1ª edizione Agosto 2008 Š 2008 Copyright EDIZIONI CINQUE TERRE Viale S. Bartolomeo, 169 - 19126 La Spezia Tel.: 347-4431628 Internet: www.edizioni5terre.com E-mail: amministrazione@edizioni5terre.com In copertina: Giulio Lorenzini, Donatella Drovandi, Nobili Riccardo, Anna e Roberto Fabiani, Linda Franceschi, Marco Fabiani, Paola Franceschi, AdrianoVetrale, Esterina Drovandi, Oriana, Lorenzo, Anna Maria ed Elisa Drovandi, Cinzia Pisarelli, Giulia Bravo, Claudia Fausti, Orietta Franceschi, Elide e Paola, Sandra Grilli, Liliana Malatesta, Maurizio, Lorella, Silla Drovandi, Paola Chiocconi, Mauro Bravo, Stefano Pisarelli, Barbara Fabiani, Diego Drovandi, Debora Della Vigna, Cristina, Patrizia Drovandi. Dietro in terza fila: Luciano Nobili, Simona Andreoni, Paolo Fausti, Claudia Andreoni, Sofia Drovandi, Flavio Franceschi, Dora Quaradeghini.
Oriana Drovandi
Scozzacampane de Stadomè, ovvero...
quei de Prado
EDIZIONI CINQUE TERRE
A mio padre e mia madre, perchÊ mi hanno insegnato che con la semplicità , il lavoro, un sorriso e il cuore... si può fare qualunque cosa.
Prospero con i suoi figli.
Introduzione
L’idea nasce dal cuore, dalla paura di perdere i propri ricordi ma, almeno per me, è ancora il bisogno di ascoltare le voci di chi ha vissuto un’esistenza tanto diversa dalla mia, nella quale il vuoto di comodità era senza dubbio colmato dalla pienezza dei sentimenti. Da sentimenti dimostrati spesso con ruvido pudore, “I fanti i se basan quando i dorman”, quando stanchezza e sudore cementavano le famiglie allungandole a tre quattro generazioni, tutte sotto lo stesso tetto, tra mille difficoltà, ma comunque cellula unica di una società che cresceva combattuta tra la voglia di modernità e l’attaccamento alle tradizioni, con la voglia di costruire un futuro con tante certezze. Per parlare del mio paese, che tutti ma proprio tutti chiamavano “Prado”, (anche se a Stadomelli di prati ce ne sono proprio pochi, anzi sono piccoli terrazzi, strappati al bosco con laboriosi muri a secco, che oggi, giorno dopo giorno cedono, lasciando il passo a rovi e alla roccia che tornano a trionfare), devo parlare dei personaggi che lo hanno animato e caratterizzato, e parlando di loro attraverserò consuetudini e ricorrenze del passato. Alcune sono arrivate a noi soltanto grazie al racconto degli anziani e ormai sono completamente cancellate. Altre per fortuna sono state riprese, e vengono ora celebrate con rimarcato vigore.
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Ad aiutarmi in questa bella avventura il cugino, amico ed almeno in questa impresa un vero pioniere... Sergio Antognelli. Dopo “Battiventu de Beveun” parliamo dei “Scozzacampane de Stadomè”, sperando che qualcuno ci segua, e si riesca ad arrivare al completamento del lavoro con la 3ª parte... “Battitesti de Carbügiaga”! Buona lettura...
Dalla chiesa.
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Dove siamo
Stadomelli è un piccolo paese arroccato su di un colle, costituito da piccoli gruppi di case. Alcune non formano delle frazioni vere e proprie. Il punto più alto è “la Lama”, chiamata così forse perché le case sorgono a picco verso il fiume, su di un dirupo di pietre e pini. Un tempo qui sorgeva il castello Malaspina, di cui oggi rimane solo un pezzo di muro. Il castello si ergeva in una posizione ideale per il controllo della zona, potendo rilevare anche i più piccoli movimenti. Oggi ci accontentiamo semplicemente di un panorama incantevole. In ordine per altitudine, il secondo posto spetta “al Forte”, nome che deriva forse dal fatto che ha una configurazione a ferro di cavallo con un’aia centrale, o forse perché in tempi lontanissimi il Forte era un punto di transito per i soldati romani, che vi sostavano e vi si approvvigionavano. Qui vivevano i Drovandi “de sórve” di sopra, e sempre qui si trovava una delle tre botteghe, la bottega di nonna Sofia prima, e della Maria poi. Scendendo i numerosi scalini, che oggi sono di cemento ma un tempo erano tutti di pietra, si arriva alla “Chiesa”, frazione centrale. Qui vi abitavano i Drovandi “de sotto”. Questo è il cuore del paese, qui sorgono la chiesa e l’oratorio, qui da sempre si svolgono la maggior parte delle manifestazioni. Dopo un chilometro di strada che si snoda attraverso il bosco, arriviamo alle quattro strade, dove c’è la piccola cappella della Madonna Pellegrina, di cui avremo modo di parlare più avanti. Una delle quattro
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Il Carubbio.
La Lama. Rovine del castello Malaspina.
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strade porta a Cavanella, l’altra ai “Bodri”, dove si ha il piacere di una vista su quasi tutta la bassa Valle del Vara, con le Apuane a far da cornice, e poi si sale a Beverone. La terza strada porta “al Fornello” dove il gruppo di case sembra appoggiato al monte. La nuova strada corre lungo il colle parallela alla vecchia. Qui c’era l’osteria di Chiocconi e qui c’era la scuola, oggi grazie al lavoro degli abitanti del paese troviamo il campo sportivo, teatro di tanti tornei estivi giovanili. Continuando a scendere fiancheggiamo “Cà de Boffa”, la casa dove si sente soffiare. Scendendo ancora per circa un chilometro troviamo una strada sterrata, e dopo cento metri attraverso i campi siamo al “Carubbio”. Questa bella frazione, circondata dalle più ampie “piane” di Stadomelli, ricca di acqua e in pieno sole, è oggi completamente disabitata. Risaliamo la breve sterrata del Carubbio, e scendendo ancora per l’asfaltata, dopo poche centinaia di metri incontriamo un mulino ad acqua: siamo al “Manzile”. Oggi la pala del mulino dei Beverinotti e Malatesta è stata fermata perché gli ingranaggi erano da sistemare. Arrivati sul ponte del mulino, alzando il capo verso il monte che si staglia davanti, si vede il piccolo presepe delle case del “Manzile”. Le famiglie più significative di un tempo erano i Malatesta e i Beverinotti. Oggi le case, divise da una ripida scalinata che terminava con la cappella dei Malatesta, sono case estive o affittacamere. Dei vecchi abitanti resta soltanto la Ines Drovandi. Da qua la strada prosegue per Rocchetta, dopo aver superato “l’Aa Vècia” e “Pié da Costa”. All’Aa Vecia abitavano Merini e Domenico “Meneghin”, due degli uomini più significativi della vita del paese, nella prima metà del secolo scorso. Merini ciabattino, falegname, segantin (faceva le assi che servivano anche per le bare) muratore, suonava il clarinetto, e all’oc-
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Il Manzile.
Il Ramello.
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casione recitava il rosario. Un uomo che è stato, come ha giustamente detto il parroco alla sua messa funebre, tutto ciò che serviva essere per il paese. Domenico, allegro e burlone, ha lavorato tutti i campi di Stadomelli andando “in giornata”, arricchendo il suo lavoro con storielle e barzellette. Tornando al nostro percorso, se invece di proseguire per Rocchetta continuiamo a scendere, incontriamo i “Quaradeghini”, la frazione che probabilmente prende il nome dalle famiglie che lo abitavano in prevalenza. I Quaradeghini, appunto tutti gli abitanti di questa parte del paese vengono definiti “quelli di la dal canale”. Qui era la terza bottega, quella di Arturo. Si prosegue ora per l’ultima frazione, il “Ramello”. Vicina al fiume, e con il fiume legata per tutte le attività quotidiane. Qui le famiglie più numerose erano i Bilotti e i Landi. Il fiume con le sue piene e le sue secche scandisce da sempre la vita degli abitanti. La pesca delle lamprede aiutava in tempi grami a superare la fame.
Il Carubbio.
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Oggi in questa frazione vivono dieci abitanti fissi, di cui tre bimbi ed una ultranovantenne, Adele, che era la moglie di Rino, l’uomo che ha scolpito le soglie delle porte e delle finestre di quasi tutte le case del paese. Forte e lavoratore si ammalò per il lungo e gramo lavoro di “scalpellino”. Andava nel “ghiaio” sceglieva sapientemente la pietra, che poi con colpi di scalpello sagomava a seconda della richiesta, proprio lì dove era nata. Solo a lavoro finito, con l’aiuto dei muli, la pietra scolpita veniva asportata dal luogo di origine per essere trasportata a destinazione.
Prospero e Italina.
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Prospero e la Italina
Inizierò con il parlare di Prospero, personaggio allegro e scanzonato, conosciuto ovunque per il gusto di stare in compagnia e per l’osteria che aveva allestito nella sua casa. Si era sposato con l’Italina di Beverone per riparare al “pasticcio combinato nei prati di Beveón pei ventinove”. L’Italina era un bel donnone giovane, che faceva degli ottimi “tagiaìn”, austera e che, forse anche a denti stretti non era mai riuscita a cambiare quell’uomo bello e forte, ma troppo amante delle feste e delle belle donne per metter su famiglia e lavorare come la giovane moglie avrebbe voluto. Comunque, com’era in uso al tempo, l’unione fruttò quattro splendidi figli, tutti biondi e con gli occhi del colore del cielo di Beverone. I pettegoli raccontano che più di una volta l’Italina di Beveón, la sera si copriva e andava a cercare il marito per le cantine, riportandolo a casa con modi non proprio “femminili”, e la sua stazza e il piglio continuano ancora oggi a strappare dei sorrisi al ricordo del marito ancora un po’ brillo che, aprendo le imposte cantava... “senza lenzó, ciucca anca en có”. Che a Prospero il vino piacesse davvero lo prova anche una canzoncina che si inventarono per lui quelli di Beverone, nella quale era coinvolta suo malgrado anche la innocente Italina. “Avanti Prospeu, adrè a Italina, zü pe a cantina a beve er vin. Er vin du Pizzettu u l’è duzzettu, u l’è duzzettu perché l’è bun”. Cantata sull’aria di “bandiera rossa”.
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Anche in questa famiglia un dolore provò la forza di quanti la componevano. Nel 1943 il primogenito Piero non fece più ritorno dalla Russia. La gente racconta che la mamma Italina si copriva e poi stava la notte per ore sul terrazzo, per provare quanto si resisteva al freddo. Girò in lungo e in largo da tutti i reduci della triste campagna di Russia, con la speranza di avere notizie. Per fortuna queste sono arrivate solo oggi, lasciandola morire con la speranza che il suo ragazzone che aveva il 45 di scarpe, si fosse rifatto una vita. Una nota della Russia ci ha comunicato che l’alpino Piero era stato catturato nel marzo del 1943, fatto prigioniero e trattenuto per altri 5 mesi in una cella sotto terra, al freddo e nello stretto dove ha trovato la morte. Ora riposa nella fossa n° 25 con altri 20 ragazzi, pertanto non è possibile recuperare le sue spoglie. Quando i carabinieri hanno mandato il verbale con il quale hanno descritto brevemente il calvario di questi ragazzi, dal freddo alla fame, un dolore acuto è sceso sulla mia famiglia, anche se io non ho mai conosciuto lo zio Piero. Ringrazio il fatto che né mio padre né mia nonna abbiano saputo questa triste verità. Ho potuto raccontare dello zio Piero perché conoscevo i fatti, perchè è storia della mia famiglia, purtroppo di queste storie a Stadomelli ce ne sono altre; altre giovani vite se ne sono andate a causa della guerra. Non conosco le storie, ma un ricordo va anche a questi giovani di cui voglio ricordare i nomi: Italo Bilotti, Leopoldo Fabiani, Mario Fabiani, Emilio Fabiani.
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Alessio
Alessio è stato l’anima candida di Stadomelli. Oggi si direbbe che era un ragazzo down dalle meravigliose doti di comunicazione. In realtà Alessio è stato l’amico il complice e il rivale di almeno tre generazioni di abitanti di Stadomelli. La saggezza contadina e la sottile ironia gli avevano fatto sviluppare la dote di affibbiare ai compaesani dei soprannomi azzeccatissimi, “a furmagiaa – la Elide”, “u surdùn da piazza – Giampiero”, “u paesà – Giulio”, “u spinùn – Lorenzo” e così via. Il suo intercalare “per quanto de quelo” ancora oggi ci viene alle labbra spesso. Alessio sapeva scrivere e leggere in modo elementare pur avendo frequentato pochissimo la scuola. Da ragazzo sotto l’ala protettrice di don Emilio passava la giornate a leggere preghiere per il futuro parroco che sognava di diventare. Poi si innamorò delle ragazze più appariscenti delle varie generazioni, seguendole e inveendo contro gli spasimanti che avevano più successo di lui. Infine in vecchiaia prese il vizio di fumare e trascorrere le giornate girovagando per le case, con la speranza di quattro chiacchiere e un bicchiere di vino. Una sera d’estate mangiando dei kiwi in casa mia disse: “ben, per quanto de quelo, g’en propiu bune ste pumade verdi, me a ne gi’avevu mai mangià”. Spesso guardando la TV che proponeva le consuete belle ragazze mezze nude affermava: “per quanto de quelo ne gh’è mancu paragon cue nostre!” e scoppiava a ridere divertito.
