Scheggi, Paolo.

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SCHEGGI FIRENZE

6 ottobre 2007 – 19 gennaio 2008

GALLERIA IL PONTE GALLERIA TORNABUONI

GALLERIA – EDITORIA – STAMPERIA D’ARTE

50121 Firenze – via di Mezzo 42/b – tel/fax ++39 055 240617 sito web: www.galleriailponte.com – e-mail: info@galleriailponte.com orario 16.00 – 19.30 chiuso lunedì e festivi – catalogo in galleria


36 LE MOSTRE


PAOLO SCHEGGI ferri tele carte

a cura di

BRUNO CORÀ

EDIZIONI “IL PONTE” FIRENZE

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SCHEGGI ferri - tele - carte 1957–1971 a cura di

Bruno Corà FIRENZE 6 ottobre 2007 – 19 gennaio 2008

SOMMARIO

GALLERIA IL PONTE GALLERIA TORNABUONI ideazione

Elisabetta Scheggi

pag. 11

Bruno Corà Paolo Scheggi: lo spazio davanti al buio

pag. 19

Lara-Vinca Masini Paolo Scheggi

pag. 23

Paola Bortolotti Paolo Scheggi. Dal quadro-oggetto all’ambiente vivibile

pag. 27

Elisabetta Scheggi Mio fratello

pag. 33

Ferri Tele

pag. 79

Carte

pag. 127

Progettazione totale, azione interdisciplinare

pag. 155

Nota biografica

pag. 157

Traduzione inglese dei testi Karen Whittle

produzione e coordinamento

Andrea Alibrandi, Fabio Fornaciai ufficio stampa

Susanna Fabiani

Si ringraziano in particolar modo Franca e Cosima Scheggi, la Galleria Niccoli di Parma nella persona di Marco Niccoli e tutti coloro che si sono resi disponibili ad affrontare assieme a noi quest’avventura: Adriano Badi, Fabio Betti, Alfio Puglisi Cosentino, Elisabetta Scheggi, Lorenzo Scheggi, Mauro Steffanini

Copertina: Intersuperficie curva bianca, 1967 ca., PVC, cm 89,5×297,5×5 Controfrontespizio: Paolo Scheggi in occasione della manifestazione “Amore mio”, Montepulciano, 1970 catalogo

Andrea Alibrandi coordinamento editoriale

Federica Del Re

referenze fotografiche

Ada Ardessi, Milano; Foto Bertoni, Firenze; Cameraphoto, Venezia; Guido Cegani, Milano; Giorgio A. Colombo, Milano; Marcello Galassi, Roma; Torquato Perissi, Firenze; Ugo Mulas, Milano; Vittorio Verri, Milano (ci scusiamo se, per cause indipendenti dalla nostra volontà, sono state omesse alcune referenze fotografiche). traduzione in inglese

Karen Whittle

impaginazione computerizzata

Punto Pagina, Livorno selezioni cromatiche

Seleservice, Comeana stampa

Tipografia Bandecchi & Vivaldi, Pontedera

© 2007 EDIZIONI IL PONTE FIRENZE

50121 Firenze - Via di Mezzo, 42/b tel/fax +39 055240617 website: www.galleriailponte.com e-mail: info@galleriailponte.com

Mostra e catalogo sono stati realizzati grazie al contributo scientifico dell’Archivio Paolo Scheggi, Parma


PAOLO SCHEGGI: LO SPAZIO DAVANTI AL BUIO Bruno Corà

Il crescendo di mostre, studi e della stessa fortuna critica da cui l’opera di Paolo Scheggi torna a essere investita in questi ultimi tempi, dopo alcuni anni di silenzio, evidenzia soprattutto quello che ad alcuni era già evidente trentacinque anni fa, al momento della sua improvvisa scomparsa: Scheggi è un protagonista indiscusso del rinnovamento linguistico dell’arte italiana ed europea scaturita dagli anni Sessanta in poi. Se ciò appare sempre più chiaro a molti, alla mia giovanile attenzione lo fu subito, per la sensibile trasmissione auratica percepita attorno alla sua persona e al suo lavoro, entrambi ‘pieni di grazia’, come avrebbe detto l’angelo annunciatore. Incontrato nella cerchia di artisti che si riunirono tra Milano e Roma – tra cui Castellani, Agnetti, Alviani, Colombo, Kounellis, Marotta – per dar vita a quella mostra, “Vitalità del negativo” (1970), promossa dagli Incontri Internazionali d’Arte di Roma, con la quale cronologicamente prendeva avvio pubblico la mia stessa attività, Scheggi si distingueva tra loro per esserne il più giovane (se si esclude Zorio e i suoi coetanei Boetti, Paolini e Mochetti) e – in un certo senso – il promettente enfant prodige di quella generazione che era cresciuta accanto a Fontana, con l’obiettivo di azzerare tra il ’59 e il ’60 ogni esperienza ancora indugiante nelle secche dell’informale variamente connotato in Europa pur con pronunciamenti assai diversi. Scheggi riscuoteva non solo la simpatia e l’ammirazione dei suoi compagni di strada, ma anche la loro complicità nelle avventure artistiche. Negli stessi giorni in cui forniva alla mostra romana “Vitalità”, allestita presso le sale del Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale opere come Intersuperficie curva bianca (1963), il laminato plastico nero con caratteri in bronzo Della geometria (1970) e altre

opere del ’62, del ’68 e del ’70 (tra cui la piramide Della Metafisica (1970), Scheggi esponeva a Roma nella galleria Mana Art Market di Nancy Marotta, in via del Fiume, quel Trono (1970) concepito e realizzato insieme con Vincenzo Agnetti, sodale di turno in quell’occasione. Ma prima di quella memorabile associazione tra artisti, altre Scheggi ne aveva già suscitate, coniugando il suo lavoro con quello di autori di teatro come Giuliano Scabia, con musicisti come Franca Sacchi, con artisti come Getulio Alviani, con registi come Raffaele Maiello e critici come Franco Quadri. Sempre cercando e trovando una plusvalenza alla concezione delle sue opere pittorico-plastiche che, si comprende come il buon giorno si vede dal mattino, avrebbero avuto uno sviluppo tanto imprevedibile quanto sicuramente proiettato negli ambiti dell’architettura, del design, del teatro, dell’environment e, chissà, di quell’arte digitale di cui la sua opera anticipa e annuncia le valenze matematiche, geometriche, verbovisive e, in senso più ampio, multimediali insite nella sua tensione alla ‘progettazione totale’ dello spazio.

La contraddizione dialettica tra spazio e oggetto È in stretta relazione a quell’obiettivo di concezione integrale dello spazio che, in una pagina dei suoi appunti teorici del 1964 stesi in occasione dell’incarico ricevuto dal Collegio Regionale Lombardo degli Architetti per la creazione di una commissione che compisse ricerche sulla “progettazione totale” si legge: Il concetto (…) di “progettazione totale” trae le sue origini spirituali ma non metodologiche, in quella serie di trasformazioni che l’architettura ha subìto a cominciare dal primo decennio del secolo. Da de Stijl al Bauhaus, dal gruppo lombardo del ’35 alla progettazione integrata, si sono avute infatti una serie ininterrotta di pro-

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poste che hanno avuto per denominatore comune il lavoro in ‘team’ di più e differenti discipline. Un lavoro coordinato in cui fossero stabiliti a priori i termini e i criteri del progettare.

Se queste sono le premesse a un’azione sviluppata da Scheggi che, a partire dal quell’incarico in collaborazione con gli architetti Mendini e Olivieri si protrarrà per qualche anno, non è superfluo chiedersi per quale via egli fosse pervenuto, nel breve giro di pochissimi anni dal suo esordio, a una così avanzata frontiera di interconnessione con le discipline volte all’indagine complessa della spazialità. Il dato sorprendente è che – quasi in contemporaneità con le precoci esperienze spazialiste della nuova avanguardia italiana degli anni Sessanta e in particolare con il lavoro avviato da Francesco Lo Savio con Spazio-Luce e, in modi diversi, da Enrico Castellani con Azimuth e, ancora più diversi, da Dadamaino – quella di Scheggi si pone come ulteriore indagine strutturale sullo spazio-luce a livello non inferiore di quelle nominate. L’insieme di queste altissime proposizioni, unite ad altre non diversamente orientate, ancorché rivolte più all’aspetto di una primarietà e strutturazione di carattere ‘costruttivista’ (ad esempio Uncini), meriterebbe una autonoma riflessione sui possibili confronti da compiere, sia sul piano della formulazione plastica che su quello teorico, con l’esperienza minimalista americana. Non certo di qualità meno intensa, e comunque sicuramente non meno interessante di quanto non avessero intuito gli statunitensi Donald Judd, Sol LeWitt, Carl Andre, Dan Flavin e Robert Morris, o da Lo Savio, Castellani e Uncini, Scheggi anticipa e definisce molti dei dati basilari del concettualismo minimalista. Pur non essendo questa la circostanza per un’approfondita verifica del problema che, tuttavia, si potrà sempre affrontare, sarà bene tenerne conto in ogni futura considerazione sull’incidenza contestuale ad ampio raggio del lavoro di Scheggi piuttosto che di Lo Savio o di altri. Ma, da dove aveva preso avvio quell’attitudine di Scheggi alla ‘progettazione totale’? Se si resta ai dati incontrovertibili delle sue opere

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e si compiono alcuni passi indietro rispetto ai primi acrilici su tele sovrapposte Per una situazione (1961) alle prime Intersuperfici del ’62, si deve prendere atto che l’individuazione delle proprie coordinate di orientamento operativo si consuma in un breve giro di anni che va dal 1958 al 1961, durante i quali egli esperisce e liquida dal proprio orizzonte la pittura informale, il rilievo protoplastico a base di lamiere sovrapposte, l’assemblage e l’insieme delle tecniche miste, giungendo al ciclo Per una situazione (1961) a base di acrilici su tele sovrapposte di cui la lamiera Per una situazione (1960) rappresenta un’eloquente antifona. Di quei tre o quattro anni si conoscono un numero del tutto relativo di lavori, alcuni dei quali sono presenti in questo episodio espositivo di ‘ritorno’ nella sua città natale e, inoltre, sporadiche testimonianze come quella di Fernanda Pivano, che traccia un profilo più letterario che critico dell’artista, prezioso tuttavia per partecipare di quello stato febbrile, solitario e faticoso del giovane Scheggi tra il ’59 e il ’60. L’evocazione della Pivano di «quadri grandi, un tantino alla Pollock» e di «esempi new Dada» da lei osservati nella visita al primo studio giovanile di Scheggi, nella casa paterna a Settignano in collina sopra Firenze, consente di identificare con tele come Opera numero 2 (1959) e assemblages di lamiere come Situazione esistenza (1960) quanto da lei osservato in quella circostanza. Per via di quegli esemplari di pittura a olio, in cui i grumi materici di colore e il dripping moderato, misto a una gestualità di segno e di tâche informale, richiamano certamente la pittura d’azione pollockiana e inoltre di quelle lamiere, dove appare più evidente la lezione compositiva dei Sacchi e dei Ferri di Burri, piuttosto che il ‘combine’ del suo emulo Rauschenberg, si comprende come fosse mirato e tutt’altro che ingenuo il tirocinio di Scheggi, già in possesso di perizia impaginativa e capacità strutturale, e proteso alla viva ricerca di una propria cifra linguistica distintiva. Scarto risolutivo che, a mio parere, si delineerà all’orizzonte del ’60 proprio con quella giustapposizione elementare ma equilibrata di lamiere intagliate a curve

e tonde vacuità che definiscono l’opera Per una situazione (1960), grado zero del suo futuro lessico. Da quella matrice di nuda e laminare plasticità alla più ‘calda’ versione pittorico-plastica dell’acrilico su tele sovrapposte di Per una situazione (1961) il passo è breve e perfino colmo di analogie formali. Ma stavolta Scheggi è giunto, con una prodigiosa rapidità, al prototipo di ogni futura morfologia già scandita con spazialità da quote di superficie interconnesse e da zone di luminosità riflessa. Il sistema di tele sovrapposte Per una situazione (1961), a mio giudizio, affrontava e risolveva – dopo i Filtri di Lo Savio e a un grado diverso da quello di ‘assorbimento cromaticoenergetico’ –, la contraddizione che Argan definirà “dialettica tra spazio e oggetto”. La messa a punto di un organismo protoplastico, come quello pressoché monocromo immette de facto il lavoro di Scheggi nell’ambito di quelle tendenze ‘oggettuali’ rivolte a conferire all’elaborato, sia i caratteri di un dipinto sia, quelli di una morfologia a rilievo che rivendica una spazialità più ampia e complessa di ‘cosa’ estetica. Si osservi che, se con le ‘lamiere’ Scheggi si è già posto in condizioni di munire l’opera di una sua plasticità non rappresentativa, dal monocromo Per una situazione in poi, non ci sarà più traccia di cornice in tutte le sue “intersuperfici” e nelle sue “zone riflesse”, proprio a voler sottolineare il loro ingresso nella dimensione dell’oggettualità. L’adesione alla fenomenologia di Merleau Ponty e Sartre, unita all’“impegno ideologico in una condizione di cultura”, suscitano in Scheggi quel mutamento di rotta che spinge la sua azione alla qualificazione civile dell’opera, così come era già avvenuto per Lo Savio all’atto di realizzare i Filtri e i Metalli (1960). L’artista romano aveva infatti scritto: I filtri, un’azione addizionale di varie superfici semitrasparenti, iniziano un reale contatto con lo spazio ambientale, ma solo nei metalli l’azione si esplica con un possibile riscontro specifico del fatto tridimensionale,

realizzando allo stesso tempo una partecipazione sociale chiara con oggetti che rimangono in un limbo dell’utile ma di cui la qualità nella loro dignità civile è inequivocabile1.

