D’enzàn’là
Schegge di Beverone Sergio Antognelli
D’enzàn’là Schegge di Beverone
Sergio Antognelli
Premessa Questa breve raccolta di ricordi non è solo il naturale proseguimento del libretto “Battiventu de Beveùn”, ma la sua parte mancante, perché in quel periodo non erano ancora pronti. Ora penso di aver terminato di raccontare, fra ciò che ricordavo e che ho ricercato, quello che più mi premeva su Beverone. Forse a prima vista storie di poco conto, ma a volte anche le cose più semplici e banali ci possono far comprendere un modo di vivere o di comportarsi di un periodo che non è il nostro.
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Introduzione Generazione di transizione la mia, sballottata di qua e di là, “d’enzàn’là” da un’evolversi di grandi mutamenti, a cui non era preparata. Nata in quel periodo in cui i paesi della Val di Vara vivevano ancora del lavoro dei campi, come se la guerra, oltre che a essersi portata via tante vite, non avesse causato alcuna trasformazione. E mentre piccoli segnali facevano intendere che qualcosa stava cambiando, che forse si poteva sperare di star meglio, vi era chi, magari data l’età ed anche le limitate possibilità, continuava la sua antica vita, vedendo tutte le novità con occhio dubbioso, come se fossero provvisorie e poi si sarebbe tornati indietro, come se niente dovesse cambiare. Altri più giovani invece, seguendo il vento del cambiamento, cambiarono vita riuscendo perfino a dimenticare i propri paesi di origine. Poi, fra i giovani vi erano anche quelli come me, che si trovarono a vivere una vita diversa dai genitori, chissà se forse, o se certamente migliore, che lasciarono la vita dei campi, però ne erano rimasti contaminati, ed era come essere nati, cresciuti, ma non aver ancora reciso il cordone. Mentre anch’io come gli altri cercavo di adeguarmi ai tempi, come altri sono restato con un piede nel passato, e con l’andare degli anni, sentendo quasi come un richiamo, mi sono sentito attratto, prima piano piano poi sempre di più, da quel passato, anche quello sconosciuto, ritrovandomi in compagnia degli inguaribili innamorati di tutto ciò che in qualche modo riguarda i propri luoghi, e allora mi sono detto: 5
perché non tentare di ricostruire e così riviverne alcuni episodi, quelli un po’ più significativi, o perlomeno che hanno lasciato un segno, e scrivere, guidato dal solo piacere di farlo, senza pormi un ordine preciso, trasportato con il pensiero qua e là, “d’enzàn’là”? Poi, accorgendosi di quanto il compito sia complicato, armarsi di pazienza, ricorreggersi varie volte, ma soddisfatto per ogni racconto terminato, sia per essere tornato un po’ indietro con gli anni, ed anche per essere riuscito a ricordare cose che sembravano dimenticate per sempre, figurandole nella mente come un’importante pagina di storia. Come se quei gesti, quella gente, non fossero dimenticati nel giro di un paio di generazioni. Perché non provare? Non so quale sarà il risultato, ma non ho grandi pretese, e poi per me non è nemmeno più il tempo di cercare un bel voto, ho già avuto la mia ricompensa nel poter raccontare queste cose. Con tutti i miei difetti, come compagni di lavoro, spero che mi aiuti la voglia di fare, e anche un po’ di fantasia. A chi si troverà a leggere queste brani chiederei di non soffermarsi sulla forma, non potevo far di meglio, queste erano le mie capacità. Il contenuto invece potrà essere discutibile, perché ciò che ho cercato di raccontare è dipeso solo dal mio modo di vedere e ricordare; saranno ben accette le osservazioni, così non sarò io a raccontare ma ad ascoltare, e nell’ascoltare imparare, perché nessuno di noi finisce mai di imparare. 6
Presentazione Per quanto Beverone oggi possa sembrare piccolo, a chi fosse passato di qua un secolo fa, stalle a parte, sarebbe apparso ancora più piccolo, perché di case ve ne erano meno di adesso, e ne avremmo incredibilmente trovate ancora alcune coperte a paglia. Quelle fuori del paese non erano ancora state costruite, altre, nel paese vero e proprio, erano stalle poi trasformate in case nell’ultimo mezzo secolo. Alcune di queste stalle poi, pietra dopo pietra, sono cadute ed ora non si vedono più. Oggi, del comune di Rocchetta, Beverone è il paese che più di tutti appare indifeso e bisognoso di aiuto e protezione. Non si può lasciar conficcare sul monte, poco distante dalla chiesa, un’antenna dopo l’altra, senza dire “basta, ora Beverone la sua parte l’ha fatta!”. Non è per compassione, ma un suo diritto il non essere abbandonato ad un lento degrado perché ora non è più autosufficiente come lo è stato per secoli; perché siamo in un’era, e gli eventi lo dimostrano giorno dopo giorno, che autosufficienti non le sono più nemmeno le grandi città. L’uomo, un pò per natura e forse di più per egoismo, ha la testa dura e scarsa memoria. Molto spesso vede solo il suo tornaconto del momento, non guarda oltre il proprio naso, figuriamoci se si sforza di guardare un po’ indietro. Non tiene in considerazione che la vita, come la storia, è una ruota che gira: oggi può andar bene, ma appena ieri così non era, e chissà come sarà domani. Al tempo delle scorrerie dei Saraceni nei paesi della riviera, furono in molti a cercare rifugio in Val di Vara. 7
Durante la seconda guerra mondiale la città, vittima di bombardamenti era quasi deserta, la gente cercava miglior sorte sempre nei soliti paesi della vallata. I poveri contadini condivisero le loro risorse, a volte loro malgrado, fra sfollati, partigiani, brigate nere e tedeschi. È passato poco più di mezzo secolo, per la storia un battito di ciglia, ed ora questi paesi, specialmente i più piccoli, non sono più considerati una risorsa, anzi, anche se velatamente, sono considerati come una palla al piede. La Val di Vara è composta da tanti paesi, che in certi casi sono antichi poderi, una o due case sparse, e di alcuni quando se ne sente il nome, ci si domanda: “dove sarà?” Per ogni paese che scomparirà, ed è già successo, è stata e sarà una sconfitta per tutta la vallata. Lì, dove tutte le porte si sono chiuse non hanno fatto rumore, un alito di vento si è portato via secoli di storia. Si è perso e si continuerà a perdere parte del nostro patrimonio, e non solo nostro ma anche di chi non ricorda di possederlo. Il pensiero va ai nostri vecchi, a secoli di sacrifici e fatiche, e del loro svanire ora noi non possiamo far altro che esserne impotenti spettatori.
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Indice
Beverone e l’Aurelia…………… I nostri………………………… Il falò di San Giovanni………… Il grano………………………... Il pane…………………………. Filastrocche……………………. Gli ulivi………………………... I tre mulini…………………….. La rivincita delle patate………… Viaggio a Spezia……………….. Il mistero della Piana degli orti…
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Beverone e la via Aurelia Tante volte, ammirando il panorama dal piazzale della chiesa, è capitato di osservare giù in basso lo snodarsi della via Aurelia e i vari paesi che attraversa nel suo percorso. E chissà quante, fra le molte persone che nel corso dei secoli sono transitate lungo di essa, avranno rivolto il loro sguardo all’insù, verso il monte Beverone. Allora un pensiero anche per questa importante ed antica via di collegamento. Allo scopo non ho trovato di meglio che rivisitare un precedente racconto, immaginando un ipotetico dialogo con questi due protagonisti: Beverone e la via Aurelia. L’Aurelia e Beverone, compagni di viaggio … il viaggio della vita. A pensarci non sembra vero ma questa faccenda inizia più di duemila anni fa. La via Aurelia non si chiamava ancora così, e nemmeno Beverone. Per lei, data la sua importanza basta sfogliare qualche libro e si scoprono le sue origini unite a vari episodi, più o meno felici, avvenuti sul suo percorso, attentati, rapine, viaggi di papi, mentre per lui, anche se molto più vecchio ma storicamente meno importante, solo qualche notizia buttata li, a volte in modo anche abbastanza approssimativo. Però l’Aurelia anche se era importante non era per niente arrogante, e divenne subito amica del piccolo Beverone. Lo intravedeva da lontano, laggiù dalla Versilia, sembrava di vedere due piccoli seni, uno tondo e l’altro un pò a punta, Beverone ed il suo vicino Monte Nero.
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L’Aurelia lo considerava come una vedetta che le raccontava cosa accadeva in quel tratto della Val di Vara. “Ciao Beverone, come va qui?” Chiedeva lei. Rispondeva lui: “Beh, qui la vita è dura, il clima è buono, però i raccolti sono scarsi, e un anno per un motivo, un anno per un’altro, è incredibile come questa poca e povera gente riesca a sopravvivere. Però tutto sommato cercano di andare d’accordo e di darsi una mano”. “Pensa - dice l’Aurelia - giù a Roma ci sono delle donne che non hanno i calli nelle mani come le donne di qui anzi, per avere la pelle ancora più bella fanno il bagno nel latte d’asina. A proposito della mano, anche laggiù se la danno, si ma con dentro un pugnale, per uccidersi a vicenda, e impadronirsi del potere”. E via così, a raccontarsi le avventure della gente con cui avevano a che fare. Beverone lassù a 702 metri di altezza, a metà strada fra Padivarma e Borghetto, piccolo monte tondo con la sua chiesetta e il campanile in un lato. Dove potrebbe incominciare la sua storia? La conformazione del suo territorio e la posizione strategica, fanno supporre che avesse i requisiti necessari affinché vi potessero abitare gli antichi liguri, migliaia di anni fa. Magari un giorno si troveranno le tracce di un “castellaro”, il loro insediamento tipico. Scavate nella roccia viva sono ancora visibili le sagome di piccole casupole. Chissà se appartengono a quei periodi o seguenti. La storia dice che gli spostamenti dei romani, agli inizi della loro espansione, avvenivano sui crinali, per evitare agguati a cui si era più esposti quando si percorrevano vie più comode a valle, ma anche più pericolose. Ecco la necessità di fare sorvegliare dalle alture che offrivano maggior visibilità le vallate, predisponendo dei fortilizi con delle piccole guarni12
gioni che segnalassero il pericolo al grosso dei movimenti che così avvenivano in modo più veloce a valle. Uno di questi percorsi di crinale molto probabilmente passava da Beverone e proseguiva verso Brugnato passando dal Monte Nero. Se potessero parlare questi sentieri! Quante storie da raccontare … gli antichi liguri … forse anche i celti, in una sorta di convivenza pacifica non dominante … i romani … secoli dopo i pellegrini dei grandi pellegrinaggi, difatti qui passava una diramazione che portava alla via francigena, naturalmente poi tutto il movimento locale. Non si conosce la data e nemmeno il periodo in cui venne costruita la chiesa. La memoria popolare dice che assieme a quelle di Bocchignola e Montedivalli fossero le più vecchie del circondario. A volte non si da l’importanza dovuta a questi edifici, infatti oltre all’importanza religiosa che è ovviamente primaria per i cristiani, è anche grazie alla loro importanza storica che si riscopre un po’ del nostro passato. Purtroppo non sono mai stati fatti degli studi approfonditi. C’è un’ipotesi per cui pare che sia stata costruita sulle mura di un antico fortilizio di cui sarebbero ancora visibili tratti delle mura esterne. Osservando l'architettura interna, a due navate come sono le più antiche chiese liguri, appare costruita in due epoche diverse. In uno scritto del 1825 circa si legge: "Questa sotto il titolo di S. Gio: Batta Decollato è stata consacrata, ma non esiste memoria alcuna del tempo o epoca di consacrazione, e neppure della fondazione o fondatori di essa". Se si era persa già in quel periodo questa memoria così importante, viene da pensare che di tempo, già a quella data, ne fosse passato parecchio. Da documenti conservati nell’archivio vescovile di 13
Luni - Sarzana, si trova il resoconto di una visita apostolica alla chiesa di Beverone nell’anno 1584. Per quanto il paese possa essere stato piccolo, sembra certo che fosse in cima al monte, in tempi in cui era preferibile vivere in luoghi strategicamente sicuri, ed era meglio subire le ingiurie degli agenti atmosferici che altri pericoli ben peggiori. Non sappiamo quando il paese possa essersi trasferito e perché in quello attuale, anche se un periodo si potrebbe ipotizzare, magari aiutati da opportune ricerche e scavi. Pare che dal monte, un giorno se ne staccò una bella fetta, che risparmiò l'area dove è ora la chiesa. A quel punto visto il pericolo gli abitanti si sarebbero trasferiti più in basso, cioè dove ora. Poi c’è anche un’altra motivazione per cui il paese si sarebbe spostato più in basso, ed è legata ad una leggenda che vale la pena ricordare, la leggenda del “dügu”. Quando il paese era ancora sul monte della chiesa, ogni tanto vi faceva le sue scorrerie un animale dotato di grandi ali e artigli: era il “dügu” e portava via i bambini. Per questo decisero di costruire il paese più in basso, meno esposto alle sue incursioni. Quanto è leggenda o realtà? Intanto pare che questo animale facesse delle sortite anche oltre Beverone, quindi viene da pensare: o che tutti i genitori col tempo si fossero tramandati questa leggenda per far sì che i più grandi prestassero attenzione ai fratellini, o che qualcosa di volante dovesse esserci per davvero. Per quanto riguarda la leggenda, era conosciuto il grifo o grifone, un animale favoloso mezzo aquila e mezzo leone, fra l'altro simbolo di Genova, magari un parente del nostro “dügu”. Nella realtà si poteva trattare del grifone vero, un rapace che in tempi passati esisteva in Val di Vara, che è solito costruire il suo nido 14
