Beverone fine anni ‘40 2
C’era una volta… a Beverone “Cosa ho fatto in tempo a vedere”
Sergio Antognelli
Indice
Introduzione…………….…...….......
pag. 7
La strada……………………….…...
pag. 22
L’acquedotto…….………......….…...
pag. 26
L’energia elettrica……………….…..
pag. 32
I telefono…………………………....
Pag. 40
Il lavoro nei campi……………….….
pag. 42
Il taglio dell’erba………....…………..
pag. 48
Il taglio della legna.………………......
pag. 57
Il campanaro………..…………..........
pag. 61
I pastori……………………………..
pag. 62
La filatura della lana……..…….......…
pag. 64
Gli scarponi.………………………...
pag. 66
Il pane fatto in casa……...…………..
pag. 68
Il mais...……...……………....……....
pag. 80
4
I fagioli……………………………...
pag. 85
Le castagne….…………….…...….....
pag. 90
I cibi di una volta……..……...……...
pag. 95
Il formaggio…………………….…..
pag. 99
La festa del paese. ………………….
Pag. 102
Com’era Beverone.………………......
pag. 112
Persone nella storia……….……......
pag. 124
Il Seminario……………………........
pag. 159
Memoria di don Antonio Beverinotti..
pag. 164
Album degli oggetti ritrovati………...
pag. 169
Amelio…………...……………….....
pag. 187
Un cuore grande…………....…….....
pag. 201
5
Un sincero ringraziamento a quanti hanno cortesemente collaborato nel: mettere a disposizione documenti, raccontare episodi, mettere a disposizione oggetti da fotografare.
6
Introduzione A volte mi chiedo quanto tempo sia passato da quando ero un ragazzo ad ora. Sembrerebbe facile la risposta, ma non è così; ripensando a come era la vita a Beverone potrebbero essere passati molti anni in più di quanto sia in realtà. Sembrerà banale dirlo, ma è veramente cambiato il mondo, o per essere più precisi, il mio mondo, quello del mio piccolo paese. Mi è venuta la voglia di ripensare e raccontare qualcosa di quei tempi, ma a chi potranno interessare queste piccole storie? Potrebbero interessare a persone della mia età e dei miei posti, ma mi sono accorto che sempre meno persone hanno voglia di leggere. Potrebbero interessare ai vecchi abitanti di Beverone, perché mi potrebbero dire: “Ti sei dimenticato questo, quest’altro non era come hai scritto, aggiungi questi particolari…”. Sono interessati a me, perché ho rivisto mentalmente paesi, persone, luoghi, oggetti, attrezzi, case. Che ne sarà di Beverone? Chissà come cambierà il mondo fra cento anni, o dieci, o solo due o tre;
7
ci sarà ancora un posto per Beverone? Non si sa di preciso quando il primo uomo sia arrivato su questo monte, anche solo di passaggio, magari con la sua lancia con la punta di pietra scheggiata, o con arco e frecce, sempre con la punta di pietra, all’inseguimento di una preda che per sfuggirgli si era inerpicata su per i dirupi rocciosi; o anche alla ricerca di frutti spontanei, radici, o germogli che gli offriva il bosco. Non si sa di preciso quando anche solo un piccolo gruppo decise di fermarsi su questa altura, ma di sicuro svariati secoli fa, più di quanti possiamo immaginare, e forse un giorno si scopriranno le prove; il ritrovamento di castellari in luoghi vicini a Beverone, aventi caratteristiche molto simili, fa supporre l’esistenza di qualcosa anche sul nostro monte. Un ulteriore indizio sono le numerose nicchie scavate sulla roccia viva, certamente opera dell’uomo, ma di cui ancora non si è trovata una spiegazione. La forma caratteristica del monte Beverone è quella di una mezza sfera, ma siccome il riferimento geometrico è un po' freddo diciamo che sembra una mela. A poca distanza da Beverone c’è il suo amico inseparabile, il Monte Nero. Visto da Beverone la
8
forma del Monte Nero è a cono, e in questo caso si può dire che è a forma di pera, sopra la quale da poco più di cento anni vi è stata posta una croce di ferro. Il monte Beverone è coltivabile ed è stato coltivato in tutti i suoi versanti, compreso quello roccioso, anche se in parte, che però è un lato particolarmente baciato dal sole e produttivo chiamato “La Pena”. Oggi non è più possibile vedere il grande numero di campi coltivati fino agli anni ’50-‘60, perché i boschi se ne sono riappropriati. Il Monte Nero è formato prevalentemente da diaspro e in nessun lato vi sono segni di luoghi coltivati, anche se i nomi di due luoghi potrebbero far pensare il contrario: “Piana de Pieo” cioè piana di Piero, che è una delle poche aree pianeggianti, ma a memoria d’uomo non si ricorda che vi fossero coltivazioni. Poi c’è la “Piana de Ğiorti” (Piana degli Orti), una piana grande come un campo di calcio, luogo non ancora ben studiato che nasconde certamente qualche segreto, ma che nonostante questo nome non riguarda l’agricoltura. Il Monte Beverone offre una delle viste più belle della Val di Vara, di conseguenza può essere visto da altrettanti luoghi. Non mi ero mai accorto di una sua singolare caratteristica, e fu don Calzetta a far-
9
mela notare. Egoisticamente potrei dire che don Calzetta era particolarmente affezionato a Beverone dove era stato parroco per quasi sei anni, ma non era così, perché don Eugenio era molto affezionato a tutta la Val di Vara, anche ai paesi dove non era stato parroco, dove conosceva appena qualche persona. Una volta mi telefonò dicendo: “Indovina un po' dove sono?”. Era a Borghetto e mi spiegava di come si vedeva bene Beverone, inteso non come paese, ma come il monte rotondo con la chiesa e il campanile da un lato. Poco dopo mi ritelefonò da Cavanella e quasi meravigliato mi disse che gli sembrava impossibile che dopo aver fatto mezzo giro attorno a Beverone, sembrava che il monte avesse ruotato assieme a lui per fargli apparire la stessa visuale. Non si può dire altrettanto del Monte Nero; visto da Beverone ha la classica forma a cono, però a circa cento metri dalla vetta principale, nel lato opposto a quella che si vede da Beverone, vi è un’altra vetta più bassa di pochi metri, e così cambiando prospettiva sembra più alta ora una ora l’altra, ed assume un aspetto sempre differente. Il monte Beverone e il Monte Nero sono ben visibili da tutta la Versilia, e proprio il vederli da quell’ango-
10
lazione, quella piccola mela e quella piccola pera, affiancati, mi ha fatto riflettere su cosa potessero aver pensato gli astronauti quando videro dallo spazio quella sfera, o se vogliamo mela, che era la terra. Chissà se pensavano a quante persone vivevano laggiù, cosa facevano, la notte, il giorno, le loro famiglie. Io nel vedere da lontano quei due piccoli monti ho pensato a chi ho conosciuto durante la mia vita, e a chi vi aveva vissuto prima di me per tanti anni: come avevano fatto a sopravvivere sopra quella piccola mela per molti secoli, gli anni di siccità, gli anni di maltempo, le carestie, come facevano ad accendere il fuoco, come si curavano dai malanni, come si vestivano, come si procuravano gli attrezzi da usare nei campi e nei boschi. Oggi noi abbiamo a disposizione vari negozi in cui trovare tutto ciò di cui abbiamo bisogno, unico problema: avere i soldi. Basta andare indietro anche meno di un secolo per accorgersi che, rispetto ad oggi, vivere nei piccoli paesi era come vivere in un altro mondo. Occorreva essere autosufficienti per ogni necessità, al massimo per qualche esigenza particolare si poteva andare nei paesi vicini. La sola ricchezza che si possedeva nei paesi erano i prodotti che si riusciva ad ottenere dal lavoro nei
11
campi e dal bestiame. L’orario di lavoro era quello del sole, a parte le ore calde dell’estate in cui si poteva riposare, ore di riposo ricompensate con levatacce al mattino e il lavorare fino a tardi la sera. C’era il rispetto della domenica, tutti alla messa, credenti o meno, era un fatto sia religioso che di comunità. Sono nato nel ’51, uno degli anni di confine del modo di vivere in campagna; chi è nato anche solo pochi anni prima di me ha provato molto più di me certe esperienze, però appartengo ad un periodo in cui erano ancora vive le tracce del “Tempo passato”, e sono riuscito ancora a vedere e in parte a provare come si viveva in quello che era il mio piccolo mondo. Ricordare quanto ormai era agli sgoccioli della propria esistenza, quel mutare lentamente negli anni, e possiamo dire pure nei secoli. Nell’immediato dopoguerra il cambiamento più importante fu che finalmente la guerra era finita, e tutte le energie erano indirizzate soprattutto alla ricostruzione: città semidistrutte, ponti bombardati, cibo e indumenti scarsi, soldi che mancavano, emigrazione. Per dare un’idea di quanti vestiti potessimo avere, ricordo che quando avevo attorno ai dieci anni portammo da Rocchetta
12
al paese il nostro primo armadio, a piedi in salita su per la selva. Aveva una sola anta, mio padre portò l’armadio, mia madre la porta che all’esterno aveva lo specchio, e io portai l’unico cassetto. In quell’armadio, che prima non avevamo, ci stavano comodi tutti i vestiti della nostra famiglia. Stranamente da come potrebbero pensare coloro che quel periodo non lo hanno vissuto, o forse soltanto sentito raccontare, fu un periodo felice. Nonostante gli infiniti problemi che si dovevano affrontare si lavorava duro e si sperava molto in un mondo migliore. Cambiamenti ce ne sono sempre stati, basta leggere la storia dell’uomo, però si potrebbe dire con una certa gradualità, piano piano. Con gli anni ’60 (detto anche il decennio del cambiamento), e non solo in Italia, si susseguirono tantissimi avvenimenti e mutamenti in diversi campi, e tanto per fare una breve carrellata: il modo di vivere e lavorare nelle campagne e nelle città, la riforma della scuola, papa Giovanni XXIII (il papa buono), il Concilio Vaticano II, John F. Kennedy, Martin Luther King, la guerra nel Vietnam, la primavera di Praga, il primo trapianto di cuore, la musica, invenzione del primo personal computer (Italia), il primo uomo nello spazio ‘61, la prima
13
donna nello spazio ‘63, il primo uomo sulla luna ‘69, frigorifero, lavatrice, il boom economico, il primo laser, Marylin Monroe, i Beatles, i Rolling Stone, il ’68, i capelli lunghi, le minigonne… Io ho vissuto la mia gioventù nei “favolosi” anni ’60. Poi in seguito ogn’uno definì “favoloso” il proprio decennio, ma penso che gli anni ’60 rimarranno per un bel po’ irripetibili. Pur vivendo in un piccolo paese il vento del cambiamento di quel periodo era arrivato anche a Beverone; mi era stata regalata una chitarra che da autodidatta provavo a strimpellare. Ero il solo ad averla, e dopo aver imparato qualche accordo facevo da accompagnamento a tante belle serate, soprattutto nel periodo estivo, quando arrivarono i primi villeggianti. Spinto dall’entusiasmo giovanile scrissi qualche canzone, per lo più ispirate dall’affetto per il mio paese, e fra queste “Sono stato a Beverone”, che scrissi in pochi minuti, come se mi fosse stata dettata. Rileggendola oggi mi mette tristezza, e per la verità ricordo che me la mise pure allora, come se fosse stata scritta da un altro. Anche se al momento nessuno lo pensava o immaginava, io compreso, in quelle parole vi era una specie di premonizione sul graduale spopolamento a
14
cui erano destinati questi piccoli borghi; ancora non lo sapevamo, ma quelle estati pian piano sarebbero diventate meno affollate; dopo cena, quando diventava buio, non ci sarebbero piĂš state le scorribande di chi giocava a nascondino, non si sarebbe piĂš acceso il giradischi per serate da ballo improvvisate, non ci sarebbero piĂš stati tanti altri giochi, e poi alzarsi un po' rintronati al mattino presto noi del paese che dovevamo fare i vari lavori nei campi.
Beverone e il Monte Nero in lontananza visti da Marinella
15
Sono stato a Beverone Sono stato a Beverone tanto tempo fa, quanta gente strana che ho visto tutta gente di paese. Non c'era strada né bottega acquedotto e telefono, non c'era quello che c'è in città però c'era la felicità.
Gli uomini a lavorar nei campi una gallina in mezzo all'aia, delle donne alla fontana e i bambini a pascolar. Ho visto un vecchio col bastone che mi raccontò con voce lenta, storie di fame e di guerra storie della sua gioventù.
16
Son tornato in quel paese ora ho qualche anno in più, anche qui il tempo passa e il progresso mette la sua firma. D'inverno c'è poca gente quasi tutti sono anziani, d'estate poi si ruberà la loro amica tranquillità.
Prima si sentiva dire che qui il tempo s'era fermato, si arrivava qui per caso ci si lasciava un po’ di cuore. Però se tutti noi lo vogliamo si può salvare ciò che è rimasto, basta essere tutti parte attiva in questa piccola comunità.
17
A Beverone con i ragazzi e la chitarra
18
Il Monte Nero. Sulla destra il grande pino domestico, una delle nostre “cartoline�.
19
La Croce del Monte Nero
20
Tramonto visto dall’oratorio di S. Andrea Il Monte Nero e Beverone visti da Borghetto
21
La strada Il paese più vicino era a circa quattro chilometri di strada sterrata detta mulattiera. Ovviamente nessuno possedeva un’auto, ed era normale spostarsi fra un paese e l’altro sempre a piedi. Agli inizi degli anni ’60, per la precisione penso che fosse il 1963, la strada arrivò anche da noi. L’artefice principale fu un giovane parroco che bussò a varie porte sia in provincia che a Roma per ottenere i soldi necessari per costruire un tracciato fra campi e boschi, con non poche difficoltà e non solo economiche, perché la strada faceva comodo a tutti, ma non tutti erano disponibili a sacrificare un po’ di terreno perché allora i campi si lavoravano ancora. Alla meglio la strada fu terminata, ma rimase sterrata per più di dieci anni; facile da percorrere durante l’estate o comunque con il tempo bello, ma problematica in inverno, con il fango che ci bloccava, in particolar modo nelle salite più ripide; quante volte lasciavamo le auto impantanate e proseguivamo a piedi.
22
Questa strada ci collegava con il paese di Veppo, in seguito ne furono costruite altre due che ci collegavano con Garbugliaga e Stadomelli. La medaglia del primo mezzo a motore che raggiunse Beverone utilizzando la strada di Veppo spetterebbe a un parente della nostra paesana Milietta, però il tracciato non era ancora completato perchè mancavano alcune centinaia di metri; siccome il mezzo a motore era una moto fu facile arrivare a Beverone utilizzando nell’ultimo tratto il percorso che facevamo a piedi. A questo punto il record non potrebbe dirsi valido, ma fino a che non troveremo chi fosse stato il primo che giunse a Beverone con il tracciato completo, escludendo dai concorrenti Giovanni di Cassana che guidava la ruspa, concediamo al motociclista la medaglia di primo arrivato.
23
Sergio e Andrea. La prima auto di Andrea - 600 Fiat
24
Le prime auto a Beverone
25
L’acquedotto Pure di acquedotto non se ne parlava, si doveva andare alla “Funtana” a circa 400 metri dal paese, discesa andata e salita al ritorno. Gli uomini portavano due secchi per volta, agganciati a un bastone “Bastùn” ricurvo appoggiato su una spalla, con una scanalatura sulle due estremità, sulle quali erano agganciati i due secchi. Quando avevo poco meno di diciotto anni, per guadagnare qualcosa, con mio fratello e un mio paesano andammo a vendemmiare nell’Oltrepò Pavese, e lì ritrovai questo bastone ricurvo, questa volta per trasportare uva anziché acqua, loro lo chiamavano “Bàsul”. Le donne che staccavano l’uva dalle viti la mettevano in un cesto detto “Cavagn”. Il nostro compito era quello di ritirare le cavagn piene di uva portandone due per volta agganciate al bàsul, restituendo quelle vuote che avevamo svuotato sul trattore. Quando il cesto era quasi pieno per richiamare la nostra attenzione gridavano: “Cavagn!”, sia per farsi sentire da noi, e forse per farsi sentire anche dal padrone, per dimostrare che lavoravano e non se la prendevano comoda. Appena tardavamo pochi atti-
26
mi nell’andare a ritirare la cavagn piena e ridare indietro un’altra vuota, ne approfittavano subito per rimarcare: “Giovanotto, ma non la vuole la mia cavagn?”, ridacchiando per il nostro imbarazzo per il sottile ma non troppo sottinteso. Alla fontana vi era pure una grande vasca dove le donne del paese andavano a lavare i panni. I panni dovevano essere lavati anche in inverno, e non so come noi oggi, dotati di lavatrici e asciugatrici, possiamo comprendere le fatiche di quelle donne che dopo aver lavato i panni, cariche come muli, portavano un secchio in equilibrio sopra testa, con un braccio trattenevano il catino con i panni lavati, e all’occorrenza portavano con l’altro braccio un figlio troppo piccolo per lasciarlo solo a casa. In ogni casa un secchio pieno d’acqua era adibito a dispensatore di acqua da bere per tutti. Vi era un mestolo di alluminio o rame agganciato al bordo, si attingeva l’acqua dal secchio e si beveva. Poi arrivarono i tempi per poter avere un acquedotto anche a Beverone. Fu individuata una sorgente che si trovava ai Casoni, ben più in alto di Beverone, in località Ghiacciarna, alle “quattro fontane”. Per interrare i tubi di ferro fu fatto uno scavo
27
completamente a mano, a pala e picco. La ditta appaltatrice divise lo scavo in diversi lotti che furono assegnati a diverse squadre, e fra di loro vi erano anche dei beveronesi, alcuni poco più che ragazzi. La lunghezza dell’acquedotto era sette chilometri. Il progetto fu realizzato dall’ing. Loni. Era il 1966 e finalmente arrivò anche da noi l’acqua corrente. L’acquedotto si fermò all’inizio del paese, perché bisognava affrontare i vari problemi degli attacchi alle varie case, e in più c’era da pensare allo scari-
La fontana e il lavatoio
28
Secchio zincato per portare l’acqua
Er bastun
29
co dell’acqua usata, quindi fognature. Ne fece le spese l’antichissimo selciato di pietre consunte da secoli di utilizzo, sostituite dal moderno cemento. Poi ognuno nella propria casa si organizzò per l’impianto idraulico, perché fino a quel punto si usavano solo secchi o catini.