La tensione ideologica e poetica posta da Scheggi nel lavoro che si viene definendo in quel frangente, traspare con evidenza sia nel suo scritto di autopresentazione alla mostra personale “Intersuperfici curve a zone riflesse” presso la Galleria il Cancello di Bologna (1962) sia nella lettera scritta di pugno da Lucio Fontana per l’occasione; in essa il maestro italo-argentino, rivolge a Scheggi, insieme alla stima e all’incoraggiamento, talune considerazioni che divengono vere esortazioni: … le arti non sono che una delle manifestazioni dell’intelligenza, la ragione di essere “uomo”. Non vi può essere evoluzione sociale, senza un’evoluzione totale dell’uomo (…) ricordati di essere umile, molto umile, nel tempo, siamo “nulla”2.

La ricerca di Scheggi, nello sviluppo delle proprie intuizioni e realizzazioni, trova ascolto oltre che tra gli artisti a lui più vicini, tra cui si distinguono Alviani, Castellani e Bonalumi, anche in poeti come Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, o in musicisti come Franca Sacchi, Sylvano Bussotti, Giuseppe Chiari e Vittorio Gelmetti. La partecipazione a mostre sulla pittura monocroma (nella fiorentina galleria Il fiore), insieme a Fontana, Yves Klein, Piero Manzoni, Giulio Turcato e ad altri significativi appuntamenti in Italia e in Belgio, impongono all’attenzione generale il suo lavoro. In tale contesto si deve a Carlo Belloli la prima lettura aderente, quanto meno in senso lessicale, alla fenomenologia e ai principi messi in opera da Scheggi nelle sue intersuperfici; Belloli, che ordinerà la partecipazione di Scheggi alla mostra “44 protagonisti della visualità strutturata” (1964) presso la Galleria Lorenzelli di Milano e, successivamente, al XXI Salon de réalitées nouvelles, Section constructiviste per il Musée d’Art Moderne di Parigi (1966), è anche il prefatore della mostra di Scheggi alla galleria Il Deposito di Genova, per la quale scrive:

Francesco Lo Savio, Spazio-Luce: evoluzione di un’idea, De Luca Editore, Roma 1962, vol. I, p. 9. Lucio Fontana, Lettera a Scheggi, presentazione per la mostra di Paolo Scheggi presso la galleria Il Cancello, Bologna, 1962, ripubblicata in Paolo Scheggi, catalogo della mostra presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna, ottobre-novembre 1976, p. 13. 1 2

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Il concetto di intersuperficie viene a situare l’opera di Scheggi in una particolare condizione morfologica fra il rilievo, il piano traforato e l’oggetto europlastico. Scheggi sceglie forme curve o derivate da rotazioni di spirali logaritmiche, e ne ritaglia, su superfici di tela, i contorni delle zone corrispondenti alla loro determinazione spaziale. Sono tre o più piani che Sheggi sovrappone e fissa in un unico oggetto (…) Ne nasce una profondità visiva complessa e insolita dove luce e ombra si affrontano in dialettica posizione di protagonisti della vita interna di queste superfici congiunte in un unico corpo strutturale3.

Belloli, nella suo conciso ma puntuale esame, non tralascia di descrivere ogni aspetto fenomenologico derivante dalle elaborazioni compiute da Scheggi nella ‘costruzione’ delle intersuperfici. Denota il percorso eventuale della luce a partire dalle curve ricavate dai tagli sagomanti le tele, i riflessi delle ombre a diversi gradi entro le cavità, l’esaltazione delle forme in relazione alle ombre e la determinazione dei ‘campi’ spaziali: Scheggi cerca una forza interna che animi la sua sovrapposizione di piani di uno stesso colore e la raggiunge (…) Fra le superfici di Scheggi si anima una condizione plastica di indubbia trascendenza, già libera da riferimenti estranei a quel rigore spirituale cui aspira4.

Se a Belloli si deve, tra i primi, il predicato di ‘visualità strutturata’, che pur si addice all’azione di Scheggi, la mostra personale presso la Galleria di Genova – Boccadasse ha il pregio di mostrare consolidati gli esiti sino ad allora raggiunti e in grado di delineare sia le differenti versioni monocromatiche delle Intersuperfici curve, sia alcuni progetti di “compositori spaziali”. A ridosso di quell’evento espositivo, l’anno successivo, in concomitanza con la mostra al Centro Arte Viva di Trieste, Scheggi annota le “10 proposte sul cerchio”, dove si legge:

Gli oggetti sono quadrati e derivati da operazioni sul quadrato. Lo spazio è suddiviso mediante rotazioni di spirali logaritmiche, parabole logaritmiche, rapporti modulari e continui. Le forme inscritte hanno strutture elementari5.

Gli appunti di Scheggi rivelano che la sua ricerca, sistematicamente sperimentale, «trae le sue origini spirituali ma non metodologiche nell’elementarismo e nel concretismo» e inoltre che, ben lungi dal voler costituire motivo di rottura con quelli, ne intende semmai proseguire le esperienze al fine di ottenere “strutture tese ad ampliare la percezione”. L’affermazione dichiarata degli effetti di carattere fenomenologico e ottico-fisico a favore della valenza gestaltica delle proprie esperienze colloca l’opera di Scheggi lungo un asse estetico-sperimentale in cui i metodi operativi, più che ricercare attribuzioni di artisticità, sono espletati con la finalità di pervenire «a una maggiore dialettica conoscitiva» (Scheggi). Di tale volontà, dopo che l’itinerario di Scheggi si infittisce di incursioni in molteplici ambiti che toccano tra l’altro le esperienze di musica elettronica e concreta e le integrazioni con l’architettura6, si accorgono Umbro Apollonio e Germano Celant, che nella presentazione della mostra alla Galleria del Cavallino di Venezia non mancano di sottolineare il singolare comportamento dell’artista. E mentre Apollonio – in verità, dopo alcune considerazioni di carattere situazionale – si limita a ribadire i termini del discorso formulato da Scheggi a base di Modulo e Struttura, parabola logaritmica e sua sovrapposizione a distanza calcolata, superficie pura con aperture di fronte ad altra del medesimo candore ed egualmente forata…,

Carlo Belloli, Paolo Scheggi, catalogo della mostra presso la Galleria Il Deposito, Genova, dal 26 maggio 1964. 4 Ibid. 5 Paolo Scheggi, “Proposte sul cerchio” (appunti), pubblicati in Paolo Scheggi catalogo mostra presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna, cit., p. 16. 6 Tra la primavera del ’64 e tutto il 1965, Scheggi partecipa a numerose iniziative, tra cui: a Firenze, alla mostra “Musica Elettronica e Concreta + Arte Visuale”, ordinata da Umbro Apollonio, Pietro Grossi e Lara-Vinca Masini; a Bruxelles alla galleria Smith, a Milano alla prima esperienza di integrazione plastica all’architettura nell’atelier di Germana Marucelli e poi alle mostre “Null = zero” ad Amsterdam, “Nouvelle Tendance 3” a Zagabria, “Art Rental” al MoMA di New York e al “Perpetuum Mobile” all’Obelisco di Roma. 3

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Celant invece sottolinea subito il preciso rifiuto dell’atto estetico come finalità espressiva – di Scheggi e inoltre evidenzia come l’artista tenda – a sollecitare una presa di coscienza del divenire dell’immagine, del suo svolgersi temporale e in maniera che la fruizione avvenga senza salti iconologici (…) per esplicazioni semplici ed elementari7.

Intanto, l’integrazione della sua opera all’architettura, passaggio chiave dell’esperienza di Scheggi, si era avviata con la progettazione degli ambienti della sartoria Marucelli a Milano, dove aveva altresì progettato per la XIII Triennale un “Compositore euro-cromo spaziale” nella Sala del cinema sperimentale ordinata da Bruno Munari. In queste esperienze e nelle ricerche sulla “progettazione totale” Scheggi affronta il problema della «contraddizione dialettica tra spazio e oggetto, la definizione per assurdo (la sola pensabile) del vuoto» (Argan)8. Negli anni tra il 1963 e il 1964 non è infrequente nell’opera di Scheggi il ricorso al collage di forme curve di tele sovrapposte a tele, una sorta di soprimmissione di superfici a quote positive anziché negative, con effetti di zone riflesse in aggetto nello spazio piuttosto che in depressione. Alla XXXIII Biennale di Venezia (1966), in cui viene invitato in una sala con Bonalumi, Scheggi espone anche talune versioni di Intersuperficie curva bianca (1966), di Intersuperficie curva dall’azzurro e di Intersuperficie curva dal rosso, tutte rigorosamente di forma quadrata e delle stesse misure. A pieno titolo il suo lavoro è affiancato a quello di Fontana, Bonalumi e Castellani nella riflessione che Gillo Dorfles dedica alla “Pittura-oggetto a Milano”, nella mostra presso la romana galleria Arco d’Alibert (1966): (…) i nostri (…) conservano tutti un acuto rispetto per la personalizzazione esecutiva, ma prediligono l’indirizzo

(…) della «pittura oggettuale»: del “quadroggetto”, del dipinto che costituisce un elemento integratore dello spazio abitabile, che può valere quindi quale modulatore d’una situazione dimensionale o anche semplicemente quale squisito elemento plastico-cromatico scaturito dall’incontro di forme e colori, suscitato sempre, tuttavia, da un’attenta e preordinata progettazione strutturale9.

L’azione di Scheggi è ormai più sicura e svincolata dalla semplice confezione delle opere quando inizia la sua collaborazione con lo studio Nizzoli Associati per la creazione progettuale di “Unità di abitazione C.E.C.A.” e soprattutto per l’“Ampliamento urbanistico di Bratislava”, incoraggiandolo alla concezione di un’intercamera plastica (gennaio 1967) che appare come lo sviluppo naturale del Contenitore spaziale rosso (1964) realizzato per la Sartoria Marucelli a Milano insieme ad altri interventi nell’architettura di quell’atelier. L’Intercamera plastica – scrive Scheggi – è un discorso che si riallaccia nel tempo ad alcune mie ricerche sulle interferenze volumetriche, parallelamente alle prime «intersuperfici curve» (…) Più tardi, quando le intersuperfici curve divennero «modelli spaziali» le due ricerche andarono acquistando un metodo comune fino a integrarsi totalmente e aprire così una differente ricerca10.

Nel catalogo dell’esposizione di quest’opera alla Galleria Naviglio di Milano figura solo il modello in colore giallo e Apollonio scrive: Questa intercamera plastica di Scheggi è quindi un modello (…) esso è una stanza, molto semplicemente un luogo, con apparenze variate, rese omologhe appena dal medesimo colore che le investe, e sulle cui superfici di parete le punteggiature dei fori con le ombre portate, ordinate secondo ritmi diversi, più o meno fitti, più o meno ad andamento rettilineo, accompagnano alternative di coincidenza e di condizione…11

Anche se Apollonio ne promette il più sicuro significato sperimentale ad uso degli architetti costruttori, l’intercamera plastica diverrà invece, quell’anno stesso, una delle più stimolanti attrazioni della mostra sugli ambienti d’arte “Lo Spazio dell’Immagine” allestita a Foligno a Pa-

Umbro Apollonio e Germano Celant, in Paolo Scheggi, catalogo mostra Galleria del Cavallino, Venezia, 15-24 maggio 1965. 8 G. Carlo Argan, in Paolo Scheggi, catalogo mostra presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna, cit.; il testo manoscritto appare a p. 4 con data settembre 1976. 9 Gillo Dorfles, Pittura Oggetto a Milano, catalogo mostra galleria Arco d’Alibert, Roma, 1967. 10 Paolo Scheggi, “Nota per l’intercamera plastica”, ripubblicato in Paolo Scheggi, catalogo mostra Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Bologna, cit. 11 Umbro Apollonio, Paolo Scheggi, catalogo mostra Galleria d’Arte Naviglio 2, Milano, 9-22 gennaio 1967. 7

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lazzo Trinci e destinata, per la partecipazione di Fabro, Castellani, Pistoletto, dello stesso Scheggi e altri, a divenire un evento pionieristico e di successo dell’environmental art.

