N°40 LUGLIO-AGOSTO 2020
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periodico bimestrale d’Arte e Cultura
www. f a c e b o o k . c o m / R i v i s t a 2 0
ARTE E CULTURA NELLE 20 REGIONI ITALIANE
ENRICO MEO
Edito dal Centro Culturale ARIELE
ENZO BRISCESE
BIMESTRALE DI INFORMAZIONE CULTURALE
del Centro Culturale Ariele
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Hanno collaborato: Giovanna Alberta Arancio Monia Frulla Tommaso Evangelista Lodovico Gierut Franco Margari Irene Ramponi Letizia Caiazzo Graziella Valeria Rota Alessandra Primicerio Virginia Magoga Enzo Briscese Susanna Susy Tartari Cinzia Memola Concetta Leto Claudio Giulianelli www. f a c e b o o k . c o m/ Rivi s t a 2 0
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Paesaggio torinese - omaggio a Casorati - 2011
Rivista20 del Centro Culturale Ariele Presidente: Enzo Briscese Vicepresidente: Giovanna Alberta Arancio orario ufficio: dalle 10 alle 12 da lunedĂŹ al venerdĂŹ tel. 347.99 39 710 mail galleriariele@gmail.com -----------------------------------------------------
Mass-media -2009 - t.m. su tela - cm 60x70
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In copertina: Enrico Meo
ENRICO MEO Nasce a Grottaglie (Ta) il 20 aprile 1943. Vive a Reggio Calabria, dove si è trasferito terminata la carriera di docente di Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico di Cosenza. Ricerca, sperimenta e realizza i suoi lavori nello studio privato a Gallico Marina (RC). Ha studiato all’ISDA di Grottaglie, dove contemporaneamente ha arricchito la sua formazione frequentando sin da ragazzo le Botteghe D’arte Ceramica. Ha seguito i corsi di Incisione a Urbino, di Arte Contemporanea ad Anacapri con il Maestro Joe Tilson e il Corso di Arte Concettuale alla Sommerakademie di Salisburgo sotto la guida del Maestro Roman Opalka. Artista impegnato nel sociale ha collaborato con vari Enti e Comuni alla realizzazione di Monumenti, Murales, In-
stallazioni e Performance. Dal 1965 espone in Italia e all’estero, partecipa a rassegne come Artissima a Torino, Miart a Milano, Expo a Bari; realizza e prende parte a Eventi d’Arte organizzati da vari Enti del territorio nazionale; crea illustrazioni grafiche collaborando con l’editoria; scrive poesie e pubblica articoli sui quotidiani regionali. Di lui Roberta Filardi dice: …“Meo ci conduce all’interno di un universo misterioso, enigmatico, dove una moltitudine di figure, uomini, donne, angeli, demoni, ominidi, come la serie degli acefali, si muovono solitarie o dialogano all’interno di scenari naturali estremi, quasi primitivi, o in ambienti metafisici sinteticamente evocati, che sembrano affiorare alla memoria da una dimensione interiore.”
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Artista versatile e meditativo, Enrico Meo può davvero definirsi un maestro completo, esperto in varie tecniche artigiane e in espressioni pittoriche che affondano le radici, in primis, nella sua formazione di bottega e poi in esperienze creative aggiornate ai linguaggi del concettuale. La sua arte spazia in vasti repertori figurativi rivelatori di una poetica tesa alla speculazione e alla ricerca mistica sui temi esistenziali dell’uomo, rivelati attraverso immagini o forme archetipe e composizioni di sapore surrealista. Meo ci conduce quindi all’interno di un universo misterioso, enigmatico, dove una moltitudine di figure, uomini, donne, angeli, demoni, ominidi, come la serie degli acefali, si muovono solitarie o dialogano all’interno di scenari naturali estremi, quasi primitivi, o in ambienti metafisici
sinteticamente evocati, che sembrano affiorare alla memoria da una dimensione interiore. Tutto nella sua pittura si rivela attraverso un repertorio iconografico polisemantico, simbolico, al quale non è estranea la profonda conoscenza della figurazione bizantina, sia nella qualità del colore sia nella stesura per campiture, sia nelle immagini, declinate secondo tipologie “ortodosse“, come la serie dei ritratti-icone, o nelle geometrie compositive con l’impiego del ribaltamento dei piani o nell’alterazione delle proporzioni. Le opere in mostra appartengono a varie fasi della produzione di Meo, ma in tutte si riconosce una costante poetica/ espressiva, una tensione spirituale tesa alla ricerca dell’origine, al mistero dell’esistenza, al desiderio di allontanarsi dalla pesantezza o ottusità del quotidiano, alla volontà catartica e rigeneratrice di superare la frammentarietà e superficialità nella quale l’umanità spesso si adagia. Alcune tele rivelano già nel titolo tutta l’indagine del maestro, come il dipinto ἀυτό εἴναι ὀ ἄνθρωπος, o ecce homo, opera inedita concepita all’interno di un ciclo pittorico sul tema
“Che cos’è l’uomo”. Un volto umano, indefinito nella sua restituzione grafico-pittorica, contiene quello definito di Cristo che qui non riveste il significato confessionale del dio cristiano, ma è simbolo del divino/umano o essenza interiore spirituale dell’uomo. La sua posizione fissata nel punto percettivo/compositivo della tela coincide con il centro della croce, simbolo arcano, che sintetizza la vita nell’ortogonalità degli assi, verticale e orizzontale, coordinate spaziali e segni lineari opposti che si equilibrano in uno spazio infinito, un colore-spazio che esprime un forte simbolismo mistico, simile a quello delle pale medievali.
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L’umanità, quindi, nella sua essenza di materia–spirito, e nel suo libero determinismo tra bene- male è l’elemento distintivo dell’immaginario di Meo che si dipana anche nella serie de “Gli Angeli” o nei ritratti, “I Tipi”, o “Protesi”, come in altre composizioni. L’angelo in opposizione al “demone” appare come una sorta di alter ego, una proiezione di sé, una guida interiore che interpella la coscienza e la libertà di scelta dell’uomo. La sua immagine è presenza costante, muta e imponente, sulla quale si proiettano le ombre o i pensieri dell’artista, come nell’opera “L’Altro”; «Il messaggio racchiuso nella figura alata richiama gli artisti alla funzione di educare a vedere oltre la superficie, a suscitare percezioni non puramente sensoriali ma profonde, capaci di portare nuovo humus sul terreno dei valori e della scoperta» Nei ritratti, icone moderne della contemporaneità, misurate sui caratteri greco-bizantini della frontalità e fissità, si concentra l’indagine critica dell’artista che sembra invitarci a una riflessione sulla condizione esistenziale dell’uomo. A volte lo sguardo del maestro ironizza sul tema, ser-
vendosi d’immagini combinate sui paradossi o sul gioco di elementi iconici surreali, affini al repertorio visionario di Magritte, come nel dittico “Protesi”. La visione frontale/tergale della figura, schermata dalle protesi-occhiali, diventa metafora di un’umanità “cieca”, distratta, concentrata sulla materialità o vanità del contingente, e quindi impossibilitata a proiettare lo sguardo nel proprio mondo interiore. Altre opere nascono semplicemente da suggestioni o paure ataviche, in esse si distinguono i segni di fratture emotive o proiezioni del vissuto personale, paradigmatiche della condizione umana, in tutte traspare una grande poesia che ha il potere di condurci verso i sentieri più profondi dell’animo umano nei quali ognuno può riconoscere la propria fragilità come pure l’unicità e sacralità dell’esistenza. L’arte di Meo sembra quindi invitarci a una sorta di viaggio interiore alla ricerca dell’origine-uomo: “Da dove veniamo, Chi siamo, Dove andiamo”? Paul Gauguin, 1897-98. Roberta Filardi
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Enrico Meo, che ha maturato il suo percorso non nella solitudine dell’artista ma nella dinamica realtà del docente, fa dell’arte il canale di una comunicazione efficace per conseguire scopi educativi e sociali. Con la sua opera instancabile mira a vari obiettivi, in particolare: sollecitare valori alternativi a quelli della società attuale; richiamare alla manualità e alla produzione di oggetti e di opere d’arte; reperire un potenziale di idee per rifondare la cultura nell’incontro tra le varie espressioni figurative (pittura, ceramica, disegno, scultura); denunciare comportamenti umani e sociali; sperimentare nuove forme e rinnovare i linguaggi dell’arte. Avendo frequentato sin dall’infanzia le botteghe artigiane di Grottaglie (suo paese natale), Enrico Meo ha una collaudata esperienza di maestro ceramista che si manifesta nella creatività nelle forme, nell’adattamento degli elementi pittorici, nella ricerca di codici innovativi pur mantenendo un saldo legame con la tradizione intesa come incontro di popoli e reciprocità delle culture. Nei suoi manufatti ceramici, il segno pittorico, coinvolto nel processo innovativo, supera la funzione decorativa per costituire un linguaggio narrante che evoca storie, miti, eventi. Versatile in ogni espressione artistica, preferisce le instal-
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lazioni per la denuncia sociale; effettua, inoltre, numerose azioni di arte contemporanea senza però trascurare gli aspetti tradizionali dell’arte. Da alcuni anni, Enrico Meo è impegnato nel recupero della spazialità medievale. Svolge, pertanto, le sue rappresentazioni sulla superficie dello spazio pittorico utilizzando un linguaggio rigoroso che elimina la logica prospettica e la valenza antropocentrica. Rivolge particolare attenzione alle caratteristiche ottiche facendo uso di tecniche dell’arte bizantina che ricorre a varie risoluzioni compresa la deformazione dell’immagine per produrre gli effetti della visibilità. La maggior parte dell’opera di Enrico Meo nasce da una concettualità accentrata su problemi esistenziali o sulla realtà quotidiana partendo dalla sua vita di uomo o da paradigmi comuni attinti dai miti (classici e locali), dalla saggezza popolare e da molteplici altre fonti. In tutta la sua produzione l’A. riesce a fondere l’elemento individuale e collettivo, la realtà e la fantasia, l’astrazione e la concretezza. Notevole la cura che l’A. dedica alla resa delle immagini, agli effetti cromatici, all’equilibrio tra le figure e lo spazio. vittoria butera, critica e scrittrice
ENRICO MEO CERAMISTA
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PIEMONTE
Andrea Mantegna Palazzo Madama di Torino ospita la mostra dal titolo “Andrea Mantegna. Rivivere l’Antico, Costruire il Moderno” dedicata a questo gradissimo artista che ha saputo coniugare nelle proprie opere la passione per l’antichità classica, ardite sperimentazioni prospettiche e uno straordinario realismo nella resa della figura umana. La mostra, in seguito alla chiusura imposta dall’emergenza Covid-19 è stata prorogata fino al 20 luglio 2020. Nelle sale monumentali del Palazzo Madama di Torino potrete ammirare questa grande esposizione che vede protagonista Andrea Mantegna (Isola di Carturo 1431 – Mantova 1506), uno dei più importanti artisti del Rinascimento italiano. Intorno alle sue opere si articolano le testimonianze di una stagione artistica, quello del Rinascimento in pianura padana, prima a Padova e poi a Mantova, che è stata in grado di far rivivere l’antico costruendo il moderno. L’esposizione, curata da Sandrina Bandera e Howard Burns, è divisa in sei sezioni e presenta al pubblico il percorso artistico del grande pittore partendo dai prodigiosi esordi giovanili fino ad arrivare al riconosciuto ruolo di artista di corte dei Gonzaga. La mostra si compone di un corpus di oltre un centinaio di opere, riunito grazie a prestigiosi prestiti internazionali da alcune delle più grandi collezioni del mondo. Tra queste ci sono il Victoria and Albert Museum di Londra, il Musée du Louvre e il Musée Jacquemart André di Parigi, il Metropolitan Museum di New York, il Cincinnati Art Museum, il Liechtenstein Museum di Vienna, lo Staatliche Museum di Berlino, ma anche numerose realtà italiane come le Gallerie degli Uffizi, la Pinacoteca Civica del Castello Sforzesco, il Museo Poldi Pezzoli di Milano, il Museo Antoniano e i Musei civici di Padova, la Fondazione Cini, il Museo di Capodimonte di Napoli.
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GIACOMO SOFFIANTINO
ARTURO CARLO QUINTAVALLE, Panorama, 8 giugno 1982. Immensa è la voluttà nascosta tra questi residua , tra queste immagini altere, truccate da povere. “Tutti i vizi alla moda vengono giudicati virtù”, annotava Molière. Tutti gli strilli pittorici assordano gli orecchi e fanno solo mercato. Soffiantino invece ama il sussurro, il gesto ripiegato, il segreto che c’è nell’oggetto. Ed il magico, l’irreale, l’improponibile nascono dal vero, dal verissimo, addirittura dall’usuale. Chi è esperto di malinconie, sa perfettamente come la malinconia diventi, a lungo andare, un male inguaribile. Ma vi è una malinconia degli oggetti che solo un pittore sa spiegare e restituire. Soffiantino vi riesce, in punta di piedi. E ci dice che anche gli oggetti si ammalano. A poco a poco, tacendo, svuotandosi, rnutando posizione per una caduta, uno spostamento provocato da mano umana.
