RENATO RANALDI
SCIOPERÍI
RENATO RANALDI SCIOPERÍI Testo e disegni di
Renato Ranaldi Postfazione
Bruno Corà
Crediti fotografici
Torquato Perissi Stefano Tondo Redazione editoriale
Susanna Fabiani Enrica Ravenni Traduzione in inglese
Helen Cleary Grafica
Alessio Marolda Impianti e stampa
Tipografia Bandecchi & Vivaldi, Pontedera (PI)
© copyright 2016
per l’edizione Gli Ori 51100 Pistoia - Via L. Ghiberti, 6 tel +39 057322607 www.gliori.it info@gliori.it Galleria Il Ponte 50121 Firenze - Via di Mezzo, 42/b tel +39 055240617 fax +39 0555609892 www.galleriailponte.com info@galleriailponte.com ISBN 978-88-7336-624-9
SOMMARIO
p. 7
SCIOPERÍI Renato Ranaldi
p. 31
GLI SCIOPERÍI DI RANALDI Bruno Corà
p. 35
TAVOLE DEGLI SCIOPERÍI Renato Ranaldi
p. 101
SCIOPERÍI Renato Ranaldi
p. 125
RANALDI’S SCIOPERÍI Bruno Corà
SCIOPERÍI
Leggendo quanto segue sarebbe il caso fare piazza pulita di qualsiasi miseria psicoanalitica suggerita a torto da certe descrizioni. Peregrinare in mezzo a ingegnose quanto gratuite configurazioni mi ha reso predatore d’immagini. Ne ho adottate in quantità, con disinvoltura, ma, alla fine, mi hanno messo con le spalle al muro sottraendomi l’ultimo soggetto degno di rappresentazione; allora ho deciso per il testo biblico della pagina bianca che si lascia inquinare solo da segni come folgorazioni, razzi illuminanti ai suoi margini: gli scioperíi.1
Disegnare o meglio scarabocchiare ai bordi del foglio, è crudeltà. Sembrano assalti che si fanno per spregio, per provocare una stizza dolorosa; l’immaginario-guida mi nega ogni profilo identitario, ma proietta la suggestione d’incompiutezza dalla quale attingo conoscenze teriomorfe. Ne traggo essenze per produrre il fondamento che dà concretezza all’Impossibile. Questo processo non si decide a un esito vero e proprio, cancella ogni definizione e promette chissà quali danni. Preferisce minacciare. Una piazza dopo una nevicata, se la vedi a volo d’uccello dalla finestra, si offre come il luogo dove avviene la dissoluzione dell’universo d’immagini, non chiede di essere abitata, sporcata, anche se, sadicamente, accende lo spirito di fornicazione che induce a contaminare superfici intatte con la proiezione di fantasmi che si guardano bene dal rivelare un’identità. Invadere a distanza la pagina bianca della piazza è possibile, anche a occhi chiusi lo è. Con la penna tra le dita, metto mano a qualche bravata sulla carta, mi inoltro in un’eternità da scompisciarsi dal ridere, una meravigliosa comprensione del comico e recito a me stesso l’ultimatum sublime della volgarità che fa di ogni gesto una contrazione di disgusto. Esiste il rimedio: basta cedere al più lieve scarto epilettico della mano per fuggire da tutto quello che è ermeticamente chiuso, murato in un significato che fa disperare: una galera dalla quale cerchi
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di evadere scavando una breccia per sbucare finalmente all’aria aperta nelle regioni dell’eresia. Ma lo sterramento è un’impresa disperante e non c’è un abate Faria a darti l’esempio e un po’ di speranza. Non basta dimostrare a se stesso di non essere d’accordo col mondo camminando con perversa ostinazione nella parte sbagliata della strada a rischio di essere investito dalle auto, infilare il piede sinistro nella scarpa destra, alle inaugurazioni emettere suoni come quelli che si sentono in un pollaio nel cuore della notte. Così, tanto per spaventare tutti. Adotto il peggio per respingere l’idea opprimente di disegnare che, in fondo, è il mio desiderio; se disegno devo consegnare a un foglio i demoni che mi annichiliscono, ma di cui non posso fare a meno: geniale il modo di farsi male. Nonostante tutto, mi trovo ancora con la penna in mano, pronto a crogiolarmi nella violenza escrementizia di irriducibili sgorbi, accadimenti cristallizzati in forma di ghirigori dietro i miei occhi, cioè nel pensiero. Ma non è veggenza, si tratta sempre di me e solo di me, un autobiografismo che c’è da augurarsi possa essere riscattato, anzi elevato a mito. Non demordo con la distruzione dissennata del linguaggio che, forte dei codici, farebbe coincidere il luogo e il momento eccellente della composizione proprio nel centro della pagina provocando l’orgogliosa ragione della centralità. Proprio quella che tendo ad assassinare barbaramente. Tutto è in punta di penna, ma se il pennino si dovesse spuntare — auspicabile incidente di percorso — sarebbe l’incidente stesso a suggerire una nuova tecnica dettando la legge di una sintassi che nega l’egemonia del controllo. Meglio optare per l’ indeterminatezza che dichiara essere tutto e niente, che non si dà mai perché indifferente: è amorfa. Non rimane che il gesto aperto dell’inversione forsennata, indeterminata e ambivalente, la contraddizione a oltranza, propria dei valori rovesciati che si potenziano quando li spodesti. Non conosco un gesto che abbia la stessa maestà di quella che viene dalle regioni dell’alea; mi auguro di poter adeguare il mio ritmo affannoso a una cadenza epica, qualcosa che, me lo sento, cercherò per il resto dei miei giorni. La carta aspetta, spera in una traccia, un minimo accenno, si accontenterebbe di poco, ma viene tradita dal mio essere senza fondo che s’imbatte sempre in qualche resistenza: il foglio resta anemicamente vergine. Il medio e l’indice della destra perennemente macchiati d’inchiostro testimoniano che il tentativo di ritrarre il tema-ossessione (tanto inutile quanto ridicolo) c’è stato. Ma la fisionomia del mondo non è ritraibile: troppo aperta, troppo libera e selvaggia, ma anche troppo fragile: riflette il mistero di una comicità endemica. La mano, nello spasimo di nuovi riflessi e impulsi, con scarti rapidissimi, si sottrae al richiamo di profilare un soggetto, si nega l’ovvietà del comporre e si getta ai bordi del foglio per imbrattarli di illuminanti testimonianze nerochina, tic degni di curiosità psichiatrica, indagini sopra registri inesplorati dell’esistenza, estratti dalla contemplazione della propria augusta solitudine. Roba che sembra sgorgata da un delirio di automatismo.
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Non c’è un soggetto degno di rappresentazione: ciò può significare che nel fondo senza fondo delle cose c’è il silenzio. Una tela vergine non è stata violata, il campo dove la mano felice potrebbe dimostrare la sua bravura e darsi lustro è stato disertato. Solo a lato spadroneggiano le isterie di una rappresentazione che si nega felice di negarsi, che sa di avere strappato una rivincita ai modi imperanti sperperando in sventata sovrabbondanza, leggerezze cariche di pathos. E’ il sentiero in salita della rivolta che rende testimonianza tramite il capriccio, la lingua delle orge supreme se la prende comoda e si dà alla pazza gioia, dichiarandosi pronta a tutto. La maniera frettolosa, sciatta resta al vertice, ha un obbiettivo: dispiacere a chi leggerà il manifesto dell’abilità e a chi non se ne buggera della genuflessione di fronte all’altare dell’Arte, durata almeno quaranta secoli.
IL BINARIO MORTO DEL DISEGNUCCIO I nodi vengono al pettine. Da ragazzino avevo una faccia che parevo un puttino anemico e neghittoso, qualcuno mi aveva messo in testa che sarei diventato un artista; ma istinti strangolati dalla decenza mi devastavano: ero pigro, l’ipostasi caricaturale della noia. Piuttosto che correre ai ripari cercando di trascorrere qualche ora con un mio simile, subivo l’inedia: fu un’abitudine, non potevo farne a meno. Ero perennemente contrariato, perché il giorno mi sottraeva i doni che la notte mi dispensava. Di tanto in tanto, avevo delle crisi che, a ragion veduta e alla distanza di sessantacinque anni, si potrebbero definire di panico. Di solito avvenivano d’estate, nel silenzio pomeridiano dell’ora del lupo quando, col sole che spacca le pietre, i muri sprigionavano un calore grigio e ocra come le case dalle quali proveniva: entrava dalla finestra di camera mia e scaldava le pareti che sembravano neve fresca. Quella calura faceva delle strade e le piazze un deserto che si sarebbe popolato di lì a poco da gente assonnata, tutti reduci dal sonnellino pomeridiano, la testa svuotata dai ricordi brucianti, solo qualche scheggia di coscienza bacata che li faceva ripiombare nelle loro occupazioni, sullo sfondo d’un incanagliamento attivo destinato a sfociare in delusioni. I sonnacchiosi agognavano solo il caffè per ripartire coi loro traffici. Non volevo fare la fine di quelli, stritolato dagli ingranaggi del consorzio umano. Essere un uomo utile, stipato in quella massa, era un pensiero ripugnante; mi sentivo una formicuzza dentro un paesaggio in cui tutto restava immutato tranne il blu del cielo: sotto le nuvole che cambiavano i profili, prima o poi sarei mutato anch’io. Essere diverso, fare l’artista m’avrebbe salvato, ma dovevo astenermi da qualsiasi lavoro. Di tanto in tanto il dubbio mi assaliva, forse l’avrei scampata rassegnandomi e tendendo pateticamente alla normalità di una visione davanti al pittoresco, da artista di second’ordine. Le mie crisi avvenivano quando mia madre diceva che ero uno scioperato, perché gironzolavo da una stanza all’altra inconcludente e in preda a malinconie, inventavo i miei avversari e mi sentivo un omicciattolo forestiero col respiro corto. Quando l’intero Olimpo dei miei fantasmi diventava triste e sterile e mi decomponevo nella noia inesorabile, cercavo un soggetto degno di rappresentazione - mi sarei accontentato anche di un suono. Così mi mettevo
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ad ascoltare con l’udito interiore ciò che accadeva nei profondi recessi di quella casa: il silenzio era un brusìo spezzato dal cicaleccio, impasto di pettegolezzi dei sorcetti dietro l’armadio in cucina che mettevano sotto accusa la prepotenza delle blatte. Non mi restava che andare nel soggiorno: quella stanza ammiccava. Percepivo tutte le cose accadute là dentro in un remoto passato. Mi ponevo con le spalle al pianoforte nero come la pece. In quel momento di massimo sconforto che mi faceva avvertire la pericolosità di tutto, compresi i miei organi di cui avevo acutizzato l’esistenza al punto di avvertirli distintamente e temerli come se fossero i peggiori nemici di me stesso: allora era là che riponevo ogni speranza nell’abisso bianco del muro che fissavo con insistenza, come fossi allo specchio per interrogarmi prima di iniziare quella che sarebbe stata una prova. Era il luogo del combattimento, il prato innevato di un duello: dovevo saggiare il mio coraggio. Mi gettavo a capofitto in qualsiasi mitologia, l’adottavo e la riducevo in brani significanti che, di fronte al candore di quel rettangolo, mi assicuravano la pace apparente di un fare che ampliava la sfera delle mie perplessità. Era il tentativo di interrompere il corso del mondo, colpire la realtà al cuore, avvilupparla con cura come fa coi suoi fili il ragno quando cattura la mosca e la spedisce in letargo, al sicuro: facevo così anch’io, la riponevo quella realtà, un giorno potrebbe servirmi – pensavo — non si sa mai. Sentivo crescere sempre più in me l’avversione per lo spazio interno e il desiderio per lo spazio aereo, libero, per così dire uranico, che trasformasse in sogno tormentoso l’idea del fuori e questo era fonte di terrore, quanto di promessa felicità per l’eccesso di libertà cui aspiravo. Capii che avrei dovuto sacrificare il talento. Sgombro di certe qualità umane, pensavo davvero di salvarmi e di poter coltivare la spoliazione, la condizione della mia indipendenza per conquistare l’essere: un salto mortale senza rete. Nonostante la ragionevolezza imponesse che quella parete vuota dovesse rimanere vuota, ero tentato a proiettare certe guasconate del tutto immaginarie che fungevano da cornice. Non c’era un giorno che, come un delinquente, non fossi irresistibilmente attratto sul luogo del delitto a rivivere quei potenziali segni, tutte allegorie immaginate che placavano il mio istinto di distruzione. Quel deserto rappresentato dall’intonaco immacolato, luogo del dolcissimo oblio, mi assicurava la sinergia del visibile e dell’invisibile, minacciati dalla contaminazione reciproca che poteva avvenire da un momento all’altro: la drammaturgia di quel divenire era in continua oscillazione. Disponevo di un fondale che avrebbe accolto repliche all’infinito della stessa tragicommedia che non potevo fare a meno di rappresentare. Così, esaudivo il desiderio che proietta la sua origine nell’immagine del mondo anteriore e futuro, espresso in tragica condensazione di sgorbi che, dentro la mia testa, si integravano nella struttura plastica di me stesso. In quei giorni dell’ambizione, il miracolo della trasparenza di un segno avrebbe raccontato tutto quello che mi era accaduto; potevo narrare, quel gioco non avrebbe avuto fine, ma avvertivo una minaccia di choc che proveniva da quell’energia. Certi meriti che avevo acquisiti in precedenza come affabulatore non contavano: ogni volta era tabula rasa, ripartivo da zero. Volevo somigliare a uno che avesse completamente liquidato la memoria. Dovevo comunque provare a me stesso
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che ero capace di raccontare il passato senza gesto né parola, semplicemente proiettando il frutto della mia immaginazione. Il guaio era che l’idealità espressa con una proiezione immaginifica su quella parete non riuscivo a trasferirla su un foglio vergine, testimone del desiderio: mancavo del coraggio di disegnare. Ogni giorno mi preparavo al rito con la massima concentrazione come un atleta ossessionato da un record. Senza toccarlo, intaccavo quel diorama di assenze, mettendo in scena le pittografie trattenute nel mio cervello alle quali finalmente davo sfogo, memorie di incubazioni di ogni genere di noia, luoghi dove si annuncia l’estrema tensione. Un inferno di ruminazioni che attizzavano tutti i rimpianti. La purezza del bianco m’invitava alla violenza, mi chiamava perché conquistassi quella superficie contaminandola. Non so perché ma sentivo che uscire dall’abituale orrore panico che mi strizzava le budella e mandava il cuore come un treno, significava violare quella superficie. In seguito, ho cercato invano d’intendere la ragione di quella pacificazione quando percorrevo con lo sguardo i margini del muro pieni di sgorbi ideali; erano nodi, stazioni di leggerezza, la spensierata libertà di sporcare, contaminare la candida geometria con qualcosa d’indistinto che se ne stava nel mio cervello senza uscire allo scoperto. Il sottofondo di quella stravaganza era probabilmente tristezza, qualcosa che avrebbe fatto scervellare un rinomato psichiatra che si fosse messo in testa di capirci qualcosa. Per ragioni di decenza iconografica, costretto dal buon senso comune a trattare soggetti, rispondevo da fuorilegge: ero un passo più avanti del pessimismo. Non avrei avuto nessuna giustificazione di stare al mondo se non avessi eluso un qualsiasi pensiero organizzato, dichiarando a me stesso di non essere figlio di qualche cultura, né una tecnica, nostra compagna di dolore e di frustrazione. Il coraggio dell’orfanità mi faceva vedere sotto la pelle di quell’intonaco una corrente sotterranea di impressioni alle quali attribuivo il potere di stupirmi. Instancabile, praticavo quell’utopia travestita da eresia in forma di accenni invisibili a tutti ma non a me, indicazioni di forme allo stato embrionale non ancora rapprese intorno a qualche sostanza, proiezioni di gesti segreti, segnali, confusi cenni d’intesa che valutavo per un tempo che si dilatava sempre di più. Un’allucinazione: la sacralità di quel disordinato ornato, come un boomerang, ritornava a casa, nella mia testa. Probabilmente – ma azzardo senza indagare nel pozzo fondo dell’io — tutto quel coraggio era la risposta ai discorsi che mi toccava sentire, al fare laborioso di tutti di cui non vedevo lo scopo; uno sconforto che, se fossi stato capace di elaborarlo, sarebbe stato un soggetto coi fiocchi. Il tocco profetico della mia mano immaginaria, senza sfiorarlo, poteva animare quello schermo con una cornice di scioperíi, criptogrammi, nodi di significanza di un sogno geroglifico che, raggiunto lo zenith, m’avrebbe colmato d’entusiasmo. Per tenere in vita quella trance, la mia lecita, sublime distrazione di cui andavo fiero come un capolavoro, prendevo postazione col pianoforte alle spalle al centro della stanza: bastava aspettare, un panico generoso mi avrebbe offerto un mondo di riverberi minimali dei luoghi oscuri che nessuno visita, dalle tane dei topi al vuoto oscuro che sapeva di muffa dell’armadio, regno dei tarli, al pozzo ascenzionale del tiraggio della stufa di terracotta dell’Impruneta che stava nello studio di mio padre.
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UN VESCOVO CON LA TIARA SULLE VENTITRÈ La frequentazione delle regioni dubbie, rischiose, del mio cervello, trappole alle quali non so sottrarmi, è l’origine degli scioperíi. Sono riverberi di pensieri resuscitati, chiedono venga risolto l’enigma che loro stessi hanno prodotto e non sanno sciogliere. Una bravata della quale pentirsi: come il gatto impavido che sale sull’albero e poi piange inchiodato al ramo perché non sa scendere. Affiorano creature-domanda portatrici di un carico sorprendente di comicità, proprio perché inesorabilmente indecifrabili; caparbie si ripropongono, forse aspirano a essere rappresentate al centro della pagina, ma irremovibile, nego loro quel protagonismo, le emargino. Si ripropongono tutte le volte, alla fine si ritraggono, accettano il destino di una scrittura criptica: tra le righe affiorano bizzarrie delle quali non riescono a farsene una ragione. Si rintanano in loro stesse per adempiere al ruolo pagliaccesco e capriccioso che gli è stato affibbiato. A rischio e pericolo di sembrare decorazione, si trovano dove si trovano per un capriccio ostinato e selvaggio, un’irragionevole testardaggine. E’ responsabile di tutto questo l’idea fissa cresciuta a loro insaputa che le ha allontanate dal centro fisico della neutralità di una superficie indifferente a ogni figura che si stagli sul proprio fondo. Il supporto non ha niente da ridire: tutto ciò che viene a gettarsi su di lui non gli provoca sofferenza in nessun modo, si lascia improntare da qualsiasi rappresentazione, anche quelle complesse, impossibili da descrivere con un disegno. Non si tratta di descrivere una scena, ma di trovarne la cifra, un segno compendiario che descriva quella certa atmosfera. Qualche esempio: Una spiaggia affollata a ferragosto. Il bagnino si scalmana sul patino per salvare uno che sta affogando, pur essendo un nuotatore provetto. Sfortunatamente un crampo a una gamba lo tira giù. Un premio di pittura estemporaneo, una sorta di fiera in una piazza gremita di pittori coi loro cavalletti. Arriva la pioggia scrosciante. Parapiglia generale. Tutti s’affrettano a sgomberare. Un quadro cade e il colore fresco macchia la giacca di un imbrattatele che si arrabbia e piglia a calci alcuni cavalletti. Un cammello triste e calvo si è inchiodato come un mulo nonostante i calci di un arabo inviperito che, scalzo, come sente dolore al piede, infierisce sempre più. Una vecchia in vestaglia e pantofole rincorre il gatto persiano spaventato da una motocicletta con lo scappamento che spara boati. Un aeroplano vola basso e getta volantini con immagini pornografiche stampate dai negazionisti dell’Arte. Un vescovo con la tiara sulle ventitré, ubriaco fradicio, infuriato, inavvicinabile perché protetto dal mulinare del suo pastorale, pericoloso come una scimitarra. Lo ruota che sembra una pala di elicottero per tenere tutti a distanza. Tuona un anatema e danza una danza di distruzione.