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Mi piace terminare con un ricordo di Sergio di Beverone: per il 29 agosto Alessio veniva a Beverone, e il suo posto non era a caso in fondo alla chiesa, ma bensì in coro, in mezzo a noi beveronesi un po’ più impegnati, che cantavamo la messa, o svolgevamo le altre attività per servirla. Alessio veniva in coro con semplicità e naturalezza, come fosse stato uno di noi, senza la più minima timidezza, quasi un diritto acquisito. Le prime volte ci sembrava quasi un fatto strano, poi anno dopo anno, Alessio di Stadomelli a sinistra e Giuanìn di Garbugliaga a destra, erano diventati le nostre guardie del corpo.
Alessio al lavoro.
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La chiesa
La chiesa sorge su un punto rialzato, e ha un arco preromanico che campeggia dietro il portone principale. Fu costruita in due epoche diverse. Dalla chiesa partono ancora oggi quasi tutte le manifestazioni, e proprio nell’oratorio ai piedi della chiesa, nel lontano 1757 fu fondata la confraternita di San Pietro Martire. È ancora in chiesa il volume che riporta regole e durata delle varie cariche e le finalità, tutte rivolte all’aiuto di coloro che ammalati non potevano lavorare, che la confraternita si prefiggeva. A Stadomelli la chiesa è sempre stata un forte punto di riferimento tra le persone, anche se diverse erano le ideologie politiche la chiesa era di tutti e per tutti molto importante. Forse per questo tra gli abitanti di Stadomelli ci sono stati ben due parroci e una suora. I due parroci, don Davide Beverinotti e don Emilio Drovandi, hanno lasciato una importante traccia del loro operato un po’ in tutti i paesi dove sono stati, e in particolare a Stadomelli e Beverone. Suor Ludovica ha esercitato la sua missione a Genova dove si è spenta alcuni anni or sono, ma essendo comunque arrivata ad occupare un ruolo importante. Don Davide Beverinotti ha lasciato la sua fama di parroco fermo e irreprensibile, tanto che i bimbi se a messa parlavano, venivano sgridati con la classica frase “se ti vedesse don Davide!”. Don Emilio Drovandi ha, con i suo innumerevoli scritti, fissato tanti ricordi degli avvenimenti religiosi, ed è stato parte attiva in
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molte ricorrenze religiose della vallata. Anche la cappella dei Malatesta al Manzile fu fatta costruire da un parroco, che andò a professare la sua fede in Sardegna, ma fece costruire al Manzile la cappella dove ogni anno l’otto dicembre veniva celebrata la “Madonna del Manzile”. Oggi questa festa non viene più celebrata perché la cappella è inagibile.
Sopra e nella pagina accanto: la Confraternita e il suo statuto.
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Don Davide Beverinotti.
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Piccole note storiche
Scarsi purtroppo sono gli studi dedicati alla millenaria storia di Stadomelli. Mario Niccolò Conti, nell’articolo Chiese medioevali a due navate in Lunigiana (1927), avanza l’ipotesi che la chiesa di Stadomelli possa essere datata “a qualche anno innanzi il mille” e possa avere avuto origine monastica.1 PlacidoTomaini attribuisce ad Ubaldo Formentini conferma della medesima datazione, “perché un arco di pietra arenaria, sagomato e decorato, che esiste sopra la porta principale (dalla parte interna), in antico era arco sacro che stava sopra l’altare maggiore”.2 Non è stato possibile verificare l’ipotesi del Formentini, perché non individuabile nella bibliografia dell’autore esaminata: si può forse dedurre che Tomaini riporti opinioni raccolte soltanto oralmente dallo storico lunigianese. Un diverso orientamento della chiesa, con l’altare maggiore originariamente collocabile nell’area dell’attuale ingresso, cozza, del resto, con la ricostruzione avanzata dal Conti, che individuò due fasi differenti nella costruzione dell’edificio, oggetto però, in un indefinito tempo, di un semplice ampliamento, con allargamento della navata destra ed allungamento di quella centrale, senza rivoluzioni nell’impianto originale. 1 - CONTI, M.N., Chiese medioevali a due navate in Lunigiana, in Memorie dell’Accademia lunigianese di scienze “G. Capellini”, 1927, pp. 9-11. 2 - TOMAINI, P., Brugnato città abbaziale e vescovile, documenti e notizie, Città di Castello, 1957, p. 523.
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La chiesa di Stadomelli è citata per la prima volta nelle decime bonifaciane del 1296-1297 come “cappella de Stadamegio”,3 direttamente soggetta al vescovi di Luni. Sostiene Geo Pistarino che la cappella “sorgeva sul terriorio di una vasta tenuta montana dei vescovi di Luni”,4 in cui erano comprese anche le chiese di Calice, di Bocchignola (Veppo), di Padivarma, di Beverino. La tenuta confinava con i possessi dell’abbazia di Brugnato: fu dunque probabilmente protagonista dei numerosi scontri che opposero, almeno sino all’erezione di Brugnato a diocesi (1133), l’abate brugnatese ed il vescovo di Luni. Inquadrando Stadomelli in questo contesto storico è forse possibile avanzare, imprudentemente, un’ipotesi etimologica del toponimo, interpretandolo come diminutivo del termine latino “statumen”, col possibile senso di “protezione”, “rinforzo”, quindi, in sostanza, Stadomelli potrebbe significare di “piccolo luogo di difesa”. Con la progressiva erosione del potere temporale dei vescovi di Luni, Stadomelli entrò nel dominio dei marchesi Malaspina di Villafranca, del ramo cosiddetto “dello spino secco”. Per tutta l’età moderna, la comunità di Stadomelli dipese dai marchesi di Villafranca. Da metà ’500, i fratelli Bartolomeo e Giovanni Battista Malaspina si spartirono i domini famigliari, dando origine a due linee dinastiche: lasciata in comune Villafranca, al primo furono assegnate le
3 - PISTARINO, G., Le pievi della diocesi di Luni, Bordighera - La Spezia, 1961, p. 85. 4 - Ivi, p. 71.
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comunità di Virgoletta, Villa, Beverone e Rocchetta, al secondo di Castevoli, Stadomelli e Cavanella.5 Alla morte di Giovanni Battista il feudo fu ulteriormente diviso tra i figli Tommaso, cui spettò Castevoli, ed Alfonso che divenne condomino di Villafranca, e signore di Cavanella e Stadomelli. Ad Alfonso successero Marzio (morto nel 1600 circa), Scipione (1600-1656), Alfonso II (che entrò in possesso anche di Castevoli, per estinzione dei Malaspina signori di quel feudo). Alfonso II morì probabilmente nel 1722, lasciando erede il figlio Scipione II, morto intorno alla metà del XVIII secolo. Non avendo figli, a Scipione successe il fratello Opizzone Paolo, morto nel 1759. Ultimo signore di Villafranca, Cavanella, Stadomelli e Castevoli fu Tommaso Malaspina, figlio di Opizzone Paolo. Nel 1797 infatti, per editto del generale Chabot, inviato da Napoleone Bonaparte, i feudi imperiali lunigianesi furono aboliti ed annessi alla Repubblica Cisalpina, unita poi alla Cispadana e confluita infine nel Regno d’Italia. Per decisione del Congresso di Vienna il feudo fu però ricostituito ed attribuito al ducato di Modena.6 Dal ducato di Modena, Stadomelli entrò nell’Unità d’Italia, come parte del Comune di Rocchetta di Vara, aggregato alla Provincia di Massa-Carrara. Il Comune fu inglobato infine nella neonata Provincia della Spezia dal 2 febbraio 1923.
5 - BRANCHI, E., Storia della Lunigiana feudale, Pistoia, 1897-98, II, p. 98. 6 - FORMENTINI, U., Guida storica etnografica artistica della Val di Vara, La Spezia, 1960, p. 59.
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Circolare ecclesiastica.
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La chiesa.
La parrocchia di Stadomelli appartenne invece alla diocesi di Luni-Sarzana sino al 1822, quando venne aggregata alla nuova diocesi di Massa. Fu infine passata alla diocesi di Brugnato, per mutamenti territoriali, nel 1959.7 Si ringrazia il dott. Riccardo Barotti, assessore alla cultura del comune di Rocchetta Vara, che ha scritto questa indagine storica su Stadomelli in occasione della mostra di cartoline natalizie fatta nel Natale 2008.
7 - TOMAINI, P., op. cit., pp. 512 e 523.
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Sofia, la prima botegĂ a.
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La bottega
Un tempo ogni paese aveva la sua “botega”, e a Stadomelli ne esistevano ben tre: una al Forte, la “botega” della Sofia, una al Fornello, da Ciocón, e una ai Quaradeghini, da Arturo. La bottega del Forte era la più importante, ossia quella più rifornita. La Sofia era una donnina magra, e aveva il suo negozio in una piccola stanza che si affacciava su un terrazzo coperto da un pergolo di uva. Quando suo nipote Renato prese moglie rilevò la piccola bottega trasferendola al centro del Forte. Si occupava della bottega La Maria, moglie di Renato e mamma di Alessio e Giovanni. Una sola occupazione non era di quei tempi, pertanto spesso la Maria lasciava l’anziana suocera Margherita ad occuparsi della bottega, e andava a lavorare nelle terre con il marito. La Margaita era una donnina magra magra, attenta alla pulizia e che faceva della parsimonia il suo principio di vita. Allora le regole dei negozi erano ben diverse: non c’era la scadenza nei generi alimentari, non esisteva lo scontrino fiscale, e spesso i clienti compravano a credito, pagando a fine mese quando arrivava la paga. Il negoziante si riforniva dei generi di prima necessità andando a piedi nel vicino paese, tranne pane latte e uova, perché tutte le famiglie di questi generi si provvedevano da sole. Guardando la Maria salire dal sentiero che veniva da Padivarma con il suo carico sul capo sotto il “varco”, quella ciambella di stoffa che aiutava a proteggere il capo ed equilibrare il carico, mi veniva da pensare ad una giraffa con i
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La “botega” del Forte con la Maria e Renato.
suoi movimenti lenti e coordinati, il capo eretto e rigido, e mai proprio mai l’ho sentita lagnarsi per il carico. Per anni Orfeo, emigrato in Inghilterra, ha raccontato di un panino che la Margaita gli aveva fatto: “a me racomandu, a mortadela a me piasa sutila” - le disse Orfeo. “Ne tè preocupà, na feta a va bén”? - rispose lei. “Quante l’è”?- le chiese poi Orfeo, e la Margaita: “n’etu e mezo ninò”. L’ultima “botega” era stata aperta dalla Enea, che aveva creato un bel negozio di taglio moderno, chiuso definitivamente alla fine degli anni ’70.
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La strada
La strada a Stadomelli è stata ultimata nel 1968. Dapprima tutte le vie di collegamento erano i sentieri, o come si usava dire “le mulattiere”, che si snodavano nei boschi. I due principali percorsi erano quelli che raggiungevano il Ramello, in poco più di venti minuti di buon passo, e Padivarma, percorrendo i quali si raggiungeva la riva sinistra del Vara. Per raggiungere la riva destra, lungo la quale correva l’Aurelia... si utilizzava una passerella azionata con un cavo d’acciaio sospeso sull’acqua, fra le due rive. La bella foto che segue rende bene l’idea, anche se il sorriso delle tre ragazze forse sarebbe stato meno spensierato se il fiume sotto di loro fosse stato in piena, e la breve storia che segue rende chiaro il concetto appena esposto. La Lina dei Quaradeghini doveva andare a Padivarma dalla sarta a portargli la stoffa per fare un cappotto, l’avrebbe accompagnata la Carmela Merini. Eravamo sul finire degli anni ’40, di gennaio, la vigilia della befana, il fiume ricopriva il suo letto per tutta la larghezza, e il babbo della Lina disse alle due ragazze di fare attenzione, naturalmente nel modo che si usava allora “fantèle, se andé en tè Vaa, quande a sé a ca a v’amazzo!”, cioè “se cascate nel fiume, quando tornate a casa vi dò una fracassata di botte”. La Lina era esperta, aveva attraversato il fiume molte volte seduta sopra quella tavola, e quando era necessario andava anche a “traghettare” il medico. Iniziarono la traversata sedendosi sulla tavola “all’amazzone”, cioè con entram-
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be le gambe da una parte della tavola, e per equilibrarsi meglio, una ragazza da una parte e una dall’altra. La Carmela però non si sentiva tranquilla, e mentre la Lina era impegnata a far scorrere il carrello a forza di braccia, come si può intuire dalla foto, lei più guardava in giù e più gli aumentava la tremarella, e come per cercare conforto le chiese “non cascheremo mica nel fiume?”. La Lina le rispose “non lo dire nemmeno per scherzo!”, ma non terminò nemmeno la frase che la Carmela scivolò dalla passerella trascinando anche lei nel fiume. La Lina
La passerella sul fiume Vara: Anna Quaradeghini, Celstina Malatesta, Meri Quaradeghini.