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Nei meandri del secolo breve. Parte 2
un coinvolgimento psico-percettivo ottenuto con campiture estese di colore (De Kooning, Rothko), l’altro consiste nel gocciolamento dall’alto del colore sulla tela. La Pop Art rivolge invece l’attenzione agli oggetti, ai miti e ai linguaggi della società dei consumi. Essa usa lo stesso linguaggio della pubblicità e risulta dunque perfettamente omogenea alla società dei consumi che l’ha prodotta (Warhol, Rauschenberg, Oldenburg).
William De Kooning
Dopo la seconda guerra mondiale le nuove generazioni, dopo l’abisso di inaudite crudeltà belliche, non hanno più l’atteggiamento di vitale entusiamo battagliero degli artisti che li hanno preceduti nondimeno recano ferite profonde che li inducono a prestarsi alla ricostruzione senza nichilismi di sorta bensì attivando un dibattito critico e iniziando quel processo di analisi, controllo, intervento, nei confronti dei linguaggi in crescita dei massmedia.
Robert Rauschrnberg
Non meno importante è il minimalismo (Stella, Dan Flavin, Judd) termine inventato e diffuso dai critici, che contraddistingue un gruppo sorto in America nei primi anni sessanta con motivazioni simili a quelle della pop art. Questi artisti hanno in comune un linguaggio limitato all’essenziale, un cromatismo povero, l’assenza di decorazione, la serialità; quanto alla esecuzione essa è sottratta alle mani dell’artista e affidata al mezzo tecnologico. Jackson Pollock
Negli anni sessanta, dopo una breve esperienza inglese, matura negli USA una nuova forma di arte popolare: la pop art, che si pone in netta contrapposizione con l’eccessivo intellettualismo dell’espressionismo astratto. A partire dalla seconda metà del secolo le neoavanguardie vivono una situazione artistica sostanzialmente cambiata e mentre in Europa dilaga l’informale, che lascia l’artista senza più alcuna forma, solo con il suo gesto che “abita” il supporto, negli Stati Uniti si sviluppa invece l’espressionismo astratto. Questo nuovo movimento si sviluppa e trova terreno fertile oltreoceano dove si erano rifugiati molti artisti europei durante la guerra influenzando l’arte americana, specie tramite il surrealismo. La capitale dell’arte non è più Parigi ma New York. L’espressionismo astratto statunitense, prima corrente artistica nata fuori Europa, è un intreccio espressionista, surrealista, astrattista, realizzato in base a due criteri: l’uno mira più all’astrazione e a
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Andy Warhol
SECONDE AVANGUARDIE
Joseph Beuys
Piero Manzoni
A metà degli anni sessanta sia in America sia in Europa vi sono artisti che, all’indigestione di oggetti e volti da consumare, rispondono con un’arte fredda, assolutamente slegata da qualsiasi tipo di suggestione visiva. Si tratta del concettualismo (Kosuth, Acconci, Viola, LeWitt, Beuys), una forma di comunicazione volutamente antiartistica in cui gli oggetti diventano così poco importanti da ridursi a semplici idee. Come la colorata ripetitività dell’arte pop aveva posto in primo piano i prodotti di consumo cosi gli artisti concettuali ribaltano la situazione cercando di porre in rilievo l’’idea “ rispetto all’oggetto. L’arte concettuale tra gli anni sessanta e settanta ispira a livello internazionale numerosi movimenti d’avanguardia.
sembrano muoversi per effetto di un’illusione ottica creata dall’uso di schermi sospesi fatti di sottili tubi. Questi lavori hanno origine nella tradizione costruttivista, radicata in America Latina. Alcune sculture differiscono però dagli standard costruttivisti in quanto sembrano dematerializzare l’oggetto astratto che pulsa come se fosse perennemente di dissolversi. Di conseguenza, l’arte concettuale da una parte e certi tipi di sculture cinetiche dall’altra possono essere considerati aspetti diversi dello stessa spinta verso la dematerializzazione. Nell’ambito di questa corrente viene inserita l’optical art anche se non costituisce un vero e proprio movimento. Vasarely è l’artista più rappresentativo e i suoi lavori rimandano agli studi sugli effetti visivi ricavati delle leggi ottiche: lavora nella bidimensionalità operando suggestive illusioni ottiche e dando largo spazio alla grafica.
Joseph Kosuth
Christo
Negli stessi anni si afferma l’arte cinetica (Tinguely, Dier Soto) in cui si possono distinguere due scuole, una passiva e una attiva: oggetti che sembrano muoversi e oggetti che si muovono veramente. Alcune sculture mobili sono azionate e altre si muovono solo in caso di vento o di altre forze esterne. Un gruppo di artisti provenienti dall’America del sud realizza opere tridimensionali che
In Europa gli anni settanta sono stati testimoni della nascita dell’Arte Povera. Essa ha un approccio precario verso la realtà, un rifiuto per ogni accenno alla trascendenza, una preferenza sia per i materiali “poveri”, cioè terra, stracci , legno, materiali di ricupero, sia per la loro particolare mutabilità.
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Victor Vasarely
Mario Merz
L’arte povera tratta generalmente lavori ambientali e fa sovente ricorso alle installazioni come luoghi del rapporto tra opera e ambiente. Tra gli artisti più noti ricordiamo Pistoletto, Merz, Penone; alcuni hanno fin dall’inizio una propensione concettuale (Boetti, Paolini).
artistico da rivisitare con citazioni, da ricomporre secondo nuovi stilemi linguistici. C’è la ricerca di nuove posizioni che intendano parlare di libertà creativa attraverso il filtro del ricordo con decodificazioni personali ; tutto ciò appare necessario in un momento storico nel quale sono venuti a mancare i punti di riferimento dopo il crollo delle ideologie e la globalizzazione galoppante.
Sol Le Witt
Gli anni ottanta segnano l’inizio di un ritorno alla pittura dopo che le correnti come il concettuale, il nuovo realismo, il minimalismo, e altre forme artistiche, pervase di un carattere di emergenza e provvisorietà , dimostrano di aver esaurito ogni possibilità di sviluppo o di non corrispondere più alle istanze emergenti. Sandro Chia
Carl Andre
Il postmodernismo rimette in discussione il fatto che l’arte debba essere sempre qualcosa di veramente nuovo. Preferisce il recupero della memoria, l’idea che ci possa essere una continuità che si nutre rivalutando un patrimonio
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SECONDE AVANGUARDIE: Espressionismo astratto (America) William De Kooning, Jackson Pollock Pop Art Richard Hailton, Robert Rauschrnberg, Andy Warhol, Claes Oldenburg Arte concettuale Piero Manzoni, Joseph Kosuth Happening e performance - Spencer Tunick, Joseph Beuys Land Art - Christo, Richard Long, Optica Art - Victor Vasarely Minimalismo - Carl Andre, Dan Flavin, Sol Le Witt, Donald Judd Arte Povera - Giovanni Anselmo, Jannis Kounellis, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Alighiero Boetti, Giulio Paolini Transavanguardia - Enzo Cucchi, Francesco Clemente Sandro Chia - Nicola De Maria, Mimmo Paladino
ASTRATTISTI dalle 20 regioni Italiane un’ esposizione d’arte astratta contemporanea di artisti provenienti da tutte le regioni italiane, artisti scrupolosamente selezionati, che assurgeranno ad emblema della vera arte nella sua più profonda essenza, un’arte che sia lontana e completamente svincolata dalla comune provocazione che in questo particolare momento storico la fa da padrona nel panorama artistico contemporaneo. L’evento si terrà presso diverse location in Italia INFO & CONTATTI Mail: galleriariele@gmail.com
FB: Briscese Enzo cell. 347 99 39 710
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TOSCANA
NATO A PONTE DI BRENTA NEL 1909, DAL 1917 IN POI E’ VISSUTO A PIETRASANTA, MORTO NEL 1996
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Marta Gierut accanto ad un’opera di Franco Miozzo Franco Miozzo, è di origine veneta, scultore e pittore di talento del Novecento, eccellente disegnatore, Maestro di arte e di vita per diverse generazioni di giovani. Pur essendo un artista geniale e aperto alle nuove tendenze dell’epoca, sperimentatore rigoroso e versatile, non ha avuto la soddisfazione di un riconoscimento ufficiale all’estero, ossia gli è venuta a mancare la risonanza internazionale che gli sarebbe dovuta. Dopo il periodo romano torna pertanto nella sua amata Versilia, terra adottiva dai paesaggi incantevoli, dove gli viene offerta la possibilità di insegnare nello stesso Istituto d’arte dove aveva compiuto la sua formazione: la scuola regia d’arte “Stagio Stagi”. Anche allora, sebbene in situazioni diverse dal nostro presente, molti artisti si spostano al fine di costruirsi un percorso identitario in autonomia e così tenta anche Miozzo, il quale, per ampliare la sua formazione accademica sappiamo che cerca di
continuare gli studi nella capitale in un ambiente artistico aperto alle nuove correnti internazionali e frequentato da molti artisti ed intellettuali. Roma é un mondo nuovo che gli si spalanca davanti; così decide di iscriversi al corso triennale all’Accademia di Francia al Pincio e trova lavoro in Vaticano. Conosce Marinetti, Carrà, Martini, Cagli, Marini, Fazzini, Capogrossi. Prima del suo viaggio romano, negli anni della sua formazione a Pietrasanta, il giovane artista trova un punto di riferimento e di confronto con un toscano, LiberoAndreotti. Nelle sculture andreottiane egli aveva osservato come gli elementi plastici e quelli cromatici si armonizzassero e così impara anch’egli a tenerne conto nelle sue opere: Miozzo arriva alla capitale con un modellato asciutto, equilibrato, essenziale, ed un linguaggio scavato dentro il quotidiano, radicato nell’uomo. Questi due pittori e scultori esprimono un’ idea di arte e di umanità di alta caratura.
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Un esempio significativo è dato dalla volontà miozziana di dedicare a San Martino e il povero innumerevoli bozzetti, disegni, opere monumentali, e anche costruzioni molto complesse,in quanto il tema stesso incarna quel messaggio di solidarietà che eleva l’idea di ”uomo”: è un pensiero che lo accompagnerà fino alla fine arrivando a costruzioni sempre più intricate e verticali. Un altro caso eclatante in cui si esterna la sua sensibilità sociale si ha dopo il 12 agosto del ‘44, in piena guerra, allorquando, militare di leva, risponde all’efferato eccidio, a Stazzema, di centinaia di persone, compresi bambini e donne, con immediati disegni figurativi, a cui seguiranno altri lavori con forza espressiva. Nel periodo bellico, tenace, usa pure il lucido da scarpe. Giunto a Roma,tra le due guerre ,giunge all’astrazione, più tardi realizzata con oli su tele e tavole. La scuola romana, che influenzerà il giovane Miozzo,inizia con Cagli, Cavalli e Capogrossi, uniti
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dall’intento di relazionare la modernità postcubista con l’arte antica (decorativa greco-romana, i Primitivi, l’arte dal Masaccio a Piero della Francesca), e in seguito aderiscono Pirandello, Birolli e Sassu .Il giovane artista versiliese studia, lavora e osserva. Tra le opere del periodo ricordiamo “I Centometristi” del ‘39, ma la svolta decisiva il maestro veneto-toscano la compie negli anni ‘50 confrontandosi direttamente con l’arte astratta; fra le figure di riferimento troviamo Moore, Brancusi, Archipenko. La donna del ‘52 è un’opera astratta con accentuazione di forme. Ci sono lavori che rimandano in modo più esplicito a Moore: “la donna al sole” (anni ‘60) ora collocata ai giardini pubblici della fraz. Fiumetto, “ Il nudo verticale”o detto “La tuffatrice” che si trova ai giardini pubblici della fraz. Tonfano. Inoltre in quegli anni scopre il marmo (fino ad allora aveva optato per materiali meno impegnativi per il trasporto, i costi..)