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Uomini perduti in se stessi, nelle loro enormi e chiodate scarpe, intabarrati in pesanti pastrani dalle grandi tasche piene zeppe di noci e pistacchi, loro unico cibo. Questi corroboranti soggetti non vedranno la luce: la libertà di descrivere tutto non è concessa. Gli scioperíi sono i testimoni della complessità ineffabile fatta di schegge di pensiero, inverosimili, in cerca di una maschera, aspiranti alla comicità, eppure terrifiche, schiacciate dal destino che le ha volute ai margini, ma riscattate dalla cosmogonia: la loro nobile origine. Essere il creatore di fantasmagorie mi faceva orgoglioso anche se mi sembrava essere vittima di una specie di plagio involontario, qualcosa che mi era stata suggerita, forse dalla paura stessa. Posseduto da quella forza, imparai ad accettarla. Ma non sapevo cosa pensare di me. Che fosse follia la necessità di servirsi di idee chiare per esprimersi, era poco ma sicuro: le idee chiare hanno vita breve: una volta che hanno spianato la strada, l’hanno illuminata, sono morte, liquidate. Quanto all’espressione, tocca battere sentieri scoscesi e calarsi a rotta di collo nelle regioni oscurate dall’Impossibilità dove la ragione ci rimette le penne: è laggiù che si lacera il velo di una nascita, zampilla una vita. Quel fenomeno per cui mi smarrivo, proiettando ai margini della parete– schermo le mie fantasie, spariva per breve tempo all’inizio dell’inverno, quando le giornate si indurivano di freddo e di noia; una pigrizia più vecchia del mondo m’inchiodava e precipitavo in un’altra pigrizia, quella tragica, che si chiama malinconia. Così scorgevo il mio nulla. Allora, l’idea di un’operosa pace benedettina faceva la sua apparizione: cadevo nella trappola. Nel tepore seducente della casa, un fare zitellesco m’induceva all’artigianato bieco, che ti rende felice di una felicità incolore; pronto ad accettare ogni capitolazione, portavo a fine qualche disegnuccio che viaggiava su un binario morto senza il barlume di sorridente ironia. Poi mi vergognavo e, fatta sparire ogni traccia del reato, volgevo in capriccio l’incidente avvenuto e mi raccontavo che, in futuro, non ci sarei cascato — promesse di marinaio, come quando giuravo a me stesso che non mi sarei più masturbato: c’era da diventare cieco. Ero felice di starmene al riparo dalle pratiche patibolari che tendevano al recupero dell’Io, attraverso regole micragnose dei chiaroscuri e delle proporzioni. Non volevo disegnare, facevo sciopero: aveva ragione mia madre. Mi piacevo incompreso, tornavo a premiarmi ponendomi fiducioso al centro di quella stanza in attesa del miracolo quando avesse smesso di girarmi la testa: quel fregio di stramberie ai bordi della parete sarebbe apparso come per magia. Aspettavo l’incanto e, nella quiete nervosa che precedeva il fenomeno, col raccoglimento inframmezzato da monologhi muti, mi spremevo le meningi maturando brani di quei nuclei di pensiero. Avrei eseguito un capolavoro: l’intonaco non aspettava altro che ricevere le mie proiezioni. Il momento era cruciale: un salto mortale per il disvelamento delle mie viscere, un’apoteosi di nonsenso. Avrei commentato il mondo con sgorbiature intorno a quella pagina sulla quale era stato scritto un testo invisibile, ancestrale, che solo io potevo leggere. L’immaginazione tesseva inganni complessi e gratuiti, così camminavo vicino a quell’abisso che si spalancava senza limiti. C’era da passare da matto perché, durante quella funzione, mi piantavo dritto come un fuso in mezzo
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alla stanza e, stringendo i denti e i pugni, a occhi chiusi, proiettavo i brandelli invisibili di qualcosa che, come certi animali inferiori, sopravvivevano anche smembrati. Non mi restava che la fuga febbrile dall’oscuro vizio originario, la mia propensione maniacale a rappresentare qualsiasi cosa su una carta. Una volta accadde che una mattina, col bagaglio di una tensione covata a lungo durante la notte, l’intonaco destinato alla chimerica proiezione si squarciò con un boato come una cannonata e apparve un cielo terso solcato dalle rondini che, in un carosello sfrenato, s’incrociavano e garrivano frecciando tutt’intorno, sfioravano le case che facevano da corona al giardino che vedevo dalla finestra della mia camera: anche quegli uccelli erano scioperíi .
LA TERAPIA DEL DOTTORE SCIOPERATO Lina, la ragazzina dirimpettaia perennemente immersa in un bagno di perplessità, era sempre vestita con abitini bianchi orlati con ghirigori strani che, nemmeno a dirlo, parevano scioperíi. Aveva la faccia piena di lentiggini le quali, per inciso, assumevano un aspetto esantematico, un’oscura ombreggiatura cerchiava i suoi occhi e prestava allo sguardo un’espressione vagamente tormentata; olezzava d’un profumo stucchevole gradito a sua madre e sgradito alla mia che guardava quella bambina di traverso. L’avevo conosciuta in piazza, la prima volta che la vidi subito mi venne in testa che con quell’esserino in veste di femminuccia mi sarei guadagnato la fama di umorista: era mia intenzione strumentalizzarla, sarebbe stata la mia spalla, con lei avrei creato il paradosso squisitamente comico cui aspiravo. La invitai a casa mia, ci studiammo a lungo come due cani che s’incontrano, poi scoppi di risa interminabili riempirono la stanza, il baccano aumentava, il pavimento palpitava come un diaframma: rideva anche lui dello stesso riso sardanapalico. Eravamo reciprocamente attratti, ravvisavamo nei nostri occhi lo stupore di cui eravamo preda e le storie tempestose delle nostre famiglie. Con lei intrattenevo un rapporto assai bizzarro: mentre mi parlava dell’assoluta necessità di essere affiancati dall’Angelo Custode — ognuno ne ha uno al momento della nascita, diceva — noncurante della predica che quella mi faceva, giocavo ai dottori. Prediligevo la terapia iniettiva, quindi le toglievo le mutande e, dopo avere pizzicottato con forza quel culo pallido da lasciarlo pieno di lividi, con un lapis spuntato per non farla sanguinare, le facevo iniezioni a non finire. E il bello era che si sottoponeva a quelle sedute con pacificata rassegnazione, anzi sembrava le piacesse; quando rideva era lo scrosciare di foglie secche che cadono, poi fra noi calava il silenzio, l’espressione del suo volto si impoveriva nonostante che, ne ero certo, la ricchezza della sua vita interiore crescesse sempre più con l’energia del tacere. Arrivai a pensare che quella serenità esibita dipendesse dal fatto che aveva il Custode; comunque, anche senza protezione, mi sentivo più in gamba di lei. Peccato che non ci fosse un testimone di quella scuola di vertigine alla quale, ne ero certo, non a tutti era dato accedere: giocare al dottore e all’ammalata la consideravo un’avventura luciferina. Lina, instancabile, mi istruiva raccontandomi che gli angeli andavano in giro a frotte a cercarsi il protetto e quando, dopo anni e anni, avevano finito il loro compito, si dissolvevano nel nulla. Strano che ancora non ne avessi uno al
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fianco. Il suo era bellissimo, biondo, forte come un vichingo, la coccolava sempre con mille carezze, le raccontava storie edificanti soprattutto di notte quando aveva paura. Non la stavo a sentire; non smettevo di chiederle di abbandonare il demone del buon senso e ripararsi dalle disgrazie, dandosi finalmente al beato furore di sviluppare, come me, fantasie che avrebbero testimoniato la sua capacità di vaneggiare. Nonostante le esortazioni, la mia vittima non ne voleva sapere di radicarsi nell’Invisibile, creando col cervello chissà cosa, fosse anche una povera ideuzza. Capiva che si sarebbe stabilita nell’esilio, nel paese del nulla, ne aveva paura, fidava nella ragione puttana. Insistevo: la spingevo a essermi complice in quello che continuava per lei a essere fonte di stupore e di scandalo: una pratica che avrebbe scatenato crisi o fecondato le nostre intelligenze. Saremmo stati compari sperimentando le cancrene dell’intelletto, votati a un riconoscimento impossibile da parte di tutti; il supremo onore della sconfitta mi dava entusiasmo, ma lei niente, con quel suo didietro torturato, odoroso di borotalco, si sottoponeva di buon grado alle sevizie terapeutiche, bastava che durassero poco. D’altronde la mia avidità di tristezza, oltre che a quei concetti fratturati che vivevano ai margini del muro, non aveva trovato un altro soggetto che quella poveretta. Non avevo altre risorse eccetto quella di essere vessato da me stesso, dimensione non priva di fascino, poiché mi lasciava dove mi trovavo, a nulla mi conduceva. Mi fidavo di lei. Un giorno decisi di farla assistere a una delle mie sedute di pura vertigine, quando creavo scioperíi: rimase atterrita perché durante quella funzione la mia faccia traduceva lo sforzo che superava il limite per diventare estasi. Si continuava comunque a fare il dottore e l’ammalata: indossavo una camicia bianca di mio padre che arrivava fino ai piedi, faceva da camice. La paziente, mentre le praticavo la fastidiosa terapia, continuava imperterrita a predicarmi la necessità di una creatura angelica al mio fianco: non si capacitava come io non ne avessi una, secondo lei ero in un supremo vicolo cieco, un naufragio voluto, cercato. Con ostinazione insolente, come un capriccio, voleva convincermi. Vassallo dell’unico pensiero, rispondevo spingendola a produrre visioni in piena libertà, quella terapia le avrebbe dato la salute del vaneggiamento e autorizzato i propri deliri a esistere in forma di segni al margine, proprio come i ricami che orlavano il suo vestito. La questione era semplice: conquistare alla tradizione negata le forze dell’estasi. Arrivai a giurarle che, rinnovando le nostre smanie col capitale di smorfie, i simboli dei nostri spasmi, ci saremmo preservati dal tedio, quello pernicioso, di tipo sterile. Ricca dei talenti che le mancavano, mi guardava incredula: quando veniva a trovarmi per giocare ai dottori, voleva fare semplicemente la malata e basta, si dava a quel gioco perché sapeva di divertirmi, questo voleva quella suora di carità: essere niente altro era per lei una festa. Scimmiottava la pietà dell’Angelo. Quello che stavo facendo mi sembrava tremendamente giusto: alleggerire ogni pesantezza per non rischiare di diventare uno di quei barbogi, un iniquo imbecille con la testa sulle spalle. Mi spaventava quella sicumera di stare al mondo confortato dall’essere regimentato. Cercavo di eliminare dalla mia esistenza l’ovvietà del realizzo, meglio un invisibile progetto che dava senso scaraventandoti nelle regioni del dubbio, piuttosto che una ponderata
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esecuzione col crisma dell’Arte. Le trame che contano non si vedono, stanno dietro a quelle ovvie. Toccai tutti gli argomenti che mi vennero in mente per persuaderla; le promisi addirittura che avrei abbandonato la terapia iniettiva, la sua croce.Almeno così pensavo, ma dovetti ricredermi perché quando lo dissi si mise a piangere: a lei quelle torture piacevano. Per convincerla mi misi persino in berlina dicendole che con quei dannati scioperíi la mia era l’arte di sopravvivere a se stessi e che ero un inetto perché quella mistica, in fondo, spaventava anche me: non sapevo vivermela da solo. La miseria che mi tormentava di non saper mettere mano all’infamia di un disegno non la intrigava: così, come apparivo in veste di sciamano di fronte alla parete bianca, non ero convincente. Mi costrinsi a perdere la faccia confessandole che, se avesse accettato di proiettare le sue creazioni, avrei accolto l’idea di un Custode che mi stesse alle costole. La promessa sembrò stuzzicarla, ma fu un fuoco di paglia: ormai aveva capito che ero il conquistatore di un continente di menzogne attraverso quella diavoleria esoterica: mi temeva. Una volta ottenuta la grazia avrei gabbato il santo. Era dura come un macigno, non voleva accettare la certezza della preziosa inutilità che le offrivo — che scema: la poesia e la filosofia erano nate così — non voleva lasciare spazio a certe potenze che avvertiva negative per le quali il suo corpo sarebbe dovuto venire a patti con una tensione a lei ignota; temeva che quella speculazione basata su niente di tangibile avrebbe portato sfortuna, l’avrebbe messa nei guai col suo Angelo che, certamente, non avrebbe gradito tutta la faccenda. LA SIMMETRIA DELL’IMPERTINENZA E pensare che volevo erudire con passione quella poveretta, condurla con me in quella discesa. Ingenuamente credevo di sviluppare una qualche attrattiva con le mie moine e i mezzi sorrisi da bel tenebroso: pensavo di essere irresistibile. Volevo fare il mentore. Non capiva che sperticarsi con quegli esercizi ci spettava di diritto, quella liceità era il patrimonio che certi semidei visionari, esperti nel rovescio di senso molto prima di noi, avevano lasciato in dote. A loro era costato notti insonni e lacrime di solitudine, avevano pagato un prezzo alto, troppo, l’avevano fatto per noi e non per quella gente coi piedi in terra che non capisce niente. Questo credevo. Tutto quello che riuscivo a suscitare in Lina era un’inquietudine fiacca, soporifera, addirittura. Allora, il mio fu l’ultimatum di un cattivo gusto sublime: le annunciai che le terapie iniettive avrebbero preso la piega di lavaggi intestinali ripetuti con la peretta di gomma che usava mia madre per ripulirmi. L’indifferenza della testarda mi scaraventò in uno stato penoso: non riuscivo a plagiarla. Un patto non sarebbe stato possibile. Stava diventando impraticabile, era dall’altra parte della trincea, anche se si faceva togliere le mutande, offrendo il posteriore con noncuranza perché facessi il dottore. Insistevo, e lei non ne voleva sapere, rispondeva al nirvana che le promettevo col no deciso che nascondeva una soddisfazione satanica: entrambi recitavamo la simmetria dell’impertinenza. Non restava che vendicarmi: quando le facevo le iniezioni affondavo sempre di più il lapis nei glutei pallidi martoriati. Sembrava una martire, obbediente, sebbene desolatamente perplessa dalla mia ferocia, se la spiegava col fatto che non avevo nessuna presenza celeste al mio fianco. Probabilmente, dedicava i
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fastidi che le procuravo a qualche santo del paradiso che le avrebbe fatto la grazia quando io avessi accettato d’essere custodito. Forse mi amava segretamente, voleva il mio bene, ma il suo rifiuto era un tradimento. Un giorno si presentò che sembrava avesse perso i contatti col mondo: lo sguardo fisso pieno di carità stregata, perle di sudore sulla fronte, era stupita di trovarsi a tu per tu con me, come guardarsi allo specchio e non vedere se stessi ma un altro. Le terapie che le somministravo erano il nostro appuntamento pomeridiano; quella volta non sentivo sulla sua pelle odore di borotalco, bensì un fetorino dolciastro che arrivava a folate. Dopo il solito trattamento grottescamente rude che subì quel sedere floscio – le avevo imposto, subdolo furfante, di essere assolutamente rilassata durante le terapie iniettive, quel giorno più dolorose del solito, per le quali impiegavo tutta la mia forza — ancor prima di tirarsi su le mutande che le erano cadute a terra, arrivò il grido stridulo di irata rimostranza. D’altronde me l’aspettavo, doveva succedere prima o poi! Mi allontanò decisa col gesto del braccio teso e mi fulminò con gli occhi: non protestava per il dolore che le infliggevo, doveva occuparsi all’istante di una cosa più importante che giocare al dottore e all’ammalata. Cominciò a camminare su e giù per la stanza, procedeva a balzi scomposti, perse le scarpe, si lanciò in una tirata di suoni che scimmiottavano parole senza esserlo, con una vaga incrinatura nella voce che annegava un’incomprensibile argomento in una melassa di pathos. Biascicava un discorso incomprensibile, poi la lingua le penzolò un palmo dalla bocca spalancata come uno sbadiglio, ma non era. Capii che voleva gridare, ma la voce non usciva dalla strozza. Mi indirizzò uno sguardo supplichevole e, gli occhi al cielo, le braccia allargate come l’avessero messa in croce, cominciò a levitare. Quello che vidi era, ed escludeva tutto ciò che l’avrebbe potuto negare. Dopo essere stato testimone di quel fenomeno che interpretai come humor stravagante, cominciai a detestare la mia paziente. Ci fu la goccia che fece traboccare il vaso: un giorno si presentò a casa mia con una macchia vistosa di marmellata in mezzo alla sua gonna, che mandava a farsi benedire la teoria per la quale, al Rito, per esistere, occorreva un campo di neutralità assoluta, un paradiso di assenze. Era la condizione indispensabile per sfregiare ai bordi la pagina bianca. Solo che quella scrittura era invisibile a tutti tranne che a me, e a me spettava chiosarla con la mente. Ma quella sciagurata che ne poteva sapere! Certo una bella pretesa la mia: aspiravo di farla crollare con me, doveva perdersi per eccesso di profondità — farlo da solo mi faceva un po’ paura —, sgretolarsi con brio in un gioco al massacro al quale mi ero appassionato. In questo furore ero solitario: la mia vittima, data la rigorosa mediocrità, non aveva capito niente. Non giocai più ai dottori con Lina che, se non altro, riuscì a mettermi in testa l’indispensabilità di una creatura angelica nella mia vita, che pensavo invece dovesse essere quella dell’artista nutrito dal proprio pensiero, senza il bisogno di niente e di nessuno. LA PUZZETTA DELL’ANGELO La questione del sesso degli angeli è una baggianata: gli angeli sono tutte femmine.