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sapeva anche nuotare, ma oltre al fiume in piena c’era la Carmela che le si era aggrappata ai capelli cercando di salvarsi, e le impediva qualsiasi movimento. Furono attimi, e fortunatamente la forza della disperazione venne in aiuto della Lina, che forse non riuscendo nemmeno a capire come, riuscì a tirar fuori dal fiume la sua compagna e se stessa. Il danno maggiore fu proprio quest’ultima a subirlo, poichè nella caduta si sganciò anche la tavola su cui erano sedute, che le cascò in testa, provocandole un bell’ematoma. Sulla riva del fiume fortunatamente vi erano dei paesani, che prestarono alle ragazze i primi soccorsi, come quello di cambiarsi gli abiti fradici di acque gelide. Passato lo spavento, si accorsero che incredibilmente in quei momenti concitati, la Lina non aveva abbandonato la preziosa borsa che portava al braccio, e anch’essa fu salva. Nel frattempo nel vicino paese di Boccapignone si era sparsa velocemente la falsa notizia che due ragazze erano cadute nel fiume in piena, ed erano state inghiottite dai suoi flutti. Il desiderio di avere un ponte al Ramello era molto sentito a Stadomelli, ma stranamente e chissà perché, sembra non da tutti. Probabilmente potremmo ricondurre questo timore alla paura di perdere la propria identità di venire quasi “contaminati” da ciò che nel resto del mondo stava accadendo e cambiando, nel modo di pensare e vivere. Tant’è che il parroco, la domenica successiva a questo fatto, durante la predica della messa celebrata in ringraziamento dello scampato pericolo e presenti le due giovani, disse: se ancora fra di voi qualcuno pensasse di opporsi alla costruzione del ponte, mediti cosa poteva succedere a queste due ragazze. I racconti di chi ha dovuto attraversare, magari carico di carbone o altro, il fiume gonfio d’acqua con l’asse della funi-
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via che sfiorava le acque torbide, non si contano. Fino al 1968 i muli erano l’unico sollievo per arrivare fino alla riva del fiume Vara con i carichi di carbone, funghi, legna o altro. Poi arrivarono per la strada sterrata i primi trattori, e subito dopo la prima 600 Fiat ritratta nella foto. Il merito della costruzione del Ponte del Ramello va attribuito all’Amministrazione di Prospero e la prima macchina. Francesco Beverinotti allora Sindaco, di lui abbiamo parlato a proposito della scuola, ma va detto che nonostante le sue caratteristiche di riservatezza e discrezione, che poco si adattano alla carriera politica (L’ia dei Beveinotti, nel senso che un po’ tutti i Beverinotti sono persone discrete e riservate), riuscì ad eliminare uno degli ostacoli più grandi per coloro che a Stadomelli abitavano, e ancora oggi hanno deciso di restare: il fiume. Il Ponte del Ramello, nonostante sia costituito da tavole e cavi di acciaio, e per chi non lo attraversa spesso è causa di non poca ansia per il suo ondeggiare, resta ancora oggi una importante via di comunicazione tra Stadomelli e l’Aurelia. Per la prima corriera il paese ha dovuto aspettare altri quindici anni.
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La scuoletta
La scuola era naturalmente pluriclasse, ed era in casa di Ciocón. Intorno agli anni 1920 - 30 contava circa 35 alunni. Silla, alunno di quel tempo, ha raccontato che spesso sulle dita arrivavano delle righellate, e se qualcosa non filava liscio, il castigo del granoturco sotto le ginocchia era all’ordine del giorno. In fondo alla classe veniva posizionato il banco dell’asino. I bimbi si recavano a scuola a piedi, portando tutti un pezzo di legna per la stufa. Una sola maestra faceva scuola per tutti i cinque anni, e a fine anno si andava a Padivarma o a Cavanella a fare l’esame, sempre a piedi. Stadomelli, come per tutte le figure importanti, aveva il suo maestro. Si trattava di Francesco Beverinotti: non nascondo la difficoltà di ricordare il nome del “maestro” proprio perché io l’ho sempre sentito chiamare maestro. Francesco ha insegnato a Veppo, Madrignano e in altri paesi dell’alta Italia. Per circa quindici anni ha insegnato a Stadomelli, e per altrettanti è stato sindaco del comune di Rocchetta Vara, ma questo è passato sempre in secondo piano tanta era l’importanza che si dava alle persone di cultura, mentre per la politica in quegli anni non c’era tempo. Il maestro Beverinotti era severo e rigido nei modi e nei castighi, ma senz’altro i bimbi di quel tempo, che prima di andare a scuola portavano le pecore al pascolo per andarle poi a riprendere al termine della scuola, avevano le orecchie disposte a qualche tirata di troppo, che i bimbi di oggi non sarebbero in grado di sopportare.
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Un gruppo di alunni della scuola a Stadomelli.
Negli anni ’70 arrivò nella scuola sussidiaria del Fornello la maestra Pieranna. Giovane e alle prime esperienze, si trovò una classe di bimbi dalla prima alla quinta, maschi e femmine, pochi ma ben determinati. Si creò subito una specie di sodalizio tra tutto il paese e la maestrina, tanto che quando il tempo brutto o la neve non consentivano di salire la strada sterrata con la macchina, i bimbi accompagnavano la maestra per un tratto di strada a piedi per farle compagnia. La mattina quando la maestra arrivava con la giardinetta del suocero, tutti i bimbi sorridendo la salutavano con un “frena Ugo!” indirizzato alla macchina, anche perché la maestra non era proprio un’autista esperta, ma ancora oggi capita che i bimbi di allora quando vogliono fermare un’azione o un’auto di un amico dicano quell’intercalare “frena Ugo” che era diventato di uso comune nella scuola.
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Un giorno gli alunni stavano giocando fuori della scuoletta nell’intervallo, quando uno di loro, Stefano Pisarelli, arrivò di corsa alle spalle della maestra, il pugnetto chiuso e il sorriso dispettoso non faceva sperare niente di buono. In un lampo la manina finì sotto il colletto della maestra che sbiancando iniziò a chiedere... Stefano cosa mi hai messo... Stefano dimmi cosa... una rana, rispose Stefano ridendo, e la maestra roteando le pupille finì lunga distesa sul prato. Ci volle il Fernet della Egle per far riprendere la signorina Pieranna dallo spavento, ma da allora neanche Stefano che era il più dispettoso osò tirarle altri animali addosso. La scuola a Stadomelli fu chiusa per sempre nel ’74, la maestra Pieranna è stata l’ultima insegnante, e nel ricordo di tutti noi, e credo anche nel suo, quello è stato un periodo veramente bello.
Stefano Pisarelli, Lorenzo e Oriana Drovandi, Riccardo Nobili, Gerardo Drovandi.
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Il maestro Francesco Beverinotti.
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L’acqua
“Aigua ch’a pissa, l’ha bevù a bissa l’ha bevù Cristo Re, aa posso beve anche me”. Acqua che scorre l’ha bevuta il serpente, l’ha bevuta Dio, la posso bere anch’io. A Stadomelli l’acqua potabile è sempre stata un problema, è arrivata circa 50 anni fa da Beverone. Anche per l’acqua però la situazione è molto diversa se parliamo della frazione della chiesa o del Manzile. Alla chiesa gli abitanti avevano costruito un pozzo nel bosco dove era stata trovata una fonte d’acqua e lì, dapprima con una pompa azionata a mano, e poi con la corrente, l’acqua veniva pompata all’unica fontana al centro della strada. Questo avveniva tutti i giorni alla solita ora, generalmente alcuni uomini, suonavano la campana poi tutti andavano alla fontana in modo tale che quando l’acqua arrivava, venivano riempiti i contenitori necessari per un’intera giornata. Scendendo si trovava sempre più acqua, il Fornello usava la sorgente della Novegina. Il Manzile, con il canale che arriva dal Monte Nero era ricco d’acqua. Al Carubbio, con un preciso sistema di canali, l’acqua bagnava tutti i campi, e veniva raccolta in due grosse vasche. È importante sottolineare che spesso si ricorreva, come per il Carubbio, ad un sistema di canalizzazione delle acque, detta dei “biedi”, che consentiva di annaffiare anche
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Alessio, Ada e Sofia Drovandi alla fontana.
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i campi, e quando non era possibile far arrivare il “biedo” da un campo a un altro, si ricorreva all’aiuto di canale ricavate dai tronchi di pino scavati al centro. Questa attività era esclusiva di “Tognìn del Carubbio” che deteneva l’unica “sgorbia” del paese. La “sgorbia” era un attrezzo munito da un lato di una specie di ascia e dall’altro di un “cucchiaio” che scavavano e incurvavano il pino fino a farlo diventare come una condotta che consentiva all’acqua di defluire da un campo all’altro. Per nessun prezzo Tognìn avrebbe ceduto la sua sgorbia ma, cosa ancora più singolare per i nostri giorni, nessuno avrebbe osato sostituirsi a lui in questo importante ruolo. Il Ramello utilizzava un’altra fonte ancora sotto il monte, per l’acqua potabile, mentre per tutti gli altri usi lungo il fiume erano state scavate delle “polle”, cioè delle vasche di terra dove l’acqua si fermava e si poteva raccoglie-
Orietta Franceschi, Fedora Antonella Lucia Lorenzino e don Emilio Drovandi, Giampiero ed Elisabetta Fabiani, alla fontana della chiesa.
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re con i secchi più agevolmente che non lungo il corso del fiume, l’acqua così veniva presa a secchi e portata a casa, generalmente dalle donne, sul capo. Giovanni Beverinotti, al quale ho chiesto notizie ha detto: ”i a miavan ma i ne ghe l’evan” ovvero la vedevano ma non ce l’avevano, ma ovunque l’acqua era poco comoda, e le donne lavavano lo stretto indispensabile. Il bucato “a bugada” si faceva settimanalmente: si metteva la biancheria piegata nel concone, cioè un grosso vaso di terra cotta che aveva un foro in basso, poi si poneva sopra il concone un apposito panno come fosse una sorta di coperchio, e sopra di esso si metteva la cenere. Poi si versava l’acqua calda sopra la cenere, e il compito del panno era quello di non far scendere la cenere nei panni, ma soltanto le sue parti detergenti, che si infiltravano nei panni rendendoli candidi. Quando dal foro in basso iniziava a riuscire l’acqua, dapprima era grigia poi pian piano ridiventava limpida, allora la “Bugada” era pronta. I panni una volta raffreddati venivano portati al canale e lavati definitivamente. Una volta asciugati venivano stirati con quei graziosi ferri da stiro che tutti abbiamo visto, che venivano riempiti e scaldati con la brace rovente, però si stiravano solo i vestiti dalle “feste” le camicie e poche altre cose. Le docce e le lavatrici sembravano una cosa ancora lontana, e invece...
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I segantìn
Nei mesi invernali, con le giornate più corte dell’anno, le ore durante le quali era possibile lavorare erano poche, di contro a questo c’era però il vantaggio che il freddo invernale consentiva quelle attività particolarmente faticose che era impensabile svolgere in altre stagioni, una di queste era quella del “segantìn”. I segantin erano coloro che armati di “soracco” ricavavano dai tronchi più grandi le assi. A Stadomelli questa attività era svolta prevalentemente da Merini, Innocente, Angioletto e Gino. L’albero era tagliato in tronchi normalmente di due metri, poi trasportato con i muli nel luogo prescelto del bosco in cui era stato costruito un apposito banco, rudimentale, ma efficace per questa lavorazione. I tronchi venivano squadrati con sapienti colpi di accetta, e poi segnate su di esso le linee che si sarebbero dovute seguire con il soracco, usando il carbone o un’apposita cordicella ricoperta di polvere colorata, tesa e poi pizzicata di modo che lasciava la sua traccia lungo tutto il tronco. A questo punto, tramite un gioco di leve e cunei, il tronco veniva posto sopra il banco e legato con delle catene, lasciandolo sporgere per metà. Iniziava così il lavoro con il soracco, tirato in su dal segantìn che stava in equilibrio sopra il tronco, ed in giù dall’altro segantìn che vi stava sotto. Era un lavoro basato sulla forza fisica, la resistenza, la precisione e il sincronismo. Il tronco veniva “affettato” per la lunghezza tante volte quante erano le tracce segnate in precedenza, arrivan-
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do fino al “bancone”, cioè a metà, poi veniva girato di 180 gradi e si ricominciava lo stesso lavoro dall’altra parte. Questo era un lavoro che veniva descritto come durissimo, e le poche persone che lo facevano avevano l’ammirazione di tutti i giovani del paese. Le ultime assi che sono state Francesco Merini, uno dei segantin segate con questo metodo risalgono al ’58. Merini, al funerale di Innocente, disse che le tavole usate per la cassa di quest’ultimo le avevano tagliate proprio loro due insieme.
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Le cave
Stadomelli è stato in passato “terra di conquiste” per impresari che, alla ricerca di facili guadagni, aprirono ben tre cave nei monti circostanti il paese. In una di queste tre, posta sopra il Manzile, veniva estratto il caolino. Estratto a mano veniva trasportato a dorso di mulo sul terrazzo dei Malatesta. Il racconto ci è arrivato proprio da una di loro, Gemma Malatesta, che in una fredda mattina di febbraio è venuta a trovarmi in ufficio, con un bel piatto di ceramica bianca. Sul retro il piatto aveva stampato il nome Ginori e una grossa M che stava per Malatesta. Il piatto era uno dei due sopravvissuti di un servizio da 24, che i Ginori fecero proprio per i Malatesta con il caolino estratto al Manzile. Già agli inizi del ’900 il pretore di Calice al Cornoviglio, Ratti, aveva segnalato tracce di caolino nella zona. Dopo l’iniziale entusiasmo, i Ginori abbandonarono l’attività estrattiva a Stadomelli, perché facendo i conti si accorsero che comprare le materie prime per produrre ceramica direttamente dalla Germania, costava meno che estrarlo in Italia, e così abbandonarono la cava, lasciando solo i segni di una fiorente attività che il paese aveva fatto. Ancora oggi la famiglia Ginori è proprietaria del bosco dove era situata la cava di caolino.