Questi sono gli anni dei paesaggi astratti contemporanei, degli aggiornamenti provenienti dall’America (es. Pollock) e degli approfondimenti europei ( Mondrian, Klee, Miro’,…) Negli anni ‘40 crea le Pomone, i Gruppi Equestri e verso gli anni ‘50 le Grandi Composizioni e i Guerrieri. Le Pomone rimandano alla scultura mariniana ma quelle del maestro versiliese sono figure particolarmente possenti dai fianchi larghi, gravide, evocative della fertilità mentre le figurazioni dei cavatori, degli antichi cascinali, dei seminatori, alludono a un mondo che sta scomparendo. Miozzo lavora fino alla fine dei suoi giorni. Dopo essere ritornato stabilmente nella sua terra adottiva egli dipinge paesaggi, specie quelli dell’alta Versilia che predilige, rendendola protagonista di moltissimi quadri. Oltre a dipingere,disegnare e scolpire,
egli partecipa con regolarità a mostre collettive e personali gestite nell’ampia zona che va dalle Apuane alla Versilia, e nel contempo insegna. Egli procede con opere scultoree che vanno da Omaggio a Michelangelo a Cavallo a Icaro e a San Martino. Grande è la sua vitalità interiore: anche come docente è una figura esemplare, , maieutico nei confronti dei ragazzi a cui apre le menti e accende fantasia e immaginazione. Negli ultimi decenni la tensione è tra l’informale e il figurativo; si impone la poetica dell’informale nelle varie espressioni che segnano tele grandi dipinte di getto. La sua arte raggiunge una gestualità creativa di intenso pathos. E’ un artista che comunica, e lo fa nel migliore dei modi , vivendo fino in fondo il suo congiunto cammino di uomo e di artista. Giovanna Arancio
Franco Miozzo accanto alla sua allieva Marta Gierut (1977-2005)
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TOSCANA
ANTONIO POSSENTI IL COLORE DELL’ARTE
Ricordare Antonio Possenti, lucchese del ‘33 recentemente scomparso, creativo al cento per cento e viaggiatore instancabile nella fantasia come negli anfratti maggiormente magici della realtà, ha per me il significato di ripercorrere più e più tappe della scacchiera di quell’universo artistico, comprensivo dell’interscambio dialettico, in cui ho sempre creduto.
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La nostra frequentazione – mi si permetta rammentarlo – è iniziata nel 1979, quando lo conobbi presso la Fondazione Viani di Viareggio guidata dal poeta Vittorio Grotti, allorché, con molti altri tra cui Gianni Brera, Angelo Dragone, Luciano Luisi, Tommaso Paloscia, mi fu assegnato un riconoscimento giornalistico.
L’ho sempre “visto” alla stregua di un artista perentoriamente calato nel proprio tempo, che tuttavia, con la signorilità e l’affabilità di un carattere perennemente pacato e pensante, sapeva segnare in modo autonomo e felice ogni disegno e dipinto in cui il racconto e la fiaba avevano un ruolo preminente. In quasi tutte le opere c’era lui, sia nella centralità della tela o della carta, o a lato, osservatore puntuale e acuto degli accadimenti pullulanti di personaggi veri e inventati, di balene e conchiglie e draghi, e soldatini di piombo, uova e fiori, e poi non mancava il mare e neanche la montagna, e – ancora – ecco alberi impossibili, castelli, lune e bandiere al vento... Penso che una delle sue doti, oltre ad una ineccepibile e lineare professionalità sorretta da un’invidiabile capacità disegnativa ed equilibrato gusto cromatico, sia stata la coerenza nel formulare immagini tali, per cui la sua ordinata libertà espressiva ha avuto un filo logico e un significato preciso nel dare forma e “calore”, oltre che colore, all’arte e con l’arte. Il mondo poetico di Antonio Possenti non è stato un semplice “soliloquio della fantasia”, bensì una autentica comunicazione, una apertura vera e propria verso chi l’ha saputa o voluta cogliere. Qualche riga per definirlo?
No; ce ne vorrebbero molte, anche se sono tantissimi i giornalisti, gli storici e i critici d’arte, i poeti e altri che ne hanno ben analizzato l’instancabile percorso, e molti lo faranno, credo dunque che il suo nome debba essere perentoriamente unito alle parole fantasia e libertà, poiché ne hanno caratterizzato ogni opera, degna e incancellabile testimonianza e soprattutto “risposta” al non senso spesso imperante e all’egoismo di cui è vittima parte della nostra società. L’ultima volta che ci siamo visti è stata nei pressi della sua città natale, Lucca; gli lessi una poesia intitolata “Il dipinto” tratta da un libro postumo di mia figlia Marta. Gli piacque.. Oggi gliela rileggo: “Attraverso la vita/ cammino nel paesaggio/ di luci e ombre./ Occhi per vedere/ i colori del cuore,/ impronte d’un passato dolore,/ frammenti di vita,/ squarci di cielo e di sole./ restano pensieri,/ sentiero di un’anima/ nel tempo del vivere,/ e tutto intorno immagini/ col mondo che sopravvive e cresce”. Sì, sono proprio giuste le parole per cui “... l’artista se ne va ma rimane la sua opera”. Grazie, carissimo Antonio! Lodovico Gierut
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NINO AIMONE Il costante ma differenziato impegno ideologico ed etico dal 1964/5 alle ultime opere. Il 1965 è l’anno della Quadriennale romana, alla quale Aimone partecipa su invito con tre opere di grande formato (U.S.A. 1965, Il reattore, Minaccia atomica, presenti in questa mostra), ma è anche l’anno di una esperienza bruciante, un viaggio negli Stati Uniti con un gruppo di artisti italiani, che gli serve per confermare intuizioni, chiarire percorsi avviati almeno l’anno precedente, esprimere valutazioni rispetto ad orizzonti più vasti. Da quell’opera epocale nella vicenda del pittore che è Corso Massimo d’Azeglio derivano dipinti significativi come La ragazza Standa, e si avvia una serie di incisioni nell’arco del ’65 che s’intrecciano senza soluzione di continuità con i lavori di “’iconografia americana”. Al centro di questo manipolo di potenti immagini sta una figura femminile o maschile in fuga disperata e scomposta (figura che era comparsa circa due anni prima ma con riferimento alla seconda guerra mondiale: Il soldato tedesco, residuo di un dipinto smembrato). Ora invece – dico nelle opere del ’64-’65 – la fuga è motivata non da situazioni di natura bellica, almeno di guerra guerreggiata, ma da pericoli più subdoli, che allignano nella struttura stessa del capitalismo, specialmente evidenti nelle megalopoli sconvolte come da un dissesto generalizzato: il consumismo estremo, la violenza sociale, l’aggressività politica, l’ottusità ideologica, la potenza militare sempre meno controllata e controllabile, il dilagare dell’imperialismo economico,
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espressi da simboli che l’immaginario popolare ha coagulato in forme totemiche quasi primitive. Pino Mantovani
ALBERTO MELARI
Nasce a Foligno (PG) l’8 giugno 1972. Negl’anni ’90 frequenta lo studio del maestro siciliano Giovanni Crisostomo dove apprende le basi della pittura. Successivamente frequenta l’Accademia di Belle Arti di Bologna. In quegl’anni si dedica anche al disegno satirico lavorando per editori di livello nazionale. Espone in varie personali e più raramente in collettive. È autore di due libri illustrati: “La leggenda di Jacopone da Todi” e “Il Parolario di Frate
Francesco”. Svolge un intensa attività nella divulgazione artistica col progetto “Arte per Artisti … e non solo”. Nella sua pittura, fortemente legata alla tradizione, tratta temi connessi alla spiritualità e all’espressione del sacro. Email. alberto.melari@gmail.com Sito www.albertomelari.it
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MARIO SURBONE
Sono nato nel 1932 a Treville presso Casale, luogo al quale sono tuttora profondamente legato. All’Accademia Albertina sono stato allievo di Felice Casorati. Lunghi soggiorni a Parigi sul finire dei Cinquanta e l’inizio dei Sessanta mi hanno permesso di confrontarmi con la varietà delle proposte artistiche del momento. Le mie scelte sono peraltro guidate dall’intuizione più che dalla razionalità programmatica, dall’esigenza di mettere a fuoco una immagine dove il rigore costruttivo si coniughi con un altrettando fondamentale rapporto con la realtà visibile e visionaria. Così, attraversando esperienze apparentemente o forse davvero contraddittorie, mai troppo condizionate da ragioni o modelli esterni, mi muovo tra compromessa evocazione e astrazione ”concreta”. Gli “Incisi” fra ’68 e ’78, che rappresentano il momento di più spinta semplificazione
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e purezza, lontano dalle tentazioni pittoricistiche e dalla gestualità espressiva che avevano alimentato il precedente lavoro, non costituiscono l’approdo ultimo e definitivo (del resto, anche negli “Incisi” tento di mettere idee, particolari esperienze, fatti per me vitali). La stagione successiva, che tuttora prosegue, rimette in circolo la totalità delle esperienze elaborate sul piano formale e specialmente i contenuti emotivi che intimamente mi appartengono. I lavori che qui espongo esemplificano la mia ultima produzione: mi piacerebbe vi fosse riconoscibile, nella apparente elementarità dell’immagine, la complicazione dei percorsi operativi per arrivare, non senza prove e riprove empiricamente condotte, ad una “perfetta” integrazione di forme, colori, materie, mobili e, per così dire integrati nello spazio aperto.
VENETO
Mostra Natura in Posa. Capolavori dal Kunsthistorisches Museum di Vienna in dialogo con la fotografia contemporanea - Treviso L’esposizione documenta come il soggetto della Natura morta si sia sviluppato tra la fine del Cinquecento e lungo tutto il XVII secolo, invitando a guardare sotto una nuova luce uno dei generi più suggestivi della pittura europea. La prestigiosa collezione del Kunsthistorisches Museum di Vienna mette a disposizione 50 capolavori, presentati per la prima volta in Italia, di Francesco Bassano, Jan Brueghel, Pieter Claesz, Willem Claesz Heda, Jan Weenix, Gerard Dou, Evaristo Baschenis, Gasparo Lopez dei Fiori, Elisabetta Marchioni. Il percorso, tematico e cronologico, inizia dalla seconda metà del Cinquecento con una selezione di scene di mercato e rappresentazioni delle stagioni di Francesco Bassano e di Lodovico Pozzoserrato, collegate al contesto geografico del Veneto. Il confronto con i mercati fiamminghi di Frederik van Valckenborch e Jan Baptist Saive il vecchio conduce il visitatore Oltralpe. È qui soprattutto, nel contesto geografico, culturale e politico dei Paesi Bassi, che tali creazioni si perfezionano e specializzano, articolandosi in alcune categorie come le nature morte scientifiche con i mazzi di fiori, le vanitas o allegorie della caducità, le tavole apparecchiate, le nature morte religiose, le scene di caccia. Artisti come Jan Brueghel, Pieter Claesz, Willem Claesz Heda, Jan Weenix, Gerard Dou realizzano capolavori che incantano per creatività e perfezione di esecuzione. Un gruppo di nature morte italiane illustra, poi, attraverso le opere di Evaristo Baschenis, Gasparo Lopez dei Fiori, Elisabetta Marchioni la diffusione del genere nei vari cen-
tri artistici a sud delle Alpi. Completa la mostra la sezione, a cura di Denis Curti, dedicata alla fotografia contemporanea che testimonia come il tema della natura morta sia presente negli scatti di alcuni degli artisti più importanti e celebrati a livello internazionale. L’esposizione, curata da Francesca Del Torre, Gerlinde Gruber e Sabine Pénot, è parte di un ampio progetto promosso dalla Città di Treviso e Civita Tre Venezie, in collaborazione con il Kunsthistorisches Museum di Vienna.
cura di Manuela Vaccarone Pubblicato il 14/11/2019 Aggiornato il 29/05/2020 FacebookTwitterPinterestLinkedInTumblrWhatsApp Natura in Posa. Capolavori dal Kunsthistorisches Museum di Vienna in dialogo con la fotografia contemporanea Dal 2 giugno 2020 al 27 settembre 2020 Treviso (TV) Complesso di Santa Caterina, piazzetta Mario Botter, 1 Telefono: 0422/1847320 Orari di apertura: 11-19 da giovedì a domenica. Costo: 12 euro; ridotto 10 euro. Ingresso libero dal 2 al 7 giugno 2020 Sito web: www.mostranaturainposa.it Organizzatore: Città di Treviso e Civita Tre Venezie, in collaborazione con il Kunsthistorisches Museum di Vienna
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PINO MANTOVANI Sono nato nel 1943, mi sono diplomato nel 1967 all’Accademia Albertina con Paulucci e Davico. Nello stesso anno mi sono laureato in Lettere moderne e ho cominciato subito ad insegnare, per mia fortuna non materie “artistiche” - non avrei saputo che cosa insegnare - mentre alcuni colleghi, per esempio Piero Ruggeri e Gino Gorza, usavano metodi differentissimi ma assai efficaci. Essere docente di storia dell’arte mi ha permesso di allargare i repertori di riferimento e di ““pensare” criticamente la pittura che mi interessava fare. Cerco di costruire “figure”, che possono rappresentare forme riconoscibili nella esperienza quotidiana, oppure presentare forme che sono solo se stesse, per esempio di riferimento geometrico (elementare imperfetta geometria). Ma quando sono “figurativo” non mi interessa imitare le apparenze con particolare diligenza, semmai mettermi a confronto con altri che hanno affrontato lo stesso problema risolvendolo in tanti modi: come a dire che la “realtà” è per me quella dell’immagine , della storia dell’immagine; quando sono “astratto”, le forme tendono ad assumere aspetto e attributi “organici”: come un corpo vitale, cioé capace di alludere ad aspetti della realtà sensibile, quindi destinato a prossima fine. Mi pacciono le impostazioni simmetriche, ma per dimostrare che non ci sono forme identiche; mi seducono le ripetizioni, ma per trovare differenze nell’apparentemente identico. Il
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massimo, per me, sarebbe rappresentare echi e ombre, labili, tanto più quando il corpo sembra robusto ed elastico, una tela di sacco destinata nel tempo a sbriciolarsi.