Dalla spazialità plastica all’azione interdisciplinare Come per molti di noi, coetanei ma poco più giovani di Scheggi, per altri scrittori, artisti, uomini di teatro e giovani impegnati ancora negli studi,il crinale temporale del 1967-68 è stato cruciale e determinante per gli sviluppi dei percorsi già intrapresi. Così, per il lavoro di Scheggi che, giunto al fatidico ’68 si trova a doversi confrontare con una quantità di fermenti che intanto si erano affacciati nella società italiana e internazionale, per le molteplici note ragioni che hanno reso quel frangente uno spartiacque storico. La scena artistica italiana più avanzata, non diversamente che in Francia, in Germania o negli Stati Uniti, aveva raccolto importanti stimoli maturati nelle attività di teatro, di musica sperimentale, di cinema amatoriale, di poesia visiva e concreta, di danza, fornendo a sua volta nuove concezioni per la formalizzazione delle immagini e della spazialità. Formazioni teatrali come il Teatro povero di Grotowski, il Living di Beck e Malina, le esperienze di Kantor e Barba, ma anche del Piccolo di Milano diretto da Strehler e di una eccezionale proliferazione di gruppi e di autori con diverse poetiche individuali avevano dischiuso per le arti visive nuovi ambiti a possibili interazioni. È in questo clima che, dopo aver preso parte all’originale iniziativa del Teatro delle Mostre (1968), organizzata dalla galleria La Tartaruga di Roma, diretta da Plinio de Martiis, Scheggi individua in quell’apertura verso l’azione interdisciplinare una verifica dei propri risultati, compiendo al contempo un passo entro il dominio della sperimentazione teatrale. Se nella mostra romana l’intervento di Scheggi, dal titolo Intrerfiore, viene considerato «l’invenzione più astratta» (Calvesi), poiché i suoi cerchi sospesi nel buio come fiori luminosi inducevano lo spettatore ad aggirarsi tra loro in uno spazio percettivamente indefinito, le esperienze immediata-

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mente successive lo vedranno impegnato in una ‘funzionalizzazione’ maggiore della sua opera, entro uno spazio realmente teatrale, in un’esperienza di reale coideazione scenica. L’incontro con Giuliano Scabia in tal senso è decisivo per l’avvio di una intensa collaborazione che trova nello spettacolo “Visita alla Prova dell’isola Purpurea” di Bulgakov + Scabia presso il Piccolo Teatro di Milano l’occasione per la realizzazione di alcuni «interventi plastico-visuali» (1968). Il sodalizio con Scabia – che questi terrà vivo anche dopo la morte di Scheggi, riprendendo alcune sue ‘azioni’ o scrivendo test poetici a lui dedicati – incoraggia Scheggi a introdurre le sue sperimentazioni plastiche nello spazio del teatro rendendole funzionali a intenti tra loro condivisi nel modo di «riscrivere» il teatro e, in un certo senso, «a contrappunto della voluta staticità macchinistica e tradizionale dello spazio del palcoscenico» (Scheggi). Senza interrompere l’attività espositiva presso numerose sedi museali e gallerie europee, Scheggi intensifica altresì l’incursione nel territorio dell’azione teatrale e dell’ideazione scenica, facendo aderire sempre più ogni suo sforzo a questa nuova tensione al dinamismo integrale della creazione spaziale. Nel giro degli ultimi due anni della sua vita, tra il ’69 e il ’71, si susseguono, quasi come dilatazioni dell’idea germinale degli esordi, una serie di eventi ideati o realizzati da Scheggi per essere destinati alla strada, alla scena teatrale o allo spazio tradizionale della galleria d’arte. In gran parte tutti questi lavori recano il velato o esplicito sentimento premonitore della morte, quasi come appuntamento accelerato all’incontro ineluttabile con il suo avvento. Ma non per questo Scheggi vive queste esperienze con minore intensità. La sensazione che si ricava dalla lettura dei suoi testi teorici e dalle testimonianze di quel periodo è che, al contrario, egli appare proteso a ‘consumare’ le nuove occasioni di pronunciamento plastico e poetico in uno slancio in cui si confondono genialità, ironia, tensione poetico-ideologica, visionarietà, vigore intellettuale. Parafrasando l’opera teatrale politica di Erwin Piscator, che si era esercitato sulle commedie di

Ernst Toller come Hoppla, wir leben! (1927), Scheggi mette in scena alla galleria del Naviglio di Milano Oplà-stick, Passione secondo Paolo Scheggi, con interpreti Getulio Alviani, Terezha Bento, Franca Dall’Acqua (sposata nel ’64), Gianni Emilio Simonetti e Troni (voce recitante); l’azione in diciannove movimenti si svolge all’interno di un ‘contenitore bianco’ di Scheggi. Altre strutture trasparenti, schermi neri e lettere bianche forniscono, assieme alla scarna gestualità degli attori, una versione funebre del movimento socialista. Una versione di Oplà viene portata in una strada di Firenze col trasporto di grandi lettere bianche, già presenti nello spettacolo di Milano, uscendo in corteo dalla Galleria Flori verso il centro storico. In quell’occasione Lara-Vinca Masini scrive: È indubbio che tra le ricerche artistiche attuali e il teatro ci siano, oggi, molte possibilità di intesa (proprio per la necessità dell’operazione artistica di proiettarsi sempre più in una dinamica che si riproponga come vita); ma non sono del tutto convinta invece, che il teatro sia questo e che, dunque, il teatro sia la strada giusta per l’arte figurativa12.

Ma Scheggi non sembra avere dubbi in tal senso. Nel Dies Irae (1969), azione ideata con Franca Sacchi in tre momenti e messa in scena a Varese, a Milano e a Firenze, la morte si esibisce nel ‘trionfo’, nell’esistenzialità di essa e infine nella morte di se stessa! Nella Marcia funebre o della geometria (1969), ancora in tandem con la Sacchi, i volumi solidi del cubo, della sfera, della piramide, del cono, del cilindro e del parallelepipedo vestiti di abiti rossi, bianchi, viola, neri, azzurri, gialli e animati da attori, irrompono con la marcia funebre trasmessa da altoparlanti tra la gente a Como in quella manifestazione “Campo urbano”, curata da Luciano Caramel e a cui partecipano, tra gli altri, Giulio Paolini, Bruno Munari, Gianni Pettena, Ugo La Pietra e Giuseppe Chiari. Quindici anni più tardi, nella mostra dedicata a Scheggi dalla città di Firenze, nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio (1983), in un bellissimo testo poetico Chiari manifesta lucida-

mente il suo giudizio positivo sia sull’iniziativa che sull’effettiva portata linguistica della Marcia funebre di Scheggi: Scheggi non è un artista ‘concreto’ Non ha paura del teatro Lo sente come un’esperienza doverosa. Ma non cade nel teatro, le sue opere sono “punti” di equilibrio. Un equilibrio che non so spiegare. Ma che constato. Io considero Scheggi un artista concettuale.

Quanto avesse ragione Chiari, con la sua lapidaria valutazione, nell’identificare il carattere dell’opera di Scheggi, lo conferma l’interesse ‘attivo’ in quegli anni 1969-70 di un artista amletico e concettuale come Vincenzo Agnetti, assiduo compagno ormai di Paolo Scheggi quanto lo fu Alviani nei giorni decisivi della sua crescita artistica e della sua crescente affermazione. Se, infatti, nuovi capitoli prendono vita dalla febbre progettuale di Scheggi, avviando una collaborazione con l’architetto Mario Brunati all’insegna di un impegno mitico-politico – insieme progettano sia il Centro Culturale per un Insediamento Abitativo a Pisa, sia 7 spazi recursivi autopunitivi per 7 spazi neutri – non meno intensa prosegue l’attività sul fronte di una visualizzazione dell’entità immateriale della morte. La tomba della geometria (1970), La piramide (1970) dedicata alla Metafisica, il Trono (a forma piramidale) e il Tempio, questi ultimi due lavori, concepiti e realizzati in collaborazione con Vicenzo Agnetti, sono opere che si configurano come morfologie emblematiche della topologia tanatologica. Scheggi le concepisce e le realizza affidando alla forma e al colore la diminuizione della distanza tra loro e il proprio sentimento della sparizione, ma anche come gesti apotropaici che nel metabolismo conoscitivo dell’arte distanzia ciò che considera. Ecco, incontro Scheggi in questo particolare momento della sua vita e del suo lavoro e come molti suoi estimatori, come i suoi più stretti amici, non riesco a distinguere tra il valore e la forza della sua determinazione arti-

12 Lara-Vinca Masini, in Oplà – azione – lettura – teatro + intersuperfici modulari, catalogo mostra galleria Flori, Firenze, 1969.

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stica e l’intensità di un sentimento di stima e fraterna amicizia sorto in me in quei mesi tra il novembre del ’70 e il giorno della sua morte a Roma. Le cose si dissolvono e definiscono integrandosi. Se la creazione dell’ambiente Ondosa per l’Eurodomus di Milano in occasione della nascita della figlia Cosima – Ondosa – Serenissima e le opere plastiche componenti la mostra “Seiprofetiperseigeometrie” (1971) sono il compendio generoso e coraggioso di un artista che, uscendo di scena la ipoteca definitivamente con un’opera tanto breve quanto intensa, il capola-

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voro concettuale di Scheggi resta a mio avviso quell’Autospettacolo portato in pubblico come ‘atto unico del tempo’ a Caorle nell’estate del ’69. In esso, il tentativo di «rendere il visitatore, l’autore, il partecipante casuale un’osmosi di spettacolo-atto-tempo» (Scheggi) collima e traguarda ben oltre la propria morte, con grande lungimiranza e premonizione, il nostro presente in cui sovrani occhi e orecchi satellitari incombono su ogni nostro pensiero e gesto e la quotidianità autospettacolare ci coglie implicati ma espropriati e perplessi. Oplà, Scheggi è più presente che mai!

PAOLO SCHEGGI Lara-Vinca Masini

La mostra di Paolo Scheggi che Andrea Alibrandi organizza alla Galleria Il Ponte, è la seconda che Firenze gli dedica, dopo quella dell’83, che presentai in Sala d’Armi di Palazzo Vecchio nell’ambito di “Made in Florence”. Si imposta soprattutto sulle “Carte” dell’artista: un corpus di 115 lavori che vanno dal ’57 al ’61, l’anno in cui Scheggi lasciava Firenze per Milano. Si aggiungono 20 opere, quasi tutte inedite (dal ’59 al ’69) che comprendono lamiere, tele, lavori su carta intelata e su alluminio, in PVC, che documentano lo svolgimento della sua ricerca precedente i suoi lavori per il teatro, le sue “azioni”, le sue installazioni. Le prime carte, ad iniziare da quelle realizzate a diciassette anni, indicano tutte la vitalità di una ricerca continua, una maturità nella composizione, nella disposizione delle immagini, dei segni, del colore, una proprietà di linguaggio, straordinari. Un informale raffinato e freschissimo sembra unire gestualità e tachisme in un connubio frizzante e felice, che talvolta accenna ad un new-dada sensibilissimo. Una serie di lavori si svolge secondo raffigurazioni quasi araldiche con segni e forme alludenti già ai suoi futuri “fonemi”, che fanno anche pensare a simboli e ad alfabeti di popolazioni arcaiche. In alcuni lavori, in china su carta, si indovinano immagini, appena accennate, che acquistano la vitalità e la freschezza di una giocosa ironia, immagini che sono ottenute con pochi segni stravaganti, guizzanti, quasi fuori squadra. In alcuni un solo segno nero, graffiante, allungato, taglia verticalmente lo spazio del foglio, definendone perfettamente l’identità compositiva. Bellissimi gli acquerelli, di una grande delicatezza: indicano una assimilazione profonda e una volontà di misurarsi continuamente con quanto è stato raggiunto. Alcuni attingono ad una leggerezza di tocco che fa pensare a Bissier.