in grotte e sulle rocce, e all'aspetto è più pauroso e un po’ più grande di un'aquila. Guarda caso la grande parete del monte Beverone visibile dall’Aurelia, è composta da speroni, anfratti e rocce di un diaspro vinato scuro, e sembra l’habitat ideale per i “düghi” … pardon, i grifoni. In tempi più recenti un cacciatore ha raccontato di averlo visto, ma non solo, gli ha pure sparato, però non è riuscito a colpirlo. Anche qui rimane un po’ di dubbio, conoscendo il cacciatore un po’ burlone, sarà stato vero o avrà voluto far la sua parte per tener viva la leggenda? Antichi e forti beveronesi, dovevano combattere e difendersi dal “dügu” e si vorrebbe dire che era una leggenda! Bisognava averlo visto da vicino per credere quanto poteva essere spaventoso! Antichi beveronesi, piccole comunità con origine lontane, molto lontane, costrette per necessità ad escogitare sempre nuove strategie di sopravvivenza, lunghi periodi di clima avverso, danni a boschi e culture, anni di carestia, invasioni di lupi, peste che ciclicamente faceva la sua comparsa, il vaiolo, ed ogni sorta di malattia contro cui non sapevano come combattere, e chissà quante altre ne avranno passate. Questi fatti sono avvenuti, sono storia, e non certamente la storia di un ieri vicino. Ma a noi beveronesi cosa rimarrà di quel passato? Rimarrà poco, come poco rimarrà di altri piccoli paesi della Val di Vara, se non ci sarà chi ricercherà pazientemente e poi scriverà le poche memorie rimaste. La grande storia, quella delle grandi città e delle grandi imprese è scritta, ma quella di questi piccoli paesi che a malapena avranno raggiunto il centinaio di persone, è praticamente sconosciuta, ma non per questo un patrimonio da non conservare. 15
“Cara vecchia Aurelia, forse dopo la costruzione dell’autostrada tu sei diventata un pò meno importante di un tempo. Mi hanno detto che in certi tratti hanno addirittura sostituito la dicitura “strada statale” con “strada provinciale”, come se bastasse un cartello di latta per togliere i meriti guadagnati dopo anni di fatica e sudore mescolato alla polvere. Lasciali fare, tu rimarrai sempre la numero uno. Vedo che per muoversi sopra di te, per asfaltarti usano mezzi sempre più moderni, e se ti frana un muretto te lo ricostruiscono. Insomma bene o male tu riesci a stare al passo con i tempi. Tempi che cambiano, il mondo intero cambia a ritmi sempre più frenetici, e forse la mia gente non è più in grado di adeguarvisi. Da qui si gode sempre un bel panorama, con grande visione della vallata e ben oltre, e come avrai visto hanno sfruttato questa particolarità per costruire sul monte, nel lato opposto alla chiesa, un traliccio con tante parabole, alto il doppio del campanile. Dicono che serva per comunicare tra persone e pare con degli oggetti che chiamano cellulari. Mah! A me sembrava più comodo come facevamo un tempo con dei falò. Però mi chiedo, pagheranno pure un affitto per questo traliccio, ed allora visto che questa è un’opera di interesse comune, come mai non riparano quel muretto di pochi metri, che sostiene la stradina che porta sul monte? E non riparano un po’ la strada che attraversa il paese? Eppure è stato comodo transitarvi per il trasporto dei materiali durante la costruzione ed ora per la manutenzione. Forse il motivo sarà per quella che oggi chiamano la logica del profitto unita ad un egoismo sconsiderato?” 16
“Caro vecchio Beverone: però sei caparbio eh! Sono duemila anni che parliamo di queste cose, ormai dovresti averla capita. Con il passare dei secoli cambia chi governa, cambiano i confini, ma ci saranno sempre delle ingiustizie più o meno o enormemente grandi, la giustizia non è di questo mondo. Tu però non ti arrendi, con quella tua testa dura, come quella della tua gente. Anche i romani si dovettero accorgere che voi liguri avevate la testa dura. Non che foste dalla parte del torto, eravate nel vostro territorio, vi eravate da millenni, ma loro dovevano e volevano passare da qui. Qualcuno di voi si integrò, qualcuno fu deportato, insomma è andata come è andata. Dai Beverone su coraggio, io ti ho sempre voluto bene, te l’ho già detto altre volte e ora te lo ripeto”. “Cara Aurelia: anch’io ti ho sempre voluto bene, e serve dirsi che ci si vuole bene, lo dovrebbero capire anche le persone. Tu continuerai ad essere la numero uno, e magari alcuni che si troveranno a passare in questo tuo tratto, volgendo lo sguardo in alto vedranno il monte tondo con la sua chiesetta penseranno: fermiamo per qualche ora la nostra corsa e andiamo lassù a dare un’occhiata a quel posto. Poi come ad altri potrà venire spontaneo dire: che bel paesino … come è ben tenuto … qui sembra che il tempo si sia fermato. Ma il tempo non si ferma, corre … corre … Paradossalmente anche se oggi ci sono quei comodi che appena una cinquantina di anni fa erano fantasia, le esigenze cambiano anche per i miei paesani, che pian piano diventano sempre meno. Allora come potrò io rimanere tuo compagno di viaggio per la vita, se dovesse venirmi a mancare la presenza della vita dei miei paesani? 17
I nostri Diversi anni fa andai a trovare mia zia Maria all’ospedale, e mi è rimasto il ricordo di una frase che lei mi disse al termine della visita: “salutami i nostri”. Mi sfuggiva qualcosa, ma sentivo che era un modo di dire importante. Poco tempo fa, mentre io come tanti altri beveronesi ci ritrovavamo per l’ultimo saluto ad una nostra paesana, passando dietro un’automobile mi sentii chiamare per nome, “Serzu”, in dialetto, con quella caratteristica “Z” beveronese che in tante parole prende il posto della “G”. Mi fermai, la salutai, era la Ivana, e le chiesi: “come hai fatto a vedermi che ti ero di spalle”? Mi rispose: “i nostri si riconoscono subito, anche senza vederli”. Ecco di nuovo quel modo di dire, ma ancora non riuscii a trovare la corretta spiegazione. Poco dopo mi trovai con un’amica beveronese, e le raccontai la cosa. Lei trovò la parola che spiegava tutto: “appartenenza”. Il senso di appartenenza a un paese, la sua chiesa, il cimitero, l’aia dove ci si ritrova per le feste. Da non fraintendere come l’appartenenza ad un branco a cui tutto è concesso, ma come una grande famiglia, in cui si vuol bene e ci si aiuta, uniti da un legame, purtroppo a volte tradito, ma nato assieme a noi.
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Il falò di San Giovanni A Beverone c’è un avvenimento che si ripete ogni anno, da molti anni, e che vale la pena di essere ricordato. Si potrebbe raccontare il tutto con poche righe, ma per capire meglio sia l’avvenimento che il periodo sarà necessario entrare anche in alcuni piccoli dettagli. Il ventinove agosto da secoli si festeggia San Giovanni Decollato, patrono del nostro paese, e la sera precedente è tradizione fare il falò in suo onore. Come per altri usi ed avvenimenti le cose cambiano, un po’ per volta anno dopo anno, proviamo a ricordare come era “una volta”, per passare poi a ciò che è rimasto. Era compito dei ragazzi andare nei boschi in cerca di pigne, un bel po’ di pigne. Occorre precisare che per ragazzi si intende chi aveva attorno ai dieci anni, perché appena superata di poco questa età, diventavano grandi e, troppo presto, facevano il lavoro da grandi. I sacchi di pigne raccolti si svuotavano al coperto, al piano terra del campanile, che allora non aveva ancora gli archi chiusi a mattoni. Compito dei grandi era mettere insieme il necessario per il falò. Per quanto strano possa sembrare ai nostri giorni, con i boschi che ormai ci entrano in casa, appena una cinquantina di anni fa non era facile trovare del legname anche di scarto per fare il falò; i boschi erano molto puliti, sia per il bestiame che vi pascolava, sia perché tutto il legname secco, anche la legna più piccola, era impiegato per gli usi domestici. Normalmente venivano fatte delle fascine di “bochi maìn”, arbusti forniti di belle fronde che avrebbero fatto una bella fiamma, e che avevano anche un tronco legnoso in modo da mantenerla viva per 19
un po’ di tempo. Il monte della chiesa, grazie alle pecore che vi pascolavano, era perfettamente pulito; oggi potremo dire ben ordinato, tipo un prato inglese, o un bellissimo campo da golf. La legna per il falò veniva ammucchiata nella parte centrale del monte, il punto più rialzato, sopra una roccia di diaspro rossastro, nemmeno troppo consunto perché forse temprato dai molti falò. Sia per i grandi che per i piccoli, ognuno per i propri motivi, era grande per tutti l’attesa dei ’29, e la festa incominciava con la sua vigilia. Dopo cena, poco dopo l’imbrunire, il parroco celebrava la messa, terminata la quale all’uscita dalla chiesa ci si trovava al buio. La prima operazione era quella di distribuire le pigne lungo tutto il monte, per tutto il percorso che si compie il giorno dopo con la processione di San Giovanni, a mucchietti di una diecina di pigne ciascuno. I punti dove mettere le pigne non erano scelti a caso, erano sempre gli stessi degli anni precedenti, riconoscibili dalle piccole buchette bruciate dal fuoco anno dopo anno, in cui la poca erba a distanza di un anno riusciva a crescere un pochino solo sul loro bordo. Era questo più che un compito il divertimento dei bambini, che iniziando da una sola pigna accesa, e catturando il fuoco con altre pigne, in breve accendevano una trentina di piccoli fuochi lungo il monte, metà da una parte e metà dall’altra dal punto del falò. Una volta accesi questi piccoli fuochi la strada sul monte, all’incirca duecento metri, era ben illuminata e facilmente percorribile anche da chi non la conosceva, e man mano le persone si avvicinavano al punto del falò. Normalmente si lasciava l’onore della sua accensione al parroco, che sistemate le cose in chiesa arrivava giusto in tempo per questa operazione, salvo rare volte che qualcuno lesto di 20
mano, incurante della tradizione anticipava i tempi, causando non pochi mugugni. Non era una cosa particolarmente difficile anzi, bastava un ramo incendiato sopra le pigne, accostarlo al falò e poi ci pensavano i “bochi maìn” a compiere il resto. In breve si alzavano delle belle lingue di fuoco tempestate dalle faville che si rincorrevano a grappoli ora da un lato ora dall’altro del falò. Quando le fiamme calavano un po’, i ragazzi come inebriati dalla rara occasione di divertimento che avevano a disposizione, si rincorrevano facendo il salto ad ostacoli sopra i piccoli fuochi delle pigne, con il pericolo di bruciacchiarsi nelle fiamme di qualche mucchietto rimasto più energico degli altri, o di cadere inciampando nei vari spunzoni di sasso, ma a parte qualche rimprovero dei grandi, forse aveva effetto il gran lavoro a cui in quella sera speciale erano chiamati a fare i vari angeli custodi. Poteva succedere che qualche pigna accesa, accidentalmente o in qualche altro modo, rotolasse un po’ più in basso, ma data la grande pulizia del monte, in cui le pecore non concedevano a nessun rovo di diventare un cespuglio, al di fuori della poca erba rimasta, rinsecchita dalla calura estiva, non c’era niente da bruciare, e se proprio la pigna rotolata riusciva ad accendere un fuocherello, poi finiva che si spegneva da solo. Poi, in aggiunta a questi fuochi naturali, i beveronesi a volte ricorrevano agli effetti speciali. Era un’usanza di cui se ne conosce l’esistenza certa già nella seconda metà dell’800. Veniva acquistata della polvere da sparo, sotto forma di stecche cilindriche, che poi erano rotte in piccoli frammenti, presi fra le dita, incendiati mettendoli a contatto con il fuoco e lanciati in aria. Il risultato era una bella fiamma viva che illuminava l’oscurità, e che emetteva anche un legge21
ro soffio percepibile da chi vi era vicino. Un altro risultato a volte era anche qualche polpastrello bruciato, o perché il frammento era troppo piccolo, o perché si era lanciato in ritardo dopo l’accensione, ma era un fatto a cui si dava poca importanza, viste le mani callose degli uomini abituati ad usarle come fossero robusti attrezzi da lavoro. La polvere da sparo era usata anche dai più esperti per dei botti che chiamavano “mortaletti”, usando delle tecniche artigianali in cui occorreva fare anche un po’ di attenzione. Cosa rimane a noi di questa bella tradizione? Il monte della chiesa non è più pulito come nel passato, e per rendere agibile il percorso della processione occorre ripulirlo dalle erbacce. Ovunque vi sono cespugli di rovi o piccoli arbusti, ed il rischio di incendi è ora aumentato enormemente. In questi ultimi anni il falò lo facciamo ancora nello stesso punto in cui è sempre stato fatto, ma le sue dimensioni per sicurezza sono quelle di uno dei vecchi mucchietti di pigne, muniti anche di un paio di secchi d’acqua, e se ci si trova in numero sufficiente viene accompagnato anche da qualche canto. Anche se non ce lo diciamo mai, quasi per scacciare un po’ di nostalgia, sentiamo la mancanza di quella lunga fila di fuocherelli di pigne, e del grande falò, però il nostro spirito è rimasto quello di un tempo, come se l’avessimo dentro al nostro sangue, e mentre scendiamo dal monte verso il paese, oltre che alla festa del giorno dopo, il pensiero va anche al piccolo falò che ci riunirà, come si usa dire “tempo permettendo”, l’anno successivo.