MAURO CHESSA Ho studiato all’Accademia Albertina di Torino, con Menzio e Calandri e, dopo un periodo iniziale, nel quale prediligevo la corrente astrattista della pittura, sono approdato ad un modo di dipingere figurativo e forse addirittura tradizionalista, più consono alla mia natura. Espongo volentieri con gli altri tre artisti e amici che nulla sembrano avere in comune con me e tra di loro, se non la totale mancanza di aspetti in comune. Tuttavia, di fronte all’occupazione, quasi manu militari, di ogni spazio disponibile da parte di molti che, in perfetta buona fede, ritengono di essere gli unici legittimati a rappresentare la contemporaneità, tengo, anzi teniamo a ricordare che persiste ancora un’altra idea di Pittura il cui gioco non privo di drammaticità ha come posta il significato stesso della nostra esistenza coinvolgendo i sentimenti più profondi di ciascuno. Questo è ciò che ci unisce, al di là delle apparenze così superficialmente discordi. Qui mi fermo, convinto che i quadri non si fanno con le parole e che queste possano, al più, illustrarli.
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EMILIA ROMAGNA
GAETANO PREVIATI
TRA SIMBOLISMO E FUTURISMO dal 09/02/2020 al 27/12/2020 Ferrara, Castello Estense In occasione del centenario della morte, la città natale rende omaggio a Gaetano Previati con una mostra organizzata dal Comune di Ferrara e dalla Fondazione Ferrara Arte. La rassegna presenta al pubblico un centinaio di opere, accostando olii, pastelli e disegni selezionati dal vasto fondo delle raccolte civiche ferraresi ad un notevole nucleo concesso in prestito da collezioni pubbliche e private, con il corredo di importanti documenti inediti. L’esposizione intende mettere in luce il fondamentale ruolo dell’artista nel rinnovamento dell’arte italiana tra Ottocento e Novecento. Previati è considerato un erede della tradizione romantica, un interprete delle poetiche simboliste e, per la sensibilità visionaria e sperimentale della sua pittura divisionista, un anticipatore delle ricerche d’avanguardia futuriste. Tratto unificante di una personalità così complessa è la tensione verso il superamento dei tradizionali confini della pittura “da cavalletto”. Affascinato, per la sua formazione tardoromantica, dai grandi formati e dall’espressione dei sentimenti egli si misura con alcune delle sfide cruciali con cui gli artisti si confrontano agli albori della modernità. Rappresentare la luce, interpretare le suggestioni della musica, dipingere il ritmo e il dinamismo, dare forma agli stati d’animo, sollecitare le percezioni dell’osservatore sono le parole d’ordine della ricerca di Previati che ne fanno un anticipatore di alcuni percorsi dell’avanguardia del Novecento.
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ALFREDO BILLETTO
Sono nato nel 1932 a Torino, dove prevalentemente vivo e lavoro. Dopo l’Accademia Libera di Belle Arti nell’immediato dopoguerra (vi insegnavano, fra gli altri, Domenico Buratti, Carlo Terzolo, Mario Giansone, Armando Testa), la mia formazione si compie frequentando gli studi di Cesare Maggi, e Felice Casorati. Ho soggiornato per lunghi periodi all’estero , in Spagna Olanda Africa e in Francia dove tuttora mi reco spesso. In tutti i paesi toccati mi sono inserito culturalmente con il mio lavoro. In una delle ultime personali, il sottotitolo concordato con i presentatori Marco Rosci e Pino Mantovani recita:” L’ordine del sensibile, una proposta classica nella tradizione dell’avanguardia”. In effetti, sono queste le caratteristiche del mio impegno, che si sviluppa sulle basi delle avanguardie storiche del ‘900,
in particolare Cubismo ed Espressionismo, elaborate nella direzione di un costante interesse per le forme limpide e ben strutturate. Nella mia pittura, la memoria del visibile si risolve in una meditata sintesi di spazioluce-colore. Se già nel ‘65 Mario De Micheli scriveva: ”Billetto rifiuta l’ambiguità, rifiuta l’approssimazione”, è però vero che non mi isolo ma vivo intensamente l’attuale stagione, traendone occasione per riflettere, “oggi e con le forme di oggi“ sulla mia profonda, connaturata esigenza di chiarezza, di lucidità formale ed etica, riuscendo senza contraddizione così a raccontare (sul filo di un dichiarato impegno civile), come a elaborare complesse composizioni “musicali”. Parte non minore della mia attività, la grafica e la scultura: modi diversi di occupare ritmicamente lo spazio, di disegnarne infinite variazioni e vibrazioni.
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LOMBARDIA
SANTO NANIA
Il pittore e maestro Santo Nania mette in evidenza la propria conoscenza artistica nella ricerca della tecnica, valorizza gli spazi tonali,con attenta valutazione sugli equilibri e stabilità dell’opera. Ogni intervento gestuale scandisce la
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disposizione della formazione del dipinto, per creare quella giusta sintonia tra materia e spiritualità. Osservare un’opera informale non per capire ma per scoprire un nuovo mondo interiore capace di trasmettere emozioni.
LOMBARDIA
NICOLE GRAMMI
Nasco a Milano ed interpreto la luce, la terra e la porcellana attraverso lettere che compongono frasi, movimento e trasparenze che danno vita ad oggetti di senso compiuto. L’unione di questi elementi sono il filo conduttore del fare arte nel lessico della scultura unito ad una eccezionale conoscenza tecnica ceramica. – E’ per curiosità che ho avvicinato la ceramica… Inguaribile curiosa e sin da piccola alla ricerca del mezzo ideale per esprimermi, dopo la scuola d’arte ho lavorato in un laboratorio di scultura ceramica. E’ lì che ho avuto modo di creare, sbagliare, sperimentare con il più alternativo dei materiali, la terra, da cui tutto è stato generato e in cui stanno tutte le forme possibili, in attesa di essere rivelare. La terra è per me tabula rasa, pagina bianca, sulla quale scrivere ricordi, suggestioni, pensieri, strutture compresse e armoniose, liberando cosi ciò che la voce non riesce a dire e il pensiero ad esprimere. Le parole come gioco, stimolo, mantra ossessivo che chiarisce i pensieri, mela paper clay, porcellana a carta, traslucida e delicata, ma forte e preziosa; mi portano a stringere legarmi con persone affini a me, con le quali condivido passione, follia e ricerca.
Fear - tipologia di gres, porcellana, luci
FORMAZIONE Diploma di Maturità d’Arte applicata press l’Istituto Beato Angelico di Milano
Una vita - porcellana ferro, luci e plexiglass cm 36x36
Tempesta - tipologia di gres, luci. diam. cm46x30
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LOMBARDIA
Chagall, Gauguin e Matisse:
la nuova mostra al Museo Diocesano Eventi a Milano Gauguin, Matisse e Chagall saranno protagonisti de La Passione nell’arte francese dai Musei Vaticani, una nuova mostra visitabile al Museo Diocesano dal 21 febbraio al 4 ottobre. Il percorso espositivo, a cura di Micol Forti e Nadia Righi, comprende oltre 20 opere di Paul Gauguin, Auguste Rodin, Marc Chagall, Georges Rouault, Henri Matisse e altri protagonisti dell’arte francese a cavallo tra il XIX e XX secolo, provenienti dalla Collezione di Arte Contemporanea dei Musei Vaticani. Il percorso espositivo A fare da filo rosso tra i dipinti i temi della passione, del sacrificio e della speranza, interpretati dagli artisti con una capacità di visione potentemente innovativa e attuale. L’esposizione si snoda attraverso quattro diversi ambienti, corrispondenti ad altrettanti nuclei tematici, che dall’annunciazione conducono il pubblico fino alla resurrezione di Gesù. La prima sala è dedicata alla Vergine Maria e a Gesù Bambino. Le xilografie di Maurice Denis introducono la narrazione con le illustrazioni del momento dell’Annunciazione, mentre Henri Matisse e Léonard Tsuguharu Foujita, artista giapponese naturalizzato francese, convertitosi al cattolicesimo, mostrano l’intimità della relazione tra lmadre e figlio. Nella seconda, le vedute di processioni realizzate da Paul Gauguin e Auguste Chabaud accompagnano lo sguardo del visitatore verso il Golgota, dove si consuma il dramma del martirio di Cristo sofferente in croce, inter-
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pretato da Georges Rouault e Henri Matisse. La sofferenza di Cristo in croce è protagonista della terza sala, dove s’incontrano capolavori di Marc Chagall, Jean Fautrier, e ancora di Henri Matisse, oltre alle graffianti incisioni di Bernard Buffet. Il percorso si chiude con la resurrezione di Émile Bernard e il grande trittico di George Desvallières che raffigura il “velo della Veronica”, il panno sporco di sangue e sudore che una pia donna usò per detergere il volto di Gesù durante la Via Crucis. Nel delicato passaggio tra XIX e XX secolo e nel drammatico superamento di due guerre mondiali, le culture e le arti che si sviluppano in Francia, mantengono vivo il dibattito e il confronto tra arte e fede. La diversità degli approcci e delle prospettive, delle sensibilità e degli interessi, da parte dei tanti artisti che si sono confrontati con i temi religiosi, definisce un tessuto variegato, nel quale le storie della passione, il dolore e la morte, il mistero del sacrificio e della redenzione, sono stati presi in carico e restituiti con autentica partecipazione e sincera emozione.
Museo Diocesano Piazza Sant’Eustorgio, 3 Dal 21/02/2020 al 04/10/2020 Martedì - domenica 10-18
ANGELO MAGGIA
Maggia, che ha alle spalle una serie notevole di personali nelle principali gallerie italiane, ha sempre avuto due grandi passioni la pittura e la montagna. “La sua lunga carriera – aggiunge D’Amaro – ha preso il via negli anni Cinquanta a Torino, grazie alle prime mostre organizzate dal famoso critico e promotore culturale Luigi Carluccio”. Gli anni Sessanta furono per lui molto produttivi: percorse l’ Italia per esporre a Bologna (alla celebre “Roccaforte degli astratti”), a Venezia (Galleria “Il Traghetto), Firenze (Galleria “La Scala”), Agrigento (Galleria “Il Punto”). Ma sentiamo lo stesso artista: “Ho splendidi ricordi della Sicilia, dove ad Agrigento nel 1965, conobbi Albano Rossi con il quale iniziò un serrato scambio epistolare. A Sciac-
ca vinsi il premio “Il chiodino d’oro”, poi un turbine di personali, a Torino, Milano, Napoli, Brescia, Torre Pellice, Cuneo, Aosta”. La grandezza di Maggia venne riconosciuta dalla critica già a partire proprio dagli anni Sessanta, anche se la consacrazione avverrà solo con la Quadriennale di Roma del 1965. Ma la mostra che gli ha dato più gioia è del 1992, quasi una grande retrospettiva nella Torre dei Signori di Porta S. Orso: “E’ stata la personale – dice lo stesso Maggia – che mi ha dato più soddisfazione e lì ho capito di aver fatto breccia anche nei critici più ostici”. La mostra dal titolo “Intatto e Assoluto” fu una delle più importanti del 1992 in Italia.
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L4- 1992 - tecnica mista su tela - cm 80x80
ITALO ZOPOLO L’urlo, incontenibile, disperato, irrefrenabile valvola di sfogo per il caotico, ribollente calderone di eccitazioni, emozioni del nostro inconscio mondo psichico è il prototipo di ogni forma di comunicazione, la rottura di ogni imbrigliamento convenzionale. Noi l’abbiamo udito in alcune opere di Zopolo. La sua eco riverberante è fisicamente percepibile in quelle tele dove tra i corrugamenti e le asperità materiche s’intravvedono ferite ancora beanti che a fatica stentano a rimarginarsi. Sussurri e grida emergono tra le pietre riarse, tra le croste dissecate, tra le terre calcinate. La tellurica magmatica vampa infuocata con ignee deflagrazioni ha liberato energetiche tensioni che per una sorta di germinazione di panica naturalità lascia le sue tracce pietrificando
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la luce in un dialogo cosmico e plastico. In altre opere, pennellate decise, vigorose senza ripensamenti, annullano vaste campiture di colore e si caricano di valenze arcane che si situano e si espandono nelle regioni profonde e oscure dell’inconscio, negli insondabili meandri della mente. Il gesto lapidario dell’artista subisce in questo modo, un processo di cristallizzazione e testimonia in modo imperituro l’attività fisica di Zopolo nel contatto con il materiale pittorico che rimanda per le sue suggestioni alle intenzioni della poetica del movimento concettuale. Le immagini acquistano l’efficacia di segnali: talvolta dotati di un carattere simbolico, spesso di una forza corrosiva e sediziosa. Giovanni Cordero
PIERO FERROGLIA Piero Ferroglia, nato nel 1946 a Caselle Torinese, dove vive e lavora. Allievo di Filippo Scroppo e Giacomo Soffiantino. Fino al 1988 si interessa particolarmente della pittura in relazione alla rappresentazione di situazioni e eventi naturali che studia attentamente avvalendosi anche del mezzo
fotografico. Nel 1988 inizia una attivitĂƒ di ricerca plastica in varie direzioni e con vari materiali che influenza anche le originali soluzioni pittoriche rispetto alle quali la distinzione tra figurazione e astrazione perde significato. Molte le mostre personali e collettive, e nurosi i riconoscimenti.
