CARMASSI 2 APRILE - 5 MAGGIO 1999
F I R E N Z E S A L A D’A R M E PALAZZO VECCHIO
EDIZIONI “IL PONTE” FIRENZE
A MARYSE
SOMMARIO/CONTENTS Jean-Marie Drot 009 017
Benvenuto Carmassi a Palazzo Vecchio Welcome to Carmassi at the Palazzo Vecchio Bernard Manciet
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Piena terra The Hearth in her Fullness Marina Pizziolo
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OPERE/WORKS
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Alla deriva del tempo Adrift in Time
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Opere/Works
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Note biografiche/Biographical Notes Bibliografia essenziale/Selected Bibliography
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Films e principali interviste radiotelevisive Films and Mine Radio and Television Interviews
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Indice delle tavole/Index of Plates
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Illustrazioni nel testo/Illustrations in the Text
Curatori Marina Pizziolo Andrea Alibrandi
Progetto espositivo Studio Donnamaria, Firenze Arch. Gian Pietro Bartolini
Fotografie Carlo Chiavacci, Pistoia Françis Druart, Arles
Illuminazione iGuzzini
Traduzioni Andrea Alibrandi Maryse Druart Carmassi Christopher Evans Anne e Michael Screech
Allestimento Francesco Scaglione Francesco Chiesi
Selezioni cromatiche Selecolor, Firenze Fotocomposizione PuntoPagina, Cascina (Pisa) Stampa Bandecchi & Vivaldi, Pontedera (Pisa) © 1999 EDIZIONI “IL PONTE” FIRENZE Firenze, via di Mezzo, 42/b Tel./fax 39.55.240617
Ufficio stampa DF Studio, Firenze - Pisa Ester di Leo - Rosi Fontana Segreteria organizzativa Alibrandi s.r.l., Firenze
Questo volume a cura di Andrea Alibrandi è stato stampato dalla Tipografia Bandecchi & Vivaldi di Pontedera per i tipi delle Edizioni “Il Ponte” Firenze Firenze, marzo millenovecentonovantanove
BENVENUTO CARMASSI A PALAZZO VECCHIO
Ci sono poche persone che sanno vedere, ben vedere, vedere pienamente... Se sapessero guardare, comprenderebbero meglio la pittura P. Bonnard
Conosco Carmassi da più di trent’anni. Sono suo amico. Lui è mio fratello. Ammiro molto il suo lavoro che malgrado numerosissime esposizioni in Francia e in Italia resta ancora dominio del segreto. Paradossalmente all’alba del XXI secolo Arturo è un’artista, fra i più grandi, che dobbiamo ancora situare al suo vero posto in Europa. Nel presentare a Firenze, in Palazzo Vecchio, i dipinti più recenti di Carmassi, il cerchio degli iniziati si va ingrandendo. Mi auguro di tutto cuore che gli indifferenti acconsentano a lasciarsi operare della cateratta per vedere infine queste opere potenti che ci arrivano direttamente da una delle provincie più civilizzate della terra: la Toscana. Mi colpisce, guardando indietro nel tempo, la tenacia di Carmassi che ricomincia ogni giorno le sue ricerche, senza lasciarsi influenzare dalle mode, facendo affidamento, nell’isolamento orgoglioso del suo atelier, a non so a quale stella dei Re Magi della pittura. Indovino in lui quella testardaggine appassionata dei primi navigatori che si avventurarono sull’oceano alla conquista di un nuovo mondo. Niente svierà mai Carmassi dalla sua rotta, dalla sua visione. Carmassi, l’ho visto e seguito così spesso per le strade e nelle notti di Milano, di Venezia... e poi, un bel giorno, improvvisamente, sempre accompagnato dalla bella e indimenticabile Maryse (quest’angelo guardiano disceso, soltanto per lui, dalle torri della cattedrale di Reims), Carmassi è andato a chiudersi al Poggetto, in faccia a San Miniato, in mezzo a olivi e vigne. All’inizio siamo stati in molti a pensare a un capriccio di un nottambulo che si trova a proprio agio, per qualche mese, a rimpiazzare i rumori della città con il coro delle cicale. Tutti noi abbiamo creduto che Arturo non avrebbe sopportato questo esilio campagnolo, d’altra parte, sembrava che la sua opera dovesse ben poco alla contemplazione della natura. E tuttavia, insieme Maryse e Arturo sono vissuti là, proteggendosi l’un l’altro. Lei, regnando 10
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sul giardino, sulla casa, minuziosa organizzatrice d’una convivialità calorosa e principesca dove ogni convito era la festa degli affetti. Lui, passando gran parte del tempo nel suo atelier silenzioso e quasi interamente protetto dalla luce del giorno. Un antro. Una caverna. Il focolaio delle sue successive scoperte. E’ là che ho visto Carmassi battersi con il Minotauro. Nel 1969, mi sovviene, ci fu Teseo il vincitore che portava le spoglie del Minotauro; nel 1970, la serie enigmatica del Labirinto; nel 1973 La nascita di Dioniso; nel 1975 La nascita del Simbolo seguito quasi subito da La lotta del Minotauro. Perchè in Carmassi tale ossessione? Perchè in questa terra apparentemente cristiana, la Toscana, una tale fedeltà a questo essere mostruoso, la cui testa era di toro e il corpo di uomo: il Minotauro, figlio di Pasifae che aveva tradito suo marito, il re Minosse, con un toro inviato da Poseidone. Arturo non si curava certo di questo guazzabuglio degno di un’opera di Rossini, anche se era trasposto nello scaltro paradiso degli dei dell’Olimpo. Carmassi era affascinato dalla Bestia. Pazientemente, nel suo atelier del Poggetto, l’ha disegnata, dipinta, osservata alla lente in ognuna delle sue metamorfosi. Durante gli anni il Minotauro ha trascinato Arturo nella sua scia, all’interno del famoso labirinto cretese, esattamente come nel Vecchio e il mare il pesce mostruoso trascina il pescatore sempre più lontano verso il largo (o verso se stesso?) Petto a petto, in una complicità virile, io li rivedo. Carmassi e il suo Minotauro che danzano un interminabile tango nella luce violetta del crepuscolo, che filtra attraverso gli olivi in cima alla collina. Il Minotauro non era solo. Arturo gli aveva donato tutta una parentela di donne e di uomini che compiono evoluzioni fra le architetture di un’epoca incerta, ma altamente ari-
stocratica, creature agghindate con sontuose parures, vestiti, mantelli, cappucci, cappelli da cardinale, che si potevano credere usciti dalle quinte di un teatro dove si recitava, a botteghino chiuso, il Concilio d’Amore di Panizza. All’epoca, alla Torre, tutto era guidato tambur battente da Eros. Bellezza convulsa, tensione, minaccia, profanazione. E’ per questo che le sue tele degli anni ’70 furono preservate dal pericolo manierista, per la forza della tempesta sessuale che batteva all’interno di ogni tela, folle campana che suonava una sorta di sabba. Penso più precisamente a quei quadri-affreschi come Le tentazioni di Sant’Antonio (1969) o ancora Gilles de Rais (1970), ritratto da Carmassi con le mani insanguinate, lo sguardo fisso, sfidante il cielo, come Don Giovanni di fronte al Commendatore... Il Poggetto era allora un vero tempio pagano e senza dubbio, certe notti senza luna, in una delle cantine prima riservate alla fermentazione del mosto, si svolgeva alla luce delle candele qualche cerimonia iniziatica. Il Minotauro faceva ormai parte della famiglia. Domato, ammansito? Chi potrebbe dirlo? Poi, verso la fine degli anni ’70, ai margini del silenzio, l’opera di Carmassi si modifica completamente e cambia direzione. Mi ricordo che, nel 1980, durante le riprese del film che gli fu dedicato nella serie L’Art et les Hommes, mi aveva confidato: Dopo la fine dell’ultima guerra il mondo che ci circonda è stato completamente sconvolto. Niente è più allo stesso posto. Nello spazio, i satelliti fanno il giro della terra in qualche ora. Il microscopio ha vinto l’infinitamente piccolo. I segreti della materia sono varcati e utilizzati per distruzioni fino ad oggi inimmaginabili. Tutto cambia e solo la pittura non avrebbe il diritto di cambiare. Perchè? E naturalmente Carmassi si è lanciato nell’elogio di Picasso, l’artista per eccellenza che, giustamente, ha sempre tutto ricominciato.
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Allora, come se si fosse separato dalla loro presenza evanescente, in modo brutale, d’un gesto, Carmassi aveva congedato la sarabanda di personaggi ambigui e lussuriosi. All’immprovviso, al Poggetto più nessuno. Una ricaduta di febbre. La calma delle acque dopo l’uragano. Curiosamente il movimento sotto voce di questo ritorno a sé coincide con una grave operazione subita da Carmassi proprio nella parte di quest’altro labirinto interiore, dove gli antichi Greci localizzavano l’anima. Assai velocemente Arturo si lancia in una nuova avventura che contraria non poco i suoi collezionisti, i suoi mercanti, ostili per natura a quesso modo disinvolto di marinare la scuola, facendo scomparire racconti e personaggi ai quali, essi, si erano appena abituati... Carmassi crea allora per se stesso, sempre in un’ostinata solitudine, un alfabeto perpetuo, come per riapprendere una scrittura altra. Il Poggetto si rinchiude su se stesso. La luce è accuratamente smorzata all’interno delle camere a poco a poco disertate dai figuranti della festa. In cima alla collina la casa del maestro diventa una scuola d’algebra e di geometria. Arturo riscopre le gioie della sperimentazione e della proiezione nello spazio. Di nuovo, e più severamente, egli segnala il suo territorio. Al bordo dei campi di grano, all’ombra degli olivi, le sculture di Carmassi sono la trasposizione in volumi neri e rossi delle ultime equazioni matematiche verificate, premeditate nell’incisione e nella litografia. Carmassi il Toscano si presenta calligrafo. Compone i suoi poemi in una lingua inventata di sana pianta e di cui resta gelosamente il solo a conoscere le equivalenze in italiano e in francese. Dalla sua prima partitura astratta alla seconda neo-surrealista popolata di creature mito-
logiche, alla terza tutta interiore, scarna, Carmassi è vissuto nella sua campagna come un demiurgo che sperimenta e precisa la sua visione del mondo. Per lui conta solo questo duello che ricomincia ogni giorno con la tela bianca. Un combattimento, un confronto? No, piuttosto la colata tellurica di forze interiori e veementi che niente e nessuno può fermare. Come per André Masson, con il quale spesso Carmassi è apparentato nella rivolta, senza tuttavia subirne l’influenza artistica, tutto va bene per costruire, di tela in tela, un universo vitalistico: sabbia, cera, cartone ondulato, catrame, collage, mallo di noce, vecchie stoffe, legno di steccato... Mi sovviene più specificatamente Firenze... Firenze (1975), L’enfant gâté (1978) Immenso Celeste (1986) Honneur à Picasso (1987), Simulacro del Rosso (1988) o ancora Bonjour mon amour (1989) e La Regina di Saba (1990). Ogni giorno Carmassi discende nell’atelier-caverna del Poggetto per continuare il combattimento, indifferente a tutto ciò che è estraneo alla sua ricerca. Poi, nel giugno scorso, tutto vacilla. Maryse è scomparsa. L’alta solitudine ha inizio. D’un tratto la casa è troppo grande. Sulle scale si spera d’intendere ancora il rumore familiare di un passo, il suono di una voce che si è spenta. Che fare? Lavorare, dipingere. Per pensare a lei. Per raggiungerla. Per vincere, se si può, la notte. Con Teofania, questo dipinto-rilievo in nero e marrone e con In Albis due opere dell’estate 1998, di nuovo al Poggetto la musica cambia e diviene requiem. Lontano dai giochi estetici, all’opposto della derisoria arroganza minimalista o concet-
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tuale, forzando più avanti l’esplorazione già avviata nel 1991 con la serie vudu, La Grande Brigitte, Le Baron Samedi, Le Moment du couteau, etc., Carmassi vuol scongiurare l’assenza. Carmassi oltrepassa l’ultima porta. Fratello degli scultori anonimi dell’Africa e dell’Oceania, Arturo tenta un atto di pura magia: attingendo al fondo di se stesso le forze della tenerezza, ritrovando le vecchie formule incantatorie, Carmassi mantiene vivo e allo stesso tempo approfondisce il dialogo con la scomparsa: Maryse è là nella Teofania, all’interno di In Albis, non ritratta ma presente in filigrana. Oramai, ai miei occhi, ogni dipinto di Arturo diviene un talismano e suscita in me un’emozione primordiale, quella che ci scuote quando ascoltiamo gli ultimi quartetti di Beethoven, quando contempliamo lo spettacolo di un mare in tempesta, un bombax gigante nella foresta equatoriale, o ancora, in un museo o in una chiesa, un capolavoro.