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Il veleno profetico del pensiero di avere una creatura celeste al mio fianco cominciò lentamente a intossicarmi. Un giorno, durante l’ennesima produzione di scioperíi sul muro, sentii di avventurarmi in un ruolo storico. Durò poco, arrivò la doccia gelata della coscienza: il mondo era sempre di nuovo se stesso e quelle tracce invisibili, che erano il mio gioco severo, non avevano più il potere di illudermi di trasformarlo in un’altra cosa da quello che era. Mi seppi debole. Allora, mi aggrappai alla forma oscura di un’allegoria di pace come misura di tutte le cose. Tornai a ringalluzzirmi, sarei stato d’esempio a tutti col compito che mi spettava: esasperare le mie facoltà fino a esplodere con esse. E così fu: durante la produzione dell’ennesimo capolavoro di cui nessuno avrebbe goduto, un brio cosmogonico si risolse in una vertigine fino a quando mi sentii afferrare per un braccio dall’Angelo che, contrariamente a certi dettami dell’iconografia cattolica, era una ragazza grassoccia dalla pelle di un colorito che si potrebbe definire emorroidale, occhi piccoli da furetto, spalle che pareva un pugile, peluria sotto il naso: un essere quasi umano. Le ali gigantesche spazzavano il pavimento e dal suo corpo arrivava la puzza, nemmeno avesse fatto una sudata correndo a perdifiato per arrivare da me. La lunga veste lisa, quasi alla trasparenza, era rattoppata proprio sotto un ginocchio; come attraverso la nebbia, quel tessuto mi fece intravedere l’assenza di una mutanda e la presenza di un pube cespuglioso nero come il carbone. La prima cosa che feci fu di aggrapparmi a quella Fatalità con l’estasi di un naufrago che si lascia alle spalle il mare di orrori quotidiani. La prima cosa che mi disse fu che non avrei dovuto chiamarla in nessun caso, perché non aveva un nome, ma non era necessario: mi sarebbe stata al fianco sempre. Mentiva: avevo già adocchiato sull’orlo di quella specie di camicione una scritta ricamata: Bona. Per rompere il ghiaccio, mi raccontò che anni addietro era stata un arcangelo e in seguito l’avevano declassata per inadempienze e lo disse ghignando come chi ha subito un’ingiustizia. Senza tanti preamboli, quasi a metterla in guardia, le dissi della mia ossessione – come fosse stata una colpa — che non era poi del tutto segreta. Lina era stata testimone di quella liturgia grazie alla quale, col dinamismo del disgregamento, sopravvivevo a me stesso. L’attrattiva di quel linguaggio della stanchezza metafisica, dispensatore di annullamento, cresceva in me sempre più. Le parlai della mia disfatta finale, che presto sarebbe avvenuta certamente, la purezza dell’insuccesso, la spaventosa sconfitta della ragione, la tendenza oggettiva alla menzogna e il grande debole per il nulla, che era l’ argomento principe che mulinava nella mia testa. S’inalberò come se l’avessi offesa, fece la voce grossa, dovevo piantarla subito con quella fissazione disegnatoria da mentecatti. Poi si pentì del rimprovero, mi mise una mano sulla fronte, casomai avessi avuto la febbre, mi fece una carezza che ricambiai morsicandole il pollice. Sorrise bonaria, mi prese in collo e minacciosa mi schiacciò contro la vastità del torso possente, mi tenne in alto a braccia tese come si fa coi poppanti. I miei occhi si specchiarono nei suoi che s’illuminarono d’un potere innaturale; poi, mi depositò tra le poppe prosperose da dove sentivo una puzzetta tenace venire dal basso. Mi portò in bagno, dovetti lavarmi i denti, insaponò e sciacquò con acqua fredda le mie parti molli. Alle mie proteste, rispose che m’avrebbe fatto bene alla salute e da grande avrei avuto un pene invidiabile, m’infilò il pigiama e mi rinvoltò con cura tra le coperte. Poi si levò le ciabatte turche col ricciolo in punta che nascondevano piedi sudici dalle unghie orlate di nero, olezzavano di capra.
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Si accucciò ai piedi del letto con movenze da tetraggine contadina, su quelle sue ali spropositate un po’ sbiadite che le fecero da giaciglio. All’improvviso si alzò di scatto a sedere e catturò non si sa che bestia sulla coscia, forse una robusta pulce cittadina, la schiacciò fra l’unghia del pollice e dell’indice della mano sinistra con grande naturalezza: la mia tutrice era mancina. Prima di addormentarmi, pensai che il nostro sarebbe stato un armonioso gioco di incomprensioni e sconfitte. Comunque, sentivo che quella specie di bestia sdraiata a terra era di natura divina e che se ne stava lì per proteggermi. Una folata d’aria notturna estiva che entrò dalla finestra, portando una canzone intonata in lontananza, generò un improvviso fiotto d’emotività, tipico dei farabutti sentimentali. Allora, le indirizzai un buonanotte sogni d’oro che non ebbe risposta: solo un grugnito perché già dormiva. Col tempo imparai ad apprezzare la sua presenza: mi parlava e le parole andavano dritte al mio cuore, a scalzare le paure di cui mi pascevo. Tutto di lei amavo, persino la sua puzza; ero certo di non poter vivere senza quella femmina al mio fianco. Mi ritenevo fortunato quando se ne stava attenta a sentire i miei sproloqui a proposito del futuro radioso che mi avrebbe regalato fama imperitura per quelle proiezioni mentali che non trovavano la via del realizzo. Annuiva, sembrava crederci. Una sera, dopo avermi rimboccato le coperte, iniziò come al solito a deliziarmi con certi racconti sull’Angelo Sterminatore che ne faceva di tutti i colori, spaventando la gente alla morte. L’ascoltavo e mi sembrava d’intendere l’abbraccio estatico di un’armonia che non avvertivo quando mi lasciava solo durante il giorno: secondo lei era necessario. La mia vocazione lo esigeva. Quella sera cessò il racconto proprio sul più bello, quando lo Sterminatore, passata a fil di spada la madre superiora che aveva tentato timidamente di opporsi a quel furore cieco, indossato i panni insanguinati della religiosa, si accingeva a sodomizzare tutte le suore di clausura dello storico convento fondato nell’anno mille da Kalda, amante del principe-tiranno Boiamondo, tristemente famoso da Napoli in giù, Sicilia compresa, per certe sanguinarie imprese. Tenendomi per i polsi, come a impedirmi di scappare, e guardandomi con certi occhi che bucavano e cambiavano di colore – lo stesso viola spento che si tramutava in verde, come ogni volta che mi rimproverava — e che fecero spalancare i miei dallo spavento, mi predisse: Ricordati che farai il tuo capolavoro a cinquantaquattro anni. Fino ad allora continua, non mollare! Tanto dalla nascita di quel capolavoro in poi sarai il più riverito! Allora, avrai il pieno diritto di sbugiardare tutti quegli artistucoli supponenti, specie di copisti che, con disinvoltura, si sono autorizzati a qualsiasi confezioncella. Ora, però, dormi che è tardi. Domani devi alzarti presto per andare a scuola, che marineremo come ti ho promesso in barba ai tuoi genitori, che ti pensano al sicuro con me. Ti porterò allo zoo a tirare le noccioline nelle gabbie delle scimmie. Uno spasso. Il resto del racconto domani. Si chinò su di me per darmi il bacio della buonanotte che sapeva d’aglio, mi fece il solletico con le setole che aveva sotto il naso che erano il suo tormento, le tagliava e quelle ricrescevano sempre più irte. Per lusingarmi un po’, mi diede una strizzatina alla nerchiuccia sotto le coperte, cosa che mi riempiva di macio orgoglio. Poi spense la luce e si accucciò sulle sue ali, come al solito, ai piedi del letto e, dopo un minuto, un peto sulfureo fragoroso e un sospiro
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profondo annunciarono la fanfara di gola e di naso di cui era capace. Beato come ero, era facile abbandonarsi alla ridda di soggetti che mi turbinavano in capo e che puntualmente cassavo, perché non ne volevo sapere: una maledetta testardaggine, la mia, anzi una fissazione. L’idea del vuoto e della marginalità era sovrana, trovava applicazione in tutte le cose nelle quali mi imbattevo. All’imbrunire, quando affacciato alla finestra guardavo il girotondo dei corvi che planavano ad ali ferme e gracchiavano da spaccarsi la gola tutt’intorno al grande pino al centro del giardino, anche quegli uccelli disegnavano scioperíi. A scuola non volevo andare perché, varcata la soglia dell’edificio, dopo aver salutato con un bacio la fedele sorvegliante che mi accompagnava fino lì mano nella mano, frastornato dagli schiamazzi dei compagni, un timore panico da pisciarmi addosso mi aggrediva. Qualche volta era anche accaduto il peggio del peggio in mezzo agli scolari giubilanti che, tappandosi il naso, se la ridevano a crepapelle. Una mattina la Badante, con le guance più rubizze del solito, porgendomi il vassoio con la colazione che dovevo consumare a letto — altrimenti non mi sarei alzato, la ricattavo così – mostrava una faccia buia, sembrava fare i conti con un pensiero che non le dava pace, qualcosa che non riusciva a dirmi. Solo la sera riuscì a confessare il rovello: Pensavo se non sarebbe stato meglio per te, con tutte le paure che ti porti appresso, affidarti a una di quelle che scimmiottano lo Sterminatore. Ce ne sono tante in città che cercano un’occupazione. Vogliono imitare il suo potere di devastazione e di morte, né più ne meno come Lui, ma non sono così capaci. Alcune sono davvero convincenti, caratterizzate da una sensibilità acuta, estrema, e da una finezza intellettuale rara: non se ne vede tante in giro . Ne conosco una molto brava: ti potrei affidare a lei, toccheresti con mano tutti i piaceri, ti svezzerebbe a dovere. Farebbe proprio al caso tuo, con quella mania negazionista che hai in capo! Sono certa che apprezzerebbe davvero, di sicuro più di me, i tuoi disegni virtuali, quelle gemme di energia. Quel mondo è rischiarabile solo dalla lanterna di un’intelligenza bacata, che di solito fa molta luce, come la sua. Ha certe antenne!…È la governante adatta. Rimasi dolorosamente intontito dalla proposta: mi ero affezionato a quella femmina con le ali. La mattina dopo la colazione a letto non arrivò: era sparita. Per giorni e giorni aspettai la Sterminatrice che non venne. L’orfanità d’amore mi rattrappiva, negandomi di sperimentare la mia potenza: qualcosa senza precedenti in un rito avulso dalla leggenda umana. L’angoscia invadeva il mio cervello, usurpandolo. Rimasi per un lungo periodo incustodito, abbandonai la liturgia che mi vedeva impegnato a sviluppare il mio immaginario sulla parete. Fu allora che cominciai a trasferire quei segni ai bordi dei fogli di carta. Non si può rinnovare all’infinito lo stesso inferno, la stessa monotonia. È stato questo il motivo per cui, pensando che il mio genio non fosse apprezzato, ho dovuto cambiare spesso, negli anni, le creature celesti che mi avevano adottato per proteggermi. Dopo Bona, nell’ordine: Grilla, Svanilde, Adonia, Giulia, Ingenuina, Pina – l’unica con delle alucce che non erano fatte per volare. Era particolarmente avvenente, gioiosa, mi intratteneva con mille storie
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quando mi massaggiava da capo a piedi, mi schiodava da casa trascinandomi con sé in lunghe passeggiate, mi nutriva a dovere e non c’era giorno che non si sperticasse in elogi: secondo lei ero un genio. Ma, nonostante le mie preghiere, a letto non mi si concesse mai e non ci fu una volta che si mostrasse completamente nuda: sempre con quelle mutande bianche di cotone pesante che non si tolse mai. L’ultimo giorno, prima che se ne andasse, sbirciai infoiato dal buco della serratura del bagno per vederla senza veli. Caddi dalle nuvole, era un transessuale. E poi Furia, Marisa, Gonerilla – che aveva una chiarina dorata con la quale si esercitava nel pomeriggio quando, l’ho già affermato altre volte, è l’ora del lupo e quindi ho i nervi a fior di pelle. La voce del suo stumento era meravigliosa e faceva venire in mente certi trionfi musicali barocchi. Non reggevo a quella suggestione e scoppiavo in lacrime. In aggiunta, Mandrilla, Ursona e altre ancora. Le sostituivo, semplicemente, come si sostituisce una badante che ruba quando fa la spesa. Dalla prima ce n’è stata sempre una al mio fianco, ma l’idea che dovesse proteggermi m’infastidiva. Allora, spesso, con la scusa dell’Arte, ci scontravamo: accesi battibecchi per i quali si finiva alle mani quasi sempre. Inesorabile, senza ragione apparente, imperversavo: lo stesso pietoso automatismo di certi polemisti che non mollano anche quando sono in barella. Le esasperavo al punto che mi lasciavano. Tutte le badanti celesti che mi adottavano dovevano essere femmine rigorosamente attraenti; col tempo il motivo scatenante dei litigi aveva preso una piega filosofica: asserivo, e non volevo essere contradetto, che fare della propria vita un fallimento fosse cosa grandiosa e non si credesse che fosse facile. occorre una lunga esperienza, un lungo allenamento per giungere al punto più stabile del proprio declassamento. Aspiravo a diventare un vinto decoroso, un reprobo per bene incline alla beffa che avrebbe minimizzato le proprie sconfitte al punto di gioirne. Desideravo ardentemente ridurmi come il Giobbe dell’arte: la notte avrebbe trafitto le mie ossa. Volevo essere il discendente del Grande Lebbroso, l’erede della sua desolazione e della sua rabbia. Pensavo che non mettere mano a nessuna opera, erigendo la mia incompetenza a sistema e creare eidetiche tracce intorno a supporti vergini, mi avrebbe portato a vivere un’era di non-Arte, lontano dal clima asmatico della cifra massonica dell’opera convenzionale. Professando con tenacia la teoria del fuori, avrei rafforzato la coscienza del mio corpo eterico. Le badanti celesti mi stavano a sentire pazienti, in silenzio, e io ce la mettevo tutta a fare l’impunito, a infastidirle con mille fisime per metterle alla prova, vedere fino a che punto quelle disgraziate avrebbero accettato la tortura. aspettavo da un momento all’altro il loro crollo nervoso: volevo distruggere quel rapporto. Nell’attesa, mi aggiravo per la casa come un leone in gabbia, spiando l’insofferenza in faccia alle mie vittime che, tenaci, resistevano mentre le guardavo in cagnesco. Alla fine andavo in bestia perché la rottura agognata tardava a compiersi. In quella distruzione impiegavo la stessa energia come quando mi negavo la rappresentazione di un soggetto qualsiasi: rimanevo con la penna in mano, bloccato da una specie di stupore e senza coraggio per ripiegare poco dopo in certi spasimi che soffocavano il mio furore disegnatorio: scarabocchi, squisitezze da intenditore allontanato dai modi del mondo.
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La tiritera della teoria che sbandieravo a proposito dell’impossibilità di essere artista, se non ci fosse stato pervertimento degli istinti vitali, la ripetevo a tutti quelli che incontravo. La sapevano a memoria; inoltre, avevo un asso nella manica che sbandieravo a ogni occasione: ogni talento si accompagna a una certa sfacciataggine; l’artista che ha garbo è colui che se ne sta nell’ombra col segreto che non ostenta; fare sfoggio di sentimenti è un colpo basso per l’ironia: uno schiaffo all’umorismo. Alla fine, sbottavano e tuonavano prediche simili a quella che mi fece Furia quel giorno che, esasperandola, riuscii a farle perdere la calma: Almeno fossi cosciente che ti hanno partorito fetidi misteri, ammettilo, stai attento perché le tue illusioni perderanno prima o poi la loro virulenza, s’incammineranno con la coda fra le gambe verso lo sgomento; deciditi a sacrificare l’oscurità alla quale sei legato, semplificati, diventa altro; piantala di rincorrere avido d’ogni sorta di piaghe l’improprietà, e non ridurre i rapporti con l’universo al gioco armonioso di sconfitte, in questo sei un maestro. Piantala col mito di quelli che sono stati rovinati al gioco, e poi quella specie di pruritus scribendi sempre al margine di qualsiasi genere di supporto… è l’ora di finirla! Accidenti alla tua malinconia rivoluzionaria... A quel punto la provocazione: sulla mia faccia appare lo studiato sorriso carico di sospetto che si attarda e non sa come svanire. Puntuale arriva un ceffone, ci accapigliamo, avevo sempre la meglio perché la mia avversaria era impedita nei movimenti a causa delle ali spropositate che la facevano inciampare, e allora avevo anche la soddisfazione di sentire qualche cruento vituperio uscire dalla sua bocca. L’avevo costretta alla condizione umana. Nei giorni successivi mi drogavo di rimpianti, confessavo a me stesso i miei errori, ma la confessione era un attentato contro le energie del mio essere. Dal vuoto dei miei giorni non ero più in grado di ricavare un’armonia, anche se disturbata dai ritmi imposti dalla galera astratta degli orologi. Diventavo una larva per menopause metafisiche, un fantoccio allucinato. Fu la volta di Etta che mi adottò. Naturalmente, anche lei come le altre, accettò le mie condizioni: si offriva a me quando e come volessi, ero contento perché non mollava la presa: continue attenzioni. Tutte queste femmine celesti, ali lunghe fino ai piedi che siano state, erano fascinose, figure marchiate da uno spiccato fondo di erotismo – persino Bona, a suo modo. Erano tutte avvenenti col portamento e la grazia di una gazzella, consapevoli della mia benedetta tendenza di venerare le donne senza capirle, ma il loro metro prandiale era quello pantagruelico. Allora ricominciavo a pensare alla bellezza e al duplice sentimento di fascino e di disagio che m’ispirava. Etta era una creatura vitaiola, coi capelli rossi e le ali coloratissime, un po’ sfaccendata, miopissima, inforcava due lenti spesse come fondi di bicchiere, senza peli sullo stomaco mi comandava a bacchetta, un grande controllo nelle cose erotiche: mi era di conforto. Fra le sue braccia il destino rinunciava ai suoi tiri mancini messo in fuga da quella leggiadria. Pareva che capisse il mio desiderio di sfornare un’arte che portasse in giro zizzania, una specie di peste. Guarda caso il bordo inferiore delle sue ali era screziato da una miriade di segnetti come venuzze, come fili scompigliati
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dal vento; inutile dire che vedevo in quelle tracce quello che disegnavo in continuazione al margine delle carte, come un ossesso. Mi abbandonavo del tutto alle sue carezze mentre, sicura di deliziarmi, favoleggiava storie scabrose e senza fine dei colleghi angeli, peripezie rocambolesche che invidiavo: la mia era una vita troppo tranquilla, nonostante che mi sforzassi di movimentarla negando un po’ tutto. L’unico guaio era che Etta mi abbandonava per un paio d’ore al mattino, proprio quando mi svegliavo, quando il desiderio di teneri strofinamenti e suzzamenti così, tanto per prendere il giusto contatto col mondo, mi tormentava. Andava a correre, qualcuno le aveva messo in testa che il suo didietro era vistoso, proprio quello che la rendeva deliziosa ai miei occhi. Non voleva sentire ragioni. Ce la metteva tutta a massacrarsi con l’idea di rimodellare il suo culo.Tornava a casa fradicia di sudore, la tenace, le ali arruffate come reduce da una battaglia con le piume scarmigliate che non mostravano più ai bordi quell’ornato fatto di segnetti come scioperíi: scomparsi. La cosa mi addolorava. Madida e polverosa, subito si lavava e improfumava senza chiedersi se a me così pulita piacesse: nascondeva l’effluvio del suo corpo che per me era l’essenza dell’intimità. Facevo finta di niente: avevo imparato a fare a meno di quell’appagamento. Per consolarmi, caparbiamente, continuavo a credere che un giorno non lontano avrebbe apprezzato i miei capricci rivelatori della bugia di un’arte che prometteva senza mantenere. Certo una menzogna ne richiedeva sempre un’altra più grossa: tutte concorrevano alla motivata paralisi della mia fantasia relativa alla figuralità. Avevo fede nel mio satanismo: trovavo pace solo nel dichiarare il rifiuto della centralità: di imbrattare una tela non se ne parlava. Etta, seduta, se ne stava ore a riflettere con la pensierosa fissità della miopia, ogni volta ce la metteva tutta a cercare d’intendere, alla fine rinunciava, capiva di trovarsi di fronte a un pessimismo organizzato dettato dal subbuglio intenso di una vita venata di decomposizione, ma le sfuggiva il senso. Di una cosa era certa: si trovava a tu per tu con qualcuno che predicava la virtù dell’indeterminazione e questo le faceva paura, non sapeva come rapportarsi a me. Ogni volta, nell’affrontare quella che avvertiva come arte auratica, si preparava all’aprezzamento che le imponevo ritirandosi in un angolo a prepararsi una canna di ashish mescolata con stramonio, nella speranza che, fumando quella bomba, forse, avrebbe realizzato almeno una delle numerose forme di esistenza presenti in me. Col tempo qualcosa di irrimediabile uccise il diritto alla nostra felicità, il conversare sempre più triste ci fece avvertire vecchissimi: si diceva esclusivamente di un passato ormai lontano, tutte forme evanescenti, vaporose, come quelle dei sogni di una notte agitata che stenti a ricordare. Imbrattare i fogli con parossismi, era per me come bere un bicchier d’acqua; certo, poteva diventare un viziuccio: sarebbe stato un guaio: c’era il pericolo di adattarsi alla propria sorte, di non soffrirne più, di compiacersene. Se i fuoricarta fossero diventati sistema, le mie certezze sarebbero svanite insieme a certe pene delle quali, rinnovandole, salvavo la freschezza: le pene si consumano. Ogni segno era di troppo, eppure dovevo tracciarlo. Dagli abissi del disgusto dell’arte, quella mania era diventata una punizione: cercavo di dimenticare la
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mia vita marchiata dalla condanna ai lavori forzati dell’Arte. Non restava che condannarmi al disinganno di una frivolezza accidiosa. La mia era una storia che doveva sconcertare la Storia. Col passare degli anni, di notte, presi l’abitudine di trattare il soggetto notte – erano fogli anneriti completamente dall’inchiostro di china — e pretendevo, mentre riposavo in quell’essenza, che la mia protettrice mi stesse accanto senza fiatare, che penetrasse con me nell’inferno di quel fare, che fosse testimone di ogni mio passo capitale verso la scoperta dello stile: cioè quando lo negavo. Volevo che ne conoscesse gli artifici e il veleno, l’asprezza melodiosa e tragica della sconsideratezza che salva dalla volgarità. Doveva capire che, se mi sottraevo all’immediatezza di uno scioperìo, diventavo la caricatura di me stesso, non avrei fatto che esperienze indirette, sarei svanito nell’ovvietà di una forma concepibile. La mia negazione voleva dire fare l’artista che sa senza conoscere, fida solo nel capitale di menzogne ed ha la certezza che la vera vita è fuori da ogni segno del reale. Godere del vantaggio di non essere dotato per nessuna tecnica: che libertà! Tutto si offre per appartenermi, passo da un soggetto a un altro, da un mondo all’altro, sfiorandoli, senza approfondire. C’erano dei momenti che la nostalgia delle ammirevoli isterie della stesura, da cui nacquero gli inni e le frenesie della rappresentazione, mio malgrado, mi catturava. Non sapevo che fare. Allora, l’essere che invidiavo di più era chi riposa beato in mezzo ai profili, ci vive ingenuamente, senza processarli né assimilarli ad altre forme che abitano il quotidiano. Etta conosceva bene le mie cadute, scorrazzava padrona di segreto in segreto, aveva capito che ero uno spregiatore che ha bisogno d’amore e uno sfregiatore che confida nella bellezza. Spesso dimenticavo la sua origine divina, soprattutto quando mi spupazzava fra le lenzuola e allora esistere era un’inclinazione che non disperavo fare mia.