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CATERINA PELLE
Caterina Pelle artista per caso, totalmente autodidatta, il segreto... dare emozioni in colore. 34
“Nanda Vigo. Light Project 2020” Il Museo di Arte Contemporanea di Termoli (MACTE)
Il Museo di Arte Contemporanea di Termoli (MACTE) ha riaperto le sue porte con la mostra “Nanda Vigo. Light Project 2020”, a cura di Laura Cherubini e realizzata in collaborazione con l’Archivio Nanda Vigo, inaugurata lo scorso 29 febbraio e chiusa subito dopo, ultimo progetto espositivo realizzato dall’artista in prima persona. Ripercorrendo alcuni punti salienti della ricerca di Nanda Vigo dagli anni Settanta a oggi, la mostra celebra una delle figure italiane più importanti della sua generazione – pioniera della sperimentazione tra arte, architettura e design – inserendosi nel percorso di studio e valorizzazione della collezione permanente e della storia del Premio Termoli attivato dal MACTE sin dalla sua apertura. Nanda Vigo vinse il Premio Termoli nel 1976 con l’opera Sintagma, realizzata in vetro, specchio e neon; il cui titolo – dal greco σύνταγμα, propriamente «composizio-
ne, ordinamento» – si riferisce al termine coniato da Ferdinand de Saussure per definire “la combinazione di due o più elementi linguistici linearmente ordinati”. Quarantaquattro anni dopo quest’opera torna protagonista, nella sua indivisibilità di significato, come chiave interpretativa dell’intera esposizione. I lavori in mostra, infatti, da un lato sono disposti secondo un disegno espositivo unitario e attento all’architettura del museo – cifra distintiva degli allestimenti della Vigo – dall’altro dimostrano la relazione tra due gruppi di opere collegati anche dal punto di vista linguistico il cui comun denominatore è la luce. “Nanda Vigo. Light Project 2020” fonde le opere in un racconto unitario: lo spazio buio della sala circolare del MACTE – illuminato esclusivamente dalla luce delle opere – immerge il visitatore in un viaggio attraverso l’universo dell’artista, fatto di vita e di ricerca, di esperienza e aspirazioni alla conoscenza.
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Luciano Ventrone nasce a Roma nel 1942. A cinque anni va in Danimarca, ospite di una signora danese che lo adotta per qualche tempo. E’, forse, la vicenda che segna la sua vita da un punto di vista psicologico e professionale. In Danimarca, Ventorne riceve calore, umanità ed anche i primi giocattoli della sua vita. Tra le altre cose, una scatola di colori, con cui comincia la sua carriera di pittore. Tornato in Italia, frequenta la scuola dell’obbligo e successivamente, il Liceo Artistico e la Facoltà di Architettura che lo accompagneranno e formeranno nella sua passione per l’arte e nella sua sensibilità artistica. Ventrone vive giovanissi-
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mo la grande stagione delle battaglie tra le varie tendenze artistiche; le frequenta quasi tutte, ma si capisce che dietro questa frequentazione c’è la ricerca di un linguaggio suo personale ed esclusivo. La svolta nella storia della sua pittura avviene un giorno, quando conosce Federico Zeri che spenderà il suo prestigioso nome per imporre l’attenzione verso le sue opere. La sua pittura è lenta, difficile, paziente e rigorosa. Dal 1991 ad oggi sono state numerose le mostre personali e le rassegne collettive in gallerie private e spazi pubblici in Italia e all’estero; le sue opere fanno parte di importanti collezioni pubbliche e private.
ALFREDO DI BACCO
Alfredo Di Bacco nato a Sulmona (AQ) nel 1947 vive a Popoli (PE). Si è diplomato presso l’Istituto d’Arte di Sulmona. Inizialmente Neo-realista poi la sua attenzione è rivolta verso quel genere pittorico chiamato Pittura Colta teorizzato nei primi anni Ottanta da Italo Mussa, che guar-
da alla storia della pittura come fonte inesauribile di suggestioni e richiami e che considera l’esperienza esecutiva come valore non meno importante rispetto ai temi trattati. La pittura ad olio è la sua principale forma espressiva.
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LAZIO
Jim Dine Jim Dine, uno dei maggiori protagonisti dell’arte americana al Palazzo delle Esposizioni | 11 febbraio - 26 luglio 2020 „L’esposizione dei lavori, come consuetudine del Palazzo delle Esposizioni, sarà preceduta da una biografia dell’artista stampata sul muro e corredata da una selezione di fotografie. I suoi contenuti potranno essere acquisiti grazie a un QR code e potranno accompagnare i visitatori e le visitatrici durante l’intero percorso della mostra che sarà ordinato secondo un criterio prevalentemente cronologico. I primi lavori esposti saranno piccoli dipinti su tela e acquarelli datati 1959, in ciascuno dei quali campeggia una testa isolata dal corpo (Head). Lo stesso soggetto riapparirà a conclusione del percorso espositivo ingigantito in un
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dittico del 2016 (Two Large Voices Against Everything).
Palazzo delle Esposizioni Via Nazionale, 194 Dal 11/02/2020 al 26/07/2020 Orario non disponibile Sito web palazzoesposizioni.it “
HASSAN VAHEDI
Pittore, scultore e incisore, Hassan Vahedi è nato il 10 novembre 1947 a Teheran, dove si è diplomato in pittura e scultura alla locale Accademia di belle arti. Ha partecipato insieme a letterati ed artisti del suo Paese al gruppo Talere Iran. Giunto in Italia nel 1974, ha studiato pittura con Montanarini e Trotti e scultura con Fazzini e Greco all’Accademia di belle arti di Roma. Ha partecipato a numerose mostre collettive e personali in Italia, Iran, Germania, Francia, Lussemburgo, Svizzera, Brasile. Negli ultimi anni ha presentato i suoi lavori a Roma in diverse gallerie, tra cui alla Fondazione Ducci Palazzo Cisterna in via Giulia, al Castello Aragonese di Reggio Calabria, presso le gallerie Homa, Hoor e Elahe di Teheran, alla Galleria disegnatori liberi di Teheran, al Museo d’arte delle generazioni italiane del ‘900 “G. Bargellini” di Pieve di Cento (BO), al Museo civico archeologico di Magliano Sabina (RI). Ha partecipato al Festival Internazionale dell’Arte per il Dialogo e la Pace tra i Popoli, a numerose edizioni della Rassegna internazionale d’arte contemporanea di Sulmona, all’ArteFiera
di Padova, alla Biennale Internazionale d’Arte di Ferrara, alla Fiera d’arte di Pordenone, alla Rassegna internazionale Libro d’artista. Risiede e lavora a Roma con studio in via Sirte n.40/a.
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PUGLIA
“Natalija Dimitrijević e Maria Trentadue” la mostra a Spazio Murat a Bari dal 2 luglio al 30 agosto 2020 dal Martedì al Venerdì dalle 9.00 alle 20.00 e il Sabato dalle 11.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 20.00 Via Appia Traiana - Piazza del Ferrarese, 2-3
Una mostra a due, che lega due artiste figurative, due tempi, due concezioni diverse eppure affini. Gli spazi interni, le case e le stanze della giovane Dimitrjević; e quelli esterni, le piazze, la strada di Maria Trentadue. Il contemporaneo, il qui e ora dialogano con gli anni ‘60 e il passato. La pittura e il territorio pugliese a fare da comune denominatore delle opere delle due artiste. La mostra si snoderà in due direzioni, una grande opera site specific di Natalija Dimitrjević, un dittico che l’artista di origine serba ha realizzato nei giorni prece-
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denti all’inaugurazione; e una serie di dipinti di Maria Trentadue che oltre alle tele comprenderà vasi, televisori, vassoi e altri supporti su cui l’artista pugliese era solita dipingere. La mostra, per la prima volta, non avrà un biglietto fisso ma - visto il momento di grande difficoltà per tutti una donazione volontaria che parte da un minimo di 50 centesimi. Questo per due motivi: sostenere lo spazio e la sua programmazione futura; permettere a tutti un accesso alla cultura il più sostenibile possibile.
MARIA PIA PARADISO Maria Pia Gigante, pittrice di formazione artistica autodidatta, opera nell’ambito dell’arte figurativa ispirandosi in particolare al paesaggio e riscoprendo un ambiente tipicamente mediterraneo. Le sue immagini molto chiare nella struttura e le caratteristiche dei luoghi raffigurati rievocano un mondo che sembra ormai dimenticato, esaltandone valori e sentimenti profondi. L’artista infatti si affaccia spesso alla natura raffigurando un fiore o un albero oppure illustra la realtà malinconica e sentimentale della sua gente, delle antiche case cangianti e del grigio dei muri. Particolare è l’atmosfera contenuta nei suoi dipinti. Numerose sono le rassegne d’arte alle quali ha partecipato in diverse città d’Italia, ottenendo sempre premi e riconoscimenti. Di lei hanno scritto numerosi critici ed è stata più volte recensita su giornali, riviste e pubblicazioni d’arte. Alcune sue opere fanno parte di collezioni private e di raccolte d’arte contemporanea italiane. e-mail: mariapiagigante49@gmail.com Facebook: Maria Pia Gigante Telefono: +393899005439
DOMENICO LASALA - Riposo del musicante - 2009 - olio e acrilico su tela - cm 100x100
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PUGLIA
VANNA VALENTE
Ultimamente ha esposto con due personali una serie di lavori a Palazzo Tanzarella, nel 2017 dal titolo “Le Diversità” e nel 2018 “Siria/ Mediterraneo”. Nel 2015 espone con una personale presso il Museo Crocetti di Roma. Partecipa: all’EXPO 2015 di Milano con un lavoro di ceramica; alla collettiva Pinacoteca Comunale E. Notte, 2014; Collettiva Palazzo Tanzarella 2014, Ostuni; 3° Biennale del Salento Palazzo Vernazza, 2014, Lecce; Mostra Internazionale della Ceramica 2013/2014, Castello Episcopio, Grottaglie; Expo Bari 2012; Personale di pittura Palazzo Nervegna ex Corte d’Assisi, 2012, Brindisi; 2° Biennale del Salento Castello Carlo V – Lecce; 54esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, Padiglione Italia, Puglia, Lecce, I Teatini; Triennale di “Arte Sacra” 2012 Arcivescovato di Lecce; Personale di pittura Palazzo Tanzarella 2008, 2009, 2010; Personale Palazzo De Felice 2010 – Grottaglie; Pinacoteca Comunale E. Notte, Castello Ducale 2010 – Ceglie Messapica.