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Il grano Non è così semplice come possa sembrare il raccontare avvenimenti o usanze del passato avendo a disposizione solo la parola per farlo, come pure non lo è riuscire a trasmetterne emotivamente il modo di vivere e di lavorare. Con l’aiuto di immagini, non sempre facilmente reperibili, la cosa risulterebbe molto facilitata, però diminuirebbe anche l’impiego della fantasia che, particolarmente nella lettura, ricrea in ognuno persone e luoghi diversi. Questo racconto proverà a spiegare come e cosa si faceva per produrre il grano, o meglio, ciò che faceva l’ultima generazione che lo ha fatto, che non differiva da ciò che si faceva da generazioni, ad esclusione della trebbiatura, poiché solo negli ultimi decenni si è avuta a disposizione la trebbiatrice azionata dal motore a scoppio. Il cambiamento, anche se forse pochi lo percepivano, era nell’aria già da qualche anno; i buoi erano stati sostituiti dai trattori, poi, come se tutti i paesi della Val di Vara si fossero dati appuntamento, anno più anno meno, agli inizi degli anni '70 si terminò questa coltivazione, tutto finiva e diventava storia. Il grano è stato uno dei prodotti più importanti per la sopravvivenza dei nostri antenati per millenni. I campi erano coltivati a rotazione, quindi non sfruttati in modo intensivo come avviene ai nostri giorni. Per esempio un campo in cui erano state coltivate le patate, quando queste venivano raccolte sul finire di agosto usando il “rampone” a due denti, lavorando il terreno palmo per palmo, compresi quegli spazi che non vi erano patate, togliendo accuratamente le erbe infestanti, risultava già coltivato per seminarvi 23
il grano. Oppure, sempre a rotazione, il grano poteva essere seminato in un campo in cui era stato raccolto il mais sul finire di settembre, in questo caso il terreno che era stato coltivato in aprile (il mais normalmente si seminava il 25 aprile, San Marco) doveva essere leggermente dissodato, possibilmente con l’impiego dell’aratro di legno tirato dai buoi. Il periodo di semina andava da ottobre a non oltre la fine di novembre, e le qualità utilizzate erano: Frassanétu, Barbùn, Munte Carlu. Vi era una eccezione, una varietà precoce, il “Verziliu” oppure “Marzë”, che si seminava di marzo. Il grano era seminato a mano, ed il gesto di spargere il seme è forse di tutto questo racconto la cosa più semplice da poter immaginare, è un gesto ritenuto simbolico, e tempo addietro è stato pure raffigurato in una moneta. Poi i semi venivano ricoperti con un leggero strato di terra, e questo poteva essere fatto usando un rastrello di ferro se fatto a mano, oppure con l’erpice tirato dai buoi. Non sempre ci si poteva avvalere del lavoro dei buoi, perché non si possedevano, perché non ci si poteva permettere la spesa, o anche perché certi campi ubicati in luoghi impervi, essi non potevano raggiungerli, ed in questi casi il lavoro era tutto fatto a mano, con la vanga o con il solito “rampone” a due denti. I semi germogliavano e poi spuntavano prima che arrivasse l’inverno, gli esili filini all’apparenza indifesi, restavano di piccole dimensioni per tutta questa stagione, senza crescere esteriormente, sviluppando però le radici. Sembravano indifese le piccole piantine, ma a volte passavano anche lunghi periodi sotto spesse coltri di neve senza subire danni, come d’altronde diceva il proverbio “sotto la pioggia fame, sotto la neve pane”. Proprio per evitare il ristagno dell’acqua, a 24
seconda delle dimensioni dei campi, e calcolando ad occhio le pendenze, venivano fatti lungo di essi uno o più solchi, in modo che se fosse capitato un inverno piovoso l’acqua potesse defluire agevolmente. Arrivati in primavera i piccoli campi seminati a grano erano facilmente riconoscibili anche da lontano, piccole distese di uniformi fettuccine verdi alte per ora pochi centimetri, che sembravano rincorrersi quando erano mosse dal vento, e con il grano cresceva anche l’erba infestante che andava tolta; il grano doveva essere “sarchiato”. L’operazione consisteva nello zappettare il grano con una piccola zappetta a due lati, da una parte appunto una zappetta e dall’altra due piccoli denti. Con la zappetta e con le mani si eliminavano i ciuffi d’erba, con i denti si muoveva tutta la terra dove c’era solo grano senza erba, oggi si direbbe “arieggiando così le radici”. Questo lavoro in apparenza molto semplice, era frutto di una lunga esperienza, e sembrava quasi incredibile come quelle donne chine sui campi, riuscissero a sarchiare così velocemente metro su metro, instancabili, con solo pochi momenti di riposo. Il grano in quel periodo ha già robuste radici, come una fitta ragnatela, e questo fatto di muovergli la terra, oltre che aver tolto le erbe infestati, anche se causa la rottura di parte delle piccole radici, non ne pregiudica la crescita, anzi fa si che cresca meglio di prima. Arrivati sul finire del mese di luglio, quando le spighe avevano raggiunto la giusta maturazione, era l’ora della mietitura. Il grano veniva tagliato con la falce, a circa mezzo metro di altezza, mentre la parte inferiore, la stoppia, rimaneva ancorata al terreno, e sarebbe stata tagliata in seguito, da usarsi come foraggio per il bestiame, anche se povero per la poca erba che vi era in mezzo alla paglia. Con una mano la 25
falce, con l’altra il grano. Quando la mano che lo raccoglieva era piena, se ne faceva una piccola fascina, utilizzando come legaccio alcune paglie dello stesso grano, deponendole alle proprie spalle, dove si era mietuto. La quantità di lavoro fatto si percepiva anche vedendo quella processione di fascine aumentare man mano di numero. Al termine di ogni giornata le fascine dovevano essere raccolte e ammucchiate, ottenendo delle particolari costruzioni cilindriche o rettangolari, a seconda delle abitudini, che poi erano coperte alla meglio con frasche di castagno o stoppie di grano. Ogni periodo ha le sue soddisfazioni, ma anche le sue piccole e grandi insidie; ed in questo periodo ve ne erano diverse. Alcuni campi potevano essere preda dei passeri, che in quel tempo erano molto numerosi, e c’era chi tentava di dissuaderli con dei fili di lana posti casualmente attorno ai campi, sperando che gli uccelli gli scambiassero per una sorta di trappola. A volte la pioggia arrivava proprio nel momento della mietitura, e se insisteva diversi giorni pregiudicava anche il raccolto; a volte non arrivava per niente poco prima, quando serviva per farlo crescere. A volte nei mucchi di grano, coperti alla meglio e bagnati dalla pioggia, i chicchi inumiditi sentendo il caldo germogliavano direttamente dalla spiga, e non rimaneva che dare quelle fascine alle galline sperando che questo inconveniente si fosse verificato in poche. A volte si verificava anche un fenomeno per cui si trovavano delle spighe di grano “morto”, cioè al posto dei chicchi maturi si trovavano dei pallini neri che non servivano nemmeno per il bestiame. Fra le spighe del grano poi occorreva far attenzione perché nasceva anche il “loglio”, un’erba infestante simile al grano, detta anche “zizzania”, che andava eliminata, 26
altrimenti alla semina successiva se ne sarebbe trovata molto di più. Vi era una grande insidia anche quando il grano, terminato tutto il ciclo di lavori, sembrava al sicuro nelle grandi casse di legno. Poteva capitare che proprio lì dentro quelle casse facessero la loro comparsa i “pinzoqui”, piccoli animaletti neri che mangiano l’interno dei chicchi. Andava bene se ci si accorgeva in tempo della loro presenza, e comunque presto o tardi che fosse, per salvare il salvabile occorreva setacciare tutto il grano con l’apposito setaccio, in modo da trattenere i chicchi ed eliminare gli intrusi. Poi all’interno delle casse, per maggior sicurezza, si bruciava dello zolfo, per eliminare gli eventuali parassiti rimasti.
La trebbiatura Quando tutte le varie famiglie avevano terminata la mietitura arrivava il lavoro forse più atteso e divertente, perché con questo, se andava bene si vedevano i frutti, la trebbiatura. La trebbiatrice usata nei nostri paesi era un macchinario necessariamente di dimensioni contenute, per poter essere trasportato nelle varie aie e campi, dove era stato radunato il grano da trebbiare. Era composta da due parti più grandi, lunghe circa quattro metri, che andavano sovrapposte. Sopra di esse andava messo il “cilindro”, lungo circa un metro. Dentro queste parti ruotavano i vari meccanismi, tutto ciò che serviva per far si che da una parte entrassero le spighe, e da altre parti uscissero i chicchi del grano, pula e paglia. Il movimento era trasmesso con delle cinghie di cuoio che giravano 27
all’esterno di tutto l’apparato, e a cui occorreva fare molta attenzione. Tutto il movimento partiva da un motore a scoppio a un solo pistone, posto per terra a circa tre metri dalla trebbiatrice, collegato ad essa con una cinghia più grossa di tutte le altre, che durante il suo movimento sembrava saltar via da un momento all’altro, cosa che ogni tanto poteva succedere quando il motore non era ben allineato. Il motore aveva due serbatoi, uno più piccolo, in cui si metteva la benzina, nell’altro il “petrolio”, meno costoso. Il motore veniva in un certo modo ingannato, perché per avviarlo gli si forniva la benzina, poco dopo che era in moto si girava il rubinetto verso il petrolio, e lui continuava a fare il suo lavoro. Attorno alla trebbiatrice si muoveva un formicaio ben ordinato di persone. Il compito un po’ più pericoloso era quello che generalmente compieva il proprietario della “macchina”. Saliva sopra un panchetto in modo da essere all’altezza del pezzo più alto della macchina, il cilindro. Subito dietro di esso vi era un ampio ripiano in legno su cui venivano poste le fascine di grano, che venivano infilate speditamente due o tre per volta dentro il cilindro, e rimpiazzate man mano sul ripiano da chi era a terra. Occorreva fare attenzione e non distrarsi, perché le fascine dovevano essere accompagnate con le mani fino a pochi centimetri dai molti denti di acciaio che giravano molto velocemente dentro il cilindro, che sgranavano i semi di grano dalle spighe. All’interno della macchina, dopo che i chicchi di grano erano stati staccati dalla spiga, cascavano in un setaccio in continuo movimento, i cui fori erano calibrati in modo che vi potesse passare il grano e non qualcosa di più grosso. Il grano usciva da una canaletta che si spostava velocemente lateralmente per circa 28
venti centimetri, e cadeva in un apposito contenitore di latta. Quando il contenitore era pieno veniva svuotato nei sacchi, e per impedire che nel frattempo il grano continuando ad uscire cascasse per terra, la canaletta veniva chiusa con un apposito sportellino di lamiera, dopo averlo preso fra le dita e assecondando con la mano il veloce movimento della canaletta. La paglia privata dalle spighe, usciva sul davanti della macchina tramite un meccanismo composto di tanti piccoli scalini di legno, più o meno tre piccole scale mobili affiancate, che con il loro movimento particolare facevano saltare la paglia, che con questo saltellare come fosse una tarantella pian piano usciva. Anche la pula usciva sul davanti della macchina, soffiato via da una grossa ventola che era poco sotto il cilindro nell’interno della trebbiatrice, e come tutti gli altri meccanismi si poteva vedere solo quando le varie parti erano smontate per il trasporto. Vi era anche un’altra uscita per i chicchi, questi erano un misto di alcuni chicchi di grano più piccoli del normale, che erano sfuggiti all’apposito setaccio, assieme a semi di erbe che erano maturate assieme al grano. Queste poche e piccole granaglie, dette “mundiğiu”, venivano poi utilizzate come mangime per le galline. Terminato il grano di una famiglia, avanti con un’altra. Alcune famiglie trebbiavano nella stessa aia, ma se era più faticoso trasportare il grano che la macchina, si spostava questa, smontando e rimontando accuratamente il tutto. Una cosa un po’ particolare da ricordare è che durante la trebbiatura, attorno alla macchina vi era una gran polvere, uscita dalle spighe ed anche da un pò di muffa che si poteva creare quando le fascine di grano, non perfettamente secco, era ammucchiato nei covoni. Polvere ce n’era per tutti, ma un 29
po’ di più per chi infilava le fascine nel cilindro, o per chi stava davanti alla macchina per spostare la paglia, e comunque nessuno rimaneva senza. A tutto questo, oltre al fatto che la polvere si infilava dappertutto e faceva bruciare la pelle, si aggiunga che non avevamo ancora l’acqua in casa, e le docce le conoscevamo solo di nome. Terminato il grano di una famiglia, mentre andava fatto un po’ di ordine prima della successiva, i ragazzi e le ragazze trovavano ancora delle energie per fare qualche salto nella paglia, e magari c’era anche chi, un po’ più grandicello e smaliziato trovava anche l’occasione per allungare qualche mano, mentre la paglia complice ricopriva tutti nella confusione dei salti. Non era ancora del tutto finita, perché ora il grano, ripulito dal vestito, doveva completare la sua essiccazione. Per i piccoli chicchi bastava una giornata di sole, steso nelle aie, e se queste non erano protette da muretti, con a guardia qualche bambino per scacciare le galline. A questo punto finalmente, il frutto di così tanto lavoro, si metteva nelle grosse casse di legno “i bancà”, dove era conservato. La trebbiatrice a motore arrivò a Beverone nella seconda metà del secolo scorso, prima di essa se ne usava un’altra più rudimentale, in cui gli uomini si davano il cambio nel far girare una grossa ruota tramite una maniglia, che dava il movimento ai vari meccanismi. Prima di questa si usa “battere” il grano ammucchiato nelle aie con i bastoni, e soprattutto con la molto efficace “bàtua”, cioè l’ingegnoso doppio bastone snodato.
