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COLLANA DI ANTROPOLOGIA Il corpo dei simboli. Nodi teorici e politici di un dibattito sulle mutilazioni genitali femminili* Mila Busoni - Elena Laurenzi Antropologia. Pratica della Teoria nella Cultura e nella Società* Michael Herzfeld Saggi sull’Etnografia Francesca Cappelletto Comparativamente Pietro Clemente - Cristiano Grottanelli Alle radici dell’Europa. Mori, giudei e zingari nei paesi del Mediterraneo occidentale. Volume I: secoli XV-XVII* A cura di Felice Gambin
* Volumi pubblicati
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ALLE RADICI DELL’EUROPA Mori, giudei e zingari nei paesi del Mediterraneo occidentale Volume I: secoli XV-XVII ATTI DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE (Verona, 15 e 16 febbraio 2007)
a cura di FELICE GAMBIN
SEID
© Copyright Seid Editori 2008 Via Sette Santi, 16 – 50131 Firenze e-mail: info@seideditori.it Tutti i diritti sono riservati. È vietato riprodurre, archiviare in un sistema Di riproduzione o trasmettere in qualsiasi forma o qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per fotocopia, registrazione o altro, qualsiasi parte di questa pubblicazione senza l’autorizzazione scritta dell’editore. È obbligatoria la citazione della fonte. Immagine di Copertina: Particolare della Sinagoga del Tránsito (Toledo) Impaginazione e stampa: Free Books s.r.l. - Città di Castello (Pg) Prima edizione digitale 2013 Isbn 9788889473320
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Presentazione della collana
L’antropologia è stata per tanti decenni una scienza-pattumiera, una scienza che studiava gli scarti delle altre scienze umane; l’oggetto dei suoi studi sugli scarti altrui l’ha resa per tanti versi una scienza “impura”, da osservare magari con interesse ma sempre da una debita distanza. A stretto contatto con i pensieri d’altri, essa ha incorporato tanti concetti e tante logiche in seno al proprio corpus teorico, divenendo così una scienza “bastarda”, che accetta suggerimenti e innovazioni dai gruppi umani più ininfluenti, dalle pratiche aopparentemente più effimere. Popoli politicamente insignificanti nell’arena mondiale (i Kwatiutl, i Trobiandesi, i Nuer, i Bororo, i Balinesi...) sono entrati nei pensieri delle centinaia di migliaia di studenti che, ormai nelle Università di tutti i continenti, si sono trovati a sostenere un esame di antropologia; i filosofi dogon, guaranì, winnebago ecc. sono stati chiamati nei suoi testi a dialogare con Parmenide o Aristotele, con Russel o Wittgenstein. La sua natura “bastarda” le ha permesso fin dall’inizio, pur nelle contraddizioni di tutti gli etnocentrismi in cui si trova immersa, di declinare una posizione critica più o meno esplicita verso l’etnocentrismo stesso che la produceva, dimostrando in continuazione con le proprie etnografie che altri mondi sono possibili, sempre. Ipersensibile ai mutamenti nei rapporti di forza internazionali, interculturali, e intraculturali (in primis quelli di genere), così come alle diverse sensibilità nei rapporti tra uomo e ambiente, l’antropologia nel corso dei decenni ha costantemente rielaborato i propri concetti, i propri approcci e i propri dibattiti. La presente collana intende contribuire in modo sistematico a divulgare questi sviluppi, offrendo lavori di studiosi, italiani o stranieri, che contribuiscano con la loro originalità ad illuminare un tema, a proporre una sintesi, a chiarire un dibattito in corso. In seguito all’entrata in vigore del nuovo ordinamento dell’Università italiana, con l’aumento degli insegnanti di materie antropologiche e con la nascita delle prime lareee in Antropologia, l’esigenza di un potenziamento editoriale della disciplina è imprescindibile. Gli studenti e i docenti devono avere accesso a sempre numerosi e aggiornati sussidi didattici. La speranza del direttore della collana e della SEID Editori è di poter contribuire a questo compito. Leonardo Piasere
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a MarĂa Soledad Carrasco Urgoiti e Francesca Cappelletto, in memoriam
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INDICE
Felice Gambin Dentro la soglia: mori, giudei e zingari
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Silvia Monti Apertura del convegno
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1