Il portatore di acqua dalla fontana
30
La portatrice di acqua dalla fontana
31
L’energia elettrica A Beverone l’energia elettrica arrivò all’inizio degli anni ’50. Il suo utilizzo riguardava esclusivamente l’illuminazione, perché gli elettrodomestici non sapevamo ancora cosa fossero. Gli impianti elettrici erano esterni, con i fili intrecciati ricoperti da gomma che col tempo si screpolava, avvolti in una calzetta di cotone. I fili erano sorretti da cilindretti di porcellana, impiantati alle pareti con robusti chiodi; interruttori e poche prese anch’essi di porcellana. Le lampade erano da 15 candele o poco più, e i lampadari erano uguali per tutti: un piatto bombato di ferro smaltato. In seguito fu messa anche l’illuminazione pubblica, composta da due lampioni a braccio, anch’essi con lampade di bassa potenza, ma sempre molto meglio che spostarsi al buio. Non vi era ancora il crepuscolare per la loro accensione; fu messo un interruttore sul pianerottolo della famiglia Beverinotti, e loro provvedevano ad accendere e spegnere le due lampade il mattino e la sera. Nei tempi attuali ci sembra impossibile poter vivere senza energia elettrica, e in particolare ce ne accorgiamo quando avvengono dei blackout anche
32
brevi, senza parlare di quelli che durano ore se non giorni. A Beverone non sono ancora trascorsi settanta anni dal suo arrivo, ma non è che nel resto del mondo fosse arrivata molto prima, basta ricordare che Edison fece i primi esperimenti per l’accensione delle prime lampadine elettriche attorno al 1880, che può sembrare tanto tempo, ma poco per la storia dell’uomo. Ma prima come facevano i nostri antenati? Pensando all’illuminazione delle case, quando terminava quella del sole, ho provato a chiedere ai pochi paesani rimasti cosa usavano per avere un minimo di luce durante la notte. Alcuni usavano le lampade al carburo o acetilene, che detto in breve funzionavano tramite la combustione dell’acetilene che è un gas prodotto dalla reazione chimica generata dal contatto dell'acqua con il carburo di calcio, ottenendo una fiammella che dava una luce più chiara delle precedenti lampade a petrolio. A parte il costo per l’acquisto della lampada, il carburo costava meno del petrolio. Altri usavano le lampade a petrolio: un bulbo contenente il combustibile, in cui era immerso uno stoppino che in piccola parte, quella che produceva la fiamma, fuoriusciva dal bulbo del combustibile ed entrava in un coprilampada in vetro aperto
33
alla sommità. Altri ancora usavano le lampade a olio: dei contenitori di materiale vario, dal ferro all’ottone alla terracotta. A parte il materiale e la forma, che poteva essere molto semplice o molto elegante in base alle possibilità dell’acquirente, avevano un beccuccio laterale in cui era inserito un piccolo stoppino che una volta acceso produceva una fiammella tenuta viva dal liquido attirato in superfice per capillarità. Mi sono chiesto se questo valeva per i miei nonni e prima ancora. Ho trovato che la lampada a carburo fu inventata attorno al 1900, quindi in un periodo recente. La lampada a petrolio non ha molti anni in più perché fu presentata per la prima volta all’esposizione di Parigi nel 1867. La lampada a olio invece risulta utilizzata già al tempo degli egizi. Sono da ricordare anche le candele, che come sistema di illuminazione, al pari delle lampade a olio, è molto antico, però sono meno pratiche rispetto alle altre fonti ricordate. Voglio ricordare che tutte queste fonti prevedevano una seppur piccola spesa, quindi in tempi in cui di soldi “non ce n’erano” o comunque erano molto ma molto pochi, nelle sere di veglia ci si accontentava del bagliore del fuoco dei focarili, attor-
34
no ai quali ci si radunava anche per ottenere un po' di caldo; ma anche questa è una di quelle storie che va bene raccontarla, ma averla vissuta, e io non l’ho vissuta ma ho appena potuto vederla e sfiorarla, è un altro paio di maniche.
Portacandela o bugia
35
Lampada a petrolio
36
Lampada a carburo o acetilene
37
Piatto smaltato
38
Contatore e impianto elettrico
Isolatore in legno
39
Il telefono Fra tutte le comodità che potevamo desiderare non avremmo messo certamente al primo posto il telefono, da intendersi come telefono pubblico, ad uso di tutti. Pensare come funziona oggi la telefonia… ma per quei tempi anche quello era un gran lusso. Anche il primo telefono fu messo nella casa dei Beverinotti. Quando arrivava una chiamata per qualcuno la Giulietta si affacciava alla finestra del primo piano e a gran voce chiamava l’interessato. Per avere una certa privacy fu montata una cabina, sempre dai Beverinotti. Poi il posto pubblico fu trasferito da Milietto, che aveva anche una piccola bottega di generi alimentari. Non ricordo l’anno preciso in cui fu possibile fare la domanda per un telefono personale, cioè dopo che fu posato un cavo con più coppie di fili, ma il solo telefono pubblico per tutti durò perlomeno fino alla seconda metà degli anni ’70.
40
La vecchia insegna del telefono pubblico
41
Il lavoro nei campi I campi venivano lavorati con la vanga, oppure con una zappa bidente che noi chiamavamo “Rampùn”, oppure se i campi era di grandi dimensioni intervenivano i buoi. Ho visto lavorare l’ultima coppia di buoi a Beverone, era il 1968-69. Questi animali vengono accoppiati con il giogo al quale si aggancia l’aratro, o anche la “Bena” e la “Traggia” per il trasporto di letame, fieno, e i vari prodotti dei campi. Avevamo pochi attrezzi a disposizione, in generale avevamo poco di tutto, perché come si diceva allora “sodi ne ghe n’è”. Quando si doveva togliere le patate interveniva tutta la famiglia, e si usavano i rampùn. Magari avessimo avuto degli attrezzi con dei bei denti; avevamo diversi rampùn, ma la maggior parte aveva i denti troppo consumati e così per conficcarli nel terreno anziché un colpo spesso se ne dovevano dare due. Vi era ancora l’usanza di andare a giornata da chi aveva bisogno di coltivare i campi. Si andava con i propri attrezzi, vanghe o rampùn, normalmente chi prendeva i lavoratori a giornata provvedeva anche al pranzo, spesso portato direttamente nei campi per
42
non perdere tempo per andare e tornare da casa. Non c’erano i “voucher”, la tariffa era comune nei vari paesi, poi ci poteva essere qualche persona generosa che vedendo l’impegno e la quantità del lavoro svolto pagava l’intera giornata, anche se non era ancora terminata, comunque casi abbastanza rari. Mia madre raccontava di uomini che chiamavano “zappin”; venivano da altri paesi e dovevano avere un grande allenamento per zappare o vangare tanti giorni di fila senza tregua. Faceva comodo andare a giornata perché era l’occasione per guadagnare qualche lira, ma non erano tante le persone che si potevano permettere di prendere uomini a giornata. La maggior parte dei prodotti dei campi, compresa la legna da bruciare, venivano trasportati in spalla dagli uomini o sopra la testa dalle donne. Per trasportare pannocchie di mais, uva, fagioli, patate, letame, in pratica tutte le minutaglie, veniva usata la “pagnea” dalle donne, e la “corba” dagli uomini. Erano ceste costruite con striscette di legno di castagno intrecciate. Le donne trasportavano tutto sopra la testa, la pagnea, secchi d’acqua, mazzi di fieno, tronchi o fascine di legna, e sempre in equilibrio, raramente tenendo il carico con una mano. Gli uomini
43
trasportavano quasi tutto sul dorso, all’infuori degli oggetti di una certa lunghezza, come tronchi di legname, travi o altro, che venivano portati sopra una spalla. Fra la testa e l’oggetto da trasportare, a parziale protezione, le donne frapponevano uno straccio arrotolato detto “varcu”. Fra la corba e il collo gli uomini frapponevano il “pağetu”, una vecchia giacca arrotolata in un modo particolare. In entrambi i casi serve allenamento e resistenza alla fatica, non solo fisica ma anche mentale. Ricordo quando d’estate dovevamo portare il fieno dai prati ai fienili, con Beverone lassù in alto e i campi sempre in basso, trasportare tutto in salita, a volte con la minaccia dei temporali estivi, come formiche che cercano di riempire il granaio per l’inverno, avanti e indietro senza sosta; e strano a dirsi, ma lo rifarei volentieri.
Rampùn
44
La traggia “A traza”
I buoi “I bё”
45
Bena
Gina con la pagnea
46
Corbe Pagnea
47
Il taglio dell’erba Per tagliare l’erba che sarebbe diventata fieno si usava la frullana da noi detta “Feru”, attrezzo usato nei prati; per i “Pozi”, cioè le piccole scarpate fra un campo e l’altro, intervenivano le donne con le falci “Messua”. L’utilizzo della frullana richiede una tecnica che si acquisisce dopo un lungo uso. L’attrezzo va tenuto con le due mani, spostandolo da destra a sinistra, accompagnando il movimento delle braccia con la rotazione del busto. Si prosegue a brevi passi lungo il prato da falciare, facendo un percorso abbastanza diritto andata e ritorno. Il feru ha una forma leggermente arcuata e così, mentre si falcia l’erba, oltre che essere tagliata viene spostata a sinistra di colui che falcia. Continuando il percorso si viene a creare un lungo cumulo che noi chiamavamo “andana”. Quando si farà il percorso inverso l’andana aumenterà di volume perché sarà composta anche da questa seconda striscia di erba tagliata. Forse più facile a vedersi che a spiegare, ma per niente facile da eseguire. Il ferro ha un filo tagliente quasi come quello di un rasoio, basta poco perché perda la sua efficacia:
48
un sasso, qualche stecco, oppure soltanto il continuo taglio dell’erba. Quindi prima di iniziare il lavoro ci si legava alla cintura un corno di bue che fungeva da contenitore per la mola di pietra e l’acqua, perché la mola detta “fietta” era ad acqua. Quando la falce della frullana incominciava a perdere il filo ci si fermava, si estraeva la fietta bagnata, e con rapidi movimenti, con le dita che scorrevano velocemente da destra a sinistra a pochi millimetri dalla falce, si ravvivava il filo, e poi avanti verso nuove andane. Qui mi piace raccontare una delle piccole evoluzioni che non passeranno alla storia, ma hanno fatto parte della nostra piccola storia. Il peso del corno, la fietta e l’acqua, aggiunto al fatto che mentre si taglia l’erba è un continuo ruotare del busto, così il corno sbatte un po' di qua e un po' di là, e non si poteva lasciare il corno appoggiato per terra da qualche parte, perché la fietta si doveva usare spesso, e nel momento che serviva era più comodo averla sotto mano e non a decine di metri di distanza, e così era e così si doveva fare. Così una prima evoluzione fu che il corno fu sostituito da un fodero di latta zincata, più leggero e ridotto di dimensioni.
49
Questa evoluzione risale probabilmente al periodo che seguì la seconda guerra mondiale, quindi per la storia recentemente. Poi il fodero fu costruito in plastica, ma a quel punto mancava poco all’impiego delle falciatrici a motore. Anche il feru ebbe una evoluzione, in particolare il manico. Prima veniva costruito in legno con una leggera curvatura, ed aveva due impugnature per le due mani, una in alto, e una al centro con la sua particolare forma a elle. In basso veniva inserito il ferro, bloccato al manico tramite un anello particolare e un cuneo. Negli ultimi anni questo manico si trovava facilmente in commercio, costruito in ferro, abbastanza leggero, in pratica un tubo schiacciato a sezione ovale. Ricordo le donne che tagliavano l’erba nei poggi, in equilibrio precario per non capitombolare in basso, spesso attorniate da sciami di tafani, disturbatori e dissanguatori instancabili di bestiame e persone. Tagliavano veloci in un modo che se non si vede non si può immaginare; da una parte la falce e dall’altra la grossa manciata d’erba tagliata. Poteva accadere che il movimento veloce della falce poteva essere dirottato da uno stecco o un sasso nascosto fra l’erba, e così la falce ben affilata causava un taglio
50
nella mano che raccoglieva l’erba; per cercare di fermare il sangue e disinfettare la ferita, ovviamente senza smettere di lavorare, il cerotto più comunemente usato era una foglia di vite, meglio se con ancora presenti le tracce di verderame. La sola manutenzione che serviva per il feru e la falce era che ogni tanto bisognava fare la battitura. Si usava un attrezzo di ferro detto “Ancüzena” su cui si poneva la falce della frullana o la falce usata dalle donne, e poi si batteva con un apposito martello in modo da far diminuire lo spessore del taglio, che poi era rifinito con la fietta, la già ricordata mola ad acqua. Poi arrivarono le prime falciatrici a motore e anche i decespugliatori, attrezzi molto molto più veloci, ma che facevano tribolare non poco quando non andavano in moto o per altri problemi meccanici.
Frullana-Feru
51
Messua
AncĂźzena
52
Cornu e fietta
53
Taglio dell’erba con il “feru” - Andrea
54
Taglio dell’erba moderno con falciatrice e macchina per piccole rotoballe
55
Fauzin
Suraccu
56
Il taglio della legna Tutto era cucinato nelle stufe a legna, e d’estate quando era proprio caldo spostavamo la stufa fuori casa, comunque al riparo da eventuali piogge. I quegli anni fecero la loro comparsa i primi fornelli a gas, a tre fuochi con la bombola, e fu una grande comodità, basta pensare come diventava semplice scaldare il caffelatte al mattino, oppure un caffè o un tè, quest’ultimo per lo più proveniente dall’Inghilterra dove la Milietta aveva dei figli. Oggi noi abbiamo vari tipi di riscaldamento che funzionano a metano, gasolio, pellet e altro. Ma prima il riscaldamento era soltanto a legna. Occorre precisare che l’uso principale della stufa era per cucinare, tanto è vero che ve ne era solo una in cucina e nelle camere di calore ne poteva arrivare ben poco. Volenti o nolenti eravamo più temprati alle basse temperature. Ricordo che da piccolo vi fu un inverno particolarmente freddo. Un paesano prestò a mia madre una bottiglia di ferro che la sera lei riempiva di acqua calda, così io e mio fratello quando andavamo a letto mettevamo sopra di essa i nostri piedi, ma la bottiglia era solo una e solo per noi due.
57
Ognuno aveva i propri boschi e si tagliavano solo alberi secchi o malati, oppure ramaglie di potatura, perché per esempio i castagni periodicamente venivano ripuliti dai rami secchi. Per tagliare piccoli rami si usava il falcino “Fauzìn”, se si trattava di alberi allora si usava il saracco “Suraccu”. Per abbattere alberi o spaccare i tronchi si usava la scure “Següa”. Questi attrezzi sono semplici da usare solo in apparenza, perché per lavorare una giornata intera con essi serve l’allenamento e la muscolatura, inoltre se non si è esperti si corre il rischio di farsi del male. Il saracco poi è particolare perché va usato da due persone: uno tira da una parte e l’altro dall’altra, però nel momento che uno tira l’altro deve accompagnarlo con una certa pressione, né poca né troppa. Era fonte di reddito anche il taglio del bosco, principalmente pini. Venivano tagliati alla base a colpi di accetta, poi sempre con l’accetta si toglieva la scorza e i rami, infine si segavano a tronchi di due metri con il saracco. A questo punto a dorso di mulo venivano trasportati in un luogo detto “dalla teleferica”. Quando il quantitativo accatastato raggiungeva una determinata quantità, i tronchi di pino venivano caricati e legati su dei “carrelli” della teleferica, che
58
venivano poi scaricati in uno spiazzo in cui arrivavano i camion, che era nei pressi del bivio di Veppo. La teleferica funzionava per caduta: i carrelli carichi di legname andavano spontaneamente in discesa per legge di gravità, e nel frattempo i carrelli vuoti ritornavano in alto per essere nuovamente caricati. Beverone fu raggiungibile dai camion ben dopo gli anni ’70, quindi tramite la teleferica si potevano risparmiare parecchi chilometri ai muli, che avevano fatto già la loro buona parte di fatica per portarli all’inizio di essa, mentre prima che fosse costruita il tragitto che dovevano compiere era ancora più lungo. Le varie operazioni potevano essere compiute da più persone, così ognuno poteva guadagnare qualcosa, non un granché, però quando i soldi erano scarsi tutto faceva comodo. Negli ultimi periodi ho visto tagliare anche castagni per ricavarne tannino da usare nelle concerie di pellami, ed anche ontani per realizzare zoccoli. Rimanendo in tema di bosco, per pochi anni non ho fatto in tempo a vedere la produzione di carbone, ne ho sentito solo parlare. Ho visto il passaggio dal saracco alla motosega. La marca era McCulloch, gialla, e per chi sa usare o vede usare una mo-
59
tosega oggi sa che l’olio che lubrifica la catena vi affluisce in modo automatico, mentre in quella pioniera occorreva premere un pulsante posizionato accanto all’impugnatura ogni certo periodo di secondi, quindi come una pompetta a mano.