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Forse questo racconto sarà stato troppo lungo, ma forse avrebbe dovuto esserlo ancora di più, perché dovevano essere raccontati ancora altri particolari. Leggendo questo brano, chi avrà compiuto questi gesti, o perlomeno chi li avrà visti compiere, pur trovando qualcosa di diverso da come lo ricordava, forse rivivrà un po’ quei momenti. Chissà invece cosa proveranno coloro che non avendole viste, queste cose le dovranno immaginare con il solo aiuto della fantasia. Oggi il grano serve come allora, anzi, in quantitativi molto superiori. Selezionando opportunamente i semi siamo arrivati anche a una resa di gran lunga superiore. Tutti i lavori raccontati, oggi li fanno un paio di macchine sempre più specializzate, guidate da un operatore, generalmente solo, che non ha altra compagnia se non il motore del suo mezzo. Mezzi che compiono il lavoro di molte paia di buoi e persone. Con queste nuove tecnologie abbiamo compiuto indubbiamente degli incredibili passi avanti, perdendo purtroppo tutto quello stare assieme nei campi fra le varie generazioni, quell’aiutarsi nei momenti di difficoltà. In pochi anni si è perso un modo di vivere, che si modificava, ma in modo graduale, quasi quasi da non accorgersene. Nell’ultimo mezzo secolo tutto è cambiato così velocemente da non darci il tempo di adeguarvisi, anche una sola generazione ha dei problemi per adeguarsi ai vari mutamenti. Forse sarà anche per questo che vediamo perdersi tanti valori, forse le nuove generazioni, con mentalità più nuove, riusciranno in futuro ad adeguarsi ai repentini cambiamenti in modo più veloce e meno traumatico del nostro, scrollandosi di dosso quel passato di cui a noi sembra impossibile fare a meno. 31
Cosa toccherà alle future generazioni però, oltre che immaginarlo, con certezza non lo può sapere nessuno, e non è nemmeno detto che le cose del mondo debbano viaggiare con una velocità sempre superiore, perché ci potrebbe essere qualche parte dell’ingranaggio che non sia in grado di reggere il ritmo, ed allora quella che a volte viene definita la “folle corsa” potrebbe subire non solo un rallentamento, ma anche una inversione di marcia. Auguriamo a chi verrà dopo di noi di poter vivere meglio di noi, ma anche se si tenta in tutti i modi di nasconderlo, non vi sono dei presupposti confortanti. E se le future generazioni, un domani dovessero arrivare a dover dire, purtroppo, “era meglio una volta”, non potendo trovare nemmeno i responsabili, che credendosi eterni, avidi e interessati solo al potere e ai loro profitti, non si erano accorti che eterni non potevano esserlo, e si erano fermati finalmente, ma troppo tardi e dalla parte sbagliata ad ammirare le bellezze della natura, ritrovandosi, ora senza privilegi, uguali agli altri, ad osservare crescere le margherite dalla parte delle radici; allora speriamo che, se vi fossero addirittura della difficoltà alimentari, perlomeno trovino da qualche parte un manuale che insegni loro a coltivare il grano come si faceva da secoli, e magari non senza difficoltà, ma perlomeno sopravviverebbero, come hanno fatto i nostri antenati.
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Il pane Superate, come si è visto, numerose peripezie, il grano era finalmente al sicuro nelle casse di legno “bancà”. Che strano, se si toglie l’accento diventa “banca”, come quel luogo dove si depositano e si ritirano i soldi, ed anche i “bancà” erano un po’ come delle banche, perché in essi si custodiva quel bene così prezioso per la sopravvivenza. Il grano si portava al mulino poche decine di chili per volta, perché da quando è macinato e quindi trasformato in farina, questa deve essere consumata in breve tempo. Un paio di mesi sono già troppi, perché dopo questo periodo all’interno di essa si formano della piccole larve da cui poi escono le farfalle. Come si è già visto, per una serie di motivi, anche andando bene le cose, non si produceva una grande quantità di grano. Andava già bene il non essere mezzadri, perché altrimenti la metà del prodotto sarebbe andata al padrone, una parte doveva essere conservata come seme, e comunque fosse, il grano raccolto difficilmente sarebbe bastato per il necessario delle famiglie. Proprio in riferimento al grano, ai mezzadri e alle loro condizioni di vita, vi è un episodio che li accomunò: la “rivolta del grano”. Eravamo a cavallo degli anni ’50 e ‘60, stavano cambiando tante cose, ma non cambiava la loro condizione di vita, anzi, per un insieme di cose, di non facile spiegazione in poche righe, ma che meriterebbero di essere approfondite, si potrebbe dire che stava andando ancora peggio. Nel vicino Veppo una famiglia benestante, di conti, era proprietaria di diversi poderi dati a mezzadria. Vi era un giorno dell’anno in cui i mezzadri erano 33
chiamati tutti a raccolta, e fu in quell’occasione che si manifestò la loro rivolta. I conti avevano dei poderi di gran lunga più estesi, nonché di produzioni agricole, in Romagna. Coloro che si occupavano di quei poderi, compresero che le condizioni nei piccoli poderi di Veppo erano ben diverse e più disagiate. Furono loro stessi a convincere il resto della famiglia a cambiare le regole verso i mezzadri locali, ed anche se non subito da quell’anno, ma dal successivo in poi il grano non venne più diviso. Di questo vantaggio poi i mezzadri non se ne avvalsero per molti anni, anche perché non era più umanamente possibile vivere a mezzadria, e pur continuando ad essere la vita dei nostri posti discretamente dura, non vi furono più rivolte del grano né mezzadri. Serviva il pane e serviva la pasta, cioè i “tağiaìn”, giorno e sera il menù prevedeva il minestrone, e la pasta chi poteva la comprava solo un paio di volte all’anno, per le feste più importanti. I “tağiaìn” non bisogna confonderli con le tagliatelle o la pasta all’uovo, si ottenevano impastando la sola farina con un pizzico di sale, tirando la sfoglia nel ripiano della madia con il mattarello, arrotolata opportunamente e poi tagliata con l’apposito coltello, che in dialetto diventava al femminile “a cutela”. L’esperienza delle donne nel fare tutti i giorni questo lavoro, era tale che rapidamente facevano impasto e “tağiaìn” in meno di mezz’ora, e ripensandoci riesco a sentire ancora perfettamente quel velocissimo tac-tac-tac della “cutela”, maneggiata con la mano destra, che sfiorava le dita e le unghie della mano sinistra che serviva da guida. Quindi, visto che la priorità di impiego del grano era farne la pasta, cioè i “tağiaìn”, per il pane occorreva trovare delle alternative. Sembrerà strano, ma tentare di spiegare il 34
“pane”, cioè tutto quello che era pane o che lo poteva sostituire, io sono in grado di spiegarlo molto vagamente, e penso che siano rimasti ben in pochi e molto anziani, quelli che potrebbero raccontarlo, a patto che riescano ancora a ricordarlo. Si produceva il mais e si raccoglievano le castagne, ed erano quindi altri due tipi di farina di cui disporre. Mischiando in vari modi le varie farine, compresa un poco di quella di grano, che oltretutto serve da legante, e con vari modi di cottura, si ottenevano diverse varianti del pane: levada, pulenta, patùna, mesčiada, fainada, marochi, castigazzi, panigazzi, fügazzete, padeleti. Fino ai primi anni ’70, anche se si incominciava a permettersi l’acquisto del pane “bianco”, si usavano ancora i forni a legna e si faceva il “pane fatto in casa”. Quando ai nostri giorni andiamo a comprare il pane, pochi di noi si rendono conto del lavoro che c’è dietro quel bancone prima di arrivare al pane cotto. Nonostante l’ausilio di strumenti moderni, come impastatrici, termometri e automatismi vari, serve molta esperienza. Ne è prova anche il fatto che i panettieri sono ben pagati, dato il mestiere non semplice e faticoso. Qui è obbligatorio e doveroso un pensiero verso le nostre donne di campagna, che dovevano impararne di mestieri per tirare avanti la famiglia: cucinare, rammendare, filare la lana, con essa fare calze e maglie, levatrici, provette contadine, e… fare il pane. Ho fatto ancora in tempo a vedere come si faceva il pane, ho avuto la fortuna di farlo, e proverò a raccontarlo. Normalmente il pane si faceva una volta la settimana, rimaneva fresco per due o tre giorni, poi incominciava a diventare posato, però nessuno si sognava di buttare del pane, nemmeno alle galline. C’era l’abitudine di tenerlo dentro un sacco 35
di canapa, a sua volta dentro la cassa di legno “er bancà”, mantenendo in questo modo per più tempo la sua umidità, di modo che non indurisse troppo rapidamente. Più di una volta, quando ci durava qualche giorno in più, poteva succedere che facesse un po’ di muffa, ma non buttavamo nemmeno quello, ci limitavamo a cercare di scartarne un po’. Passando alla spiegazione di come si faceva il pane, per quel che ricordo, e per come lo ricordo, proverò a spiegarlo raccontandolo come se dovessi farlo ora, al presente, evitandomi il pesante utilizzo del verbo al passato. Tutte le operazioni vengono effettuate senza l’impiego di bilance o ricette, diciamo “a occhio”. Gli ingredienti sono: farina, acqua, un pizzico di sale e lievito madre. Ogni donna conservava il lievito madre, cioè terminato l’impasto ne prendeva un pezzetto di circa un etto e lo metteva in una tazza, da usare nell’impasto successivo. Al momento dell’utilizzo, se il lievito risulta rinsecchito deve essere ammorbidito aggiungendovi un po’ di acqua tiepida. Dopo aver disposto sopra il ripiano della madia la farina occorrente a forma di montagnola, si allarga al centro formandovi una buca in cui si mette il lievito e l’acqua. Soprattutto nel periodo invernale l’acqua per l’impasto va messa tiepida, favorendo in questo modo l’azione del lievito. Anche il quantitativo di acqua si metteva ad occhio, e raramente era da aggiungere. La prima fase è detta “di spegnimento”, cioè, con una sola mano in pochi minuti si amalgama alla meglio l’acqua alla farina. A questo punto, lavorando l’impasto con due mani in modo abbastanza energico, si prosegue fino a che risulti omogeneo, e si incominci anche a percepire al tatto l’effetto del lievito che lo fa crescere. Durante tutta l’o36
perazione dell’impastatura, il ripiano della madia deve essere costantemente cosparso da un leggero strato di farina, per evitare che l’impasto vi si attacchi, e in quei punti della tavola dove questo succede si raschia con la “cutela”. A questo punto è il momento di formare i pani. Si fa assumere all’impasto una forma cilindrica, come un grosso sigaro, poi incominciando da una parte si taglia via via il quantitativo per fare un pane, e la forma si ottiene facendogli fare fra le mani un paio di giri sulla madia. Come detto all’inizio, occorre ricordarsi di lasciare un pezzetto di impasto, cioè il lievito per la futura infornata. Ora entra in scena anche la “lüvaeta”, che è una tavola di legno leggero di forma quadrata, di circa un metro di lato, sopra cui vengono posti a lievitare i pani. Per evitare che si incollino alla tavola, sopra di essa va messo un panno di cotone, e per evitare che i pani si incollino l’un l’altro, fra di essi si alza leggermente il panno, che serve da barriera per tenerli separati. Terminata la sistemazione dei pani, questi verranno coperti con altri panni, di cotone il primo, poi se è freddo sopra si può mettere anche una coperta intiepidita precedentemente alla stufa. Il tempo necessario perché il pane sia pronto per esser messo a cuocere nel forno, dipende dalla temperatura esterna, da un’ora alle due o tre. Nell’attesa la catena lavorativa delle donne non si fermava, non avevano che da scegliere fra le cose che dovevano fare per colmare questo tempo. Quando il pane ha raggiunto la giusta lievitazione si accende il fuoco nel forno, e per quanto riguarda la legna da utilizzare, i forni di campagna non sono difficoltosi, va bene un po’ di tutto. Inizialmente la volta del forno assume un colore scuro quasi nero, poi mentre raggiunge la giusta temperatura di37
venta di un colore cenere quasi bianco. Terminato il riscaldamento occorre ripulire il ripiano del forno, e la prima operazione è quella di tirare fuori la brace, con il “tiabrase”, un attrezzo di ferro a mezzaluna. Poi si pulisce ulteriormente con lo “spazzu”, una scopa monouso preparata il giorno stesso, utilizzando per esempio rami di fico o altri vegetali che si trovano di stagione, in modo che con il calore del forno si affloscino e diventino quasi uno straccio che porta via la cenere, mentre altro materiale secco potrebbe incendiarsi data la temperatura a cui sarebbe sottoposto. Sarà banale per chi lo sa, ma tengo a precisare che gli attrezzi usati, tiabrase, spazzu e pala, sono tutti forniti di un manico di legno di circa un metro e mezzo, perché la temperatura del forno non permette di potervi avvicinare troppo le mani. Naturalmente tutte queste operazioni, compresa la successiva in cui si infila il pane nel forno, vanno eseguite velocemente, altrimenti il calore del forno esce fuori dalla sua bocca, e la temperatura all’interno si abbassa. L’infilare il pane nel forno con la “pala” è di queste operazioni la meno facile, e prevede due persone. Una prende il pane dalla “lüvaeta” su cui era stato posto a lievitare, con una mossa abile e veloce, girandolo sotto sopra, poi rigirato nuovamente mettendolo sopra la “pala”. L’altra persona infila la “pala” nel forno, disponendo man mano in pani nel piano di cottura in modo uniforme, ritraendola ogni volta con un breve scatto per far scendere il pane dalla pala. Terminata l’infornata dei pani, la bocca del forno viene chiusa con l’apposito coperchio posizionato verticalmente. Teoricamente sarebbe tutto a posto così, però conviene aprire il forno dopo alcuni minuti, e controllare visivamente i pani, che nel caso avessero preso troppo 38
colore, cioè se il forno fosse stato scaldato qualche grado di troppo, va tenuto aperto qualche minuto, se invece il colorito è giusto si richiude per riaprirlo a cottura terminata. Il tempo necessario per la cottura del pane è di circa un’ora, ed è a questo punto che si può sentire uno dei più buoni profumi della campagna. I pani vengono tolti e messi in un sacco di canapa, dopo avergli dato un paio di scappellotti, non per fargli male, ma per togliere eventuali residui di cenere. Il forno resta tiepido ancora diverso tempo, che si può sfruttare ad esempio, per cuocervi delle mele, senza ricette particolari, mettendole semplicemente sopra il piano di cottura. Le ricette a volte terminano con un consiglio, io ricorderò un accorgimento: “se volete rendere il pane ancora più morbido, aggiungete nell’impasto un po’ di patate lessate”.