WELCOME TO CARMASSI AT THE PALAZZO VECCHIO
Jean-Marie Drot Traduzione di Andrea Alibrandi
There are few people who know how to see, see well and see fully... If they knew how to look they would understand painting better. P. Bonnard
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I have known Carmassi for more than thirty years. I am his friend. He is my brother. I greatly admire his Œuvre which, despite numerous exhibitions in France and in Italy, still remains a secret realm. It is strange that near the dawn of the 21st century Arturo Carmassi should be one of the very greatest of artists who has still to be situated in his rightful place within Europe. This presentation of his most recent paintings, here in the Palazzo Vecchio, will expand the circle of his admirers. I hope with all my heart, - di tutto cuore -, that those who are not moved by him will have the cataracts removed from their eyes so as at last to see these powerful works of art which come directly to us from one of the most civilised of provinces in the world: Tuscany. Looking back, I am struck by the tenacity of Carmassi who, each day, in the proud isolation of his studio, takes up his quest afresh, never deigning to be influenced by fashion but putting his trust in the mysterious star which guides the Magi of the painter’s art. I recognise in him the passionate doggedness of those first seamen who braved the high seas to conquer the New World. Nothing will ever divert Carmassi from his path and from his vision. I saw Carmassi and so very often followed him at night through the streets of Milan and Venice..., and then suddenly, one day, for ever accompanied by his beautiful and unforgettable Maryse (that guardian angel who, just for him, flew down from the towers of Rheims Cathedral), Carmassi withdrew to Il Poggetto, facing towards San Miniato, in the midst of vines and olive-trees. At first many of us thought it was just the fancy of a city late-to-bed who, for a few months, found it pleasant to exchange the din of the town for the song of the cricket. We all believed that Arturo would not be able to bear that rural exile, not least because his œuvre seems to owe so little to the contemplation of nature. 18
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And yet Maryse and Arturo went on living there together, taking care of each other. Maryse held sway over the house and the grounds; it was she who organised in every detail that warm and princely conviviality which made each meal a festival of friendship. Arturo spent the best part of each day in his silent studio, almost always shielded from the light. It was a den, a grotto: the holy ground in which he uncovered his successive treasures. It was there that I saw Carmassi wrestling with the Minotaur. In 1969, I remember, it was Teseo che trasporta il Minotauro; in 1970, the enigmatic series of Le Labyrinthe; in 1973, La Naissance de Dionysos; in 1975, La Naissance du Symbole, followed almost at once by La Lutte du Minotaure. Why did Carmassi harbour such an obsession? Why, in so apparently Christian a province as Tuscany, did he remain so loyal to that monstrous creature with the head of a bull and the body of a man - to the Minotaur, the son of that Pasiphaë who had deceived her husband, King Minos, with a bull sent her by Poseidon? Such a jumble of nonsense is worthy of a Rossini opera, and Arturo scoffed at it even when transposed to the wily paradise of the gods of Olympus. What fascinated Carmassi was the Animal. Patiently, in his studio at Il Poggetto, he drew it, painted it, observed it in each of its transfigurations. For many years the Minotaur drew Arturo after it right into the heart of the famous Cretan labyrinth, just as the huge fish in The Old Man and the Sea draws the fisherman further and further out into the ocean (or is it into himself?). I can see them now, locked chest to chest in a manly struggle, Carmassi and his Minotaur dancing an endless tango in the purple light of the dusk that filters between the olive-trees at the top of the hill. The Minotaur was not alone. Arturo had given it a whole set of relations: women and
men moving about amidst architecture of some indeterminate but high aristocratic age in which creatures were bedizened in sumptuous costumes, robes, cloaks, capes, cardinals’ hats, all coming, you might think, from the props of a theatre staging Panizza’s Conseil d’amour to a full house. Eros then roundly held sway at La Torre di Fucecchio. Convulsive beauty, tension, menace, profanation. That is why those canvases of the 1970s were saved from the risk of mannerism by the force of the sexual storm which raged within each canvas, a frenzied peal summoning to a kind of witches’ Sabbath. I am thinking here more precisely of those fresco-paintings, of La Tentazione di S. Antonio (1969), or again of Gille de Rais (1970) as portrayed by Carmassi: bloody hands, staring, heaven-defying eyes, like Don Juan confronting the Comendador... Il Poggetto then was a veritable pagan temple, and one could even imagine that, on certain moon-less nights, deep in some cellar set aside in days of yore for the fermenting of the must, a ceremony of initiation was enacted by candlelight! At that time the Minotaur was part of the family. Tamed? Domesticated? Who can tell? Then towards the end of the seventies, on the very marches of Silence, Carmassi’s Œuvre utterly and completely changed form, branching off on to another way. I remember what he confided to me in 1980, during the making of a film dedicated to him in the series L’Art et les Hommes: ‘Since the end of the last war, the world around us has been completely turned upside down. Nothing is now in the same place. In a few hours satellites go round the world in space. The microscope has conquered the infinitesimally small. The secrets of Matter have been penetrated and exploited as a means of hitherto unimaginable destruction. Everything is changing: only the painter should have no right to change! Why?’
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And then, very naturally, Carmassi threw himself into the praise of the artist who, par excellence, always began every single thing anew: Picasso. As though he had had enough of their invasive presence, Carmassi, with a rough gesture, dismissed the stately dance of his ambiguous and voluptuous creatures. Suddenly there was no-one left in Il Poggetto. The fever abated. Still waters after the storm. Strangely enough this subdued return to himself coincided with the serious operation that Carmassi underwent, in that part of the other - internal - labyrinth, in which the ancient Greeks situated the soul. Quickly Arturo threw himself into a new venture which greatly vexed his collectors and dealers, who by nature are opposed to any such casual truancy which expunges the very tales and characters which they have just grown used to! Carmassi, a stubborn hermit still, then created for himself a ‘perpetual alphabet’ as if to learn afresh a different way of writing. Il Poggetto withdrew into itself. The light was carefully filtered within rooms gradually deserted by the players who figured in the revels. Atop the hill the Maestro’s house became a school for algebra and geometry, Arturo again discovered the joys of experimentation and of projection within space. Once again, but more severely, he marked out his territory. Beside the fields of corn, in the shade of the olive-trees, Carmassi’s sculptures become the transposition, in masses black and red, of the ultimate mathematical equations which he had verified and previously contrived in engraving and lithograph. Carmassi, the Tuscan, now sets out to be a calligrapher. He composes his poems in a language which he has entirely invented, whose equivalents in Italian and French he alone jealously guards.
From his first abstract composition to the second neo-surrealist one peopled by mythological creatures, and to the third, entirely inward and stripped bare, Carmassi has dwelt on his land like a demiurge who tries out and focuses his vision of the world. The only thing that matters to him is that daily-renewed duel with the white canvas. Is it a struggle? a confrontation? No, it is rather that tellurian flow of inner violent forces which nothing and no-one can stop. As with André Masson (of whom Carmassi is a blood-cousin in revolt without being subject to his artistic influence) anything may serve to construct, on canvas after canvas, a vitalist universe: sand, wax, corrugated cardboard, tar, collages, walnut shells, old rags, wood from fences... In the eighties and nineties Arturo never stopped inventing, breaking new ground, turning Il Poggetto into the hive where a pictorial encyclopedia was worked out in detail, in order to give meaning to our impoverished world as it sinks into the grey of uniformity. Here is a new science of signs, opening for us a door on to light. I particularly remember his ‘Florence’ - Firenze (1975), - his L’Enfant gâté (1978), his Immenso Celeste (1986), his Honneur à Picasso (1987), his Simulacro del Rosso (1988), or again, Bonjour mon amour (1989) and La Reine de Saba (1990). Each day Carmassi went down into his studio/cave in Il Poggetto to carry on his struggle, indifferent to everything which was a stranger to his exploration. Then, in June last year, his universe collapsed. Maryse died. The beginning of great loneliness. All at once the house is too big. He still hopes to hear a familar footstep on the stair, the sound of a voice that is stilled. What can he do? Work, paint. So as to think of her; to be with her. To vanquish, if he can, the night.
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With Teofani - that relief-painting in black and brown - with In Albis, two works of the summer of 1998, the music of Il Poggetto changes and becomes a requiem. Far from aesthetic games, at the antipodes now of silly minimalist or conceptual arrogance, and pushing further that exploration he had already launched in 1991 with the voodoo series: La Grande Brigitte, Le Baron Samedi, the Moment du Coûteau, and so on, Carmassi strives to conjure that sense of absence. Carmassi passes through the last portal of all. A brother to the nameless sculptors of Africa and Oceania, Arturo attempts an act of sheer magic: drawing up from the depths of himself the power of tenderness, re-discovering the ancient formulas of incantation, Carmassi maintains his dialogue with Maryse and even deepens it: she is there in Teofania and In Albis, not as a portrait but in filigree. Henceforth, to my eyes, each of Arturo’s pictures is like a talisman: each arouses in me a primordial feeling, such as we experience when we listen to the last quatuors of Beethoven, when we contemplate the spectacle of a raging sea, a giant silk-cotton tree in the equatorial forest, or, again - in a museum or a church - a great masterpiece. Jean-Marie Drot
PIENA TERRA
Translation by Anne and Michael Screech
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PIENA TERRA Qui, niente cielo, alcun soffio d’aria, niente mare. Terra in tutto e per tutto. Lei ha le sue onde, i suoi riflussi, le sue correnti, le sue paludi di stagno, i suoi Stigi di bitume. Ha il suo etere bluastro e i suoi carboni risuonano in un cielo sprofondato. E nessun fuoco. Perché essa ha i suoi braceri oscuri, le sue scie di bava e i gioielli che gli ha lasciato il passaggio di Satana, dal più ardente al più bruciato dei topazi. Madre universale eclamptica, fa appello a Carmassi, per prodursi in se stessa. Spersa nei suoi spasmi terrificanti, gli chiede dei segni direzionali. Perché egli conosce l’arte del juke-box della geomanzia, abile nelle sostituzioni delle macchie di sabbia e di dita. Lei non ha più nei suoi parkings inferiori, nelle sue brume profonde, immagine alcuna. Ma Carmassi saprà assestargli le sue configurazioni e le mille sfaccettature ripetitive del cristallo. I mostri che partorisce la soffocano, ma Carmassi, per cabala e alchimia, saprà ben liberarla per farla rinascere in idoli santi. E già, sotto le sue spatolate di gesso, i suoi sbalzi insinuanti, le sue incollature di piallacci, i suoi collage, «l’enorme terra» si organizza e riorganizza, «provando nel suo cuore un grande giubilo». CALLIGRAFIE Nel più profondo della terra, a partire da questo tartaro brumoso pieno di timori, si trovano, secondo il vecchio rapsodo, «le larghe strade». Da ogni parte appaiono segnalazioni nere, avvertimenti luminosi, sia sbarre verticali, sia curve che si ricurvano, sia pali di senso vietato. Gli allarmi si susseguono, il tau, l’angolo ottuso, le loro combinazioni diverse, e quelli di spalle e di halteres, di coscie e di intagli, sotto un ventre che gira. «Attenzione paesaggi!». Le nebbie giacenti per strati succedono al sole avvolto sugli en26
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fiori. Lo specchio rotondo, l’anguilla, il giglio ci prevengono del peggio: il fiore dell’uomo dalle sei estremità incandescenti. Il profeta di Meaux rincara la dose: «Male alla terra, male alla terra, ancora una volta male alla terra». Perché lei sa di essere colpevole di mostri. Nel puro vuoto, «l’erebo e la notte», gravida di una legge di ribellione, sgrava, questa vergine-cagna, delle serie di punti, di virgole, d’accenti circonflessi, un’intero cielo stellato, un cielo dattilografo di segni automatici, vibrioni cercatori, trappole che si intrappolano tra di loro, si moltiplicano, si attirano, si evitano, in un gran fracasso di vetrata bombardata. La terra «ne geme», allorché lui «la copre tutta intera» e con un’ampia virata si richiude sulla distesa aracnea di un K osceno, o sull’oscenità di quello che chiamiamo un volto. Insorge con uno slancio ricurvo, sfrecciante, o con una mano aperta che grida: «halt!» con dei sussulti da scatola del cambio. La mischia resta incerta. Talvolta la bruma bassa con la notte spessa si arrotolano in una spirale a molla. Tal’altra la terra «crea il bianco metallo», acciaio castrante, mentre il cielo si diversifica in fiocchi grigi di semenza e respinge «i suoi malvagi vigori» nei bassi fondi. L’oscurità compatta pesa con tutta la sua pesantezza, strato su strato, sugli sforzi dei terrori inferiori, «figli concepiti da un furioso». Tra cielo e terra sopravviene, a volte, una sorta di diluvio di grisaglia, ove la folgore in basso o la folgore in alto si eliminano senza eliminarsi. Le sinusoidi aeree non si rassegnano. Le sismografie angolose della terra madre restano in allerta. Insieme si ritraggono in orizzonti di segni contraddittori e copulatori. Gli Oscuri, sicuramente, mai pervengono a imprigionare la Luce del Giorno. La loro pinza non si richiude interamente. Benché le lingue del Giorno si tuffino nel sottosuolo, la terra recalcitrante si fortifica in losanghe e in squadre, sferrando la linea rotta delle Montagne e gli «Occhi Rotondi». Si è messa a scrivere a grandi tratti: «ernia», nel suo
desiderio di scoppiare. Il giorno nello stesso tempo scrive: «ovaie». E l’una e l’altro si insultano da sinistra a destra, da destra a sinistra. Da una tale simultaneità nasce un’apparenza d’equilibrio tra i segni, ma sempre alla ricerca, come titubando, di un’altra e un’altra composizione di spazio instabile. Essi si schizzano come parabrezza in successione. Dal loro rifiuto reciproco, dal loro attorcigliarsi si produce allora, senza dubbio, l’appello del Kaos originale, a ciminiera. Si elevano in faville nere, in spighe nere vertiginosamente crescono. Giungono, tripode su tripode, a quello della Sibilla dal ventre profetico a scoppio.
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CRISTALLOGRAFIE Lo stesso profeta ancora: «bisogna amare la terra!» Si deve sapere ascoltare come scricchiola dai primi scricchiolamenti, «l’aiuola dalle solide basi», aggregando i popoli e i residui in grumi, le deduzioni fuliginose in teorie fascinatrici. Si deve vederla delimitare con il grande compasso, scalare, incrociando «i settanta territori» e infine bloccarli. Il suo stile, direbbe «il Magnifico», è veramente la forma. Non c’è che da capire la sua fretta a maneggiare le sue architetture di calce viva e di cumuli di neve. Sotto gli strati di gesso o di cioccolata belga, manifesta pulsazioni insospettate, con delle brusche strutturazioni madreporose. Le gelate bianche si estenuano in vaste costellazioni. Sotto le gelate nere, si attiva a distribuire, ma al fine di assemblare in stratificazioni imponenti. Sotto i selciati bruni, l’oro e l’haïkaï dorato. «Bisogna amarla con tenerezza», dato che essa organizza disastri fin dai primi giorni. Dagli alberi maestri e dalle vele naufragate alla rinfusa nella vecchia baraonda, nascono strutture evidenti. Dai cordami accasciati e dai loro nodi inestricabili nascono trecce perfettamente tese. Le sfilacciature si combinano in griglie e gabbie, le carcasse di de-
molizione in organismi articolati. Gli aborti della Magna Mater non fanno che produrre e costruire dei cento-braccia, delle teste senza collo a cinquantine, ma in officine «dalle armi scintillanti» e poi frassini, ci dice di nuovo Esiodo, che già assomigliano a degli uomini. «Vedo degli alberi che camminano» esclama il cieco di Betsaida, delle stampelle che vanno in mezzo alle semenze raccolte. Perfino il nero prende forma, percorso com’è da forze elettriche. Per gallerie e trincee, per ondate e urti, egli si cerca delle regole, nelle quali comporsi e ratificarsi. Va a tentoni ma si lappa, si placca, si superposa. Finisce per scoprirsi due battenti, due maree contraddittorie. Si drizza in ostacolo di prospettiva e di simmetria. Simmetrico, il nero, blasone, la sabbia. Binoculare, la visione. «Il nero non è così nero», affermava il poeta accecato dal sogno. S’increspa di blu, si tesse d’ocra, si spartisce per dermatopsie. In un’estate nera, la terra s’irradia, per apparirsi chiaramente, in un arcobaleno oscuro. Non un arcobaleno da pozzi carboniferi, ma la potenza curva generatrice d’Urano, che la percorre nelle sue macerie geometriche. Lei gli apre le sue spatolate vischiose, ma insultandolo delle lave, «rigori, forze e agilità» dei suoi parti meccanici. S’investe di rettitudini e di leggi. Se lui la sfregia con un lampo di futilità, lei mobilizza da tutti i luoghi più lontani il suo fragile ragno: «Figlio mal partorito da me e da un furioso, noi castigheremo l’oltraggio!» Allora sprofonda in se stessa, notte maschio e femmina construtturata, «genesi di se stessa» per foglie, fogliame e sfogliature, per dedicarsi alla sua interiore contemplazione di carico cavo, di geode e alla sua celebrazione. Lo sfoggio dei disastri, di fatto, è ritmato da sbuffi di gesso, dal rallegrarsi degli uccelli di brace, rosso vivo, blu di Genova, zafferano selvaggio, che la fanno rinchiudersi su «l’inno triplo», cristallo puro, sbarrato da tutte le parti con tavole sonore come un cantiere proibito.