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Bruno Pisarelli sul mulo.
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Il gigante è caduto
Un poeta dilettante di Cavanella, oggi morto, scrisse parecchi anni fa: “Quattro case, tre cipressi... un paese tra i più belli, tutto questo è Stadomelli”. Da questa semplice descrizione si capisce come i tre giganti plurisecolari siano stati un elemento importante per il paese. Il Caselli nel suo libro del 1933 “Il Viandante - Lunigiana ignota” descriveva Stadomelli così: “Da Cavanella in tre quarti d’ora salgo al Fornello, un gruppo di cinque case, mèta di cacciatori, che trae il nome da un antico forno per la fusione di minerali cuporiferi, che par si trovassero nella roccia serpentinosa, fiancheggiante il sen-
I tre cipressi e la chiesa.
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tiero per il Manzile. Da qui bisogna fare una puntata al vicino Stadomelli, dove tre rari cipressi secolari, catalogati fra le bellezze naturali d’Italia, che meritano di essere fotografati. Essi giganteggiano in gruppo meraviglioso presso la Chiesa di S. Giovanni la quale può interessare non poco gli esperti d’arte antica per un arco da poco messo in luce de’ primi tempi del cristianesimo”. Il cipresso più vicino alla chiesa, dopo anni di lunga e non curata malattia, pian piano è seccato, e nel mese di gennaio del 2008 è stato abbattuto. Se potessero parlare i due giganti rimasti soli, probabilmente racconterebbero di come tutti e tre insieme hanno visto il monte e la vallata mutare negli anni, e sarebbe bello ascoltare dei tanti matrimoni e battesimi ai quali hanno fatto da testimoni. Delle risate dei bimbi all’uscita dalla chiesa, e dei baci timorosi dei giovani, strappati al buio da corteggiatori appassionati, sotto la protezione dei grandi rami. Hanno visto due guerre, il terremoto la fame, ed oggi di uno non resta che un ceppo alto un metro circa da terra. L’inquinamento ha avuto la meglio sulla sua fibra forte. Guardando intorno a noi non vediamo altro che alberi ammalati, come in un film di fantascienza; sembra che la natura ci stia urlando una richiesta di aiuto muta, ma terribile... il gigante di Stadomelli speriamo possa essere un monito, e non un presagio. Per ora in noi di Stadomelli si è sentita una volta di più la sensazione di abbandono. Il cipresso è stato ammalato per tanti anni, ma nessuno è intervenuto, così non ci resta che il rimpianto per questo amico che se ne è andato per sempre. “Stadomelli, quattro case, due cipressi... un paese tra i più belli”.
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I carbonìn
Nei mesi invernali il bosco è “fermo”, nel senso che la linfa è ferma, e le piante vivono in una specie di letargo. In combinazione con la scelta della luna idonea, è il periodo adatto per tagliare il legname da impiegare per le varie lavorazioni ed usi poiché, e questa è una cosa che l’uomo ha scoperto da secoli, seguendo queste precauzioni il legno lavorato dura più a lungo e non dovrebbe fare i tarli. Approfittando anche del fatto che in questi mesi la campagna dava un po’ di tregua, per racimolare un po’ di soldi gli uomini dedicavano parte del loro tempo nell’utilizzo delle varie risorse che poteva offrire il bosco, adeguandosi anche alle varie richieste del mercato. Fra le varie attività che si potevano svolgere nel bosco vi era quella della ricerca di radiche “zocche” da pipe, ossia sradicavano con il piccone i “costi” cioè l’erica, poi le ripulivano eliminando dalla ciocca vera e propria tutte le parti superflue con il falcino, come marciume, terra e piccole radici. Infine le mettevano tutte assieme sotto terra o altro luogo, purché fossero all’umido, evitando così che si formassero delle spaccature che le avrebbero rese inutilizzabili dalle fabbriche. Quando avevano raggiunta una certa quantità, le portavano a Pian di Barca, dove un commerciante passava un giorno fisso tutti i mesi. Altri invece si dedicavano alla produzione di carbone. Il tentativo di spiegare questo lavoro è arduo, lo sarebbe già per chi le carbonaie le ha fatte per davvero, figuriamoci per chi lo ha sentito raccontare, ed egli stesso lo deve
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immaginare nella propria fantasia per poi cercare di farlo capire ad altri, ed il tutto senza l’aiuto di immagini. La prima operazione consisteva nel taglio del bosco, della così detta legna forte, cioè di quelle varietà adatte alla produzione del carbone. Il quantitativo di legna dipendeva un po’ da quanto si voleva far grande una carbonaia, ed anche da quanta se ne poteva avere a disposizione; comunque per dare un’idea, si otteneva un quintale di carbone ogni cinque e forse più di legna, e da una carbonaia piccola si ottenevano tre o quattro quintali di carbone, raddoppiando il peso per una grande. La legna veniva radunata in uno spiazzo preventivamente predisposto, ed a quel punto iniziava il lavoro di assemblaggio della carbonaia. I “carbonìn” piantavano nel terreno, nel centro dello spiazzo che sarebbe stato il centro della carbonaia, alcuni paletti di legno di diametro attorno ai dieci centimetri, disponendoli sull’ideale circonferenza di un cerchio largo una trentina di centimetri, leggermente scostati l’uno dall’altro, e di altezza attorno ai due metri. Normalmente per questi paletti si utilizzava il legno di pino, ma si sarebbe potuto utilizzare anche dell’ontano o altro, purché non fosse legna forte. Si era costruito quello che sarebbe stato il “camino” della carbonaia, mentre il vuoto compreso all’interno della sommità dei tronchi si chiamava “bocca”, dei termini non casuali, ma che ne indicavano proprio il compito. In questa fase iniziale i tronchi erano stati legati all’estremità superiore con giunchi, ginestre o “un’antorta”, cioè corde improvvisate con materiale vegetale, per far si che non si divaricassero, e il camino avesse un diametro simile per tutta la sua altezza. A questo punto si mettevano i tronchi di legna forte attorno al camino, verticalmente e un pò inclinati verso di esso, in modo da ottenere un cerchio uniforme di tron-
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Lodovico Drovandi con il suo asino. Per lui il bosco è stato il lavoro di tutta la vita.
chi, il cui diametro variava a seconda del quantitativo di legna a disposizione. Se alcuni tronchi erano troppo grossi di diametro dovevano essere spaccati, in modo da ottenere una certa uniformità di dimensioni. Comunque i più grandi si mettevano verso l’interno, dove si sarebbero sviluppate delle temperature un po’ più alte, compensando così le differenze di dimensioni. Sopra questo “giro” di tronchi ne veniva posto un secondo, e così si arrivava ad una altezza totale attorno ai due metri, quella del camino, ottenendo una costruzione conica con la punta tagliata, la “bocca”. Occorre precisare che questi due “giri” di tronchi in effetti non erano costruiti in due tempi diversi ma contemporaneamente, poiché i tronchi non erano stati tagliati con il metro in mano, ma a occhio, quindi un pezzo lungo del primo “giro” era compensato da uno corto del secondo, inoltre dovevano esse-
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re incastrati fra loro nel modo più compatto possibile. Se ci si era imbattuti in un pezzo di bosco composto in maggioranza da alberi di grosso diametro, questi ovviamente dovevano essere tutti spaccati, quindi il carbone ottenuto era detto “carbone di spacca”, ed era un po’ meno pregiato dell’altro fatto di pezzi più piccoli. La parte più bassa della carbonaia vicina al terreno, veniva coperta con le cosiddette “códeghe”, cioè zolle composte da erba e terra. Si proseguiva coprendo tutta la parte superiore, ponendo prima uno strato di stramaglie, che aveva lo scopo di impedire che il successivo strato di terra con cui si completava la copertura penetrasse fra i tronchi. Il monte di legna ricoperto con la terra battuta somigliava a un vulcano. Si passava ora alla fase più delicata, difficile da seguire con un manuale, come noi oggi siamo abituati a fare, diciamo più un lavoro fatto di piccoli trucchi derivati dall’esperienza, da adottare a seconda di come si sarebbe comportata la carbonaia e dal tempo atmosferico, in modo particolare dal vento. Sarebbe stato impossibile accendere il fuoco nella base del camino, le mani non sarebbero arrivate fin laggiù, ma vi arrivava la brace accesa che man mano cadeva dal fuoco di piccoli legnetti che si accendeva sulla bocca, poi quando il fuoco si era propagato alla base la bocca veniva chiusa con una “ciapa” cioè una lastra di pietra, ed in mancanza di questa con una códega di dimensioni idonee. La scelta del legno di pino per fare il camino non era stata casuale, ora il pino che è un legno debole, pian piano si consumava lasciando al suo posto un vuoto, il camino appunto, che permetteva quel minimo di circolazione di ossigeno, che confluiva all’interno da dei piccoli fori praticati sull’esterno della carbonaia, cioè sulla terra che la ricopriva. La carbonaia doveva essere alimentata dalla bocca per
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due o tre giorni, ogni quattro ore circa, con della legna piccola, e la ciapa si toglieva lo stretto tempo necessario per compiere questa operazione, altrimenti sarebbe entrato troppo ossigeno che avrebbe fatto incendiare tutta la legna. “Bisogna daghe da mangià, se la móa addio carbón”, se si spegneva addio guadagni. L’alimentazione della carbonaia continuava finché iniziava un processo di lenta ed autonoma combustione interna, senza fiamma, controllata dai fori che erano stati fatti nei suoi fianchi; troppi fori avrebbero fatto confluire troppo ossigeno all’interno, causando una combustione troppo veloce, pochi sarebbero stati insufficienti non causandola per niente, e la legna da quel lato non diventava carbone. Per capire se la combustione avveniva in modo uniforme, visto che non si poteva vedere cosa avveniva dentro, era quello di appoggiarvi le mani e di sentire così se era calda in modo uniforme; se un lato era troppo freddo vi si facevano dei fori in più, viceversa si tappavano. La carbonaia era pronta dopo che terminava la combustione, e questo si capiva prima di tutto come al solito dalla grande esperienza, e basandosi su vari indizi: il camino, cioè lo spazio vuoto che vi era fra i paletti di pino, era aumentato perché questo legno leggero si era consumato lasciando un ulteriore vuoto, che veniva pian piano colmato dalla legna che trasformandosi in carbone e diminuendo di volume essa stessa, si comprimeva sempre di più verso l'interno, causando il rimpicciolimento delle dimensioni esterne della carbonaia, e anche dal fatto che il fumo di colore nero agli inizi della combustione, schiariva fino a diventare bianco. L’umidità della legna era stata asciugata tutta ed il carbone era pronto. Si iniziava così a togliere la terra, e a scoprire il carbone, ma non era finita, perché poteva succedere che parte del carbone di un por-
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zione di carbonaia coperta poco bene, non fosse ancora spento, e l’esposizione all’aria lo faceva bruciare velocemente. Per evitare di far andare in fumo parte del proprio lavoro proprio alla fine, durante questa operazione ci si preparava dell’acqua per calmare i bollenti spiriti del carbone, e possibilmente non da soli. Muovendo i pezzi di carbone ancora tiepido e particolarmente asciutto, nell’urtarsi emettevano un proprio tintinnio, e forse per i carbonìn era la tanto attesa dolce melodia che li premiava per il duro lavoro. Ora il carbone era pronto per la vendita, e la maggior parte di esso era destinato ad andare in città. I carbonìn andavano a Padivarma a prendere i sacchi vuoti, che vi facevano ritorno una volta riempiti del nero frutto della loro fatica, trasportati a dorso di mulo. Da qui il carbone partiva per Spezia cambiando ancora una volta mezzo di trasporto, questa volta viaggiava su di un carro. Agli inizi degli anni ’50 a Padivarma c’era ancora chi si occupava del commercio del carbone, e probabilmente fu l’ultimo, era un certo “Richè” che aveva “Ivano” come aiutante, e trasportava il carbone a Spezia con il suo carro trainato da un bel mulo bianco. Quando questo mulo fu in la con gli anni e non era più in grado di trainare il carro, Richè pensò bene di venderlo. Acquistò il bello e docile mulo bianco Nello di Beverone, pensando anche di fare un affare, ma era poco più che un ragazzo e non se ne intendeva, la povera bestia non solo non era più idonea per il carro ma non ce la faceva nemmeno a portare dei piccoli carichi di legna, perché le sue zampe avevano compiuto troppi sforzi e cedevano sotto il peso, e allora a malincuore lo riportò dal Richè. Solo le famiglie più facoltose compravano il carbone per l’uso domestico. Non c’era ancora il gas, normalmente nei nostri paesi si cucinava nella stufa a legna,
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o attaccando il paiolo alla catena nei focarili. Alcuni avevano dei “fornelletti” così composti: in un muretto alto circa un metro vi erano una o più piccole nicchie o rientranze, in cui erano inseriti delle specie di vasi di ghisa quadrati, appoggiati sui lati, con una griglietta nel fondo, il quale fondo aveva un po’ di spazio sotto, ed era leggermente sollevato dal ripiano su cui ricadeva la cenere del carbone che man mano si consumava. Dentro vi si metteva la carbonella, cioè pezzi di carbone non troppo grossi, dandovi un po’ d’aria con una specie di ventaglio soprattutto appena acceso, e quella era l’antica cucina a gas sopra cui si mettevano le pentole. D’inverno si univa l’utile al dilettevole, cioè con la stufa ci si scaldava e si cucinava, d’estate quando la stufa non serviva, era più comodo l’uso dei fornelli, per chi li aveva, altrimenti si continuava ad usare la stufa, spostandola magari fuori casa, comunque al riparo in caso di pioggia. I Beverinotti pagavano un uomo, “Franciolìn”, che veniva da un paese vicino, e che a volte si fermava anche tutto l’inverno per preparare il carbone che sarebbe loro servito per tutto l’anno. Franciolìn lavorava per la paga oltre al vitto e l’alloggio, ma mai lui avrebbe accettato di dormire in un letto, Franciò dormiva solo nei fienili.