La bottiglia di ferro per l’acqua calda Següa
60
Il campanaro Finì anche l’era del campanaro. Chi si prendeva l’impegno lo doveva fare per tutto l’anno solare. Tutte le sere al calar del sole doveva suonare l’Ave Maria, con la campana grossa, e tutte le domeniche doveva suonare prima della messa. Per le feste grosse, come per San Giovanni il patrono o altre feste importanti, altre persone collaboravano per suonare in coppia, uno la piccola e la media, e l’altro la grossa facendola ruotare. Al campanaro spettava un compenso che non era gran cifra ma, come ho già ricordato, in quei periodi tutto faceva comodo. I campanari
61
I Pastori Ho vissuto anche l’ultimo periodo dei pastori, e per alcune estati l’ho fatto anch’io, solo d’estate perché d’inverno andavo a scuola. Ho fatto le medie a Brugnato poi le superiori a Spezia, riprova che il mio era un periodo di cambiamento, perché sono stato il primo ad andare oltre le canoniche elementari. Fra tutti i lavori quello del pastore non era il più pesante, e in genere erano i bambini o ragazzi non ancora in grado di fare lavori pesanti ad occuparsene. I pastori dovevano tener d’occhio il proprio bestiame, perché vi erano i campi coltivati che per il bestiame erano caramelle, poi vi erano luoghi dove tutti potevano portare il proprio bestiame, come i boschi comunali, ma per il resto ognuno aveva le proprie proprietà e i ragazzi o ragazze conoscevano bene i confini. Non di rado nascevano dispute, in particolare con i pastori del vicino paese di Veppo. Non era una nostra particolarità, ogni paese aveva dei paesi vicini, e le dispute non potevano che avvenire fra di loro. Negli ultimi tempi i greggi si erano ridotti a poche unità, di conseguenza non vi era più motivo di litigare per i confini perché per le pecore di erba da brucare ce
62
n’era ovunque. Solo dopo alcuni anni da quando di pecore non ce ne furono piÚ, ci siamo resi conto di quanto fossero importanti per mantenere i boschi puliti.
Pecora con il suo agnellino
63
La filatura della lana Ho fatto in tempo a vedere la filatura a mano della lana di pecora, le calze e le maglie di lana di pecora. L’ultima donna che ho visto filare la lana era di Garbugliaga. Fino a che le energie glielo hanno consentito, passando da quel paese spesso la vedevo pascolare le sue pecore, negli ultimi periodi mi sembra che ne avesse due, e nel frattempo che loro brucavano l’erba lei filava la lana oppure con gli appositi ferri faceva la calza. Le calze erano sopportabili, ma le maglie, e per maglie intendo le maglie della pelle, che per chi per propria natura non le sopportava era un continuo grattarsi. E pensare che Virgilio le portava anche d’estate dicendo: “Se difendono dal freddo difenderanno anche dal caldo”. La lana era usata anche per i materassi e per i cuscini, che a distanza di qualche anno dovevano essere scuciti, battuta la lana con la “Bàtua”, e dopo aver preso una giornata di sole ricuciti. Oggi, a parte alcune varietà particolari di lana, questa non viene più utilizzata, anzi è diventato un problema lo smaltimento. E pensare che in passato, non avendo a disposizione la lana, si facevano dei materassi con le
64
foglie delle pannocchie di mais, ovviamente più scomodi e anche rumorosi rispetto alla lana.
Calze di lana “Cauze de lana”
65
Gli scarponi Ho visto gli scarponi fatti a mano. L’ultima volta che li misi avevo attorno ai dieci anni. Andammo dal calzolaio a Veppo a farmi prendere la misura, che immagino fosse presa in “crescenza” per non doverne comprare un nuovo paio subito l’anno seguente. Da un paesano, Virgilio, già ricordato per le maglie di lana di pecora, imparai anche a fare delle piccole riparazioni, sia con lo spago trattato con la pece, sia con appositi chiodini, che se non erano ribattuti a dovere rovinavano i piedi. Anche quando gli scarponi erano consumati del tutto venivano conservati da qualche parte, perché con qualche toppa di tomaia si potevano fare delle riparazioni ad altri scarponi, oppure con parti delle suole consumate e strisce di tomaia, ho visto costruire delle ciabattine per bambine, quasi un lusso. Ricordo quel calzolaio di Veppo che mi fece gli scarponi, era un uomo di piccola statura, che per questo particolare era soprannominato “Reatìn”, corrispondente a scricciolo, uccellino molto piccolo.
66
Attrezzi del calzolaio: treppiede e lesina.
67
Il pane fatto in casa Pensando al pane fatto in casa descriverò brevemente il percorso per farvelo arrivare. La semina del grano veniva effettuata a spaglio, a mano. Si lega alla cintura una specie di bisaccia in cui si mettono alcuni chili di semi, che poi si spargono camminando avanti e indietro nel campo. A veder compiere questa operazione sembra che sia semplice, ma occorre esperienza perché i chicchi si devono distribuire uniformemente e non ammucchiati. Quando il grano era nato e le foglioline erano lunghe circa una decina di centimetri si effettuava la sarchiatura “aruncae er gran” utilizzando uno zappettino che aveva la zappetta da un lato e due punte dall’altra. Si toglievano le erbe infestanti a mano o con un colpetto della zappetta, e con le punte si muoveva la terra su tutto il seminato; il grano non si sradicava perché aveva già forti radici che sembravano una ragnatela. Confidando nella buona stagione si arrivava alla mietitura. Il grano si tagliava a mano con le falci ben affilate, e man mano se ne facevano piccole fascine che avevano un diametro attorno ai dieci centimetri
68
o poco più; poi le piccole fascine di grano “manèle de gràn” venivano legate con lo stelo di alcune spighe, e più grandi si riuscivano a fare, senza far cadere le spighe per terra, meno tempo si perdeva a legarle. La dimensione delle fascine dipendeva da quante spighe di grano si riusciva a trattenere in una mano leggermente aperta, ma era questione di esperienza. Oggi si vedono le mietitrebbie che tagliano il grano al pari del terreno, ma allora si tagliava ad una altezza attorno ai 40-50 centimetri, mentre la parte sottostante, detta “Struppiu”, sarebbe stata tagliata in seguito e usata come stramaglia nelle stalle. Le varietà di grano erano più alte delle attuali, e lo rendevano più esposto al vento, tanto che a volte se ne trovavano degli appezzamenti sdraiati per terra; però se il vento non era forte ed era solo venticello, rendeva più sano il prodotto, privandolo da muffe che si creano quando ha un’altezza troppo ridotta. Le fascine poi venivano raccolte e accatastate in covoni, con le spighe delle fascine rivolte verso l’interno, ben coperti con stoppie per proteggerlo da eventuali piogge. I giorni che trascorrevano dalla mietitura alla trebbiatura, permettevano al grano nei
69
covoni di maturare ulteriormente. Mia madre diceva: “U purpissa”. A parte che durante la mietitura si lavorava alacremente per evitare di trovarsi con qualche giornata di maltempo, e si era sotto il sole di luglio, comunque non era uno dei lavori più pesanti, disturbati dal solo rumore delle falci che tagliavano gli steli di grano si poteva raccontare o ascoltare un sacco di storie. Poi arrivava la trebbiatura. Noi eravamo già fortunati perché la trebbiatrice veniva azionata da un motore a scoppio, mentre appena nel periodo dell’infanzia di mia madre il motore erano le braccia degli uomini, e prima ancora non si diceva trebbiatura ma “battitura”. Quest’ultimo sistema consisteva nel separare i chicchi di grano dalle spighe disponendo le fascine a mucchi nelle aie, poi battendole con un attrezzo detto “correggiato”, da noi “Bàtua”, composto da due bastoni lunghi circa un metro collegati tra di loro tramite una striscia di cuoio o altro, a seconda delle usanze. Noi usavamo una striscia di cotenna di maiale, che fra l’altro era anche autolubrificante, collegata a uno dei due bastoni, infilata in un anello collegato all’altro bastone. Questo attrezzo
70
non si limitava a battere il grano ma serviva per svariate usi: battere il mais, i fagioli secchi, i ceci, la lana dei materassi. Nell’antico sistema della battitura i chicchi del grano erano poi separati dalla pula tramite il vaglio “Valu” a mano, possibilmente con un leggero vento. Da questo antico sistema di separare i chicchi dalle spighe, nel nostro dialetto è rimasto il termine “battere” il grano, e non come sarebbe stato più corretto “trebbiare” visto che attualmente si usava la trebbiatrice. Ricordo la macchina per la trebbiatura smontata, trasportata e rimontata da un’aia all’altra o anche nei campi, dove ogni famiglia aveva preparato tutte le fascine del proprio grano. Motore, parti di macchina, cinghie di cuoio per trasmettere i movimenti, sembravamo delle formiche, e in poco tempo il macchinario era pronto per l’uso. Se l’avessi sotto mano saprei ancora come smontare e rimontare i vari pezzi, e come pulire i vari setacci interni, tanto era l’interesse per questo macchinario che mi è rimasto nella memoria. Era una giornata faticosa e molto polverosa, ma era uno di quei giorni in cui la fatica non si sentiva, perché era il giorno in cui si raccoglieva il frutto, per non parlare dei bambini che si divertivano a fare salti nella paglia. Servivano pa-
71
recchie persone attorno a questo macchinario, quindi ci si aiutava l’un l’altro. In un modo o nell’altro, effettuata la trebbiatura il grano veniva steso in un’aia per un giorno al sole, poi la sera se ne metteva un chicco fra i canini per saggiarne l’essicazione. A questo punto veniva riposto nei cassoni di legno “Bancà” per la conservazione. Dopo aver passato una giornata al sole il grano era tiepido, e nei cassoni avrebbe potuto fermentare, così per sicurezza si infilavano dei legni tipo dei matterelli per abbassare la temperatura. Occorreva dare un’occhiata di tanto in tanto ai cassoni, perché anche se raramente il grano può essere attaccato dai tonchi, che prolificano velocemente mangiandosi il grano e rendendolo non commestibile, perché non si poteva macinare grano e tonchi assieme. A noi capitò una volta, fortunatamente mia madre se ne accorse per tempo; setacciammo tutto il grano, poi mettemmo dentro i cassoni dello zolfo a bruciare; comunque un po' di danno lo dettero. Da ricordare che una parte di grano doveva essere conservata per la semina dell’anno successivo. Per trasformare il grano in farina si portava al mulino, che per raggiungerlo ci voleva più di mezzora,
72
quindi fra viaggio e macinatura se ne andava quasi mezza giornata. A parte il peso del sacco di grano che doveva essere portato a spalle o in testa per le donne, non se ne poteva portare a macinare un grosso quantitativo perché la farina di grano può essere conservata per un breve periodo, altrimenti poi viene attaccata dalle farfalline. E siamo arrivati al pane fatto in casa, che appena uscito dal forno aveva quel profumo particolare che è ancora nella mia memoria. Si usava il lievito madre che veniva conservato in una tazza di volta in volta, o che ci si faceva prestare poi restituendolo. Terminato l’impasto e preparate le forme di pane, veniva posto a lievitare sopra un panno di cotone e coperto con altri panni, specialmente d’inverno, perché la lievitazione richiede una certa temperatura. Scaldato il forno a legna le pagnotte crude venivano infilate dentro velocemente, per non far disperdere il calore, e prima di chiudere la porticina del forno le donne facevano il segno della croce rivolto al pane. Un’ora di cottura e il pane era pronto; si toglieva facendolo saltare da una mano all’altra perché era ancora molto caldo, e con robuste patte nella parte di sotto si scuoteva la cenere. Noi lo mettevamo dentro
73
un robusto sacco di canapa e poi lo coprivamo con altri panni. In base alla consistenza delle famiglie si cercava di farne un numero sufficiente per una settimana. Gli ultimi giorni non era buono come i primi, ma guai a disprezzare o far avanzare il pane, dopo tutte le fatiche raccontate brevemente. Quando a Beverone morĂŹ la Vincenza avevo meno di dieci anni, ma la ricordo bene. Era originaria di Bonassola, e non era proprietaria di campi cosĂŹ, dopo che i paesani man mano terminavano di tagliare il grano, lei passava in quei campi a cercare le poche spighe rimaste, ne faceva delle piccole fascine, e quando poi si trebbiava il grano nelle varie famiglie venivano trebbiate anche le sue piccole fascine, cosĂŹ qualche chilo di grano lo recuperava.
BĂ tua
74
Sulla strada del mulino, con i sacchi in spalla e in testa
Uno dei chiodi forgiati a mano della ruota di legno che azionava il mulino
75
Maestra di Beverone con la maestra di Garbugliaga e sorella in una campo di segale - 1940
76
Zappette per sarchiare il grano
Valu
77
La trebbiatura - Milietto
La trebbiatrice
78
Il pane nel forno appena cotto Si toglie il pane dal forno
79
Il mais Fra i prodotti che richiedevano forse meno cura vi era il mais “Mergùn”. Noi usavamo una varietà che non richiedeva di essere irrigata, ci si doveva accontentare dell’acqua che cadeva dal cielo, perché le poche sorgenti servivano per bagnare i fagioli. Ovviamente se vi era troppa siccità il raccolto era scarso. Prima la semina, lasciando cadere dalla mano nel solco due o tre semi alla distanza di un palmo abbondante poi, quando le piantine erano alte circa una ventina di centimetri la rincalzatura, cioè riportare un po' di terra alla base delle piantine. Durante questa operazione si sradicavano a mano le erbacce e si diradavano le piantine di mais, lasciandone solo una fra quelle nate dallo stesso gruppetto di semi. Come sia fatta una pannocchia di mais penso che sia alla portata di tutti, però ai nostri giorni non so in quanti abbiano visto la pannocchia ancora ricoperta dalle foglie di rivestimento prima di esserne liberata, cioè scartocciata “scarfuğiae er mergùn”. Queste foglie sono in diversi strati, e toglierle a poche pannocchie non è un problema, ma lo diventa se si deve compiere questo lavoro per varie centinaia di
80
pannocchie, perché si finirebbe col rompersi le unghie. Per ovviare a questo inconveniente si usava un pezzetto di legno robusto a punta, simile a una matita da disegno, si inseriva la punta del legno nelle foglie che erano all’apice della pannocchia, e così si potevano separare facilmente le foglie dalla pannocchia. Prima di procedere alla sgranatura, cioè togliere i chicchi di mais dalle pannocchie, occorreva esporle al sole per qualche giorno. In altri luoghi usavano appendere le pannocchie tramite alcune foglie di rivestimento che non erano state tolte completamente, mentre noi esponevamo le pannocchie pulite direttamente al sole nelle aie, poi con la bàtua si procedeva alla battitura, con la quale si sgranavano parzialmente le pannocchie che poi venivano rifinite a mano. Come avevamo fatto con il grano, anche i chicchi di mais completavano la loro essicazione nelle aie, e come per il grano qualche bambino doveva sorvegliare le distese di chicchi, perché le galline erano libere e non gli sembrava vero fare uno spuntino. Poi il mais veniva portato al mulino e con la farina si faceva polenta e focaccette. Va ricordato che la produzione di grano non sempre riusciva a coprire la quantità di pane e tagliolini necessari ad una fami-
81
glia, compresa una certa quantità che doveva essere conservata per l’anno successivo per la semina; quindi il mais integrava il grano, ed era un bene importante, anche perchÊ non sempre le stagioni erano perfette sia per il grano che per il mais. Qualche ragazzo che voleva fare il grande usava le foglie di rivestimento delle pannocchie per costruire delle sigarette, che poi fumava. Si tagliava un rettangolo di foglia lungo come una sigaretta, poi veniva arrotolato e fumato. Aveva un sapore dolciastro e acidulo, poche boccate e poi si gettava.
Pannocchie di mais
82
Focaccette di mais “de mergùn” Pannocchie di mais ad essiccare
83
Raccolta dei ceci Campo di fagioli
84
I fagioli Un prodotto particolarmente importante erano i fagioli. I fagioli sono detti “la carne dei poveri”, ma noi questa definizione non la conoscevamo, o forse fu coniata di recente, dopo che negli anni ’40 fu svelata e non inventata la “dieta mediterranea” di cui facevano parte. Si coltivavano e mangiavano perché lo avevano fatto i genitori e i nonni e così via, senza sapere le proprietà organolettiche, e senza nemmeno sapere cosa fossero queste proprietà. Si usavano principalmente secchi, sia quasi tutti i giorni nel minestrone, che lessandoli da soli accompagnati da una cipolla cruda, oppure assieme a un cotechino. Il terreno destinato alla semina dei fagioli deve essere obbligatoriamente vicino a una sorgente d’acqua. Beverone è posto in alto e tutte le sorgenti sono ben più in basso, quindi i campi dove seminare i fagioli erano a centinaia di metri dal paese. L’acqua si raccoglieva in vasche di terra battuta più o meno grandi in base al getto della sorgente. Se non pioveva, tutti i giorni si andava a bagnare i fagioli il mattino presto. Se ne bagnavano alcuni solchi a rotazione, fino a che l’acqua della vasca terminava. Si usavano
85
soprattutto delle varietà di fagioli rampicanti, quindi era necessario infilare nel terreno a intervalli regolari dei tutori in legno “Broche”, perché queste varietà nei nostri posti rendevano di più delle varietà basse senza tutore. Ricordo che la nostra produzione di fagioli secchi era sufficiente per tutto l’anno, per la semina dell’anno successivo, e a volte per darne un po' anche ad altre persone. Appartenenti alla stessa famiglia ci sono i ceci, e noi seminavamo anche quelli. Richiedono molte meno cure dei fagioli, non necessitano né di tutori né di essere bagnati, e non importa nemmeno un terreno particolarmente fertile, però come quantità rendono molto meno dei fagioli, e come uso in cucina, anche se sono molto buoni, sono meno versatili. Ben molto più ridotta era la coltivazione di piselli e meno ancora di fave, che si usavano freschi soprattutto nel minestrone. Ricordo bene quando da ragazzo andavo al “Peralbero” a bagnare i fagioli. Toglievo la zolla di terra che tappava il foro di uscita della vasca in cui si era raccolta l’acqua, che percorreva velocemente un piccolo solco che la indirizzava al campo di fagioli. Quando l’acqua giungeva poco oltre la metà del sol-
86
co di fagioli in cui era diretta, che poi avrebbe bagnato comunque tutto il solco, altrimenti se si aspettava che l’acqua fosse arrivata in fondo sarebbe andata oltre i fagioli e andava sprecata, con una zappetta ostruivo con la terra l’accesso dell’acqua a quel solco, e così poteva scorrere in quello seguente, e così via, fino a che la vasca si era svuotata. Al Peralbero c’era una bella polla d’acqua con una capiente vasca, e di conseguenza per noi era il posto ideale per seminare i fagioli tutti gli anni. Confinante con la nostra proprietà seminavano i fagioli dei miei zii, e ricordo che se anche la sorgente era nella nostra proprietà, uno o due giorni la settimana prestabiliti l’acqua la usavano loro. Erano diritti e anche rispetto di tradizioni di buona convivenza fra le persone.