IDOLI «Coloro che avranno denigrato la terra» s’indigna infine il nostro profeta «sono già colpiti di morte», non è infatti lei la benevola, madre, alla lunga, delle Eumenedi, che col suo sguardo come assente, con i suoi occhi di morchia e di zolfo non cessa d’abitare i nostri sogni ereditari? Essa caccia alla sua sinistra e alla sua destra, le scorie e le piaghe del nostro secolo feroce, dei nostri tempi di spaventi. Liscia e sgroviglia tutti i disordini mal legati d’intorno, li aspira nella sua faglia centrale aperta fino allo zenit, per deglutirli in un’ardente digestione, e assorbirli - rege quod est devium - nel fulmine del suo midollo spinale. Così si tiene in piedi, scaturita dal salnitro, la Madre Nera dal fondo del golfo, a Torcello. «Nigra sum... sono abbronzata eppure bella... io sono infarinata, maculata di fango e di sangue, eppure...». Icona. Puri si ammorbidiscono i contorni dei suoi fianchi. Silenziosa autoritaria, resta dritta, irriducibile spina dorsale, nera nell’oscuro - in abscondo latuisti - oro nell’oro, neve su neve, oscura nella penombra dorata. Icona. Colonna, stelo vibrante o gabbia d’ascensore illuminata, Icona. Immacolata Concezione dalle braccia in croce, braccia del ventre o degli occhi, dato che, secondo Du Bartas, occorre soltanto «che essa sia il suo proprio contrappeso». Ogni filamento di questa cucurbita cara a l’antico Walafrid Strabo, produce un doppio getto. Tanto che gli necessita «a sinistra e a destra un doppio sostegno». Lo stesso la nostra icona, esige dei contrafforti di santi squadrati e delle forche «d’assestamento» di spiriti beati, a volte terra di Siena, a volte bluastri, che si elevano a scaglioni dai suoi piedi a spicchi d’aglio alle radicelle della sua fronte. Un popolo di luci sale e discende lungo la sua scala vertebrale. Un cerchio vago aureola il suo petto. Icona dominatrice. In lei, senza dubbio la «prima materia» della Grande Arte, che rivelano i nostri alchimi-
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sti e che la sua impastatrice a doppia spatola, i suoi frustini da crema, i suoi mattarelli, triturano e impastano. Si eleva a piani, si surmonta, vero Athanor. Nella sua fornace divina, l’opera al nero, l’opera al bianco, la cottura. Nella sua confettura ascensionale si distendono i torroni rossi, i berlingozzi, si rapprendono i tartufi d’occhi, i caramelli e le besciamelle secretate. La sua lunga guaina da calamaro è esplosa, si è squarciata, troppo farcita di gioie, di frutti canditi, catrami, zaffiri blu-nero, tutti organi vivi, soccorsi da glandi e braci, da prepuzi e zucchero a velo. Ed è ancora l’alzarsi dei cavicchi discosti dalle vertebre arruffate, dell’elisir «vapore di vetro e vetro di vapore», verso un’alta combustione pilifera e sacra. La Molto Angusta non disdegna di proporsi essa stessa alla devozione dei cabalisti e degli sciamani. Che la si designi Guê, o Gaia, o Gâ, manifesta la sua presenza con un vasto gamma ed un ampio alfa barrato. La sua mano rapida traccia la K simbolica, le SH a tre dita degli Ebrei. Essa si canta e arpeggia lungo delle corde di linee, aperte o ristrette allo stesso modo dei compassi, fili metallici tenui o canapi ritorti per incatenare il leone e il cervo. Sale a V, scende in spaccata. Abusa d’incroci e di croci, sia che essi si diramino dalla sua nuca, sia che erompano dal suo ventre quadrato, sede del nuovo Adamo dai membri a stella. Questi cortocircuiti rigurgitano di cascate di rafia, di capigliature, di radici - in corde radices. I devoti, i veggenti assistono intrepidi a mille scivoloni gli uni sugli altri e a mille inversioni di segni di croce. Carmassi persegue imperturbabile la litania della santa. Ma ecco, in definitiva, «delectatio summa», sull’estuario diventato luce, il feticcio assoluto, inanellato di cirri, l’albero maestro con la verga, congelati. Trensacq, Landes. Dicembre 1997
THE EARTH IN HER FULLNESS
Bernard Manciet
Traduzione di Maryse Druart Carmassi, gennaio-febbraio 1998 32
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THE EARTH IN HER FULLNESS No sky here, no breath of air, no sea: Earth, and nothing but earth. Earth has her waves, her ebb-tides, her currents, her marshes of pewter and her Styxes of pitch. Earth has her bluish ether, and her mines echo back the buried sky. No fire. For Earth has her sombre braziers, her trails of slime, and the gems bequeathed her when Satan passed by: from the most incandescent of topaz to the most cinder-black. A World-Mother convulsed in labour, Earth calls on Carmassi to bring herself forth in herself. Distraught in her awesome spasms, she asks him for signs to guide her. For he understands the juke-box art of geomancy, being skilled in commuting smudges of sand and of fingers. In her deep depositories, in her dense mists, Earth no longer seems a figure of naught. Carmassi will know how to assign configurations to her and a myriad changing crystalline facets. The monsters she gives birth to stifle her, but Carmassi, by his hidden art and his alchemy, will know how to aid her delivery so that she may be born anew in holy effigies. Already under his moist plasterings, his mellifluous shocks, his built-up layerings and his collages, ‘the enormous Earth’ arranges and rearranges herself, ‘experiencing great jubilation in her heart’. CALLIGRAPHICS In the lowest reaches of the Earth from that misty Tartary full of fears, there are ‘wide highways’, as the old epic says. On every side there appear black traffic-signs, luminous warnings: a vertical bar, say, or a bend doubling back on itself, or a post forbidding entry. Warnings file past; a tau, an obtuse angle in different combinations, together with signs as of shoulders, dumb-bells, thighs and notches, all beneath a belly which revolves, 34
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‘Danger! Paysages!’ Layer upon layer of libertine mists follow upon a sun enwrapt in blistering paint. Round mirror, eel, fleur-de-lys warn us of the worst: the man-flower with six incandescent tips. The Prophet of Meaux goes farther still: ‘Woe to the Earth! Woe to the Earth! And again Woe to the Earth!’. For Earth knows she is guilty of monsters. In pure void, ‘Erebus and Night’, that virgin-bitch, pregnant with a law to rebel, gives birth to a series of dots, commas and circumflex-accents, in short to a complete starry sky, a typist’s sky of mechanic signs: questing vibrios, traps snarling themselves up, multiplying, attracting each other, avoiding each other with the great din of a glass casing being pelted. Earth ‘groans’ when that sky ‘completely engulfs her’ and when, in one vast bend, it closes upon a stretch of spidery gossamer forming an obscene K, or upon an obscenity which we might call a face. Earth surges up with a reflex curve, notched, or like an open palm which cries ‘Halt’ with judderings as of a gear-box. The mêlée remains undecided. At times the low mist and the deep night may roll up into the spiral of a coiled spring. At times Earth ‘creates white metal’, a gelding steel, while the sky breaks up into flakes, grey with seeds, and drives back ‘its evil forces’, into quagmires. The solid darkness bears down with all its weight, layer on layer, upon the exertions of the terrors below - the ‘daughters of a madman’. From time to time there appears between Earth and Sky a kind of deluge of grisaille, where lightning from below, where lightning from above, destroys - yet not destroys - itself. The aerial sinusoids never give up. The angular seismographics of the Earth-Mother remain on the alert. They withdraw together into horizons of signs both disjunctive and copulative. The Darknesses never succeed in comprehending the Light of Day. Their grip does not completely close. Yet the tongues of Day vainly plunge down into the subsoil: the stubborn Earth finds strength
in rhombuses and right-angles, shooting forth the broken line of Mountains and ‘Round Eyes’. In her yearning to burst, with great strokes she has started to write ‘Rupture’. At the same time, Day writes ‘Ovary’. And each hurls abuse at the other from left to right, right to left. Such simultaneity creates a semblance of equilibrium between the signs, yet, tottering still, they ever seek one unstable spacial composition after another. They shatter like a series of windscreens. From their mutual rejection and from their back-to-back swirlings is produced an allusion doubtless to the smoke-shaft of the original Chaos. They rise up in black sparks, in black ears of corn, and then run to seed. From tripod to tripod they attain to the Tripod of that Sibyl whose belly explodes in prophecy.
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CRYSTALLOGRAPHICS The same Prophet proclaims: ‘You must love Earth’. You must learn how to hear as she cracks her first fissures, she ‘the Grandam of solid foundations’, coagulating peoples and winnowings into clots, and misty deductions into spell-binding theories. You must watch how she marks out with great precision, displaces and intersects ‘the seventy territories’, and eventually blocks them. Her style, ‘the Magnificent’ would say, is indeed her form. You need but to grasp the haste with which she contrives her contraptions of quick-lime and driven snow. Under the layers of plaster or of Belgian chocolate she reveals unsuspected pulsations through rapid adjustments of coral reefs. White frosts thin themselves out in vast star-strewn expanses. Under layers of black ice she sets about dividing, yet so as to reassemble in imperious stratifications. Under brown paving-slabs lies gold, the gilded haïkaï. ‘You must love her tenderly’, for she organises even the disasters of primeval days. Out of shipwrecked masts and rigging jumbled pêle-mêle in the antique Chaos are born manifest
structures. From the tumbled cables and their undo-able knots surge forth plaits perfectly stressed. Unravellings join to make grids and cages, and the dead remains of demolition to make articulated organisms. The miscarriages of the Magna Mater are ever productive, forming creatures with a thousand arms, and scores of heads without necks but in workshops ‘with weapons a-glint’, and then ash-trees which, as Hesiod newly sang, already resemble men. ‘I see trees walking’, exclaimed the blind man of Bethsaida - crutches moving in the midst of summoned and assembled grains. Even the very black takes shape, shot through with electric currents. Through tunnels and trenches, through surgings and jostlings, it seeks an order where it can consolidate and stabilise. It fumbles its way, licking over itself, Iying flat and stretching over itself. At last it discovers two battens, two opposing tides. It rises up as an object of perspective and symmetry. Symmetrical are the heraldic black, and sable. The vision is binocular. ‘The blackness is not so black’, affirmed the poet blinded by dreams. It is almost blue, interwoven with ochre, resolving into skins sensitive to light. In a black summer, Earth, so as to appear more clearly, illumines herself with a darkling rainbow. Not a rainbow of the collieries but the life-producing bow of Uranus, which runs through her geometric slag. She opens up to it trowelfuls of viscosity but assaults it with lavas, the ‘rigours, forces and cunnings’ of her contrived parturitions. She surges up with integrity and laws. If with a lightning-flash of futility it scratches something out in her, from the farthest reaches she calls up her fragile Spider: ‘Son, issue of me and a lunatic, we shall punish this outrage!’. Then, night, male and female together structured, she dives into herself alone, ‘her own genesis’, through leaf, leaf-fodder and interleaf, so as to surrender herself to contemplations of herself, with their charge of geodesic hollowness, and to celebrations of herself.
Indeed the layers of disasters follow the rhythms of outbursts of plaster with the rejoicing of furnace-birds of vivid red, scalding blue and wild saffron, which make her occlude herself upon the ‘three-fold hymn’, clear crystal, barred on every side, like some forbidden mill, by resonant palings.
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IDOLS ‘Those who shall have belittled Earth’, cries out at last our Prophet indignantly, ‘are already stricken unto death’. Is Earth not, indeed, the Kindly One, ultimately the Mother of the Eumenides? Does she with her absent gaze, her greasy, sulphurous eyes, ever cease to inhabit our ancestral dreams? She drives away, left and right, the dross and the bruisings of our savage century, of our horrifying epoch. Earth smoothes out and unravels all the ill-trussed confusions near by, sucking them into her central fault-line open to the zenith, swallowing them up in digesting fire and absorbing them - rege quod est devium - into the flash of her spinal marrow. Way down in the Gulf at Torcello, there she stands as the Black Mother, surging forth from the saltpetre, ’Nigra sum...: “I am black but comely”. I am smothered in flour, stained with mud and blood, and yet...’. She is an Icon. The contours of her side soften in purity. Silent, commanding, she stands bolt upright, an unyielding spine, black in the darkness - in abscondo latuisti - gold within gold, snow upon snow, sombre within the gilded penumbra. An Icon. A Column, a vibrant stem, or the cage of a light-filled lift. An Icon. An Immaculate Conception with cross-like arms: belly-arms, eye-arms, since, in the words of Du Bartas, she must simply ‘be her own counter-weight’. Each trickle from that gourd beloved of Walafrid Strabo in former times produces a double jet. And so there needs must be ‘on the left and on the right a double stanchion’. Similarly our Icon demands buttresses of sainted squares, ‘sustentacular’ forks of blessed spirits, sometimes
the colour of burnt sienna, sometimes bluish, rising in stages from her feet like cloves of garlic up to the radicles of her forehead. A shining throng go up and down the ladder of her vertebrae. A hazy aureola encircles her breast. An Icon of domination. In her is doubtless that ‘prima materia’ of Great Art which our alchemists reveal and which the twin spatulas of her mixing-trough, cream whips and pastry-cooks’ rolling-pins grind up and knead. She mounts in tiers, o’ertops herself, as a true Crucible. In her supernal furnace: the work-in-black, the work-in-white, the concocting. Jams boil upwards in which stretch red nougats, the matter of boiled sweets, truffles, oozing caramels and béchamels. Her long squid-like sheath has burst, has cleft in twain, stuffed over-full as it is of jewels, of glacé fruits, lumps of tar, blue-black sapphires - all living organs supported by acorns and glowing charcoals, by foreskins and icing sugar. And then again there is the rising of excrescences from a tousled lamelliped, of the elixir ‘vapour glass and glass vapour’ towards a high conflagration, pilose and sacred. That Most August One does not deign to present herself for the adoration of cabbalists and magicians. Let them call her Guê, or Gaïa, or Gâ; she announces her presence by a huge gamma and by an ample alpha barred across. Her swift hand traces a symbolic K and the Hebrew three-branched SH. She sings to herself and strums her harp along the length of Iynx-cords, relaxed or tightened in the manner of compasses, thin metallic threads or ropes twisted into cables to bind lion and stag. She rises in a V; then drops down, doing the splits. She makes profligate use of four-went ways and crosses: they may start from her neck or disengage from her square belly, the seat of the new Adam with limbs shooting out stellacious. These short-circuits will spew forth cascades of raffia, heads of hair, or roots - in corde radices. The faithful, the visionaries fearlessly witness a thousand glissades, one after another, and a thousand Inventions of Cross-shaped signs. Carmassi, himself, imperturbably recites 40
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the litany of his Holy One. But here, definitive, on the estuary-become-radiance, is the delectatio summa, the ultimate fetish clasped round by tendrils: the Mast and Mainyard, together frozen. Trensacq, Landes. December, 1997
Bernard Manciet1
The contributions of Jean-Marie Drot and Bernard Manciet were translated into English by Anne and Michael Screech in memory of Maryse and as a tribute to Arturo Carmassi, a great artist and a great friend.