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Filastrocche I žuvenoti de Beveun chi fan tanta braganza si se pesan enta baanza ğen tre lie cur capé. A Veppu gh'è na lizza u diau u se g'adrizza, u se g'adrizza en zenučiùn u porta via i grami e i bun. Quei da Piazza leccapiatti, quei der Castè leccabucà, quei da Sèra suttutèra, quei der Muntà i vinzan a guèra. Gusùn da Roca, can grossi de Sϋveu, scozzacampane de Stadumè, leccalümi dau Ramè, battitesti de Carbüğiaga, battiventu de Beveun.
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Gli ulivi E pian piano tutto finiva. Non è che sembrava finire, finiva proprio per davvero. Basta seminare il grano il granturco, raccogliere castagne, andare al mulino portandoli a macinare con i sacchi in spalla, basta andare alla fontana a lavare i panni o a prendere l’acqua da bere, basta portare le mucche e le pecore al pascolo, tagliare il fieno e fare pagliai, basta tutto. Le poche viti rimaste sembravano essere le uniche testimoni della vita passata, degli antichi mestieri. Ma ecco… all’improvviso una novità: gli ulivi. Questa è la storia: una ventina di anni fa portai dalla Toscana cinque piccole piantine di ulivo, e mio fratello Lino mi disse di piantarle alla “pianella”, in un campo che ormai non coltivavamo più. Per me la cosa sarebbe finita lì, però lui anno dopo anno, una piantina dopo l’altra, piantò ulivi in tutto il campo, tanto che arrivarono ad essere una settantina. L’idea degli ulivi a Beverone non era nuova, perché erano già stati piantati parecchi anni fa, in un luogo detto dagli ulivi “da ği’uive”. Non so se avessero prodotto olive in modo regolare, comunque il luogo era particolarmente a ridosso, abbastanza protetto dai venti, un po’ distante e più in basso del paese. Va anche detto che a quei tempi le piantine non si compravano al vivaio, erano generalmente olivi di “spacca”, cioè si prendevano i piccoli butti che nascevano nella parte bassa del tronco, possibilmente al livello del terreno. Questi butti venivano presi assieme ad un po’ di legno dell’albero, separandoli da esso con un colpo d’accetta, poi si piantavano mettendo sotto terra anche parte del butto, e non tutte, ma una buona parte di 41
piantine attecchiva. Per dare un’idea del risultato che si otteneva e del periodo, ricordo un detto che aiuta a comprendere il tempo che occorreva alle piante ottenute in quel modo prima di entrare in produzione: le viti le pianti per te, gli ulivi per i tuoi figli, i castagni per i tuoi nipoti. Ai nostri tempi, grazie ai nuovi metodi impiegati nei vivai per produrre piantine di ulivo, se messe a dimora in luoghi che abbiano terreni e clima adatto, esse incominciano a produrre olive appena dopo pochi anni. Forse lì alla “pianella” non era un luogo particolarmente adatto per fare un uliveto, però era vicino al paese, ormai i campi lontani erano tutti abbandonati, e poi mio fratello fece questo lavoro più per una soddisfazione personale che per una reale aspettativa di un apprezzabile risultato. Ad ogni piantina fu messo il suo paletto di sostegno affinché il vento non le scuotesse troppo, e vi portammo anche qualche trattorata di concime. Le piantine crescevano, ma molto più lentamente che le loro sorelle piantate in luoghi più idonei. Quando la salute incominciò ad abbandonare mio fratello, non ci fu più tempo da dedicare agli ulivi, e furono abbandonati al loro destino. Poi all’improvviso… non sembrava vero… gli ulivi erano stracarichi di olive. Pieni di entusiasmo, nonostante il tempo non troppo clemente, decidemmo di raccoglierle: erano 157 kg. Le portai al frantoio, orgoglioso delle olive beveronesi. Il 2008 si dimostrò essere un anno in cui le olive erano bellissime ovunque, e lì nel piazzale del frantoio, le grandi ceste piene di olive erano uno spettacolo anche per la vista, però le pur belle olive beveronesi non reggevano il confronto con queste loro sorelle. Ci fu anche qualcuno che curiosando fra le ceste, per passare un po’ di tempo 42
nell’attesa del suo turno al frantoio, fece anche una risatina, o forse fui io che fraintesi, trovandomi per la prima volta con olive mie, ad affrontare quella che a me sembrava confusione, in un frantoio in piena attività. Comunque quando fu il loro turno anche le mie olive entrarono nel ciclo della frangitura, ora bisognava attendere quanto olio sarebbe uscito, ma soprattutto: ne sarebbe uscito, oppure avrei dovuto dare io olio al frantoio? Il risultato fu 21 kg di olio, il 13,4%, che era più o meno la resa di tutte le altre olive. Era andata bene, e non solo, dato che le olive di Beverone non erano ancora perfettamente mature, l’olio aveva anche quel leggero e gradevole odore e sapore di acerbo che ha l’olio nuovo, che poi perde dopo un po’ di tempo. Ho voluto raccontare questa piccola storia non perché credo che il futuro di Beverone possa essere negli ulivi, ma più semplicemente per ricordare questa bella esperienza, e perché no, per il loro valore simbolico. Auguriamoci che siano di buon auspicio, come nel diluvio universale, quando tutto sembrava finire, ma poi la colomba tornò con un ramoscello di ulivo nel becco, e così una nuova vita ricominciava.
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I tre mulini “Una volta” a Beverone si raccontava anche questa storiella: lungo il ruscello, quello che in dialetto si chiama “er canà der muìn”, c’erano tre mulini; uno un po’ più in alto, il secondo un po’ più in basso, e ancora più in giù il terzo. Dal primo mulino al terzo, l’acqua a disposizione per fare girare le loro ruote aumentava, perché man mano le acque del ruscello erano rinforzate dai piccoli affluenti, così che la ruota del primo si muoveva con difficoltà, un pochino di più veloce la ruota del secondo, e più spedita quella del terzo. Ecco, il racconto sarebbe finito qui, però la fantasia dei nostri vecchi ne faceva un racconto quasi divertente per i bambini, compresa la sua morale. La spiegazione deve essere accompagnata dal gesto delle mani, quindi occorre un po’ di fantasia per comprendere il movimento che esse devono compiere mentre si muovono al ritmo delle parole che dice il mulino in questione. Entrambi gli avambracci devono essere piegati a novanta gradi rispetto ai bracci, con i pugni chiusi, poi si dovranno fa ruotare fra di loro come quando si dipanavano le “accette” di lana per ottenerne gomitoli, o come in alcuni balli di poco tempo fa, ed in pratica deve simulare il movimento della ruota.
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Il primo mulino, con poca acqua a disposizione, diceva: se Diu vurrà, se Diu vurrà… Sia le parole che il movimento devono essere pronunciate e fatto in modo concorde, però in modo non uniforme ma a singhiozzo, proprio per dar l’idea che l’acqua si raduni un po’, e poi raggiunta la quantità dia la spinta e faccia fare un mezzo giro alla ruota. Leggermente, ma di poco più veloce il secondo mulino che diceva: se Diu m’agiüta, se Diu m’agiüta… Al terzo mulino, grazie alla maggior quantità di acqua a disposizione, la ruota girava velocemente senza rallentamenti, ed il mulino diceva, sempre velocemente: che te voğği che te ne voğği, che te voğği che te ne voğği… La morale, che a prima vista può non apparire, è che l’uomo paragonato ai vari mulini, quando è in difficoltà invoca aiuto sperando di superare gli ostacoli. Invece quando le cose gli vanno bene, e non si rende conto che il merito non è certamente tutto suo, tira dritto per la sua strada, credendo di essere quasi onnipotente, senza nemmeno ringraziare che gli vada meglio che ad altri.
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La rivincita delle patate Quando si sente, o meglio, si sentiva dire “soldi non ce n’erano!”, forse un po’ di tempo fa si poteva pensare che il concetto fosse comprensibile, mentre oggi, pur non essendo tutte rose e fiori, penso proprio che il significato sfugga. Il breve episodio che racconterò avvenne agli inizi degli anni sessanta, avevo poco più di dieci anni, e il boom economico non era ancora arrivato a Beverone, occorreva ancora un po’ di tempo. Soldi non ce n’erano proprio, si viveva ancora con quanto si otteneva dai campi, lussi zero, scarpe un paio, massimo due con quello della festa. Per capire quanti vestiti potessimo avere, ricordo perfettamente l’armadio che conteneva tutto l’abbigliamento della famiglia, in quel momento di cinque persone: meno di due metri di altezza, larghezza meno di un metro, unico sportello con specchio al di fuori, un cassetto in basso. Fu portato al paese in spalla, salendo la selva di Rocchetta, diviso in tre parti: armadio, sportello con specchio, e cassetto che portai io, naturalmente era usato. Erano poche le attività da cui si poteva trarre qualche “palanca”, qualche giornata di lavoro fatta per quei pochi che si potevano permettere di pagare, qualche ciocca da pipe, poco altro. Incominciavano a fare la loro comparsa alcuni antiquari, e furono tanti gli oggetti che presero la via della città in cambio di pochi ma comunque utili soldi: antiche teglie di rame in cambio di nuove teglie in alluminio con l’aggiunta di pochi spiccioli, rari oggetti ereditati, ricordi da cui separarsi. Arrivarono anche i primi cittadini che un po’ di benessere avevano incominciato ad assaporarlo, alla scoperta dei 46
vari paesi al momento ancora vitali. Allora si poteva ancora cercare qualche prodotto del luogo senza correre il rischio di rimanere truffati. Questo faceva anche comodo ai contadini, che in quel periodo che “soldi non ce n’erano” qualcosa racimolavano. Non erano molti i prodotti, ma come si direbbe oggi “era tutta roba buona”: conigli, polli, formaggette, qualche insaccato di maiale. Per il bestiame più grande, come vitelli e agnelli o anche pecore e mucche, passavano periodicamente i mercanti. Un giorno passò un signore che cercava qualche chilo di patate. Non si usava ancora rinnovare il seme ogni anno, il raccolto delle patate serviva sia per mangiare che da seme per l’anno successivo, proprio per un fatto economico, si tirava avanti con quello che si aveva. Questo fatto di non rinnovare il seme, in modo particolare per le patate, impoveriva la qualità ed era quindi necessario coltivare diversi campi per coprire il fabbisogno della propria famiglia. Mia madre, un po’ a malincuore perché di patate non ce n’erano in avanzo, ma sempre per il solito discorso che qualche soldo faceva comodo, gli disse che qualche chilo poteva darglielo. Viste le patate che tenevamo in una cantina quasi al buio, quel signore chiese a mia madre quanto voleva al chilo, e lei rispose quella cifra che ai tempi si sapeva essere il prezzo corrente in campagna, come era per le uova e tutto il resto. Al che lui disse, quasi meravigliato, come se la cifra fosse particolarmente alta, come se in campagna la roba dovessero darla quasi per regalo, che in piazza del mercato le trovava ad un prezzo inferiore. Ora io non ricordo la cifra, che certamente era equa, ma ricordo che pur essendo un bambino, provai una strana sensazione, quasi di rabbia, come se ci avesse offeso, patate comprese. 47
Va detto che mia madre che era nata nel 1910, aveva un’educazione antica, di quelle che ti facevano abbassare il capo di fronte al padrone anche se avevi ragione, e di sopportare tutto con rassegnazione, però questa volta un pochino si risentì. Niente di particolare, ma per chi era abituato in un certo modo era già qualcosa, e rispose a quel signore: allora vada a comprarle in piazza del mercato! Nessuno aggiunse altro alla conversazione, e le patate rimasero in cantina. Ne sono passati di anni, e poi non è nemmeno che quell’episodio rappresentasse più di tanto, però mi è rimasto talmente impresso nella mente, che ricordandolo mi vedo ancora in quella cantina, e ringrazio ancora mia madre di avermi dato, naturalmente assieme a tante altre, anche la soddisfazione di quel momento.