87
Battitura dei fagioli - Ines
88
Fagioli e mais al sole nell’aia della Milietta
89
Le castagne Uno fra i raccolti più importanti, e che rispetto ad altri non portava molto lavoro, era quello delle castagne. I confini di proprietà erano rispettati al metro, e se da un castagno fossero cadute delle castagne in una vicina proprietà, le castagne appartenevano al proprietario del terreno. Vi erano anni di scarso raccolto se non addirittura nessun raccolto, compensati da altri di raccolto abbondante. La raccolta delle castagne si concentra in un breve periodo, perché cadono dagli alberi in un breve tempo, non come le olive che possono essere raccolte per mesi. Fortunatamente le castagne sono più grosse delle olive, e in una giornata di lavoro se ne raccolgono parecchie. Si mettevano ad essiccare nei gradili “Grade”, tenendo acceso il fuoco sotto di esse per circa un mese. Quando erano secche al punto giusto venivano private della buccia tramite una macchina a motore. Prima ancora ne venivano messi alcuni chili per volta in un robusto sacco di canapa poi, reggendolo per i becchi, due persone lo sollevavano e abbassavano battendolo sopra un ceppo di legno, infine si separavano le castagne dalle bucce secche con il
90
vaglio; ma questi sono ricordi di mia madre che io non ho visto. A questo punto doveva essere fatta una scelta a mano, controllando visivamente le castagne, perché alcune si erano rovinate a causa di un vermetto che chiamavamo “Zanè” che tradotto suonerebbe “Giovannino”. Alcuni frammenti di castagna erano già stati separati dalla macchina, e sia questi che quelli separati a mano diventavano un ottimo alimento per i maiali che non guardavano troppo per il sottile, e anzi sentendo quel sapore dolce ne erano ghiotti. Poi le castagne sane si portavano al mulino per essere macinate. A differenza del grano che veniva macinato un po' per volta, le castagne si macinavano tutte, perché con il tempo avrebbero potuto perdere la croccantezza e poi avrebbero impastato le macine del mulino anziché essere trasformate in farina, ed inoltre la farina di castagne conservata nelle casse di legno ben pressata si manteneva sana anche per due anni. La farina di castagne ha un alto valore energetico, e per anni ha contribuito a sfamare i nostri progenitori. Tempi addietro, quando una madre non aveva abbastanza latte per il proprio figlio, si metteva in bocca del castagnaccio e poi masticandolo lo riduceva ad una pappetta, che poi passava nella
91
bocca del bimbo. Ci si potrebbe meravigliare e forse scandalizzare, ma anche se non si è mai provata la fame è fame. Come già detto le castagne venivano essiccate nei gradili, in pratica dei soffitti composti da asticelle di legno squadrate grossolanamente dette “Aste”, dello spessore di 4x4 centimetri abbondanti. Le asticelle erano affiancate ma non completamente a contatto, doveva passare l’aria ma non le castagne perché altrimenti sarebbero cascate di sotto. Al di sotto del gradile, al centro del locale, c’era il “fusiğiau”, che era uno spazio rialzato una ventina di centimetri dal pavimento, attorno al metro di lato. Sopra il fusiğiau venivano posti dei ciocchi di legno, normalmente di castagno. Lo scopo era quello di mantenere un fuoco continuo ma con poca fiamma o meglio senza, perché anche con la sola brace il calore va in alto e raggiunge le castagne. All’interno o all’esterno di questo locale vi era un’apertura per poter accedere al gradile, sia per portarvi le castagne verdi e poi riprenderle secche, ma anche per andare ogni tanto a rimescolarle con un rastrello. Il fuoco prodotto dai ciocchi messi sopra il fusiğiau non aveva ovviamente una manopola per regolarne l’intensità, poteva spe-
92
gnersi oppure aumentare di intensità, fino ad arrivare al punto di produrre una fiamma indesiderata e pericolosa. Una volta non si limitò ad essere pericolosa: o la fiamma, o qualche scintilla, un gradile si incendiò. Era di notte, ero ancora un bambino ed ero a letto, e sentivo suonare la campana grossa che chiamava a raccolta i paesani. Di acqua c’era solo quella dei vari secchi, poche decine di litri per famiglia, l’acqua da bere, forse saranno andati anche alla fontana, ma fra andare e tornare era lunga e il fuoco non stava ad aspettare. Il gradile fu distrutto completamente dalle fiamme, e non fu mai più ricostruito. L’uso del fusiğiau non era limitato al periodo delle castagne, ma in pratica era la cucina di tutti i giorni. Appesa al soffitto vi era una catena con grossi anelli, con all’estremità inferiore un gancio che serviva per appendervi il paiolo dove far bollire ciò che si doveva mangiare. Il paiolo, tramite lo spostamento in alto o in basso del gancio, poteva essere avvicinato o allontanato dal fuoco, regolando l’intensità della bollitura, operazione che noi facciamo ruotando la manopola delle cucine a gas. Il paiolo così a contatto con la fiamma nella parte esterna era completamente nero, anche volendo impossibile da lucidare, ma in
93
pratica un lavoro inutile. Le stufe a ghisa non le avevano ancora tutti, ed erano più comode per il fatto che il calore era più concentrato sul paiolo, con una resa migliore. Il fusiğiau inoltre era un luogo di aggregazione soprattutto d’inverno, quando si andava a veglia, dove si poteva agganciare una vecchia padella bucherellata alla catena e cuocere le caldarroste “mundine”, dove si potevano ascoltare delle storie favolose per bambini, dove si ragionava dei lavori da fare in campagna, dove potevano nascere amori. Rastrellino per la raccolta delle castagne
Il fusiğiau
94
I cibi di una volta Ho fatto in tempo a vedere e provare anche i “cibi di una volta”. Quando sento parlare di “ricette di una volta” provo quasi sempre un certo fastidio, perché mi sembra di mancare di rispetto a quella vita sudata e dura, incominciando anche in giovanissima età, anche appena a poco più di cinque anni; macché ricette, per tante persone poter dire di essersi tolti veramente la fame, se andava bene, bisognava aspettare il ’29 di agosto, la festa del paese, oppure in occasione di qualche matrimonio. Quando ci si trova ad osservare alcune e ormai rare vecchie foto ci si accorge di come tutti erano asciutti, questo fino agli anni ’60, e quindi anche quelli della mia età; un po' per il tanto lavoro con il conseguente consumo di energie, ma anche per i poveri cibi con poco condimento di cui si disponeva. Incominciando dalla colazione si usava tagliare il pane a bocconcini dentro una tazza, riempita poi di caffelatte, ottenendo così la zuppa “züpa”. Il latte era di mucca, mentre per caffè devo spiegare come si faceva a Beverone. In una casseruola si portava a ebollizione l’acqua necessaria, poi vi si versavano al-
95
cuni cucchiai di surrogato di caffè, che poteva essere orzo o segale abbrustoliti in casa e poi macinati, oppure in tempi più recenti a volte si usava un surrogato di cicoria, mi sembra che fosse il “Moretto”. Si mescolava brevemente e poi si lasciava riposare di modo che la polvere si depositava sul fondo della casseruola, e così si otteneva una specie di caffè da unire al latte, che ricordo di sapore gradevole. La polvere depositata non veniva poi gettata, ma si usava anche per il giorno seguente, aggiungendo magari un po' di polvere nuova. Noi non lo sapevamo, ma questo modo di fare il caffè è detto alla turca, ovviamente usando la polvere di caffè e non i surrogati si ottiene un “caffè” migliore. Il piatto più comune sia per il giorno che per la sera era il minestrone, che non aveva una ricetta precisa, ma piuttosto dettata da cosa c’era a disposizione in quel periodo. Vi erano sempre le patate, per molti mesi c’era il cavolo nero, i fagioli secchi messi a bagno la sera precedente, poi le verdure di stagione come i piselli o fagioli o fagiolini freschi. Come condimento, visto che a Beverone olio non se ne produceva ed era usato solo in rare occasioni, come per esempio quando c’era lo stoccafisso, veniva sempre
96
usato il lardo, chiamato “cundidu”, cubetti di lardo salato e leggermente speziato che per potergli far rilasciare tutta la sua sostanza veniva battuto sul tagliere “batilardu” con un apposito coltello. Il lardo si scioglieva quasi del tutto, ma rimanevano dei piccoli grasselli che per alcuni erano delle ghiottonerie, ma per altri, come per me, erano stomachevoli. La pasta era tutti i giorni tagliolini fatti a mano. Le donne erano molto veloci a impastare, tirare la sfoglia e poi tagliare con un coltello “cutèla” i tagliolini. Altri piatti “tipici” erano: i vari insaccati di maiale, e qui va ricordato che in tempi più recenti sono state selezionate delle varietà di maiali più magri, ma prima era più importante il lardo, da usare come condimento, degli insaccati; polenta di mais, castagnaccio di farina di castagne, focaccette di mais, che erano anche un’alternativa al pane, testaroli “panigazzi”. Si facevano anche i ravioli, gnocchi di patate, torte di riso o di patate, rari conigli o galline, allevati da tutti, ma spesso venduti per poter acquistare zucchero, sale, olio e poco altro; però questi ultimi piatti non erano per tutti i giorni, ma erano riservati alle poche feste durante l’anno o a eventi particolari. Come dolci non si andava oltre il “duze”, una ricetta
97
semplice a base di farina, latte, zucchero, uova, burro, scorza di limone grattugiato e le cosiddette “dosi”, bustine di lievito “Paneangeli”, cotto nel forno a legna. Si otteneva un bel dolce alto quasi quattro dita, in tempi più recenti farcito con crema pasticcera e da alcuni ricoperto da zuccherini colorati o sferette dolci che sembravano argentate. I testi per i testaroli - “panigazzi”
La coltella - “a cutèla”
98
Il formaggio Ho fatto in tempo a veder fare il formaggio fatto in casa. Per fare il formaggio industrialmente vanno rispettate delle regole di igiene e valore della temperatura. Fatto in campagna, a parte l’igiene che comunque era rispettato, per la temperatura era quella dell’ambiente. In certi periodi si otteneva del formaggio ottimo da grattugiare, in altri rimaneva morbido e cremoso che chiamavamo “furmağiu grassu”, una squisitezza per farcire le focaccette di mais, in altri ancora si formavano all’interno dei vermetti che chiamavamo “schinzetti”, tipo di formaggio molto piccante da accompagnare con cipolla cruda e uno o più bicchieri di vino; tutti sapori indimenticabili. Poteva succedere che con certi climi umidi e freddi la pasta del formaggio non si compattava e all’interno si formavano dei buchi. Mia madre a volte tentava di comprimerlo mettendovi sopra un peso, ma il formaggio non ne voleva sapere, e a volte diventava talmente amaro che era immangiabile. Ho un ricordo di mia nonna Amabile, nata nel 1886. Come se non avesse fatto abbastanza vittime la pri-
99
ma guerra mondiale, appena questa terminò arrivò a ondate l’influenza “spagnola”, che fece ancora più vittime della Grande Guerra. Questa mia nonna perse il marito e due dei tre figli, rimase lei e un figlio, mio padre. Negli ultimi aveva una sola pecora, ma comunque una risorsa; con il latte di quella pecora faceva un piccolo formaggio, penso che lo facesse a giorni alterni conservando il latte. Dal siero del latte, cioè la parte che si separa dalla cagliata, faceva una piccola ricotta che metteva ad essiccare nella stessa tavola in cui conservava il formaggio, avvolta inizialmente in un panno di cotone, altrimenti si sarebbe sbriciolata, e così aveva anche tanti piccoli formaggini di ricotta. Essiccava susine, fichi, mele tagliate a fette, tutte scorte per l’inverno. E questa vita di mia nonna può dare un’idea di come era la vita appena un po' prima del mio periodo. Ricordo che quando mia madre faceva a mano il formaggio con il latte di pecora, con il siero che rimaneva a volte facevamo la ricotta, ma era anche gradevole da bere per saziare quel po' di fame che rimaneva sempre in noi ragazzi fra un pasto e l’altro, e poi il premio finale erano quei briciolini di cagliata che rimanevano sul fondo della pentola.
100
Formaggio, pane e vino per la colazione nei campi
101
La festa del paese San Giovanni “San Ğiuane” o 29 di agosto “vintnёve d’agustu”, la festa del patrono. Nel tempo passato le feste patronali erano molto sentite e partecipate. Ho conosciuto persone che dai paesi più lontani impiegavano quasi tre ore per arrivare a Beverone, e altrettante per tornare a casa. A un amico di Bracelli dissi che quel tempo mi sembrava un po' troppo per andare dal suo paese a Beverone, e lui mi rispose: “Si, bravo, ma io ci venivo con mia nonna, che aveva una bella età”. Ho conosciuto persone che venivano da Beverino, e dovevano guadare il Vara perché non c’era ancora il ponte; Beverino, Cavanella, Stadomelli, Beverone, quella chiesina così piccola lassù in alto, che lentamente si avvicinava... provare per credere. Poi arrivavano da tutti gli altri paesi del circondario. Era usanza fare festa in famiglia, possibilmente con i ravioli, ma era altrettanto importante non far mancare qualche fetta di torta di riso o di dolce per parenti e amici, che non avrebbero mancato di ricambiare quando si sarebbe andati alla festa del loro paese. Per essere liberi il giorno della festa si doveva provvedere a fare alcuni lavori in anticipo, sia
102
in casa che per il bestiame. C’era da preparare la chiesa, il legname e le pigne per il falò di San Giovanni alla vigilia della festa. La giornata aveva un suo ordine preciso: il mattino la messa sul monte, pranzo con qualche invitato, ricevere amici e parenti, vespro con processione, poi nell’aia della Milietta c’era il ballo con la fisarmonica. Erano ancora i tempi che il parroco permetteva di ballare, però solo dopo le funzioni religiose, ma ormai da tempo era una consuetudine e nessuno sgarrava. Il mio ricordo è che la fisarmonica la suonava Olinto di Stadomelli, si metteva in un lato dell’aia e quello era il suo lavoro. Alcune coppie particolarmente brave facevano il giro completo dell’aia volteggiando al ritmo del walzer. Qualche giovanotto avrà adocchiato qualche ragazza e le avrà chiesto il ballo. Per noi bambini il divertimento consisteva nel fare corse sfrenate fra le coppie, fino a che non venivamo sgridati e per un po' ce ne stavamo in disparte. Poi c’era “Cavanella” che non era un paese, ma era un uomo di Cavanella che portava dei giocattoli, e disponeva la sua merce proprio nel piccolo terrazzo davanti a casa nostra. Ricordo una pallina di stoffa, grande come una pallina da tennis, piena di segatura e collegata ad un elastico,
103
l’altro lato dell’elastico si legava a un dito, si lanciava contro qualcuno, senza fare del male, poi tornava indietro fino a che “a forza de dai” non si rompeva e usciva la segatura. Quella giornata di festa non poteva durare fino a notte inoltrata come ora, un po' perché la piazza era scarsamente illuminata, e qualche anno addietro non lo era per niente, ma la cosa più importante era che la gente doveva tornare nei propri paesi a piedi per le strade mulattiere, e se non era una notte con la luna altra illuminazione non ce n’era. Quindi il paese pian piano si spopolava, restavano nell’aia solo i paesani e qualche parente ospite, e in verità non si era pochi; restava qualcheduno che aveva bevuto qualche bicchiere di troppo e si era andato a trovare un fienile dove passare la notte, e anche quell’anno il ’29 se n’era andato e arrivederci al prossimo.
Di fianco i preparativi per la festa: la torta… e il povero gallo
104
La torta cotta nel forno a legna
105
Vigilia del 29 - Il falò di San Giovanni
106
La processione sul monte
107
Il ballo nell’aia della Milietta
108
“Visita” alla cantina
109
Il ballo nell’aia oggi (aia della Milietta), diventata l’aia della Norma e poi l’aia dei danesi
110
Ci si ritrova con i vecchi amici La cena nell’aia di Giovannino (aia dei Beverinotti)
111
Com’era Beverone Ho fatto in tempo a vedere quello che era stato il mio paese per secoli. Ho visto le vecchie case ricoperte a “čiape”, che ogni tanto dovevano essere risistemate dal copritetti “čiappazzu”, perché con il vento e la neve tendevano a scivolare. Ho conosciuto l’ultimo che è venuto a Beverone per fare questo mestiere e ho avuto il piacere di fargli da manovale su per i tetti, seguendo attentamente le sue indicazioni di come muovermi, perché sui tetti occorre cautela ed esperienza, e non si può raccontare molte volte di essere caduti. Ho visto anche una piccola parte di tetto di una casa coperta ancora a paglia, che in precedenza era stata abitata da mia madre da giovane, quando la sua famiglia vi era a mezzadria. Quando io ero un ragazzo a Beverone c’erano diciotto case, e usando un termine moderno alcune erano a schiera, in certi casi abitate da più famiglie. Fra le case, sempre facenti parte del paese, vi erano dieci stalle, con la stalla per le bestie al piano terra e al piano superiore il fienile. Alcune di queste stalle in tempi moderni sono state trasformate in case, purtroppo attualmente abitate solo saltuariamente, co-
112
me del resto le altre case. Sempre nel paese vi erano delle piccole stalle dove si allevava il proprio maiale. Vi erano poi altre stalle a poche centinaia di metri dal paese, ne ricordo sei. Quasi tutte le case erano abitate soltanto al piano superiore, mentre i vani del piano terra erano riservati a cantine, a stalle o a locali che noi chiamavamo “Fundegu”, dove si conservavano i vari prodotti dei campi. Quasi tutti avevano il gradile dove essiccare le castagne. Ricordo undici gradili, chi non l’aveva metteva ad essiccare le proprie castagne da chi aveva un gradile molto capiente, dando un contributo in legna. I forni dove cuocere il pane erano perlomeno dodici. In nessuna abitazione c’era un bagno o gabinetto, ad esclusione della casa dei Parenti che aveva un piccolo gabinetto sul terrazzo, e la casa dei Beverinotti che aveva un piccolo gabinetto attaccato alla casa, come un picchio verde attaccato agli alberi mentre cerca gli insetti. Si incominciò a dotarsi di gabinetti e bagni con vasca, pian piano, quando arrivò l’acqua corrente; e pensare a questa cosa che oggi non sembrerebbe nemmeno vera, può dare una lontana idea di come era quella vita, anche se per la verità io non ricordo questa mancanza in modo particolare, così era e così si vi-
113
veva. In breve questo è il censimento delle case e delle stalle; posso aver sbagliato il conteggio di poche unità, anche perché non vi sono grandi numeri da contare. Sarebbe stato questione di poco tempo, ma ho visto quando non c’erano ancora la plastica e il detersivo per i piatti. Siccome non c’era ancora l’acqua corrente mancavano anche i lavandini, e i piatti venivano lavati in un catino in terra cotta, smaltato all’interno, da noi chiamavamo “Pisàn”. Penso che il nome derivasse da dove venivano prodotti, cioè Pisa o dintorni. Non c’erano ancora ovviamente le spugne in plastica, e i piatti venivano strofinati con uno straccetto di cotone o canapa detto “Lavadùa”. Sia i piatti che le pentole non erano particolarmente unti perché il condimento era scarso, quindi per ottenere una pulizia accettabile bastava un po' di acqua tiepida, e casomai con l’aggiunta di un po' di cenere. Poi l’acqua in cui erano stati lavati i piatti non veniva gettata, ma finiva nel secchio dove si preparava da mangiare per il maiale “er brёdu der porcu”, così nulla andava perduto. Oltre ai secchi “sečè” di ferro zincato usati per andare a prendere l’acqua alla fontana, erano usate delle tinozze sempre di ferro zincato.