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I tre moschettieri della pubblicitĂ .
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La pubblicità
Tanti anni fa... negli anni ’70, Stadomelli è stato teatro di uno spot pubblicitario. Mi ricordo ancora l’entusiasmo e la curiosità per la macchina da presa e i costumi. I tre moschettieri alzavano i boccali di birra dopo un duello all’ultimo sangue sui muri di una casa diroccata. I loro cappelli hanno arricchito per mesi i nostri giochi, e i duelli diventarono il gioco preferito di tutti noi Lo spot era destinato alla televisione, ma allora i canali erano due, e la televisione era un oggetto sacro di casa da coprire con un telo per la polvere e da usare con estrema parsimonia. Lo spot girato a Stadomelli, andando a letto dopo carosello io non l’ho visto, ma dopo alcuni anni qualcuno disse di aver riconosciuto nel panorama del nostro paese lo spot girato in quegli anni.
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Livio Franceschi.
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La barzelletta
Livio Franceschi racconta spesso questa barzelletta che a parer mio rappresenta bene le differenze sostanziali tra la vita cittadina e quella della campagna. Il moccico e un ragno si incontrano a un bivio: Dice il moccico - “dove stai andando?” “Torno in campagna” - risponde il ragno avvilito. “O bella questa, e come mai?” - replica il moccico. Di nuovo il ragno - “non mi parlare di città, tutte le mattine arrivano queste signore canticchiando, e con aspirapolveri micidiali via tutti, bisogna ricominciare daccapo con ragnatele “taragnaghe” e tutto il resto. Almeno in campagna sto bello comodo tutto l'anno, mi sposto la vigilia di Pasqua e poi tutto torna tranquillo, le donne son nei campi”. Il moccico lo guarda e dice - “beh, per me è il contrario, io in città vengo raccolto con un bel fazzoletto pulito e caldo, in campagna invece mi prendono con due dita e poi mi sbattono contro una vigna!”.
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Gennaio “Chi de gagina nassa tera raspa”. (Chi nasce da una gallina finirà per raspare la terra).
In campagna tutti i mesi dell’anno sono caratterizzati da un evento, un rito, dalla semina, dalla battitura del raccolto o altro. Gennaio, primo mese dell’anno, aveva come caratteristica di essere il mese “chi s’amazan i porchi”. Di solito in paese gli uomini sapevano, chi più chi meno, macellare da soli i propri maiali, che venivano uccisi con un lungo ferro appuntito che terminava con una impugnatura simile a una chiave, lo “spuglieo”. L’abilità del macellaio era data anche dalla capacità di forare il maiale una sola volta, centrando subito il cuore della povera bestia, che tenuto fermo da quattro persone macellaio compreso, a zampe all’aria, emetteva un urlo straziante. Mi ricordo che a gennaio anche Ciocón faceva ammazzare il maiale da un signore che veniva da Cassana. Il macellaio aveva un occhio solo, e un po’ per gli aiutanti anziani e, forse anche per la scarsa vista, il maiale, trafitto in modo sbagliato, finiva per scappare. A quel punto noi bimbi si usciva a rotta di collo dalla scuoletta, che era proprio sopra l’osteria, per guardare il sinistro spettacolo, facendo sempre il tifo per il maiale. I giorni seguenti erano per le famiglie giorni convulsi con tanto lavoro, dal quale dipendeva la conservazione della maggiore risorsa di carne di tutto l’inverno, ma anche giornate in cui il vino scorreva copioso, e tra un lavoro e l’altro c’era il delizioso compito di “assaggiare gli impasti” cuocendoli nei testi caldi, accompa-
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La chiesa sotto la neve
gnati da racconti sempre più grassi e da risate che oggi non si riescono più a fare. Spesso le suocere interloquivano con le figlie, e se il maiale non era diviso in due perfette metà dicevano “te l’evo ito me che l’ia mei quelo du Stagnedu!” I più abili nel miscelare spezie e carni andavano a macellare in giornata, ricevendo come ricompensa un po’ di carne del maiale stesso. Fra i più abili macellai di Stadomelli possiamo ricordare Prospero e Innocente. Scrivere del rito dell’uccisione del maiale, mi ha fatto tornare in mente un anno in cui Lino di Beverone era venuto ad aiutarci a macellare, perché mio padre era morto da poco. Il povero Lino in mezzo ai due ragazzi, mio fratello e mio cugino Stefano, spauriti e burloni, per rompere quel filo di doloroso imbarazzo, si prestò a scherzi e a burle per tutto il giorno, fingendo addirittura di credere che il maiale emanasse dei vapori tossici, facendosi fotografare con un telo sulla bocca per protezione durante la divisione delle “mezzene”.
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Febbraio “Pióva pióva, e gagine i fan gi’óva, ie fan en tó canà doman l’è carnevà”. (Piove, le galline fanno le uova, le fanno nel canale, domani è carnevale).
A febbraio normalmente si festeggiava il carnevale, “carnevà”. Gli uomini e i bimbi con qualche straccio e tanta fantasia si travestivano, e con bidoni e bastoni facevano il giro del paese bussando a tutte le porte, ricevendo in dono frutta, qualche dolce e uova. La giornata trascorreva in modo diverso, e la cosa bella era che, per un’intera giornata, i bimbi facevano “i fanti”, dispensati finalmente dalle incombenze che tutti i giorni dovevano svolgere. A volte il giro andava anche nei paesi vicini di Cavanella e Padivarma, terminando la sera, quando gli uomini si ritrovavano insieme in qualche cantina, a mangiare, bere, e fare il punto della giornata. Le donne cucinavano gli stracci o chiacchiere, e magari con un po’ di sacrificio, l’ultimo giorno di carnevale cucinavano i ravioli “tanti che i ghe se cróvan i teci”, che venivano cucinati il giovedì, la domenica e a volte anche il martedì. Dal mercoledì iniziava la quaresima, e il rigore gastronomico, che era in realtà una necessità, diventava un obbligo per tutti. Finivano le “feste” ed iniziava il periodo più mesto dell’anno. Oggi il giro del paese i bimbi mascherati lo fanno la notte di Hallowen, mentre per carnevale si ritrovano all’oratorio.
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Lorenzo Drovandi nell’aia del Forte.
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Marzo “Dio né guarda dau maìn de marzo, e daa tramontana de settembre”. (Dio ci guardi dal vento di mare di marzo, e dalla tramontana di settembre).
La Madonna dei canestrelli Il venerdì che precede la settimana di Pasqua ricorre la festa della Madonna Addolorata. La statua in chiesa è molto antica, è una Madonnina vestita di nero, e dal volto traspare proprio il dolore della mamma che vede il figlio morire. L’abito che la Madonna indossava fino al 2006 aveva più di duecento anni, così grazie alla buona volontà di nonna Rosanna (di origine siciliana ma stadomellese di adozione, avendo sposato un Evaristi, abita di là al canale) che ne ha cucito uno nuovo uguale a quello originale, abbiamo potuto riporlo in una sorta di vetrina, sigillata per preservarne l’integrità e goderne la vista. Tornando alla giornata della Madonna, è necessario dire che un tempo venivano a Stadomelli alcuni commercianti di nocciole e canestrelli di Pignone. Gli ultimi anni invece veniva Miglietto di Beverone che portava quelli di Brugnato.Tutti compravano il sacchetto di canestrelli, e in ogni casa non mancava la torta di riso o di verdura da offrire a quanti venivano alla Madonna. Molti mangiavano all’aperto e si fermavano anche per le funzioni pomeridiane. Si aprivano così le celebrazioni della Pasqua. La mattina del giovedì santo i bimbi dovevano legare le pian-
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Processione al Calvario..
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te da frutto, perché tenessero i frutti. Le palme benedette venivano messe su una vite all’inizio del vigneto, affinché tenessero lontana la grandine. Si legavano le campane, e la mattina presto si iniziavano le preghiere nell’oratorio. La sera veniva fatta una processione in cui, a turno, ogni anno, un uomo diverso indossava una cappa bianca, poi veniva incoronato con una corona di spine, e scalzo percorreva la strada dall’oratorio fino al Monte Calvario, portando sulle spalle una croce. Alcuni giovani fingevano di sbeffeggiare colui che interpretava Gesù. La strada veniva cosparsa di spine “bochi maìn” che pensiamo il povero protagonista facesse solo finta di calpestare. Infine arrivati al Monte Calvario, il punto più in alto del paese, vicino a dove sorge il cimitero, dopo una preghiera, facevano ritorno in chiesa. Al termine si “battevano i giudei”, che significa fare un gran frastuono per simulare l’uccisione di Gesù, e che consisteva nel preparare delle scatole di latta e dei contenitori rumorosi. Quando il parroco terminava le preghiere, tutti coloro che erano presenti iniziavano a battere forte i barattoli e i libri sulle panche. Il frastuono durava qualche minuto. Livio ha raccontato che quando lui era ancora ragazzino, una mattina prima che iniziassero a battere i giudei, fu mandato da Gino, Bruno e altri giovani a prendere un martello e due chiodi. Orgoglioso dell’incarico corse e portò quanto richiesto. Solo al termine del frastuono si rese conto di essere stato complice di un dispetto al povero Genio, un signore un po’ bisbetico, che quando fu il momento di alzarsi si ritrovò inchiodato per i pantaloni alla sedia. A questo punto della celebrazione, i fedeli tornavano in chiesa; il mio testimone ha detto “daa porta de gi’omi” (la porta degli uomini era più piccola rispetto al portone cen-
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trale), dove veniva fatto un sepolcro con i semi di grano germogliati al buio, esili filini di un colore giallo molto chiaro, e talvolta qualcuno (spesso si trattava di uomini) vestito da Madonna recitava delle preghiere di amore e dolore. La Renata Drovandi, una delle poche ultraottantenni di Stadomelli, ha ricordato l’anno in cui il Cristo fu impersonato da Genio, e la Madonna da suo padre Alessandro che, con un mantello, seminascosto dietro un pilastro, recitò una bella poesia a Gesù morto, imparata il giorno stesso, mentre era in giornata da Luigi “Daa Lama”. Il ricordo di queste celebrazioni ha rievocato la passione e l’orgoglio che le persone avevano per tutto ciò che era legato alla religione. Forse noi tutti dovremo arrivare alla riflessione che soltanto dedicando più tempo e più impegno per le cose immateriali, sarà possibile affrontare i problemi di tutti i giorni, scacciando quella che sembra essere il male del nostro tempo, la depressione. Dai racconti degli anziani è emersa chiara la fatica, l’asprezza dei rapporti e delle parole, ma nessuno mi ha mai parlato di gente depressa o in ansia per il timore di essere inadeguato. Ho quasi potuto sentire la forza delle risate di quei giovani che mai perdevano il gusto della burla e dello scherzo, e forse la famosa frase “l’andava mei quando l’andava pèzo” calza perfettamente con la realtà di oggi e di ieri.
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Aprile “Tiè come u farao de Pignon, na vota te manca u fero, na vota u carbòn”. (Sei come il fabbro di Pignone, una volta ti manca il ferro una volta il carbone) (per lavorare). Veniva usato per coloro che non avendo tanta predisposizione al lavoro inventavano delle scuse.
I campi da arare, le “disfide” e i “cocchetti”. Guardando mio padre zappare, per anni mi sono chiesta dove avesse imparato la cadenza regolare e apparentemente senza sforzo, con la quale la zappa entrava nella terra, la capovolgeva e ripartiva per un’altra zolla. A Stadomelli poche donne zappavano, mentre in molti paesi vicini spesso le donne vangavano con gli uomini. Il mese di aprile era il mese delle semine, e quindi gli uomini venivano presi “a giornata” a zappare gli orti, perché a Prado non si zappava con mezzi agricoli o con i buoi. I campi erano piccoli fazzoletti di terra, da conservare con parsimonia e coltivare con sapienza. Mi hanno raccontato che era in uso una pratica oggi impensabile “la disfida”, ossia gli zappatori in giornata si sfidavano in gare stremanti nelle quali vinceva chi zappava di più e più velocemente. Pensare con la moderna mentalità del lavoro facile e ben retribuito, a dei ragazzi spesso affamati, che lavoravano tutto il giorno la terra, e che trovavano l’entusiasmo per sfidarsi a chi lavorava di più, oggi può suscitare soltanto un sorriso pieno di tenerezza. Ai ragazzi in giornata veniva data la paga e da mangiare; di solito, alimento tipico della primavera, era il formaggio con i “sautaè”. Il buon formag-
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Lodovico Silla e Piero Drovandi in gita a La Spezia.