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Organizzazione Anna Rita Palmisani Presentazione prof.ssaVincenza Musardo Talò Letture Raffaella Caso, Paolo Marchese
A21/Nego Akis (Ingrid Kuris) Maria Arces Claudio Ardizio Paolo Borile Barbara Bovio Cinzia Brena Alfredo Caldiron Maria G, Campagnolo Eugenio Cerrato GP Colombo Elisa Comotti Imelde D’Addario Federico De Icco Fiorello De Luca Vincenzo De Filippis Vittorio Di Leva Tommy Ducale Exos/Pespi Rosalba Ferilli Giuseppe Formuso Annamaria Gerlone Giannina Gobatto Rita Intermite
Dal
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Nino Landolina Stefania Maggiulli Alfieri Antonio Mannaro Rosy Mantovani Sandra Marcalli Gaspare Mastro Marcello Mastro Oronzo Mastro Pianono Mazza Enrico Meo Stefania Miele Flavia Neglia Gennaro Orazio Sara Pala Michele Pisati Alessandra Poggi Laura Polli Fontana M. Rosaria Quaranta Tina Quaranta Gabriella Rodia Fausta Roussier Fusco Mauro Roussier Fusco Renata Saltarin Edoardo Spagnulo Lidia Tangianu
al
23 Luglio
ore
19:00
Bottega Mastro - via Messapia, 42 GROTTAGLIE orario: tutti i giorni dalle ore 19,00 alle ore 21,00 lunedì chiuso
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BASILICATA
GIOVANNI SPINAZZOLA
Giovanni Spinazzola nasce a Ferrandina (Matera) nel 1972. Si diploma prima al liceo artistico di Matera, poi consegue il diploma all’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano). Tra gli anni 1991-1997 collabora con la stamperia d’autore La Spirale (dove apprende le tecniche litografiche, xilografiche, serigrafiche e calcografiche) e con la Leo Burnett Company. Successivamente lavora come Designer di mobili imbottiti con le aziende Nicoletti s.p.a. ed Ego Italiano. Fra le mostre più significative: XV Congresso Europeo per la cardiologia “Zambon Group”, Inghilterra; Concorso per conto della società Calvin Klein, Milano; Trenta ore per la vita a favore dell’AISM, Milano; Gruppo d’Arte, Cinisello Balsamo; Salon 1°, Brera, Milano; Gruppo d’Arte, Cinisello Balsamo; Partecipazione alla Giornata Mondiale per la pace Swatch-Peace Unlimited, Milano; Giovani Proposte, Galleria La Roggia, Palazzolo sull’Oglio, Brescia; I colori del vento, Milano; Couleurs Printaniéres, Cristal D’Argentiére, Francia; Insieme per donare 2001, Aula Magna dell’ospedale
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Luigi Sacco, Milano; Il Convito della Bellezza, salone Pontificio Seminario Regionale Minore, Potenza; I Custodi della Memoria Collettiva, Museo Provinciale, Potenza; Campionesi del III Millennio, Galleria Civica, Campione d’Italia; Cib’arte e Universo Cartesiano, Galleria d’Arte della Certosa, Milano; I custodi della Memoria Collettiva, Museo Provinciale, Potenza; Segni di fede nel battistero sul lago, Museo dello Stucco e della Scagliola Intelvese, Comunità Montana Lario Intelvese e Comune di Lenno (Co); Un Tempo e uno Spazio per l’omaggio alla bellezza, Salone Pontificio Seminario Regionale Minore di Potenza; Nuovi percorsi, Galleria “L’Ariete”, Potenza; PagliaronArte, Senise (Pz); Arte in Tasca, Centro culturale “Annotazioni d’arte”, Milano; Arte Estate Spinoso, Spinoso (Pz); Progetto scenografico del Recital Chi è come te tra i Muti?, Teatro “Due Torri”, Potenza; Rosari Virginis Mariae, Salone Seminario Minore, Potenza; Ciò che è infinitamente piccolo, artisti del 1900 e contemporanei, Galleria Civica, Palazzo Loffredo, Potenza; Personale Passante, Galleria Idearte, Potenza, Libro in arte – L’autunno profuma di libro, Castello di Lagopesole (Pz); Padiglione Italia alla 54. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia per il 150° dell’Unità d’Italia a cura di Vittorio Sgarbi, Galleria Civica Palazzo Loffredo, Potenza; I care (io me ne curo), Galleria civica, potenza; Personale cityscapes, Galleria idearte, Potenza.
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CAMPANIA
OLTREMARE opere di Vittorio Vanacore a cura di Michelangelo Giovinale
Il nero è quel lato oscuro della personalità di ciascuno di noi che rinneghiamo. È la notte della coscienza, di caverne, di ombre e di mostri. Coprente, denso, catramoso. Sospinto fino ai bordi. Il nero è una esperienza limite, per un artista una coltre insuperabile, un confronto durissimo. Un corpo a corpo con la pittura, fra il desiderio della vita e l’avanzare della morte. Spinto agli estremi delle tonalità, i colori segnano questo ultimo ciclo di opere di Vittorio Vanacore. Di fatto, la tela diventa per l’artista un’analisi sul mondo che lo circonda, uno sguardo che si allunga nella profondità dei drammi moderni, fra i tanti che Vanacore sente, uno si fissa forse più degli altri: l’impossibilità di riconoscere dell’altro la sua individualità. Negli ultimi anni Vanacore ha dato prova attraverso l’esercizio della pittura, di sapersi calare nel tessuto sociale del suo tempo
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- sempre più clandestino - dove i processi di integrazione e di multiculturalità, di dignità umana, si usurano nel respingimento, di un mare di mancati approdi, sulle cui rotte, naufraga, drammaticamente l’incontro con la vita e il desiderio dell’altro. Al centro di questa nuova produzione resta nella visione dell’artista, il tema del viaggio, esistenziale, più che di luogo, di luci - nella sua pittura poche - e di lunghissime ombre, di smalti rosso lacca, densi come grumi di sangue e il nero che persiste, tirato fino ai bordi, come botola esistenziale dell’uomo, dentro cui confinare, se non addirittura annullate, ogni traccia umana e ciò che resta del mondo reale. Vanacore, negli anni si è calato in una consistente esplorazione interiore, irrequieta, restituita nei tratti netti della sua pittura. Le recenti opere, segnano un cambio di prospettiva, da soggettiva a oggettiva.
Come se avesse voltato lo sguardo, da una visione interiore al mondo reale. Così com’è, nudo e crudo. Oltremare È sull’antico mondo Mediterraneo che Vanacore pone una persistente riflessione, un Mediterraneo che sente compromesso, quasi prosciugato, “un mare che non bagna più” irrimediabilmente perduto, nella la sua originaria unità di mare, unità di essere e divenire, che ha segnato, il tempo e la storia. L’altro, uomini altri, per patrimoni di conoscenza e di saperi, allo stremo delle forze, sono respinti, oltremare, solcano rotte come odisse, si dovranno accontentare di una vita al margine, condannati al destino di una invisibilità sociale. I fenomeni migratori, di sofferenza e di morte, di partenze e mancati approdi, segnano, agli occhi dell’artista, lo svuotarsi del contenuto dei luoghi e i luoghi del mediterraneo la loro progressiva perdita del paesaggio, in uno scenario di drammatica attualità. Il ciclo dei neri, la cui superficie pittorica è ustionata dalla forza violenta del sole cocente d’agosto -al termine di una lunga gestazione interiore - sconfina nel bianco calce fra cromie silenti come fantasmi. Nero, bianco e rosso lacca -i cicli che segnano questa ultima stagione pittorica- sono espressioni di sponde agli antipodi, senza gradazioni ne gradienti di identità. Contrasti perpetui che la sa arte racconta della vita. La poetica di un segno informale nella sua pittura, restituisce la sagoma fredda della realtà, nella sua manifestazione più cristallina ed anche più fragile, come le sue barchette di carta, adagiate, nelle sue opere, annegate dentro filamenti di garze, in un perenne e precario stato di equilibrio, su fili tesi, da un capo all’altro. Sono l’esatto contrario di ciò che fu per Ersilia, nelle Città invisibili, di Italo Calvino. Perdere l’uomo equivale a perdere il paesaggio. È l’elaborazione del lutto, della cosa amata. Direbbe Freud, è la perdita di tutto un mondo che ruota attorno alla cosa amata. È un gesto estremo il cellofan che Vanacore avvolge intorno alle sue opere. Un sottovuoto, chissà se è l’estremo tentativo di salvare “qualcosa” alla putrefazione del tempo. Il gesto sembra essere un rito tombale. Un velo di plastica, sul volto imbiancato dell’umanità. È il bianco ceruleo della morte, il rosso e nero della vita.
Un cielo sottovuoto sopra un mare privo di riflessi, di resti e di ceneri. Un mare oltremare. Ancora un filo teso ed una barchetta in equilibro “facendo in modo che la morte non sia l’ultima parola sulla vita”. Vittorio Vanacore È’ nato ad Aversa, vive a Casaluce (CE). Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Napoli, è docente di discipline pittoriche al Liceo Artistico Statale Solimena di S. Maria C.V. Caserta. Fonda il Museo MACS d’arte contemporanea, una vasta collezione di opere d’arti, esposte all’interno del liceo artistico dove insegna. Ad Aversa è promotore e socio di Spazio Vitale, una galleria d’arte contemporanea, che si è distinta per l’elevata qualità della programmazione annuale. Dal 1984 è presente in numerose mostre, in Italia e all’estero. I suoi lavori sono in collezioni private, musei italiani e spagnoli.
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CAMPANIA
È stata inaugurata il 12 giugno scorso la mostra “Gli Etruschi e il MANN”, a cura dell’archeologo Paolo Giulierini, etruscologo e direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e di Valentino Nizzo, direttore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia con l’organizzazione di Electa. La mostra, che era in programma al Mann a marzo ma era stata sospesa temporaneamente per l’epidemia di Coronavirus, abbraccia un arco temporale di circa sei secoli (X- IV sec. a. C.), e definisce un percorso di indagine che ricostruisce le fondamenta storiche di questa importante popolazione, quella etrusca, che aveva il controllo di due tra le più grandi e fertili pianure italiche, quella padana nel Nord e quella campana nel Sud. Un ricchissimo patrimonio di oltre 600 opere che abbraccia circa sei secoli e racconta e testimonia l’Etruria campana sarà in esibizione insieme ad almeno duecento opere, che saranno visibili per la prima volta, dopo essere stato oggetto di studio, documentazione e restauro. Due differenti sono le sezioni dell’itinerario di visita: “Gli Etruschi in Campania” che consente al visitatore di approfondire la presenza dell’antica civiltà nel Mezzogiorno e “Gli Etruschi al Mann”, che invece mostra i materiali etru-
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sco-italici che nel tempo sono stati acquisiti dal MANN. Ad arricchire l’esposizione napoletana anche un gruppo di materiali provenienti dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, ben 62 straordinarie opere, che facevano parte dell’intero corredo della celeberrima Tomba Bernardini da Palestrina (675-650 a.C.), sepoltura tra le più ricche e famose che il mondo antico ci abbia restituito, tanto da divenire un vero e proprio “manifesto” dell’età orientalizzante, epoca delle grandi rotte commerciali e degli scambi di beni di lusso su scala mediterranea. La storia della scoperta della Campania etrusca si configurerà, quindi, come uno dei capitoli più avvincenti della ricerca archeologica in Italia e nel Mediterraneo: in tal senso, il ricchissimo patrimonio, custodito nei depositi del MANN e studiato in occasione della mostra, fornirà uno spaccato inedito nel panorama espositivo internazionale. La mostra è accompagnata da un catalogo (Electa), a cura di Valentino Nizzo. Per l’occasione è stato inoltre edito nelle pubblicazioni scientifiche “Quaderni del MANN” il volume, a cura di Valentino Nizzo, Gli Etruschi in Campania. Storia di una (ri)scoperta dal XVI al XIX secolo, strettamente correlato alle tematiche della seconda sezione del percorso.
Michele Di Maio Artista Sorrentino di grande valenza
Michele Di Maio è stato un artista che ha dedicato tutta la sua vita all’Arte. Valido intarsiatore e pittore è stato uno dei più qualificati artisti della penisola sorrentina ; è morto all’età di ottantotto anni lasciandoci opere che resteranno nella storia e nella cultura del popolo della costiera e non solo. Disegnatore, miniaturista ha realizzato disegni originali di ornato ma anche figure particolari e caratteristiche per l’intarsio. Ha saputo catturare il mestiere dell’Artista dai più qualificati maestri della tradizione della tarsia lignea, realizzando numerose opere sempre di alto livello e ha sempre riscosso giudizi più che lusinghieri da critici qualificati. Si è dedicato anche alla pittura ad olio investendo la sua fantasia e il suo estro nel perseguire e raggiungere la classicità del passato che ritroviamo sopratutto nelle sue bellissime “ nature morte” e nei suoi “ ritratti “. Ha partecipato a varie mostre e rassegne anche internazionali, in particolare negli Stati Uniti. Ricordiamo il ritratto da lui eseguito per l’ex Presidente degli Stati Uniti J. Carter che attualmente è esposto al Museum Library di Atlanta, di S.S. Giovanni Paolo II del 1979 ( presso L’Osservatorio della Sede all’ONU di New York), dell’attore R.L. Scott (Mississipi -U.S.A) ancora i suoi pannelli decorativi “ Omaggio all’Arte italiana e ai prodotti e al folkrore della penisola. Ricordiamo ,infine l’Angelo Gabriele per la Basilica di San Michele a Piano di Sorrento e l’artistica Via Crucis in legno intarsiato di cui ha disegnato, progettato e diretto il
lavoro in opera esclusiva “La Via Crucis è l’estrema sintesi dello spirito, dell’amore e del sacrificio cristiano”. Così definiva il tema artistico della Via Crucis il maestro Michele Di Maio, in un articolo apparso in un periodico locale nel 1991, al momento della presentazione delle tavole intarsiate, realizzate sui suoi modelli, per la Basilica di Santa Maria del Lauro di Meta di Sorrento. Si sono interessati alla sua Arte moltissimi critici ed importanti riviste d’Arte, è stato premiato dalla città di Sorrento con medaglia d’oro di Benemerenza per l’Arte nella festività civica” Sorrento nel mondo” Possiamo dunque affermare che sicuramente ha lasciato con le sue opere un segno indelebile. Letizia Caiazzo
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CAMPANIA
2 GIUGNO 22 LUGLIO 2020 CAPPELLA PALATINA MASCHIO ANGIOINO NAPOLI
Ideata da Andrea Aragosa per blacktarantella a cura di Marco Izzolino e Carla Travierso
Ripartono le mostre a Napoli dopo le tante aperture di giardini, parchi e musei. Da non perdere Spiritus Mundi una mostra gratuita presso la Cappella Palatina del Maschio Angioino di Napoli Una delle prime mostre in città dopo la chiusura forzata che porta con sè una forte voglia di ripresa. Spiritus Mundi è una doppia personale di Hermann Josef Runggaldier e Mario Ciaramella che si potrà visitare gratuitamente al Maschio Angioino dal lunedì al sabato dalle ore 10 alle 17, seguendo le indicazioni della vigente normativa in sicurezza con mascherine e distanziamento.