114
Servivano per il trasporto dei panni al lavatoio che era dalla fontana, e servivano pure da vasca da bagno. Si scaldava l’acqua necessaria per il bagno sopra la stufa a legna, poi si rovesciava nella tinozza. La stanza da bagno era a piacere, ovviamente dove non erano presenti altre persone: la cucina, una camera, la cantina. Ci si lavava prima dalla vita in su, poi dalla vita in giù, con la stessa acqua. In estate, per ragazzi e uomini, ragazze e donne escluse perché non erano ancora i tempi per poterlo fare, specialmente quando c’era la trebbiatura del grano e la polvere era entrate in tutte le parti del corpo, potevamo andare a fare il bagno nei ruscelli, ma erano distanti, e se era stato grande il sollievo di lavarsi in quell’acqua corrente così pulita che si poteva bere, quando si tornava al paese, dopo aver percorso la lunga salita sotto il sole estivo, si grondava di sudore, ma perlomeno la polvere l’avevamo lasciata nei ruscelli. Parlando di queste cose a volte si sente dire: “Ma era così per tutti, più o meno si viveva tutti in questo modo”. Il che non corrisponde per niente a verità, intanto bisognerebbe specificare chi sono questi “tutti”. Oggi che noi diamo per scontato tutto quello che abbiamo, ci basterebbe andare in alcune
115
parti del mondo per trovare delle condizioni di vita insopportabili, che a volte vediamo in televisione, ma non riusciamo a capire del tutto, perché a viverle le situazioni sono un’altra cosa. Per tornare alla vita dei nostri paesi, se era dura poco meno di un secolo fa, immaginiamo cosa poteva essere nei secoli precedenti, riallacciandoci alle vicende storiche, pensando alle guerre, alle carestie, fino ad arrivare a duemila anni fa, al tempo dell’impero romano. Anche se la storia racconta poco o niente di come era la vita per i poveri contadini, da qualche parte ho trovato il confronto fra quello che poteva essere la vita nelle nostre campagne, mentre a Roma Poppea per mantenere la pelle giovane faceva il bagno nel latte d’asina. Considerato che un’asina produce circa due litri di latte al giorno, ci vuole poco per calcolare quante asine servissero per questi bagni giornalieri… e nel mio paese duemila anni dopo ci facevamo ancora un bagno completo in meno di dieci litri di acqua. Dal primo dell’anno era usanza fare le “calende”, che volevano essere le previsioni meteo per tutto l’anno. Il giorno uno corrispondeva a gennaio, il due a
116
febbraio e così via. Il tempo atmosferico di ogni giorno sarebbe stato quello del mese corrispondente. Per confermare le previsioni così ottenute, oppure per verificare se quel dato mese avrebbe avuto un andamento altalenante, quando si arrivava al giorno tredici si ripeteva l’osservazione, ma con i mesi all’incontrario: il tredici dicembre, il quattordici novembre ecc. Trovate in questo modo le previsioni per tutto l’anno, che a volte potevano essere poco buone visto che comunque si era in gennaio, e che non sempre è un mese particolarmente bello, si arrivava al giorno venticinque, che è San Paolo. Come cancellare in un colpo solo delle previsioni poco buone vi era un detto, però valido solo se il giorno di San Paolo era bel tempo: “Dee calende a me n’ancüu, basta che San Paulu u ne vaga scüu”, tradotto “Delle calende non mi importa niente, basta che San Paolo non sia brutto tempo”, oppure “delle calende non me ne curo purché a San Paolo non faccia scuro”. Forse al mondo non era bastata la prima guerra mondiale, la grande guerra, e così vi fu anche la seconda guerra mondiale. La sciagurata seconda guerra mondiale, come sciagurate sono tutte le guerre.
117
Anche in questo momento di preciso non sappiamo quante guerre vi siano in giro per il mondo, guerre fatte con armi o di altro genere. Quanti padri di famiglia, fratelli, figli, non fecero ritorno dalla Grecia, dalla Russia, dall’Africa. Oppure ne ritornarono con ferite fisiche o morali che portarono per tutta la vita, e che tanti di loro non raccontarono mai. Poi le sconfitte, la liberazione, per niente indolore. Bombardamenti nelle città che fecero fuggire le popolazioni verso i piccoli paesi, già provati dalla mancanza di braccia perché chi era abile o anche un po' meno era partito per la guerra. Comunque, nonostante le difficoltà, nei paesi stracolmi di persone come forse mai era successo, riuscirono a sopravvivere sia i paesani che gli sfollati, tant’è che ho sentito raccontare storie di fame, ma che nessuno ne morì, e troppo presto ci si dimenticò quasi del tutto dell’aiuto che gli sfollati ricevettero dai contadini dei piccoli paesi. Ritorsioni contro la inerme popolazione con la morte di civili innocenti, rastrellamenti nei paesi alla ricerca dei partigiani, o di uomini che non erano partiti per la guerra perché ancora troppo giovani, e diventati maggiorenni o quasi a guerra in corso, che
118
dovevano nascondersi nei luoghi più impensati per non essere catturati. Poi ancora tante altre brutte cose, da non raccontare per non rattristirci troppo nel caso non lo fossimo ancora, tenute nascoste per anni, come se chi le aveva subite si dovesse pure vergognare di averle subite. Finalmente la guerra finì, ed ogni tanto ci capita di vedere brevi filmati che fanno vedere la voglia di essere felici, di divertirsi, di ragazze che regalano mazzi di fiori, che baciano, che ballano con i soldati americani. Ma nei nostri piccoli paesi come era sotto questo aspetto l’immediato dopoguerra? Anche qui si sentiva la voglia di vivere, di divertirsi, o perlomeno di provarci, perché normalmente la vita in campagna era fatta di lavoro dall’alba al tramonto. Così non ci si accontentava più di aspettare le varie feste del patrono dei vari paesi, ma se capitava l’occasione anche qualche domenica poteva diventare buona per una giornata di festa. Io non ero nato, ma ci stavo pensando, e così su come era quel periodo a Beverone in parte me lo ha raccontato una mia paesana. In quel periodo ancora ragazzotta, quindici o sedici anni, di famiglia a cui il pane non mancava,
119
perché erano mezzadri ma di buoni poderi. Per una ragazza di quella età di andare da sola nei paesi vicini a ballare nemmeno a pensarci, ma in quel periodo di libertà ritrovata uno strappo era d’obbligo, quindi o il padre o il fratello accompagnavano lei e la sorella quando si spargeva la voce di qualche improvvisata festicciola domenicale. Ora ci si potrebbe immaginare un vestitino idoneo, con scarpette e magari anche una borsetta. Niente di tutto questo. Il vestito era uno solo, indossato durante la settimana nei campi e poi anche la domenica, per andare alla messa o in occasione di feste nei paesi. Per cercare di non danneggiare il vestito durante la settimana il trucco consisteva nel metterlo al rovescio, facendo attenzione di non sciuparlo mentre si lavorava nei campi, poi il sabato sera veniva lavato, steso ad asciugare nel locale più asciutto, e la domenica era pronto per essere indossato, però questa volta per il verso giusto. Le scarpette erano gli scarponi fatti a mano con le “bruchette”, chiodi dalla testa tonta impiantati nella suola per farla durare più a lungo. Raccontare di quando si era giovani, ricordando le cose belle, dimenticando le altre, sembrerebbe voler far diventare tutto rosa, ma bisogna aver pre-
120
sente che la vita in campagna era tanto lavoro e molto poco divertimento, però… nonostante i poveri e scarsi vestiti e scarpe, sale da ballo improvvisate in qualche casa che avesse un locale spazioso, nelle aie dove si mettevano a seccare i cereali, o a volte anche in terra battuta, battuta mentre ballavano, fisarmonicisti spesso con scarsi repertori, e grazie che sapevano strimpellare qualche pezzo… ma dal racconto della mia paesana e anche da altre persone che ho ascoltato, quelle semplici feste nostrane erano momenti che anche a distanza di anni loro ricordano con nostalgia e come “bei tempi”. Il tetto della prima casa è coperto in parte a paglia
121
Capanne coperte a paglia PisĂ n
122
Beverone 1940 Tinozza zincata
123
Persone nella storia Nel suo piccolo Beverone ha dato i natali a persone che hanno occupato dei ruoli per cui sono rimaste nella storia, e in alcuni casi non soltanto la nostra piccola storia. Attualmente la traccia scritta più antica l’abbiamo di un prete di Beverone, che qui fu parroco dal 1687 al 1710. Si chiamava don Giovanni Agostino Parenti, e troviamo la sua calligrafia nei registri della chiesa relativi a quel periodo. Fra l’altro Parenti è una delle casate più antiche di Beverone. Ricordiamo un altro prete di Beverone, don Luigi “Aloysius” Pesalovo, nato a Beverone nel 1812, primo di sette fratelli, però non risulta che fosse mai stato parroco di Beverone. Abbiamo trovato un foglietto che ricorda la data e il luogo della sua morte: “L’anno Domini 1879, il giorno 7 novembre, giorno di venerdì, ore 4 pomeridiane, cessò di vivere il fu defunto Pesalovo Don Luigi, nella parrocchia di San Martino di Castevoli. Lascio la qui presente memoria io Pesalovo Luigi di lui nipote”.
124
Il foglietto ritrovato che fu scritto in memoria di don Luigi Pesalovo.
125
La casa della famiglia Parenti. La foto è del 1940, pochi anni dopo che questa famiglia non abitava piÚ a Beverone.
126
Vi fu anche un altro prete appartenente alla casata dei Parenti: don Antonio Parenti, nato a Beverone nel 1816. Sappiamo soltanto che fu parroco di Bergassana, da un breve scritto già dal 1842. Quando nel 1860 furono acquistate le attuali campane, don Antonio Parenti collaborò con i fabbricieri di Beverone ordinando le campane, e andò personalmente a Genova per prenderle in consegna, spedirle via mare e pagare un acconto. Considerato l’anno di nascita dei due parroci appena nominati, cioè don Luigi Pesalovo e don Antonio Parenti, si presume che abbiano frequentato il seminario di Beverone. Un capitolo a parte va riservato alla famiglia Beverinotti. Giunsero a Beverone agli inizi del ‘700 o poco prima, succedendo alla famiglia Levantini, con la quale forse avevano un rapporto di parentela o perlomeno di amicizia. Erano una famiglia benestante, però da quanto trovato non dormirono sugli allori, perché per ogni generazione vi fu chi ricoprì importanti incarichi. Abitavano nella più grande casa del paese, ancora presente.
127
Il primo Beverinotti di cui risulta la presenza a Beverone fu un certo Giovanni Antonio morto nel 1765, sposato con Maria Luca, ed ebbero nove figli. Al funerale della moglie erano presenti venti sacerdoti, e per quel periodo questo significa che la famiglia era non solo conosciuta, ma anche benestante. Un loro figlio, don Giovanni Antonio Beverinotti (1737 - 1802), fu parroco di Beverone dal 1763 al 1802. Al suo funerale erano presenti 27 sacerdoti. Di un altro figlio, fratello del parroco appena ricordato, Giovanni Antonio Agostino Beverinotti (1743 - 1825), si trova la citazione “il fu capitano”, che potrebbe essere stata una figura politica con un ruolo di rilievo nell’amministrazione locale. In un foglietto incollato alla copertina di un vecchio libro della fabbriceria vi è questa frase: “Da un vecchio libercolo di memorie del fu capitano Beverinotti Agostino fu Antonio, dell'anno 1785, epoca in cui lo stesso era operoso fabbriciere della chiesa parrocchiale di Beverone, si rileva che in quell'anno, o in qualcuno in addietro, furono acquistati…”, erano degli oggetti in argento per la chiesa. Qui è ancora ricordato come “capitano”, in più si parla di un vecchio libercolo di memorie, peccato non averne
128
trovato traccia. Agostino Beverinotti, il “capitano” si sposò con Caterina Vinciguerra, originaria di Rocchetta (a quel tempo si chiamava Rocchetta senza l’aggiunta di Vara). Un loro figlio diventò prete, don Antonio (1768 - 1840), che fu parroco di Beverone dal 1802 al 1817, succedendo nell’incarico allo zio già ricordato. Di questo secondo parroco Beverinotti abbiamo un ricordo di Don Emilio Drovandi, parroco di Beverone: “Un sacerdote Lunigianese candidato a 1° Vescovo di Massa. Il sacerdote Beverinotti Antonio di Agostino, nacque a Beverone di Rocchetta Vara della Lunigiana Estense, e vi rimase dal 1791 al 1802 quale assistente dello zio parroco Giov. Antonio, e sino al 1817 quale rettore della chiesa. Nell’ottobre del 1817 fu nominato Vicario Generale della Lunigiana Estense e Proposto di Aulla. Dopo alcuni anni era canonico e Vicario della collegiata di Carrara di Massa Ducale. Nel 1822, quando fu costituita la nuova diocesi di Massa Carrara, il Canonico Beverinotti,
129
per le sue preclari virtù sacerdotali, dal Duca Francesco IV Estense di Modena, fu designato presso la Santa Sede ad essere primo Vescovo di Massa; onorificenza e carica ch’egli cortesemente rifiutò per motivi di salute. Gravemente ammalato da un male interno, consigliato dai medici, abbandonò Carrara e si ritirò a Beverone, ove all’età di 72 anni vi moriva il 13-6-1840 pieno di meriti presso Dio e gli uomini; esempio fulgidissimo di rassegnazione. Durante la sua malattia si dedicava all’insegnamento del latino e filosofia nel Seminario Diocesano locale, aperto dall’antichità dai sacerdoti Beverinotti, e poi riconosciuto scuola governativa con alunni interni ed esterni”. Al suo funerale parteciparono trenta sacerdoti, con la presenza di numeroso popolo. Fu seppellito nell’Oratorio di S. Andrea in Beverone di proprietà della famiglia Beverinotti.” Il testo che segue tratta della parrocchia di San Caprasio di Aulla, e in breve di come vi fu accolto don Antonio Beverinotti, quando vi fu trasferito dalla parrocchia di Beverone. “Vi è un prevosto Beverinotti, bravo stimabile sacerdote, che istruisce bene la gioventù”.
130
Nel 1817 per la prima volta l’antica abbazia fondata nell’anno 884, a seguito della morte del marchese Alfonso Malaspina - che rivendicava il diritto di nominare e pagare il sacerdote - otterrà un sacerdote nominato dal vescovo e sarà eretta in Parrocchia. A duecento anni di distanza Aulla ricorda l’evento con incontri e celebrazioni che si concluderanno domenica 17 con la S. Messa presieduta dal vescovo Giovanni Santucci. Barbara Sisti ha dedicato un prezioso saggio pubblicato in Cronaca e Storia di Val di Magra - agli eventi che nel giro di un mese, da giugno a luglio, decretarono la fine della millenaria storia dell’abbazia. Il delegato governativo del duca di Modena così scrisse al vescovo: “
131
Il vescovo Giulio Cesare Pallavicini - scrive Barbara Sisti - decretò formalmente la fine dell’antica e già gloriosa abbazia e l’erezione della parrocchiale della chiesa di San Caprasio di Aulla con il nuovo parroco Antonio Beverinotti accolto trionfalmente.
132
133
134
Busto di don Antonio Beverinotti conservato nell’oratorio di S. Andrea, dove è sepolto.
135
Nomina di Tommaso Beverinotti: “Giudice alla Corte Regia di Firenze�.