Tra le lamiere, iniziate più o meno negli stessi anni nei quali Burri realizzava le sue (ciò che dimostra l’attenzione del giovane Scheggi a quanto avveniva nella cultura artistica), ce ne sono di rara intensità, e assumono, nel suo lavoro, un’importanza particolare: lamiere sovrapposte, talvolta tagliate in sezioni curve, che tendono già a creare una sorta di intersuperficie, annunciando la linea della sua ricerca appena iniziata, presente in mostra con una serie di opere che ne esemplificano il percorso, nella formatività, nelle varianti di colore… Leggendo i testi di critici, artisti, amici di Paolo Scheggi, contenuti nel bel volume dedicato dalla Galleria Niccoli di Parma nel 2003 al suo lavoro, volume che contiene anche il primo catalogo generale delle opere, ho trovato un breve ricordo di Giancarlo Calza, figlio di Germana Marucelli, nota e geniale stilista troppo presto dimenticata, della quale ricordo alcune sfilate nelle quali le indossatrici portavano i gioielli di Pietro Gentili, un altro artista che allora, coi suoi cerchietti di specchio, elaborava una sorta di rovesciamento dello “spazio-oltre” di Fontana, proiettandolo verso lo spettatore (e a Germana Marucelli si deve anche l’invenzione del prêt à porter, in seguito sbandierato da altri e l’immissione in Italia della moda “Op”, coi bei disegni di abiti di Getulio Alviani – uno dei quali, un delizioso tubino azzurro con due spirali blu, che allora potevo ancora permettermi, Germana mi volle, affettuosamente, far dono –). Il testo di Calza ricorda l’arrivo a Milano di Paolo Scheggi, ventenne, ospite di Germana, il rapporto fraterno instauratosi tra i due giovani. Ma ricorda anche che, poco dopo l’arrivo a Milano di Scheggi, “un grande cardiologo che gli era affezionato, gli disse che, con una operazione, rischiosa però, avrebbe potuto superare il male che altrimenti lo avrebbe condannato

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inesorabilmente dopo i trent’anni; rispose di no, che anche una minima percentuale di rischio era troppa”. Io credo che non abbia rifiutato per paura, e nemmeno perché “a vent’anni trenta paiono lontanissimi”, ma perché nella sua “consapevolezza infinita”, quella che McLuhan attribuisce agli artisti, egli non intendeva mettere in crisi la possibilità di realizzazione del suo durissimo, e breve, progetto di arte, che, per lui, era già considerata “come vita”, anticipando ideologie già nell’aria (si pensi a Beuys). Aveva lasciato Firenze, ancora ostinatamente e supinamente abbarbicata alla memoria di un grande passato che, invece di costituire, come dovrebbe, un incentivo e un modello di comportamento e di creatività per la realizzazione di un presente e di un futuro degni di quel passato si è trasformato, fino ad oggi (e non è qui il caso di parlare di condizioni attuali anche più disastrose, per un’aggressione edilizia falsamente e arrogantemente tacciata per “ammodernamento”), in una sorta di palla al piede e di alibi di comodo. Dalla metà degli anni Settanta, fino agli anni Ottanta, anche a Firenze qualcosa era cambiato: la contestazione universitaria; la nascita dell’“Architettura radicale”, che tendeva ad evidenziare la situazione di crisi dell’architettura, falsamente legata alle ultime manifestazioni di quello che, da Razionalismo, si era trasformato in “International Style” e in un’edilizia implicata nella speculazione; il sorgere di nuove gallerie, Quadrante, Schema, Zona, L’Aquilone…, aprivano ad un nuovo rapporto col contemporaneo internazionale, anche con una più aperta intenzionalità delle Istituzioni. Credo che questa apertura da parte delle Istituzioni si sia chiusa con “Umanesimo, Disumanesimo nell’arte contemporanea, 1890-1980”, che organizzai a Firenze appunto nell’80, per volontà di Franco Camarlinghi, allora assessore alla cultura del Comune di Firenze. Gli artisti fiorentini continuano, per la maggior parte, a lasciare la città per trovare altrove nuove possibilità. Molti tengono Firenze come base e continuano, generalmente, a lavorare con altri centri, in Italia e all’estero.

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Scheggi comunque trovava dal ’61, a Milano, il mondo a cui aspirava: una città culturalmente vitale, compagni di idee e di strada in Alviani, Colombo, Bonalumi, poi in Agnetti, e un maestro-amico in Fontana. A Firenze (Settignano), veniva per incontrare i suoi, gli amici e, qualche volta mi telefonava e veniva a trovarmi. È venuto anche pochissimi giorni prima della sua fine: mi parlò, con tranquilla consapevolezza e senza rimpianto, della sua condizione (già chiaramente visibile nel pallore quasi trasparente del suo profilo sottile); della sua vita a Milano; dell’episodio recente che lo aveva visto sfilare con gli amici (Fontana, Bonalumi…) per un noto stilista milanese; ne sorrideva, divertito. Mi parlò della sua dolcissima Cosima Ondosa Serenissima, nata da pochi mesi; della giovane moglie, e anche del suo lavoro, della sua continua ricerca e delle recenti trasformazioni. A Milano era passato dalle sue prime “intersuperfici a zone riflesse”, che partivano da un ripensamento del “taglio” di Fontana che resterà, peraltro, sempre un fatto gestuale, intuitivo, immediato, verso un “oltre” senza limiti, verso un infinito fuori del tempo: per Scheggi lo spazio e il tempo avranno un altro significato: ci sarà, appunto, un “interspazio” che gioca con l’ombra portata nella sovrapposizione dei piani, nel tempo del trascorrere della luce, che rimbalza da un piano a quello sottostante e che limita l’“oltre” ad una distanza prestabilita. È come se egli intendesse dominare, tagliare a misura la sua idea di “spazio oltre” e, di conseguenza, anche il concetto di tempo. Dopo un primo periodo nel quale i suoi lavori si organizzavano su tagli liberi, ovoidali, oblunghi, come crateri lunari, d’altronde in soluzioni bellissime, dove già giocava con la ricchezza del colore sempre, ovviamente, monocromo, elaborerà la sua ricerca successiva come “applicazione visuale di organizzazioni geometriche”, svolte secondo rotazioni a spirale, parabole logaritmiche, in cui il dialogo allusivo a piani spaziali successivi, interagenti tra loro, si faceva sempre più stretto, insistito, secondo un approfondimento continuo, orga-

nizzato sul quadrato e sul taglio rigorosamente circolare. La sua è stata una ricerca di spazio che è andata trasformandosi in ricerca di spazio-tempo, che si allargava successivamente verso un concetto di “spazio sociale”, dunque verso l’architettura e verso quella che definiva “una ipotesi di progettazione totale”. “Il mutarsi delle infrastrutture in una società neocapitalistica… impone una necessaria e nuova presa di coscienza sulla realtà, quale sostanziale ricerca di una misura neo-umanistica del progettare” scriveva nei suoi appunti. Inizierà con l’“ambiente vivibile di integrazione plastica” per Germana Marucelli; proseguirà con successive collaborazioni con gli architetto Mendini e Olivieri; con Nizzoli Associali collaborerà al progetto di “Unità di abitazione CECA” e per l’ampliamento urbanistico di Bratislava (’67). Al “Teatro delle Mostre” della Tartaruga di Roma (’68) presenterà l’ambiente “Interfiore”. Da questo momento ha inizio la sua sperimentazione teatrale per il Piccolo Teatro di Milano (“Interventi plastico-visuali” per lo spettacolo “Visita alla Prova dell’Isola Purpurea” di Bulgakov e Scabia); avrà inizio così la trasformazione della sua ricerca e la sua attività di azioni che usciranno dalla galleria nelle strade della città (“Oplà Stik, Passione secondo Paolo Scheggi e Franca Sacchi”…), quindi l’analisi della città che, dopo la contestazione giovanile veniva vissuta come “tempo di spettacolo totale”, come “sosta del tempo vissuto”. Scheggi iniziava ad usare le lettere dell’alfabeto come “fonemi”, “come necessità di indagare sul rapporto tra linguaggio e morte” scrivevo nell’83, “rifacendosi …alla filosofia hedeggeriana”, e citavo Agamben: “Scrittura e morte hanno la stessa struttura negativa e sono metafisicamente inseparabili. Fare esperienza della voce significa …diventar capaci di un’altra morte, che non è più semplicemente il decesso, e che costituisce la possibilità più propria e insuperabile dell’esistenza umana, la sua libertà”. Dal teatro Scheggi si spostava allo spazio della galleria (Fabio Mauri, successivamente, peraltro con un gesto simile, opererà in senso inverso).

Seguiranno, di Scheggi, le installazioni dove il tema della morte si unirà ad una intenzionalità rituale e mitico-politica nelle gallerie e nelle grandi mostre (nel ’70 l’ambiente “Ondosa”, come omaggio per la nascita della figlia per l’Eurodomus; “La Tomba della Geometria” per “Amore mio” a Montepulciano; e, con Agnetti, “Il Trono” alla Galleria Mana-art-Market di Roma; “La Piramide”, per “Vitalità del Negativo”, a Roma; fino all’ultima, splendida, lucida e raggelata esibizione formale della morte, “Seiprofetiperseigeometrie” ’71, alla Galleria del Naviglio di Milano). Scriveva Getulio Alviani (catalogo di Parma) a proposito degli ultimi lavori di Scheggi, quei suoi continui dialoghi aperti con la morte: “Su questa via scegliesti il vettore del coinvolgimento, del colloquio, dello spettacolo. E hai bruciato ogni residuo di questa impostazione quando, alle soglie della morte e tu cosciente, hai progettato il tuo funerale ponendoti fuori di esso…Il tuo modo di comportarti non era comportamentismo; lo spettacolo di te stesso non era esibizione del corpo; era appunto necessità insopprimibile di far coincidere idea ed ideazione, opera ed operatore”. Ma, a mio avviso, Paolo Scheggi viveva anche non solo il sentimento della sua prossima fine, ma anche la percezione di quanto il momento che egli ancora riusciva a condividere era quello di un profondo cambiamento: si stava passando dal Razionalismo (che in architettura, si è detto, si era trasformato in “International Style”); le correnti legate al Razionalismo (Arte concreta e quelle che si definivano “Nuove Tendenze” – Op art, Arte programmata e cinetica… –, stavano per esser tacciate di “quinta colonna” dall’invadente Antirazionalismo (che non ne coglieva le intenzionalità, quelle cioè di non essere sopraffatti dalla tecnologia, ma di dominarla in senso positivo come ulteriore strumento di creatività, come “prolungamento del braccio” secondo, ancora McLuhan); quell’Irrazionalismo che sembrava voler raccogliere, a distanza, e su nuove basi, la sfida che era stata dell’Informale, trasformando la gestualità in azione. Per Paolo Scheggi la propria morte era an-

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che, perciò, “la morte della geometria”. Arte e vita già coincidevano. Paolo Scheggi e Gianni Colombo, colonne nella linea di “Nuove Tendenze”, di cui Munari e Mari da una parte, Fontana dall’altra, avevano aperto la strada, sono stati i primi a cogliere il significato di quel momento: nasceva l’Arte di comportamento e di azione; era l’uscita dall’“arte oggettuale” (Dorfles). “Abbiamo riempito il mondo di oggetti” mi disse una volta Colombo che avevo chiamato a seguirmi in una lezione su “Nuove Tendenze”. “È tempo di disfarcene”. Ci si avviava verso la “Conceptual Art” (l’“Art as Idea, as Idea” di Kosuth). E furono proprio Scheggi e Colombo che trovarono in Agnetti (con Paolini l’artista più concettuale in Italia) il partner ideale nella realizzazione del “Neg” (Colombo), de “Il Trono” e de “Il Tempio” (Scheggi). Devo riconoscere che ho faticato a stendere questo testo. Ciò che non mi capita spesso. Io non sono abituata a guardarmi indietro. Credo molto nella memoria storica, non in quella mia personale. Vivo molto nel presente. E non sono neppure abituata ad esternare le mie impressioni. Ma ripensare al momento nel quale Paolo Scheggi se n’è andato mi ha portato a rivivere un periodo che nel mio lavoro è stato,

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credo, tra i più importanti, quando anche la mia partecipazione emotiva alle vicende dell’arte e al rapporto con gli artisti era più intensa, perché il mio lavoro non era cominciato da molto tempo; mi fa ripensare alle perdite durissime, durante il corso della vita, di amici cari: Scheggi, appunto, e poi Agnetti, e ancora, in seguito, Colombo. E ho collegato a quelle le perdite recenti e recentissime, da Gelmetti, a Grossi, a Dorazio, e proprio quest’anno, a Ori, Chiari, Fabro… Non pensavo che avrei avuto questa reazione. Ma è stato come se li ritrovassi tutti, nel loro rapporto di affetto e di amicizia che ho condiviso con loro, nel lavoro che ci hanno affidato. Cito ancora un testo di Scheggi che riportavo nell’83: “È così che nella dimensione miticomagica la mente dello spettatore non si unisce con il corpo fisico, oggetto che muore sulla scena ma col principio della vita o simbolo che durante quel tempo è stata la realtà rivestita di un’immagine apparente”. “Che è come rovesciare” commentavo “il ‘Dasein’ hegeliano e heideggeriano da ‘vivere per essere per la morte’ in ‘morire per essere per la vita’”. Forse anche a questo, con la sua capacità di provocare salti mentali diacronici, serve l’arte…