Paola Ambrosi Sulle tracce di Grecianos e Egipcianos. Alcune osservazioni sulle prime testimonianze storiche e letterarie dei gitani in Spagna
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Massimo Aresu “Gitanos de dicho reyno”: appartenenze multiple e ragnatele identitarie nella Sardegna spagnola dell’età moderna
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Henriette Asséo “Mesnages d’egyptiens en campagne”. L’enracinement des tsiganes dans la France moderne
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Andrea Celli A proposito di un “All¯ah piadoso” la metafora carceraria nella letteratura aljamiada cinquecentesca
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45
Francesca Dalle Pezze Gitani, giudei e mori nella lessicografia spagnola dei secoli d’oro
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63
Benedetto Fassanelli “Andar con cingani” o “viver christianamente”? Tipi, icone e visioni del mondo attraverso un costituto cinquecentesco
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Antonella Gallo El hidalgo bencerraje di Lope de Vega: luci e ombre della maurifilia letteraria nei secoli d’oro
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Felice Gambin I moriscos nella Spagna del Seicento: il trattato di Pedro de Valencia
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ALLE RADICI DELL’EUROPA
Nuria Martínez de Castilla Muñoz Cómo se hacía un manuscrito aljamiado
pag.127
Silvia Monti Giudei, conversos e prostitute nella Roma del primo Cinquecento
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Stefano Neri “El cautivo de la Cruz”: finzione e realtà nel Lepolemo (Valencia, 1521)
» 155
Eliezer Papo Ribi Shelomo Ibn Verga i el nasimiento de la idea de la relativita de las relijiones komo una de las repuestas a la trauma de la ekspulsion de los djidios de Espanya
» 169
Leonardo Piasere L’invezione di una diaspora: i nubiani d’Europa
» 185
Andrea Zinato “A vié un judío en essa judería/ sabié él cosa mala, toda alevosía...”: l’identità e le parole dell’altro [atto primo: i regni cristiani nel Medioevo ispanico]
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Indice dei nomi
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DENTRO LA SOGLIA: MORI, GIUDEI E ZINGARI Felice Gambin
Il volume raccoglie gli interventi presentati al convegno tenutosi a Verona il 15 e 16 febbraio 2007 sul tema dei rapporti intercorsi nell’Europa sudoccidentale tra le comunità maggioritarie e tre importanti minoranze culturali: quelli che erano identificati come mori, giudei e zingari.1 I testi qui riuniti si soffermano su espressioni letterarie e fenomeni storico-culturali di diversa tipologia, con l’intento di ricostruire i processi di interazione e di incontro-scontro che, tra la fine del Medioevo e i primi secoli dell’Età moderna, hanno portato alla costruzione identitaria tanto delle società maggioritarie come di quelle minoritarie dell’Europa contemporanea. Arduo raccogliere la mèsse di stimoli e suggerimenti che sono venuti dalle due giornate del convegno. Pressoché impossibile contenere le molteplici direzioni metodologiche e gli apporti di studiosi di antropologia, di letteratura, di storia e di linguistica, di affermati e soprattutto di giovani studiosi. Giornate in cui è emersa la accattivante e intrigante complessità del tema affrontato. Non spetta ai promotori di un convegno misurare i risultati degli interventi, ma è forse doveroso collocare in maniera adeguata la poliedrica omogeneità che li contraddistingue, il loro tornare su snodi cruciali delle radici europee, il loro perlustrare aspetti considerati marginali e periferici soltanto perché più semplicemente sono ignorati. Non è un caso, allora, che il convegno abbia dato corpo a una molteplicità anche di voci, di suoni, di lingue diverse. Lingue dell’altro e nostre assai poco note e talora addirittura del tutto sconosciute ai più. Voci dell’altro che rivelano, come nel caso dell’intervento in giudeo-spagnolo di Elizier Papo, sonorità passate e presenti non disgiunte da un’alterità culturale più intima, e forse da sempre altra, comunque altrove.
1 Purtroppo, per ragioni diverse, nel volume non figurano gli interventi di Ivana Burdjelez, Gli ebrei di Ragusa sotto costante assedio, e di Andrea Zanardo, L’Italia dei ghetti. Il caso di Modena capitale (XVII secolo).
