsi che ancora nel XIX secolo portarono alcuni individui a cadere in una condizione di schiavitù. Più che parlare di schiavitù in senso strettamente legale, la definizione di alcuni individui stranieri come schiavi (neri soprattutto) dipende da una tradizione ormai priva di fondamento giuridico. In questa situazione di schiavitù di fatto e non di diritto il panorama si presenta alquanto diversificato. Se nei casi più tardi l’ambiguità è maggiore, in alcune situazioni d’inizio Ottocento si tratta di veri e propri schiavi, in particolare nello Stato Pontificio, nel Regno di Napoli e in Sicilia. E nondimeno, come ricorda Raffaella Sarti, la consapevolezza della lunga durata del fenomeno tende ancora ad essere rimossa, coerentemente con lo slancio missionario della chiesa e con l’atteggiamento di una nazione come l’Italia che, finalmente unita, si affacciava sulla scena internazionale come culla e portatrice di civiltà. Si è detto che anche questo secondo convegno ha mostrato come le dinamiche di interazione tra mori, giudei, zingari e società maggioritarie hanno prodotto contemporaneamente fenomeni di resistenza culturale dall’interno e fenomeni di costruzione identitaria dall’esterno. Un incontro-scontro fatto di identità manipolate e fittizie sulle quali si è costruito l’immagine dell’altro. L’argomento è assai complesso e manifesta momenti di aspra conflittualità e di disprezzo, ma pure importanti fenomeni di meticciato culturale. Tali fenomeni si possono percepire con la vista innanzitutto, come mostra l’immagine di copertina di un particolare dell’interno della Sinagoga del Tránsito di Toledo, ma anche con altri sensi come accaduto a quanti in occasione delle giornate veronesi hanno potuto coglierli nelle melodie del già ricordato concerto di musica arabo andalusa. Ma accanto a tali esperienze sensoriali - ed altre ancora andrebbero tenute presenti, tra queste quelle degli odori, con il puzzo e il fiato del povero e dell’altro, o quelle di discriminanti etnico-religiosi di molte abitudini culinarie proprie delle comunità minoritarie - stridono (anche se XXIV


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non sorprendono) alcuni silenzi della storia nel percorso, nient’affatto lineare, che ha portato alla costruzione della nostra identità. In questa prospettiva che tende a privare l’altro del proprio corpo, a decorporeizzarlo, è merito del contributo di Giovanni Ricci aggirare le negligenze della storia e occuparsi di un argomento spesso taciuto, ovvero del ruolo svolto dal genere e dalla sessualità nella costruzione di una mappa di relazioni fra le culture. Nelle fantasie dell’Europa cristiana del Rinascimento l’Islam appariva come paradiso dei sensi ed i turchi erano lascivi, dediti alla sodomia e poligami ad un tempo. L’immagine di lussuria e i disordini sessuali attribuiti ai musulmani emergono con singolarità nelle voci e mormorii che circondavano coloro che ritornavano dalla schiavitù e che erano entrati in intimità con il Turco. Un timore, quello della sodomia musulmana, che viene sostituito, dopo il secondo fallito assedio di Vienna e il conseguente declino ottomano, da un altro tipo di percezioni: l’insistenza sulle mollezze dell’harem che più non minaccia i maschi europei ma tiranneggia donne compiacenti o subordinate. Prima di invitare il lettore ad addentrarsi nei sentieri di questo volume, un sentito ringraziamento va a quanti, colleghi, studenti e dottorandi, si sono adoperati per la riuscita del convegno o hanno partecipato alle sue affollate sessioni. Un motivo di soddisfazione è stata l’ampia risonanza dell’evento in ambito cittadino. La partecipazione degli insegnanti (resa possibile grazie alla collaborazione con l’Ufficio scolastico provinciale di Verona) e quella di cittadini veronesi prova il bisogno di chi vive o lavora in una città come quella scaligera di seguitare ad approfondire i processi di interazione che si sono verificati e che continuano a verificarsi anche ai giorni nostri tra le comunità locali maggioritarie e le molteplici minoranze culturali presenti sul territorio. Voglio ricordare il significativo contributo dato dalla Facoltà di Scienze della Formazione, dal Dipartimento di Romanistica, dal Dipartimento di Psicologia e Antropologia culturale. Un ringraziamento particolare al ministro Joaquín Manrique dell’Ambasciata di Spagna in Italia, all’onorevole Nerio Nesi, presidente dell’Associazione culturale Italia e Spagna, e a Enrique Ojeda, direttore della Fundación Tres Culturas di Siviglia, istituzione che svolge le proprie attività sotto l’egida dell’Alto Patronato del Re di Spagna e del Re del Marroco e che si è fatta carico delle spese per il concerto dell’Ensemble Jamal Ouassini. Ringrazio calorosamente i professori Mario Longo e Gian Paolo Marchi, rispettivamente presidi delle Facoltà di Scienze della Formazione e di Lingue e Letterature Straniere, che hanno avuto la gentilezza di presiedere l’inaugurazione del convegno. Un grazie anche a Elio Mosele, presidente della XXV


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