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ALLA DERIVA DEL TEMPO È il movente ad assegnare un preciso valore a qualsiasi azione e quindi a qualsiasi prodotto dell’operare. Così si può dipingere per iconizzare un portato narrativo o semplicemente per allestire uno scenario del bello, per tradurre in senso spaziale la durata di un gesto o per esplorare le infinite possibilità del segno, perdendosi volontariamente nel labirinto dei percorsi semantici. Come si può ridurre il tracciato pittorico a gag estetica, a capriccio concettuale. I modelli di ricognizione formale che si sono succeduti in questo secolo forniscono esempi eccellenti della varietà degli assunti teorici che possono presiedere all’atto pittorico. Nel caso di Arturo Carmassi, però, la faccenda è più seria. Perché Carmassi è un artista che vive la pittura come necessario documento dell’esistere, come traccia indelebile della nostra transitoria eternità e quindi come egoarchico tentativo di giustificare la nostra presenza. È per questo che la sua pittura rompe puntualmente gli argini definitori in cui, per assuefazione accademica, si vorrebbe rinchiuderla. E non è un caso se alcuni dei più intelligenti critici che si sono occupati di Carmassi, per fornire le coordinate della poliglottia dei suoi tracciati visuali, sono incorsi in ossimori, che nel loro splendore evocativo risultano però, purtroppo, poco illuminanti. Infatti, parlare come faceva ad esempio Beniamino Joppolo nell’ormai lontano 1961 di “un fatto energetico che si trasforma in sostanza e una sostanza che si trasforma in fatto energetico” se da una parte rende ragione della provocazione stilistica di Carmassi, sempre alieno dal ripercorrere i vezzi del suo tempo, dall’altra non fornisce la strumentazione concettuale per risolvere il quesito fondamentale circa l’immanenza ma44
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terica delle sue opere o il loro valore indicativo, il loro additare a una realtà eidetica. Ed è proprio dalla coerenza morale che governa l’operare di Carmassi che si ricavano preziose indicazioni per interpretare correttamente quella migrazione stilistica che analisi superficiali del suo lavoro hanno creduto di cogliere. Il volontario rifiuto di adeguare il suo istinto pittorico a un modello di ricognizione univoco, attraverso gli anni, va infatti letto piuttosto come progressiva decantazione di uno stilema esecutivo che ubbidisce a interiori esigenze espressive, le cui radici affondano naturalmente in un humus culturale europeo, che però non arriva a determinarle: in un processo che è di fogliazione e non di figliazione. Carmassi, non a caso, ha sempre saputo prendere le distanze da quella sorta di aberrante instant painting che è la produzione pittorica al seguito della riuscita invenzione altrui. Il suo rapporto con il tempo culturale è invece di profonda dialettica, al punto che le sue opere sembrano qualificarsi come sapienti cronofanie. L’univocità e l’originalità della ricerca carmassiana non va dunque ricercata in un inesistente stereotipo-carmassi, ma nell’esperire di un segno che tenta sulla superficie gli infiniti tracciati dell’essere. È questo dipanarsi, a volte esuberante, a volte drammaticamente lento, sempre però di una virtuosità senza compiacenza, a tessere la trama di un’avventura visuale che dispiega potentemente, soprattutto nelle opere più recenti, una valenza esistenziale. I dipinti di Carmassi non sono mai il luogo della rappresentazione delle cose, non designano un piano di apparizione, ma identificano invece lo spazio rituale di una penetrazione nelle cose: sono il potente diaframma tra il nostro tempo e il Tempo. Che cosa cerchi?, avevo chiesto ad Arturo, dopo aver assistito alla magica parata dei suoi ultimi lavori, rivelati dall’aprirsi del sipario allegorico di altre opere, fatte scorrere
come sempre su quei grandi cavalletti che danno al suo atelier toscano l’aspetto di una magnifica selva. I problemi sono talmente ovvi. La vita, la morte, la giustificazione della nostra esistenza. Ogni generazione racconta la sua storia, ed il gesto di ognuno di noi sommandosi agli altri compone il giornale della specie. A me è toccata la pittura. Questa è una delle ragioni dell’operare dell’uomo, questo costruirsi la vita e darne una giustificazione profonda. È un documento necessario. Se tu cancelli i gesti dell’uomo, non esiste più la specie. I dipinti di Carmassi non si esauriscono nell’esibizione del loro spessore materico, nella loro dolente o splendente immanenza, ma annunciano un piano concettuale altro. La differenza con le opere di altri artisti impegnati invece in una ricerca sulla sostanzialità della materia o, al limite, sulle sue proprietà allusive, è rivelata dall’uso che Carmassi fa del titolo. Carmassi non si è mai nascosto dietro l’avvilente alibi estetico del senza-titolo: fragile dichiarazione di non colpevolezza davanti all’accusa, legittima, di non saper trovare per il proprio lavoro nemmeno una giustificazione semantica che dia conto della serialità delle tappe di un’operazione di ricerca. Né ha mai utilizzato titoli che, nella loro tautologia, adempiono il ruolo di innestare un corto circuito semantico tra portato verbale e portato visuale. Come accade ad esempio nelle opere di Burri, dove Sacco, Bianco, Nero, Rosso plastica, consentendo la verifica simultanea dei due protocolli espressivi, quello verbale e quello visuale, indicano l’esaurirsi della funzione dell’opera nella sua autoreferenzialità. Carmassi invece ha sempre corredato le sue opere di un titolo il cui portato costituisce il codice d’accesso a una dimensione altra. I suoi titoli, che non sono mai né muti né tautologici, additano invece una via di fuga dallo spessore della materia, verso un territorio le cui coordinate sono rivelate da poche parole che hanno la bellezza e la potenza evocativa di una formula magica. Anabase. Haikaï pour Marise. Inamovibile. La grande porte. Teofania. Ciò che resta.
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I tuoi titoli hanno sempre una valenza poetica, indicativa. Che importanza ha per te il tracciato verbale: è una premessa ideale del quadro o arriva a posteriori? Non per tutte le opere è la stessa cosa. Il filo comune di ogni mio lavoro è quello di una certa interiorità poetica, che io poi cerco di definire, di mettere a fuoco con i titoli. Il titolo serve alla lettura dell’opera. Qualche volta il titolo nasce a priori, spesso è la narrazione di un percorso. Ma non c’è differenza. Quello che conta è che alla fine c’è una totale simbiosi: i miei titoli non sono mai intercambiabili. D’altra parte io vivo il quadro come penetrazione nelle cose, piuttosto che loro apparire. Tu sai che sono appassionato di arte tribale. La mia lettura dell’arte africana, però, è diversa da quella che ne hanno fatto i cubisti. I cubisti hanno fatto dell’arte africana il motivo di una rivoluzione formale, che non si saldava però a una reale trasgressione interiore. Nel cubismo il contenuto non era così trasgressivo come la forma. Secondo me, invece, la cosa importante è l’azione che anima la creazione dell’oggetto. È la carica interna che determina la qualità dell’opera, la nobiltà della materia. La ragione dell’opera è in quel pensiero che riesce a caricarla di significato. Questo è il titolo. Solo quando la ragione formale esprime fortemente quei contenuti che animavano l’artista, che animavano me come l’anonimo artista africano, l’opera si può dire riuscita. Per Carmassi non esistono squarci improvvisi per scivolare in una dimensione diversa: il varco va costruito con fatica e intelligenza. Non ha mai voluto conoscere spazi costruiti per sottrazione, ma sempre un’edificazione lenta e meticolosa del piano e dei tracciati semiotici. Esplorare, come ha fatto Carmassi, le possibilità del segno attraverso le trecento incisioni del Journal perpétuel, ha affrancato il suo lavoro dal traguardo fittizio dei vari automatismi, gestuali o di scrittura. Una libertà senza coscienza che non lo interessa, perché la vera libertà sta nel saper usare la propria coscienza, non nel saperla negare in omaggio ad un ferino umanesimo che ha creduto di elevare l’istinto a pratica di ragio-
ne. Ho sempre avvertito la necessità di riconoscermi molto nell’opera. Il mio attuale andare oltre la convenienza estetica è la voglia di mandare in frantumi i simulacri. Quando l’arte si estetizza fallisce il suo obiettivo. Non è più la proposta di un rischio meraviglioso: quello di opporre alle difficoltà del vivere la gioia del fare. Per Carmassi, l’andare oltre l’estetica, la sua pulsione a utilizzare la materia per penetrare oltre le cose, è dunque un viaggio lento, che procede attraverso la paziente tessitura di un dialogo serrato tra segno e superficie. È dalla tela, tradizionale alfa del fare pittorico, legame esibito con un’eredità classica di cui Carmassi va toscanamente fiero, che inizia invariabilmente la costruzione delle opere. Ma Carmassi utilizza la tela al di là della sua consueta cifra spaziale. La tela non identifica il perimetro di un diverso vedere: è il luogo di emersione di vari reperti formali che sembrano spinti in superficie da quella stessa forza tellurica che ha gonfiato il piano della loro apparizione. Sulle tele infatti prende corpo una proliferazione materica eterogenea, una spessa stratificazione di cartone, legno, sabbia, stoffa, che deforma il piano della tela in un terreno gravido, che rivela, come avviene in Thora, la tensione di nervature sottese oppure, come nella serie delle Memorie toscane, esibisce l’affastellamento di brandelli di tele: tragica esfoliazione del tempo che dolorosamente è stato. Lo spazio aprospettico delle opere è pronto a questo punto ad accogliere il tracciato del segno. Abbandonati gli enigmatici labirinti delle linee di fusain, che con il loro nero solcavano le grandi sabbie della fine degli anni Settanta, e abbandonate le preziose tarsie cromatiche dei collage del decennio seguente, oggi il segno è affidato all’ostensione di reperti che si avventurano sul piano, spesso fino a librarsi oltre il perimetro dell’opera, tentando un canto senza parole. Reliquie qualsiasi che è la memoria dell’autore, e la nostra, a porre in risonanza con la poesia del titolo. Gli elementi utilizzati per costruire la trama segnica
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sono elementi che nella loro naturalità attengono all’eterno: le opere pulsano all’unisono con il battito segreto del tempo. Così in un’opera come La grande porte Carmassi affida la costruzione del segno ad una corda, la cui tensione è esasperata dal rotolo di tela di sacco posto al centro: sigillo posto a custodia di un varco negato, perché oltre la vita. Così, il nero memento di Inamovibile prende forma dalla caduta di sei assi di legno, che pendono simmetricamente come lancette spezzate dal congegno posto in alto: viluppo di stoffe che si contrappone al perno centrale, rivelato solo dall’irraggiarsi di quelle due corde che si aggrappano in alto, al bordo dell’opera. Questo mentre le valenze cromatiche degli elementi compositivi sono azzerate da un nero che ha la magia del buio e conferisce all’opera l’aura di tavola di una simbologia ormai indecodificabile. Luogo dell’enigma che si impone come arcana, primordiale presenza totemica. Ma Carmassi, anche nello spazio breve delle ultime battute della sua ricerca, non riduce mai il suo discorso a un’unica dimensione tonale. Se Ciò che resta ha la drammaticità della rivelazione impietosa di un relitto emerso dalla sabbia del tempo, Sardana oppone alla presenza sorda della materia il bianco abbacinante dello sfondo: come l’antica danza catalana annega le angosce del vivere, così la croce calata sul bianco si dissolve in un’istantanea del festoso girotondo dei danzatori, cui fa da esile contrappunto il fil di ferro imbiancato che tenta lo spazio oltre il confine rassicurante dell’opera. Come mai hai sentito il bisogno di uscire dalla planarità della tela, senza negarla totalmente però? Credo che questa esigenza sia nata dalla mia esperienza di scultore insoddisfatto. E quindi dalla mia esperienza di uno spazio diverso da quello del piano. Tutto ciò si è poi saldato alla possibilità, che mi è congeniale, di utilizzare materie povere, nelle quali non c’è alcuna compiacenza. Ormai i nostri referenti sono esclusivamente urbani, tecnologici, ed io
provo una grande malinconia al pensiero della perdita delle splendide materie della civiltà rurale, così calde, naturali, soppiantate dall’inalterabilità senza vita delle materie artificiali. Io non potrei mai operare come Arman, con delle plastiche. Usare la tela, il legno, il ferro, mi riscalda. La plastica invece è nata morta, non può essere rianimata, perché è solo un sottoprodotto: lo sterco dell’industria. I fili, le corde, i viluppi di stracci consunti, che si avvolgono con le loro spire attorno alle linee di fuga dall’epicentro emozionale dell’opera, come accade in Sardana, o si annidano all’apice della composizione, come nel misurato pathos di Eté o nella congestione del Troisième grand reportage vertical, oppongono sempre alla loro apparente fluidità formale la rigidità imposta alle fibre dall’uso delle colle. Quei viluppi acquistano allora una fissità che è temporale: alghe di quel mare ghiacciato che è dentro di noi e solo l’amore può sciogliere. Il lavoro ciclopico di Carmassi è proprio in questo piegare le cose ad un racconto formale che sia in grado di far dimenticare le origini degli elementi primi del suo dire. Per recuperare però, alla fine, il sussurro materico, quell’eco segreta delle cose. Questa pulsazione materica è avvertibile con più chiarezza proprio negli ultimi lavori, che dispiegano lo splendore di un marrone organico in cui sembra riverberarsi tutta la sofferenza della T/terra. Sono queste le opere che segnano un distacco dalla dimensione mentale dei grandi bianchi e dei grandi neri di qualche anno fa, dove la luce o il buio disegnavano il vuoto. E sono le ultime opere a proporre insistentemente il segno, carico di valenze, della croce. Una croce che non identifica il luogo del sacro, quello di un’ipotetica trascendenza che il credo laico di Carmassi non presuppone, ma diventa segno di uno sbarramento semantico che si oppone all’ingresso nell’oltre. Sta a noi sentire se La grande porte ci ha chiusi fuori. O dentro. Perché la croce non è l’annuncio di un sacrificio necessario,
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previsto. È piuttosto la nervatura del reale, dolorosamente messa a nudo. Tesa su quelle superfici essudanti come una balestra pronta a scoccare il suo dardo micidiale. È un problema di ritmi, che discende dall’utilizzazione di certi materiali. Ho cercato nell’incrocio un equilibrio dinamico, instabile. Tirare queste corde, farle diventare nodi è quasi un tripudio artigiano, il trionfo della non pittura, di una materia insolita, tesa-a per diventare anche linguaggio. È la mia tensione verso il nulla.