136
Il “capitano” Agostino Beverinotti ebbe un altro figlio importante per la storia, Thomas Constantinus (Tommaso) nato a Beverone il 13 maggio 1781. All’inizio di questa ricerca la sola cosa conosciuta era che nella famiglia Beverinotti vi fu un avvocato, ma non se ne conosceva il nome. Grazie alla disponibilità di alcuni discendenti della famiglia Beverinotti, da documenti in loro possesso e da ricerche effettuate tramite internet abbiamo trovato che: Si laureò all’università di Pavia a 24 anni, nel 1805, a pieni voti e con lode: “Dottore in Legge”. Partecipò alle varie vicende storiche che si svolsero nel territorio che va da Pontremoli a Massa e Carrara fino a Firenze, e per brevi periodi anche oltre. Soltanto un paio di decine di anni fa sarebbe stato molto difficoltoso se non impossibile scoprire che vita fosse stata quella dell’avvocato Tommaso. Grazie al fatto che ultimamente sono stati scannerizzati molti libri antichi, consultabili in rete, grazie ai documenti già citati, ci siamo resi conto di che personaggio fosse stato l’avvocato Tommaso. Sarebbero tanti i testi da elencare, i luoghi, gli
137
incarichi, i momenti storici, le trattative, i processi, però non rientra nello scopo di questa raccolta di ricordi scrivere la sua biografia, che fra l’altro non sarebbe nemmeno un compito semplice da svolgere, quindi mi limito a ricordare quanto trovato riguardo ai ruoli ricoperti: Regio procuratore presso il tribunale di prima istanza in Ascoli - 1811. Dal Giornale Italiano in Milano, anno 1812: “Regio procuratore presso il tribunale di prima istanza”. “Uomo onesto e abilissimo”. “Consigliere Beverinotti, uomo di virtù antiche”. “Regio procuratore - 1921”. “Delegato di Pontremoli”, “Regio delegato”, “Commissario Toscano”. “Commissario straordinario di Avenza - 1848”. “Regio delegato in Lunigiana - 1949”. “Deputato All’assemblea Legislativa Toscana 1949”. “Giudice presso la Corte Regia di Firenze - 1851”. Ricordiamo soltanto che gli ultimi incarichi particolarmente prestigiosi furono alle dipendenze del Granduca di Toscana Leopoldo II. Osservando la laurea di Tommaso Beverinotti
138
ci siamo chiesti: “Perché andò proprio a Pavia a studiare?” Ovviamente non lo sappiamo, però abbiamo fatto una ricerca su questa università. L’università di Pavia è la più antica della Lombardia e fra le più antiche del mondo. Si parla di due date: 825 e 1361. Il decreto di fondazione è la seconda data. Dopo periodi più o meno floridi legati agli avvenimenti storici, a cavallo del XVIII e XIX secolo, proprio quando Tommaso Beverinotti vi conseguì la propria laurea, l’ateneo divenne uno dei migliori d’Europa e del mondo. Se alcuni importanti documenti sugli incarichi ricevuti, compresa la pergamena della laurea, sono rimasti a Beverone, significa che Tommaso, nonostante la lontananza dalla famiglia per il lavoro che svolgeva, manteneva con essa uno stretto legame. Gli incarichi ricevuti avranno avuto certamente una giusta ricompensa, e vista la data (1826) riportata sopra l’architrave del cancello di entrata della casa Beverinotti fa pensare che dette il proprio contributo per delle migliorie all’abitazione di gran lunga più grande del paese. Non sappiamo se si fosse sposato e avesse avuto figli.
139
Non risultava che fosse morto a Beverone, poi abbiamo trovato in che cimitero fu sepolto. Si tratta di un cimitero di Firenze molto conosciuto, il cimitero di San Miniato detto anche “Il cimitero delle Porte Sante” che accoglie le salme di molti illustri personaggi. Da un libro del 1865 a cura di Cerboni Fabio risulta che Tommaso Beverinotti “Consigliere” fu sepolto nel 1862 in quel cimitero nella tomba 198 dello spartimento 8. Tramite mail abbiamo chiesto ai cimiteri comunali di Firenze se attualmente risultava il nome di Tommaso, ed ecco la risposta: “Buonasera, il signore che cerca è sepolto a San Miniato, deceduto nel 1862 e tumulato come resti ossei nell’ossarino 529 nuova galleria sezione E. Faccio presente che è uno di quelli che in galleria hanno il marmo bianco”. Evidentemente con il passare del tempo saranno state fatte delle modifiche e spostamenti, ma è rimasta l’indicazione di dove si trovano i resti di Tommaso. Aveva 81 anni.
140
Alcuni documenti in cui è citato Tommaso Beverinotti.
141
La laurea di Tommaso Beverinotti
142
DI PAVIA ALL’ONORE DELLE SCIENZE UTILI ED ALLA TUTELA DELLE SCIENTIFICHE PROFESSIONI
DICHIARA
143
Proclamazione di Tommaso Beverinotti a deputato all’Assemblea Legislativa Toscana, con voti 702.
144
Da un terzo figlio, sempre del capitano Agostino, e cioè Angelo Maria, prosegue la dinastia Beverinotti da noi conosciuta, e in particolare da Teofilo. Teofilo Beverinotti (Teophilus Jo Baptista Michael ), di Angelo Maria e Oliva Arioni, nato a Beverone il 20 aprile 1803 e m. il 21 agosto 1881. Di Beverinotti Teofilo (1803 - 1881), nipote del capitano Agostino, non conosciamo quali cariche possa avere ricoperto, però risulta che si sia interessato attivamente della chiesa di Beverone, inoltre in uno scritto del 1851 risulta incaricato dal sindaco Vinciguerra (Comune di Rocchetta, provincia di Lunigiana) di effettuare il censimento di tutte le famiglie della parrocchia, unitamente al parroco. Inoltre Teofilo è citato anche in altri scritti, quindi sicuramente era una persona istruita e fidata.
145
Documento del 1851 con il quale Teofilo viene incaricato, assieme al parroco, di fare il censimento della popolazione di Beverone.
146
Documento in cui è citato Teofilo Beverinotti
147
Beverinotti Teofilo sposò Giulia Maneschi, ed ebbero una famiglia numerosa. Fra i loro figli vi fu Gio: Battista Giovanni Beverinotti. Nato il 22/09/1842 m. 4/1/1914 (72 anni), figlio di Teofilo e Giulia Maneschi. Beverinotti Giovanni fu sindaco del Comune di Rocchetta Vara dal 1881 al 1895. Per la precisione “Comune di Rocchetta di Vara (già allora era riportata la particella “di” che con l’andare del tempo a volte è andata persa, ma è la dicitura corretta), circondario di Massa, provincia di Massa e Carrara”. Il primo incarico che abbiamo trovato, quindi il probabile inizio alla sua vita politica, fu nel 1877 a 35 anni: delegato governativo supplente, dall’intendenza di finanza della provincia di Massa, per assistere all’asta per il collocamento dell’esattoria di Rocchetta Vara. Fu varie volte nominato “conciliatore” del comune di Rocchetta di Vara, ruolo di chi compone contrasti e discordie, come un giudice di pace, e per alcuni periodi e particolari situazioni anche nel comune di Calice al Cornoviglio. Ricoprì questo incarico in periodi diversi, sia
148
quando era sindaco, sia quando non lo fu più. Fu nominato conciliatore per alcuni anni all’inizio del 1900 e l’ultimo anno fu il 1911, quando aveva 69 anni. Giurato ordinario per assistere alle assisie del tribunale civile e correzionale di Massa. Delegato effettivo presso la commissione mandamentale di Calice per l’accertamento dei redditi di ricchezza mobile. Sfogliando i vari documenti si scopre che le varie nomine avvennero su proposta del presidente del consiglio dei ministri, proposta del ministro segretario di stato per gli affari dell’interno, dalla prefettura di Massa e Carrara, dal 1° presidente della corte di appello di Genova. Quindi la sua vita politica, svolta fra il 1877 e il 1911, ebbe una durata di 34 anni. Nel registro dei morti è riportato: “Gran benemerito della chiesa e del paese. Accompagnato da numeroso popolo e da tutto quasi il consiglio comunale. Fu sindaco per 15 anni continui. Amministrò con coscienza e giudizio”.
149
Una delle nomine di Giovanni Beverinotti a sindaco.
150
Nomina di Giovanni Beverinotti a conciliatore.
151
Teresa Maneschi, moglie di Giovanni Beverinotti.
152
Dall’album della famiglia Beverinotti
153
Il sindaco Beverinotti Giovanni ebbe in sposa Maneschi Teresa originaria di Riccò di Giovagallo. Anche loro ebbero una famigli numerosa. Fra i loro figli abbiamo un ricordo di Giulio. Giulio (Agostino Teofilo Giulio Antonio Luigi) Beverinotti, figlio di Giovanni e Teresa Maneschi, nato a Beverone il 22/5/1872, morto a Beverone il 4/10/1929. Amalia, Assunta e Giulia, le tre sorelle che ho conosciute, che vissero a Beverone, e per alcuni periodi anche a Firenze con il fratello, lo ricordavano come Giulietto. Nel paese si diceva che morì per il dispiacere a seguito di quella che viene ricordata come la grande depressione del 1929, iniziata in America con il crollo di Wall Street, grave crisi economica e finanziaria che sconvolse tutto il mondo. Lavorò presso il Banco di Roma a Firenze. Dal suo “Passaporto per l’interno” datato 1917 risulta di professione impiegato.
154
Sull’annuario toscano del 1930 si trova: “Banco di Roma - sede di Firenze”, “cassiere principale con funzioni di vicedirettore Beverinotti cav. Giulio”. Giulio morì nell’ottobre del 1929, ma evidentemente l’annuario del 1930 fa riferimento ai dati del 1929.
Beverinotti Giulio - “Giulietto” 155
Passaporto di Beverinotti Giulio
156
Nonostante che la famiglia Beverinotti fosse stata numerosa, per via maschile vide la sua fine, perlomeno a Beverone, perché al momento non sappiamo che fine abbiano fatto alcuni di loro che sono emigrati. Dopo aver ricordato le persone di cui si trova una memoria scritta, il pensiero si sposta verso le tantissime persone di cui non c’è memoria alcuna. Le prime avranno avuto una vita in un certo qual modo agiata, o perlomeno per quei periodi poteva esserlo, senz’altro anche per loro merito; hanno avuto la possibilità di studiare, cosa non da poco per i tempi, e certamente si saranno impegnati. Ma come sarà stato per le seconde persone ricordate? Tanti bravi padri e madri di famiglia, tanti bravi figli, che avranno compiuto sacrifici enormi per costruire le loro case in pietra con muri enormi, per costruire la chiesa sul monte, che pian piano avranno sottratto porzioni di bosco per trasformarli in campi, e tutto senza nessun tipo di macchinari di cui noi oggi siamo dotati, ma soltanto con l’uso delle proprie braccia e gambe, persone che avranno compiuto gesti importanti, ma non potendoli citare li accomuniamo idealmente a quelli ricordati.
157
L’oratorio di S. Andrea
158
Beverone anticamente fu sede di Seminario: “Beverone, ceduto in feudo il 23 marzo 1220 da Malaspina Guglielmo al Vescovo di Sarzana Marzucco, benché uno dei più piccoli paesi della diocesi di Luni prima e di Massa oggi, 80 abitanti, fu sede anticamente di Seminario in casa Levantini prima e Beverinotti dopo, con frequenza di circa 60 studenti interni ed esterni, dei paesi circonvicini. La scuola veniva fatta nella Cappella di S. Andrea, ove esiste sempre la cattedra, e le lezioni di latino venivano impartite dai parroci del luogo e specie dai sacerdoti Beverinotti Giov. Antonio e il Can. Antonio sino al 1840. Dopo la morte di questi insigni sacerdoti, esimi per sapere e fede, furono maestri i parroci Malatesta Alessandro e Pini Alessandro di Stadomelli, Angiolini Angelo di Cavanella, Valletti Camillo di Suvero (1867) e ultimo fu il Dott. Can. Borsi Francesco, nominato parroco e vicario foraneo di Carrara nel 1891, che impartiva le lezioni nella sua Garbugliaga”. Sac. Drovandi Emilio
159
Alcune notizie riguardanti il Seminario di Beverone Archivio diocesano di Sarzana: “Tesi di laurea G. Repetti - La politica ecclesiastica nel dipartimento del Crostolo (1809 - 1812)” Dopo il 1789 le ordinazioni sacerdotali furono molto scarse, e la persecuzione, l’esilio e la deportazione decimarono il clero. Per tale ragione qualcuno ebbe a dire: “entro due anni la diocesi rimarrà senza preti e senza culto”. Per scongiurare questo pericolo vengono eretti in alcune parrocchie dei seminari. Per essi si presenta il problema dei locali, dell’arredamento e delle risorse economiche. Vengono tassate le fabbricerie, si cercano insegnanti qualificati, ma ciò che è più necessario sono le vocazioni, e queste restano abbastanza rare. La crisi però non presenta la stessa gravità in tutte le diocesi.
160
Scuole e Seminari in alcune parrocchie della diocesi di Luni Sarzana. La diocesi di Luni Sarzana, nel periodo napoleonico, comprendeva tre scuole che potrebbero essere equiparate a Seminari: Bola, comune di Tresana; Posterla, cantone di Villafranca; Beverone, comune di Rocchetta. I maestri di queste scuole erano i rispettivi parroci: don Giovanni Sartori per la parrocchia di Bola, don Antonio Beverinotti per la parrocchia di Beverone. Non si conosce il nome del parroco della parrocchia di Posterla. Insegnavano: grammatica, rettorica, logica, metafisica, etica, teologia, dogmatica e morale. Le scuole iniziavano a settembre e terminavano a fine agosto. Al mattino si incominciava alle 8:30. La sera, nell’inverno, dall’una dopo mezzogiorno, fino alle quattro, e in estate dalle tre alle sei. Ogni mese si tenevano degli “esperimenti” in cui gli studenti dimostravano le loro capacità teoriche e pratiche. Al termine dell’anno scolastico si tengono gli esami, nel comune di Aulla, per tutti. Gli esami si fanno in pubblico, e alla presenza del vicario generale Luigi Orlandi, e delle altre autorità locali. In queste scuole gli alunni venivano
161
suddivisi in dozzine, dimoravano durante il periodo scolastico in case apposite, e le spese del loro vitto e alloggio erano definite dalla direzione della scuola stessa. Si desiderava che le scuole equivalenti a seminari fossero classificate in modo che, essendo tre, una insegnasse grammatica, rettorica e storia ecclesiastica; l’altra logica e metafisica ed etica; e la terza teologia, dogmatica e morale. Nel giro dell’anno scolastico gli alunni avevano come “ferie” delle vacanze scolastiche: dieci giorni a Natale, quindici giorni a Carnevale, quindici giorni per la Pasqua di Resurrezione.
Lettera di don Antonio Beverinotti luglio 1810: “Sono dodici, 12, li chierici del Regno d’Italia che stanno sotto la mia direzione, inclusivamente tre che hanno la licenza del colare, e due della diocesi di Brugnato. Sono adunque dieci di questa diocesi e due della Rocchetta, diocesi di Brugnato. Gli studenti di teologia sono sei, tre compresi che abbisognano ancora di belle lettere. Gli studenti
162
chierici le belle lettere e la metafisica sono sei. Non vi sono chierici che studiano la teologia prima degli anni venti. Dunque il totale numero dei chierici studenti di Beverone Regno d’Italia è di dodici. Il numero totale dei chierici suddetti che non hanno ancora compiuto gli anni venti è di numero sei”. In un documento si trova che gli studenti erano sessanta, in un altro dodici. Visti i nomi degli insegnanti e considerato il periodo in cui questi parroci furono a Beverone, è da supporre che il seminario rimase attivo per circa un secolo, con un numero di studenti variabile.
163
Da una memoria di Beverinotti sac. Antonio rettore - anno 1816 “Nell'anno 1816 una carestia sì universale, specialmente di vino, olio castagne e d'ogni sorta di vettovaglia, particolarmente nelle montagne, nelle quali per il gran freddo continuato nell'estate, non era neppure maturato il formentone, se si eccettua il formaggio, che dovettero soccombere moltissimi di fame, oltre una febbre petecchiale pestifera, per cui morirono tanti. Per esempio in Suvero quaranta, in Veppo quaranta, nel piccolo Stadomelli duecento, in Rossano quasi tutti morirono di fame. Egli è vero che nella piazza di Sarzana Spezia e Aulla mai mancarono granaglie; ma il denaro consumato da venti e più anni di guerra era talmente raro che non si trovava a vender neppure un orto. Se non perirono quasi tutti, fu la carità generosa fatta da tutti i benestanti circonvicini. Costa di Beverino, il sig. Giambara che si distinse, i sig.ri Vinciguerra, la sig.ra Rosa, il parroco di San Remigio, che fece tanta carità per sei e più mille
164
lire di Genova, salvarono moltissimi dalla morte”. Quando scrisse la sua memoria don Antonio Beverinotti non poteva sapere quale era la causa di quanto stava succedendo.
1816 - Anno senza estate “Il 1816 fu definito l'anno senza estate, conosciuto anche come l'anno della povertà. Gravi anomalie al clima estivo distrussero i raccolti nell'Europa settentrionale, negli stati americani del nord-est e nel Canada orientale. Fu definito pure come “l'ultima grande crisi di sopravvivenza nel mondo occidentale". Oggi si ritiene che le aberrazioni climatiche furono causate dall'eruzione vulcanica del Tambora, nell'isola di Sumbawa dell'attuale Indonesia (allora Indie olandesi), avvenuta dal 5 al 15 aprile 1815, eruzione che immise grandi quantità di cenere vulcanica negli strati superiori dell'atmosfera. Il vulcano Soufrière nell'isola di Saint Vincent nei Caraibi nel 1812, e il Mayon nelle Filippine nel 1814, avevano già eruttato abbondanti polveri nell'atmosfera.