Ben 50 sculture di varie dimensioni ci accoglieranno nella Cappella Palatina del Maschio Angioino, opere di due artisti Hermann Josef Runggaldier e Mario Ciaramella, che hanno scelto di vivere e lavorare nei propri paesi d’origine Ortisei e Luzzano.
Paesi molto piccoli che si trovano in due zone d’Italia molto diverse, in Val Gardena e in Valle Caudina, due valli, una a nord e l’altra al sud d’Italia, circondate da alte montagne, corsi d’acqua e da una rigogliosa vegetazione. Luoghi che senza dubbio hanno influenzato le sculture di Runggaldier e Ciaramella che hanno sviluppato un linguaggio grafico e plastico più immediato e universale, “essenziale e sintetico nel comporre la figura e tendente all’astratto nel differenziare le superfici, al fine di imitare i modi in cui la natura incide e modella le forme del paesaggio.” La mostra è a cura di Marco Izzolino e Carla Travierso, prodotta e ideata da Andrea Aragosa per Black Tarantella e promossa dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli
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I Tableau vivant di Serafino Stasi .
Tableau vivant significa «quadro vivente» e descrive uno o più attori truccati che rappresentano una scena come in un quadro vivente (un’immagine celebre o una scena religiosa). Per tutta la durata della performance, le persone non parlano e non si muovono. I Tableau si avvicinano a forme d’arte come pittura o fotografia. Il XIX secolo è per i tableau un periodo di grande splendore. È una forma di espressione artistica legata a una tradizione del passato, ma oggi più che mai sembra essere rinata sotto altre forme. Sono parecchi gli artisti che negli ultimi anni hanno riprodotto quadri noti per omaggiare grandi maestri del passato. Ciò che caratterizza questi lavori è una particolare attenzione al dettaglio, dalla progettazione alla composizione. Un lavoro meticoloso che termina con lo scatto fotografico. Pittura e fotografia, per anni, hanno cercato di far emergere le proprie caratteristiche: ora sembrano aver trovato un punto di incontro. Una collaborazione affascinante e didatticamente divertente. I quadri viventi hanno una storia antica. I modelli o attori, sistemati in pose espressive e statiche, riproducono le immagini di pitture e sculture famose. Modello dei tableaux vivants è l’arte, non la vita. I quadri viventi sono sopravvissuti rinnovandosi nel corso dei secoli. Si collegano con le ricerche fotografiche, filmiche e con le performance. Ho incontrato Serafino Stasi per parlare con lui dei suoi fantastici tableau vivant. Serafino, vive a Rende, ma nasce a Longobucco (CS) nell’89, dopo il diploma inizia gli studi di filologia e linguistica alla Sapienza di Roma, dove segue i corsi di Carla De Bellis, Tullio De Mauro e Luca Serianni. Si trasferisce a Milano lavorando prima per una casa di produzione, poi come assistente per fotografi di moda e per registi di spot pubblicitari. Tornato in Calabria segue corsi di tecnica fotografica di post produzione e inizia a lavorare come fotografo per Il Quotidiano a Castrolibero (Cosenza), per agenzie pubblicitarie, poi per Teleeuropa e con LaC radio, alle quali tuttora fornisce, tramite l’azienda per cui lavora, dei servizi. Dopo aver lasciato Publiora inizia a lavorare con la GG Produzione a Mirto. Nonostante gli impegni lavorativi è sempre molto attivo con mostre. È socio della proloco e di altre associazioni. Ha girato vari film documentari, cortometraggi e video clip musicali. È palese il suo amore per l’arte di Caravaggio che nasce dagli studi della visione estetica di Pasolini (poesia, arte, inquadrature). Un rifarsi al mondo del proletariato, degli umili, dei poveri che trova corrispondenza con le opere di
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Caravaggio dove sono presenti gli emarginati, infatti nei suoi lavori ha sempre coinvolto gli ultimi: pastori, barboni e povera gente. Guardando i sui lavori l’artista non vuole solo focalizzare l’attenzione dell’osservatore su Caravaggio ma vuole coinvolgerci e attirare la nostra attenzione sul contesto dove sono stati realizzati. Uno dei suoi tableau vivant riproduce il quadro della Crocifissione di San Pietro di Caravaggio. Rievocando una performance pasoliniana ha scelto suo padre per la figura del santo. Pasolini infatti preferì la madre anziana nel ruolo di Maria. Ho chiesto a Stasi quali differenze riscontra tra il suo quadro vivente e l’opera di Caravaggio. L’artista ha utilizzato uno strumento moderno per la rappresentazione, la macchina fotografica, ma ritiene che per certi versi Caravaggio risulta molto più moderno di lui. Infatti – afferma Serafino- nella crocifissione di San Pietro di Caravaggio l’asse longitudinale della croce segna lo spazio, la profondità di campo. La sua fotografia invece è piatta, quasi un bassorilievo. Le figure emergono dall’ombra e la croce non segna nessuna profondità di campo. Però questo andamento circolare, orario sembra quasi una ruota della morte, si ha-dice Serafino- con il mio lavoro una circolarità. A dare la profondità, alla fotografia del quadro vivente di Stasi, è la modellazione dei corpi con la luce, mentre Caravaggio ha creato la profondità utilizzando la prospettiva della croce. La ricerca dei volti, per Serafino, è un passaggio importante, da qui deciderà chi deve impersonare i lavori che andrà a realizzare: osserva i suoi concittadini o persone qualunque che attirano la sua attenzione per un tipico tratto somatico e da qui nasce in lui l’esigenza di contestualizzare quella persona in una cornice mitica o religiosa. Serafino ci racconta che i suoi lavori hanno una significato antropologico, i suoi tableau sono personificati da pastori o persone che hanno conservato lineamenti greci o asiatici. Li strappa alla realtà per un giorno. La progettazione dei suoi tabelau vivant sono lunghi, trascorre circa un anno tra un quadro vivente e l’altro. Tante le idee e i nuovi progetti in cantiere che ancora però non è riuscito a realizzare perché impegnato nel suo lavoro. Il suo sogno è poter completare il ciclo e realizzare una sua mostra. Alla fine della nostra chiacchierata confessa che è la prima volta che rende pubblici i suoi lavori. Felice di questa esclusiva faccio i migliori auguri a Serafino Stasi per tanti successi!!! Alessandra Primicerio (critico d’arte)
La statua di Scilla di Francesco Triglia.
Scilla era una ninfa dai bellissimi occhi azzurri diventata un terribile mostro marino in seguito a una vendetta d’amore. Figlia del dio Forco e di Ceto, fu resa celebre dal poema di Omero e dal personaggio di Ulisse. La sua triste vicenda è raccontata anche nelle “Metamorfosi” di Ovidio che narrano dell’amore ossessionato di Glauco per la ninfa e della furiosa gelosia di Circe, che condannò la povera Scilla a un’eternità da mostro negli abissi dello Stretto di Messina. Vicino lo Stretto di Messina Glauco scoprì le magiche proprietà di un prato e mangiò qualche filo d’erba. Subito dopo avvertì il bisogno di tuffarsi in acqua. Iniziò ad assumere le sembianze di un dio marino con una lunga coda di pesce e una barba dai riflessi verdi. Un giorno il dio Glauco si innamorò di una ninfa di straordinaria bellezza, Scilla che però lo rifiutò a causa del suo aspetto pauroso. Glauco allora si recò a Creta per chiedere alla maga Circe una pozione che accendesse d’amore Scilla, ma Circe innamorata di Glauco e respinta da lui si vendicò trasformando la ninfa in un orrido mostro marino. Buttò una pozione magica nelle acque in cui la ninfa era solita fare il bagno e il suo bellissimo corpo si tramutò: gambe da serpente e teste di cani rabbiosi. Per la vergogna Scilla scelse di andare ad abitare nelle profondità marine, in una profonda grotta vicino ad un altro mostro marino, Cariddi. La furia vendicativa di Scilla si abbatté sulla nave di Ulisse. L’eroe omerico sopravvisse ma perse sei dei suoi compagni. In seguito, racconta Ovidio, il povero mostro marino fu trasformato in uno scoglio ma continuava ad essere l’incubo dei marinai. La statua di Scilla è stata donata alla città il 26 luglio 2013 dalla famiglia di Giovanni Capua, un imprenditore reggino scomparso prematuramente, innamorato del borgo di Scilla. Inizialmente la statua era stata collocata sulla rosa dei venti che decora il pavimento di Piazza San Rocco. In seguito la scultura ha trovato il suo piedistallo proprio sulla tromba di questo. L’opera, che rappresenta Scilla nel momento della sua metamorfosi in mostro, è realizzata in bronzo. Le sue gambe si stanno trasformando in serpenti che terminano in teste di cane dai denti aguzzi, una però diventa una pinna. Il braccio destro della ninfa si allunga verso l’alto e con una mano Scilla si afferra la testa in un gesto di palese sconforto. Il braccio sinistro è abbandonato lungo il busto, la schiena è inarcata, la scultura mostra tensione e sofferenza per la punizione inflittagli ingiustamente. L’autore è lo scultore reggino Francesco Triglia che si dedica spesso a raffigurare creature mitiche, divinità ed eroi epici. Molte volte le sue statue, come quella di Scilla, sembrano consumate dal tempo perché Triglia inserisce crepe
e raggrumi della materia, Francesco Triglia nasce a Reggio Calabria nel 1951. Studia presso il Liceo Artistico del capoluogo calabrese, seguendo i corsi dello scultore Reginaldo D’Agostino. NeI1970 si trasferisce a Milano: segue le lezioni di Alik Cavaliere presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, si diploma in scultura e intraprende la libera professione. Scultore poliedrico con la passione per il divino e per la classicità della Magna Grecia realizza opere che vanno dal sacro al profano. Alessandra Primicerio (critico d’arte)
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Incontro con Rita Mantuano: iconografa, pittrice e poetessa un nuovo percorso di vita e di lavoro. Nel 2010 è nata Brutia, che ha dato il nome alla mia prima personale tenutasi a Cerisano presso Palazzo Sersale all’interno del prestigioso Festival delle Serre. D. Ci descrivi il tuo studio? Che ruolo ha per te? R. Non possiedo un luogo preposto “a studio” per creare le mie opere. Nascono all’interno della mia abitazione, dove vivo con marito e figlie, che forse da me influenzate sono diventate cultrici d’arte: la più grande studia archeologia. Le ho sempre portate con me per musei e siti archeologici sin da piccolissime. La mia casa è divenuta una sorta di galleria d’arte dove oltre ai miei dipinti si possono ammirare le opere di tanti cari amici pittori. Picking, Staytia, Minuti, Cianciaruso, Goyo, Morimanno, Vena. Ho una passione per i mobili antichi e spesso disegno su un antico scrittoio dove sono poggiati piccoli cavalletti, barattoli colmi di pennelli, astucci contenenti matite e colori vari. Valigette di colori a olio. Un disordine sovrastato da una mensola in legno posta a oriente dove sono in bella mostra alcune mie icone: il mio angolo bello, come nelle case russe. Esso veglia sul mio operato, dono di Dio. D. Ci sono forme o tecniche che privilegi? R. Naturalmente prediligo la tecnica bizantina che si esegue con la tempera all’uovo su tavola. Preparo io stessa queste ultime secondo la ricetta antica. Sebbene sia un lavoro faticoso, lo trovo affascinante e meraviglioso. Spesso ho utilizzato le stesse tavole per le mie opere di pittura tradizionale, non iconografica. Non disdegno gli acrilici che uso spesso per una questione di praticità. Mi piacciono i colori a olio per la morbidezza delle forme e le sfumature di colore che riesco a raggiungere. Ultimamente sto sperimentando tecniche materiche e studiando linguaggi nuovi utilizzando materiali di riciclo come lattine che taglio e inserisco nel contesto, lamina di rame, alluminio, foglia oro, foglia rame e argento.
Rita Mantuano è una iconografa, pittrice e poetessa cosentina. Ha presentato numerose personali di pittura patrocinate dal Ministero per i Beni Culturali. Ha ricevuto riconoscimenti in campo nazionale e internazionale . D. Quando e come nasce il tuo percorso artistico? R. Sin da bambina sono sempre stata attratta dal disegno e dai colori. Questo mi ha spinto a indirizzare i miei studi verso il Liceo Artistico della mia città dove ho conseguito il diplomata nel 1984. Dopo un periodo di pausa, nel 2003, ho ricominciato a prendere in mano i pennelli per dedicarmi all’iconografia. Da lì è iniziato
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D. Che ruolo ha il disegno nella tua pratica e in relazione alle tue opere? R. Non amo molto disegnare prima di eseguire, su tela, le mie opere. Sono un’istintiva e dopo aver concepito la mia opera nella mente disegno direttamente col pennello sul supporto scelto, che sia tela, carta o altro. Diverso è per l’iconografia dove il disegno è fondamentale per lo studio dei dipinti che seguono i modelli tramandati nei secoli. In questo caso mi impegno molto affinché’ il disegno rispetti i canoni iconografici. D. Come nascono i titoli delle tue opere? R. I titoli delle mie opere nascono nel momento in cui ho ben chiaro il concetto del lavoro da realizzare e in base alla tematica che mi ripropongo di trattare. Per le icone i titoli sono quelli tramandati dai modelli raffigurati da secoli.