Si è già detto che i tuoi ultimi lavori sprigionano una carica sciamanica. Sono dei simulacri di qualcosa? No, il simulacro è una forma che non ha contenuto, un sepolcro imbiancato. Le mie opere riflettono la mia spiritualità, il senso che mi è caro del vivere con un certo rischio di esistenza, cercando sempre di andare al di là dei limiti. L’artista deve produrre un’immagine altra, che deve rispecchiare esattamente la storia e la qualità intellettuale del suo tempo. Solo a queste condizioni l’opera acquista il valore di documento. La pittura ha ormai abbandonato il lato esterno dell’uomo, l’avventura è nello spirituale, nell’essere e non nell’apparire. Quanto allo sciamanico non è il termine giusto, perché a me non interessa il lato magico. A me non interessa il rituale, ma l’estetica del rituale per giungere al profondo delle cose.
Le ultime opere di Carmassi si qualificano dunque come poderosi allestimenti del dramma esistenziale. Splendidi relitti di un naufragio prossimo, che è quello del millennio che sta per chiudersi. Se il Passe-partout per l’eternità nel 1979 era l’enigmatico meccanismo di un ordigno, che opponeva il calibro esatto dei suoi anomali assi cartesiani al vuoto della storia, oggi è la grondante Teofania. Idolo che spalanca le sue grandi ali che non lanciano ombre. Pronto a planare in un volo silenzioso alla deriva del tempo. Marina Pizziolo 52
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ADRIFT IN TIME It Is the motive that assigns a precise value to any action and therefore to any product of that action. Thus you can paint in order to turn the outcome of a narrative into an image or simply to create a beautiful scene, to translate the duration of a gesture into spatial terms or to explore the endless possibilities of the sign, deliberately losing yourself in the maze of semantic paths. Just as the outline of a picture can be reduced to an aesthetic gag, a conceptual caprice. The models of formal identification that have succeeded one another in this century provide excellent examples of the variety of theoretical assumptions that can preside over the act of painting. In the case of Arturo Carmassi, however, it is a more serious business. For Carmassi is an artist for whom painting is a necessary record of existence, an indelible trace of our transitory eternity and therefore a superhuman attempt to justify our presence. It is for this reason that his painting unfailingly bursts the banks of definition within which, out of academic habit, we attempt to contain it. And it is no accident that, in order to provide coordinates for the polyglot character of his visual schemes, some of the more intelligent of the critics who have looked at Carmassi’s work have found themselves obliged to resort to oxymoron. Unfortunately though, and in spite of their evocative brilliance, these turn out not to be very illuminating. While the concept, put forward by Beniamino Joppolo way back in 1961, of “an energy phenomenon that is transformed into substance and a substance that is transformed into an energy phenomenon� does take account of the stylistic provocation employed by Carmassi, always averse to echoing the affectations of his time, it does not provide the conceptual tools required to answer the fundamental 54
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question about the material immanence of his works or their indicative value, the way they point to an eidetic reality. And it is precisely from the moral consistency that presides over Carmassi’s activity that we can derive precious clues to a correct interpretation of that stylistic migration that superficial analyses of his work appear to reveal. The deliberate refusal, over the years, to adapt his pictorial instinct to an unambiguous model of identification should be seen instead as the progressive refinement of a style of execution that answers to inner needs of expression, a style whose roots sink naturally into a European cultural substrate but which are not determined by it. In a process than can be described as foliation but not as filiation. It is no coincidence that Carmassi has always kept away from that sort of aberrant “instant painting” represented by the production of pictures based on the successful ideas of someone else. Rather, his relationship with the culture of his time is one of profound dialectics, to the point where his works seem to take the form of masterly “chronophanies.” So we should not look for the source of the clarity and originality of Carmassi’s research in a nonexistent stereotype-Carmassi, but in the investigation of a sign that attempts to trace the infinite outlines of being on the surface of the painting. It is this unraveling, at times exuberant and at others dramatically slow but always with a virtuosity free from self-indulgence, which weaves the web of a visual adventure that potently conveys an existential value, especially in his more recent works. Carmassi’s paintings are never used for the representation of things. They do not designate a plane of appearance, but identify instead the ritual space of a penetration into things: they are the powerful diaphragm that separates our time from Time. “What are you looking for?” This is the question I put to Arturo after reviewing the magical parade of his most recent works, revealed by pulling aside the allegorical curtain of other paintings, set out as ever on those large easels that give his Tuscan studio the ap-
pearance of a magnificent forest. The problems are so obvious. Life, death, the justification of
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our existence. Each generation tells its own story, and the acts carried out by each of us are added to those of others to make up the journal of our species. I ended up with painting. This is one of the reasons for human activity, this need to construct our lives and give them a profound justification. It is a necessary record. If you cancel out human gestures, the species will no longer exist.
Carmassi’s paintings are not limited to a display of their material consistency, of their painful or glowing immanence, but point to another conceptual plane. The difference from the works of other artists engaged in an investigation of the substantiality of the material or, at the most, of its allusive properties, is apparent from the use that Carmassi makes of the title. Carmassi has never hidden behind the demoralizing aesthetic alibi of the untitled: a fragile plea of not guilty to the legitimate charge of not even being able to find a semantic justification for one’s own work that is able to take account of the serial nature of the stages in a program of research. Nor has he ever used titles that, in their tautology, fulfil the function of establishing a semantic short circuit between verbal significance and visual significance. As happens in Burri’s works, for example, where names like Sack, White, Black and Red Plastic allow a simultaneous verification of the two protocols of expression, verbal and visual, and indicate that the work has no function apart from that of self-reference. Carmassi, on the other hand, has always supplied his works with titles whose meaning provides the code giving access to another dimension. His titles, which are never mute or tautological, indicate instead a means of escaping from the density of the material into a territory whose coordinates are given by just a few words that have the beauty and the evocative power of a magic formula. Anabase (“Anabasis”). Haikaï pour Marise (“Haiku for Marise”). Inamovibile (“Irremovable”). La grande porte (“The Big Door”). Teofania (“Theophany”). Ciò che resta (“What Is Left”).
Your titles always have a poetic, revealing quality. What is the importance of the verbal outline for you: is it an ideal premise of the picture or does it come afterward? It’s not the same for every painting. The common thread of my work is a certain inner poetic nature, which I then seek to define, to bring into focus with the titles. The title is an aid to interpretation of the work. Sometimes the title comes first, often it is a description of the course of its development. But there is no difference. What matters is that there is a total symbiosis at the end: my titles are never interchangeable. Besides, I see the picture as a penetration into things, rather than a way of making them appear. You know that I have a passion for tribal art. My view of African art, however, is different from the one taken by the Cubists. The Cubists made African art the motive for a revolution in form, but one that was not connected with a real inner transgression. In Cubism the content was not as transgressive as the form. In my opinion, though, the important thing is the action that inspires the creation of the object. It is the inner charge that determines the quality of the work, the nobility of the material. The justification for the work lies in the thought that is able to charge it with significance. This is the title. Only when the formal account powerfully expresses the contents that inspired the artist, that inspired both me and the anonymous African artist, can the work be said to be successful.
humanism that thought it could raise instinct to the level of rational practice. I have always felt the need to identify greatly with the work. My current attempt to go beyond aesthetic harmony is in fact a desire to shatter simulacra. When art is aestheticized it fails to attain its objective. It is no longer the proposition of a marvelous risk: that of combating life’s difficulties with the joy of doing.
For Carmassi there are no unexpected breaches through which you can slip into a different dimension: the gap has to be created with effort and intelligence. The construction of spaces by removal has never interested him, only a slow and meticulous building of the plane and the semiotic outlines. Exploring the possibility of the line, as Carmassi has done, through the three hundred engravings of the Journal perpétuel, has freed his work from the fictitious goal of the various forms of automatism, be they automatic gestures or writings. A freedom without consciousness that does not interest him, for true liberty lies in knowing how to use your own awareness, not in knowing how to deny it in homage to a brutish
For Carmassi, the act of going beyond aesthetics, his impulse to use the material to penetrate into things, is therefore a slow journey, and one that entails the patient weaving of a succinct dialogue between line and surface. It is from the canvas – the traditional alpha of the act of painting and a flaunted link with a classical legacy of which the Tuscan Carmassi is proud – that he invariably commences the construction of his works. But Carmassi uses the canvas in a way that goes beyond its usual cipher. The canvas does not identify the boundary of a different way of seeing: it is the place of emergence of various formal repertories that seem to be pushed to the surface by the same telluric force that has swollen the plane of their appearance. In fact what takes shape on the canvases is a heterogeneous proliferation of material, a thick layering of cardboard, wood, sand and cloth that deforms the plane of the canvas into a pregnant terrain. A terrain that reveals, as in Thora, the tension of underlying ribbing or, as in the series of Memorie toscane (“Tuscan Memories”), the bundling of scraps of canvases: a tragic exfoliation of the time that has painfully passed. At this point the perspective-free space of the work is ready to receive the pattern of lines. Abandoning the enigmatic labyrinths made up of lines of black charcoal which furrowed his large expanses of sand at the end of the seventies, and abandoning the precious chromatic inlays of the collages he produced over the following decade, Carmassi now resorts to the display of mementos that venture into the plane, often to the point where they hover beyond the work’s edge, attempting a song without words. Any kind of relic, dredged up
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from the artist’s memory, and our own, to be placed in resonance with the poetry of the title. The elements used to construct a pattern of lines are ones that, by their very naturalness, relate to the eternal: the works throb in unison with the secret beat of time. Thus in a work like La grande porte (“The Large Door”), Carmassi entrusts the construction of the sign to a cord, whose tension is accentuated by the roll of sacking placed in the middle: a seal set to guard a denied opening, because it is beyond life. Thus the black memento of Inamovibile (“Irremovable”) is formed by the fall of six planks of wood, which hang symmetrically like the broken hands of a clock from the mechanism set at the top: a tangle of pieces of cloth that contrasts with the central pivot, revealed only by the spread of those two cords that cling to the edge of the work, at the top. All this while the chromatic values of the elements of composition are canceled out by a black that has all the magic of darkness and that bestows on the work the aura of an image from a now indecipherable symbology. Location of the enigma that comes across as an arcane, primordial, totemic presence. But Carmassi, even over the brief span of the most recent stages in his research, never reduces his discourse to a single tonal dimension. If Ciò che resta (“What Is Left”) has the dramatic character of the pitiless uncovering of a piece of wreckage emerged from the sands of time, Sardana contrasts the dull presence of the material with the dazzling white of the background: just as the ancient Catalan dance wipes out the anxieties of life, the cross set on white dissolves into a snapshot of the festive circle of dancers, to which the white-painted wire that extends into the space beyond the reassuring edge of the work acts as a slender counterpoint. Why have you felt the need to emerge from the planarity of the canvas, though without totally denying it?
which I find congenial, of utilizing poor materials, offering no gratification in themselves. By now our referents are exclusively urban, technological, and I feel very sad at the thought of the loss of the splendid materials of rural civilization, so warm and natural, which have been supplanted by the lifeless inalterability of artificial materials. I would never be able to work like Arman does, with plastic. It warms me to use canvas, wood and iron. Plastic, on the other hand, is born dead. It cannot be brought back to life because it’s just a byproduct: industrial excrement.
I believe that this need stems from my experience as a dissatisfied sculptor. And therefore from my experience of a space different from the plane. Then all this is combined with the possibility,
The apparent fluidity of form of the wires, cords and tangles of worn rags that coil around the lines of perspective running from the emotional epicenter of the work, as happens in Sardana, or that lurk at the apex of the composition, as in the measured pathos of Eté (“Summer”) or in the measured congestion of the Troisième grand reportage vertical (“Third Large Vertical Report”), is always contrasted by the rigidity imposed on the fiber by the use of glue. Hence these tangles take on a fixity that is temporal: weed from that frozen sea that is inside us and that only love can melt. Carmassi’s tremendous effort lies in just this, in the way that he compels things to tell a story of form that is capable of making us forget the origins of the primary elements of his discourse. Only to salvage, in the end, the material whisper, the secret echo of things. This material pulsation is most clearly discernible in his most recent works, which reveal the splendor of an organic brown in which all the suffering of the E/earth seems to reverberate. These are works that mark a break with the mental dimension of the large white and black pictures of a few years ago, in which light and darkness were used to outline the void. And it is these most recent works that insistently propose the symbol, charged with values, of the cross. A cross that does not identify the place of the sacred, of a hypothetical transcendence that Carmassi’s secular creed does not presuppose, but becomes the mark of a semantic barricade, preventing entry into the beyond. It is up to us to sense whether La
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grande porte has kept us out. Or in. For the cross is not the announcement of a necessary, foreseen sacrifice. Rather it is the ribbing of reality, painfully laid bare. Set on those oozing surfaces like a crossbow ready to loose its lethal bolt. It is a problem of rhythms, which stems from the use of certain materials. I have sought a dynamic, unstable equilibrium in the crossing. Pulling these strings, making them into knots, is almost an exultation of craftsmanship, a triumph of the non-painting, of an unusual material, stretched so that it turns into language as well. It is my tension toward nothingness. It has been said that your recent works give off a shamanic force. Are they simulacra of something? No. The simulacrum is a form with no content, a whited sepulcher. My works reflect my own spirituality, the feeling that I love of living with a degree of risk, always trying to go beyond the limits. The artist must produce a different image, one that has to accurately reflect the history and the intellectual quality of his time. It is only under these conditions that the work takes on the value of a record. By now painting has abandoned the external side of humanity. The adventure lies in the spiritual, in being and not in appearance. As for the shamanic, this is not the right term, as I’m not interested in the magical side. I’m not interested in ritual itself, but in the aesthetics of the ritual which can be used to get to the essence of things.