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Un destino, quello degli ebrei di Spagna, che si compie nell’arco di un secolo, fra il 1391 e il 1492. Cacciati dai Re Cattolici, la maggior parte di essi si disperde in Europa alla ricerca di una patria, lasciando così Sefarad o Al-Andalus o semplicemente la Spagna. Una numerosa comunità accolta con simpatia dalle popolazioni dell’Impero ottomano e dallo stesso sultano Bayazet II, che, vedendo sbarcare alcuni gruppi a Salonicco, si racconta come fosse stupito dalla stoltezza del re di Spagna che con l’espulsione arricchiva il suo nemico di sempre. Una decisione che poneva fine alla convivenza di “cristianos e moros e jodíos”, anche se contrassegnata da compromessi e intolleranze reciproche. Lo studio di Andrea Zinato, attraverso una campionatura di testi letterari, cerca di chiarire quali furono realmente i rapporti tra le comunità ebraiche e i regni cristiani della Spagna medievale. I testi presi in esame, da quelli di Berceo a quelli di Alfonso X, re di Castiglia e León, da Pero López de Ayala all’Arciprete di Hita, presentano un ben preciso e collaudato armamentario antisemita, implicito e esplicito, che intravede negli ebrei usurai senza scrupoli, individui subdoli e ingannevoli, spesso ritenuti empi, eretici ed esecutori della volontà demoniaca. Pregiudizi antigiudaici che gli autori del mester de clarecía e della poesía cancioneril ereditano e rielaborano, a testimonianza del deteriorarsi dei rapporti tra cristiani, ebrei e conversos negli anni che precedono l’espulsione del 1492. A rigore, l’invettiva contro ebrei e conversos, ricorrente e insistita, che va aumentando nel tempo, induce ad uno sguardo più ampio e complesso di quello della visione idealizzata di Sefarad, costruita successivamente dall’ebraismo spagnolo dell’esilio. Legati alle alterne fortune dei sefarditi sono i contributi di Elizier Papo e ˘ di Silvia Monti. Papo analizza alcune parti del Sebet Yehudah, un testo com˘ pilato in buona parte da Selom¯oh Ibn Verga. Membro di una importante famiglia della “djuderia” andalusa, l’autore nel 1492 si rifugia in Portogallo, poi è costretto ad emigrare in Italia, quindi in Turchia. L’opera, che narra le persecuzioni subite dagli ebrei in diversi paesi ed epoche, evoca nel titolo un versetto del Libro della Genesi dove si sostiene che “non sarà tolto lo scettro da Giuda, né il bastone del comando dai suoi discendenti” (IXL, 10). Un versetto di grandissima importanza e risonanza specialmente per gli ebrei spagnoli ˘ che si consideravano discendenti dell’antica tribù biblica di Giuda. Nel Sebet Yehudah si sottolinea, a più riprese, la diversità di trattamento che i sefarditi ricevevano nei regni spagnoli: essi erano stimati e onorati in quanto saggi e intelligenti da re, principi e nobili, mentre per il volgo essi erano i custodi di ogni infamia e un vero e proprio “antimodello” del paradigma cristiano. Secondo Papo, l’espulsione dalla Spagna degli ebrei, ossia della più importante e meglio radicata comunità ebraica dell’epoca, in quegli anni rappresentò, per XII
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le sue conseguenze politiche, filosofiche e teologiche, un dramma paragonabile soltanto all’olocausto. Tra le narrazioni delle persecuzioni subite, anche se talora come ricorda Papo esse sono frutto di un’immaginazione che “no tiene ni kavo ni ravo”, particolare significato ha l’improbabile dialogo che vede il re Alfonso, il saggio, discutere con un suo teologo di corte sul popolo ebreo. Un dialogo che cerca di cogliere in maniera obiettiva le ragioni dell’antisemitismo e individua come soluzione del “problem djudio” la separazione tra “stato” e religione, la distinzione tra la realtà oggettiva e razionale dell’amministrazione di un regno e la libertà, tutta soggettiva e privata, della libertà di coscienza. Sui sefarditi giunti in Italia, si intrattiene Silvia Monti. Il suo contributo focalizza la relazione tra il Retrato de la Lozana Andaluza e la realtà storica della città di Roma nella quale è ambientata. Il Retrato, scritto intorno al 1524 e pubblicato anonimo alcuni anni dopo da un chierico di origine cordovese, Francisco Delgado o Delicado, mette in scena le avventure di una bella andalusa giunta nella città capitolina dove per alcuni anni esercita la prostituzione e le arti di imbellettamento di cortigiane di alto e basso rango. Di questo singolare affresco della vita delle puttane nella Roma cinquecentesca, scritto in una prosa gagliarda e volutamente ambigua, Monti si