LA MAGIA CHE ME CIAPPA E CHE ME MAZZA Quel giorno disprezzavo le delizie del letargo: allora, decisi di riappacificarmi con Dhuoda, la divina tuttofare che da qualche mese mi aveva adottato: una bionda, occhi di ghiaccio, uno blu, l’altro verde smeraldo, ma strabica, i seni come coppette, posteriore sculettante fuori misura che, celato dalle ali immense, poteva chiedere l’ammirazione di tutti. Calzava scarpe rosse col tacco alto un palmo, tale e quale a quella puttana che batte il marciapiede a due passi dal fiume sotto il monumento a Hofmann: la sua purezza è un mito. Ero soddisfatto di me, avevo tutte le ragioni di sentirmi uno in gamba: sostenuto gloriosamente dalla pigrizia, ero riuscito a scansare l’impiego statale e, tutte le volte che ne avevo voglia, bighellonavo felice sull’orlo del mio abisso privato, anche se mi rendevo conto che l’ultimo capriccio messo al mondo rifletteva un atto di slealtà nei confronti del mio genio: mi ero stupidamente obbligato a una specie di etica. Ma ero contento lo stesso, il mio era un mondo attraversato da angeli, tutte belle femmine che mi facevano sentire un nababbo perché mi spupazzavano ogni volta che volevo. E poi abitavo quel mondo strano in cui continuavo miracolosamente a cogliere bagliori attraverso brecce travestite da scarabocchi. La Custode, come la prima che ebbi — quella specie di cerbero
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popputa e baffuta che mi adottò quando esercitavo il tirannico immaginario lungo il perimetro della parete — era stata un arcangelo e punita per questioni di sesso consumato con un cherubino in barba alla sovrana legge del Pleroma. Fu retrocessa alla comune custodia anche perché si era beccata dal suo amante una malattia venerea: questo un giorno Dhuoda, in vena di confessioni, mi raccontò. Avevamo litigato –non era la prima volta — a causa del mio stile avvelenato, epilettico che, quando non avevo nulla da rovesciare, rovesciava me stesso, ultimo idolo da abbattere, e si rivelava ormai con qualche segno diradato al margine di un supporto qualsiasi. Per giorni e giorni ero stato intrattabile. Mi ero messo in testa il capriccio di riprodurre qualche soggetto del reale, non i soliti sgorbi, ma avevo perso la mia grande occasione, penna alla mano, di ritrarre la faccia celestiale di Dhuoda all’apice dell’orgasmo — per la verità rarissimo — quando, in una luce sfolgorante come mille neon, capelli ritti come un istrice, odore diffuso d’incenso, gli occhi al cielo come una santa pazza da legare dentro una nicchia in una chiesa barocca, recitava: Ahia che magia che me ciappa e che me mazza. L’altra occasione mancata fu quando una sera, inchiodato alla finestra, guardando fuori, aspettavo una visita non annunciata, non importava di chi, tanto per discorrere, per dimenticarsi un po’. Ad un tratto, il cielo si oscurò per una nuvola immensa di corvi che la badante celeste mi aveva preannunciato la mattina stessa quando mi aveva portato la colazione a letto. Meditando quegli uccelli, non disegnai il profilo della nuvola che avevano creato in cielo. Peccato. Le mie ubbie erano irritanti, Dhuoda non ne poteva più: disse che mancavo di tutto. Allora, dopo averle dato una botta sulla testa arruffandola tutta e strappato qualche piuma dalle ali, l ’avevo brutalmente buttata fuori di casa. Come al solito, mi pentii anche perché, di tanto in tanto, il nostro rapporto era punteggiato dalle esose richieste di danaro che mi sborsava puntualmente. Le telefonai per fissare un incontro, la sua voce pacata mi fece capire che aveva perdonato. Ero in ritardo all’appuntamento nel parco di fronte alla fontana delle Scuderie; di solito ci incontravamo là per la passeggiata serale che si protraeva fino a tarda notte, quando mi aggredivano certe fregole grottescamente maschili che quella fata si affrettava a placare: atti di venerazione in cui entrava di sicuro una buona dose di parodia. Una volta lo fece alla presenza di una coppia di anziani che, tutti contenti, colsero l’occasione per fare i guardoni sbirciando nascosti dietro la siepe. Trovai Dhuoda seduta su una panchina. Da qualche giorno si era decisa a indossare un mantello porpora fino ai piedi che le copriva le ali delle quali si vergognava: non sopportava che la gente per strada le additasse pensando a una carnevalata. Da lontano ricordava un dromedario perché le ali, davvero robuste, sotto quella cappa, disegnavano il profilo di una gobba mostruosa. Era intenta a chiedere ostinatamente ma inutilmente, al suo computer piccolo come un orologio il significato della parola scioperìo. Pronunciavo quel termine mille volte al giorno quando disegnavo e lei mi stava seduta vicino, la volevo testimone della capitolazione di ogni soggetto attraverso quelle testimonianze che pretendevano raccontare la dissipazione del mondo. Mi voleva bene, ma
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covava un risentimento per una vecchia questione che, a stento, riusciva a tenere a freno: secondo lei, il giorno stesso che mise piede a casa mia, le sarei saltato addosso infoiato quando invece a me pareva fosse più che consenziente. L’amavo ma non volevo dimostrarlo; fra un disegno e l’altro quando era vicino a me in silenzio – così io volevo — ero deciso a raccontarle tutto di me. La confessione la diluivo, così non avrebbe avuto termine, come ogni disegno che sogna il successivo per ricominciare da capo come Sisifo. Ero giunto a un livello pericoloso del mio percorso linguistico criminale: mi stonavo senza riuscire a ripercorrere la catastrofe elementare della mia infanzia. Raccontando qualcosa di fondamentale, volevo centrare il sistema di una cultura segnata dalla goffaggine relativa alla questione tecnica, una tortura subìta per dimostrare abilità all’indifferenza degli altri. Quella sera lei mi avrebbe capito di sicuro, ero in uno stato di grazia; avrei trovato pace nelle pieghe del suo corpo e nell’affetto che non mi aveva mai negato. Avrei dovuto darmi la pace che meritavo, con dolcezza mi disse che: Non essendo il mondo che esecrabile bruttura, sarei stato come un papa a trafficare dentro la Tebaide con l’esaltazione che si addice a un grande artista. Prima o poi avrei prodotto un’opera che avrebbe abbuiato la mia magnifica monotonia. Là dentro, col cinguettio dei passeri sul lucernaio e il cigolio della carrucola per stendere i panni della dirimpettaia, avrei dovuto sentirmi fortunato. Mi persuase. Ma, pensandoci bene, se mi concentro nei segnali rarefatti di quel silenzio, mi sento nudo di affetti, solo come un cane con quelle carte che nessuno ha visto, con certe opere il cui destino ha perso la sua maiuscola. A Dhuoda bastò un’occhiata trasversale per capire che, nonostante l’istinto affabulatorio di cui, purtroppo, sono dotato, non sapevo come increspare il silenzio spietato per convertirlo nel banale chiacchiericcio del mondo. Certo, in quel frangente, una mia frase, anche la più innocua, sarebbe stata come uno spiegamento di fuochi d’artificio. Mi disse: C’è una festa all’Istituto del Mito, andiamo, ci sono menadi e satiri, nani del seguito di Bacco che fanno i funamboli, qualche centauro ormai degradato al rango di comparsa, quattro umanoidi venuti freschi freschi dal Giappone insieme a un robot che se lo metti di fronte a un pianoforte è capace di farti sentire tutte le suonate di Scarlatti, e poi ninfe, tante, vedrai, snelle come gazzelle che danzeranno fino all’alba, si estenueranno con la danza dei sette veli, si trasformeranno in ombre iridescenti per scomparire ma, soprattutto, ci sarà il Prof. Tschurtschenthalerwald, un campione della sua prodigiosa generazione, emerito linguista, studioso dell’origine dei Miti, famoso per il suo trattato sulla demiurgia verbale e l’eresia del verso, è uno studioso che si è distinto per la feroce, quasi medievale passione per la metafisica, terrà la conferenza Origine e ore negative dello scioperìo. Data la novità dell’argomento, si dovrebbe impegnare come mai, la galassia di neuroni del suo cervello brillerà. Così, finalmente, ne sapremo qualcosa di questa parola di cui, sospetto, tu faccia uso improprio, chissà perché la metti in relazione col tarlo in testa che ti costringe da un bel po’ a certe bravate maniacali. Fu lui, il professore, che asserì che, se le linee parallele non s’incontrano, non
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è perché non possono incontrarsi, ma perché hanno ben altro da fare, per esempio intrecciarsi per creare arabeschi. Quel tipo la sa lunga, sembra un falso nichilista, invece è un investigatore di segni indecifrabili, la sua lucidità indaga ogni traccia verbale. Dovresti leggere il suo libro Chi è più pazzo di me sia la mia guida, la scrittura del tracollo. Ti divertiresti. IL PROFESSORE COL NOME PIU’ LUNGO DEL MONDO Salimmo sulla collina. Il cielo sopra la Villa, sede dell’Istituto del Mito, era oscurato da una quantità incredibile di droni che se ne stavano immobili, incombenti come una nuvola che promette la pioggia, a prima vista li avevo scambiati per un nugolo di storni. Chissà perché tutto quell’assembramento minaccioso, forse la polizia sospettava qualche attentato: di recente avevano messo bombe dappertutto. L’architettura della Villa aveva un sapore umbertino; alquanto fatiscente, un secolo addietro era stata trasformata dal proprietario, un nobile russo scampato alla rivoluzione che ne fece una specie di galleria piena zeppa di disegni d’ogni epoca. Era riuscito a metterli in salvo con la sua fuga, svolazzavano sempre ovunque a causa di certe finestre sprovviste di vetri. Gli oggetti e le sculture in tetro disordine nelle stanze erano spazzolate dalle continue correnti d’aria; aveva un bel da fare il custode che, paziente, raccattava tutti quei fogli per fissarli nuovamente al muro e non finiva mai di sistemarli dove dovevano stare. Attraverso il boschetto di canne che fa da divisorio tra la strada e il giardino dell’Istituto del Mito, intravidi un lampeggiare di figure discinte, un trambusto di carni pallide che danzano nella penombra con movenze minacciose, scattose, intorno ai fuochi scoppiettanti. Sembra una cultura di bacilli che, aggredita da qualche chimica, si tramuta in detriti che lievitano per assumere parvenze umane. In una modulazione sfibrata e snervante, suoni di flauti e palpiti di sistri vengono trascinati da un vento aromatico di alloro bruciato. Il giardino è popolato di figure mitologiche eccitate, come dovessero conseguire il trofeo di una caccia favolosa in terre vergini, ai confini dell’erotismo e dell’umorismo. Una festa bacchica: con le forze ricavate dalla nostalgia quegli esseri aspirano a ricreare l’eden dal quale sono discesi. Sotto un corbezzolo una sirena madreperlacea è avvinghiata a un giovane nudo, tale e quale alla scena riprodotta nel quadro che troneggia nell’androne della Villa. Il cancello è serrato, forse la conferenza è già iniziata. Allora scavalchiamo una siepe d’alloro odorosissimo e c’infiliamo nel boschetto di canne; poi, si accede a una radura piena di olivi, come un lampo vedo passare il corpo bianco di una ninfa ansimante, inseguita da un satiro dal pizzo come una virgola che ghigna e saltella felicemente con la verga come la sua barbetta. Nell’inseguimento, proietta fuori di sé l’oscurità del mito che lo abita, trasferendolo nella caccia sublime di una presenza erotica. Le rotondità lattee della fanciulla anticipano una sensazione di fuga liquida, uno scivolamento che apre sul piacere, come una finestra sull’intimità di un cortile con mutande e calzini stesi ad asciugare. Ci chiediamo quando e dove potesse svolgersi la conferenza tanto attesa. Il portone della Villa è chiuso. Il Professor Tschurtschenthalerwald, autorità muta, trascendente, data la circostanza, si è prudentemente chiuso in una sala al primo
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piano, occhieggia scandalizzato dalle persiane chiuse la babilonia inaspettata e non autorizzata. Da quella postazione sembra un cronista mondano del cielo e dell’inferno. Circola nepente che viene servito in coppe dorate da menadi nude e fanciulli unti con oli profumati e gli occhi bistrati che sembrano cerbiatti. Sotto un cipresso un giovane satiro in lacrime se ne sta rattrappito, paralizzato da un’erezione priapea che gli procura dolore: un apocalittico profetismo sacro. Siamo attratti irresistibilmente dai suoi lamenti, la fierezza del gemito, una demenza contagiosa, incendiaria. E’ innamorato pazzamente, cocciutamente, del prof. Tschurtschenthalerwald che considera quell’essere uomocapra una presenza scomoda come un’immagine sconcia che sfida il pensiero della bellezza. Sa che accettarlo vuol dire riscattare talune incertezze relative all’omofilia o, addirittura, all’omosessualità che non avrebbe mai ammesso. Ora la sofferenza del satiro sembra diventata vaticinante saggezza, si risveglia da quel torpore e si rivolge a noi cantilenando: Iniziate con le risate, finirete con queste, poi diventerete dolore che vede il futuro anche quando la fanfara stonata avrà girato l’angolo e si sentirà solo un ansimare. Ascoltatela, vi restituirà alla disarmonia del mondo. Abbiate fede nella veggenza, ma evitate gesti violenti, repentini, per paura di scagliare lontano un braccio o una gamba. Rimanete nell’orgoglio sconfinato di chi non riesce a toccare terra. Poi ricomincia a piangere. Della conferenza non se ne parla più, il professore è asserragliato dentro una stanza, terrorizzato da quella kermesse: un’orgia di antropomorfismo. Gli Dèi, in quel pigia pigia, miscela di differenti aspetti di lassismo, non aspettavano altro che riprendersi ciò che era loro. Il professore per nessuna cosa al mondo uscirebbe allo scoperto: essere trascinato di peso nella danza – perché questo avverrebbe — gli fa orrore, sarebbe difficile sottrarsi a quegli scatenati che lo imbarazzerebbero, in barba alla contabilità di vizi e virtù che l’erudito suggerisce. A quelli, sopraffatti da una sovrabbondanza di vita, non passa minimamente per la testa di sapere sull’origine, vita morte e miracoli di una parola che la conferenza avrebbe rivelato: sono alle prese con quello che hanno di più sacro: le loro tentazioni. L’Angelo ed io, tra una coppa e l’altra, in confidenza, ci enunciamo tutti i passaggi di una riflessione sulla mancata occasione di saperne di più di quel benedetto termine. Il nostro diventa un po’ alla volta un dialogo sempre più frastornante che ci allontana dalla nostra origine come se fossimo stati privati della ragione. Ormai è l’alba, siamo rimasti in attesa che il professore si decida a fare la conferenza tanto attesa. Se ne sta rintanato, guarda lo scangeo giù nel giardino con occhi di paura. A un tratto ci guarda, capisce che siamo lì per lui e la sua lezione. Allora, si affaccia per un attimo solo, come se, rimanendo a lungo alla finestra, qualche scheggia di quel frastuono potesse ferirlo e, frettolosamente, ci fa segno con la mano di andarcene, si stringe nelle spalle: niente conferenza, arrangiatevi. I suoni della festa nella nostra testa si spengono e, ai piedi del cipresso, in compagnia del satiro inconsolabile che, ubriaco fradicio dorme da un pezzo, cadiamo anche noi nelle braccia di Morfeo. Sì Morfeo, proprio lui, così, tanto per rimanere in clima di quell’Arcadia.