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gio molle e grasso tipico di questi mesi, veniva messo in contenitori particolari che favorivano la formazione dei preziosi “saltarelli”, che altro non erano che vermetti del formaggio, e che venivano spalmati e mangiati sul pane. I boschi si coloravano di giallo, gli “ursòn” e i “bochi maìn” allietavano lo stomaco dei conigli. Iniziava la primavera, e il periodo più duro dell’anno sembrava passato. I gelsi “muri” riprendevano a germogliare, e con l’arrivo delle loro foglie riprendeva un’attività che portava in molte famiglie nuove possibilità di guadagno: l’allevamento dei “cocchetti”. I cocchetti altro non erano che i bachi da seta. Si acquistavano i sacchettini di uova, e le donne le facevano schiudere “in sen”, ossia tenendole a contatto con il caldo del proprio corpo, poi si stendevano le larve su dei cannicci coperti di un letto di foglie di “muro”. Le larve dovevano essere nutrite con le foglie tutti i giorni, fino a quando si arrampicavano su dei rametti di erica “stipa”, disposte attorno ai cannicci, e lì sopra avveniva la loro metamorfosi: facevano il cocchetto, cioè si trasformavano in bozzolo. Poi venivano venduti a dei commercianti che si rifornivano dal Sarto di Padivarma. Successivamente il bozzolo veniva svolto e dava origine al filo di seta che poi veniva tessuto. Anselmo ha raccontato che ancora bambino aveva custodito le larve dei Beverinotti, poi aveva raccolto le foglie per dargli da mangiare, infine dopo averli venduti e ricevuto il compenso l’aveva nascosto nel solaio di casa... con un’amara sorpresa: quando andò a riprendere il piccolo tesoro si accorse che i topi avevano apprezzato, e rosicchiato i suoi guadagni. A raccogliere le foglie di gelso a Stadomelli per l’allevamento dei bachi da seta venivano anche dalla Lunigiana. A maggio i “muri” a forza di tagliare i loro rametti per utilizzarne le foglie erano spogli “g’ìan peà”!
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La pianta del maggio messa a Roberto Fabiani per la casa nuova.
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Maggio “Né per mazo né per mazòn ne state a levà u te pelizòn”. (A maggio non ti togliere la maglia) (di lana di pecora).
La vigilia del primo maggio, i ragazzi e gli uomini del paese avevano un appuntamento a cui non mancare. Si ritrovavano dopo cena e andavano nel bosco a tagliare un albero che generalmente era un pino molto alto. Più l’albero era alto più l’impresa era degna di merito, e sarebbe rimasta nel tempo e nella memoria della gente. Tutti insieme portavano quindi l’albero in spalla fino alla casa prescelta, dove l’albero veniva eretto. Questa operazione veniva svolta cercando di fare il minimo rumore possibile, soprattutto in paese, di modo che nessuno se ne accorgesse, ed il mattino seguente vi fosse vera sorpresa. Essere prescelti era considerato un onore, e questa scelta generalmente era diretta verso chi aveva qualche avvenimento da festeggiare, per esempio chi aveva ultimato dei lavori di ristrutturazione alla casa, oppure se era nato un figlio ad una coppia di novelli sposi. Il proprietario della casa, per ripagare questo onore, con l’arrivo della bella stagione, doveva offrire un pranzo a tutti coloro che avevano partecipato a mettere la pianta detta “il maggio”. La notte, dopo la grande fatica, per aver portato in spalla e alzato a braccia l’albero più alto delle case, si trascorreva in una cantina, dove gli uomini si ritempravano mangiando fave formaggio e salame, il tutto accompagnato naturalmente da un certo numero di bicchieri di vino. Gli uomini le donne e i bambini accompagnavano il rito del maggio cantando: “siam venuti a cantar
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maggio per la gola del formaggio, se formaggio non avete qualcos’altro ci darete”. Negli anni ’90 la tradizione sembrava quasi scomparsa, ma poi con una geniale novità è stata rispolverata, e oggi è di nuovo un motivo di vanto avere il maggio. Il pranzo non è più interamente a carico del proprietario della casa. Normalmente si acquista una porchetta, che viene pagata da tutto il paese, così la famiglia sopporta soltanto il costo rimanente e l’invasione dei paesani, ed è anche l’occasione per raccontare le varie imprese degli anni precedenti. Sembra impossibile pensare che in tempi in cui il cibo era prezioso e poco, si potesse celebrare una tradizione così festosa, ma va precisato che il pranzo di allora era per lo più cucinato dai proprietari della casa, con prodotti della terra, e la carne ne faceva parte in modo molto marginale. Tuttavia non mancavano le risate e l’allegria che da questa tradizione scaturiva per quel paio di giorni dell’anno, in quelle vite cotte dalla fatica del duro lavoro e con poco denaro. Per questo era, o forse è meglio dire che è, in quanto è stata rinnovata dalla nostra generazione, una tradizione molto importante.
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Giugno “San Giovanni l’è passà, e me maì a ne l’ho trovà”. La festa di san Giovanni è passata, e io marito non l’ho trovato.
Il 24 giugno si festeggia il Santo Patrono di Stadomelli, San Giovanni, unico santo del quale viene festeggiata la nascita, e commemorata la morte. Questo è un ulteriore legame che ci riporta all’altra frazione del comune, Beverone, dove appunto se ne commemora il martirio il 29 agosto. La vigilia di San Giovanni, il 23 giugno, con le lucciole a far da suggestivo contorno, gli abitanti preparavano il falò con erba secca, stoppie, foglie e rami di pino. Era una cosa ardua radunare materiali da bruciare, perché i boschi erano tenuti ben puliti, ma si cominciava già a marzo a radunare “e rame” i rami. Il cartone, la carta e altro, erano conservati nel “canto”, un angolo della casa dove si riponeva tutto ciò che poteva servire. La legna era preziosa, ma il falò era un rito talmente importante da poterne giustificarne il sacrificio. A Stadomelli venivano accesi tre fuochi: uno al “Monte Calvario” vicino al cimitero, uno alla “Carpeneda” vicino al Fornello, e uno al “Fregao” sopra il Manzile. Con il calare della sera i giovani e i bambini si radunavano attorno al fuoco e, con allegra baldanza, bruciavano quanto era stato raccolto. Il falò veniva fatto nelle varie frazioni, in una sorta di gara al falò più grande, che vedeva i vecchi scettici e sempre “superiori” dire: na vota l’ia n’atra cosa!
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Per San Giovanni la Italina de Beveón cuoceva due chili di riso, per fare la tradizionale torta, e impastava le sue famose tagliatelle, preparandosi così alla consueta giornata in cui, quanti venivano alla messa del Santo Patrono, passavano da casa sua per “na bocà de torta e’n goto de vin du Pizé du Prospeu”. Nel pomeriggio in piazza, con l’orchestra “giradischi” e il DJ in qualche modo si faceva musica, e si ballava. La gente veniva a piedi dai paesi vicini, e nascevano amori o conflitti che duravano a volte tutta la vita. Le ragazze cercavano di avere un abito nuovo, magari ricavato da una pezza vecchia, e andavano parecchi giorni in giornata, per chi sapeva cucire, pur di averlo pronto per la festa. I vecchi che percepivano e ricordavano tutto l’entusiasmo e l’ansia delle giovani ragazze, nei giorni seguenti la festa le sfottevano, facendole arrabbiare non poco, con il ritornello “San Giovanni l’è passà e me maì a né l’ho trovà”.
Anselmo Franceschi, Linda Paladini, Renato Drovandi, Daniela Pisarelli, Elide Orfeo, Paola e Orietta Franceschi, Patrizia Orlando, Alessio Donatella e Maria Drovandi.
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Luglio “Man morta man morta, a picca su’nta porte, a piccà en tu portùn, la da en sciaffo au so padrùn”.
Il ritorno degli emigrati. Il mese di luglio era il mese in cui, nei paesi della Val di Vara in generale, ma anche a Stadomelli, si sentiva parlare più inglese che dialetto. Normalmente gli emigrati che avevano lasciato il paese ad uno ad uno, facevano ritorno con al seguito mogli e figli inglesi. Ricordo ancora il giorno del matrimonio di Anselmo con la signora Eda “Heather”, al cui matrimonio parteciparono anche i parenti della sposa, tra i quali il fratello in completo abito scozzese. L’ilarità e la sorpresa nei bimbi si stemperava nei visi seri degli adulti, ma in tutti c’era una domanda “porterà le mutande?” Le famiglie più numerose agli inizi degli anni ’50 si svuotarono con la partenza dei giovani, uomini e donne, per l’Inghilterra, la Francia ed il Belgio, ma anche per Genova, Spezia e Milano. Ripensando a tutte le grandi famiglie di Stadomelli, non ne trovo neanche una, nella quale non partirono almeno due componenti per l’estero. Dei Franceschi, su nove figli cinque emigrarono in Gran Bretagna e due a Spezia, soltanto due restarono e si sposarono a Stadomelli: la Elide, mia madre, e l’Enea. I Drovandi del Forte erano due grandi famiglie che contavano venti figli, soltanto tre di loro restarono in paese: Renato, il papà di Alessio di cui abbiamo
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Il matrimonio di Heather e Anselmo Franceschi
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Dina Drovandi.
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Fedora Drovandi
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già raccontato, Lodovico e la Marina. Gli altri presero la via di Milano, Genova, Spezia e provincia, Inghilterra e persino Arabia Saudita. I Drovandi “di sotto” contavano dodici figli, si sparpagliarono in Inghilterra, Belgio e Portofino, restarono in paese solo tre di loro: mio padre Gino, la Tina e la Lucia. Stessa sorte toccò alle grandi famiglie “di la dal canale”, dove l’esodo verso la Scozia e varie città italiane lasciò alcune case completamente chiuse. La decisione di emigrare per molti era quasi obbligata, il miraggio di guadagni più facili, e con minor fatica fisica, trascinarono a catena la maggior parte di braccia del paese, lasciando chi restava in attesa di notizie, e speranza di un miglior futuro. Coloro che scelsero la Gran Bretagna finirono per lavorare in ristoranti di pesci e patate “fish and chips” o pizza, e grazie alla difficile vita alla quale erano abituati, accumulando la misera paga del venerdì, quasi tutti rilevarono i locali in cui avevano iniziato come friggitori. In Belgio il lavoro era in miniera. Iliano, un omone alto quasi due metri, raccontava di un inferno buio in cui, a parte scavare non restava che la voglia di riposare, appena terminato il proprio turno. Non c’era notte né giorno, sottoterra non c’è differenza. Nelle città italiane invece le donne finirono per lavorare come “donne” o meglio “bambine” di servizio, lavorando nelle famiglie benestanti come cameriere, oppure diventarono infermiere. Gli uomini lavorarono come operai ed anche giardinieri, alcuni presero la via dell’arma dei carabinieri ed in marina. Per tutti un unico obiettivo, migliorare le condizioni di vita, propria e della propria famiglia. Al dolore del distacco si sostituì, con l’arrivare dei primi guadagni che davano un po’ di sollievo e sicurezza a chi era rimasto, la nostalgia per un tempo che tutti avevano la certezza fosse finito per sempre.
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Le case si svuotarono, le strade, ma anche i boschi e i campi videro scemare forze lavoro. Pian piano le colture piÚ faticose vennero tralasciate. L’allevamento di mucche e pecore fu quasi abbandonato. Negli anni ’70 a Stadomelli non restavano che due mucche!
Livio Franceschi, Esterina e i due figli.
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Agosto “O baciccia daa radiccia te moge onde te l’ha missa? A l’ho missa en tu sacùn a cavà i zelizon”. Filastrocca cantata ai bimbi piccoli per distrarli e farli mangiare
Per noi di Stadomelli Ciocón era l’osteria, per quelli di Beverone e non solo, era un po’ come una stazione di rifornimento come nel Far West, e vi si poteva trovare anche alloggio per una notte. La domenica gli uomini si ritrovavano all’osteria da Ciocón, per una partita a tressette, tra smorfie e “zigni” che aumentando le ore e i bicchieri, molto spesso finiva a urla e bestemmie. I ragazzini si abbarbicavano al jukebox per ascoltare musica, e le donne sedevano sugli scalini davanti casa a chiacchierare. D’estate si andava tutti a piedi al fiume a fare il bagno. I cinque chilometri di strada che oggi sono un ostacolo, allora erano un simpatico momento per chiacchierare complici, del più e del meno. I ragazzi non perdevano l’occasione per sfidare il pericolo e conquistare le ragazze, con il tuffo dal ponte. Oggi l’acqua al Ramello è poca e inquinata, lo spazio di sabbia sotto il ponte è ormai dominio di numerose compagnie sudamericane, e purtroppo i ragazzi di oggi non possono conoscere questa esperienza, che rallegrava l’adolescenza di tutti noi delle generazioni precedenti. Altrettanto posso dire della “bottiglia”... un bel gioco che vedeva maschi e femmine, seduti a terra in cerchio a girare la bottiglia a turno, mettendo in palio baci, pugni o scherzetti vari. Il pegno lo pagava chi era indicato dal collo
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Orlando Drovandi, Orietta Elide Orfeo e Paola Franceschi, Luciano Nobili, Esterina Drovandi, Daniela Pisarelli, ai 29 a Beverone.
Ciocòn nella sua osteria, con Piero e la Iolanda Drovandi.
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della bottiglia. Tante ragazze lì hanno riposto le loro prime speranze amorose in una “puntata” alla bottiglia. Oggi nelle generazioni degli SMS sarebbe impensabile un gioco del genere. Quando poi l’estate volgeva al termine arrivava il 29 agosto, e si andava tutti a Beverone, naturalmente a piedi e con il pranzo al sacco. D’estate... le cicale ed il cuculo facevano da sottofondo a ogni cosa, creando un’atmosfera ancora più calda di quella reale. Tante volte mi sono chiesta dove siano andate a finire tutte quelle cicale, e da anni non sento più il cuculo cantare. Il loro frinire ora si limita a pochi giorni estivi, e non ha niente a che fare con l’assordante rumore di quando eravamo bambini. La risposta forse è che le cicale, le lucciole di San Giovanni, i grilli delle notti estive e il cuculo, si sono stufati di far presenza laddove ormai nessuno ha più il tempo per fermarsi attonito a guardare ed ascoltare le meraviglie della natura, e si siano trovati un altro pianeta dove esibirsi.