sofferma sugli elementi che evocano l’appartenenza della giovane andalusa alla minoranza sefardita, esplora l’ambiente caratterizzato dalla commistione di ebrei o conversos di origine iberica, di giudei e cristiani che interagiscono tra di loro. Un ambiente che, soprattutto nelle prima parte, delinea una sorta di epopea antieroica dell’esilio, una lettura in chiave tragicomica della diaspora degli ebrei sefarditi nella Roma dei primi anni del Cinquecento. Pure il destino di mori e moriscos racconta di intolleranze e compromessi, di conversioni, quasi sempre forzate, di scambi e di interazioni, di timori e paure reciproche. Anche da un punto vista letterario, come documentano i lavori di Stefano Neri e di Antonella Gallo, possiamo riscontrare i cambiamenti avvenuti tra la caduta dell’ultimo baluardo musulmano, Granata nel 1492, il decreto regio del 1502, che impose loro la conversione al cattolicesimo o l’esilio, le molte rivolte moriscas, la loro definitiva espulsione avvenuta tra il 1609 e il 1614. Stefano Neri ripercorre l’episodio relativo al tema della prigionia e riduzione in schiavitù in terre musulmane del protagonista di uno dei romanzi cavallereschi spagnoli più diffusi del Cinquecento: il Lepolemo o Caballero de la Cruz. L’infanzia del futuro paladino della cristianità in terra infedele e il capovolgimento in senso realistico dei suoi primi anni di vita rappresentano un’innovazione. Di fatto, il romanzo presenta un carattere precursore: l’argoXIII
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mento, evitato dagli altri esponenti del genere cavalleresco in quanto ignominioso e incompatibile con il destino eroico del protagonista, sarà ampiamente collaudato nella letteratura spagnola successiva a partire, soprattutto, dagli ultimi anni del XVI secolo. Lo studio di Antonella Gallo si centra su una commedia di Lope de Vega. L’opera è un esempio significativo di come evolve, agli inizi del Seicento, il genere delle commedie cosiddette “moriscas”. Il filone, inaugurato dalla novella anonima El Abencerraje (1551), crea e tramanda una visione idealizzata del moro, nobile, raffinato e sentimentale, in aperto e drammatico contrasto con la realtà storica di emarginazione sociale e politica vissuta dai discendenti degli arabi: i moriscos. Al di là delle ipotesi avanzate dagli studiosi sul senso e le ragioni della fioritura di tale letteratura, merita di essere sottolineato il fatto che Lope non prenda posizione, ma si limiti a rivisitare e a rielaborare una moda letteraria di grande successo, lasciando così inattingibile la vera e autentica identità culturale della comunità musulmana. L’intervento di chi scrive analizza il Tratado acerca de los moriscos di Pedro de Valencia. L’opera - scritta nel 1606, cioè pochi anni prima dell’espulsione della minoranza morisca - è profondamente in contrasto con la decisione, poi adottata dalla Corona, di espellere i moriscos e in evidente divergenza dalle pulsioni della copiosa letteratura apologetica che cercherà di giustificare la scelta del re Filippo III. Anche in questo discorso, come in altri scritti dell’autore, la ricerca erudita, filologica e storica va unita a un atteggiamento di distaccato scetticismo. L’opuscolo nasce da un bisogno di riforma della monarchia spagnola, dal problema sempre più acuto della povertà e della distribuzione della ricchezza, dal tema della giustizia, dal tentativo di conciliare, in un dialogo spesso intrigante e disatteso, le diverse culture della Spagna del tempo. I moriscos sono l’altro rispetto agli spagnoli, ma l’altro sul quale si proietta la costruzione della Spagna del tempo, la sua renovatio. L’altro e l’identico. Di particolare interesse il contributo di Nuria Martínez de Castilla Muñoz sulla letteratura aljamiada, cioè sui testi scritti a mano dagli ultimi musulmani spagnoli: i mudéjares e i moriscos. Sono circa duecento i manoscritti “aljamiado-moriscos” giunti fino a noi e si tratta quasi sempre di opere miscellanee, incomplete, prive spesso di titolo, sprovviste di luogo e data della trascrizione. Quello dei testi scritti in aljamía, ossia redatti in lingue romanze per l’appunto, in un lingua straniera, non araba - è un universo in buona parte ancora da studiare. Tali manoscritti sono la testimonianza dell’esistenza di comunità musulmane che si esprimono in una lingua romanza utilizzando caratteri arabi e che costruiscono la propria identità differenziandosi sia da quella islamica sia da quella che sta costruendo in quegli anni la monarchia spagnola. Merito di Martínez de Castilla Muñoz è mostrare l’importanza di una XIV