D. Cos’è per te il sacro? R. Sacro, per me, è vita, speranza e rispetto. Una dimensione che mi e ci appartiene sin dalla nascita e da cui non possiamo prescindere.
D. Sei religiosa? R. Sono cattolica apostolica romana. Fiera di esserlo e innamorata di Cristo a cui devo tutto ciò che sono e tutto ciò che ho. D. Come hai scoperto l’arte dell’iconografia? R. E’ stata l’iconografia che ha scoperto me. Ad un certo punto della mia vita tutto mi conduceva verso essa. Ho conosciuto cosi padre Pino Stancari e le allieve del laboratorio San Luca che si trova presso la sua comunità a Quattromiglia di Rende. A loro devo l’introduzione in questo mondo. Ma ciò che è nato come curiosità è divenuto il mio cammino di vita, il mio riavvicinamento alla fede, trasmessa per tradizione ma, intiepidita nel tempo dagli accadimenti della vita. Ho cosi avuto modo di approfondire lo studio della Sacra Scrittura da cui nasce questa arte.
Incido con un punteruolo il nimbo e i tratti più importanti dei volti e delle vesti. Si procede con la doratura del nimbo che può essere fatta a missione o a bolo. Un momento delicatissimo non facile da eseguire. Dopo aver protetto l’ oro, si procede alle campiture del colore. Si riprende la grafia poi si passa agli schiarimenti. Si conclude con la scritta generalmente in greco che identifica il soggetto rappresentato. A quel punto dopo che il colore è ben asciutto si procede con la vernice protettiva. Un tempo si usava l’olifa una particolare sostanza oleosa che andava massaggiata sull’icona, quasi come un’unzione. Oggi si preferisce, per praticità tecnica, utilizzare vernici moderne perché l’olifa col tempo scurisce i colori. D. Quale aspetto ti affascina di più di quest’arte? R. L’iconografia è il mio mondo spirituale. Il mio luogo di pace e di incontro. La sua “prospettiva inversa” che pone il Punto di fuga fuori dalla tavola ci pone in contatto con il Divino in uno scambio d’amore continuo. Le figure al suo interno sono vive. Il fruitore non guarda l’opera ma è da essa guardato. Questo è ciò che mi lega indissolubilmente ad essa. Questo è il suo fascino. Quando si riceve in dono un’ icona, è l’amore di Dio che ci viene offerto. D. Qual è l’icona che preferisci? R. La mia icona preferita? Mi Sono perdutamente innamorata, a prima vista, del Pantocratore del Sinai. Il colpo di fulmine esiste. Posso confermarlo. Amo anche il modello della vergine di Vladimir. La manina di Gesù ‘ che abbraccia la Madre mi commuove sempre profondamente. Alessandra Primicerio (critico d’arte)
D. La tecnica di realizzazione di un’icona prevede diversi passaggi , vuoi parlarcene? La tecnica iconografica ha una serie di passaggi: per Primo la ricerca. Di solito quando devo iniziare un soggetto cerco di risalire al modello originale, studio il disegno nella perfezione della geometria. Dopo aver realizzato la tavola trasferisco il disegno sulla stessa.
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SICILIA
MARIO ODDO
Mario Oddo dipinge l’aria e la luce, l’atmosfera luminosa che accompagna da sempre la campagna iblea, sia nei prati che trasbordano dallo spazio iconico che nelle profondità lontane. Il colore ora fresco e pastoso, ora rarefatto e brumoso fluisce sulle colline tornite, tra gli alberi tondeggianti, robusti, virili come sentinelle sui campi , come guardiani dell’ombra del mito, sulle propaggini estreme di un territorio modellato dal lento scolpire dell’acqua e del vento. Verdi intensi, saturi di materia corposa, verdi vaporosi misti alla luce forte dei campi di Demetra, si accavallano come onde di un mare erboso e si intrecciano ora al blu gravido d’acqua, ora all’azzurro cristallino di armonie lontane. Spesso il giallo, come saetta del cielo o come duna dorata della campagna, taglia lo spazio e delinea l’orizzonte. A volte appare come bagliore dell’aurora tessuto all’orditura del luogo celeste. E’ un giallo dal tonalismo vibrante che come polline impalpabile copre i corpi terreni e risplende nell’aria, raccolta in nuvole gonfie, come convolvoli corposi. La campagna , riconoscibile nella sua identità forte, sfugge però ai connotati del luogo specifico. Assorbita dall’artista in occasioni infinite, essa lievita in silenzio per diventare altro, per assurgere ad una dimensione metafisica, in assenza di tempo e senza presenze umane, senza segni dell’uomo e quindi senza storia. Il paesaggio dell’Isola così diventa altro , non più luogo riconoscibile ma spazio nuovo, dimensione dell’intimo. Ogni visione dell’essere racconta il processo quotidiano di assorbimento e dissolvimento della memoria che, attraverso la creatività dell’artista , si fa madre di presenze nuove, di campagne del cuore, di paesaggi interiori. Quella di Mario Oddo non è dunque una visione impressionista, una immagine istantanea colta nel suo fluire temporale e non è nemmeno una visione edonistica costruita con pennellate di mestiere. Ogni paesaggio, ogni apertura di luce, è finestra dell’intimo, risultato trepidante di una creazione che passa dal travaglio profondo. I paesaggi di Oddo nascono così dal piacere e dal dolore, da una sofferenza che brucia il sonno della notte. Il turbamento finisce solo quando con
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mano febbrile, con respiro agitato, con gesto creativo, avviene la nascita del nuovo. E’ così che nelle ampie aperture paesaggistiche di Mario Oddo la visione degli occhi si fa viaggio del cuore, germoglio terrestre di una vita che va oltre il nostro passaggio. Ciò perché il gesto creativo è sempre risorsa del divenire , energia dell’anima di un’umanità nuova che avanza silenziosa con la luce del domani. Paolo Giansiracusa.
Un secolo d’arte in mostra: da Pirandello a Guccione, i capolavori del Novecento siciliano a Noto I capolavori del Novecento siciliano sono esposti nelle sale del Convitto delle Arti di Noto, dal 4 febbraio al 30 ottobre 2020, per raccontare l’importante ricerca artistica che ha influenzato la cultura dell’intero secolo fino ai giorni nostri. Prodotta da Mediatica ed organizzata da Sicilia Musei che vanta una lunga esperienza nelle mostre in Sicilia, l’esposizione “Novecento - Artisti di Sicilia. Da Pirandello a Guccione”, a cura di Vittorio Sgarbi, è un tributo ai siciliani e alla sicilitudine e si innesta perfettamente nel ciclo quinquennale, che ha visto Noto diventare palcoscenico di grandi allestimenti artistici. Una lettura pressoché unitaria, complessiva dell’arte siciliana, nel cui eclettismo predomina, per lo più, un fil rouge, quello del realismo, della figurazione, che, ad eccezione di alcune parentesi di sperimentalismo innovativo, non trova ostacoli nel suo percorso. Oltre 200 le opere in mostra: dalla grandezza solitaria di Renato Guttuso, alla purezza di Piero Guccione, trasmessa al Gruppo di Scicli; dal mondo realistico-sognante di Bruno Caruso, all’esoterismo di Casimiro Piccolo, al magico espressionismo di Lia Pasqualino Noto e tanto altro. Una mostra che racconta gli artisti siciliani e il Novecento allestita nel cuore del “Giardino di pietra” tra cui spicca la “Vucciria” di Renato Guttuso, giunta a Noto dopo la mostra a Montecitorio. Il percorso espositivo prevede il rispetto delle linee guida governative sulle norme anti contagio COVID-19 ed il
personale provvederà a far rispettare tutte le nuove disposizioni
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BENEDETTO POMA
Le Sirene di Ulisse
Benedetto Poma è senza dubbio una delle personalità più interessanti del panorama artistico siciliano. Nato e cresciuto a Catania, Poma si fa portavoce di una sicilianità depurata da falsi miti e ricontestualizzata in chiave contemporanea attraverso l’utilizzo quanto mai modernizzato di antiche glorie architettoniche e culturali tipiche della nostra terra di Sicilia. Il mito, in questa sua ultima fase produttiva pittorica, è il protagonista principale, trattato con magistrale perizia grafica e un superbo utilizzo del colore. Ulisse è il pretesto per la ripresa dell’antico, ma spunto essenziale per un nuovo viaggio omerico, Medusa, Ares e anche la fedele Penelope, le sirene altro non sono che l’alter-ego di ogni uomo, il quale percorre il proprio viaggio di vita. Il viaggio è infatti la metafora della vita stessa, se non si percorre non si giungerà mai alla consapevolezza di sé. Ogni divinità o personaggio dell’Odissea funge da specchio in cui ogni individuo può riflettersi scorgendo debolezze o punti di forza e lo fa lasciandosi accompagnare dalle superlative note artistiche di spettacolari spaccati di brani omerici o incantevoli volti di divinità greche fattisi pittura, segno, forma. Poma attinge dalla sua Musa, che in questo contesto, altro non è che una piccola gemma blu risalente al V sec. a.C., lavorata a stampo che l’artista ha potuto ammirare tra le numerose e preziosissime collezioni custodite al museo della Mandralisca di Cefalù, Palermo, appartenute un tempo al barone Enrico Pirajno di Mandralisca. Splendide le tele raffiguranti Penelope, Proserpina, Ares o il Centauro e le sirene, le quali alcune riportano riprodotte queste antiche gemme, tele che ci immergono nella mitologia ma attraverso una visione attuale che è ben lungi da mere riproduzioni di un nostalgico passato. Carmen Bellalba
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Pegaso
Ares
SICILIA
SICILIA
FABIO MODICA
Becoming Colour - cm 85x95
Abandoned Circe - cm 50x60
Seguo da molti anni la pittura di Fabio Modica continuando, attraverso l’osservazione meditata dei suoi quadri, un’esperienza culturale intensa, a tratti sofferta, ma sempre particolarmente significativa. Non credo che un’analisi razionale possa esprimere compiutamente il fascino misterioso dei suoi quadri e soprattutto dei suoi volti. L’artista, pur mantenendo una certa aderenza alla realtà, attraverso il colore denso, materico, attraverso l’uso della spatola, viva nelle sue mani, “costringe” l’osservatore a superare ogni barriera logica per proiettarsi in una dimensione sconosciuta nella quale l’intuizione genera bagliori improvvisi e la forma,il segno,il colore squarciano, a volte in un grido, a volte in un sussurro, il velo di mistero che avvolge il senso dell’esistenza umana. Credo che la ricerca inesausta, mai compiutamente appagata, sia il tratto più significativo della pittura di Fabio Modica, ma l’elemento che assume maggiore rilevanza è la sua capacità di coinvolgere l’osservatore, di avviare con lui un dialogo, un percorso in cui i colori si fanno parola, il segno si fa musica per cantare la totalità della percezione e un mondo nuovo e diverso nasce dai suoi quadri, un mondo che non conosce la banalità del quotidiano e lo squallore meschino dei condizionamenti, un mondo che stordisce per l’intensità emotiva che genera
Evasion CMYK - cm 150x150 - 2013
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e… perdersi può significare rinascere, rigenerarsi nel miracolo operato da un’arte tanto sincera da apparire disarmata Non c’è nella pittura di Fabio Modica alcuna aprioristica difesa, non c’è l’esibizione di una “concezione” dell’arte razionalmente elaborata. C’è l’esperienza culturale ed esistenziale di un artista che si accosta alla vita, e soprattutto all’uomo, per coglierne il senso, quell’essenza vera che si cela dietro gli eventi, i riti sociali, la fretta inesausta e le nevrosi che caratterizzano lo smarrimento dell’uomo contemporaneo; c’è quanto meno il desiderio di esprimere, come dice Montale, “ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. I suoi volti sono a tratti inquietanti per l’abisso che spalancano davanti ai nostri occhi, per il nulla che ci circonda consapevolmente e compiutamente espresso; spesso, invece, ci esaltano per la forza vitale che li pervade restituendoci in parte il panismo di D’Annunzio e di altri autori decadenti, ma c’e in Fabio Modica qualcosa di nuovo e di diverso; c’è la vita che scorre nella forma e nel colore, c’è l’accettazione consapevole dell’angoscia e il suo superamento che, proprio per questo, conduce alla percezione dell’eterno, c’è l’armonia che colma ogni vuoto esistenziale e che manifesta il “miracolo” delle cose. Prof. Rosario Motta
Awakening - mixed media on canvas - cm 180x150
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