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Tanti anni fa, quando mi mettevo a dura prova al centro di quella stanza, ero incline allo smarrimento: frequentavo una ragione che si lasciava fruire solo in forma di piccoli scarabocchi. Volevo farmi trascinare dalla furia descrittiva del rebus. Quelle tracce erano lontane da ogni emancipazione, non sarebbero mai approdate a rappresentare, se non la rassegnazione di portare le stimmate dell’ errore di voler rappresentare.
Tebaide del Porcellana, marzo 2015
Renato Ranaldi
1 Non conoscevo il termine scioperío fino a quando nel 2007 Bruno Corà accennò a un ipotetico significato relativo a questa parola che risultava una novità per entrambi. In una lettera datata 18/1/2015, Bruno Corà mi scrive: La circostanza che mi ha fatto incontrare il termine scioperíi è connessa con le lezioni che preparavo per l’insegnamento del ‘Restauro delle superfici decorate dei monumenti’ nella Facoltà di Architettura a Firenze. Infatti a proposito dell’affresco, Alessandro Conti nel Manuale di restauro (ed.Einaudi,Torino 2001) alle pagine 115 e 116 puntualizza: “ E’ difficile pensare che un pittore affidasse alla sinopia le proprie impressioni con maggiore spontaneità che alla stesura finita; esistono splendide sinopie (come quelle di Simone Martini in Notre Dame de Doms ad Avignone), ma la spontaneità d’espressione non è un problema che si poteva porre un maestro del Trecento. Invece si possono trovare commisti alla parte progettuale della sinopia, quelli che si definiscono scioperíi, cioè disegni fatti per gioco, come accade in margine ai codici e agli scritti notarili (mirabili quelli di Altichiero scoperti sotto l’affresco dell’arca di Fracastaro a Verona), non di rado di carattere burlesco.”
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GLI SCIOPERÍI DI RANALDI
Nessun artista — fino a prova contraria – aveva mai pensato di trarre una modalità linguistica dagli oziosi e spensierati, poiché eseguiti nell’improbabile considerazione di chicchessia, disegnini o schizzi denominati “scioperíi” da coloro che, impegnati nell’esecuzione di affreschi, se ne distoglievano alla fine di ‘giornate’ e durante pause, senza attribuirvi alcun valore. Ma è proprio per questa loro disinvolta venuta alla luce, sia pure per il tempo di una rapida delineazione di un che da visualizzare nel corso di un pensiero o di un discorso inghiottito ormai irrimediabilmente dall’oblio, che gli “scioperíi” hanno conquistato prima la curiosità e poi la passione e infine l’azione fondativa, mediante un ciclo nutrito di opere, di Renato Ranaldi. Nessun artista si era mai messo a resuscitare l’attitudine, recuperandone non tanto il limbo di funzione, pressoché inesistente, ma soprattutto il valore di marginalità e lo stesso loro non-valore sottinteso dagli autori diversi che li avevano, in circostanze assai diverse, concepiti e tracciati. Ma il fenomeno non poteva che suscitare attrazione in Ranaldi, il quale, infatti, dal momento in cui ne è venuto a conoscenza, ha immediatamente intuito come un enigmatico legame coniugava quelle ‘sospensioni del lavoro vero’ di altri autori, spesso ignoti, al suo stesso fare, soprattutto riferibile agli anni più recenti della sua creazione artistica. Mi riferisco ai cicli dei dipinti denominati “Fuoriquadro” e agli stessi disegni successivi a quelle opere, denominati “Fuori“ e “Fuoricarta”. Il fatto è che Ranaldi, da tempo ormai, si è metodicamente e con lucidità allontanato da ogni tipo di centralità che si paventi come tale e men che mai frequenta quella ritenuta essenziale negli ambienti cosiddetti ‘trendy’ dell’arte. Al punto che perfino l’area centrale di un foglio di carta da disegno o di una tela genera in lui una diffidenza e un’insofferenza per il suo coefficiente di conformità all’uso. Devianza, marginalità, rovescio di senso e altre inclinazioni eversive dello status quo custode della liturgia ortodossa dell’arte, dei suoi rituali, delle sue consolidate tradizioni, delle convenzionalità, lo spingono alla prassi di una costante astensione, all’insofferenza e riluttanza al senso comune,
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fino all’esplicita obiezione e negazione autosottrattiva a ogni forma di consenso. Un sentimento di allontanamento dai luoghi di condivisione comportamentale lo spinge al cabotaggio degli orli, alla frequentazione dei crinali, là ove sia possibile evidenziare la regale presenza di un equilibrio assediato e minacciato da esasperate forme di ‘bilico’ da lui stesso innescate. «Non conosco un gesto che abbia la stessa maestà di quella che viene dalle regioni dell’alea ---» si legge in queste stesse pagine da lui scritte con la verve dei clandestini e dei fuori legge, dei disertori e dei sabotatori del grande spettacolo dove ormai si fa la festa all’arte! La verità è che a Ranaldi, nato artista e divenuto pittore, scultore, incisore, musicista, filmaker, non bastano più le immagini, le stesure, le forme, i materiali, le fusioni, i disegni, le modalità trasformative, gli allestimenti e le altre mille diavolerie e gli artifici che l’arte visiva consente di compiere in suo nome. È come se di tutta questa forsennata drammaturgia egli avesse conosciuto fino in fondo i processi significativi e cognitivi, gli stupori e le meraviglie, gli slanci e le delusioni, i rischi e le soddisfazioni, il successo e il fallimento. Anzi, più il fallimento che il successo. Avendo egli in realtà tenuto più d’occhio quello che questo, prendendo in considerazione piuttosto il primo per il suo terribile fascino e quasi trascurando la sua temibile condizione. Al punto quasi di essere riuscito a prefigurare per sè tutte le situazioni canoniche e classiche di una sua piena attuazione; e tutto farebbe credere che egli sia riuscito nell’impresa del proprio insuccesso. Di questa originale e inconsueta sfida di Ranaldi al fallimento, che la maggior parte degli artisti è portata a rimuovere decisamente dal proprio orizzonte ideale, ma che avrebbe mandato in visibilio la vena epica di Cervantes, si potrebbero tracciare le traiettorie, i percorsi, le scelte compiute e gli episodi risolutivi volti a quel fallimento, se non vi fossero altrettante prove del contrario, e cioè che egli, all’opposto di un artista fallito, è divenuto autentico outsider, perciò incollocabile e dalle proteiformi prestazioni, peraltro capace di aggiungere alle sue già proclamate facoltà artistiche, una decisa altra virtù – quella della scrittura –, che ormai da alcuni anni con felice assiduità esercita. Lentamente, opera dopo opera, disegno dopo disegno, nel corso del tempo è come se il firmamento dell’immaginario, delle folgorazioni, del delirio segnico e plastico fosse stato da lui sottoposto a una verifica di essenzialità e autenticità che lo ha spinto allo svuotamento di ogni traslato visivo, di ogni metafora plastica, di ogni rovello grafico, di ogni possibilità rappresentativa. La tela o il foglio di carta da disegno, un tempo pervasi da mille fantasmi è andato progressivamente desertificandosi, lasciando ai margini, ai bordi, o addirittura fuori di sé, le tracce di un pensiero immaginifico che ora, sempre più spesso
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sceglie il precipizio della linearità verbale per esprimersi, manifestarsi, erompere sulla pagina al posto dell’immagine. A questa Ranaldi riserva un’estrema frangia ancor possibile, il limite oltre il quale si cade nel vuoto senza ritorno e senza riscontro. In questo preciso momento la situazione che riguarda Ranaldi sembra dunque essere questa: l’autore pluridotato versa inchiostro rigo dopo rigo nella scrittura mettendo alle strette il disegno tanto amato. Egli sembra prediligere questa nuova frequenza estremistica, che somiglia a un’azione di sospensione dal lavoro visivo e plastico ordinariamente inteso. Insomma, l’artista appare essere entrato in sciopero e i suoi atti residui, ancorché prodotti, li definisce “scioperíi”. Non perché abbia deciso di abbandonare per sempre l’arte, ma più semplicemente per amore di quella parola, una nuova sola parola — scioperíi — che credo debba avergli procurato l’arcano piacere di un suono e di un senso inusuale: una fonte diversa da cui trarre spunto per un’ennesima e diversa narrazione. Gioiello, dicembre 2015
Bruno Corà
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TAVOLE DEGLI SCIOPERÍI
1. ScioperĂi, 2015, china su carta, 91x83 cm
2. ScioperĂi, 2015, china su carta, 85x60 cm
3. ScioperĂi, 2015, china su carta, 80x60 cm
4. ScioperĂi, 2015, china su carta, 80x60 cm
5. ScioperĂi, 2015, china su carta, 70x53 cm
6. ScioperĂi, 2015, china su carta, 70x53 cm
7. ScioperĂi, 2015, china su carta, 70x53 cm
8. ScioperĂi, 2015, china su carta, 53x65 cm
9. ScioperĂi, 2015, china su carta, 70x53 cm
10. ScioperĂi, 2015, china su carta, 66x53 cm
11. ScioperĂi, 2015, china su carta, 70x52 cm
12. ScioperĂi, 2015, china su carta, 70x52 cm
13. ScioperĂi, 2015, china su carta, 70x53 cm
14. ScioperĂi, 2015, china su carta, 66x53 cm
15. ScioperĂi, 2015, china su carta, 70x52 cm
16. “Fuori” che tende allo scioperío, 2015, china su carta, 70x53 cm
17. ScioperĂi, 2015, china su carta , 65x52 cm
18. Numerosi scioperĂi ribelli che stanno dentro la pagina, 2015, china su carta, 53x70 cm
19. Alcuni scioperĂi sfuggiti al controllo, 2015, china su carta, 52x70 cm
20. ScioperĂi, 2015, china su carta, 70x53 cm
21. Nostalgie e scioperĂo, 2015, china su carta, 52x70 cm
22. ScioperĂi, 2015, china su carta, 64x49 cm
23. ScioperĂi, 2015, china su carta, 67x48 cm
24. Uno scioperío che tenta il “dentro”, 2015, china su carta, 60x48 cm
25. ScioperĂi, 2015, china su carta, 64x46 cm
26. ScioperĂi, 2015, china su carta, 60x45 cm
27. ScioperĂi, 2015, china su carta, 63x45 cm
28. “Fuori” che tende allo scioperío, 2015, china su carta, 64x42 cm
29. Doveva stare al margine, è sfuggito al controllo, 2015, china su carta, 60x41 cm
30. ScioperĂi, 2015, china su carta, 49x35 cm
31. “Fuori” che tende allo scioperío, 2015, china su carta, 53x35 cm
32. “Fuori” che tende allo scioperío, 2015, china su carta, 52x35 cm
* I was unaware of the term scioperío until, in 2007, Bruno Corà mentioned a hypothetical meaning related to this word which was news to both of us. In a letter to me dated 18/1/2015, Bruno Corà wrote: I came across the term scioperíi while preparing lectures for the course on “Restoration of the decorated surfaces of monuments” at the Faculty of Architecture in Florence. Speaking of frescoes, in the Manuale di restauro (ed. Einaudi, Torino 2001) on pages 115 and 116 the author, Alessandro Conti, remarks: “It is hard to imagine that a painter would express his impressions with greater spontaneity in the sinopia than in the final work; there are some splendid sinopie (such as those of Simone Martini in Notre Dame de Doms in Avignon), but spontaneity of expression would not have been seen as a problem by a 14th-century maestro. It is instead possible to find, in among the sketches of the sinopia, what are defined as scioperíi and consist of the amusing doodles, frequently caricatures, which can also be found in the margins of the codices or notarial deeds (those of Altichiero, discovered beneath the fresco of the sarcophagus of Fracastoro in Verona, are particularly remarkable).”
SCIOPERÍI
In perusing what follows the reader would be well-advised to eschew any psychoanalytic trivia which might be mistakenly suggested by certain descriptions. Perambulating in the midst of configurations as ingenious as they are gratuitous has made me a predator of images. I have adopted them copiously and nonchalantly, but in the end they have got me with my back against the wall, robbing me of the last subject worthy of representation. Consequently I have opted for the Biblical text of the blank page, which will allow itself to be contaminated only by signs like epiphanies, illuminating flares at its margins: the scioperíi.*
Drawing, or rather doodling, on the edges of the page is pure cruelty. It’s like a spiteful attack designed to cause pain and vexation. The guideimagination denies me any identifying profile while projecting the suggestion of incompleteness from which I glean theriomorphic knowledge, drawing forth essences to produce the foundation that makes the Impossible palpable. This process will never settle for a real outcome: it cancels all definitions and portends god knows what damage, preferring to threaten. Think of a city square after a snowfall. In the bird’s eye view from a window, it offers itself like the site of dissolution of the universe of images. It doesn’t ask to be inhabited or sullied, although it may sadistically ignite the spirit of fornication that inclines to contaminate intact surfaces by projecting phantasms that take good care not to reveal any identity. It is possible to invade the white page of the piazza from a distance, even with your eyes closed. With the pen between my fingers I set to pulling off some stunt on the paper, I venture into an eternity such as to make you piss yourself laughing, a marvellous comprehension of the comic, and I recite to myself the sublime ultimatum that makes every gesture a contraction of disgust. There is a remedy. You have only to give in to the slightest epileptic swerve of the hand to evade all that is hermetically sealed,
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walled up within a meaning that leads to despair; a prison that you try to escape from by digging a tunnel, finally emerging in the open air in the regions of heresy. But digging is a desperate business, and there’s no Abbé Faria to give you an example and a flicker of hope. To prove to yourself that you’re not at one with the world it’s not enough to walk on the wrong side of the road with perverse pig-headedness, at the risk of being run over by a car, or to insist on putting your right shoe on your left foot. It’s not enough to go to the vernissage and start making noises like those you hear on poultry farms in the dead of night, just to scare the shit out of everyone. To keep the oppressive idea of drawing at bay, which, at bottom, is what I want, I adopt the worst. If I draw I have to consign to paper the demons that annihilate me but I can’t live without: it’s ingenious, the way you can hurt yourself. Despite everything I find myself with my pen still clutched in my hand, ready to wallow in the excremental violence of diehard scrawls, happenings crystallised in the form of squiggles behind my eyes, that is, in my mind. But it’s not clairvoyance: it’s always and only just me: an autobiographical inclination that can hopefully be redeemed, or rather raised to the status of a myth. I’m not giving up on the senseless destruction of language which, on the strength of its codes, brings the exquisite time and place of the composition to coincide right in the centre of the page triggering the arrogant logic of centrality, the very thing that I tend to barbarously assassinate. It’s all on the tip of the pen, but if the nib should be blunted – a desirable glitch – then the accident itself would suggest a new technique, dictating the law of a syntax that denies the hegemony of control. Better to opt for the indeterminacy that claims to be all and nothing, that never yields itself because it is indifferent, amorphous. All that remains is the open gesture of frantic inversion, indeterminate and ambivalent, the contradiction with a vengeance proper to the toppled values that wax stronger when they’re deposed. I know of no gesture that has the majesty of that which comes from the realms of chance. I hope I may adapt my breathless rhythm to an epic cadence: it’s something I know I shall seek to the end of my days. The paper awaits, hoping for a trace, a mere hint. It would settle for little, but is betrayed by my bottomless being which always comes up against some resistance: the sheet remains anaemically virgin. The forefinger and middle finger of my right hand perennially stained with ink are evidence of the attempt to portray the theme-obsession, as pointless as it was ridiculous. But the physiognomy of the world cannot be portrayed; it is too open, too free and wild, but also too fragile: it reflects the mystery of an endemic comedy. The hand, swerving rapidly in the spasm of new reflexes and impulses, eludes the summons to sketch out a subject, denies itself the banality of composition and casts itself to the edge of the page to sully it with illuminating inkblack evidence. These are tics worthy of psychiatric curiosity, investigations of unexplored registers of existence, extracted from the contemplation of one’s own august solitude: stuff apparently spewed out by a delirium of automatism.
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There is no subject worthy of representation, which could mean that at the bottomless heart of things there is silence. A virgin canvas has not been violated. The field in which the happy hand could display its prowess and earn prestige has been deserted. Only the edge is dominated by the hysteria of a representation that denies itself and is happy to do so, that knows that it has wrested a victory from the reigning modus, squandering levities charged with pathos in injudicious superabundance. It’s the uphill path of revolt that bears witness through the whim; the language of the supreme orgies takes its time and goes wild declaring itself ready for anything. The hasty, slovenly manner remains on top. It has a mission: to displease those who will read the manifesto of skill and those who don’t give a damn about genuflexion before the altar of art that has endured for at least forty centuries.