PAOLO SCHEGGI DAL QUADRO-OGGETTO ALL’AMBIENTE VIVIBILE Paola Bortolotti

Milano, 1961. Un luogo ben definito, una grande città dell’industrioso nord, e un quando, l’esordio d’un decennio travolgente. Uno spazio fisico e uno temporale che dettero l’input determinante alla breve, condensata e prodigiosa esistenza di un ragazzo fiorentino, ricco di entusiasmo e di molteplici talenti. Paolo Scheggi aveva ventun’anni quando arrivò a Milano in quel 1961, (l’anno caratterizzato dall’elezione a presidente di John Kennedy e dall’inizio del programma spaziale Apollo, nonché dall’esordio musicale di Bob Dylan e dei Beatles), con una dote adeguata all’esplorazione di un mondo diverso: una raffinata educazione e una mente curiosa del nuovo. Certe note biografiche, certi aneddoti bohémien andrebbero ormai sfrondati e ricondotti nel loro reale contesto. Infatti quale occasione migliore per un giovane che voleva sfondare nel mondo affascinante della cultura e dell’arte, assai vivace a Milano, di quella offertagli da Germana Marucelli, che lo accoglieva nel suo atelier e gli apriva le porte del suo ambito salotto letterario, tanto mondano quanto intellettuale. Riferendosi a lui, Marucelli appuntava: “Il linguaggio artistico di Paolo Scheggi, nelle sue diverse espressioni, mi stimola e mi aiuta nella smaterializzazione della vita stessa nel concreto del suo significante realizzarsi. Dal giorno del mio incontro con la sua ricerca nella dinamica del tempo, il nostro dialogo continua e fruttifica”. Vivendo a Milano Scheggi ebbe la possibilità e il privilegio di crescere nel perimetro dell’aura segnato dal maestro Lucio Fontana, e fu quella un’esperienza forte che lasciò il suo imprinting su di lui e su molti della sua generazione. Degli anni fervidi tra il 1958 e il 1964, ha dato un’esaustiva analisi Angela Vettese, nel saggio “Milano et mitologia” (che è anche il titolo di un’opera di un’altra sfolgorante e caduca meteora, Piero Manzoni), riproponendo puntualmente i momenti

salienti di quel periodo e il pensiero dei suoi pionieri, tra i quali un eclettico geniale come Bruno Munari. Questo l’humus in cui il giovane fiorentino va a mettere radici, trovandosi a operare accanto a Getulio Alviani, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, ed è con loro che inizia a indagare le direzioni dell’arte nel suo costante movimento. Perciò niente fuga dalla casa dell’angusta Settignano e neppure dalla matrigna Firenze – dove anzi Scheggi fece la sua prima mostra personale alla Vigna Nuova proprio nel 1961 – ma una scelta naturale che risultò essere vincente, come confermato dai tanti saggi scritti su di lui, compresi anche in questo catalogo. A me interessa riconsiderare oggi, in occasione di questa importante mostra alla galleria Il Ponte, ricca di illuminanti opere inedite, alcuni dei tanti elementi della creatività di Scheggi: intanto la sua precoce abilità nel ridisegnare le architetture di interni, e quindi, in un compresso arco di tempo e incalzare di eventi, il suo condividere con chi aveva simili affinità di ricerca e capacità di progettazione, la rivoluzionaria idea per quei tempi ancora immaturi, di portare l’arte e le forme assunte dai suoi concetti, fuori delle gallerie e dentro il contesto urbano, a mescolarsi con la vita delle città. Dunque, dall’incontro con l’eclettica Marucelli, nasce nel 1964 la prima “intersuperficie curva” che simula una parete: fatta anche questa di pannelli intelati sovrapposti e forati in punti precisi, disposti geometricamente, una struttura tridimensionale che è l’evoluzione dei quadri-oggetto, cioè le coeve stratificazioni di acrilici monocromi su tela, la quale struttura, accostata ad un altro elemento modulare, viene stavolta usata per modificare gli spazi interni di un luogo, la sartoria. Un intervento all’apparenza semplice che però va considerato il primo passo verso la declinazione dell’intuizione che esiste un diverso modo di

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mettersi in comunicazione con l’opera d’arte: dalla collocazione dell’opera nello spazio si può arrivare quindi allo spazio che si fa opera. Per provare a capire il logico sviluppo di quella prima intuizione, l’iter attento e rigoroso che portò Scheggi a concepire quegli ambienti spaziali, quegli environment, come erano chiamati oltre oceano – che coinvolgevano anche il pubblico di spettatori – è necessario rifarsi alla biografia dell’artista e consultare i suoi scritti teorici, per evitare il rischio di una forzata attualizzazione, poiché ormai sono comunque passati oltre trent’anni dalla sua scomparsa. Intanto da poco arrivato nel capoluogo lombardo già si fa notare e nel ’64 è invitato a partecipare alla XIII Triennale, nella sala del cinema sperimentale con una “scenografia spaziale”, come lui stesso la chiama in una lettera ai suoi dove accenna anche che sta aiutando Bruno Munari a realizzare un piccolo allestimento. Tra il ’64 e il ’65 Scheggi inizia a collaborare con un ottimo team di architetti e designer – tra cui Alessandro Mendini – la Nizzoli Associati che si avvaleva del contributo di altri artisti e di un critico, Germano Celant, e che aveva una vocazione al progettare in senso totale, definita da Scheggi “neo-umanistica”, volendo significare che nel loro modo di progettare c’era l’intenzione primaria di creare un rapporto tra l’uomo e l’architettura, per un “rinnovamento della società”, come recita il manifesto del gruppo. Questo lavoro lo porta ad esperire come disegnare abitazioni su scala industriale, cosa sia un prefabbricato e come lo si utilizzi. Ancora con la Nizzoli, l’artista si cimenterà nella più impegnativa e ampia scala urbanistica, applicata allo sviluppo d’un quartiere della città di Bratislava. I suoi “compositori spaziali” assumono in quel periodo forme cubiche, fatte di cartone e plexiglas o materiali metallici, e prendono il nome di “inter-ena-cubi”. Ancora in una lettera alla famiglia, Scheggi racconta dei continui incarichi che sta ricevendo (“la cosa divertente è che se fossi stato a Firenze nemmeno saprebbero come mi chiamo”), dalla Lerici e poi dalla rivista Casabella, e del successo dello studio per la ricerca e la

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progettazione del disegno industriale che ha fondato con Oliveri, Mendini e Fronzoni. Due anni dopo quelle forme saranno utilizzate per una specifica applicazione, diventeranno pareti vere e proprie che, assemblate, andranno a costruire l’“intercamera plastica”, una tipologia di architettura senza una funzione, uno spazio che è pura invenzione mentale. La maquette dell’unità di abitazione del ’68 è frutto di un seminario alla Facoltà di architettura, mentre il cannocchiale ottico percorribile, fu pensato per piazza del Duomo a Firenze. In tempo sta per scadere e Scheggi, come lo presagisse, intensifica la sua attività di ricerca. Gli ultimi tre anni di vita vanno a coincidere con i fermenti rivoluzionari del movimento studentesco, in Europa e in Italia. L’happening, la performance diventano per molti giovani creativi, l’espressione più efficace della loro protesta. Scheggi è all’epoca attratto dall’azione teatrale che affronta in un primo momento da scenografo e in seguito, da regista. Le immagini rimaste a testimonianza di quegli eventi, intercorsi tra il ’68 e il ’71, formano un interessante repertorio che comprende l’opera “Interfiore” – che si può chiamare un’installazione vera e propria – proposta a Roma a La Tartaruga per la eccezionale collettiva Teatro delle mostre, e composta da grandi cerchi di legno colorato, sospesi al soffitto e individuati nel buio da fasci di luce mirata; oppure le bianche lettere dell’alfabeto disposte attorno al palco per il Piccolo di Milano, inventate per un lavoro teatrale di Giuliano Scabia, con la regia di Maiello, intitolato “Visita alla prova dell’Isola Purpurea”. In un’intervista rilasciata alla rivista Sipario nel ’69, Scheggi dichiarava tra l’altro: “La necessità di trasformare la parola, il gesto, il suono, il movimento in tempoplastico-totale, sono continuità necessarie di ricerche precedentemente intraprese nell’ambito delle esperienze plastiche, che trovano, almeno per me, una maggiore consentaneità nell’ambito del teatro”. Ed ecco i fotogrammi di “Oplà-stik. Passione secondo Paolo Scheggi”, altra azione pensata per l’interno della galleria Il Naviglio, e riproposta poco dopo nelle strade di Firenze, dove il fonema O-P-L-A, scandito e ingigantito, era portato a spalla da

personaggi che si univano alla gente comune. Da ricordare c’è anche L’Autospettacolo al teatro Totale di Caorle, con le musiche di Franca Sacchi, che faceva da corollario ad una nutrita collettiva di artisti, presentati come “interpreti principali” insieme ad altri “attori” che, recita la locandina, sono poi gli abitanti del paese e i visitatori della mostra. E anche qui c’è da sottolineare la volontà di coinvolgere chi vive il tessuto urbano. L’associazione con altri simili eventi coevi, è ineludibile. Negli stessi anni e nella sua città natale, Firenze, si formava il movimento di contro-architettura dei cosiddetti “radicali”, destinati a diventare notissimi, cioè gli Archizoom, i Superstudio, i 9999, gli Zziggurat, gli Ufo e Gianni Pettena. Questi ultimi in particolare fanno per strada le loro prime pubbliche incursioni, durante le quali compiono azioni effimere che coinvolgono gli abitanti. Il gruppo Ufo, tra cui Lapo Binazzi, realizza nel ’68 una di queste parate, portando in processione ironici elementi gonfiati, con scritte allusive alla società dei consumi. Gianni Pettena, che lavora in solitario, elabora al contempo architetture di lettere e usa fasci luminosi proiettati su edifici storici. Con questo non intendo attribuire a Scheggi intenzioni rivoluzionarie che non erano propriamente le sue, anche se un impegno “politico” nel suo lavoro c’è stato, bensì tornare ad agganciarmi all’assunto di partenza di questo scritto, che vuole sottolineare il contributo e la partecipazione dell’artista a un fare arte che voleva estendersi all’ambiente urbano, superando i limiti dei luoghi deputati. L’interesse suo e degli altri redattori per i gruppi “radicali” è comunque ampliamente documentato nella rivista “in”, da lui fondata con Ugo La Pietra, e diretta da Pierpaolo Saporito, nel n. 2/3 del marzo/giugno 1971. È vero altresì che Scheggi mantiene alle sue performance un atteggiamento più interiorizzato, forse più mistico, come ricordano sia la moglie Franca, sia la sorella minore Elisabetta, che meglio di altri hanno potuto conoscerlo. L’artista ammirava il tormentato Artaud ed era solito citare di lui la frase: “E io posso con il geroglifico di un respiro, ritrovare un’idea di

teatro sacro”. In questo senso di sacra rappresentazione, di celebrazione magica, vanno interpretate altre due azioni pubbliche di cui egli è autore e regista: “Dies irae. Inquisizione secondo Paolo Scheggi e Franca Sacchi”, e “Marcia funebre o della geometria”, quest’ultima composta per la manifestazione comasca Campo urbano, che ha per protagoniste le forme archetipiche del cubo, il cilindro, la piramide, il cono, la sfera e il parallelepipedo. Tra i progetti non realizzati di Scheggi c’è la misteriosa e un po’ inquietante serie dei “7 spazi recursivi autopunitivi per 7 spazi neutri” disegnati con l’architetto Mario Brunati. Si tratta di sette stanze di difficile accesso, che sono la rielaborazione delle suddette figure geometriche. Ne risultano dei contenitori in acciaio corten, marmo o laminato plastico, ognuno dei quali contiene gli elementi funzionali per cui l’ambiente è adibito, distribuiti nell’esiguo spazio interno estremamente raffinato, completato con materiali eleganti e preziosi come il velluto, l’oro, la porcellana. Alla storica mostra “Amore mio”, tenutasi a Montepulciano, nel 1970, viene esposta un’altra sorta di stanza che è un parallelepipedo nero praticabile che alle pareti porta i nomi delle figure geometriche, intitolato “Tomba della geometria”. Questo è uno degli ultimi interventi, insieme a “Trono”, concepito in collaborazione con Agnetti, a “Piramide”, “Copia dal vero”, e infine, a “6profetiper6geometrie”, che è del 1971 e che l’artista non avrà la possibilità di ultimare. Avevo anticipato che avrei limitato il mio contributo a un determinato aspetto dell’attività del nostro artista, e molto è stato infatti consapevolmente omesso perchè dato per conosciuto, mentre con minore frequenza si presenta Scheggi quale artista plastico tra i precursori di un modo nuovo di comunicare il linguaggio dell’arte. Non potremo mai sapere quali sarebbero stati gli ulteriori sviluppi della ricerca di Paolo Scheggi, però secondo il mio controbattibile parere, nei suoi ultimi progetti ci sono i semi del pensiero contemporaneo e del dibattito più vivace, sull’idea di città e il rapporto fra pratica urbana e pratica artistica.