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La processione con la banda.
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Settembre “Spusa settembrina orba veduva o meschina”. (La sposa di settembre era sfortunata cieca vedova o povera).
La Madonna Pellegrina Proponiamo una memoria lasciata da don Emilio Drovandi, parroco di Beverone e nativo di Stadomelli, del 23 luglio 1949:
Proveniente da Cavanella, alle “quattro strade” di Stadomelli, la sera del 22 luglio 1949, con tutto il popolo di Cavanella, Stadomelli e Beverone ivi convocati, sotto un arco di verde, sfolgorante di lampadine elettriche, fu posta la statua della Beata Vergine Maria, fra gli inni osannanti di tutta la moltitudine, fra spari di mortaretti e petardi. Parlò il parroco don Vannini a nome di Cavanella, poi il canonico Beverinotti e il parroco di Barbarasco “accompagnatore”, e infine il sottoscritto, prendendo in consegna la sacra immagine. Sottoscritti i verbali prescritti, la Madonna iniziava la salita del monte, accompagnata ancora da quasi tutta la gioventù di Stadomelli, e si giunse in chiesa verso le undici di sera. Padre Gabriele di Brugnato, dopo tre giorni di predicazione, preparò il popolo ai SS. Sacramenti, e l’accompagnatore don Argenti Francesco di S. Maria di Calice, tenne le prediche di occasione, in attesa della SS. Messa di mezzanotte. Fu uno spettacolo veramente grandioso di fede, tutti si accostarono ai SS. Sacramenti, meno due o tre uomini,
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con tantissimi altri di Stadomelli. La sera del 23 luglio la Madonna partì per Garbugliaga, accompagnata da tutto il popolo beveronese, non solo al confine ma alla chiesa, ove nuovamente tutti i gruppi a gara resero onore con canti e inni alla Madonna Pellegrina, che ritornava alla sua casa di partenza di Aulla. 23 luglio 1949
don Emilio Drovandi
È da notare l’importanza che venne data all’evento: “tre giorni di predicazione” di padre Gabriele, come preparazione all’arrivo della Madonna Pellegrina. Lo spostamento della Madonna Pellegrina iniziava a sera inoltrata per terminare in piena notte. Anche chi non ricorda o non ha mai visto quelle vecchie strade che si percorrevano a piedi, può immaginarsi lo spettacolo di tutta quella gente che accompagna-
La cappelletta delle quattro strade.
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va la Madonna Pellegrina, in cui nessuno si risparmiava, anzi facevano quasi a gara, per portare la statua gli uomini, e per cantare le donne. Pur se in questo ricordo non è espressamente scritto, si intuisce che nel 1949 la Madonna Pellegrina a Stadomelli vi transitò senza fermarsi. Difatti il popolo di Stadomelli si unì a quello di Beverone sia nella salita verso il monte, sia durante la messa di mezzanotte. Ad incontrare la Madonna, offrendo un mazzo di fiori, l’unica bimba che aveva un abito bianco a disposizione, la Dina di Merini. Nel ricordo, il luogo convenuto in cui la statua della Madonna Pellegrina venne data in consegna alla parrocchia di Garbugliaga, descritto semplicemente “al confine”, era “dalla Madonnina”.Tornò a Beverone il 30 agosto 1966, proveniente da Veppo e diretta a Suvero, poi di nuovo il 26 agosto 1999, proveniente da Garbugliaga e diretta ancora a Suvero. In queste due ultime occasioni non era più portata a spalla, ma con un camioncino preparato adeguatamente. Anche se i tempi cambiano, l’arrivo della Madonna Pellegrina è molto sentito ovunque, ed ogni paese, in base anche alle proprie possibilità, le ha sempre tributato una grande accoglienza. Oggi alle “quattro strade” sorge una piccola cappella, costruita dagli abitanti del paese con sassi, e la sabbia del fiume “du giau”. Si dice che il luogo dove costruire la chiesetta è stato scelto perché un certo “Dario”, conosciuto come un uomo senza fede, scettico e bestemmiatore, un giorno passando proprio alle quattro strade, ebbe una visione della Madonna Pellegrina. Erano trascorsi pochi anni dal passaggio sopra descritto della Madonna Pellegrina da Stadomelli, per cui parliamo degli anni cinquanta del secolo scorso. Da allora, la terza domenica di settembre si festeggia la Madonna
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Pellegrina proprio la dove l’uomo raccontò di averla vista. Alcuni anni fa Domenico Paladini, in ansia per la sorte della figlia gravemente ammalata, fece un voto: se la figlia fosse guarita, lui avrebbe pagato una banda musicale per la festa della Madonna. “Meneghin” era un uomo anziano dalla fibra forte, che viveva del suo lavoro. Aveva tirato su i suoi figli andando in giornata, e così fece fino a quando, troppo anziano, dovette arrendersi. Burlone e allegro, con il fisico asciutto e la battuta sempre pronta, fece della fede nella Madonna la sua forza, (partecipò anche alla corsa dal Monte Nero a Beverone, sempre in occasione dei ’29 quando l’età si avvicinava agli 80 anni). Ma tornando alla festa della Pellegrina, anche quell’anno la Madonna non mancò di accontentare quest’uomo semplice, che dedicando i soldi sudati duramente alla Madonna voleva aiutare la figlia, che infatti guarì. Da allora la terza domenica di settembre la processione della Madonna è accompagnata dalla banda musicale, e non c’è anno che io non ricordi le lacrime di Meneghin, l’uomo della prima festa, con la banda pagata da lui.
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Ottobre “A castagna la g’à a cóa, chi u’a trova l’è a sóa”. (La castagna ha la coda, chi la trova è sua). Ottobre era senza dubbio uno dei mesi più faticosi per la campagna. Con il freddo alle porte occorreva sistemare la legna, raccogliere le castagne, sistemare gli ultimi prodotti dell’orto, le botti, la cantina, e si riponeva la frutta secca e gli altri ortaggi che servivano ai maiali da allevare. Tutto il lavoro del mese di ottobre era di preparazione ai duri mesi invernali, e proprio come le formiche delle favole, gli abitanti di Stadomelli si davano un gran daffare per affrontare il freddo. Le castagne e i funghi che nascevano in questa stagione consentivano di raggranellare un bel gruzzoletto. Le donne la sera preparavano i cesti con le castagne e i funghi, e la mattina presto se li caricavano in testa e andavano a piedi fino all’Aurelia, poi con la corriera portavano la mercanzia in piazza. Una mattina mentre due giovani portavano un carico di legna all’Aurelia, videro un uomo che, fermo ad aspettare la corriera, si portava la mano in testa, cercando gli “inquilini” che in quel tempo abitavano sulle teste di tutti. Incuriositi si avvicinarono e videro l’uomo che togliendosi i pidocchi dalla testa li appoggiava su un sasso e diceva “quel Dio che ti ha fatto di disferà, io non ti ammazzo pidocchietto”. La raccolta delle castagne era destinata alla vendita in piazza e alla ”grade”, ossia all’essiccatura per la successiva trasformazione in farina. Per capire quanto era importante la farina di castagne per l’alimentazione del tempo, basta vede-
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Angiòla Enrici e Adriano Vetrale con due bei funghi.
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re l’avversione verso tutti i prodotti che si realizzano con essa, e in particolare verso la “pattona” che ancora oggi, nei vecchi, si percepisce con forza: “Ne ho mangiata fin troppa” diceva mia nonna! Arriviamo così al 31 ottobre. Oggi quando sentiamo parlare di Hallowen pensiamo ad una festa con origini americane, in realtà la ricorrenza dei “Santi” nelle nostre campagne era sentita già da molti secoli, che diventano poi millenni riandando alle sue origini celtiche. La notte del 31 ottobre si racconta che gli spiriti dei morti uscissero dalle tombe e andassero in giro a fare le “Menade”, ossia lunghe processioni nella notte. Per questo si mettevano sui davanzali dei lumini accesi dentro le zucche, preparate appositamente per questa occasione: erano svuotate della parte interna, poi se ne intagliava la scorza in modo da ottenere la sembianza desi-
Halloween: Edoardo ed Enrica di Giglio, Silvia e Federico Pavan, Leonardo Lorenzini, Sandra Grilli, Nicolò Drovandi, Tomas Evaristi, Alice Mozzini, in giro per la notte.
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derata, (ciò che oggi si risolve comprandolo direttamente al supermercato, in plastica), ed infine si metteva al loro interno una candela accesa, la cui luce filtrava attraversi i vari fori, facendo assumere alla zucca, vista da lontano, un aspetto inquietante che però faceva strada agli spettri. Una donna incontrando la processione degli spiriti, mentre accendeva il forno per cuocere il pane, chiese al primo spirito della fila, il capo, se gli prestava il lumino che usava da luce. Questi glielo diede, ma la donna si accorse subito che era in realtà un dito acceso, così lo gettò nel fuoco inorridita. La precessione ripartì perché la notte volgeva al termine, con brontolare e urlare del povero spettro rimasto senza luce. La sera dopo la donna stava andando a casa con il gatto in grembo, quando lo spirito le si parò innanzi minaccioso. La donna, per difendersi, gli tirò contro il gatto, e lo spirito ritraendosi le disse “Te pó ringrazià u gato Maimón, se no a te favo vède chi a són”, puoi ringraziare il gatto Maimón, altrimenti ti farei vedere chi sono, e scappò nella notte. Per anni questa storia ci è stata raccontata per non farci uscire di sera.
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Novembre “Se fave e pesèle te vó mangià, e campane di morti te devi faghe sentì sonà”. (Se vuoi mangiare le fave e i piselli, devi seminarli prima dei morti).
Arrivati a novembre, le giornate che diventavano sempre più corte, ed il tempo ormai quasi invernale, portavano ad occuparsi anche di quei lavori al coperto un po’ tralasciati nella bella stagione, ma comunque necessari. Il freddo e il buio, oltre che anticipare l’ora della cena, favorivano le veglie davanti al fuoco dei “Fusigiai”, e qui i più giovani si raccoglievano accanto agli anziani che, come recitando un copione già scritto da generazioni, li intrattenevano con racconti fantastici e di paura. Uno dei racconti più frequenti era quello di “Ca de Bóffa”: Scendendo dalla frazione del Fornello verso il Manzile, sull’ultima curva si incontra una grande casa a due piani di pietra, qui un tempo la vecchia strada si tuffava attraverso i campi e scendeva a capofitto, così chi saliva si trovava in posizione di inferiorità rispetto alla soglia della vecchia casa abbandonata. Il tempo e l’incuria avevano fatto cadere prima il tetto, e poi varie parti della casa che, con le grandi finestre vuote, nelle notti sembrava un mostro dagli occhi illuminati dalla luce lunare, e la porta sulla strada suscitava spesso pensieri poco allegri. Certo è che in molte persone si era radicata la certezza che il vecchio rudere fosse abitato dagli spiriti. Più il tempo passava e più la gente arricchiva i racconti
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Cà de Bóffa.
sui fantasmi di “Cà de Bóffa”. “Ti ho detto che ho sentito soffiare!” dicevano i ragazzi, “soffiare e buffare”, “io ho sentito anche un lamento”. Pochi si attardavano se sapevano che dovevano passare da lì, e mai da soli. Una sera però, mentre Innocente rientrava a casa dai suoi nove figli, passò davanti alla casa. Trattenne il fiato... la suggestione aveva la meglio su chiunque... e poi... percepì il soffio. Si fece coraggio, varcò la soglia del rudere. La luna illuminava l’interno della casa, e nel bianco delle mura di pietra gli si svelò il “terribile” mistero... lo spettro sentito da tutti, altri non era che un grosso caprone bianco che, per intimorire chi pensava potesse minacciare il suo riparo, gli “smeccava” per farlo andare via. Con una bella risata liberatoria l’uomo riprese la via di casa, e raccontò a tutti l’incredibile verità. Oggi Cà de Bóffa è stata ristrutturata ed è diventata un agriturismo, ma prima che iniziassero i lavori, quando ormai i rovi avevano quasi coper-
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to i muri, manteneva ancora il suo carico di suggestioni, nonostante l’arcano fosse stato svelato da tanto tempo. Per tornare al mese di novembre, le donne iniziavano a raccogliere le poche risorse per cercare di allietare le prossime festività con qualche genere di prima necessità, con qualche dolcetto, per rendere “speciale” il Natale, che comunque era ancora una festa specialmente religiosa.
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Le recite dei bimbi: Francesco Sara e Sabrina Beverinotti, Tomas Evaristi, Alessandro Fausti, Nicolò Drovandi, Leonardo Lorenzini, Alice Mozzini, Francesca Rosi.
I bimbi con don Eugenio sono: Francesco, Sara e Sabrina Beverinotti, Tomas Evaristi, Nicolò Drovandi, Leonardo Lorenzini, Martina Moscatelli, Federico Pavan, Alice Mozzini.
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Dicembre “Natale au barcón Pasqua au tizón”. Se Natale si è sul balcone, a Pasqua si starà al camino.