THE BLIND ALLEY OF THE WEE SKETCH What goes around comes around. When I was a boy I had the face of an anaemic and indolent cherub. Someone had put the idea in my head that I would become an artist, but instincts strangled by decency devoured me: I was lazy, the caricatured epitome of boredom. Rather than trying to make things better by seeking to spend a couple of hours with a fellow creature, I suffered inanition: it was a habit, I couldn’t resist it. I was constantly put out because the day would rob me of the gifts the night dispensed. Every so often I would have attacks which – on reflection and sixty-five years later – could probably be defined as panic attacks. They usually occurred in summer in the afternoon silence of the witching hour when, in the baking sun, the walls gave off a heat of grey and ochre like the houses it came from: it would come in through the window of my room and sully the walls that looked like fresh snow. The heat turned the streets and squares into a desert soon to be populated with halfasleep people, fresh from their afternoon snooze, their heads emptied of the searing memories, just a few splinters of bad conscience dragging them back into their occupations against the backdrop of an active debasement that was bound to lead to disappointment. All the sleepyheads yearned for was a cup of coffee so that they could get back to their trafficking. I didn’t want to end up like them, ground between the cogs of the human consortium. To be a useful person, crammed in with that mass, was a repugnant thought. I felt like an ant in a landscape where everything remained the same except for the blue of the sky: beneath the shifting shapes of the clouds, sooner or later I too would be altered. I would be different, being an artist would save me, but I would have to abstain from work of any kind. Every so often the doubt would assail me: perhaps I could escape it by giving in, by tending pathetically towards the normality of a vision before the picturesque like a second-rate artist. My crises came on when my mother told me that I was feckless, because I would wander aimlessly from room to room, a prey to melancholy; I would invent enemies and feel myself to be a breathless, alien little wretch. When the entire Olympus of my phantasms became sad and sterile and I disintegrated
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into inexorable boredom, I would seek a subject worthy to be represented. Even a sound would have done me, and so I set to listening with my inner ear to what was happening in the deepest recesses of that house. The silence was a bustle broken by prattle, the medley of gossip of the mice behind the kitchen cupboard who were upbraiding the cockroaches for their arrogance. There was nothing for it but to go into the sitting-room; the room was enticing me: I could perceive all the things that had happened in there in a remote past. I placed myself with my shoulders against the piano black as pitch. That moment of deep despair made me realise the danger of everything, including my own organs; I was so acutely aware of their existence that I could feel them distinctly and feared them as if they were my worst enemies. I vested all my hope in the white abyss of the wall which I stared at fixedly as if it were a mirror, questioning myself before what I knew was going to be a test. It was the battlefield, the snow-covered lawn of a duel and I had to probe my courage. I flung myself head first into any mythology; I adopted it and broke it down into significant passages which – faced with the dazzling white of that rectangle – assured me the apparent peace of an action that amplified the sphere of my perplexities. It was an attempt to interrupt the flow of the world, to strike reality a blow to the heart, to entangle it carefully like the spider does with its web when it captures a fly and consigns it to the safety of hibernation. I did the same, I put that reality carefully away, one day it might be of use to me – I thought – you never know. I felt an increasingly strong aversion to the internal space and the desire for aerial, free space – uranic, so to speak – that would transform the idea of the off into a tantalising dream, which was as much a source of terror as of promised happiness in view of the excess of freedom I aspired to. I realised that I would have to sacrifice talent. Unencumbered by certain human qualities, I truly thought that I could save myself and cultivate the discarding, the condition of my independence, to arrive at the essence: a death-defying leap with no net. Despite the fact that reasonableness required that the bare wall should remain bare, I was tempted to project onto it some entirely imaginary pieces of bravado to act as a frame. Not a day passed that, like a delinquent, I was not irresistibly attracted to the scene of the crime to relive those potential signs, all imaginary allegories that placated my instinct for destruction. That desert represented by the immaculate plaster, the site of the sweetest oblivion, assured me the synergy of the visible and invisible, threatened by the reciprocal contamination that could take place at any moment: the drama of that becoming was in constant oscillation. I had at my disposal a backdrop that could accommodate infinite encores of the same tragicomedy that I couldn’t help but perform. Thus I fulfilled the desire that projects its origin in the image of the former and future world expressed in a tragic condensation of scribbles which, in my mind, were integrated in the plastic structure of myself. In those days of ambition, the miracle of the transparency of a sign would have told everything that had happened to me; I could tell the story, and the game would be endless but I was aware of a threat of shock originating from that energy. Certain merits that I had previously acquired as a racconteur didn’t count: every time it was a tabula rasa, I started from scratch. I aspired to be like one who has
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completely banished memory, but I nevertheless had to prove to myself that I was capable of narrating the past without either gestures or words, simply by projecting the fruit of my imagination. The trouble was that I was incapable of transferring the ideality expressed through an imaginative projection on that wall to a virgin page witness of desire: I lacked the courage to draw. Every day I would prepare myself for the ritual with the greatest concentration, like an athlete obsessed by a record. Without touching it I ate away at that diorama of absences, staging the pictographs captured in my mind, which I finally let fly, memories of incubations of every type of boredom, places heralding the extreme tension: a hell of ruminations that kindled all regrets. The purity of the white incited me to violence; it summoned me to conquer that surface by contaminating it. I don’t know why, but I felt that emerging from the habitual panic horror that twisted my guts and set my heart going like a train, signified violating that surface. Later I sought in vain to understand the reason for that pacification when my eyes traced out the edges of the wall filled with ideal squiggles; they were nodes, stations of lightness, the carefree freedom of sullying, contaminating the snow-white geometry with something indistinct that remained stuck in my mind without coming out into the open. Underlying that extravagance was probably sadness, something that would have racked the brains of a renowned psychiatrist had he taken it into his head to try and get to the bottom of it. For reasons of iconographic decency, constrained by good common sense to deal with subjects, I would respond like an outlaw, I was one step ahead of pessimism. I would have had no justification for being in the world if I had not eluded all organised thought, declaring to myself that I was not the son of any culture, or technique, our companion in grief and frustration. The courage of orphanhood allowed me to see beneath the skin of that plaster a subterranean current of impressions, to which I attributed the power to astound me. Tirelessly I practised that utopia disguised as heresy in the form of hints that were invisible to all, but not to me, indications of forms in the embryonic state not yet solidified around some substance, projections of secret gestures, signals, confused nods of understanding which I assessed for a time that became increasingly longer. A hallucination: the sacrality of that disordered ornamentation came home, like a boomerang, back into my head. Probably – but I am guessing without probing the deep well of the ego – all that courage was the response to the talk that I had to listen to, to that busy toil of everyone that I saw as pointless: a dejection which, had I been capable of elaborating it, would have been a subject with bells on. Without even grazing it, the prophetic touch of my imaginary hand could animate that screen with a frame of scioperíi, cryptograms, nodes of meaning in a hieroglyphic dream which, when it reached the zenith, would fill me with enthusiasm. To keep that trance alive, my legitimate, sublime distraction – which I’m as proud of as a masterpiece – I would take up my position with my back to the piano in the middle of the room. All I had to do was wait. A generous panic would offer me a world of minimal reverberations, obscure places that noone visits: from the rat’s nests to the dark void that smelled like mould from the woodworm’s domain of the wardrobe, to the ascending well of the chimney of the stove of Impruneta terracotta which was in my father’s study.
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A BISHOP WITH A COCKED TIARA At the origin of the scioperíi is the frequentation of the dubious, risky regions of my brain, traps I don’t know how to avoid. They are reverberations of resuscitated thoughts, and they demand the solution to the enigma they themselves have posed and don’t know how to resolve. The sort of stunt you regret: like the dauntless cat that climbs nimbly up the tree and then sits there clinging to the branch and wailing because it doesn’t know how to get down again. Questioncreatures surface, bearing a surprisingly comic charge precisely because they are inexorably indecipherable. Stubbornly they put themselves forward, perhaps aspiring to be represented in the centre of the page but intransigently I deny them any starring role, I marginalise them. Every time they put themselves forward, then in the end they back down, accept their fate as cryptic writing: eccentricities surface between the lines that they can’t resign themselves to. In the end they hole up inside themselves fulfilling the clownish and capricious role entrusted to them. At the risk of appearing decoration, they are where they are as a result of a wild and headstrong whim, an unreasonable obstinacy. And what is responsible for all this is the obsession nurtured unbeknownst to them that has driven them out of the physical centre of the neutrality of a surface totally indifferent to whatever figure may stand out against it. The medium has no objection to make, whatever is cast upon it causes no suffering of any kind. It allows itself to be imprinted with any representation whatsoever, even complex ones of the kind that cannot be described in a drawing. It’s not a question of depicting a scene, but of finding a cipher: a concise sign that describes that particular atmosphere. Here are a few examples: A crowded beach in mid-August. The lifeguard is rowing frantically to try save a man who is drowning despite being an expert swimmer; unfortunately a cramp in one of his legs draws him down. An extemporary painting competition: a sort of fair in a square packed with painters with their easels. Suddenly a heavy shower bursts out and there is a general scramble with everyone rushing to pack up their accoutrements. A painting falls off the easel and the fresh paint stains the jacket of a dauber who gets angry and starts kicking some of the easels. A sad, bald camel has stopped dead in his tracks like a donkey, despite the kicks of an infuriated Arab who, being barefoot, hurts his foot which makes him even more pitiless. An old lady in dressing-gown and slippers running after a Persian cat frightened to death by the explosions from a motorbike exhaust. An aeroplane flies low disgorging pamphlets with pornographic images printed by the negationists of art. A bishop with a tiara cocked at a jaunty angle, roaring drunk and crazy, who can’t be approached because he is protected by the whirling of his pastoral rod, dangerous as a scimitar. He is revolving it like a helicopter propeller to keep everyone at bay, as he intones an anathema and dances a dance of destruction.
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Men who are lost in themselves, inside their enormous hob-nailed boots, muffled up in heavy greatcoats with their large pockets brimming with walnuts and pistachios, their only food. These corroborating subjects will never see the light: the freedom to describe all is not granted. The scioperíi are evidence of the ineffable complexity made up of unlikely splinters of thought in quest of a mask, aspiring to comedy but yet terrifying, crushed by the fate that has consigned them to the margins, but redeemed by cosmogony, their noble origin. I was proud to be the creator of phantasmagorias, even if I felt like the victim of a species of involuntary plagiarism, something that had been suggested to me, maybe even by the fear itself. Possessed by this force, I learned to accept it. But I didn’t know what to make of myself. The notion that you had to use clear ideas to express yourself was madness: that much was certain. Clear ideas are short-lived. Once they have cleared the path and illuminated it, they’re over and done with. As for expression, you have to trudge steep and rocky paths and descend at breakneck speed into the regions benighted by Impossibility where the reason pops its clogs: it’s down there that the veil is torn upon a birth, a life spouts forth. The phenomenon that led me astray, projecting my fantasies on the edges of the wall-screen, disappeared briefly with the onset of winter when the days hardened with cold and boredom. A lassitude older than the world froze me, casting me into another laziness of the tragic kind known as melancholy. Thus I glimpsed my nothingness, and then the notion of an industrious Benedictine peace made its appearance: I fell into the trap. In the seductive warmth of the house, a spinsterish demeanour induced me to that sinister craftsmanship that makes you happy with a colourless happiness; ready to accept any capitulation I completed a few wee sketches that travelled along blind alleys without any flicker of smiling irony. Then I’d be ashamed and, having destroyed all traces of the crime, I would brand the entire sorry affair a whim, telling myself that I wouldn’t fall for it again. Empty promises – just like when I swore to myself that I would never masturbate again, that it could make you blind. I was happy to take refuge from the gallows practices that tended to the recovery of the ego through the stingy rules of chiaroscuro and proportions. I didn’t want to draw, I was on strike: my mother was right. I liked the idea of being misunderstood, and I went back to rewarding myself by standing trustfully in the centre of that room waiting for the miracle when my head stopped spinning: that frieze of eccentricities on the edges of the wall would appear as if by magic. I waited for the spell to work, and in the nervous quietude that preceded the phenomenon, concentration interspersed with mute monologues, I racked my brains refining passages from the nuclei of thought; I would execute a masterpiece: the plaster was simply waiting to receive my projections. It was a crucial moment: a deathdefying leap for the revelation of my guts, an apotheosis of nonsense. I would annotate the world with scribblings around that page on which an invisible, ancestral text was written that I alone could read.
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Imagination laid complex and gratuitous snares, and so I walked on the brink of that fathomless, gaping abyss. I could easily have been taken for raving mad, since during this ritual I would stand bolt upright in the middle of the room and, clenching my teeth and my fists, with eyes closed, projected the invisible shreds of something which – like some of the lower animals – survived even when they were dismembered. All I had left was the feverish escape from the dark original vice, my manic obsession with representing anything whatsoever on paper. Once it happened that one morning, with the baggage of a tension hatched over the long night, the plaster destined to the chimerical projection split open with an explosion like a cannonball, and there appeared a clear sky streaked with swallows which, in an unbridled merry-go-round, swooped and darted twittering all around, skimming the houses that framed the garden I could see from the window of my room: even those birds were scioperíi.
DOCTOR SCIOPERÍO’S TREATMENT Lina, the little girl that lived across the road who was perennially immersed in a sea of troubles, always wore little white dresses trimmed with strange squiggles which – it goes without saying – looked like scioperíi. Her face was covered in freckles which, by the by, had an almost rash-like appearance. Dark shadows around her eyes gave her a vaguely tormented expression; she always smelled of a cloying perfume that her mother liked, but mine didn’t – and indeed she always looked askance at the little girl. I had met her in the square; the first time I saw her I immediately thought that this creature dressed like a little doll would make my name as a humourist. I planned to use her: she would be my stooge, with her I would be able to create the exquisitely comic paradox that I aspired to. I invited her to my house; we studied each other at length like two dogs on first meeting, and then the room was filled with interminable bursts of laughter, the racket increased until the floor was throbbing like a drumskin: it too was rippling with the same licentious laughter. We were attracted to each other; we recognised in each other’s eyes the amazement that we were prey to and the stormy stories of our respective families. The relationship I had with her was fairly bizarre. While she would speak to me of the absolute necessity of being accompanied by your guardian angel – everyone is assigned one when they are born, she said – quite regardless of the sermon she was giving me, I would play doctor. Injection was my preferred treatment, and so I would remove her knickers and, after having pinched her pale bottom so hard as to leave bruises, I would give her endless injections, using a blunt pencil so she wouldn’t bleed. And the wonderful thing was that she submitted to these sessions with serene resignation, or rather she appeared to enjoy them. When she laughed it was like the rustle of dry leaves falling from the trees, and then a silence would descend between us. The expression would drain from her face, even though I was quite certain that the richness of her interior life was increasingly fed by the effort of keeping silent. I got to the point of thinking that the serenity she displayed had something to do with the fact that she had the Guardian. However, even without protection, I felt that I was more on top of things than she was; it’s a shame there was no witness of that school of vertigo which I was certain was
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not open to all: I considered playing at doctor and patient a diabolic adventure. Lina instructed me tirelessly, telling me that the angels went around in droves looking for someone to protect and how when, after many, many years they had completed their duty, they dissolved into thin air. It was strange that I didn’t yet have one by my side. Her own was very handsome: blond, strong as a Viking, and he was always hugging and cuddling her. He would tell her edifying stories, especially at night when she was frightened. I didn’t listen to her. I went on asking her to abandon the demon of good sense and take refuge from adversities by finally giving in, like me, to the blessed frenzy of indulging in fantasies that would show her capacity for delirium. Despite my exhortations, my victim simply didn’t want to know about rooting herself in the Invisible, creating goodness knows what with the brain, even maybe some poor little idea; she realised that it would mean taking up her abode in exile, in the land of nothing, and she was frightened, she trusted in the whore reason. I insisted: I urged her to be my accomplice in what for her continued to be a source of amazement and of scandal, a practice that would spark crisis or fertilise our intelligence. We would be accomplices experimenting the gangrene of the intellect, devoted to a recognition impossible for all. I was enthusiastic about the supreme honour of defeat. But there was nothing doing; with that afflicted derriere of hers that smelled of talcum powder, she took the therapeutic torture with good grace, as long as I would leave off. On the other hand, beyond those fractured concepts that lived at the edges of the wall, my greed for sadness had found no other subject but the poor girl. I had no other resources but that of being vexed by myself: a dimension, moreover, not devoid of fascination since I left me where I found me, did not lead myself to anything. I trusted her. One day I decided to allow her to attend one of my sessions of pure vertigo when I created scioperíi: she was terrified, because while performing this ritual my face betrayed a force of effort that went beyond the limit to become ecstasy. Nevertheless we went on playing doctor and patient. I would wear one of my father’s white coats which came down to my ankles. While I administered the noisome treatment, the patient continued undauntedly preaching the need to have an angelic creature at my side: she just couldn’t accept that I didn’t have one, and according to her I was in a supreme blind alley, a shipwreck that I had deliberately sought. With insolent obstinacy, like a whim, she attempted to convince me. Vassal of a single thought, I replied urging her to generate visions in the utmost freedom. This treatment would restore her to healthy raving, authorising her deliriums to exist in the form of signs at the edge, just like the embroideries on the hem of her dress. It was a simple matter: to deny tradition mastering the force of ecstasy. I even swore to her that, nurturing our cravings through the capital of grimaces, the symbols of our spasms, we would preserve ourselves from tedium of the sterile and pernicious type. On the strength of the talents that she didn’t have, she looked at me incredulously: when she came to visit me to play doctor, she just wanted to be the patient, full stop. She agreed to the game because she knew I enjoyed it: that was what this sister of charity wanted, being nothing more was a ball for her. She was imitating the pity of the Angel. What I was doing seemed to me tremendously right: alleviating all heaviness so as not to risk becoming one of those dotards, an iniquitous imbecile with
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his head on his shoulders: I was terrified by the priggishness of living in the comfort of being regulated. I sought to eliminate from my existence the banality of realisation; better an invisible project that made sense by plunging you headlong into the realms of doubt than a pondered execution with the chrism of art. The plots that count are not to be seen, they lie behind the obvious ones. I dragged in every argument that sprang to mind to try to persuade her. I even promised her that I’d give up the injection therapy, her torment. At least that’s what I thought. But I had to think again, because as soon as I said it she started to cry: evidently she liked the torture. To convince her, I even exposed myself to ridicule, telling her that with those damned scioperíi mine was the art of surviving oneself and that I was an idiot because, at bottom, the mystical scared the pants off me too: I couldn’t face it on my own. She was not intrigued by the misery that assailed me in not being able to put my hand to the infamy of a drawing. The way I appeared like that, looking like a shaman before the white wall, was not convincing. She forced me to lose face, telling her that if she agreed to project her creations, I would accept the notion of the Guardian breathing down my neck. The promise seemed to arouse her curiosity, but it was a flash in the pan. By this point she’d realised that I had mastered a contingent of lies through that esoteric devilry, she was afraid of me: once pardoned I would dupe the saint. She was immovable as stone, she refused to accept the certainty of that priceless uselessness that I offered her – what a fool! That was how poetry and philosophy were born – she didn’t want to leave room for powers that she felt to be negative, which would force her body to come to terms with a tension unknown to her. She feared that a speculation based on nothing tangible would spell trouble: it would have got her into her Angel’s bad books, since he would certainly not have approved of the whole affair.