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ricerca complessiva sui codici a noi pervenuti, cercando di identificare il singolo manoscritto, di meglio precisare il contesto storico culturale nel quale ciascuno è stato scritto, di arguire dati socioculturali sul destinatario dell’opera, sulle sue finalità, sul copista o sull’esistenza, come sembra probabile, di veri e propri laboratori dediti alla trascrizione. Anche il saggio di Andrea Celli ha come oggetto di indagine la letteratura aljamiada, confermando, ancora una volta, come era già emerso grazie al lavoro di numerosi studiosi e di un importante dibattito internazionale, l’originalità culturale della Spagna rinascimentale e controriformista. La letteratura aljamiada, più che un semplice fenomeno di traduzione del patrimonio culturale musulmano in quello ostile ed estraneo della penisola iberica, più che un mero adeguamento dei contenuti e dei messaggi del patrimonio culturale islamico a una realtà ben diversa, rappresenta anche lo sforzo di praticare l’ortodossia utilizzando un universo linguistico che non è più quello della rivelazione coranica. Tuttavia, al di là di una difesa identitaria musulmana in un contesto sociale sempre più sfavorevole, tale letteratura rivela pure una ben specifica esperienza di spiritualità. L’analisi di alcuni testi aljamiados lascia trasparire la natura spirituale, simbolica e mistica, del campo metaforico della sofferenza e della prigionia e avvicina la spiritualità morisca ad analoghe preoccupazioni presenti nella mistica cattolica precedente la Riforma. Ancor più peculiare, senza dubbio, l’alterità degli “zingari” nella costruzione identitaria dell’Europa tra la fine del Medioevo e i primi secoli dell’Età moderna. Difficile, come sottolinea Leonardo Piasere, “risolvere il problema dello loro assenza dallo Stato e contemporanea presenza nella società e nel mondo”. A conferma di come gli “zingari” irrompano sulla scena dell’Europa, e segretamente la percorrano, ora in modo silenzioso ora in modo rumoroso ma sempre ingombrante, come essi vengano “allegorizzati” a seconda delle esigenze del momento, possiamo leggere i contributi presentati in questo volume. Quello di Paola Ambrosi volge la propria attenzione alle prime testimonianze della presenza degli zingari nei territori iberici. Tali genti dall’origine incerta sono dapprima protetti da precise disposizioni regie, in seguito, con i Re Cattolici (1499), espulsi negli stessi anni della cacciata di ebrei e mori. Il ricco materiale legislativo, al di là del progressivo inasprimento delle pene in epoca moderna, testimonia come i gitani, un tempo considerati pellegrini e poi soltanto vagabondi e ladri, venissero inizialmente denominati grecianos e egipcianos. Il primo termine scompare già nei primi decenni del Cinquecento a favore del secondo che sopravvivrà fino alla fine dell’Ottocento. Una doppia dicitura attestata nella prima metà del XVI secolo anche in ambito letteXV
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rario, tanto è vero che i gitani sono ritenuti cristiani provenienti dalla Grecia - e quindi per l’appunto grecianos - anche in un’opera teatrale di Gil Vicente, dove peraltro alcune loro attività vengono già abilmente sfruttate in chiave farsesca. Leonardo Piasere analizza quello che si può definire uno dei primi trattati sistematici dedicati alle minoranze linguistiche europee: il De literis et lingua Getarum sive Gothorum. L’opera - stampata nel 1597 e che vede sulla scena tre professori dell’Università di Leida, Bonaventura Vulcanius, Giuseppe Giusto Scaligero e Franciscus Raphelengius - avanza fra l’altro la proposta, rigidamente basata su documenti lessicali, che tutti quei nomadi che gli “italiani chiamano cingari e gli spagnoli gitanos, cioè egiziani” siano in realtà costituiti da due gruppi diversi, l’uno eterogeneo, di origine autoctona e parlante una lingua artificiale, l’altro proveniente dalla Nubia e parlante nubiano. Un volumetto assai noto in ambito romologico in quanto consegna il primo dizionario rom pubblicato, ma opera assai interessante soprattutto perché, come sottolinea Piasere, l’“invenzione” di tale teoria, che considera i cingari nubiani che pur di restare cristiani hanno sopportato l’espulsione, comportava intriganti problematiche politiche, religiose e cosmologiche nell’Europa di fine Cinquecento. Benedetto Fassanelli s’intrattiene, con perizia e passione, su un fatto di “cronaca minore”: quello relativo agli