Il Natale. L’anno stava volgendo al termine, e si arrivava così al giorno di Natale, una giornata tutta dedicata alla spiritualità. La vigilia, al suono dell’Ave Maria, era antica usanza buttare nelle stufe o nei camini dei rametti di arbusti aromatici, mortella, rosmarino e alloro. Usciva dai camini un fumo bianco e profumato, ed era in onore di Gesù Bambino che di lì a poco sarebbe nato, a mezzanotte. La cena, come prevedeva la tradizione, era composta da stoccafisso e cavoli. Quella sera le donne non lavoravano la calza per timore di pungere il Bambino, e neppure le stalle venivano pulite perché si diceva che i vitellini e gli agnellini sarebbero nati “stroppi” cioè storpi. Dopo cena, a piedi, tutti andavano a messa e si riempivano gli occhi con il bel presepe allestito in chiesa. Nelle case un ginepro diventava l’albero di Natale, addobbato con caramelle, pasta, cartoline, nastri e tutte le poche cose che le famiglie iniziavano a conservare già dalla festa dei Santi. Poi, l’anno giunto veramente al termine, si concludeva in chiesa, dove alla mezzanotte del 31 dicembre veniva celebrata l’ultima messa dell’anno, la messa del ringraziamento. Dopo gli uomini si attardavano nelle cantine fino alla mattina seguente.
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Il presepe ecologico premiato dalla Curia.
Venendo ai nostri tempi possiamo dire che ancora oggi, grazie ai tanti bimbi nati dal 1993 in poi, la notte di Natale a Stadomelli è veramente una notte speciale. Tutto inizia ai primi giorni di novembre, quando si decide il programma delle feste e i lavori da fare, fortunatamente con la partecipazione di un po’ tutti i paesani. Iniziano le prove della recita dei balli e dei canti dei bimbi. Le mamme cuciono i vestiti. Con l’aiuto di qualche anziano iniziamo a verificare l’ormai tradizionale presepe ecologico, dove i personaggi sono costruiti con bottiglie di plastica rivestite con materiale di scarto, sostituendo i personaggi danneggiati e creandone di nuovi. Nel 2007 il nostro presepe ha ricevuto il 3° premio della curia, ed è stato per tutto il paese molto emozionante. A ricevere il premio dal Vescovo per tutti “nonno Luciano Nobili” con gli occhi lucidi. Al termine dei preparativi i nonni con i papà preparano l’albero e le luminarie, quindi si arriva alla vigilia. Alle 21,30 iniziano i bimbi che preparano sempre
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Babbo Natale, Benedetta e Nicolò Drovandi, Giulio Lorenzini, Gabriele Beverinotti, Roberto Fabiani
delle belle recite e dei magici balli, quindi si fa qualcosa di carino per i grandi, una sorpresa, uno scherzo, una rievocazione. Alcuni anziani con donne e ragazzi, grazie anche all’aiuto generoso di Paolo Brunetti con la chitarra, da diversi anni allietano la serata con il coro “Le voci di Prado”. Poi inizia la S. Messa, ed è sempre bello vedere i nostri 15/16 chierichetti che circondano don Calzetta, che correndo da una chiesa all’altra per tutta la prima parte di nottata, arriva trafelato, e tutti gli anni dice “ma come, è già finita, anche quest’anno non l’ho vista!” Poi tutti assieme ci raduniamo all’oratorio, dove è pronto il punch e il vin brulé, arriva Babbo Natale, e tutti ci stringiamo nell’oratorio dove si brinda e si aprono i doni di babbo natale. Sì, a Stadomelli possiamo dire di avere veramente una notte di Natale lontana dal frastuono del traffico, dalla corsa allo shopping, dai problemi legati al denaro a alla vita di tutti i giorni, un Natale d’altri tempi.
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E per finire...
Eccoci qua, il libretto sembra terminato. Per alcuni mesi ho ritagliato ogni minuto di tempo libero per ascoltare un ricordo, per fissare un proverbio, per cercare di scrivere in modo comprensibile un modo di dire in dialetto, il susseguirsi delle varie fasi di un lavoro. Forse all’inizio non lo pensavo, ma questo impegno mi mancherà. Questo cercare e rovistare nei ricordi dei propri paesani, nei propri ricordi che pian piano riemergono. Il semplice fatto di scriverli, che aiuta enormemente a rivivere o ad immaginare di vivere certe situazioni o avvenimenti, a volte provoca una grande gioia, a volte strizza il cuore come se si stringesse fra le mani, quasi a provocare una sofferenza; forse non siamo fatti solo per il presente, o per pensare solo al futuro, siamo anche parte del nostro passato. Non solo di un passato prossimo, ma anche di quello che non abbiamo conosciuto di persona, che è la nostra storia. E’ bello prendersi il compito di scrivere la propria storia, perché la grande storia, quella dei grandi avvenimenti e delle grandi città è già pronta in tanti libri, la nostra piccola e pure importante storia, se nessuno la scrive, si perderà con noi. So già che domani mi troverò un altro impegno, ma mi sono proprio divertita a scrivere quello che avete letto. Mi è piaciuto vedere lo sguardo che nel vuoto cercava di riportare la mente di chi mi raccontava ai tempi passati, è stato bello parlare insieme con Sergio, Ottavio, la Donatella, Livio, Anselmo, la Renata, Silla e quanti mi hanno raccontato un
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aneddoto, portato una foto, scritto un pensiero... e tanto è il rimpianto per coloro che avrebbero potuto aiutarmi e non ci sono più. Spero mi perdoneranno ovunque essi siano, per aver parlato di loro a volte in modo irriverente ma credo, e questo è il caso di mia nonna Italina, che l’amore che ho per lei mi desse il diritto di prenderla in giro per il suo caratteraccio, e magari senza farlo vedere ne avrebbe riso anche lei. Le cose da scrivere sarebbero ancora tante, e tanti sarebbero i ricordi da fissare, ma per ora credo che questo possa bastare. Così come avevo iniziato termino, ossia lanciando il testimone in aria, o meglio la penna, sperando che qualcuno la raccolga e continui laddove io mi sono fermata... ... ma non senza precisare che “quei de Prado” non sono una razza in via di estinzione, per cui concludo questo libretto con una bella foto di coloro che di Prado saranno il domani!!!
Sebastiano e Leonardo Lorenzini, Francesco Sara e Sabrina Beverinotti, Tomas e Mattia Evaristi, Alessandro Fausti, Nicolò e Benedetta Drovandi, Alice e Giulia Mozzini, Manuel Fabiani, Federico Pavan.
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Album fotografico
Zio Pierino.
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Alessio con mamma Maria e papĂ Renato.
Giornata di festa in casa della Maria e Renato Drovandi, con i figli Alessio e Gianni e l’amica Mirella.
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Simone Enrici con sua figlia Angiòla
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La mostra fotografica al Fornello, una delle iniziative della festa di agosto.
Il restauro della cappelletta della Madonna Pellegrina.
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Lina, Mea, Meri e Vera sul terrazzo dei Quaradeghini.
Il matrimonio del bimbo dispettoso Stefano Pisarelli.
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Gianni e Alessio giocano nella neve.
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Diego e Gianni Drovandi, Sauro Enrici: i ragazzi di ieri l’altro.
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Una delle bellezze locali: Cinzia Pisarelli.
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Maria e Davide Beverinotti con la perpetua di Stadomelli.
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Bruno Pisarelli con la figlia Daniela.
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La famiglia Merini e la Dora Bilotti.
La famiglia Franceschi con nipoti e pronipoti.
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Stefano Pisarelli oggi.
Il ponte del Ramello.
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Uno dei primi emigranti della zona, Giovanni Quaradeghini, “u barbòn”.
Le prime famiglie di emigranti: inizi del ’900.
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Le prime famiglie di emigranti: inizi del ’900.
Le prime famiglie di emigranti: inizi del ’900.
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Omaggio a don Eugenio Calzetta
Leggendo il mio “libro” si trovano spesso racconti tramandati dai parroci o comunque di eventi legati ad essi e dagli stessi organizzati, purtroppo in questi ultimi anni anche nei paesi non ci si rende più conto dell’importanza che il parroco ha avuto nei secoli e che ha ancora oggi. Ma più che complicate riflessioni vorrei riportare un semplice ringraziamento fatto con la freschezza e la semplicità che soltanto i bimbi riescono ad avere, ma tuttavia credo esprima il sentimento che accomuna un pò tutti i bimbi di Stadomelli, anche quelli più birichini; non so se è dovuto al fatto che Don Calzetta ha la capacità di infondere rispetto in chi lo conosce, o perchè i bimbi con l’intuito integro dell’età ne percepiscono la statura morale. Il 22 giugno 2008 è stato un giorno importante per quattro bimbi di Stadomelli, il giorno della loro prima Comunione. Una bimba ha scritto un bel pensierino per don Calzetta, riconoscente dei pomeriggi dedicati dal parroco ad insegnare il catechismo. Dovrebbe far bene anche a noi grandi leggere queste parole. Potremo provare a sforzarci di capire, aiutare ed essere più vicini ai nostri parroci o diaconi, visto che anche i parroci come i buoni sentimenti stanno diventando rari e sempre più preziosi.
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Caro don Calzetta, ti ringrazio per tutto il tempo che ci hai dedicato in questi tre anni, per tutto quello che ci hai insegnato e la pazienza che hai avuto quando per distrazione non ti ascoltavo. Cercherò negli anni futuri di mettere in opera gli insegnamenti di Gesù, ubbidire ai miei genitori e aiutare sempre chi avrà bisogno, come tu mi hai sempre spiegato. Ti ricorderò sempre con affetto.
Don Calzetta con il diacono Mauro e i bimbi: Sara, Sabrina e Francesco Beverinotti; Maurizio, Nicolò Drovandi, Tomas Evaristi, Federico Pavan, Alice Mozzini e Leonardo Lorenzini.
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Un matrimonio del 23 aprile 1962. Gli sposi arrivano con gli invitati a piedi, dal Fornello alla Chiesa (la strada non c’era ancora), salendo nei viottoli fra i campi e i boschi, per circa un chilometro. Finalmente sposi, partiranno a piedi per il bosco, salutati dagli amici, per la luna di miele.
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INDICE Introduzione ........................................................................ Pag. Dove siamo .......................................................................... Pag. Prospero e Italina ................................................................ Alessio ................................................................................. La chiesa ............................................................................. Piccole note storiche ........................................................... La bottega ........................................................................... La strada ............................................................................. La scuoletta ......................................................................... L’acqua ................................................................................ I segantìn ............................................................................ Le cave ................................................................................ Il gigante è caduto .............................................................. I carbonìn ........................................................................... La pubblicità ....................................................................... La barzelletta ....................................................................... Gennaio .............................................................................. Febbraio .............................................................................. Marzo ................................................................................. Aprile .................................................................................. Maggio ............................................................................... Giugno ............................................................................... Luglio ................................................................................. Agosto ................................................................................ Settembre ............................................................................ Ottobre ............................................................................... Novembre ........................................................................... Dicembre ............................................................................
Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag.
7 9 15 17 19 23 29 31 35 39 43 45 47 49 57 59 61 63 65 69 73 75 77 83 87 91 95 99
E per finire ........................................................................... Pag.103 Album fotografico ................................................................. Pag.105 Omaggio a don Eugenio Calzetta ......................................... Pag.120
CORNIGLIA Collana di narrativa 1 - Raffaele Conti: A piccoli passi (racconti), 1995, 2 - Pietro Duranti: Le due paure (romanzo), 1996 3 - Mario Manzo: L’ondivago immemore (romanzo), 1997 4 - Clara D’Oggiono: La novia (romanzo), 1999 5 - Pietro Duranti: La famiglia dei Donpietri (romanzo), 2000 6 - Gabriele Falco: Storie vestine (racconti), 2000 7 - Clara D’Oggiono: La viaggiatrice (romanzo), 2001 8 - Pietro Duranti: Il vento del Sud (romanzo), 2001 9 - Valeria Buffoni: La raccomandazione (racconto), 2001 10 - Bruno Della Rosa: Strane storie spezzine (racconti), 2001 11 - Michelangelo Merisi: Alla luce dei fatti (romanzo), 2001 12 - Ilio (Ilvo) Battistini: Ricordi di un alpino (racconto), 2001 13 - Pietro Duranti: Un fratello (romanzo), 2001 14 - Fabio Mignani: Le mille lire raccontano, 2002 15 - Bianca Orlandi: Ombre e luci (racconto), 2003 16 - Gabriele Falco: La licenza (romanzo), 2003 17 - Fulvio Andreoni: Il caso Serviatti (racconto), 2003 18 - Idelmo Loffredo: Pagine di diario (racconti), 2003 19 - Elvio Ugolini: Brutta storia la guerra (racconto), 2004 20 - Orazio Bellè: L’ombra del gabbiano sul pontile (racconti), 2005 21 - Adriana Desiderio: Racconti del giorno e della sera, 2006 22 - Carla Oggioni: La svedese (romanzo), 2007 23 - Adriana Desiderio: I sentieri del tempo (racconti), 2007 24 - Fulvio Andreoni: Un amore in fondo al mare (racconto), 2007 25 - Piera Grassi: Racconti di Natale (racconti), 2007 26 - Andrea Derchi: Racconti di fine Millennio (racconti), 2007 27 - Salvatore A. Zagone: Il buco nell’acqua (novelle), 2008 28 - Laire Taverna: Memorie di un palombaro (racconti), 2008 29 - Clara D’Oggiono: Allaricercadel partigiano perduto (racconti), 2008 30 - Oriana Drovandi: Scozzacampane de Stadomè, ovvero... quei de Prado (racconti), 2008
Stampato da GD - Baudone - grafiche digitali Sarzana - La Spezia Anno 2014