So Carmassi’s latest works can be seen as powerful stagings of the drama of existence. The splendid flotsam of an imminent shipwreck, that of the millennium which is drawing to an end. If the Passe-partout per l’eternità (“Passe-partout for Eternity”) of 1979 was the enigmatic mechanism of an implement of war, which opposed the exact caliber of its anomalous Cartesian axes to the emptiness of history, today it is the oozing Teofania which plays that role. An idol spreading its great wings that cast no shadow. Ready to glide in a silent flight adrift in time. Marina Pizziolo Translation by Christopher Evans 62
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BIOGRAPHICAL NOTES Arturo Carmassi was born in Lucca on July 2, 1925, but by the beginning of the thirties he and his family had already moved to Turin. Here he attended courses at the “Fontanesi School of Landscape” and, for a brief period, the Accademia Albertina. Ever since then Carmassi has been open to ideas that came to him from outside and has established contacts with the cultural and artistic world that surrounded him. Yet Turin, even though it has always looked to the heart of the European continent, with close and avowed links with France, was an extremely provincial world in the years immediately after the war. Young Turinese artists adhered to the principal Italian movements, which seemed to be divided into two opposing sides, with the supporters of a realistic Neo-Cubism drawn up against those of a Neo-Cubism that tended toward abstractionism. Carmassi, already strongly influenced by his discovery of Cubism, was able to make contact with the European art world immediately after the war and to see the works at firsthand on his trips to Paris, Zurich, Bern.... Faced with the great and weighty tradition of the historical avant-garde movements, he realized that, rather than the individual and specific “manners” of that tradition, what counted was the fundamental lesson of freedom of expression. Carmassi’s artistic position was an independent one from the outset and this kept him at arm’s length from “groups” and their theoretical declarations, allowing him to devote himself, with profound introspection, to expressing his own thoughts in the work, in his own way. Franco Russoli, allora giovane ispettore a Brera ed in seguito sovrintendente, fu per Carmassi un grande amico ed un critico attentop al suo lavoro; Emilio Jesi era uno dei più grandi collezionisti d’arte moderna italiani, che credette fin da questo momento nell’arte di Carmassi, a cui lo legò anche un sentimento di profonda amicizia.
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Durante questi anni è presente anche in importanti rassegne internazionali: infatti nel 1976 è invitato alla “X International Biennal Exibition of Prints” nel National Museum of Modern Art di Tokyo e Kyoto e nel 1978 all’esposizione curata da Pierre Restany in Palazzo Grassi a Venezia dal titolo “Venezia-Venerezia”. Nello stesso anno presenta le sue incisioni alla mostra “Grafica italiana” nel Museo d’Arte Moderna di Atene e nel 1979 alla “VI Biennale Internazionale della Grafica” in Palazzo Strozzi a Firenze e a “L’estampe aujourd’hui 1973/78” nella Bibliotèque Nationale di Parigi, mentre nel 1981 partecipa alla “Biennale della grafica europea” di Baden Baden. Le sue sculture vengono presentate nel 1979 alla “Mostra di Scultura - Città di Lucca” organizzata da Pier Carlo Santini e alla “XII Biennale Internazionale del Bronzetto” nel Palazzo della Ragione di Padova. Durante lo stesso anno aveva realizzato il “Grande Archetipo rosso”, scultura policroma, ora al museo di Digione, Fondation Granville.
The brilliance of this young artist was recognized straightaway: in 1946 Carmassi took part in the “Mostra Nazionale del bianco e nero” held in Turin, and the following year his works were presented at a one-man show in the “Saletta del Grifo.” In 1949 another exhibition was staged at the new “La Bussola” gallery, where he showed again in 1951. Even these very first exhibitions received extremely favorable reviews in the newspapers, in particular from Luigi Carluccio, a key figure in the world of Italian figurative art with whom Carmassi formed a close friendship. In Turin Carluccio organized the “Mostra Internazionale dell’Art Club” in 1949 and 1950 and then an exhibition entitled “Pittori d’oggi – Incontri Italia-Francia” for several years from 1951 onward. Carmassi took part in the shows and was thus able not only to familiarize himself with the main artistic forms of expression of the day but to make a direct comparison between them and his own work. During this early stage of Italy’s opening up to the outside world after a long period of isolation, the Venice Biennale played a fundamental role as a cultural go-between. The first Biennale to be staged after the war, in 1948, presented a broad selection of works from every tendency: Impressionism, German Expressionism, Chagall, Klee, Picasso, Braque and the School of Paris (with Bazaine, Estève, Pignon, Tal Coat, Manessier and Hartung), together with the collection of Peggy Guggenheim. The latter owned some fine Cubist and Surrealist works plus the latest creations of the Americans Gorky, Pollock, de Kooning and Clifford Still, which were now shown for the first time in Europe. The contact with the work of artists from the New York School served to broaden Carmassi’s cultural horizons. The fact that he was immediately able to grasp the significance of these new tendencies was linked to a concord between the course of his own development as an artist in isolation and their line of research, which in some ways ran parallel in their sources, ideas and intentions. The importance that Carmassi had attached to the rediscovery of the tradition of Italian Futurism and the vital stimulus that had come to him through Surrealism present interesting analogies with the influences to which the new American artists were
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Patrick Waldberg, si legò fin dal 1932 ai surrealisti, specialmente a quelli dissidenti e dal 1941 al 1951 a New York assieme a Breton partecipa alle attività del gruppo surrealista, per diventarne in seguito uno dei massimi storici. 2
Nel 1968 partecipa alla rassegna “Erotic Art”, che viene presentata nelle città di Copenhagen, Lunds, Stoccolma, Tokyo, San Francisco e nel 1969 all’esposizione “Signes d’un renouveau surrèaliste” nella galleria “Branchot” di Bruxelles. Nel 1971 viene invitato alla “II Triennale dell’Incisione” al Palazzo della Permanente di Milano alla “X Quadriennale” di Roma, al “Festival dei Due Mondi” di Spoleto e a “Due Secoli d’arte ’70 - ’70” nel Museo Poldi-Pezzoli di Milano. Durante il 1973 oltre alla sua partecipazione alla mostra “Pittura in Lombardia 1945/1973” nella Villa Reale di Monza, espone alla galleria “Jacopo della Quercia” a Siena ed alla “Libreria Internazionale Einaudi” di Milano. Mentre del 1974 sono le sue esposizioni alla galleria “Toninelli Arte Moderna” di Milano e di Roma e del 1975 alla galleria “G” di Berlino. Durante questi anni si occuparono del suo lavoro, talvolta con una certa frequenza, oltre agli affezionati amici Russoli e Carrieri: Riccardo Barletta, Massimo Carrà, Luigi Cavallo, Gianni Cavazzini, Raffaele De Grada, Mario De Micheli, Enzo Fabiani, Elda Fezzi, Giorgio Kaisserlian, Giorgio Mascherpa, Mario Perazzi, Miklos N. Varga, ecc.
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Le Journal Perpétuel o le possibiltà del segno è un’opera complessa composta da 300 tavole realizzate in litografia e calcografia, stampate in nero. Il formato delle lastre è di 300s350 mm, quello della carta di 40s50 cm. La tiratura si compone di 10 esemplari numerati.
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In questa occasione Patrick W. Goetelen realizza un film in 16 mm a colori, della durata di 19 minuti, dal titolo Carmassi Miscellanea: Ritratto di un Artista, Produzione MASP (Museo de Arte de Sâo Paulo in occasione dei sui 30 anni di attività 47-77) Ginevra/Sâo Paulo.
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subject. And his work in the years from 1949 to 1952 can truly be said to have been on the cutting edge of artistic research in Italy and abroad. And so we come to the fifties, which were a time of great changes for Carmassi. Gino Ghiringhelli, proprietor of the historic gallery “Il Milione,” came to Turin to see his work and they formed a close friendship and working relationship, which eventually saw Ghiringhelli become his dealer. Following this and other no less important meetings, such as those with Franco Russoli and Emilio Jesi,1 Carmassi was persuaded to move from Turin, where he left behind some dear friends and faithful collectors such as Nino Levi and Marcello Levi, to Milan, a city where intellectual life was much more lively. These were the years of Fontana’s theoretical manifestos and of “nuclear” painting, a tendency in which a very large number of young artists became involved, with extremely varied results. Carmassi was given a warm reception by Milanese artistic circles, where he had already formed a number of ties, including particularly warm friendships with Chighine and Tancredi. From 1952 on he lived and worked in Brera, at the center of a vivacious intellectual milieu that had close links with the rest of Europe. The first important recognition of Carmassi’s work came outside the city of Turin. In 1952, in fact, he was invited to show at the “XXVI Biennale Internazionale d’Arte” in Venice. The following year he won the “Premio Nazionale di Pittura Golfo della Spezia” and took part in the exhibition “Junge Italienische Kunst” at the Kunsthaus in Zurich and a collective show at the gallery “Il Milione.” In 1954 the same gallery gave him his first one-man show in Milan, with a catalogue introduced by Franco Russoli. The same year he held a one-man show at “La Medusa” gallery in Rome and was invited to exhibit his work at the “Biennial” of São Paulo (Brazil), the “Carnegie institute” in Pittsburgh and again at the “XXVII Biennale” in Venice. In 1957 the “Triennale d’Architettura” in Milan invited him to decorate the ceiling of the main hall designed by the Belgioioso, Peressutti and Rogers group. From that year onward Carmassi’s works began to appear in prominent exhibitions abroad: at the “Brooklyn Museum” in New York, the “Darmstadter Session – Italienischen Bildhauern” in Darmstadt and, in 1958, the “Biennial Exhibition of Sculpture” in Antwerp, together with the “Junge Italianische Plastik” staged in Darmstadt and Düsseldorf. In 1959 he held one-man shows at the “Odyssia” gallery in Rome and the “Galatea” in Turin. The following year, on the occasion of an exhibition at “Il Milione,” Franco Russoli presented the first true monograph on the artist.
In 1967 Carmassi’s works were again on show at “Il Milione” gallery in Milan, with a monograph introduced by Raffaele Carrieri. These were paintings in which the objective character of the image had been fully reclaimed. It was a leap in the dark for the artist who had already gained a prominent position on the international art scene through his personal language of “nonrepresentational abstraction.” Owing to the abrupt change in his style, the exhibition attracted much attention in the press. “Representation” had appeared in some of his sculptures as early as the middle of the fifties, but it was the figurative and concrete experience of his large composition Massacro (1957/58) that, with its true arsenal of bodies, formed the prelude to all his subsequent work. The return to representation of the landscape and the figure was the symptom of a profound crisis. This shift in the direction of his art also coincided with his departure from Milan. He withdrew to the countryside with which he felt the greatest affinity, that of Tuscany at Torre di Fucecchio, between Florence, Pisa and Lucca, where he still lives today. During his last years in Milan he had formed a tie of affection that was to play a decisive role in his life, with Marise Druart, the beloved and inseparable companion whom he was to marry in 1974. It was at the end of the sixties that this figurative world yielded its most significant results: out of it came an imaginary and fantastic dimension, in which magic, mystery and the occult took on concrete form. These paintings were shown for the first time in 1969 at the “Trentadue” gallery in Milan, directed by Alfredo Paglione. Patrick Waldberg, one of the most influential critics of the time, wrote the introduction to the catalogue. Carmassi and the American historian of Surrealism2 discovered that they had many ideas and feelings in common and this found expression in the great essay of 1972 entitled Arturo Carmassi ovvero il ricordo del bosco, published by “Trentadue” to coincide with a new exhibition in Milan. The open avowal of the influence of Klossowski, Bataille, Masson, Jarry and Artaud provided confirmation of the fact that Carmassi had established links with Surrealism right from the outset. His symbolic references, drawn predominantly from the literary tradition, were now given ample space and embodied in figures and narratives. This new figuration of Carmassi’s, as well as proving a great success with the public at innumerable exhibitions, was also praised by the critics, who found powerful intellectual and literary stimuli in it, chiefly through his declared contacts with the great Surrealists.3
In the mid-fifties Carmassi developed a strong interest in sculpture. As a consequence of this new way of relating to volume, he felt the need to give a solidity of form to his work. This implied going back to an object, to an element, that, however emblematic and nonfigurative, occupied three dimensions in space and was in some manner “represented.” Over the decade from 1955 to 1965, his activity as a sculpture took up more and more of his time and was intensified still further when, in 1959, he temporarily left Milan for Bocca di Magra. Here he set up a large sculpture studio and produced a number of works on a large scale, including Icaro and Maternità, both cast in bronze. As usual, Carmassi applied himself wholeheartedly to this form of expression and obtained results of the highest quality. This received full recognition in 1962, when an entire room at the “XXXI Biennale Internazionale d’Arte” in Venice was devoted to his sculptural works. These were presented in the catalogue by Umbro Apollonio and, photographed by Ugo Mulas, published in the Rivista Pirelli.
In the mid-seventies a new and unexpected variation on the “Carmassi” theme emerged. Sculpture, which he had always treated as a medium closely bound up with painting and graphics, and in which he often foreshadowed his later works on canvas, gained the upper hand. It was almost as if Carmassi felt the need to give structure and plastic force to his images before painting them. As early as the mid-fifties, the sculptures of his Minotauri series had hinted at some of the characteristics of his later visionary style of painting. The new sculptures, produced in the years 1975-76 and closely linked to a group of extremely lively drawings and temperas executed around the same time, made a powerful contribution to modifying his work, offering a foretaste of what was to come. They were first shown to the public, together with the drawings, temperas and engravings, in May-June 1977 at the “Palazzo dei Diamanti” in Ferrara. The introduction to the catalogue was written by Pierre Restany and the exhibition was organized by the man who was at that time director of the “Galleria Civica d’Arte Moderna,” Franco Farina.