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MIO FRATELLO Elisabetta Scheggi

Per i miei sette anni Paolo mi svegliò al mattino con un mazzolino di violette. Era la prima volta che venivo trattata come una signora, non ci potevo credere. Paolo era così, gentile e sorridente, leggero e piacevole, seduttivo e ironico. Parlava sempre a bassa voce, con quella sua bella voce piana e precisa, con quella dizione priva di inflessioni dialettali che, come una nota di fondo, lo raccontava e lo descriveva. Mi dicono che anche da piccolo era così, serio e riflessivo, ma allegro e vivace, curioso, attento e gentile. E già molto bravo a disegnare. Quando a sei anni ebbe come regalo di compleanno la cassetta dei colori a olio andò con il nonno a dipingere e tornò con un quadretto

Paolo Scheggi, galleria del Naviglio, Milano, 1969

che segnò l’inizio del mito della bravura di Paolo, una casa colonica in prospettiva perfetta. Paolo era bravo davvero, fu naturalmente bravo da subito in maniera particolare, certamente però l’ambiente familiare e il nostro contesto favorì e gli permise di coltivare questa dote. Eravamo cresciuti fra statue liberty e album fotografici di scultura, libri d’arte, acquerelli e tempere, matite seppia e cartoncini. Il babbo, appassionato di arte e di antiquariato ci aveva educati portandoci fin da piccoli nei musei e nelle chiese in tutta Italia. Il nonno materno, Mario Burelli, figlio d’arte, era stato all’inizio del secolo raffinato scultore e le sue opere, di stampo orientalista, erano

Mario Burelli nel suo atelier di scultura

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Il tavolo da lavoro della madre

state vendute in tutto il mondo, da Philadelphia a Lione. Il suo studio era una stanza silenziosa e affascinante piena di statue, di disegni, di quadri e di libri, così come era bello il tavolo da lavoro della mamma, miniaturista, con gli acquerelli e le immagini del Lippi, di Raffaello, del Giorgione, gli appunti e l’avorio, un altro mondo a cui fin da piccoli eravamo ammessi con prudenza e attenzione e dove passavamo del tempo disegnando, parlando, guardandola dipingere. Provenivamo insomma da un ceppo tipica-

mente fiorentino fatto da quel mix di arte e artigianato che ha caratterizzato Firenze dal Rinascimento in poi. Vivevamo a Settignano, patria del Rossellino e di Desiderio, un luogo bello dove molti inglesi venivano a soggiornare. Fra questi arrivarono Edna e Bernardo Constable, londinesi simpatici ed eleganti con cui tutti noi facemmo amicizia. Era il 1957. Fu sotto l’ala protettrice dei Constable, che Paolo andò a Londra a studiare. E poi arrivarono gli amici. Prima quelli delle feste da ballo in casa, con le note dei Platters, fino all’arrivo degli “intellettuali”. Che entrarono in casa nostra vestiti di nero, pieni di idee e di parole, di libri e sigarette, di nomi nuovi come Marx, Sartre, De Beauvoir. Entrarono e mi sembrarono bellissimi, misteriosi. Era il 1958 e le mani con le unghie dipinte d’oro di Roberta Popovich, moglie di Claudio, entrambi carissimi amici di Paolo, mi fecero sognare. Del resto tutto di Roberta mi faceva sognare, la bella chioma rossa, i vestiti neri, le unghie d’oro, il sorriso. Andarono a Parigi a conoscere Sartre e la De Beauvoir per presentare la rivista di cui Sartre scrisse l’introduzione, “Il Malinteso”, un titolo che a me e a mio fratello Lorenzo faceva ridere. Io guardavo Mago Zurlì. A me sembrava tutto un grande gioco, le mostre, i quadri e quello splendido studio dove anche io potevo scrivere sulle pareti – e dove scrissi una poesia che Paolo apprezzò molto si chiamava Il Pipistrello – cercavo di adattar-

Germana Marucelli e Paolo Scheggi

Lo studio a Settignano, Firenze

mi all’atmosfera impegnata e un po’ plumbea dell’esistenzialismo. Lo studio era bellissimo, pieno di citazioni, di cose, di tele di lamiere, di colore, mi piaceva veder colare quei rossi e quegli argenti sulla tela, mi piacevano quei quadri strani fatti di lamiera, mi piaceva l’odore di acqua ragia, di olio, di carta, mi piaceva il senso di possibilità che si respirava.

na, arrivava in uno sfarfallio di capelli, di camicette colorate, di gioielli diversi da tutti, di simpatia, di storie divertenti. Quando veniva a Firenze per le sfilate andavamo alla Sala Bianca e poi in quello che oggi si chiama back-stage. Una vera meraviglia. Paolo stava bene da Germana e lei lo amava molto. Trovava in Paolo dei punti di contatto artistico e apprezzava il suo lavoro. Così, per simpatia – e stima – gli mise a disposizione il suo mondo. Lo fece conoscere nel suo famoso “salotto”, lo introdusse nell’ambiente milanese, gli offrì opportunità.

Sicuramente Paolo mi ha regalato in assoluto il senso della possibilità.

La casa di Settignano, Firenze

Festa dell’Istituto d’Arte di Firenze per il carnevale del ‘59

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Poi nel 61 andò a Milano, a vivere da Germana Marucelli. Germana era la cugina della nostra nonna materna, erano figlie di due fratelli, o meglio di un fratello e di una sorella, Alessandro e Esterina Marucelli. Geniale figlia di una sarta fiorentina, Germana, che a Milano aveva affermato la sua personalità fino a diventare con Shubert, le sorelle Fontana e gli altri stilisti di quegli anni uno dei grandi inventori dell’alta moda italia-

Getulio Alviani e Paolo Scheggi nell’atelier di moda di Germana Marucelli

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Lui lavorava anche per lei, ripensò con Getulio Alviani l’atelier di Corso Venezia, trasformandolo in uno spazio contemporaneo e minimal, collaborava alla regia delle sfilate, realizzava decori per i tessuti. E soprattutto iniziava la storia delle intersuperfici, dei quadri monocromi, delle tele sovrapposte e forate, che sfociarono poi nelle integrazioni plastiche di architettura. Iniziò il periodo delle collaborazioni con le gallerie, delle mostre internazionali, dei premi, dei riconoscimenti. Si sposò con Franca, avevano una bella casa con le pareti ocra o nere e delle grandi lettere appese. Paolo ci raccontava tutto nelle sue affettuose lettere scritte con dolcezza, piene di pensieri sereni per i nonni, per gli amici, per i fratelli. L’arrivo dei fratelli era sempre una festa per me adolescente. Paolo veniva da Milano, Lorenzo da Roma, dove nel frattempo si era trasferito a fare il giornalista.

mento di grandi trasformazioni e di entusiasmi, di creatività diffusa e di idee. È stato bello partecipare ad alcune azioni per strada e in teatro in cui mi ha coinvolto, ma anche visitare le sue opere, la piramide bianca di Vitalità del negativo, la stanza nera della Morte della geometria, seguire il suo percorso variato, in perenne movimento. Ed è stato bellissimo festeggiare la nascita di Cosima, amatissima figlia. Dalla fine del 1970 ho potuto vivere molto da vicino il suo approfondimento del tema biblico, di quello magico e alchemico, mentre l’ho aiutato a costruire la mostra dei Profeti, presentata a Milano il 18 maggio del 71 al Naviglio. In quei mesi sono andata dagli artigiani per realizzare le scatole, i solidi, le foto per il manifesto; per lui ho cercato l’argento, l’oro, il marmo, la pietra, la lacca e le cerniere, era bello lavorare sotto la sua guida.

Lina e Cesare Scheggi di fronte all’opera 6profetiper6geometrie

Che era sempre ferma e serena, leggera e divertente. Nonostante abbia sempre trattato il tema della morte, Paolo è sempre stato leggero. Mai tragico. Il tono lieve è stato sempre il suo codice.

Elisabetta Scheggi, mostra 6profetiper6geometrie, Galleria del Naviglio, Milano 1971

Io ero molto giovane, andavo a scuola e avevo altri pensieri per la testa, ma questo fratello pittore era sempre divertente. Da Milano, dove aveva incrociato il nascente mondo del design, mi aprì l’orizzonte su questo universo sconosciuto e meraviglioso. Paolo portava sempre novità. Mi piaceva andare alle inaugurazioni delle mostre a Milano e trovare tanta gente, a Venezia alla Biennale e vedere quei suoi 4 grandi quadri colorati sulla parete, sentire tutte le cose che realizzava, le persone che conosceva, i nomi degli artisti. Venne una volta a casa con uno strano quadro blu che aveva un ciuffo di lana di vetro davanti. Disse che un amico lo aveva pregato di tenerlo per un po’ per guardarlo. L’amico era Piero Manzoni. Negli anni successivi (1968/69), quando il suo lavoro ha abbracciato l’ambito delle installazioni, degli happening e delle manifestazioni come Campo Urbano, Oplà Stick, Dies Irae, mi piaceva la consonanza con quanto io vivevo nella scuola e nella vita, in quel mo-

Franca dall’Acqua e Paolo Scheggi, Venezia 1964

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Ruggero Orlando e Paolo Scheggi, XXXIII Binnale di Venezia, 1966

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FERRI TELE


I. Opera numero 2, 1959 olio e collage su tela, cm 120Ă—80

Esposizioni: VIII Quadriennale Nazionale di Roma, 1959-1960

PASC-0454


II. Senza titolo (1959), assemblage di lamiere policrome sagomate, collage e tecnica mista su telaio in legno, cm 100×70 Esposizioni: Galleria d’arte moderna di Bologna, 6 ottobre-10 novembre 1976 Bibliografia: Paolo Scheggi, testi di Franco Solmi, Giovanni M. Accade, a cura di Franca Scheggi e Deanna Farneti, Bologna, 1976, n. 3

PASC-0455


III. Situazione esistenza, 1960, assemblage di lamiere monocrome sagomate e sbalzate su telaio in legno, cm 100×80,

Esposizioni: XI Mostra Nazionale di Pittura “Premio Golfo della Spezia”; Associazione Artisti Toscani / III Mostra Regionale Toscana; Galleria d’arte moderna di Bologna, 6 ottobre-10 novembre 1976 Bibliografia: Bologna, 1976, n. 4; Luca Massimo Barbero, Gillo Dorfles, La breve e intensa stagione di Paolo Scheggi, Galleria d’Arte Niccoli, Parma, 2002, p 115 PASC-0169


IV. Per una situazione, 1960 assemblage di lamiere monocrome sagomate e sbalzate su telaio in legno, cm 100×80 Esposizioni: Galleria d’arte moderna di Bologna, 6 ottobre-10 novembre 1976 Bibliografia: Bologna, 1976, n. 5; Parma, 2002, p. 115 PASC-0150


V. Per un situazione. Tre tele sovrapposte nere, 1961 acrilico su tre tele sovrapposte, cm 30×20×5

Esposizioni: Galleria d’arte moderna di Bologna, 6 ottobre-10 novembre 1976; Sala d’Arme di Palazzo Vecchio, Firenze 28 maggio-26 giugno 1983; Bibliografia: Bologna, 1976, n. 9; Paolo Scheggi, testi di Sergio Salvi e Lara Vinca Masini, interventi di Giuseppe Chiari e Giuliano Scabia, a cura di Elisabetta Scheggi, Vallecchi Editore, Firenze, 1983, p. 19; Parma, 2002, p. 121 PASC-0171


VI. Zone riflesse, 1963 acrilico su tre tele sovrapposte, cm 54×54×6 PASC-0333


VII. Zone Riflesse, 1963 acrilico su tre tele sovrapposte, cm 80,5×80,5×5,5 PASC-0456


VIII. Intersuperficie rossa (1963) acrilico su tre tele sovrapposte, cm 50×70×6 PASC-0457


IX. Intersuperficie bianca (1964) acrilico su tre tele sovrapposte, cm 49,5×69,5× 5 Bibliografia: Parma, 2002, p. 162

PASC-0172


X. Intersuperficie curva - Sul rosso (1963) acrilico su tre tele sovrapposte, cm 90Ă—70Ă—5, sul retro dedicata Bibliografia: Parma, 2002, p. 150 PASC-0167


XI. Grigio e Grigio, 1963 acrilico su tre tele sovrapposte, cm 80×80×6 PASC-0299


XII. Zone Riflesse, 1964 acrilico su tre tele sovrapposte, cm 60×60×6 PASC-0313


XIII. Zone riflesse, 1964 acrilico su tre tele sovrapposte, cm 60×45×6 Bibliografia: Parma, 2002, p. 160

PASC-0116


XIV. Intersuperficie curva dal giallo, 1965 acrilico su tre tele sovrapposte, cm 120Ă—80Ă—6 PASC-0302


XV. Intersuperficie curva bianca, 1966 acrilico su tre tele sovrapposte, cm 133×133×6

Esposizioni: Galleria La Nuova Loggia, Bologna, 1967; Palazzo Strozzi, Firenze, 2002 Bibliografia: Alviani, Bonalumi, Castellani, Scheggi, La Nuova Loggia, Bologna, 1967 ill. pp. non numerate; Bologna 1976, n. 30; Firenze, 1983, p. 31; AA. VV. Continuità – Arte in Toscana 1945-1967, a cura di Alberto Boatto, Firenze, 2002, p. 123; Parma, 2002, p. 183 PASC-0170


XVI. Intersuperficie curva dal blu, 1967 acrilico su tre tele sovrapposte, cm 100×100×6,5 PASC-0332


XVII. Intersuperficie curva bianca (1967) fogli di PVC sovrapposti, cm 89,5×257,5×5 Bibliografia: Parma, 2002, p. 122 PASC-0149


XVIII. Intersuperficie rossa (Struttura modulare),1969 smalto su alluminio, cm 51Ă—51Ă—12, Esposizioni: Galleria del Naviglio, Milano-Venezia