165
A seguito delle grandi eruzioni vulcaniche, poiché la luce solare faticava ad attraversare l'atmosfera, la temperatura globale si abbassò di tre gradi. In Italia per un anno circa si vide cadere della neve rossa. L'Europa, che stava ancora riprendendosi dalle guerre napoleoniche, soffrì molto per la mancanza di cibo. È stato ipotizzato che il freddo fu responsabile, in qualche modo, della prima pandemia colerica del mondo. Prima del 1816, il colera era circoscritto alla zona del pellegrinaggio sul Gange, mentre la carestia di quell'anno contribuì alla nascita di una epidemia nel Bengala, che si diffuse poi in Afghanistan e nel Nepal. Dopo aver raggiunto il Mar Caspio, l'epidemia si trasferì in occidente toccando il mar Baltico ed il Medio Oriente. La diffusione della malattia fu lenta, ma costante”. “L’inverno era passato nella norma, la primavera tardava ad arrivare, ma nel complesso, tranne qualche episodio freddo a maggio, nel Nord America e in Europa, tutto era nella norma. La sorpresa arrivò il 6 giugno, con una brusca diminuzione di temperatura per 5 giorni, e nevicate sul Nord Ameri-
166
ca e Nord Europa. Il 10 luglio nuova irruzione di aria artica che diede il colpo di grazia all’agricoltura. Fine luglio ed inizio agosto si tornò alla normalità. Fine agosto di nuovo aria fredda che raggiunse il Mediterraneo e il Golfo del Messico. L’estate era finita e si tornò alla normalità nel 1817”. Per normalità va intesa quella atmosferica, perché per quanto riguarda l’epidemia sopra citata, i danni maggiori si verificarono probabilmente nel 1817. In tempi più recenti si verificò qualcosa di simile, ma fortunatamente non delle proporzioni sopra ricordate. La notte del 20 marzo 2010 aveva iniziato ad eruttare il vulcano islandese l'Eyjafjallajokull: prima del 2010, l'ultima eruzione era avvenuta dal 1821 al 1823. In breve tempo le polveri vulcaniche, sospinte dai venti d'alta quota, raggiunsero l'Europa rendendo necessarie le chiusure di quasi tutti gli scali aeroportuali del continente. L'eruzione impiegò circa un mese a perdere pressoché del tutto la sua intensità.
167
Album
degli oggetti ritrovati
Attrezzi vari in miniatura
Pesata 5 kg รท 70 kg
170
Pesata 20 g ÷ 7.5 kg
Bilance varie con portate diverse “Cantau - baanza”
Pesata 12 kg ÷ 153 kg
171
Colapasta - Cuapasta
Tostatore per orzo - “Brustulìn”
172
Teglia in rame - di mia nonna Spazzolino di piume - “Spazuìn”
173
Scalpello - “Scupè”
Cacciavite - “Cazzavide”
Verina grossa - “Verubiu”
174
Verina piccola - “Truvelina� Verina media
175
Ferri per gli zoccoli dei buoi “Tenaglie� da mettere nelle narici dei buoi
176
“Feretu” da cintura per agganciare il falcino Vecchio falcino artigianale - “Fauzìn”
177
Tenaglie artigianali
Forbice per potare le viti
178
Fiaschetto rivestito artigianalmente
179
Le ultime mucche
Modellino di “traggia�
180
Vasetto per raccogliere l’incenso Arricciacapelli o Calamistro
181
Il Monte Nero con la neve
Occhiali da lettura senza stanghette
182
Il gabinetto esterno
183
Macinino di latta per orzo e caffè
184
L’orologio da taschino Roskopf
185
Medaglione in ricordo di Amelio "La fiducia nel futuro non ci deve mai abbandonare! Altrimenti non avrebbe avuto senso battersi come ci siamo battuti, fino a morire. Soprattutto mi rivolgo ai giovani, ai ragazzi che oggi hanno l'età che allora avevamo noi. Vedete, noi non volevamo solo liberare l'Italia dai nazifascisti impedendo le violenze, i soprusi, le atrocità che infliggevano alla nostra gente. Noi avevamo un sogno: costruire un paese migliore, un mondo dove a ciascun uomo fosse data la possibilità di vivere in Pace, nel pieno rispetto dei valori che devono caratterizzare ogni essere umano. Non è un caso, allora, che questi principi si ritrovino tutti nella nostra amata Costituzione, che perciò dobbiamo considerare come l'aspetto più prezioso della nostra Libertà. Essa è il bene più grande per cui ci siamo battuti ". Amelio Guerrieri
186
Ho sentito parlare di Amelio “Io penso che in quel momento particolare della nostra storia Amelio Guerrieri ce lo abbia mandato il Signore”. Sono nato nel ‘51, sei anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, e a parte i brevi racconti dei paesani ne sapevo poco. Sul finire degli anni ’50, e soprattutto nei paesi, qualche strascico della guerra era rimasto: per sollevarsi dalla miseria tanti seguirono la via dell’emigrazione, altri rimanevano continuando a guadagnarsi da vivere nei campi, ma i tempi stavano cambiando, e molto velocemente. Per dare una vaga idea di come si viveva sul finire degli anni ‘50 inizio anni ‘60, sia nel mio paese che in molti altri a noi vicini, non vi erano strade di collegamento tra i vari paesi e con la città, se non con gli antichi sentieri e mulattiere da percorrere a piedi; non c’era acquedotto, bottega, telefono e si potrebbe aggiungere “non c’era quello che c’è in città però c’era la felicità” ma questa è un’altra storia. Avanti con gli anni, quando la storia ha incominciato ad interessarmi, perlomeno quella più recente, ho letto vari libri
187
sulla seconda guerra mondiale che, anche se non aveva fatto vittime fra persone del mio paese, ne aveva coinvolto sia nella guerra d’Africa che in Russia, e notizie che riguardavano i partigiani che ebbero una sede anche a Beverone. Storie di partigiani belle, altre un po' meno, atti di sabotaggio, rappresaglie, attacchi, rastrellamenti, fame. Ai nostri giorni non possiamo nemmeno immaginare come siano riusciti i contadini dei vari paesi a togliere la fame alle proprie famiglie, agli sfollati, alle richieste più o meno garbate dei vari gruppi di partigiani, dei tedeschi e dei fascisti. Poco o niente avevo sentito dire sui rapporti avuti fra i vari gruppi di partigiani, fra i partigiani e la gente del luogo, dei rapporti umani. Da ragazzo a Beverone mi era capitato di aver sentito nominare alcune volte il nome “Amelio”, un partigiano, forse una brava persona, niente di più. Alcuni anni fa, in occasione della festa del paese, mi accorsi che un certo Wilmo di Valeriano veniva a Beverone già da anni e salutava calorosamente alcuni paesani. Seppi che era stato partigiano a Beverone. In seguito mi venne in mente di andare al suo paese, con la speranza che fosse disposto a raccontarmi qualcosa, non sapendo in particolare cosa chiedergli.
188
Quindi un giorno andai a Valeriano e chiesi di Wilmo: facile a trovarsi, era la prima casa. Non ci conoscevamo, conoscevo solo il suo nome, però appena dissi che ero di Beverone fu come se avessi detto la parola magica, mi invitò in casa e mi portò in una saletta. Per essere più tranquilli e indisturbati chiuse anche la porta per non essere ascoltati da moglie e figlia. Chissà cosa mi avrebbe raccontato, mah! Per non dimenticare nulla gli chiesi se potevo registrare il colloquio, casomai avrei cancellato frasi sconvenienti: bene, accettato. Pensavo mi raccontasse azioni, o chissà cosa, invece da subito venne fuori il nome “Amelio” che era pure lui di Valeriano. Mi raccontò di come entrò a far parte del gruppo dei partigiani guidati da Amelio a Beverone e di alcune loro azioni. Però a distanza di tempo, e per fortuna questa è una caratteristica che ci accomuna quasi tutti, dimentichiamo le cose brutte e ricordiamo le cose più belle, così Wilmo più che azioni di rappresaglie o rastrellamenti, raccontava con entusiasmo, molto entusiasmo, delle persone conosciute a Beverone o in altri paesi, di ragazze, ma soprattutto di Amelio, ma di un Amelio molto umano, che sgridava e puniva chi non si comportava bene con i paesani, che sape-
189
va guidare con perizia i suoi uomini durante le varie azioni; e anche di un Amelio che a guerra terminata fu un uomo sempre pronto a difendere i deboli, pronto e velocissimo a menare le mani, anche con personaggi molto conosciuti nel mondo della boxe, a cui piaceva fare i gradassi. Insomma un uomo umile e quasi un idolo, questa l’impressione che ebbi dai racconti di Wilmo. Pensai che Wilmo forse stravedeva per questo su paesano un po' più grande di lui, forse un po' troppo idealizzato. Fu una bella conversazione. Dopo alcuni anni, sempre durante la festa del paese, seppi che era venuto al paese un altro ex partigiano che era stato a Beverone, un certo Sergio che aveva passato la novantina, ma era un piacere sentirlo raccontare del suo passato a Beverone, ed anche lui era di Valeriano. Con nome e cognome andai a cercarlo, ma non abitava a Valeriano, ma a Piano di Valeriano, poco distante. Di questi tempi c’è un po' di diffidenza ad aprire a sconosciuti, visto che non ci conoscevamo. Mi presentai semplicemente dicendo che ero di Beverone. “Oh! Oh! Oh!” esclamò Sergio, e venne subito ad aprirmi. Combinazione doveva andare da qualche
190
parte proprio in quel momento, e così ci demmo appuntamento dopo alcuni giorni. Penso che Sergio nel frattempo abbia pensato a cosa raccontare a quel beveronese, ed avrà ripercorso certamente con la mente un po' del periodo trascorso sia a Beverone che negli altri luoghi in cui venne a trovarsi. Quando tornai fu come fosse stato già pronto da tempo a questo incontro, era già preparato a raccontare la sua storia, e forse non proprio raccontare a me, forse a raccontare a sé stesso, rivivendo in qualche modo quel passato. Non sapevo cosa chiedere, ma a questo pensò Sergio; l’unica cosa che chiesi era se potevo registrare ciò che mi avrebbe raccontato, perché certamente non avrei potuto ricordare tutto, ma lui preferì di no, dicendo che era tutto molto semplice. Semplice per lui che aveva vissuto quello che mi raccontò, ma per me no, e me ne dispiace ancora adesso perché mi sono perso una buona parte del racconto ed il calore nel farlo. Ed ecco la frase con cui ho iniziato questo ricordo: “Io penso che in quel momento particolare della nostra storia Amelio Guerrieri ce lo abbia mandato il Signore”, così incominciò il racconto di Sergio.
191
Parlava lentamente ed in modo chiarissimo, mi sembrava di leggere un libro, letto con calma, da capire tutto quello che c’era scritto. Tutto da subito ruotava attorno alla figura di Amelio Guerrieri. Amelio era nato nel 1920, stava terminando il corso da ufficiale a Ravenna, gli mancavano un paio di esami. Il 25 luglio 1943 cade il fascismo, poco più di un mese dopo, 8 settembre, entra in vigore l’armistizio. Gli eventi storici già complicati precipitano, è il caos. L’esercito non sa più a quali ordini rispondere, è lo sbando generale. La vendetta dei tedeschi non si fa attendere. Migliaia di soldati vengono catturati e inviati nei campi di lavoro in Germania. Molti abbandonano le armi e tornano alle loro case. Amelio, assieme a un nutrito gruppetto, con l’aiuto di una lavanderia che fornì loro degli abiti civili, rientrarono alle proprie abitazioni. Anche qui il momento non era dei migliori, era il momento delle scelte, per chi poteva farle; volenti o nolenti molti erano già partiti per l’Africa o per la Russia, erano rimasti i più giovani non ancora in età per essere precettati. Non si poteva stare con le mani in mano, e così per Amelio e tanti altri incominciò l’esperienza del salire ai monti. Data la sua esperienza acquisi-
192
ta alla scuola militare, Amelio divenne presto uno dei comandanti dei vari gruppi di partigiani. Normalmente i partigiani sceglievano un nome di battaglia, Amelio scelse il proprio nome, cioè Amelio, ma non fu la scelta piÚ giusta; ben presto, per evitare ritorsioni, anche i suoi famigliari dovettero salire ai monti, guardandosi bene dal dire che erano parenti di Amelio. Sergio era fiero di aver fatto parte di un gruppo che si era comportato molto bene con i vari paesani conosciuti, a differenza di alcuni che lo erano stati un po' meno, ma il merito era da attribuire esclusivamente ad Amelio, grande persona, maestro di vita, di insegnamenti, pronto a rimproverare il minimo sgarro fra di loro e soprattutto verso i paesani. Era un brutto periodo, avrebbero potuto chiedere dai contadini piÚ di quanto potevano offrire, credendo che gli eventi forse lo giustificavano, ma Amelio era pronto a sonori schiaffoni a chi sgarrava alle regole di un corretto comportamento. Amelio non usava menar le mani per divertimento, ma esclusivamente soltanto all’occorrenza, sia in tempo di guerra che in seguito di pace, aiutato anche dal suo fisico imponente. In proposito Sergio mi rac-
193
contò anche alcuni episodi significativi per confermare la severità di Amelio in occasione di alcune situazioni a lui non gradite. Purtroppo come detto non ho registrato la conversazione avuta con Sergio e così certe cose le ricordo parzialmente. Il risvolto umano era sempre presente in Amelio, anche nel mettere sempre le persone al primo posto, cercando di non esporle a rischi più del dovuto. Mentre Sergio parlava mi venne da pensare a quanto avevo già sentito su Amelio, e fu come se ai miei occhi si togliesse un velo su questa figura; mi ci era voluto un po' di tempo, ma a questo punto capivo qualcosa di questa grande persona, tanto grande che diventò a sua insaputa un mito, e non solo fra i suoi partigiani. Alcune cose mi sono rimaste impresse in modo più preciso, e proverò a ricordarle. I tedeschi avevano minato un ponte di cui non ricordo la località. Era ritenuto di strategica importanza, così Amelio con un gruppo di persone ritenute adatte allo scopo si recarono sul luogo con l’intento di eliminare le mine. Amelio in persona partecipò alle fasi più rischiose. Al termine dell’operazio-
194
ne, siccome l’azione era stata condotta in pieno giorno, ed erano stati certamente visti, poteva darsi che qualche spia riferisse ai tedeschi che dei partigiani si erano aggirati in quel luogo, quindi era logico pensare al sabotaggio delle mine. Allora Amelio pensò di compiere un attacco a una autocolonna che era in ritirata, per mettergli pressione in modo da evitare che inviassero una retroguardia per ripristinare le mine. Purtroppo nella concitazione dell’attacco colpirono anche un mezzo che aveva le insegne della Croce Rossa, rimanendone addolorati. Verificarono poi di nascosto i danni apportati ai vari mezzi colpiti, e si accorsero che sopra quel mezzo per cui si erano senti in colpa erano caricate armi di tutti i generi, così si rincuorarono. Ognuno aveva il proprio incarico, in base a cosa faceva nella vita. Siccome per la maggior parte erano ragazzi giovani l’esperienza non era molta, ma visti i tempi che correvano erano obbligatoriamente più maturi dei loro pari età di oggi, e in qualche modo riuscivano a districarsi nelle varie necessità. Il già ricordato Wilmo per esempio, anche se fra i più giovani e non avendone nessuna precedente esperienza, diventò in breve esperto di tutte le armi che aveva-
195
no, pronto a revisionarle e sbloccare eventuali inceppamenti. C’era chi aveva fatto il fornaio, era di San Benedetto, e in quel periodo, è il caso di dirlo, trovò certamente pane per i propri denti; ho saputo che usavano il forno dei Beverinotti, la casa più grande del paese, con il forno più capiente. C’era chi aveva imparato alla meglio a cucinare qualcosa e così, terminata l’operazione appena ricordata, l’addetto alla cucina nei pressi di un paese accese un fuoco per cuocere qualcosa che si erano portati dietro. Si avvicinò un paesano che loro non conoscevano, come tantomeno lui conosceva loro. Quando seppe che erano del gruppo di Amelio, con lui presente, ritornò di fretta al paese lasciandoli sul chi vive per cosa o a chi avrebbe potuto raccontare della loro presenza, con eventuali conseguenze poco gradevoli. Poco dopo ricomparve, e disse loro che dovevano andare a mangiare al paese. Amelio era titubante, ma poi accettò. Si distribuirono nelle varie case, e una mangiata così, mi disse Sergio, se la ricorda ancora adesso. Il mito di Amelio era stato già stato raccontato da paese a paese da una radio invisibile, ed era arrivato pure lì. Sergio ricordava che andavano a turni di due
196
persone sul monte, dalla chiesa di Beverone, per controllare che non arrivassero soldati tedeschi. In caso di rastrellamenti o attacchi da parte dei tedeschi ci si aspettavano segnalazioni da parte delle staffette, ad ogni buon conto era cosa buona e utile non fidarsi, e così dalla parte dove ci si potevano aspettare eventuali incursioni, che era dal versante che si può facilmente osservare dal monte della chiesa, era continuamente sorvegliata, ed in particolare di notte. Facevano dei turni di due ore ciascuno, appostati sul piazzale che domina la vallata. Due ore sembrerebbero poca cosa, però io ricordo il periodo del militare in cui feci solo un paio di guardie di notte, di un’ora, e in tempo di pace: quell’ora non passava mai. Eventuali attacchi non sarebbero stati portati da una sola persona, e nel silenzio del luogo e della notte anche il minimo rumore si sarebbe avvertito, così ogni tanto chi era di guardia si ritirava all’interno della chiesa, in modo da difendersi dal freddo. Una notte Sergio, al rientro dal suo turno di guardia, andò a veglia da una famiglia e poi, sentendo un gran freddo, anziché rientrare con i suoi compagni si addormentò al lieve calore del focarile. Il mattino seguente lo cercarono e trovarono ancora
197
addormentato, mezzo morto, perchĂŠ si era preso una polmonite. Venne un dottore a dorso di cavallo (probabilmente era il dott. Spontoni) e in qualche modo nel giro di una settimana si riprese. Nel periodo che Sergio fu a Beverone disse che il loro gruppo era composto da una settantina di persone. Fra il 1939-1940 venne a fare scuola a Beverone una maestra di Sarzana che si chiamava Carla Fiori. Per poter ritirare a Rocchetta lo stipendio che le spettava come insegnante le fu consigliato di prendere la residenza a Beverone; ricordava che con lei i beveronesi erano 77; con i partigiani quindi la popolazione era raddoppiata. Chi visitasse oggi Beverone troverebbe piĂš abitazioni di quel periodo, alcune delle attuali abitazioni erano stalle o capanne, quindi gli alloggi dei partigiani non potevano che essere le varie capanne. Sergio ricordava in particolare una persona, era un ragazzo che aveva un po' di problemi; quando e se gli veniva data la sua razione di cioccolato gliene faceva sempre parte. Sergio conosceva bene Amelio, ne era anche parente, forse cugino, e non si persero di vista anche in tempo di pace. Ricordava che Amelio non finĂŹ di essere una brava persona nel periodo della guerra, lo
198
fu anche dopo. Mi raccontò vari episodi in cui Amelio si prodigò per aiutare i più deboli, episodi mai scritti da nessuno, e nemmeno raccontati da Amelio nelle poche interviste che gli furono fatte. Il racconto di Sergio terminò con una richiesta. Aveva visto che a Beverone, da poco tempo, era stato posto sulla salita che porta alla chiesa un medaglione commemorativo in bronzo raffigurante Amelio, e avrebbe avuto piacere piantare ai lati di questo medaglione due piantine sempreverdi, lui avrebbe provveduto ad acquistarle, ed io dovevo dargli un aiuto per la posa. Amelio, ormai in là con gli anni, tornò in visita a Beverone, era con un’altra persona, si fermarono un po' di tempo nell’aia al centro del paese con lo sguardo rivolto verso la moltitudine di paesi e città che da lì si possono ammirare, poi salirono sul monte dove c’è la chiesa. Una donna del paese lo riconobbe, sia da frammenti dei loro discorsi fatti a bassa voce, ed anche dal timbro di voce. Avrebbe voluto chiedere se era veramente Amelio, anche se ne era quasi certa, ma preferì non disturbare, e lasciò Amelio con i propri ricordi.