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Viaggio a Spezia Viene spontaneo considerare il luogo dove si abita un po’ come il centro del mondo, le distanze si calcolano ovviamente da quel punto. Quindi, considerando Beverone il centro, da esso partono quattro percorsi principali, tramite i quali si raggiungono altrettanti paesi: Rocchetta, Veppo, Garbugliaga e Stadomelli; le distanze che bisogna percorrere si aggirano dai quattro ai cinque chilometri. Proseguendo oltre questi quattro, si raggiungono gli altri paesi della vallata, e naturalmente il resto del mondo. Quando si andava ancora a piedi, per andare a Spezia si passava da Stadomelli. Da qui vi erano due possibilità: andare al Ramello oppure a Padivarma, ed in entrambi i casi occorreva attraversare il fiume Vara. Al Ramello si oltrepassava il fiume tramite la cosiddetta “passerella”, consistente di un cavo d’acciaio a sbalzo, posto fra le due rive; su di esso scorrevano due carrucole alle quali era agganciata una tavola, su cui si potevano sedere fino a tre persone per traversata. A Padivarma il fiume era attraversato da un ponte, sorretto da più cavi ma traballante, perché bastava muoversi involontariamente in modo scorretto che il ponte ondeggiava, e soprattutto quando ci si trovava nella parte centrale quel movimento non doveva essere molto rassicurante. È stato raccontato da ragazze del luogo, ora un po’ in là con gli anni, che trovandosi ad attraversare quel ponte, a volte si trovassero ad essere vittime degli scherzi di ragazzi che, volontariamente facevano ondeggiare il ponte, per far provare loro un po’ di paura, al punto che vi era anche chi preferiva attraversare al Ramello, sentendosi più 49
sicura seduta sulla tavola. Erano altri tempi, e anche in fatto di scherzi non si andava troppo sul leggero. Chi ai nostri giorni è abituato a far trakking può rendersi conto che andare da Beverone a Spezia, a piedi, non era cosa da poco. Il tragitto che si doveva compiere passava da Stadomelli, poi da Padivarma, e a quel punto proseguiva sull’attuale Aurelia, a parte una variante a Riccò, e le scalinate che portano dalla Foce a Spezia. Dai racconti fatti da beveronesi nei loro viaggi a Spezia, mi sono rimasti nella memoria alcuni brevi aneddoti. Il primo riguarda Stadomelli, ed in particolare l’osteria di Ciocòn, considerato dai miei paesani non solo un luogo di sosta, ma anche dove chiedere soccorso alle necessità che si potevano avere durante i viaggi di andata o ritorno. Una fra queste, e oggi sembrerà anche banale, ma trovandosi ad affrontare la salita verso il paese, in una notte senza luna, il ricevere una candela, infilata non so in quale modo in un fiasco per non farla spegnere, era un gran aiuto. Quando parlavano di Spezia, ricordo che ogni tanto saltava fuori il “trippaio”, cioè un ristorante in cui vi era un piatto fisso: trippa in umido con le patate. La cosa particolare che accomunava tutte le spiegazioni di questo locale, era che tutti si premunivano di chiedere “mi raccomando, più trippa che patate!”. Un pensiero anche per il “Bar Rosa”. Questo bar era poco più in giù della scaletta della stazione, sulla destra, all’inizio di piazza Saint Bon, praticamente un po’ all’ingresso della città vera e propria. Quando dovevano fare più commissioni e magari avevano l’ingombro di qualche borsa o altro da doversi portare dietro, passavano da questo bar, e chiedevano se potevano lasciare i loro bagagli in custodia. La risposta la sapevano già, e quel gentile e disponibile barista forse co50
nosceva per nome tutti i beveronesi. A questo punto devo raccontare una cosa che farà sorridere ma era… diciamo di dominio pubblico. Chi andava a Spezia per la prima volta nella sua vita doveva pagare una specie di tributo: doveva baciare il culo alla “Maimona”. La Maimona era una donna che si incontrava appena si entrava in città e, pur non conoscendo il motivo preciso, bisognava sottostare a questa regola, aggiungendo che forse la suddetta signora non si lavasse troppo spesso. Naturalmente il viaggio di andata prevedeva anche il ritorno, e le gambe dovevano essere ben allenate per fare tutto in un giorno, commissioni comprese. Anche se io questo viaggio da Beverone a Spezia non l’ho mai fatto, ripromettendomi prima o poi di farlo, anche la sola andata, però ricordo bene la prima volta che andai a Spezia. Avevo attorno ai sei sette anni, e fu con mio padre. Andammo a Rocchetta a piedi, e da qui Sivori ci portò a Spezia con la sua “giardinetta”. Sivori e mio padre erano amici, però non si chiamavano per nome, loro si chiamavano: “Sivuri” e “Antugnelli”. Durante il percorso ci fermammo dalla “Fontana del Papa”, che è vicina al ponte del Ramello; io questo episodio me lo ero dimenticato, ma lo ricordò un po’ di tempo fa proprio il Sivori di Rocchetta. Loro due erano curiosi di sapere cosa avrei provato nel bere a quella fontana così famosa, e penso di aver deluso le loro aspettative, perché Sivori ricordò che io dissi “a me l’acqua di questa fontana sembra uguale a quella di tutte le altre”. Poi niente di particolare finchè arrivammo in cima alla Foce, da cui finalmente si poteva vedere la città ed il mare. Da Beverone il mare si poteva vedere tutti i giorni, e così pure tutte le città e paesi, fino oltre Viareggio, ma era come vedere una cartolina, ora, 51
anche se po’ di distanza ci separava, il panorama che si presentava era tutta un’altra cosa! I due amici, complici, giocarono le loro ultime carte per mettermi in imbarazzo. “vedi quella grande vasca d’acqua? è una “boza” (noi a Beverone avevamo le boze, vasche di terra per raccogliere l’acqua per poi irrigare i fagioli) pensa quanti fagioli ci bagneranno! – diceva l’uno. Tentava di rincarare la dose l’altro “vedi tutte quelle stalle laggiù? (da quella distanza, e visti per la prima volta, non era facile valutare la dimensione dei palazzi) ci mettono le capre, pensa quante ne avranno! Fu la loro ultima opportunità, che svaniva mentre scendevamo lungo i tornanti della Foce, e finalmente vedevo da vicino, anzi da dentro, La Spezia. Non ricordo di essermi impressionato in modo particolare, più di tutte le altre cose mi colpirono le vetrine. Per me erano tutte uguali, non riuscivo a rendermi conto cosa vi fosse esposto, mi sarei fermato a guardarle tutte, ma camminavamo di passo spedito, perché a Spezia non c’eravamo venuti per mio divertimento; mio padre doveva sbrigare delle commissioni, cogliendo l’occasione per portare anche me. Sivori ci aveva lasciati da qualche parte, dandoci appuntamento ad un certo orario. Un ricordo mi è più nitido di altri, perché me lo testimonia la foto che ho ancora, e che mio padre mi fece fare dal fotografo che ti metteva bene in posa, con tanto di tenda sullo sfondo. C’era stato un piccolo inconveniente, perché poco prima mio padre mi comprò un cono gelato, che io inesperto nel tenerlo i mano, mi feci cascare sul vestito. Era un bel vestito bianco, maglietta e pantaloni corti, sicuramente ricevuto da mia madre in regalo, non era roba da mettersi tutti i giorni a Beverone, e fortunatamente la macchia del gelato non rovinò la fotografia. Poi 52
andammo al molo, e un barcaiolo ci portò a fare un giro in barca di pochi minuti, giusto per provare quella sensazione, che però mi interessò di meno della bicicletta che mio padre mi noleggiò ai giardini. Lui andò a fare delle commissioni, lasciandomi alle prese con quella bicicletta con le ruotine per inesperti. C’erano altri bambini, con biciclette e automobiline a pedali che sfrecciavano da tutte le parti. Ad un certo punto me se ne avvicinò uno che dopo avermi guardato attentamente mi disse qualcosa, che certamente si riferiva al fatto delle ruotine, e che non capii, però una parola la ricordo “vergogna!”, e poi scappò via come un lampo, ma la cosa non mi turbò più di tanto, e continuai a pedalare, anche se un po’ in disparte. Dove potevamo andare a mangiare se non dal trippaio? E mi sembra di ricordare che il discorso del quantitativo di patate e trippa avesse le sue buone ragioni per essere stato fatto. In tutto questo susseguirsi di eventi era passata nel dimenticatoio la “Maimona”, tutta quella apprensione che avrei dovuto avere nel momento che entravo in città era passata in ultimo piano, non ci pensai per niente. Capii da solo che non esisteva, e se qualcuno me ne avesse chiesto notizie, avrei detto che avevo superato la prova, ora avevo acquisito anch’io il diritto di mettere in imbarazzo chi a Spezia non c’era ancora andato. Ci ritrovammo con Sivori, rientrammo a Rocchetta, la mia vista sul mondo si era ampliata, ora su per la selva rientravamo a piedi al nostro paese. Tante volte, mentre proseguivo verso Beverone da uno dei quattro paesi a cui è collegato, ho provato una certa sensazione, e mi sono chiesto che cosa fosse, come spiegarla. Era come se le persone di quei paesi fossero lì a guardare, e dicessero “voi che abitate lassù non siete ancora 53
arrivati a casa, dovete compiere ancora della strada”. E mentre guardavano, era come se provassero un po’ di affetto e tenerezza per quei loro amici che dovevano salire più in alto. Oppure come un treno pieno di persone che compie un lungo viaggio. Via via la gente scende nelle grandi città, il treno rimane sempre più vuoto, ed ha per compagnia solo quelle poche persone rimaste, che scendono all’ultima stazione, la stazione di Beverone.