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By now Carmassi’s importance was recognized not just in the field of the figurative arts, but within the broader horizons of international culture. In 1981, in fact, he was invited by the “Institut Collégial Européen” to take part in the international conferences held at Loches-en-Touraine on the theme of Culture and Media. Directed by Gilbert Godoffre, these opened with a conversation between Carmassi and Nathalie Serraute on the “Difficulty of Communication.” In 1982 his graphic work from 1963 to 1980 was presented in two splendid exhibitions staged on the premises of the Institutes of Art History at Innsbruck and Cologne Universities, accompanied by a catalogue introduced by Pier Carlo Santini and Hans T. Siepe. The following year he was invited to take part in the “Quadriennale Nazionale d’Arte” in Rome and the “First Traveling Exhibition of Small Sculpture,” which toured museums in the United States and Latin America. “Suisse-Romande” Radio-Television of Geneva devoted a program to him: entitled Arturo Carmassi, Peintre, Sculpteur et Graveur toscan and produced by Michel Ierrapon, it was rebroadcast by “Canadian R.T.C.” of Montreal. In 1984 Carmassi held a major exhibition at the “Castello Monumentale” in Lerici, where the whole range of his work over the last few years was presented, together with a new group of collages on paper and large paintings on canvas, entitled La grande estate. The introduction to the catalogue was written by Filiberto Menna. Between 1985 and 1986 Carmassi made the statue Le Grand Minotaure d’Auxerre for the gardens of the Lycée Jacques-Amiot in the center of Auxerre. At the time of its installation an exhibition was staged in the Saint-Germain Abbey next door to the school: covering the work he had dedicated to the figure from Cretan myth over the period from 1945 to 1985m, it was entitled “Carmassi:
Quarante Ans de Fidélité au Minotaure 1945-1985” and accompanied by a substantial catalogue, edited and introduced by Jean-Marie Drot. The same year five large sculptures of his were put on show in an exhibition mounted by Pier Carlo Santini and staged in the park of the Versiliana. His friendship and working relationship with Jean-Marie Drot grew increasingly close and in 1986 led to the staging of a major exhibition at the Villa Medici in Rome, under the auspices of the “Academy of France” of which Drot was the director. Held to mark the tenth anniversary of Malraux’s death, it was entitled the “Museo Immaginario di Arturo Carmassi” and was made up of works by masters of the past (Dürer, Redon, Méryon) and contemporary artists (de Chirico, Picasso, Klee, Licini, Kandinsky, Gino Rossi, Ensor, Miró), shown alongside some of the paintings and sculptures he had produced in recent years. At the “Museo d’Arte Contemporaneo” in Arezzo in March 1988, Carmassi exhibited paintings (sands and collages), small sculptures and, for the first time, his Suite Van Gogh, a series of eight bronze portraits made by Carmassi between 1986 and 1987 after the Dutch artist’s self-portraits. The same year he sent a large canvas entitled Honneur à Vincent (1987) to the exhibition “Hommage à Vincent van Gogh 1888-1988,” organized by the “Fondation Van Gogh” in Arles. The following year the Bibliothèque Municipale of Auxerre dedicated a major exhibition to him entitled “Arturo Carmassi graveur.” In 1990 an important one-man show was organized for him in Strasbourg by the FNAC in collaboration with the city of Strasbourg and the Council of Europe. The same year Carmassi executed Ganos, a 5·4-meter-high iron sculpture, for the new Paris headquarters of British Petroleum (at Cergy Saint-Christophe). The year after that he staged a one-man show at the “Simoncini” gallery in Luxembourg, with works covering the period from 1975 to 1991. Shortly before this, Liliane Thorn Petit had filmed an interview with him for Luxembourg Radio-Television that was broadcast under the title Portrait d’Artiste, Arturo Carmassi, peintre, graveur et sculpteur. In 1992 an exhibition of his works from 1951 to 1961, drawn from public and private collections, was held at “Il Ponte” gallery in Florence. A major retrospective was staged at Palazzo Lanfranchi in Pisa from 1992 to 1993, including an important group of pictures painted between 1975 and 1992. The publication that accompanied the exhibition was introduced by an excellent and systematic essay from Pierre Restany, offering an extremely lucid picture of Carmassi’s work. In 1994 “Il Ponte” gallery in Florence presented a group of his works on paper executed between 1977 and 1994, while the “Santo Moretto” gallery at Monticello Conte Otto (Vicenza) showed a suite of his collages from the fifties, accompanied by a catalogue with a poetic text by Andrea Zanzotto. In 1995 an important publication, introduced by Geno Pamploni and entitled Sabbie, looked at the works he had produced using sand as a material since 1976. These were then put on show at “Il Ponte” gallery in Florence and the “Santo Moretto” gallery at Monticello Conte Otto (Vicenza). During the same year he worked on a large fountain made of travertine entitled Ganos II for the city of Auxerre and the publishing houses “Il Ponte” in Italy and “Le Moniteur” in France brought out a joint publication to celebrate his seventieth birthday: a substantial monograph dedicated to his painting from 1945 to 1995, it was presented the following year at numerous prestigious occasions. In 1997 the Fondazione Querini Stampalia in Venice devoted an important exhibition to him, mounted by Luca Baldin and Chiara Bertola and accompanied by a catalogue with a poetic text by Bernard Manciet. In September-October 1998 the Gana-Beaubourg gallery in Paris staged a major show of his recent works.
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During this period copper engraving and lithography assumed great importance for Carmassi. It was through these techniques that he thoroughly explored the possibilities of the line in his Journal perpétuel, in a research that was to open up very broad horizons.4 The Journal was presented, with a magnificent catalogue introduced by Arnold Kohler, Giuseppe Cantelli and Dominique Baechler, at the “Calcografia di Stato e Istituto Nazionale per la Grafica” in Rome, the “Musée Cantonal des BeauxArts Palais de Rumine” at Lausanne and the “Museu de Arte de São Paulo” in São Paulo5 in 1978, at the “Fundação cultural de Brasilia” in Brasilia in 1979 and at the “Palazzo dei Diamanti” in Ferrara in 1980. In the same year the Journal perpétuel and other engravings, along with sculptures from the same period, were exhibited at the “Real Collegio de España” in Bologna and the “Maisons de la Culture André Malraux” in Rennes and Reims, with a weighty catalogue containing an essay by Bram A.M. Hammacher.6 In 1978 two important monographs on Carmassi were published: one by Roberto Tassi, which still placed great emphasis on the pictures he had painted between 1967 and 1975, and one by Pier Carlo Santini, in the “Maestri Contemporanei” series, devoted exclusively to the sculpture he had produced between 1975 and 1978. The following year Jean-Marie Drot conducted a series of interviews on Arturo Carmassi in the program A comme Artiste broadcast by Radio-France, and the year after that made a film about him called L’Art et les Hommes: Arturo Carmassi le Toscan, written by himself and produced for French television. In 1980 a major monograph in two volumes by Giovanni Accame was published by “Il Punto,” Florence-Rome. With an extensive range of reproductions, this presented his work over the preceding five years in all the different media that he had employed and in its full complexity.
In the nineties, while continuing and developing the insights and work of the last fifteen years, Carmassi has taken on a new challenge, perhaps less conspicuous than the ones that preceded it but in some ways still more profound. He has felt the need to reduce his means of expression to a minimum, to pare his language down, stripping it of any element that is not absolutely necessary. The outcome has been a group of works, many of them reproduced here, that are highly condensed in their style and thought.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE/SELECTED BIBLIOGRAPHY
6 During these years he also took part in a number of important international exhibitions. In fact in 1976 he was invited to show at the “10th International Biennial Exhibition of Prints” at the National Museums of Modern Art in Tokyo and Kyoto and in 1978 at the exhibition mounted by Pierre Restany at Palazzo Grassi in Venice, entitled “Venezia-Venerezia.” The same year his engravings were presented at the exhibition “Grafica italiana” at the Museum of Modern Art in Athens and in 1979 at the “VI Biennale Internazionale della Grafica” at Palazzo Strozzi in Florence and “L’estampe aujourd’hui 1973/78” at the Bibliothèque Nationale in Paris. In 1981 he participated in the “Biennial Exhibition of European Graphics” in Baden-Baden. In 1979 his sculptures were shown at the “Mostra di Scultura – Città di Lucca” organized by Pier Carlo Santini and at the “XII Biennale Internazionale del Bronzetto” at the Palazzo della Ragione in Padua. This was also the year in which he executed the Grande Archetipo rosso, a polychrome sculpture now in the Dijon Museum, Fondation Granville.
Franco Russoli, Arturo Carmassi - Dodici opere, Collana “Giovane Pittura Italiana”, Edizioni del Milione, Milano 1960 Beniamino Joppolo, testo del 1961, pubblicato nel volume in-folio, Carmassi 16 opere 1992-1993, Edizioni Il Ponte, Firenze 1993 Raffaele Carrieri, Nuovo Brogliaccio: Carmassi - Introduzione a dodici opere, Edizioni del Milione, Milano 1967 Leonardo Sciascia, La faccia ferina dell’Umanesimo - Ventisette disegni di Carmassi, Edizioni Trentadue, Milano 1970 Pierre Klossowski, Arturo Carmassi, Edizioni Trentadue, Milano 1972 Patrick Waldberg, Arturo Carmassi ovvero il ricordo del bosco sacro, Edizioni Trentadue, Milano 1973 Giancarlo Vigorelli, Il traguardo di Carmassi, Edizioni Toninelli Arte Moderna, Milano 1974 Pier Carlo Santini, Arturo Carmassi: esplorazione e fantasia, Edizione italiana “Maestri Contemporanei”, Vanessa Editrice, Milano 1976 Roberto Tassi, Arturo Carmassi, Collana “Terzocchio”, Edizioni Bora, Bologna 1976 AA.VV., Journal perpétuel o le possibilità del segno, Edizioni MGB, Genève, São Paulo 1978 Bram A.M. Hammacher, Carmassi 1975-1980, Edizioni “Maison de la Culture” di Rennes e Reims, 1980 Giovanni Accame, Le possibilità del segno - Arturo Carmassi 1975-1980, Edizioni Il Punto, Firenze 1980 Pier Carlo Santini, Hans T. Siepe, Carmassi - Grafica 1963-1980, Innsbruck e Köln 1980 Gianni Cavazzini, Arturo Carmassi, Consigli Arte, Parma 1981 Filiberto Menna, Carmassi - La grande estate, Biennale d’Arte Editrice, La Spezia 1984 Jean-Marie Drot, Carmassi: quarante ans de fidelité au Minotaure 1945-1985, Auxerre 1985 Jean Marie- Drot, Museo Immaginario di Arturo Carmassi, Accademia di Francia a Roma, Villa Medici, Roma 1986 Jean Marie-Drot, Il triangolo segreto di Arturo Carmassi, Edizione Museo d’Arte contemporanea di Arezzo, Arezzo 1988 Arturo Carmassi, ritratti - Bronzi 1953-1988, Edizioni Il Campanile, Lerici 1989 Romeo Lucchese, Arturo Carmassi - Peinture et collages 1978-1989, Edizioni Il Campanile, Lerici 1990 Jean Marie-Drot, Carmassi 16 opere 1975-1991, Edizioni Il Ponte, Firenze 1991 Andrea Alibrandi, Arturo Carmassi - Dipinti e collages 1951-1961, Edizioni Il Ponte, Firenze 1992 Pierre Restany, Andrea Alibrandi, Arturo Carmassi - Dipinti e collages 1975-1992, Edizioni Il Ponte, Firenze 1992 Andrea Alibrandi, Arturo Carmassi - La lumière d’antan e la materia adamantina, Edizioni Il Ponte, Firenze 1994 Geno Pampaloni, Per “Sabbie” di Arturo Carmassi , Edizioni Il Ponte, Firenze 1995 Pierre Restany, 50 anni d’immagini del nostro secolo, e Andrea Alibrandi, Implicazioni critiche, Edizioni Il Ponte, Firenze 1995 (edizione italiana), “Le Moniteur”, Parigi 1995 (edizione francese) Luca Baldin, Chiara Bertola, Bernard Manciet, Carmassi - Fondazione Querini Stampalia, Edizioni Il Ponte, Firenze 1997 Bernard Manciet, Carmassi - Espace Cardin, Editions Le Moniteur, Parigi 1998 Giuliano Menato - Marina Pizziolo, Carmassi - Galleria Civica d’Arte Moderna di Valdagno, Edizioni Il Ponte, Firenze 1998
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His restless spirit has always led him to explore new territories. The result of this is a body of work that, through Carmassi’s ability to impart a living presence to images based on an understanding that has always been firmly ensconced in the contemporary world, is absolutely “modern.” This incessant reaching out toward “modernity” cannot be seen as a quest for novelty, but as a determination and need to be “up-to-date.” Fully aware, as Jacques le Goff has put it, that Europe is not old, it is ancient. The world is not modern, it is up-to-date. Tradition, if used well, is a resource. Andrea Alibrandi Translation by Christopher Evans 1 Franco Russoli, then a young supervisor at Brera and later head of the Fine Arts and Monuments Service, was a great friend to Carmassi and an attentive critic of his work. Emilio Jesi was one of the great collectors of modern Italian art, who from this moment on showed faith in Carmassi’s art and established a close friendship with him. 2 Patrick Waldberg had been linked with the Surrealists since 1932, especially with the dissident members of the movement, and along with Breton had taken part in the activities of the Surrealist group in New York from 1941 to 1951, going on to become one of its principal historians. 3 In 1968 he took part in the exhibition “Erotic Art,” staged in Copenhagen, Lund, Stockholm, Tokyo and San Francisco, and in 1969 in the show entitled “Signes d’un renouveau surréaliste” at the “Branchot” gallery in Brussels. In 1971 he was invited to show at the “Triennale dell’Incisione” at the Palazzo del Permanente in Milan, the X Quadriennale” in Rome, the “Festival of Two Worlds” at Spoleto and “Due Secoli d’arte ‘70-’70” at the Museo Poldi-Pezzoli in Milan. In 1973, in addition to participating in the exhibition “Pittura in Lombardia 1945/1973” at the Villa Reale in Monza, he showed at the “Jacopo della Quercia” gallery in Siena and the “Libreria internazionale Einaudi” in Milan. In 1974 he had exhibitions at the “Toninelli Arte Moderna” galleries in Turin and Rome and in 1975 at the “G” gallery in Berlin. During these years a number of critics wrote about his work, some of them quite frequently. In addition to his old friends Russoli and Carrieri, these included Riccardo Barletta, Massimo Carrà, Luigi Cavallo, Gianni Cavazzini, Raffaele De Grada, Mario De Micheli, Enzo Fabiani, Elda Pezzi, Giorgio Kaisserlian, Giorgio Mascherpa, Mario Perazzi and Miklos N. Varga. 4 Le Journal perpétuel o le possibilità del segno is a complex work made up of 300 copper engravings and lithographs, printed in black and white. The format of the plates was 300x350 mm and that of the paper 40x50 cm. The work was produced in a limited edition of ten numbered copies. 5 On this occasion Patrick W. Goetelen made a 16-mm color film, lasting for 19 minutes and entitled Carmassi Miscellanea. Ritratto di un Artista, produced by the MASP (Museu de Arte de São Paulo) on the occasion of the 30th anniversary of its foundation in 1947, Geneva-São Paulo.