PASC-0459


XIX. Intersuperficie bianca (Struttura modulare), (1969) smalto su alluminio, cm 51Ă—51Ă—14 PASC-0460


XX. Senza titolo (Intersuperficie curva rossa), 1969 acrilici su tre tele sovrapposte, cm 120Ă—80Ă—5,5 PASC-0458


XXI. Intersuperficie curva, 1969 acrilico su tre tele sovrapposte, cm 80,3×60,5×6 PASC-0330


XXII. Intersuperficie, 1968 cartoni fustellati, cm 102×102×11 PASC-0303


CARTE


1.Senza titolo, china su carta, cm 24,6×31,1 PASC-0342

2.Dal cancello di…, china, inchiostro e pastello su carta, cm 99,7×66, al verso iscritto: Disegni di Paolo 1957 – 1960 PASC-0340

3.Senza titolo, china su acetato su carta cm 29,5×19,5, firmato, PASC-0341

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7.Luce-contrazione, 1957, china e inchiostri su carta, cm 23,6×32,5, firmato, PASC-0346 8.Senza titolo, 1958, tempera su carta cm 48,5×26,2, firmato, PASC-0347 9.Senza titolo, 1958, china su carta cm 49,8×30, firmato, PASC-0348

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4.Luce-contrazione, 1957, china e inchiostro blu su carta, cm 23,6×32,5, firmato PASC-0345

5.Senza titolo, 1957, tecnica mista su carta firmato, cm 48,5×66, al verso progetto di architettura a matita, PASC-0343

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6.Senza titolo, 1957, china e inchiostri su carta, firmato, cm 50×75, al verso iscritto: Poligenetica obliterazione dell’io cosciente che si infutura nell’arcaico dell’Io Morfismo universale, PASC-0344

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10. Senza titolo, 1958, china su carta, cm 30,8×23,1 firmato, PASC-0350

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11. Senza titolo, 1958, china su carta, cm 28×11,8 firmato, PASC-0349

13. Senza titolo, 1958, china su carta, cm 30,6×24,2 firmato, PASC-0352

12. Senza titolo, 1958, china su carta, cm 33,6×24,4 firmato, PASC-0351

14. Senza titolo, 1958, china su carta, cm 41,6×12,5 firmato, PASC-0353

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15. Situazione-esistenza, 1958, inchiostro seppia, cm 31,4×23,4, firmato, al verso: piccolo schizzo in seppia con iscrizione illeggibile, firmato e titolato PASC-0354

16. Situazione-esistenza, 1958, inchiostro seppia cm 23,5×31,6, firmato, al verso titolato, PASC-0355

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17. Senza titolo, carboncino e pastelli a cera su carta, cm 24×33, firmato, PASC-0356

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18. Senza titolo, 1959, pastelli a cera, penna a sfera e matita su carta, cm 24×33,6 firmato, PASC-0357

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19. Senza titolo, 1959, tempera su carta, firmato cm 61,1×95,1, PASC-0358 20. Senza titolo, china su carta, cm 27,5×21,6, firmato PASC-0359

21. Senza titolo, 1959, tempera su carta, firmato cm 94×64,5, PASC-0360 22. Senza titolo, 1960, olio, tempera e inchiostro litografico su carta, firmato, cm 92,6×62, PASC-0361 23. Senza titolo, 1960, tempera su carta, firmato cm 65×93,8, PASC-0362

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24. Tempera 13, tempera su carta, firmato cm 100,4×21,5, al verso titolato, PASC-0365 25. Tempera 18, tempera su carta, firmato cm 99,7×27,5, al verso titolato, PASC-0366 26. Senza titolo, china su carta, cm 61×80,2,

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27. Tempera 3, 1960, tempera su carta, cm 50,3×29,7 al verso taches di inchiostro blu e titolato, PASC-0364

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28. Senza titolo, tempera e china su carta cm 22,4×28,6, PASC-0368 29. Senza titolo, collage e tecnica mista su carta da pacchi, cm 66×49,5, PASC-0367

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30. Senza titolo, 1960, china su carta cm 24,1×27,2, firmato, al verso: disegno con penna a sfera, firmato e datato 16 gennaio ’59, PASC-0370 31. Senza titolo, 1960, china su carta cm 24,1×27,2, firmato, al verso: disegno a taches con inchiostro seppia e fuxia con iscrizione “HO SCRITTO / PERCHÉ NON HO PARLATO / MI PIACE / FORSE È DOLORE”, siglato TW.S ’59 firmato 29

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32. Senza titolo, 1960, china su carta cm 37,4×27,1, firmato, sul verso: volto femminile stilizzato, disegno a china firmato, PASC-0369 33. Senza titolo, 1961, inchiostro litografico su carta, cm 27,9×22, firmato, PASC-0372

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34. Traccia movimento, inchiostro litografico e tempera su carta, cm 21,5×27,5 monotipo 1/1, PASC-0373

35. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello su carta, cm 21,6×27,6 monotipo 1/1, PASC-0374 36. Senza titolo, inchiostro litografico, tempera e pastelli su carta, cm 22,3×28,3 PASC-0375

37. Senza titolo, inchiostro litografico e porporina argento, cm 22,3× 28,4 PASC-0376

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38. Senza titolo, inchiostro litografico, porporina argento e penna a sfera cm 22,3×28,4, PASC-0377

40. Senza titolo, inchiostro litografico, porporina argento, penna a sfera e pastello cm 28,3×22,3, PASC-0379

39. Senza titolo, inchiostro litografico, porporina argento, penna a sfera e pastello cm 22,3×28,4, PASC-0378

41. Senza titolo, inchiostro litografico, porporina argento, penna a sfera e pastello cm 22,3×28,4, PASC-0380

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42. Senza titolo, inchiostro litografico, porporina argento, penna a sfera cm 22,3×28,3, PASC-0381 43. Senza titolo, inchiostro litografico, porporina argento, penna a sfera cm 28,3×22,2, PASC-0382 44. Senza titolo, 1961, inchiostro litografico e inchiostro a china rosso su carta cm 27,9×22, PASC-0383

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45. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello su carta, cm 22,2×28,3 monotipo 1/1, PASC-0384 46. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 22,3×28,4, PASC-0385

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47. Senza titolo, inchiostro litografico, tempera e pastello, cm 22,3×28,3, PASC-0386

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50. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello, cm 22,3×28,3, n. 3496 monotipo 1/1, PASC-0389 51. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello su carta, cm 22,3×28,3, su carta cm 39×49, firmato, monotipo 1/1 PASC-0417

48. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 28,3×22,3, PASC-0387

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49. Senza titolo, inchiostro litografico, tempera e pastello, cm 22,1×28, PASC-0388

Provenienza Quadrante, Firenze, riportato nell’elenco dell’inventario delle opere della galleria, elencato in Susanna Ragionieri, Attraverso l’Informale – Quadrante: Firenze 1961-1964, Edizioni Il Ponte, Firenze 2003, n. 150, p. 95 52. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 22,2×28,3, PASC-0390

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53. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 28,1×22,1, PASC-0391 54. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 28,4×22,3, PASC-0392 55. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello, cm 21,6×27,6, monotipo 1/1 55

PASC-0393

56. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello, cm 21,6×27,6, PASC-0394 57. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello, cm 21,6×27,6, monotipo 1/1 PASC-0395

58. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello, cm 21,6×27,6, monotipo 1/1 PASC-0396

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59. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 21,6×27,6, PASC-0397 60. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 21,7×27,6, PASC-0398

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61. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 21,7×27,6, PASC-0399

62. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 21,7×27,6, PASC-0400 63. Senza titolo, inchiostro litografico e inchiostro di china rosso, cm 22×28 PASC-0401

64. Senza titolo, inchiostro litografico e inchiostro di china rosso, cm 22×28 PASC-0402

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65. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello su carta, cm 21,7×27,6, monotipo 1/1, PASC-0403 66. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello su carta, cm 21,6×27,5, PASC-0404

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67. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello, cm 21,6×27,6, monotipo 1/1 PASC-0405

68. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 21,6×27,6, PASC-0406 69. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello, cm 21,7×27,6, monotipo 1/1 PASC-0407

70. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello, cm 22,3×28,3, monotipo 1/1 PASC-0408

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71. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello, cm 22,3×28,3, monotipo 1/1 PASC-0409

72. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 22,3×28,3, PASC-0410 73. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello, cm 22,3×28,3, monotipo 1/1 73

PASC-0411

74. Traccia movimento, inchiostro litografico e pastello, cm 22,3×28,3, PASC-0412 75. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello su carta, cm 21,8×27,6, firmato monotipo 1/1, PASC-0421 Provenienza Quadrante, Firenze, Ibidem n. 154, p. 95 76. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello, cm 22,3×28,3, PASC-0413

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77. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello cm 27,6×21,6, firmato, PASC-0414 78. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello su carta cm 22,3×28,3, PASC-0415

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79. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello su carta, cm 21,6×27,6, PASC-0416 80. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello su carta, cm 21,7×27,6, su carta cm 39×49, firmato, monotipo 1/1, PASC-0418 Provenienza Quadrante, Firenze, Ibidem n. 151, p. 95

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81. Traccia movimento, inchiostro litografico, tempera e pastello su carta, cm 21,7×27,6 firmato, PASC-0422

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82. Senza titolo, inchiostro litografico e tempera su carta, cm 22×28, su carta cm 39×49, firmato, monotipo 1/1 PASC-0419

Provenienza Quadrante, Firenze, Ibidem n. 152, p. 95

83. Senza titolo, inchiostro litografico e pastello su carta, cm 22,2×28,3, su carta cm 39×49, firmato, monotipo 1/1 PASC-0420

Provenienza Quadrante, Firenze, Ibidem ill. tav. 25, n. 153, p. 95

84. Senza titolo, olio su carta, cm 21×29,7 84

PASC-0426

85. Senza titolo, inchiostro litografico e olio su carta, cm 21×29,7, PASC-0423 86. Senza titolo, olio su carta, cm 21×29,7 PASC-0424

87. Senza titolo, tempera, olio e inchiostro litografico su carta, cm 21×29,7, PASC-0427

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90. Senza titolo, 1961, olio e inchiostro litografico su carta, cm 34,6×26,2, firmato, PASC-0430 91. Senza titolo, 1961, olio e inchiostro litografico su carta, cm 35×25,2, firmato, PASC-0429 92. Senza titolo, 1961, olio, inchiostro litografico, tempera e china su carta, cm 35×25, firmato PASC-0431

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88. Senza titolo, 1961, tempera e inchiostro su carta cm 28×22, firmato, PASC-0428 89

89. Senza titolo, olio su carta, cm 29,7×21,

PASC-0425

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93. Ricordi quando eravamo, tempera e china su carta, cm15,1×25, firmato PASC-0432

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94. La fine delle cose, china e acquarello su carta, cm 12×17, firmato, PASC-0433

96. Lo specchio delle fate, china e acquarello su carta cm 24×17, firmato, PASC-0434

95. Aprilense, china e acquarello su carta cm 14,8×21,5, firmato, PASC-0446

97. Lepre sul sentiero di guerra, china e acquarello su carta, cm 12×8,5, firmato, PASC-0435

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98. Cuore nascosto di rosa, china e acquarello su carta, cm 12×8,5, firmato PASC-0436

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99. Intenzione notturna, acquarello e china su carta, cm 12,6×17,5, firmato, PASC-0437

100. Gallo ricco, acquarello e china su carta cm 14,7×21,6, firmato, PASC-0438 101. Una tomba etrusca, acquarello e china su carta, cm 8,7×12,5, firmato, PASC-0439 102. Il pudore del morto, acquarello e china su carta, cm 8,7×12,7, firmato, PASC-0440

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105. Omaggio ai trattori, china e acquarello su carta, cm 17,5×24,8, firmato PASC-0443

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103. Canzone per…, acquarello e china su carta cm 17,5×25,2, firmato, PASC-0441

106. Cintura di castità, china e acquarello su carta, cm 15×21,5, firmato, PASC-0444

104. Unglücksfall, acquarello e china su carta cm 25,3×17,5, firmato, PASC-0442

107. Un topo di legno, china e acquarello su carta, firmato, cm 12,6×17,5, PASC-0445

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108. Senza titolo, acquarelLo e inchiostro su carta cm 47,5×34, PASC-0447

110. Senza titolo, tempera e china su carta cm 21,8×27,8, PASC-0449

109. Senza titolo, acquarello e tempera su carta cm 46,3×33,8, PASC-0448

111. Senza titolo, tempera su carta cm 22×28, PASC-0450

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112. Senza titolo (progetto per gioielli) matita su carta, cm 22,1×22,1, PASC-0452

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113. Senza titolo (progetto per gioielli), china, penna a sfera e matita su carta cm 22×28, PASC-0453

114. Senza titolo, 1963 oro, mm 44×61, firmato e datato PASC-0451


PROGETTAZIONE TOTALE AZIONE INTERDISCIPLINARE

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115. Progetto di forme ellittiche costruite su due spirali epicentriche, 1964, matita su carta, cm 43×51,3 firmato. Bibliografia: Luca Massimo Barbero, Gillo Dorfles, La breve e intensa stagione di Paolo Scheggi, Galleria d’Arte Niccoli, Parma, 2002 p 164, PASC-0230