THE SYMMETRY OF IMPERTINENCE Just imagine, I wanted to educate the poor thing with passion, to take her along with me in that descent. Ingenuously I believed that I could enlist some sort of attraction with my endearments and the half-smiles of the strong, silent type: I thought I was irresistible. I wanted to be a mentor. She didn’t realise that indulging in such exercises was our birthright, the licence bequeathed to us by certain visionary demigods who had been experts in reversing the meaning of things long before us. It had cost them sleepless nights and tears of solitude. They had paid a high price – too high – and they’d done it for us, not for those people with both feet on the ground who understand nothing. That’s what I believed. All that I managed to arouse in Lina was a listless, even soporific restlessness. And so the ultimatum I came up with was in the most sublime poor taste: I told her that the injection therapy would be transformed into repeated enemas with the rubber bulb syringe my mother used to use to clean me. The indifference of the stubborn lass cast me into a parlous state: there was no way of coercing her, no agreement would be possible. She was becoming unapproachable: she was
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on the other side of the trench, even if she allowed her knickers to be removed and nonchalantly offered her behind so that I could play doctor. I insisted but she wouldn’t hear of it. She responded to the nirvana that I held out before her with a flat refusal that concealed a satanic satisfaction: both of us were reciting the symmetry of impertinence. There was nothing for it but to take revenge: when I did the injections I would sink the pencil ever more deeply into the pallid, tortured buttocks. She seemed like a martyr: obedient and at the same time desolately puzzled by my ferocity. She explained it by the fact that I had no celestial presence at my side; she probably offered up all the discomfort I caused her to some saint in paradise, who would bestow grace on her when I accepted the Guardian. Perhaps she was secretly in love with me: she wished me well, but her refusal was nevertheless a betrayal. One day when she appeared she seemed to have lost all contact with the world. Staring, with a gaze full of bewitched charity and beads of sweat on her forehead, she seemed bewildered to see me in front of her, like someone looking into a mirror who sees someone else there instead of themselves. The treatments I administered had become our regular afternoon appointments. That time I couldn’t smell talc on her skin but a sweetish pong wafting in heady gusts. After the usual grotesquely rude treatment undergone by the flaccid backside – wily scoundrel that I was I had made it an imperative rule that she remain relaxed during the injection therapy, which was more painful than ever that day as I gave my all to it – before she pulled on her knickers that had fallen to the ground, she broke out in a shrill cry of irate remonstrance. Well I can’t say I hadn’t been expecting it: it had to happen sooner or later. I moved away briskly, pushing her away with my stretched arm and she gave me a withering look. She wasn’t protesting about the pain I was inflicting on her, she had to deal immediately with a much more pressing matter than playing at doctor and patient. She began walking up and down the room, proceeding in lurching jumps, and her shoes fell off. She launched into a tirade of sounds that were similar to words but weren’t words, with a vague crack in her voice that drowned an already incomprehensible argument in a syrup of pathos. She was mumbling incomprehensibly, then suddenly she stopped with her tongue hanging a couple of inches outside her mouth, wide open in what looked like a yawn but wasn’t: I realised that she wanted to shout but her strangled voice refused to comply. She shot me a supplicating look and then, with her eyes turned upwards and, with her arms extended as if I had crucified her, she began to levitate. What I saw was, and ruled out everything that could have denied it. After having been a witness to this phenomenon, which I interpreted with extravagant humour, I began to detest my patient. Then came the last straw: one day she arrived at my house with a very obvious jam stain in the middle of her skirt. Obviously this blew sky –high the theory whereby, in order for the Rite to exist, there had to be a completely neutral field, a paradise of absences, which was the sine qua non for defacing the borders of the blank page, which was already entirely written, white on white. It was just that the writing was invisible to all but me, and it was up to me to provide the mental gloss. But what could that poor wretch know of it! Well, I have to admit, it was no small thing
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that I was expecting: I aspired to bring her down with me, she was supposed to lose herself by getting totally out of her depth – I was somewhat frightened of doing it on my own – to peppily shatter into smithereens in an escalating brutal game that I was hooked on. In this frenzy I was on my own; given her strict mediocrity my victim hadn’t a clue what was happening. I didn’t play doctors any more with Lina who, if nothing else, had managed to plant in my brain the notion of the indispensability of an angelic creative in my life – which I instead believed ought to be that of an artist nourished by his own thought, with no need of anything or anyone. THE NIFF OF THE ANGEL The question of the sex of the angels is balderdash: all angels are female. The prophetic poison of the thought of having a celestial creature at my side began slowly to intoxicate me. One day, during the umpteenth production of scioperíi on the wall, I felt that I was venturing into a historic role. It didn’t last long before awareness brought me to my senses: the world always went back to being itself again, and those invisible traces that were my extreme game no longer permitted me to deceive myself about transforming it into something other than it was. I realised I was weak, and so I clung to the dark shape of an allegory of peace as the measure of all things. I got cocky again: I would be an example to all in the task that I set myself, exaggerating my faculties until I exploded with them. And so it fell out: during the execution of the umpteenth masterpiece that no-one could enjoy, a cosmogonic verve shifted to vertigo, when I suddenly felt my arm being grasped by the Angel. An angel who – contrary to the dictates of Catholic iconography – was a portly lass with skin of a colour one could define as haemorrhoidal, little eyes like a ferret, a boxer’s shoulders, hair under her nose: almost a human creature. Her huge wings swept the floor and her body gave off a pong as if she’d drenched herself in sweat running to my side at breakneck speed. Her long gown, so worn that it was almost transparent, was patched just under one of the knees. And through the cloth, as if through a mist, I realised that she was wearing no knickers and I could glimpse the presence of a bushy pubis black as coal. The first thing I did was to grab hold of that Fatality with all the ecstasy of a castaway looking his last on the sea of everyday horrors. The first thing she told me was that I should never call her, under any circumstances, because she didn’t have a name and in any case it was quite unnecessary because she would be always at my side. She was lying: I’d already spotted an embroidered name on the hem of that species of nightshirt: Bona. To break the ice she told me how, years back, she’d been an archangel, but that she’d been demoted for infractions, sneering as she said it like someone who has suffered a wrong. Without beating about the bush, almost to put her on her guard, I told the angel about my obsession – as if it were something to feel guilty about –although in actual fact it was not entirely secret: Lina had been a witness to that liturgy through which I managed to outlive myself through the dynamism of disintegration. I was increasingly attracted by the charm of the language of metaphysical exhaustion, dispenser of annihilation. I spoke to her of my final defeat, which was sure to take place
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shortly, the purity of failure, the frightful overthrow of reason, the objective tendency to the lie, and my great weakness for nothingness, which was the main argument whirling round my brain. She immediately took umbrage as if I had offended her. Speaking sternly she told me that I must immediately quit that imbecilic drawing fixation. Then she repented of the reproof and she put her hand on my forehead, as if to check whether I had a temperature. She stroked my face and I responded by nibbling at her thumb. She smiled goodnaturedly then she picked me up in her arms and clasped me balefully to the vastness of her powerful torso. Then she held me out at arm’s length, as one does with infants, and I saw my eyes reflected in hers which were illuminated by an unnatural power. Afterwards, she settled me on her buxom bosom, from where I smelt a steady niff rising from below. She carried me into the bathroom: I had to wash my teeth and then she soaped my private parts and rinsed them with cold water. To my protests she replied that it was good for my health and that when I grew up I would have an enviable penis. Then she put on my pyjamas and tucked me carefully into bed. After this she removed her Turkish slippers with the curling toes, revealing filthy feet with black-rimmed nails that smelled of nanny-goat, and proceeded – with gestures of rustic grimness – to curl up at the foot of my bed on those exaggerated and somewhat faded wings of her, that served her as a cot. All of a sudden, she shot bolt upright and caught god knows what little beastie on her thigh, possibly a feisty city flea, and squashed it with the greatest naturalness between her thumbnail and that of the forefinger of her left hand: my guardian was left-handed. Before I fell asleep I reflected that ours would be a harmonious interplay of misunderstandings and defeats. In any case, I felt sure that that species of animal stretched out on the ground was of a divine nature and was there to protect me. A waft of summer evening air which came in the window, bearing the notes of a song from far away, provoked an unexpected gush of emotion, typical of maudlin swindlers. So I directed towards her a Good night sweet dreams, to which there was no reply, just a grunt since she was already asleep. Over time I learnt to appreciate her presence. She spoke to me and the words went straight to my heart, banishing the fears I fed on. I loved everything about her, even her niff; I was certain I would be unable to live without that female at my side. I considered myself fortunate when she would listen attentively to me rambling on about the brilliant future that would bring me undying fame for those mental projections unable to find the path to realisation. She nodded; she seemed to believe it. One evening, after she had tucked me into bed, she began as usual to regale me with her tales about the Exterminating Angel who was up to all sorts of tricks, frightening people to death. I listened to her, and seemed to comprehend the ecstatic embrace of a harmony that I didn’t feel when she left me alone during the day – which according to her was necessary, my vocation demanded it. That evening she interrupted the story right at the climax of the action, when the Exterminator, after having put to the sword the Mother Superior who had timidly attempted to oppose that blind fury, had donned the bloody garments of the nun and was preparing to sodomise all the cloistered nuns of the historic convent founded in the year one thousand by Kalda, lover of the tyrant-prince Boiamondo, of woeful ill-repute from Naples
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south, including Sicily, for his sundry bloody exploits. Holding me by the wrists as if to prevent me from escaping, and gazing at me with her piercing eyes that changed colour – the dull violet shifting to green every time she reproached me – which made my own eyes goggle with fear, she foretold my fate: Remember that you will create your masterpiece at the age of fifty-four. Up to then you must persist, don’t give up, because from the birth of that masterpiece onwards you will be the most revered of all. And then you will be fully entitled to give the lie to all those presumptuous would-be artists, a breed of imitators who have cockily authorised themselves to every conceivable type of petty fabrication. But now you must sleep, because it’s late. Tomorrow you have to get up early to go to school, although of course we shall play truant as I promised you, regardless of your parents who think you are safe with me. I will take you to the zoo to throw peanuts into the monkeys’ cages. What a lark! The rest of the story tomorrow. She bent over me to give her goodnight kiss, which smelt of garlic, tickling me with the bristles she had under her nose. These were a torment to her: she would cut them off, but they would immediately grow back more prickly than ever. To butter me up, she gave my willy a squeeze under the covers, which filled me with macho pride, and then she switched off the light and curled up as usual on her wings at the foot of the bed. After a minute, a thunderous, sulphurladen fart and a deep sigh heralded the magnificent fanfare of throat and nose she was capable of. I was so happy that it was natural for me to give in to the jumble of subjects whirling through my brain, and that I duly rejected because I just didn’t want to know: I was certainly pig-headed, or rather, fixated. The notion of the void and of marginality reigned supreme, and could be applied to everything that I came up against. As dusk fell, when I would gaze out the window at the wheeling crows gliding on immobile wings, cawing their throats off as they circled the big pine tree in the centre of the garden: even the birds were drawing scioperíi. I didn’t want to go to school. No sooner had I crossed the threshold – after having given a goodbye kiss to my faithful guardian who would take me there holding me by the hand – dazed by the yelling of my schoolmates, I would be gripped by the fearful terror of wetting myself. A couple of times, the worst thing of all had indeed happened, to the uncontrollable delight of the other pupils, who would hold their noses and go into contortions of laughter till they were fit to burst. One morning as my Governess, her cheeks even ruddier than usual, handed over my breakfast tray – I had blackmailed her into allowing me to eat it in bed by threatening that otherwise I wouldn’t get up – her face clouded over, she appeared to be struggling with thoughts that wouldn’t give her peace: there was something she didn’t want to tell me. It was not until evening that she managed to get it off her chest: I was thinking that it might perhaps be better for you, since you’re such a fearsome little thing, to entrust you to one of those angels who are always trying to imitate the Exterminator: there are lots of them all over town looking for a job. They seek to rival his powers of devastation and death – neither more nor less than Him – but they’re not as able. Some of them are pretty convincing, though, gifted with acute, extreme sensitivity and a rare intellectual finesse, not
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something you find on every street corner. I know one who’s really very good: I could entrust you to her, she’d introduce you to all pleasures and she’d wean you right. She would be perfect for you, with that negationist mania of yours. I’m certain that she really would appreciate your virtual drawings, those gems of energy, definitely more than me. It’s a world that can be illuminated only by a diseased mind, which generally makes a lot of light, like hers. You should see her antennae! ... she’s the right governess for you. I was painfully stunned by the proposal: I’d grown fond of that lassie with the wings. The next morning no breakfast in bed arrived: she’d disappeared. For days on end I waited for the would-be Exterminator, but she never turned up. Orphaned of love I turned rigid, and I was unable to experiment my power, something without precedent in a ritual wrenched from the human legend. Anguish invaded my brain and usurped it. I remained unguarded at length; I abandoned the liturgy that engaged me in developing my imagination on the wall. It was then that I began to transfer those signs to the edges of pieces of paper. The same hell, the same monotony, cannot be renewed ad infinitum. This is the reason why, thinking that my genius was not appreciated, over the years I had to frequently change the celestial creatures that adopted me to protect me. Following Bona, in order, were Grilla, Svanilde, Adonia, Giulia, Ingenuina and Pina. Pina was the only one with a pair of paltry little wings which obviously weren’t meant for flying, but she was particularly comely and joyful. She entertained me with myriad wonderful tales as she massaged me from head to toe. She even got me out of the house, dragging me along with her on long walks. She nourished me properly, and not a day went by that she didn’t lavish praise on me: according to her I was a genius. But despite my pleas, in bed she never gave herself, and not once did she show herself completely naked, always wearing those white knickers of heavy cotton that she never took off. On the last day, before she left, I peeked lecherously through the bathroom keyhole to catch a glimpse of her nude: well, that certainly knocked me for six – she was a transsexual! And then Furia, Marisa, Gonerilla – who had a golden clarion that she would practice on in the afternoon at the witching hour when, as I’ve already mentioned, I get very edgy. The sound of the instrument was wonderful and reminded me of Baroque musical triumphs; it was so splendidly evocative that I would break down in tears. Then there were Mandrilla, Ursona and many others. I would simply replace them, the way one does a housekeeper who diddles you when doing the shopping. From the very first there was always one of them at my side, but the idea that she had to protect me got on my nerves, and so often I would pick a fight, with art as the excuse. The clash would take the form of animated quarrels which almost always degenerated into fisticuffs. Inexorably, and without any apparent reason, I would rant and rave: the same piteous automatism of the polemicists who won’t leave off even when they’re in their coffins: I exasperated them so much that they would always leave me in the end. All the heavenly governesses that adopted me were strictly required to be attractive females. Over time, the reason triggering the arguments had taken on a philosophical slant: I would assert – defying contradiction – that making a failure of one’s life was a magnificent thing, and don’t let anyone think that it’s easy: it takes long experience and lengthy training to arrive at the rock-
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solid point of one’s own degradation. I aspired to become a decorous loser, a respectable reprobate inclined to mockery who would minimise his defeats to the point of glorying in them. I ardently desired to become the Job of art: my bones are pierced in me in the night: I wanted to be the descendent of the Great Leper, heir to his desolation and his rage. I thought that I would never put my hand to any work, elevating my incompetence to a system and creating eidetic traces around virgin media would lead me to live an era of non-art, far from the asthmatic climate of the masonic cipher of conventional work. By obstinately professing the theory of the off I would strengthen the awareness of my etheric body. The celestial governesses would listen to me patiently, in silence, and I would do everything in my power to be brazen, to irritate them with all manner of quirks to put them to the test, to see how long the poor wretches would submit to the torture. I would await their breakdown from one moment to the next: I wanted to destroy that relationship. While I waited I would prowl around the house like a caged lion spying the intolerance on the faces of my victims who resisted staunchly as I glowered at them. In the end I would get enraged because the longed-for break took so long to come. I devoted the same energy to that destruction as when I denied myself the reproduction of any subject whatsoever. I would sit there with the pen in my hand frozen by a sort of stupor and without courage, and then shortly afterwards give in to spasms that throttled my drawing fury: scribbles, delicacies for connoisseurs removed from the ways of the world. I would repeat to everyone I met the rigmarole of my flaunted theory about the impossibility of being an artist without the perversion of the vital instincts. I knew it by heart. Plus I had a trick up my sleeve that I would whip out on every occasion: all talent is accompanied by a degree of effrontery; the polite artist is the one who remains in the shadows with the secret he won’t brandish: showing off your feelings is a blow beneath the belt for irony, a slap in the face for humour. In the end they would lose it and start preaching at me like Furia that day when I succeeded in goading her to the point of losing her cool: If you were at least aware of the fact that you’ve been spawned by fetid mysteries, admit it! Watch out because sooner or later your illusions will lose their virulence, they’ll head off towards dismay with their tails between their legs. You need to make up your mind to give up the obscurity you’re so attached to. Get simple. Become someone else. You need to quit chasing after impropriety, avid for any sort of scourge, and bringing your relations with the universe down to the harmonious play of defeats. You’re a master in that. Cut out that legend of gambler roué, and then that species of pruritus scribendi always on the edges of whatever medium it is … it’s time to quit! Damn you and your revolutionary melancholy... it’s a load of shit! And then came the provocation: my face was still wearing the studied smile charged with suspicion that lingers and doesn’t know how to disappear. Then came the slap and we began to tussle. I always got the better of her, because my adversary was hampered in her movements by those outrageous wings, which she kept tripping over, and then I had the satisfaction of hearing some fierce invective issue from her mouth: I had forced her into the human condition. Over
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the next few days I got high on remorse. I confessed my mistakes to myself, but the confession was an attempt upon the energies of my being. From the vacuum of my days I was no longer able to draw a harmony – however disturbed by the rhythm imposed by the abstract prison of the clocks. I became a larva through metaphysical menopause, a wild-eyed puppet. Then it was Etta’s turn to adopt me. Naturally she too, like the others, accepted my conditions. She offered herself to me as and when I wanted. And I was happy because she never let up making a fuss of me. All these heavenly females, wings down to their feet, had been – were – captivating, figures branded by a distinct underlying eroticism, even Bona in her own way. They were all attractive, with the grace and bearing of gazelles, aware of that blessed tendency of mine to venerate women without understanding them, but their prandial gauge was that of Pantagruel. And so I began once more to reflect on beauty and the opposing feelings of attraction and dismay that it aroused in me. Etta was a life-loving creature with red hair and multi-coloured wings, a bit of a lazybones and incredibly short-sighted so that she had to wear glasses with bottle-thick lenses. She ordered me around ruthlessly and had wonderful control in erotic matters; she was a great comfort to me. In her arms, the foul play of destiny was kept at bay by that loveliness. She appeared to understand my desire to produce an art that spread discord, a sort of plague. Surely it was not a coincidence that the lower edge of her wings was mottled by a series of signs like little veins, like threads blown by the wind. Needless to say I identified in those signs precisely what I was constantly drawing on the edges of the paper, like one obsessed. I yielded myself totally to her embraces while, certain of delighting me, she would regale me with endless scabrous stories about her fellow angels. These tales of adventurous high jinks made me envious: my life was far too quiet, despite my efforts to enliven it through negation. The only problem was that Etta would abandon me for a couple of hours every morning, just when I was tormented by the desire for tender caressing and smooching so as to start the day with the right sort of contact with the world. She went running: someone had put it into her head that her derriere was too large: the very thing that made her delicious to my eyes. But she didn’t want to know. She put her heart and soul into wearing herself out with the idea of remodelling her backside. Headstrong, she would return home dripping with sweat, her wings all ruffled as if she’d been in a fight, with the feathers tousled and no longer revealing at the edge the decoration made up of little signs like scioperíi: vanished. This grieved me. Sweaty and dusty, she would immediately wash and perfume herself, without even asking me if I liked her that clean: she concealed the waft of her body, which for me was the essence of intimacy. I pretended not to notice; I’d learnt to do without that satisfaction. To console myself I stubbornly went on believing that one day, not too far off, she would come to appreciate my whims that blew the whistle on an art that promised without delivering. Obviously one lie always called for another bigger one; they all concurred in the motivated paralysis of my fantasy apropos the figurative. I had faith in my Satanism. I found peace only in declaring the rejection of centrality: soiling a
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canvas was out of the question. Etta would sit for hours at a time, reflecting with the thoughtful fixity of the short-sighted. Every time, she would try as hard as she could to understand but in the end she would give up: she realised that she was dealing with an organised pessimism dictated by the intense turmoil of a life veined with decomposition, even though the meaning of it eluded her. Of one thing she was certain: she was hobnobbing with someone who preached the virtues of indeterminacy, and that frightened her: she didn’t know how to take me. Every time, in addressing what she perceived to be auratic art, she prepared for the appreciation that I forced on her by withdrawing into a corner and rolling herself a huge joint of hash mixed with Devil’s snare in the hope that, by smoking this bomb, she might perhaps grasp at least one of the numerous forms of existence present within me. Over time, something irreparable put an end to our right to happiness. Our increasingly dismal conversations made us feel ancient, speaking only of a past by now far distant: evanescent, insubstantial forms, like those of the dreams of a troubled night that you can hardly remember. Soiling the sheets of paper with paroxysms was child’s play for me. Naturally it could have become a foible, which would have been terrible: there was the danger of giving in to your fate, no longer suffering it but being gratified. If the off-the-pages had become a system my certainties would have vanished, along with the sufferings which I would renew in order to revive their freshness: suffering wears away. Every sign was too much, and yet I had to trace it out. From the abysses of the disgust with art, that mania had become a punishment. I sought to forget my life branded by condemnation to the forced labour of art; all that was left was to sentence myself to the disillusion of a slothful frivolity. Mine was a story that was to disconcert History. As the years passed, by night I got into the habit of dealing with the subject night - the sheets were completely covered in Indian ink – and as I reposed in that essence, I expected my protectress to remain at my side without a word. I wanted her to penetrate the hell of that action with me, wanted her to be a witness of every crucial step of mine towards the unveiling of style, that is, when I denied it, knowing its artifices and its poison, the melodious and tragic bitterness of the recklessness that saves from vulgarity. I wanted her to understand that if I refrained from the immediacy of a scioperío I became a caricature of myself, I would have only indirect experiences, I would vanish into the banality of a conceivable form. My negation meant being the artist who is aware without knowing, trusts only in the capital of lies and is certain that real life is beyond any sign whatsoever of the real. What freedom, to enjoy the advantage of not being gifted in any technique! Everything offers itself to become mine. I pass from one subject to another, from one world to another, touching lightly on them without going deeper. There were times when nostalgia for the admirable hysteria of drafting, which spawned the paeans and frenzies of representation, captivated me despite myself. I didn’t know what to do. And then the person I envied most was he who sleeps peacefully amidst profiles, experiences them ingenuously without putting them on trial or assimilating them to other denizen forms of the everyday. Etta was familiar with my lapses. She scampered from
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one secret to the next, mastering them; she’d realised that I was a cynic who needed love and a vandal who trusts in beauty. I often forgot her divine origin, especially when she was fondling me between the sheets, when existing was an inclination I didn’t despair of making my own. LA MAGIA CHE ME CIAPPA E CHE ME MAZZA1 That day, scorning the delights of hibernation, I decided to make my peace with Dhuoda, the divine girl Friday who had adopted me several months earlier. She was a blonde with eyes of ice, one blue and one emerald green (but crosseyed), two breasts like goblets and a sashaying outsize booty which, concealed by the immense wings, failed to command due admiration. She wore red shoes with 6-inch heels, the spitting image of the streetwalker who works the pitch near the river under the monument to Hofmann: her purity is a legend. I was satisfied with myself. I had every reason in the world to feel like the pick of the crop. Sustained gloriously by idleness, I’d managed to dodge the public sector job, and every time I wanted I could loiter happily on the brink of my private abyss. I nevertheless realised the last whim I’d brought to birth reflected a gesture of disloyalty to my genius: I had foolishly committed myself to a species of ethics. But I was happy all the same. Mine was a world traversed by angels: all beautiful females who made me feel like a nabob, because they would cuddle me whenever I wanted. And then I inhabited that strange world where I was miraculously able to grasp flashes through breeches disguised as doodles. The Guardian, like the first one I’d had – that species of Cerberus with tits and moustache who adopted me when I was exercising the tyrannical fantasy along the edges of the wall – had been an archangel, and had been punished for having sex with a cherub in defiance of the sovereign law of the Pleroma. She’d been downgraded to a common guardian angel because she’d managed to catch a venereal disease off her lover into the bargain. That’s what Dhuoda told me one day, when she was in the mood for disclosures. We’d argued, and not for the first time, about my poisoned, epileptic style which – when it had nothing else to knock, would knock me myself, the last idol to be toppled – revealing itself by this stage in just a few sporadic signs on the margins of any medium whatsoever. I’d been irascible for days. I’d got into my head the notion of reproducing a subject from life, not the usual scrawls. But then I’d missed my great opportunity, pen in hand, to portray the celestial countenance of Dhuoda at the peak of orgasm – a rare occurrence, if truth be told – when, in a light dazzling as a thousand neon bulbs, hair on end like a porcupine, in a fragrant cloud of incense and with her eyes turned to heaven like a saint fit to be tied within a niche in a Baroque church, she burst forth: Ah, che magia che me ciappa e che me mazza! The other missed opportunity occurred one evening when I was looking out the window waiting for an unexpected visit from any one at all, just to have a chat, just to forget myself for a while. All of a sudden the sky went black with a vast cloud of crows which the celestial governess had already predicted that morning when she brought me breakfast 1. An Italian expression that can be literally translated as: “The magic that catches me and kills me.”