FILMS E PRINCIPALI INTERVISTE RADIOTELEVISIVE/FILMS AND MINE RADIO AND TELEVISION INTERVIEWS
INDICE DELLE TAVOLE/INDEX OF PLATES
1977
Abbreviazioni bibliografiche/Bibliographycal Abbreviations
Arturo Carmassi im Museum fur Kunst und Geschichte di Friburgo, intervista di Michel Terrapon per la Televisione della Suisse Romande, 15 minuti, colore Lola Bonora, Conversazioni con Arturo Carmassi e Franco Farina sulla mostra alla Galleria Civica d’Arte Moderna, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, maggio-giugno 1977 Carmassi Miscellanea: Ritratto di un Artista, Produzione MASP/Ginevra/Sâo Paulo, Film 16 mm, colore, durata 19 minuti 1979 A comme Artiste, serie di interviste dedicate ad Arturo Carmassi da “France-Culture” e diffusi su Radio-France i giorni 23, 24, 25, 28 e 29 maggio 1979 1980 L’Art et les hommes: Arturo Carmassi le Toscan, un film scritto e realizzato da Jean-Marie Drot per conto della Televisione Francese e co-prodotto dalla T.F.I. e la S.F.P., Film 16 mm, colore, durata 59 minuti Arturo Carmassi, Peintre, Graveur et Sculpteur Toscan, serie di interviste di Michel Terrapon per il programma culturale della Radio Televisione della “Suisse Romande”, Ginevra, gennaio e marzo 1983 e ritrasmesso dalla Canadian R.B.C. in ottobre 1983
Joppolo 1993: Beniamino Joppolo, Carmassi 16 opere 1992-1993, Edizioni Il Ponte, Firenze 1993 Restany/Alibrandi 1995: Pierre Restany, Carmassi 50 ans d’images de notre siècle Andrea Alibrandi, Implications critiques, Editions Le Moniteur, Paris - Edizioni Il Ponte, Firenze 1995 Farina 1996: Franco Farina: Plasticità e cromatismo di Arturo Carmassi in “Biennale Aldo Roncaglia - XXV Edizione”, San Felice sul Panaro 1996 Baldin/Bertola 1997: Luca Baldin, Carmassi idealista senza illusioni - Chiara Bertola, Nessun istante è uguale all’altro, Edizioni Il Ponte, Firenze 1997 Manciet 1998: Bernard Manciet, Pleine Terre, Edizioni Il Ponte, Firenze 1998 Menato/Pizziolo 1998: Giuliano Menato, Viaggio e Teofania - Marina Pizziolo, Alla deriva del tempo, Edizioni Il Ponte, Firenze 1998
03. Otage, 1996
07. Second grand reportage horizontal, 1995
sabbia, legno, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, wood, different materials and mixed media on canvas 100s100 cm Bibliografia/Bibliography Baldin/Bertola 1997, pl. 52 Manciet 1998, pl. 3 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997
01. A l’interieur de l’arche, 1993
Portrait d’Artiste, Arturo Carmassi, peintre, graveur et sculpteur, film intervista realizzato da Liliane Thorn Petit, per la R.T.L. - Radio televisione Lussemburghese, film 16 mm, colore, durata 19 minuti
sabbia, collage e acrilico su tela sand, collage and acrylic on canvas 127s105 cm Bibliografia/Bibliography Joppolo 1993, n° 11 Restany/Alibrandi 1995, pl. 130 Baldin/Bertola 1997, pl. 10 Manciet 1998, pl. 1 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997 Galleria Il Ponte, Firenze 1998
sabbia, legno, corda e tecnica mista su tela sand, wood, rope and mixed media on canvas 173s143 cm Bibliografia/Bibliography Farina 1996, p. 109 Manciet 1998, pl. 4 Esposizioni/Exhibitions XXV Biennale d’Arte Aldo Roncaglia, San Felice sul Panaro 1996 Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997
sabbia e tecnica mista su tela sand and mixed media on canvas 127s109 cm
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Esposizioni/Exhibitions Galerie Du Moniteur, Paris 1996 Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997 Galleria Il Ponte, Firenze 1998
sabbia, legno, iuta e tecnica mista su tela sand, wood, jute and mixed media on canvas 80s70 cm Bibliografia/Bibliography Baldin/Bertola 1997, pl. 25 Manciet 1998, pl. 8 Menato/Pizziolo 1998, pl. 18 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997 Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
09. Haïkaï pour René Druart, 1995 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, wood, different materials and mixed media on canvas 173s143 cm Bibliografia/Bibliography Baldin/Bertola 1997, pl. 41 Manciet 1998, pl. 5 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997
06. Troisième grand reportage vertical, 1995 02. L’amour éternel, 1995/96
Bibliografia/Bibliography Restany/Alibrandi 1995, pl. 158 Baldin/Bertola 1997, pl. 19 Manciet 1998, pl. 7
08. Haïkaï pour Marise, 1995
04. Grand large, 1996
05. En mémoire des Anarchistes Catalans, 1996
1989
sabbia, collage e tecnica mista su tela sand, collage and mixed media on canvas 142,5s162 cm
sabbia, collage e tecnica mista su tela sand, collage and mixed media on canvas 162,5s142 cm
gesso, collage e tecnica mista su tela plaster, collage and mixed media on canvas 125,5s107 cm Bibliografia/Bibliography Restany/Alibrandi 1995, pl. 172 Baldin/Bertola 1997, pl. 24 Manciet 1998, pl. 9 Menato/Pizziolo 1998, pl. 19 Esposizioni/Exhibitions Galerie Du Moniteur, Paris 1996 Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997 Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
10. Grand reportage blanc, 1995 sabbia, collage, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, collage, different materials and mixed media on canvas 172s142 cm
Bibliografia/Bibliography Baldin/Bertola 1997, pl. 50 Manciet 1998, pl. 2
Bibliografia/Bibliography Restany/Alibrandi 1995, pl. 159 Baldin/Bertola 1997, pl. 20 Manciet 1998, pl. 6 Menato/Pizziolo 1998, pl. 22
Bibliografia/Bibliography Restany/Alibrandi 1995, pl. 156 Baldin/Bertola 1997, pl. 15 Manciet 1998, pl. 10
Esposizioni/Exhibitions Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997 Galleria Il Ponte, Firenze 1998
Esposizioni/Exhibitions Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997 Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
Esposizioni/Exhibitions Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997 Galleria Il Ponte, Firenze 1998
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11. Dans le temps et dans l’espace, vers de nouveaux systèmes, 1996 materiali diversi e tecnica mista su tela different materials and mixed media on canvas 173s143 cm Bibliografia/Bibliography Baldin/Bertola 1997, pl. 26 Manciet 1998, pl. 11 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997
12. Grand reportage blanc, 1995 sabbia, collage e tecnica mista su tela sand, collage and mixed media on canvas 173s142 cm Bibliografia/Bibliography Farina 1996, p. 108 Baldin/Bertola 1997, pl. 27 Manciet 1998, pl. 12 Esposizioni/Exhibitions XXV Biennale d’Arte Aldo Roncaglia, San Felice sul Panaro 1996 Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997 Galleria Il Ponte, Firenze 1998
13. Grand reportage horizontal, 1995 sabbia, collage e tecnica mista su tela sand, collage and mixed media on canvas 142s163 cm Bibliografia/Bibliography Restany/Alibrandi 1995, pl. 156 Baldin/Bertola 1997, pl. 18 Manciet 1998, pl. 13 Esposizioni/Exhibitions Galerie Du Moniteur, Paris 1996 Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997 Galleria Il Ponte, Firenze 1998
14. Epave eternelle, 1996 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 143s173 cm Bibliografia/Bibliography Baldin/Bertola 1997, pl. 29 Manciet 1998, pl. 14 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Querini Stampalia, Venezia 1997 Galleria Il Ponte, Firenze 1998
15. Eté, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 127s110 cm
Manciet 1998, pl. 15 Menato/Pizziolo 1998, pl. 27
21.
sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 100s100 cm
Esposizioni/Exhibitions Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99 Collezione Società Aeroporto Toscano S.p.A. Aeroporto Galileo Galilei, Pisa
Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 21
16. Fin de l’été, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 110s138 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 16
Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998
22. La cage et le papillon, 1997 rilievo, sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela relief, sand, different materials and mixed media on canvas 100s100 cm
17. Mistral, 1996/97 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 111s127 cm
Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 22
23.
Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 17
18. Delfica, 1996/97 materiali diversi e tecnica mista su tela different materials and mixed media on canvas 128s110 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 18 Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998
19. Thora, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 66s79 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 19 Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998
20. Oracolo romano, 1996/97 rilievo, materiali diversi e tecnica mista su tela relief, different materials and mixed media on canvas 100s100 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 20 Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998
Les mystéres du miel, 1996/97
Sour le route de Damas, 1996/97 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 170s138 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 23 Menato/Pizziolo 1998, pl. 46 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
24. Anabase, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 110s128 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 24 Menato/Pizziolo 1998, pl. 26 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
25. Autunnale, 1997
26. Memorie toscane I, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 100s100 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 26
27. Memorie toscane II, 1997 materiali diversi e tecnica mista su tela different materials and mixed media on canvas 154s121 cm
33. Memorie toscane IX, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 110s130 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 33 Menato/Pizziolo 1998, pl. 28 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99 Collezione Pallanti, Adine, Siena
Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 27
28. Memorie toscane III, 1997 materiali diversi e tecnica mista su tela different materials and mixed media on canvas 107s134 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 28
29. Memorie toscane V, 1997 materiali diversi e tecnica mista su tela different materials and mixed media on canvas 134s110 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 29 Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998
30. Memorie toscane VI, 1997 materiali diversi e tecnica mista su tela different materials and mixed media on canvas 136s109 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 30
31. Memorie toscane VII, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 109s130 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 31
32. Memorie toscane VIII, 1997
sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 112s130 cm
sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 130s110 cm
Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 25
Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 32
materiali diversi e tecnica mista su tela different materials and mixed media on canvas 150s150 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 38
39. Le noeud de minuit, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 127s107 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 39
34. Memorie toscane X, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 130s110 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 34 Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998
35. Haïkaï pour Henri Druart, 1997 materiali diversi e tecnica mista su tela different materials and mixed media on canvas 102s83 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 35 Menato/Pizziolo 1998, pl. 25 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
40. Clair de lune, 1997 materiali diversi e tecnica mista su tela different materials and mixed media on canvas 150s150 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 40
41. Nouvelles du Pacifique, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 100s100 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 41
42. Keiko, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 164s119 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 42
36. Inamovibile, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 130s110 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 36 Menato/Pizziolo 1998, pl. 29 Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998 Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
37. Albrecht, 1997
Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998
43. Arles, 1997 sabbia, legno, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, wood, different materials and mixed media on canvas 127s109 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 43
44. Isabelle, 1996/97
materiali diversi e tecnica mista su tela different materials and mixed media on canvas 110s130 cm
sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 154s120 cm
Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 37
Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 44
Bibliografia/Bibliography
200
38. Dans l’espace, 1997
201
45. Sardana, 1997 rilievo, sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela relief, sand, different materials and mixed media on canvas 126s112 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 45 Menato/Pizziolo 1998, pl. 57 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
46. Sardana, 1997 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 112s138 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 46 Menato/Pizziolo 1998, pl. 33 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
47. Pasqua a Siviglia, 1997 rilievo, sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela relief, sand, different materials and mixed media on canvas 160s160 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 47
48. Pierrot lunaire, 1997 rilievo, corda e tecnica mista su tela relief, rope and mixed media on canvas 132s109 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 48 Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998
49. La grande porte, 1997 sabbia, legno, iuta, corda e tecnica mista su tela sand, wood, jute, rope and mixed media on canvas 160s160 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 49 Menato/Pizziolo 1998, pl. 36 Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998 Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
50. Zone inconnue, 1996/97 materiali diversi e tecnica mista su tela different materials and mixed media on canvas 132s109 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 50
56. Drums, 1997/98 rilievo, sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela relief, sand, different materials and mixed media on canvas 110s132 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 56
51. Conferma, 1995 sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, different materials and mixed media on canvas 80s70 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 51
52. Interregno, 1997 sabbia, legno, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, wood, different materials and mixed media on canvas 160s155 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 52 Menato/Pizziolo 1998, pl. 31 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
53. La grande valse, 1997 sabbia, legno, materiali diversi e tecnica mista su tela sand, wood, different materials and mixed media on canvas 150s120 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 53
54. Teofania, 1998 rilievo, sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela relief, sand, different materials and mixed media on canvas 120s153 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 54 Menato/Pizziolo 1998, pl. 35 Esposizioni/Exhibitions Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
55. La melancolia, 1998
57. In albis, 1998 rilievo, sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela relief, sand, different materials and mixed media on canvas 180s260 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 57 Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998
Trasfigurazione, 1997/98
pag. 10
pag. 44
collage, materiali diversi e tecnica mista su tela collage, different materials and mixed media on canvas 83s73 cm
collage, sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela collage, sand, different materials and mixed media on canvas 125s100 cm
Bibliografia/Bibliography Menato/Pizziolo 1998, p. 50
Bibliografia/Bibliography Menato/Pizziolo 1998, p. 44
Le deux Saint Marie, 1997
Ciò che resta, 1998
pag. 18
Barrage, 1997
pag. 53
collage, materiali diversi e tecnica mista su tela collage, different materials and mixed media on canvas 109s128 cm
collage, materiali diversi e tecnica mista su tela collage, different materials and mixed media on canvas 110s130 cm
Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, p. 22
Bibliografia/Bibliography Menato/Pizziolo 1998, p. 55
58. Vestige, 1998 sabbia, legno, corda e tecnica mista su tela sand, wood, rope and mixed media on canvas 197s178 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 58
59. Grand changement, 1998 sabbia, corda, filo di ferro, iuta e tecnica mista su tela sand, rope, wire, jute and mixed media on canvas 182s202 cm Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 59 Menato/Pizziolo 1998, pl. 30 Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998 Fondazione Marzotto, Valdagno 1998/99
60. Grande teofania, 1998 rilievo, sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela relief, sand, different materials and mixed media on canvas 190s215 cm
rilievo, sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela relief, sand, different materials and mixed media on canvas 119s150 cm
Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 60
Bibliografia/Bibliography Manciet 1998, pl. 55
Esposizioni/Exhibitions Galerie Gana-Beaubourg, Paris 1998
202
ILLUSTRAZIONI NEL TESTO/ILLUSTRATIONS IN THE TEXT
Ciò che resta II, 1998
pag. 26
pag. 54
collage, materiali diversi e tecnica mista su tela collage, different materials and mixed media on canvas 130s106 cm
rilievo, collage, materiali diversi e tecnica mista su tela relief, collage, different materials and mixed media on canvas 148s202 cm
Talismano, 1999
Camargue, 1997/98
Bibliografia/Bibliography Menato/Pizziolo 1998, p. 48
pag. 34
collage, materiali diversi e tecnica mista su tela collage, different materials and mixed media on canvas 67s80cm
Maestrale, 1999
pag. 41
collage, materiali diversi e tecnica mista su tela collage, different materials and mixed media on canvas 110s134 cm
Ciò che resta, 1999
pag. 43
collage, materiali diversi e tecnica mista su tela collage, different materials and mixed media on canvas 240s240 cm
203
Trasfigurazione, 1997/98, collage, sabbia, materiali diversi e tecnica mista su tela / collage, sand, different materials and mixed media on canvas, 125s100 cm Le deux Saint Marie, 1997, collage, materiali diversi e tecnica mista su tela /collage, different materials and mixed media on canvas, 110s130 cm Ciò che resta II, 1998, rilievo, collage, materiali diversi e tecnica mista su tela / relief, collage, different materials and mixed media on canvas, 148s202 cm Talismano, 1999, collage, materiali diversi e tecnica mista su tela / collage, different materials and mixed media on canvas, 67s80cm Maestrale, 1999, collage, materiali diversi e tecnica mista su tela / collage, different materials and mixed media on canvas, 110s134 cm Ciò che resta, 1999, collage, materiali diversi e tecnica mista su tela / collage, different materials and mixed media on canvas, 240s240 cm Ciò che resta, 1998, collage, materiali diversi e tecnica mista su tela / collage, different materials and mixed media on canvas, 83s73 cm Barrage, 1997, collage, materiali diversi e tecnica mista su tela / collage, different materials and mixed media on canvas, 109s128 cm Camargue, 1997/98, collage, materiali diversi e tecnica mista su tela /collage, different materials and mixed media on canvas, 130s106 cm
Questo volume a cura di Andrea Alibrandi è stato stampato dalla Tipografia Bandecchi & Vivaldi di Pontedera per i tipi delle Edizioni “Il Ponte” Firenze Firenze, marzo millenovecentonovantanove