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Il mistero della “Piana degli orti” Tanti sono gli studi e le teorie formulate sulla presenza dei Celti in Liguria, ma non sempre si hanno a disposizione documenti o ritrovamenti archeologici di un certo rilievo che diano ampie dimostrazioni per ogni periodo o luogo storico su cui ci si interroga, sarebbe troppo facile scrivere la storia. Ancora più complicato affermare che i Celti siano stati in Val di Vara, anche se pare che recenti studi storici lo sostengano, avvalorati da sporadici ritrovamenti riferibili a quei popoli. Se vi fossero stati, data anche la piccola estensione della valle, non potevano essere in gran numero, e nemmeno in una posizione dominante nei confronti delle piccole tribù di antichi liguri, presenti sul territorio da molto, molto tempo, ma cercando di convivere pacificamente. Il periodo in cui questa civiltà avrebbe potuto fare il suo ingresso in Val di Vara, poteva essere forse attorno al 600 AC, quando le grandi tribù dei Celti, avendo necessità di nuove terre, incominciarono a spostarsi dalla pianura padana gradualmente verso sud; in questo spostamento una o più tribù poco numerose avrebbero potuto scegliere la nostra valle, ed in particolare questa conca meravigliosa, vista da Zignago, Suvero, Beverone e il Monte Nero, poteva essere il luogo ideale. Se così fosse stato avrebbero avuto la necessità di un luogo dove il loro sacerdoti, i druidi, potessero costruire un Nemeton per esercitare i loro riti. Non vi è molto di conosciuto al riguardo, anche perché era regola dei druidi tramandarsi il sapere imparandolo a memoria con molti anni di studio, attorno alla ventina, 55
molto probabilmente sotto forma di versi. Questo luogo era considerato sacro, e doveva rispondere a determinati requisiti: doveva essere all’aperto, possibilmente un bosco isolato di querce, in cui potessero sentirsi in armonia con le loro divinità. La forma di questi luoghi di culto, spesso di forma quadrangolare, veniva delimitato con muri a secco, per evitare che vi entrassero animali o persone non autorizzate, all’interno della quale vi era una zona dedicata ai riti e al culto, con uno o più monumenti in pietra, destinati anche all’osservazione astronomica, tramite l’impiego di pali opportunamente disposti per traguardare determinati astri. Amavano la natura e forse è per questo che non lavoravano le pietre, ma le utilizzavano così come essa gliele forniva, ragione per cui in questi luoghi non ci si devono aspettare pietre scolpite, ma pietre anche di notevoli dimensioni con accanto altre più piccole, disposte secondo un ordine difficilmente decifrabile. Sospendiamo questo discorso per riaprirlo più avanti, ed apriamo una breve parentesi per introdurre la Piana degli orti e padre Gabriele Serena. La Piana degli orti aveva un nome che mi incuriosiva da anni, e trovato chi ne conosceva l’ubicazione capitò l’occasione di visitarla. A prima vista, al di fuori delle vecchie mura non sembrava esserci niente di particolare, solo un grande silenzio, una quiete, da far provare la sensazione di trovarsi in un luogo misterioso. Poi, anche se un po’ coperte dalle foglie e dal muschio, intravidi delle pietre poste una di seguito all’altra che formavano come una aiuola ovale, e volendo essere più precisi questo ovale è una ellisse. Poco più distante vi erano altre due ellissi di dimensioni quasi uguali. Terminata la visita, pur non aven56
do la minima idea di che cosa si trattasse, pensai da subito di non parlare con nessuno di ciò che avevo visto, chiedendo di fare altrettanto a chi era con me, per evitare eventuali curiosità che avrebbero potuto arrecare danno al luogo, se mai vi fosse stato qualcosa di importante. Dopo quasi un anno conobbi padre Gabriele, che fra le tante persone a cui avevo pensato di raccontare questa storia, mi sembrava quella più idonea. Combinammo una visita alla Piana degli orti, e appena dopo pochi giorni padre Gabriele mi propose la sua intuizione: quel luogo era un Nemeton, cioè il luogo di culto dei druidi, che erano i sacerdoti dei Celti. Ma non si fermò lì, approfondì l’argomento ricercando ed acquistando libri che riguardassero quel popolo, e poi mi espose in modo sintetico ma chiaro la sua ipotesi che io scrissi dietro sua dettatura; sapeva a memoria ed in modo preciso la sua conclusione: “Ritenendo di escludere che si tratti di un luogo che possa essere stato abitato da antiche popolazioni locali, liguri, etrusche o romaniche, molto più probabilmente abbiamo a che fare con popolazioni celtiche. Siamo davanti ad un Nemeton, un santuario dei druidi, sacerdoti dei popoli Celti, originale, autentico e integro. Infatti c’è una tipica radura in mezzo a una selva, ad una altitudine di 600 metri, delimitata da un lungo muro fatto con pietre riportate, largo un metro. Al centro esistono tre ellissi di misure diverse, tipiche dei luoghi di culto dei druidi, che significano la perfezione e la forza. Ellissi che servivano ai druidi, attraverso pali collocati in un determinato modo, a stabilire l’ora il giorno e il tempo per le celebrazioni delle loro feste. Questi pali erano un po’ come lo gnomone della meridiana. Una o tutte e tre le ellissi potrebbero contenere delle vasche per la triplice 57
purificazione dei Celti. Inoltre al centro della radura c’è una pietra alta tre metri che serviva per il capo dei sacerdoti come pulpito. Senz’altro l’esplorazione del luogo ci donerà altri particolari interessanti. Se ciò che è stato descritto verrà autentificato dalle autorità, affermiamo che questo Nemeton è il centro di una tribù celtica, essendo nelle vicinanze segni simili a questi”. In un secondo tempo padre Gabriele mi dettò pure quest’altra considerazione: “Solo verso l’era cristiana, dopo aver conosciuto tempietti greci e romani, anche i celti costruivano tempietti in legno, e vi collocavano alcune statuine dei loro dei. Se vi erano invasioni, tutti gli oggetti per il culto, comprese le statuine, venivano gettate in un pozzo all’interno del Nemeton, da loro scavato apposta. Questo pozzo serviva anche per raccogliere i doni votivi dei fedeli, perché non volevano realizzarli come ricchezza. Fuggendo coprivano il pozzo con una pietra enorme, perché nessuno lo profanasse”. Abbiamo conosciuto la Piana degli orti e padre Gabriele, e che piaccia o no questo luogo sembrerebbe proprio racchiudere in se tutte le caratteristiche per costruirvi un Nemeton, ed ora proviamo a darne una descrizione unitamente ad alcune osservazioni. Siamo sul lato di un monte alto 702 metri, formato essenzialmente da un diaspro di color rosa scuro, con speroni di roccia che affiorano ovunque. Del monte è stato utilizzato in passato quel poco pascolo che poteva offrire, per ricavarne legna forte, e per sporadiche estrazioni di minerali di cui è composto. Sono rari e piccoli gli spazi leggermente pianeggianti, dove non vi sono pietraie in movimento vi sono dirupi, quindi particolarmente inadatto all’agricoltura. La Piana degli orti è uno di questi rari spazi, e si 58
trova ad una altezza attorno ai 600 metri. Si presenta come una radura di forma grosso modo rettangolare, circa centoventi metri per cinquanta, e osservando attentamente sia il luogo che i dintorni vengono spontanee delle considerazioni. Anche se certamente un po’ di lavoro è stato predisposto dalla natura, indubbiamente il suo completamento è opera dell’uomo. Lato valle, appena oltre il ciglio vi è una gran quantità di pietre anche di notevoli dimensioni, evidentemente tolte dalla spianata. Nei dintorni non vi sono altre radure nemmeno più piccole, il territorio si presenta particolarmente sassoso e molto povero di terra, e quindi non coltivabile. Ne è prova che il terreno più vicino, coltivato in passato, è a oltre mezzora di cammino. Nelle vicinanze si ricorda che al tempo dei pastori vi fosse una piccola sorgente, e per trovarne altre occorre fare dei chilometri. Luoghi anche più scomodi sono stati usati in passato per farne dei campi, ma erano nelle vicinanze di sorgenti o corsi d’acqua, oppure in versanti di monti dove in qualche modo erano stati eseguiti dei terrazzamenti in terreni non sempre particolarmente fertili ma con discrete aree coltivabili. Si desume quindi che questa piana non fosse usata per scopi agricoli, un’area troppo piccola da cui si sarebbe ricavato ben poco. Vi è un muro a secco largo un metro per tutto il suo snodarsi, in una forma che racchiude una certa area da una parte e prosegue con una diramazione che raggiunge una grossa pietra, per finire alcuni metri dopo ancora con una pietra di minore dimensione. Pur essendo il muro attorno al metro di larghezza non doveva raggiungere questa misura in altezza, poiché si dovrebbero trovare delle rovine più consistenti. Forse si poteva renderlo più alto conficcandovi dei legni, otte59
nendo dei recinti per rinchiudere e proteggere delle greggi in tempi antichi, o chissà, forse poteva indicare un limite che non si deve valicare se non autorizzati. In altri luoghi del vicino Beverone si capisce che i campi sono stati man mano ripuliti dalle pietre, accatastate senza ordine in mucchi nelle vicinanze detti maseùn, o in altri casi quando necessario facendone dei veri muri di contenimento, per ottenere dei terrazzamenti; ma non vi sono muri del genere, di cui non si comprenda l’utilizzo pratico nemmeno nei paesi vicini. Poi vi sono i due grossi massi pesanti svariati quintali: essi sono lungo il muro, ne fanno parte. A prima vista si potrebbe pensare che entrambi siano rotolati casualmente dove si trovano ora, ma osservata con attenzione la configurazione del luogo, è più logico supporre che vi siano stati fatti rotolare dall’uomo con uno scopo ben preciso. Il più grande presenta alcuni lati particolarmente dritti, quindi potrebbe essere stato scelto fra gli altri a disposizione per la sua forma. Alla loro base, infilate sotto di essi vi sono diverse pietre, certamente incuneate volutamente, che fanno supporre di esservi state poste per livellare in un modo voluto i grossi massi. Nonostante l’altitudine di circa 600 metri, il luogo gode di un microclima particolarmente mite, lo si nota anche dalle dimensioni degli arbusti di erica e corbezzolo. E’ al riparo dai venti, e inoltre si ha la sensazione di essere in un luogo particolarmente protetto, che ha anche una certa difesa naturale. Difesa migliorata anche da un argine di pietre e terra lato valle, come una duna, per tutta la lunghezza della piana. Infine vi sono le tre ellissi di pietre, figura geometrica non difficile da realizzare conoscendone la tecnica, ma una forma particolarmente poco usata, sia nelle costruzioni che nelle decora60
zioni, e raramente trovabile nella nostra zona. Per dare un’idea della loro misura, la più piccola, che è anche la più ben conservata, è lunga circa cinque metri e larga tre, e le altre due sono poco più grandi. Dal lato opposto della piana in cui è costruito il muro descritto, vi è un altro muro lungo circa trenta metri, largo un metro e alto poco più di un palmo, anche questo è costruito con pietre naturali non squadrate. È il risultato di due file parallele di pietre, che dal modo in cui sono disposte appare perfettamente diritto. Il lato più diritto di ognuna di esse è posto nella parte esterna del muro, mentre nell’interno in certi punti vi è solo terra. Potrebbe rappresentare quasi un piccolo sentiero da percorrere forse per compiere un certo rito, assumendo meglio questa forma dopo essere stato pareggiato con rami e terra. Non un’ipotesi buttata li a caso, ma un qualcosa di già visto in ricostruzioni e ipotesi. Durante il suo percorso si trovano due pietre più larghe del muro, alte circa mezzo metro, una a poco più della metà e l’altra alla fine. Se non bastasse a rendere il luogo particolarmente protetto, nascosto e sicuro, poco più in alto, quasi sulla vetta del monte, vi è un punto di osservazione da cui si ha una visione eccezionale di tutta la valle, in cui appaiono tracce di un muretto, e che poteva essere un ottimo punto di vedetta. Perchè il nome “Piana degli orti”? Ortus, da sorgere, cioè la piana dove si vede bene il sorgere degli astri, di cui i druidi erano adoratori. Noi speriamo di aver fatto fare alla storia locale un piccolo passo avanti. Tutto il nostro ricercare e studiare abbiamo voluto trascriverlo, forse potrà servire a qualcuno che sapendone più di noi potrà dare risposte più certe. Pur essendo convinti che nella Piana degli orti vi sia un 61
Nemeton, vorremmo che venisse a conoscenza di questa storia anche qualche studioso della Baviera, coloro che si ritengono i veri celti. Ci saranno mai stati i Celti nella Piana degli orti? Forse qualcuno potrà sorridere, ma se non è facile poterlo affermare, è pur vero che è altrettanto difficile affermare il contrario. Si possono vagliare le memorie popolari, proporre analogie, ma dire che abbiamo poco a disposizione è già dire troppo. In riferimento alla memoria popolare si vorrebbe la piana abitata da frati: la strada che passa poco sotto la piana, fu anche una diramazione della via francigena, utilizzata quando per condizioni di clima non favorevole o altri motivi non potevano essere percorsi altri tragitti più a valle. I frati avrebbero potuto ospitare i pellegrini che si trovavano a passare per questa via, però appare strano che lo avessero fatto in un posto molto vicino a Brugnato, che sarebbe risultato più agevole per loro e per gli stessi pellegrini, inoltre non vi sono segni archeologici che testimonino la loro presenza. Forse si trattava di un altro tipo di “frati” che forse si chiamavano “druidi”, e forse non dovevano nemmeno abitarvi abitualmente, ma vi si recavano per determinati motivi; i tempi erano molto più antichi, e la memoria popolare ne ha tramandato il ricordo. Poi c’è un racconto particolarmente strano che proviene dal vicino paese di Veppo. In certe notti, in particolari luoghi dei boschi, si radunavano delle donne misteriose, che si disponevano in cerchio e facevano una specie di ballo girando attorno al centro del cerchio, agitando delle fiaccole. Questa era la Menada, che chissà perché era 62