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in bed. Reflecting on the birds, I failed to sketch out the profile of the cloud that they had created in the sky. Shame. My irrational fears were irritating, Dhuoda couldn’t take any more: she said that I was a complete loser. So after having biffed her on the head, ruffled her up all over and even pulled some feathers out of her wings, I threw her brutally out the door. As usual I then regretted it, also because our relationship was punctuated by the exorbitant requests for money which she regularly shelled out to me. I phoned her to arrange to meet, and I realised from the tone of her voice that she’d forgiven me. I was late for the appointment in the park in front of the fountain of the Scuderie. This was where we would usually meet for the evening walk which would extend well into the night, when I would be assailed by grotesquely male urges which the siren would hasten to placate, acts of veneration in which there was indubitably a good dose of parody. Once she did it in front of an elderly couple who, happy as could be, grasped the opportunity to play peeping Tom from their hiding-place behind the hedge. I found Dhuoda sitting on a bench. Over the last few days she’d taken to wearing a purple cloak down to her ankles to cover the wings she was ashamed of: she was tired of people pointing at her in the street, thinking she was in Carnival gear. From a distance she looked like a dromedary, because beneath the cloak her decidedly robust wings took the shape of a monstrous hump. She was intent on obstinately and vainly demanding the meaning of the word scioperío from her minuscule computer the size of a watch. I would utter the word a thousand times a day as I was drawing and she was seated close by me: I wanted her to be a witness to the capitulation of every subject through that evidence that claimed to narrate the dissipation of the world. She was fond of me, but she nurtured resentment for an old affair that she found very hard to keep at bay. According to her, on the very day that she first put foot in my house I had pounced upon her lecherously, whereas it had seemed to me that she was more than willing. I loved her, but I didn’t want to show it: between one drawing and the next, seated close to me in silence – as I wished – I had decided to tell her everything about me. I diluted the confession so that it would never come to an end, like every drawing that dreams of the next so as to start again from scratch, like Sisyphus. I had got to a dangerous point of my criminal linguistic itinerary; hitting the wrong note, I was unable to retrace the elemental catastrophe of my childhood. By recounting something fundamental I wanted to target the bullseye of a culture branded by the blunder of the question of technique, a torture undergone to demonstrate skill in indifference to others. That evening she was sure to understand me: I was in a state of grace. I would find peace in the folds of her body and in the affection that she had never denied me. I would find the peace of mind I sought. Gently, she told me that: since the world is nothing but execrable ugliness, I would be like a Pope trafficking in the Thebaid with the exaltation appropriate to a great artist: sooner or later I would produce a work that would obscure my magnificent monotony. In there, with the twittering of the sparrows on the skylight and
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the squeaking of my neighbour’s washline pulley as she hung out the clothes, I ought to count myself lucky. I was convinced. But, reflecting on it, if I concentrate on the rarefied signals of that silence I feel bereft of affections, all on my own with those papers that not a soul has set eyes on, works in which Fate has lost the capital letter. All it took was a sideways glance for Dhuoda to understand that, despite the narrative inclination with which – sadly – I have been gifted, I didn’t know how to ripple the pitiless silence to convert it into the banal chatter of the world. On the other hand, at that time any phrase of mine – even the most innocuous – would have been like a firework display. She said to me: There’s a party at the Institute of Mythology. Let’s go. There’ll be maenads and satyrs, dwarves in the retinue of Bacchus doing tightrope walking, a couple of centaurs now degraded to walk-on parts, four humanoids just arrived fresh from Japan along with a robot that plays all the Scarlatti sonatas when placed before a piano, and then lots and lots of nymphs, slender as gazelles who will dance till dawn, will wear themselves out in the dance of the seven veils, will transform themselves into iridescent shadows and then vanish. But above all there will be Professor Tschurtschenthalerwald, a champion of his prodigious generation, an emeritus linguist, a scholar of the origin of Myths. He is famed for his treatise on the verbal demiurge and the heresy of the verse, an academic who has distinguished himself for his ferocious, almost mediaeval, passion for metaphysics. He will give a talk on Origin and negative hours of the scioperío. Given the novelty of the argument, he will have to exert himself as never before, the galaxy of neurons in his brain will sparkle. And so, finally, we will find out something about this word which, I suspect, you are using incorrectly: who knows why you relate it to that gnawing at your brain that for so long now has led you to perform the most lunatic stunts? It was he, the professor, who asserted that if parallel lines don’t meet it’s not because they cannot meet, but because they have better things to do, for example: to coil and mesh to create arabesques. He knows a thing or two, that one. He seems like a false nihilist, instead of which he’s an investigator of indecipherable signs, lucidly exploring every verbal trace. You should read his book Let the man who is crazier than me be my guide, the tale of the collapse. You’d enjoy it.
THE PROFESSOR WITH THE LONGEST NAME IN THE WORLD We climbed up the hill. The sky above the Villa, the premises of the Institute of Mythology, was darkened by an unbelievable number of immobile drones, looming like a cloud promising rain. At first sight I’d mistaken them for a scourge of starlings. Who knows the reason for that threatening aggregation: perhaps the police were afraid of an attack; recently bombs had been placed everywhere. The architecture of the Villa had an eclectic, Umbertine flavour and was considerably dilapidated. A century earlier the owner – a Russian nobleman who had escaped the revolution – had transformed it into a species of gallery, crammed full of drawings from every period that he had managed to salvage
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during his escape; they were always flying all over the place, since some of the windows had no glass. The rooms were full of objects and sculptures in dismal disorder, swept by the continual gusts of wind. The custodian had his work cut out for him; patiently gathering up all the sheets of paper and putting them back where they belonged was an endless task. Through the thicket of reeds that separated the road from the gardens of the Institute of Mythology, I glimpsed a flashing of half-dressed figures, a commotion of pale flesh dancing with ominous, jerky movements in the half-light around crackling fires. It looked like a culture of germs which had undergone some chemical attack and transmuted into detritus, levitating to assume human semblances. In an exhausted and enervating modulation, the sound of flutes and the palpitations of sistrums wafted on a wind fragrant with burnt laurel. The garden was populated with excited mythological figures, as if they were about to achieve the trophy for a fabulous hunt in virgin territory, in the borderland between eroticism and humour. A Bacchic feast: with the strength drawn from nostalgia these creatures were aspiring to create the Eden they descended from. Beneath a strawberry tree a mother-of-pearl siren was entwined with a naked youth, a scene identical to that shown in the painting hanging in the entrance hall of the Villa. The gate was locked and barred, perhaps the lecture had already begun, and so we clambered over a hedge of most fragrant laurel and sneaked into the cane thicket. From there we emerged into a clearing filled with olives. I saw the white body of a panting nymph flash past with a satyr with a goatee like a comma in hot pursuit, grinning and leaping merrily, his member mimicking the beard. In the chase he projected beyond himself the darkness of the myth that dwelt in him, transfusing it into the sublime hunting of an erotic presence. The milky curves of the maiden anticipated a sensation of liquid evasion, a slithering opening onto pleasure like a window onto the intimacy of a courtyard with knickers and socks hung out to dry. We wondered when and where the eagerly-awaited talk could take place. The door of the Villa was closed. Given the circumstances, Professor Tschurtschenthalerwald, a mute and transcendent authority, had prudently locked himself into a room on the first floor, from where he gawped scandalised between the closed shutters at the unexpected and unauthorised Babylon. From his station he seemed like a earthly reporter on heaven and hell. Nepenthe was doing the rounds, served in golden goblets by naked maidens and youths with fragrantly-oiled bodies and bistered eyes like deer. Beneath a cypress tree was a young satyr in tears, rigid, paralysed by a painful Priapic erection: an apocalyptic sacred prophetism. We were irresistibly attracted by his cries, the pride of his groans, a contagious incendiary dementia. He is madly and stubbornly in love with Professor Tschurtschenthalerwald, who considers this goat-man being an awkward presence, like an obscene image challenging the thought of beauty; he knows that accepting him would mean redeeming various uncertainties relating to homophilia or even homosexuality which he would never have admitted. Now the suffering of the satyr appeared to have become prophetic wisdom, he shook himself out of his torpor and turned to us, chanting:
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Start with laughter and that’s what you’ll end with. Then you will become pain that sees the future even when the discordant fanfare is out of sight and you can hear only panting. Listen to it; it will restore you to the disharmony of the world. Trust in the foresight but avoid violent gestures, for fear of flinging away an arm or a leg. You will remain in the boundless pride of those who cannot touch the earth. Then he started weeping again. There was no more talk of the lecture at this stage. The professor was barricaded in a room, terrorised by this extravaganza, this orgy of anthropomorphism. In that throng, a blend of different aspects of laxity, the Gods couldn’t wait to take back what was theirs. For nothing in the world would the professor come out into the open, be dragged bodily into the dance – because that was what would happen. The thought horrified him, it would be impossible to resist the lunatics who would embarrass him regardless of the bookkeeping of vices and virtues that the scholar suggests. Overwhelmed by a superabundance of life, it didn’t even enter their heads to want to find out everything there is to know about a word, which the lecture was going to address. They were tackling what was most important to them: their temptations. Between drinks, in confidence, the Angel and I enunciated all the passages of a meditation on the missed opportunity of finding out more about the damned word. Our conversation gradually became increasingly befuddled, so that we lost sight of where we started from as if we’d been divorced from our reason. It was dawn by then: we’d stayed there, waiting for the professor to make up his mind to hold the eagerly-awaited talk. But he was still holed up inside: he gazed down at the debacle in the garden with eyes of fear. All of a sudden he looked our way; he knew that we were there for him, for his lecture. Then he appeared at the window for just a split second – as if by lingering too long he might be wounded by some rogue splinter from that frenzy – and hurriedly gestured at us with his hand that we were to leave; he shrugged his shoulders: no lecture, like it or lump it. The sounds of the feast died down in our heads, and underneath the cypress tree, in the company of the inconsolable satyr who, blind drunk, had been fast asleep for hours, we too fell into the arms of Morpheus: yes Morpheus indeed, allowing us to tarry a little longer in that Arcadian atmosphere. Many years ago, when I would put myself to the test in the centre of that room, I was inclined to bewilderment. I was frequenting a rationale that would yield itself only in the form of small scribbles; I wished to be drawn by the descriptive fury of the rebus. Those traces were a far cry from any emancipation; they would never have arrived at representing anything, except perhaps the resignation of bearing the stigmata of the error of wishing to represent. Tebaide del Porcellana, March 2015
Renato Ranaldi
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RANALDI’S SCIOPERÍI
Until proven otherwise, it seems fair to say that no artist had ever dreamt of deriving a language from the idle and carefree doodles dubbed as scioperíi. These little marginal sketches were made by those engaged in the execution of frescoes purely as a diversion, at the end of the ‘giornata’ or in pauses during the work. They were given not the slightest importance by the artists themselves, and it was inconceivable that they would be taken into consideration by anyone else. Nevertheless, precisely this casual coming into being of the scioperíi – the swift delineation of something visualised in the course of a thought or of a conversation by now inevitably swallowed by oblivion – was what captivated first the curiosity and then the passion of Renato Ranaldi, finally resulting in the actual production of a substantial series of works. No other artist had ever set himself to resuscitating this propensity, attempting to retrieve not so much its practically non-existent functional limbo, but rather its marginal value and indeed the very non-value implied by the various artists who had conceived and sketched the scioperíi in such very different circumstances. But then this phenomenon could not fail to attract Ranaldi. From the very moment that he found out about it, he immediately intuited the enigmatic link between these pauses from the real work of other artists, often unknown, and his own work, and above all with the more recent years of his artistic creation. I am referring to the series of paintings entitled Off-the-Painting, and the drawings that followed them called Off and Off-the-Page. The fact is that for a good time now Ranaldi has methodically and lucidly distanced himself from any form of centrality that presents itself as such, and has even more categorically shunned that centrality considered essential in the so-called ‘trendy’ ambits of art. And he has done so to such a degree that the central area of a sheet of drawing paper or of a canvas, with its coefficient of conformity of use, incites him to suspicious intolerance. Deviance, marginality, the reversal of meaning and similar inclinations to subvert the status quo that enshrines the orthodox liturgy of art with its rituals, its consolidated traditions and its conventions, urge him to practice a constant abstention. This intolerant resistance to the common sentiment goes as far as the explicit rebuttal and selfabstracted negation of all forms of consensus. Instinctively fleeing from the sites of shared behaviour he is driven to the coastal perlustration of the edges, to the frequentation of the ridges, where it is possible to note the regal presence of a balance besieged and threatened by exaggerated forms of instability that he himself has triggered. “I know of no gesture that has the majesty of that which comes from the realms of chance,” as Ranaldi himself writes here, with all the verve of the outlaws and the rebels, the deserters and the saboteurs of that great spectacle where art is now being done to death!
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The truth is that Ranaldi, born artist and turned painter, sculptor, engraver, musician and film-maker, can no longer settle for the images, the brushstrokes, the shapes, the materials, the fusions, the drawings, the modes of transformation, the arrangements and the thousands of other tricks and ploys that visual art allows to be performed in its name. It is as if he had probed to the very depths the significant and cognitive processes of all these demented theatricals, the amazement and the wonder, the passions and delusions, the risks and satisfactions, the success and the failure. Or rather, more the failure than the success, since he actually kept a closer eye on the failure, tending to give it greater consideration on account of its terrible fascination and overlooking its dreadful condition. So well did he do it that he almost succeeded in prefiguring to himself all the canonical and classical situations of its complete implementation. And everything seems to point to the fact that he has indeed succeeded in the endeavour of his own failure. Ranaldi’s original and unwonted challenge to failure, something which most artists tend to forcefully eliminate from their ideal horizon, would certainly have sent Cervantes in his epic vein into raptures. And we might even be able to track the trajectories, the routes, the choices made and the decisive episodes in this quest for failure, were there not as may proofs of the contrary. Indeed, as opposed to a failed artist, he became instead an authentic outsider, displaying a protean performance that made him unable to place. Moreover, he also succeeded in supplementing his already proclaimed artistic talents with a decisive ulterior virtue – that of the pen – a gift which he has been exercising for some years now with felicitous assiduity. It is as if gradually over time, work after work, drawing after drawing, Ranaldi subjected to a close monitoring of essentiality and authenticity the firmament of the imagination, the epiphanies, the signal and plastic delirium. This drove him to banish every visual trope, every plastic metaphor, every graphic obsession and every possibility of representation. The canvas or the sheet of drawing paper, once pervaded by myriad phantasms, was progressively deserted, leaving only on the margins, on the edges or even beyond them, the traces of an imaginative thought which now, with increasing frequency, opts for the precipice of verbal linearity to express and manifest itself, erupting onto the page in place of the image. And Ranaldi reserves for it an extreme fringe that is still possible, the limit beyond which one falls into the void with no return and no acknowledgement. At this precise moment, therefore, it would seem that Ranaldi’s position is as follows: the ink of the multitalented artist flows into line after line of writing, squeezing the much-loved drawing into a tight corner. He appears to favour this new extremist frequency which seems like a gesture of pause from the visual and plastic work as it is normally understood. In short, it would appear that the artist is on sciopero, on strike, and his residual acts, although indubitably produced, are dubbed by him scioperíi. Not because he has decided to abandon art for ever, but simply for love of that word, a single new word – scioperíi – which I believe has given him the arcane pleasure of an unusual sound and sense: a different source furnishing the cue for the umpteenth different tale. Gioiello, December 2015
Bruno Corà
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Finito di stampare nel luglio duemilasedici dalla tipografia Bandecchi & Vivaldi di Pontedera per i tipi de Gli Ori, Pistoia in collaborazione con la Galleria Il Ponte, Firenze