199
200
Un cuore grande Avevo sentito dire, forse da mia madre, che un istante prima di partire per il nostro ultimo viaggio, in una frazione di secondo avremmo rivisto tutta la nostra vita, non solo quanto crediamo di ricordare o che cerchiamo di far tornare a mente, tutto. È affascinante il solo pensiero di poterlo fare, ma chissà se poi sarà vero. Più in là vado con gli anni e più mi sembra che una parte del mio inconscio si stia allenando per questo evento, perché spesso mi trovo a pensare a persone o ad avvenimenti che apparentemente non saprei quale molla li abbia fatti saltar fuori così, all’improvviso, senza una spiegazione logica. Mi viene da chiedere in che parte del cervello possano essere conservati i vari ricordi, quelli di pochi giorni fa o quelli di tutta una vita, anche roba molto vecchia. Neuroni, sinapsi, cose da scienziati, così mi prendo la licenza poetica, e il mio cervello non se la prenda a male, di immaginare che il posto in cui vengono archiviati i ricordi sia il cuore, e così penso che abbiamo un cuore veramente molto grande. Un cuore-diario molto grande, in cui sono conservati i nostri ricordi, gli episodi e le persone conosciute ne-
201
gli anni. Gli amici dell’infanzia, una decina, perché il mio paese era molto piccolo e i contatti con i paesi vicini erano pochi, i miei paesani, poi i compagni delle scuole medie, i compagni delle superiori, i compagni del periodo militare, i compagni di lavoro, tanti perché ho cambiato vari lavori, le persone conosciute nel mio girovagare fra scuola e lavoro, amici e amiche, amiche poche, perché per mia fortuna non ho avuto le doti di chi fa strage di cuori, e così non ho fatto danni, perlomeno posso avere dei rimpianti ma non rimorsi. E così un cuore che dicono potrà pesare appena trecento grammi circa, diviso in tanti pezzettini, lasciato qua e là, e a volte ricordando qualcosa sembra che una piccola mano lo strizzi un po’ facendoci provare una sottile nostalgia. Ho terminato le scuole elementari a Beverone nel 1961. I paesi a noi più vicini erano: Rocchetta Vara, Veppo, Stadomelli e Garbugliaga, raggiungibili solo a piedi perché Beverone non aveva ancora una strada carrozzabile. Per l’esame di 5ª andammo a Suvero; il primo giorno qualcuno ci accompagnò, il secondo andammo da soli. Mi sembra ancora di rivederlo il percorso, e anche alcuni attimi in quell’affollata aula a Suvero, i timori, la timidezza, e le maestre
202
di altri paesi che cercavano di metterci a nostro agio. Passammo da Veppo e poi, dopo aver attraversato il torrente, si saliva verso Suvero. Io avevo dieci anni ma c’era anche chi ne aveva undici o dodici, perché l’avventura scolastica in quel periodo normalmente terminava con le elementari, e così a volte c’era chi per fare un anno di scuola in più ripeteva la quinta classe. La strada l’avevamo subito imparata bene e così, liberi da controlli e di perdere un po’ di tempo, al ritorno ci fermammo a Veppo dove qualcuno comprò al tabacchino un paio di sigarette che allora le vendevano anche sfuse. Agli inizi degli anni ’60 fu nominato parroco di Beverone un giovane prete pieno di iniziative, don Giovanni Tassano. Era molto timido, difatti arrossiva per un niente, ma aveva una volontà di fare incredibile, difatti fu il principale promotore per la costruzione della strada Veppo – Beverone che venne terminata a metà 1964. Poi don Tassano fu trasferito in un’altra parrocchia e poco dopo partì come missionario in Africa, nel Burundi. Non si era dimenticato di Beverone, e dopo alcuni anni, durante uno dei suoi brevi rientri in Italia, tornò a farci visita portando con sé un prete del Burundi; lo ricordo
203
bene perché era la prima volta che vedevo una persona di colore. In quel periodo a Beverone non c’era ancora nemmeno l’acquedotto e il telefono, anche se quest’ultimo al momento era il meno ambito. Fino ai dieci anni di età la vita scorreva leggera, senza grossi pensieri, come si spera che possa avvenire per quell’età, una vita quotidiana fatta di tanti piccoli e grandi episodi, un periodo in cui se si vive in luoghi che permettano di farlo, fortunatamente si vede ancora tutto rosa. Ricordo alcuni avvenimenti che non erano cosa di tutti i giorni. Ricordo la nevicata del ’56, che per spostarci da una casa all’altra la neve era stata spalata nella già piccola strada del paese, creando un piccolo passaggio con le pareti ad altezza d’uomo in cui passavano due persone a malapena. Ricordo le maestre, molto giovani, quasi sempre al loro primo incarico, che dovevano vivere nel paese e rientrare solo saltuariamente alle proprie case, se non in certi casi arrivare ad inizio anno scolastico e ritornare alle loro case al termine. Però, data anche la giovane età e i tempi in cui si viveva, il sacrificio era minimo, tanto che molte di esse, anche in anni precedenti ai miei ricordavano con affetto il periodo
204
trascorso a Beverone. Attorno agli otto nove anni mia madre portò me e mio fratello di due anni più grande a Rocchetta per farci tagliare i capelli. Il barbiere si chiamava Nazareno, e come per tante altre persone se chiudo gli occhi lo rivedo come allora e ne risento pure la voce; era di Brugnato e veniva a Rocchetta una volta la settimana, con gli attrezzi del mestiere dentro una borsa legata alla “canna” della bicicletta. Quando mia madre ritenne che eravamo in grado di andare da soli a Rocchetta, io e mio fratello ci avventuravamo giù per la Selva, io meno di dieci anni e mio fratello due di più. Il ricordo va anche alla macchinetta per tagliare i capelli azionata a mano, che forse perché non era ben affilata, o forse era perché era fatta così, ma durante il taglio dei capelli si sentivano dei bei tirotti che a pensarci mi fanno male ancora adesso. Non ricordo che fosse successo ad altri nel paese, ma a me capitò di avere un attacco di appendicite. Ora in città con un’autoambulanza si arriverebbe ad un pronto soccorso in breve. Allora venne il medico da Rocchetta, disse che era appendicite da operare e di partire subito per l’ospedale. I quattro chilometri che ci dividevano da Rocchetta mio padre
205
li percorse con me in spalla, poi da lì a Spezia ci portò Sivori, uno dei pochi ad avere un’automobile, e che si prestava in queste situazioni. Quando incominciai a stare meglio mio padre mi comprò un giornalino a fumetti che rilessi varie volte, e da qualche parte lessi della morte di Fausto Coppi, quindi era il 1960 ed avevo nove anni. Non ricordo l’anno preciso, comunque nella seconda metà degli anni ’50 arrivò la prima televisione anche a Beverone, a portarla fu il parroco. Le tv allora non avevano per niente lo schermo piatto e nemmeno erano leggere come oggi, erano dei cassoni pazzeschi, pesanti, esterno in legno, valvole, tubo catodico, bianco e nero. Ogni tanto bisognava alzarsi, il telecomando non esisteva nemmeno nei sogni, per andare a manovrare delle apposite manopole per regolare la sintonia orizzontale e verticale. Prima tutti al vespro, poi tutti in canonica a vedere il telegiornale, carosello, romanzi a puntate. Dopo la tv del parroco ne venne acquistata una da mio padre in società con il mio vicino di casa Giuàn, e se non ricordo male era usata. Ricordo il periodo che la tenemmo noi, in cantina, e la sera arrivava tutto il paese. I primi trovavano delle sedie, ma gli ultimi si arrangia-
206
vano alla meglio, e mia madre si lamentava del perché non si portavano le sedie da casa, robe da non crederci oggi. Oltre la televisione si dovette entrare abbondantemente negli anni ’60 per avere in casa il primo frigorifero e la lavatrice. Naturalmente prima di avere la prima lavatrice serviva l’acqua in casa e cioè l’acquedotto, e bisognava ancora aspettare. Si cucinava nella stufa a legna, d’inverno serviva anche per scaldare, ma con parsimonia. Il problema era d’estate. Così ricordo che noi spostavamo la stufa fuori casa per non morire surriscaldati. Sempre quello fu il periodo che fecero la loro comparsa i primi fornelli a gas, con la bombola. I tempi stavano cambiando, e così fui il primo del paese ad andare alle scuole medie, a Brugnato. In effetti le possibilità della mia famiglia non avrebbero potuto permetterselo, però bastava un paio di pantaloni e un paio di scarpe per tutto l’anno, magari dopo che mia madre aveva venduto un coniglio. Mio padre lavorava all’ufficio di collocamento di Rocchetta, e fino ad allora andava e tornava tutti i giorni a piedi, quattro chilometri da fare, all’andata e al ritorno. Lavorava mezza giornata, o al più fino alle due del pomeriggio, la paga non era un gran ché, pe-
207
rò poteva integrare quanto si raccoglieva nei campi. La scuola era a Brugnato, e non era possibile andare e tornare a Beverone tutti i giorni, così trovammo due posti alla meglio, partivamo al lunedì mattina e tornavamo il sabato. Ricordo il primo giorno di scuola a Brugnato. Era nata la media unificata, così vennero anche dei ragazzi che avevano terminato le elementari da uno o più anni, e la classe era affollata. Forse arrivai in ritardo, così appena entrato trovai una marea di ragazzi seduti e io lì davanti a loro con la borsa in mano. Non sapevo cosa fare, dove andare a sedermi, e me ne stavo li impalato vergognoso, ero abituato a cinque sei compagni di classe, cioè i ragazzi del mio paese, qui ero veramente un pesce fuor d’acqua. I futuri compagni di classe guardavano questa novità, cioè io, qualcuno rideva, e qualcuno cominciò a dire che somigliavo a un birillo o un chiodo, visto che me ne stavo impalato senza muovermi. Poi non ricordo come ma mi fu indicato un posto, ma per un bel po’ fui soprannominato birillo o chiodo. Tutto sommato, fra una serie interminabile di malattie varie, i tre anni passarono velocemente. Quante volte su e giù per la Selva con mio padre, con il bello e il brutto tempo, e quante cose vor-
208
rei ancora chiedergli che non gli ho chiesto durante quei viaggi. Durante il periodo estivo tornavo al paese, con mia madre, mio fratello e mia zia, ed anche se non ero allenato o capace come loro a compiere tutti i lavori della campagna, il mio contributo lo potevo comunque dare. Uno dei lavori che ricordo con affetto è quello del pastore. Avevamo meno di dieci pecore, e certamente era molto meno impegnativo del periodo in cui mia madre era pastora, in cui avevano pecore e mucche, e dovevano fare attenzione ai confini. Oggi, avendone le possibilità economiche, per i ragazzi delle varie età esistono decine o centinaia di giochi e divertimenti vari, forse anche troppi. In quei periodi i ragazzi diventavano grandi molto prima di adesso, già prima dei dieci anni tutti portavano pecore e mucche al pascolo, e dovevano riportarle tutte a casa; poi, poco dopo i dieci anni, a me non è capitato, ma in tanti non solo lavoravano i propri campi, ma andavano anche a giornata. Per i giochi a volte ne dovevano fare le spese i vari animaletti o insetti che ci capitavano sottomano. Quando si faceva il pastore vi era anche del tempo libero e così si potavano fare delle cose utili, come prepararsi
209
una fascina di legna da portare a casa, oppure cercare il modo di divertirsi. Una volta sotto una roccia si intravedeva una piccola tana, poteva esserci qualcosa di interessante, poteva esserci anche una vipera o altro; infilai tutto il braccio e sentii pungere: era una piccola famiglia di ricci. Per loro fortuna dopo averli visti e dato che non potevano servire a niente di più interessante di averli visti, li rimisi nella loro casa. Un’altra volta vidi un grosso nido sopra un castagno. Salii e vi trovai una famigliola di scoiattoli, visti e presi e portati a casa. Un paesano, cacciatore che allora cacciava anche gli scoiattoli, e non per sport ma per arrotondare l’alimentazione, mi disse che era meglio riportarli nel loro nido, che però poi la mamma li avrebbe trasferiti sicuramente in un altro nido che questi animaletti usano preparare per emergenza. Difatti li riportai nel loro nido, ma il giorno dopo erano già spariti; per curiosità cercai nei dintorni, ma non li ritrovai. Una volta trovai anche una piccola volpe e la portai a casa. Dopo pochi giorni, anche se era ancora un po’ diffidente, prendeva il cibo anche dalle mani come un cagnolino. Di notte a volte guaiva, pensavo che fosse il suo istinto, però di giorno sembrava tranquil-
210
la e già domestica. Poi un giorno non volle più mangiare; la liberai, ma non volle andare via e così si lasciò morire. In campagna allora le volpi erano numerose e per niente ben viste, dato che trovavano sempre il modo di entrare in qualche pollaio a far razzia di galline, e per questo erano cacciate con trappole e fucili. Comunque mi dispiacque e pensai che sarebbe stato meglio se avessi lascito il volpacchiotto nel bosco, salvo poi dargli la caccia se si fosse presentato a far danni. Non è per niente facile capire queste cose ai nostri tempi, come non è facile capire altri avvenimenti del passato, per giudicare occorrerebbe essere vissuti in quel tempo e proprio in quel momento perché ogni tempo ha le sue usanze e i suoi modi di fare. Certe cose si facevano per divertimento, altre per necessità, per mangiare, e oggi penso che alcune cose non le rifarei. Forse che siamo diventati migliori oggi? Forse più sensibili verso gli animali, ma non sembra, visto i cani e i gatti abbandonati alla loro sorte quando si deve andare in ferie. Forse più sensibili verso le persone, ma anche in questo caso visto i vari episodi di razzismo e bullismi vari, purtroppo penso che la situazione sia peggiorata.
211
C’erano anche altre attività più innocenti. Si sarebbe potuti stare per ore ad osservare le formiche partire dai loro formicai per andare alla ricerca di ogni sorta di semi. Inizialmente il percorso era comune per alcuni metri, che a forza di zampettarci sopra si formava una piccola autostrada, poi si dirigevano verso varie direzioni. Le formiche cariche dei loro semi, a volte piccoli a volte enormi che causavano degli ingorghi al traffico, tornavano al cratere della loro casa, e qui in un attimo il raccolto veniva introdotto velocemente all’interno, immaginavo aiutate dalle esperte formiche magazziniere. Spesso si trovava qualche stercorario intento a trasportare chissà dove la sua pallina di sterco di mucca, una sferetta di un paio di centimetri di diametro. Ho letto che lo scarabeo stercorario utilizza queste palline come nutrimento e per deporvi le uova; inoltre siccome le fa rotolare spingendole con le zampe posteriori non ha una visuale precisa per portarle dove vuole, comunque percorre una linea retta seguendo un suo particolare orientamento. A quei tempi sterco di mucca o di pecora, girando per i boschi se ne trovava ovunque, ma ora che di mucche e pecore non ce ne sono più che fine avranno fatto gli stercorari? Poi vi era
212
un altro tipo di scarabeo, alla vista più bello dello stercorario, ed era il maggiolino color verde smeraldo. Aveva un volo lento, ed appena se ne sentiva il volo nei paraggi si cercava di catturarlo. Fatta la cattura gli si legava ad una zampetta posteriore un filo da cucire lungo un paio di metri, tenendo fra le dita l’altro capo del filo. Il divertimento consisteva nel farlo volare tutto in tondo, visto che era bloccato da filo, finché il poveretto si stancava e non volava più, a quel punto si era guadagnato la libertà. Quelle distese di campi in cui nascevano spontaneamente i “Gladioli dei campi” selvatici, e le belle spighe da noi chiamato “Loğiu” ma meglio conosciuto come “Zizzania” che si estirpavano, ma qualche piantina si nascondeva sempre fra le spighe di grano, e così l’anno successivo se ne trovavano ancora. Lo spannocchiare del mais nei campi, e poi portare a casa le pannocchie in spalla nelle ceste, e le donne in testa. Tanti altri lavori nei campi e nei boschi, per tutto l’anno. Contrariamente a quanto a volte si sente dire che in campagna d’inverno ci si riposa, invece c’è sempre qualcosa da fare, a volte anche troppo, perché i vari lavori si susseguono ininterrottamente
213
come se fosse stato tutto organizzato… I nostri piccoli paesi, le nostre campagne, i boschi, si stanno spopolando. Si romperanno molti equilibri uomo natura che si erano consolidati per secoli. Così anche per tanti animali e insetti vari le cose cambieranno. Alcune specie prevarranno, altre si ridurranno di numero drasticamente, altre riusciranno ad adattarsi e a sopravvivere. E così, dopo questi ricordi, non mi rimane che ripetermi la domanda che mi ero posto all’inizio: “Che ne sarà di Beverone, che ne sarà di tutti questi piccoli paesi?”
214
Beverone Anno 2020