considerata uno spettacolo spaventoso, e veniva addirittura raccontato ai bambini per farli stare bravi. Risulta particolarmente strano pensare che queste donne fossero delle abitanti dei nostri paesi; ironicamente viene da pensare cosa avrebbero potuto raccontare ai mariti per giustificare che uscivano per tutta la notte, e più concretamente saranno state abbastanza stanche per i lavori che dovevano compiere quotidianamente, senza andare in giro per i boschi di notte a ballare. Per “donne misteriose” si potrebbe pensare a donne appartenenti ad un’altra cultura, visto che non si trovano storie analoghe nei nostri luoghi. Analogia che pare esserci in scritti di più di duemila anni fa, in cui si dice che delle druidesse abitanti le isole della Britannia, per celebrare le feste di Bacco ballavano per notti intere, e agli uomini non era concesso di partecipare, o anche solo avvicinarsi. Naturalmente in entrambi i casi il tutto è avvolto da un alone di mistero. Si potrebbero aggiungere, e questo vale un pò per tutta la nostra valle, storie di folletti, alcune sculture ed intarsi decorativi, che osservati con attenzione rivelano di rifarsi alla simbologia celtica; poi anche le zucche svuotate della loro parte interna, nella quale di notte, ed in un certo periodo dell’anno, veniva messa una candela che una volta accesa metteva in risalto la figura scolpita nella scorza. Usanza sopravvissuta e tramandata dalla memoria popolare, già da prima che questa usanza, copiata dagli americani, nell’epoca della televisione divenisse un fenomeno diffuso come fosse una loro invenzione. Ma non è finita, si dice che nella Piana degli orti fosse stato sepolto il vitello d’oro. È detta, andava detta, questa è proprio esagerata, non si può nascondere. Però a ben pensare, intendendo il vitello d’oro come fosse un 63
tesoro, proprio grossa non è, perché è risaputo che i Celti molto spesso, se non sempre, offrivano alle loro divinità i bottini delle loro battaglie. Come e dove offrire questi tesoretti ai loro dei se non seppellendoli proprio nei loro luoghi sacri? Forse queste sono semplici considerazioni e supposizioni fatte da un non assolutamente addetto ai lavori, che però forse per primo ha provato a vedere la Piana degli orti con un occhio diverso da quello di pastori, cacciatori o cercatori di funghi, che molto sporadicamente possono essersi trovati in questo luogo, particolarmente nascosto; inizialmente attratto dalle ellissi di pietre sfuggite ad altri, aggiungendovi poi l’ipotesi suggestiva del Nemeton formulata da padre Gabriele, e i successivi colloqui in cui volta per volta mi esponeva le sue ricerche e scoperte che avvaloravano le sue convinzioni. Va detto che nella vita bisogna mettere un po’ di entusiasmo, ed in questo caso non è proprio mancato, unito poi a qualche lettura e a un pò di fantasia, hanno contribuito a farmi pensare che qualcosa di importante doveva esserci. Ora, anche se da una parte desidererei trovare li da qualche parte per terra un “torques” o un “fibula” che rappresentino una prova evidente, dall’altra forse anche per una forma di rispetto per chi ha costruito il luogo, e provando anche un pò di disagio a violarne i segreti, vorrei che rimanesse tutto così, quasi invisibile agli occhi di quanti vi si dovessero imbattere in futuro, e lasciare il tempo e la natura custodi del luogo. Forse magari la dimostrazione è tutta li, in quel luogo magico, così come è, come diceva padre Gabriele, senza bisogno di scavi degli archeologi; è in quelle pietre disposte nel loro ordine, grosse e piccole, con le mura a forma di sentiero da una 64
parte e di recinto dall’altra. Da un’altra parte è forte anche il desiderio di avere una risposta al mistero e far sparire così tutti quegli antipatici “se e forse”. Ora che il racconto è giunto al termine mi preme aggiungere una riflessione: non ritengo necessario giustificarmi più di tanto per aver voluto cimentarmi, io illustre sconosciuto, in un argomento in cui dovrebbero e potrebbero dire la loro solo chi ha compiuto anni di studi, non intendevo minimamente tentare di rubare il mestiere a nessuno. D’altronde non ho mai sentito le giustificazioni di chi ben più conosciuto e importante di me ha provato a demolire pagine di storia, eventi e credi religiosi, con argomentazioni ben più traballanti e fantasiose delle mie. Lo scopo è stato solo quello di raccogliere e mettere tutto assieme un misto di memorie popolari, ricerche e ipotesi, che pur non essendo in grado di dimostrare che nella Piana degli orti vi fosse veramente un Nemeton, quantomeno qualche dubbio lo creano. Ultima notazione: da cittadino rispettoso delle regole e delle leggi quale ritengo di essere, nulla ho fatto trapelare prima di aver interpellato l’ente competente, che ha fatto eseguire un sopralluogo dal suo personale particolarmente preparato, e mi preme aggiungere, educato e garbato. Purtroppo e per fortuna viviamo in una nazione particolarmente ricca di beni e di ritrovamenti archeologici, quindi era logico che in mancanza di reperti tangibili, non si potesse investire in sole ipotesi ciò che non si riesce a investire per mancanza di risorse in altre realtà chiaramente più concrete. Troveremo con l’andar del tempo chi si faccia carico di questo enigma e provi a cercare il bandolo della matassa? 65
Ricordo della Ines Mi sarebbe piaciuto parlare di tutte le persone di Beverone che ho conosciuto; un aneddoto, qualche episodio particolare, non ci sarebbe stato che l’imbarazzo della scelta. Però ho pensato che sarei stato proprio io il primo ad esserne scontentato, perché mi sarebbe dispiaciuto per le cose inevitabilmente tralasciate e non dette. Per semplificare le cose ho pensato di raccontare qualcosa di una sola persona, che non scontenti nessuno: la Ines. La Ines era mia zia, sorella di mia madre, ultima di sette sorelle. Chi l’ha conosciuta avrà i propri ricordi personali, mentre io proverò ad aggiungerne qualcuno degli ultimi tre anni della sua vita, quelli trascorsi all’Istituto Sacro Cuore di Brugnato. Ho sentito il desiderio di scrivere qualche ricordo della sua vita come a volerle rendere un omaggio, come a voler imparare qualcosa da qualche semplice ricordo. La Ines, a causa delle sue poco buone condizioni di salute, non sarebbe stata in grado di vivere da sola; da molto giovane visse con la madre, poi con la sorella Italina, e negli ultimi anni con il nipote Lino. Gli acciacchi della Ines peggiorarono, aveva bisogno di un’assistenza continua, e fu ricoverata presso l’istituto Sacro Cuore di Brugnato. Prima di quel momento aveva vissuto sempre a Beverone, per lei il mondo iniziava e finiva lassù. Il lavoro che forse l’aveva gratificata di più era stato quello della pastora, e voleva bene alle sue pecore. Le piaceva raccontare di quella volta che, mentre era far pascolare le pecore, a causa del suo malessere svenne. Non era con altri pastori, ma sola, e quando poi si riprese, ancora 66
sdraiata per terra sull’erba, vide le sue pecore che le si erano disposte attorno a circolo, e la guardavano. Avevano smesso di brucare l’erba, avevano capito che qualcosa non andava, non potevano far niente per aiutarla, ma le facevano compagnia, e perlomeno mentre lei riprendeva conoscenza, si sentì confortata da quella loro attenzione; dopo tanti anni provava ancora gratitudine per le sue pecore. Non sapeva fare molti lavori, ma con l’aiuto e la spinta della sorella qualcosa riusciva a combinare. Anche a causa del suo male era discretamente nervosa, andava capita anche se non era proprio facile. L’ambiente in cui si venne a trovare a Brugnato, lei lo chiamava “casa”, non poteva immaginare qualcosa di diverso. Nei momenti in cui stava bene, soprattutto con la testa, il suo pensiero era per Beverone, il luogo e le persone. Una volta mi raccontò di un sogno che aveva fatto, allora le chiesi di raccontarmi ciò che aveva sognato fra una visita all’altra. Erano sogni semplici, che riguardavano le pecore e le persone: Giuàn, i muli, Andrea, l’Adriana, Lino, le mucche. Una notte si era sognata i bozetti. I bozetti erano delle piccole fossette fatte nel terreno, in cui veniva raccolta la poca acqua frutto di piccole sorgenti, attive anche d’estate; ce n’erano tre sulla strada che porta al Monte Nero. Erano importanti per il bestiame, che vi si abbeverava quando passava da lì mentre andava o tornava dal pascolo. La Ines si sognò i bozetti che le dicevano: “quando vi facevamo comodo per far bere le vostre pecore, ci tenevate bei puliti, ora che non vi serviamo più, nessuno toglie le foglie secche o il fango che si forma dentro”, e allora mi disse di chiedere a Nello o Andrea, di farle il favore di pulirne perlomeno uno. 67
Un’altra volta mi chiese, e forse la risposta la sapeva da sola, se i campi erano ancora puliti, o se i rovi stavano prendendo il sopravvento. Non chiedeva troppo tempo, anzi dopo un po’ che ero lì mi diceva di andare, che altrimenti avrei fatto tardi, però anche a distanza di una settimana lei riprendeva il discorso da dove era finito o lasciato in sospeso la volta prima. Le portavo i saluti di alcuni beveronesi e mi diceva di rifarglieli. Quasi tutte le volte mi chiedeva di Lino, ma avevamo deciso di non dirle che Lino se ne era andato. Non chiedeva che andasse a trovarla, anzi diceva di dirgli di riguardarsi. Avrebbe visto volentieri la Chicca, la cagnetta che quando era a Beverone non la lasciava un minuto, e così una volta gliela portammo, ma poco dopo che era lì disse di portarla via, come a proteggerla, che non le facessero dispetti. Si ricordava dei bisnipotini, perché lei aveva sempre avuto un legame speciale con i bambini, chiedeva se erano cresciuti, e mentre lo diceva sorrideva, come se in quel momento fossero stati lì davanti a lei, e fu contenta quando andarono a farle visita. A volte mi sembrava che il solo vedere e parlare con uno di Beverone, questa specie di collegamento, la facesse quasi ringiovanire. Aveva un bel caratterino la Ines, ma noi che crediamo di essere normali pensiamo forse di averlo migliore? E poi a cosa serve dire una parola di conforto o avere un po’ di comprensione verso chi non ne ha bisogno? Dopo essere andato a trovare la Ines, come dopo aver scambiato due parole con Merilio di Stadomelli o altri anziani, tante volte mi sono chiesto: “sono io ad aver fatto un po’ di compagnia a loro, o sono stati loro ad avere insegnato qualcosa a me?”. Solo una volta mi chiese di vedere una persona. Non era un suo parente, e non 68
era nemmeno per qualche motivo particolare, forse era solo il desiderio di parlare un momento con qualcuno del suo paese. Questa persona poi andò a trovare la Ines, e mi ringraziò per averglielo chiesto, disse che quella specie di disagio provato al pensiero di andarci, poi si era trasformato in piacere di averlo fatto. “Povera Ines”, come si usa dire a Beverone, forse le avrebbe fatto piacere qualche visita in più, come un po’ tutte le persone che erano lì con lei, solo pochi minuti, solo due parole. Forse loro avranno un merito per aver vissuto questa situazione di non autosufficienza. Andiamo troppo di corsa, non troviamo e forse troppe volte non vogliamo trovare un briciolo di tempo da dedicare a chi ne avrebbe bisogno. Troppe volte ci nascondiamo dietro una serie infinita di scuse, da non far fatica nemmeno a inventarle, basta sceglierne una, perché c’è chi le ha già inventate prima di noi. In una delle sue prediche un prete disse che dovendo scegliere fra due strade, dovremmo scegliere sempre la più difficile, che sarà forse la più faticosa ma solo all’apparenza, e spesso sarà quella che ci farà capire un po’ di più il senso della vita. Qualcuno ha detto che ciò che facciamo per noi morirà con noi, e ciò che facciamo per gli altri rimarrà immortale. Forse immortale è una parola un po’ grossa, però la differenza tra fare un po’ di bene e il non farlo è dentro di noi, e ci tira un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Sono due attrazioni diverse, però forse non è strano che se anche con tanta fatica riusciamo a combinare qualcosa di bene, poi siamo contenti di averlo fatto. 69
Ma niente, abbiamo la testa troppo dura, e troppo spesso siamo attratti solo dal soddisfare i nostri interessi, dalle nostre inutili corse, dalla nostra carriera. Auguriamoci che la nostra sorte sia migliore di quella della Ines, che poi tutto sommato, anche se ogni tanto si lamentava, lì a Brugnato al Sacro Cuore, nonostante il suo carattere a volte un po’ bisbetico, aveva trovato tanti amici in tutti i dipendenti dell’istituto, un nuovo Beverone. Armandoci di buona volontà e umiltà, e provando ad ascoltare, abbiamo tutti qualcosa da imparare da qualcun altro, e sembrerà strano, ma per chi l’ha saputa ascoltare c’era da imparare anche dalla Ines.
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Riflessioni Gli anni passano, ma abbiamo sempre qualcosa da imparare dalla vita. Si scopre, si apprende, si crede di sapere tutto, poi… arrivati ad una certa età, quella delle “riflessioni”, capita di pensare “quante cose ci sembrano cambiate!”. E non ce ne accorgiamo, ma forse siamo noi ad essere cambiati. La nostra vita si stanca, si consuma, finisce… è la grande ruota che gira. Siamo come tante goccioline d’acqua, sospese nell’aria, come quelle che formano le nubi, ma non sappiamo quanto vi dovremo stare, e nemmeno quando e dove dovremo cadere. Saremo riusciti assieme alle altre gocce, a far apparire qualche bell’arcobaleno? Quando il nostro tempo sarà finito, potremo sapere se abbiamo fatto bene o abbiamo fatto male? …forse la sola cosa che potremo dire sarà: “è andata come è andata”.
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Un campo di segale 72
Beverone dall’alto, 1940 e 1970
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Un lusso: il gabinetto in muratura
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La trebbiatrice
Una delle case piĂš antiche 75
Il centro del paese
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Il centro del paese e l’aia
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La Spezia, viale Mazzini in una cartolina del 1924, dove noleggiavano le biciclette.
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Sul muretto della chiesa
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D’enzàn’là
Schegge di Beverone D’enzàn’là Schegge di Beverone Anno 2009
Sergio Antognelli