atti del processo contro due cingani arrestati sul finire del Cinquecento a Montagnana, nel padovano, perché colpevoli di vagare nei territori della Serenissima sprovvisti del permesso di soggiorno. La posizione dei rei e quella del giudice evidenzia l’impossibilità di rompere la lente dello stereotipo criminale del cingano. Con efficacia Fassanelli rileva che il potere statuale - che tenta di regolamentare la presenza dei cingani, che de iure non esistono o, meglio, che finisce per individuare solo nel bando il luogo entro cui collocarli, e con lo status pertanto di banditi perenni - è incapace di cogliere la singolare e tesa visione del mondo che sostiene le parole degli inquisiti della città murata di Montagnana, e, soprattutto, di misurarsi con l’esperienza straniante dell’incontro con l’altro, con il “viver christianamente” di un cingano. Sulla complessità delle relazioni tra comunità maggioritarie e minoritarie, nello specifico quella dei gitanos sardi, si sofferma Massimo Aresu. L’alterità dei gitanos di stanza in Sardegna rispetto al resto del corpo sociale viene riproposta nei diversi provvedimenti legislativi che si susseguono nell’arco di due secoli, in linea con le direttive dei sovrani della casa d’Asburgo in territorio iberico. Aresu mette in evidenza come molti documenti testimonino pure modalità ben precise di acquisizione dello status di vecino o natural da parte dei gitanos sardi. La complessità delle relazioni d’appartenenza di tali gruppi, XVI
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che si snodano su un doppio binario (quello della salvaguardia dei meccanismi di aggregazione e discendenza familiare e quello del radicamento territoriale), è prova tangibile dell’inadeguatezza dell’immagine dello zingaro sradicato, in perenne conflitto e resistente a ogni forma di integrazione. Henriette Asséo indaga la permanenza sul territorio francese tra XVI e XVII secolo di gruppi familiari organizzati in compagnie e denominati bohémiens o egyptiens. Applicando un rovesciamento dell’abituale prospettiva costruita sulla triade erranza, marginalità, povertà, attraverso cui la storiografia tende a restituire l’immagine di una minoranza perpetuamente rigettata e perseguitata, l’autrice accerta attraverso quali congiunture si esplichi il radicamento territoriale dei bohémiens francesi. Il quadro che emerge non si esaurisce nelle istanze repressive, pur presenti, del potere e delle autorità municipali, e lascia affiorare la rete complessa di relazioni con la piccola nobiltà del tempo, sotto il cui patronage le compagnie hanno modo di stabilizzare la loro presenza sul territorio. Tale modello, ad un tempo familiare e militare, diviene un elemento costitutivo delle compagnie dei bohémiens, che in esso trovano la possibilità di assicurare l’identità collettiva del gruppo. Tutto questo fino a quando i mutati equilibri politici tra potere centrale e periferico non scardinarono le protezioni normalmente accordate. Le nuove ordinanze della seconda metà del XVII secolo sgretolarono il sistema di accoglienza e connivenze tra élites nobiliari e famiglie bohémiennes, segnando per queste ultime un definitivo mutamento delle condizioni di vita. Si diceva più sopra che il convegno ha dato corpo a una molteplicità di suoni e voci diverse, alle lingue dell’altro e nostre, mostrando come l’incontro-scontro tra ebrei, mori, zingari e società maggioritarie abbia prodotto contemporaneamente fenomeni di resistenza culturale dall’interno e fenomeni di costruzione identitaria dall’esterno. Un incontro-scontro avvenuto all’insegna del linguaggio, delle sue ricchezze, degli echi di solidarietà ma anche delle sue ambiguità e dei suoi elementi fortemente ideologici. Entro tali coordinate va letto l’intervento di Francesca Dalle Pezze sui dizionari spagnoli compilati fra Cinque e Seicento e che si potrebbe estendere ad altre lingue. Le voci che rimandano all’immagine del gitano, del judío e del morisco, rappresentano un vero e proprio compendio delle caratteristiche negative per le quali le tre minoranze vennero stigmatizzate ed emarginate. Gli stereotipi tradizionalmente attribuiti ai tre gruppi etnici, diffusi e minacciosi, spaziano dal tradimento alla cupidigia, dal sacrilegio all’inganno, dalla menzogna alla non sedentarietà. E nondimeno, il difficile rapporto fra la lingua della comunità dominante e le lingue minoritarie delinea l’ambivalenza del “conflitto tra culture”: se da un lato i lessicografi diffidano dell’oscura e incomprensibile lingua dei gitani, XVII