Sartoria di Germana Marucelli, Milano, 1964. Primo ambiente visibile di integrazione plastica all’architettura


ModalitĂ inter-spaziale, 1967 (maquette) Intercamera plastica, Galleria del Naviglio Milano, 1967


Intersuperfici modulari, 1968-69

alluminio smaltato, composto di sedici elementi ognuno di cm 50×50

Proposta di cellula abitativa

progetto realizzato in collaborazione con gli studenti Franco Ferrari, Carlo Ferrario, Maddalena Montagnani, della facoltà di Architettura di Milano, 1968. Il progetto nasce dall’analisi condotta dal prof. Dino Formaggio nel corso “metodologia della visione”


Interfiore

intervento alla manifestazione “Teatro delle Mostre” alla galleria La Tartaruga, Roma, 1968

Interventi Plastico-Visuali

per lo spettacolo Visita alla prova dell’isola purpurea di Bulgakov + Scabia, regia di Maiello Piccolo Teatro di Milano, 1968


Oplà-Stick, passione secondo Paolo Scheggi azione teatro interpretata da Alviani, Bento, Dall’Acqua, Gambone, Simonetti, Troni. Galleria del Naviglio, Milano 1968; “Nouvelle Tendance”, Zagabria 1969

Oplà

azione-lettura-teatro per una strada di Firenze. Enormi lettere-personaggio, escono dalla sala-galleria Flori e invadono le strade di Firenze, 1969


Dies Irae, inquisizione secondo Paolo Scheggi (per l’inquisizione di Atonia, moglie di Giovanni Rose de Villard Chabod – azione balletto, con musiche di Franca Sacchi, in 3 momenti e 12 movimenti) messa in scena al Teatro Manzoni di Milano, teatro del Palazzo degli Estensi a Varese, Space Elettronic, Firenze, 1969

Marcia funebre o della geometria, processione secondo Paolo Scheggi

musiche di Franca Sacchi, per la manifestazione “Campo Urbano”, Piazza del Duomo di Como, 1969


Luna, 1969 lettere in ferro, luci al neon, plexiglas cm 100Ă—190,5


L’Autospettacolo (atto unico del tempo)

regista Raffaele Maiello, scenografo Paolo Scheggi, musicista Franca Sacchi, critico Franco Quadri, per la manifestazione “Nuove tecniche, nuovi materiali”, Caorle 1969


7 spazi recursivi autopunitivi per 7 spazi neutri progettati con l’architetto Mario Brunati, 1970

Contenitore esterno: acciaio inossidabile speculare; contenitore interno: acciaio inossidabile speculare; elementi funzionali: tubo di sostegno in metallo cromato, vasca in plexiglas

…Non c’è notte, per quanto lunga, che non abbia fine… Contenitore esterno: lastre di acciaio corten con imbullonature; contenitore interno: lastre di acciaio corten con imbullonature; elementi funzionale: lastre di acciaio corten con imbullonature

…Gli darò una pietra bianca, e sulla pietra scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceve… Contenitore esterno: marmo sintetico nero lucido; tubi del parapetto in metallo cromato, apparecchiature in porcellana bianca

…Le cavalle che mi portano mi hanno guidato là dove mi spingeva lo slancio della mia nima…


Contenitore esterno: laminato plastico blu opaco; contenitore interno: laminato plastico bianco opaco; elementi funzionali laminato plastico opaco; scivolo in lamiera smaltata blu

…Dissetare e nutrire questi fanciulli immaginati che han solo noi come fortuna… Contenitore esterno: laminato plastico nero lucido; contenitore interno: laminato plastico nero lucido; elementi funzionali: marmo statuario bianco; lungo gli spigoli è fissato un tubo al neon bianco freddo

…Nel centro i lati risultavano chiusi alle spalle perché allora usavano così…

Contenitore sterno: intonaco tipo algalite granulato grigio; contenitore interno: velluto rosso impero; al centro, vasca d’acqua in metallo placcato oro lucido

…Il sangue disegnava un cuore, il cuore disegnava il tuo corpo, il tuo corpo aderiva al mio cuore…

Copia dal vero, 1970

caratteri lapidari su legno laminato plastico cm 60×60


La tomba della geometria

per la manifestazione “Amore mio” Montepulciano, 1970

La piramide

per la manifestazione “Vitalità del Negativo” Palazzo delle Esposizioni, Roma 1970


Il trono

realizzato con Vincenzo Agnetti galleria Mana Art Market, Roma 1970


Seiprofetiperseigeometrie

galleria del Naviglio, Milano 1971


Nota biografica Susanna Fabiani

Paolo Scheggi nasce a Settignano (Firenze) nel 1940 e a Firenze frequenta l’Istituto Statale d’Arte e l’Accademia di Belle Arti. Ancora giovanissimo, già tra il 1958 e il 1960, realizza le prime opere in lamiera, che vennero esposte nel 1960 alla galleria Numero di Firenze e le prime tele - Itinerario plastico prestabilito è la sua prima personale del 1961 alla galleria Vigna Nuova di Firenze -, che anticipano quelle sovrapposte degli anni successivi. Scheggi si muove dalle ultime tendenze dell’Informale e del New Dada per allontanarsene immediatamente, come si allontana dall’ambiente fiorentino, troppo provinciale per un artista curioso e vorace di nuove esperienze. Si stabilisce temporaneamente a Londra (dove conosce le opere di Mondrian e Arp) e vi frequenta un corso di Visual Design. Dal 1961 è a Milano, centro nevralgico dell’arte contemporanea. Qui sotto la presenza imperante di Fontana si respira grande fermento e l’artista vi stabilisce un saldo rapporto di lavoro e d’amicizia con un gruppo di giovani, Alviani, Bonalumi, Castellani, Manzoni, che stimolati dai percorsi artistici di Pollock, Max Bill, Klein, operano in opposizione all’Informale. Essi vennero definiti da Gillo Dorfles “artisti oggettuali”, creatori cioè di “quadri-oggetto” che superavano la pittura figurativa o astratta, fatta di impasti cromatici e materici. Nel 1962 la sua personale alla Galleria Il Cancello di Bologna é presentata da Lucio Fontana. Nei soli tre decenni della sua vita (muore di una malattia cardiaca di cui è già a conoscenza nel 1971 a Roma) e particolarmente dal 1964, anno in cui sposa Franca dall’Acqua, Scheggi condensa un lavoro che, dai primi esperimenti alle ultime “azioni”, rivela il raggiungimento di grande maturità e coerenza artistica. Già dai primi anni Sessanta i suoi interessi si rivolgono oltre che alla pittura, all’architettura, alla letteratura (vedasi la fondazione e la collaborazione a riviste quali Il Malinteso, nel 1960, a Marcatrè

nel 1965, a Nuova Corrente nel 1967, a In nel 1969 e la stesura di un romanzo di poesia visiva dal 1962 al 1965) e al teatro. Nel 1962 a Milano, nell’atelier sartoriale di Germana Marucelli (personaggio di spicco della moda italiana del tempo, artefice della diffusione dello stile optical in questo ambito), sperimenta in architettura il suo progetto di integrazione plastica: moduli spaziali intercambiabili con i quali trasformare lo spazio secondo le diverse esigenze. Lo spazio stesso deve assoggettarsi alle necessità di ricerca formale e di rigore spirituale dell’artista, che esige l’interconnessione tra pittura, design, grafica, architettura e moda. «…Creare un’intersuperficie che raccolga oltre allo Spazio/Tempo anche il senso totale dell’architettura per un “nuovo uomo”…, progettare diventa imperativo assoluto». Si sviluppano i legami con l’architettura, con Mendini e Olivieri impegnati nelle ricerche sulla “progettazione totale”; progetta con Nozzoli Unità di abitazione CECA e l’ampliamento urbano di Bratislava. «L’arte e la società, oltre l’oggetto, in un spazio infinito e fruibile». Nel 1964 ha luogo la sua prima personale all’estero, alla galleria Smith di Bruxelles, cui ne seguono molte altre, tra le quali si ricordano, nel 1966, Section Constructiviste nel “XXI Salon de Realitées Nouvelles”, presso il Museo di Arte Moderna di Parigi; Nueva Tendencja Italiana, curata da Umbro Apollonio per il Museo di Arte Moderna di Buenos Aires; Weis auf Weis alla Kunsthalle di Berna; Realtà dell’immagine e strutture della visione, curata da Maurizio Calvesi alla galleria Il Cerchio di Roma. Viene invitato alla XXXIII Biennale di Venezia. Critici importanti seguono costantemente il suo lavoro, da Celant a Trini, da Bonito Oliva a Fagiolo dell’Arco, ad Argan. Nel 1967 crea Intercamera Plastica, modalità inter-spaziali per integrazioni plastiche all’architettura. Lo spazio si modula, l’opera diventa percorribile. Partecipa a progetti architettonici

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importanti e i suoi lavori sono esposti all’Expo 67 di Montreal, alla Biennale di Parigi, al Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea e alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino, al Museum of Modern Art di Copenaghen. Riceve la cattedra in Psicologia della Forma all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila. I suoi ultimi lavori si legano sempre più alla ricerca in ambito performativo, confermando che la funzione di pittura e scultura sta virando verso espressività che hanno a che fare col teatro ed altre forme di comunicazione ‘visiva’. La rappresentazione come ‘altra arte’ gli permette di riunire tutto ciò a cui si è sempre dedicato: pittura, scultura, architettura, oggetti e ambiente, gesti e coordinamento, per raggiungere un’esperienza totale. Nel 1968 si occupa attivamente di teatro sperimentale col Piccolo di Milano, curando gli Interventi Plastico-Visuali dello spettacolo Visita alla prova dell’Isola purpurea di Bulgakov+Scabia; viene presentata l’azione Garone e Geremia s.p.a., con Gambone, Isgrò e Sacchi alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna e Autospettacolo, in mostra a Carole (1969). Inizia l’uso degli “alfabeti”, la scena dello spettacolo è disseminata di enormi lettere/ suono/parola, vere performances, come l’operazione Oplà-Stick del 1969 (Passione secondo Paolo Scheggi, “azione-teatro”, presentata al Naviglio di Milano e ripetuta poi a Zagabria durante la manifestazione Nouvelle Tendance) e Oplà dalla galleria Flori per le strade di Firenze, con la presenza di lettere-personaggi. Dies Irae,

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Inquisizione secondo Paolo Scheggi e Franca Sacchi, viene presentato al Teatro Manzoni di Milano, al Teatro del Palazzo degli Estensi a Varese, allo Space Electronic di Firenze. In Marcia funebre o della geometria, processione secondo Paolo Scheggi, presentato in Piazza Duomo a Como per la manifestazione “Campo Urbano”, Scheggi presenta un funerale come opera d’arte – una celebrazione alla morte per sé e per tutte le cose ordinate geometricamente. Nell’anno successivo (quello dei progetti con Vincenzo Agnetti Il Trono per la galleria Manaart-market di Roma e Il Tempio), con 7 spazi recursivi autopunitivi per 7 spazi neutri prende spazio la sfera simbolico-politica; realizza La tomba della geometria per la mostra Amore mio a Montepulciano, La Piramide per la mostra Vitalità del negativo a Roma e nell’esposizione dell’Eurodomos di Milano dedica l’ambiente “Ondosa” alla nascita della figlia Cosima-Ondosa-Serenissima. L’ultima mostra-lavoro plastico del 1971 è al Naviglio Seiprofetiperseigeometrie che con Tomba della geometria verrà presentata alla XXXVI Biennale di Venezia nel 1972. Nei decenni successivi, tra le mostre postume si annoverano quella alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna (Bologna, 1976), alla Sala d’Arme di Palazzo Vecchio (Firenze, 1983), alla Galleria del Naviglio (Milano, 1990), alla Galleria Niccoli (Parma, 2002) e nell’anno corrente alle Gallerie Colossi (Chiari), Il Ponte e Tornabuoni (Firenze, 2007).

PAOLO SCHEGGI: THE SPACE BEFORE THE DARKNESS Bruno Corà

The crescendo of exhibitions, studies and critical success that Paolo Scheggi’s works have been enjoying once again of late, after several years of silence, highlights above all what others already considered evident upon his sudden death thirtyfive years ago: Scheggi was an undisputed leading figure in the linguistic renewal of Italian and European art from the 1960s onwards. While this may be becoming increasingly clear to many, it was immediately so to my youthful eyes, due to the sensitive aura transmitted by the artist himself and his work, both ‘full of grace’, as the angel was to say. When I met him with the group of artists who got together in Milan and Rome – counting Castellani, Agnetti, Alviani, Colombo, Kounellis and Marotta – to bring to life the “Vitalità del negativo” (’70) exhibition promoted by the Incontri Internazionali d’Arte international art association in Rome, with whom my own activity was to begin at the same time, Scheggi stood apart from the rest. He was the youngest (if we don’t include Zorio and his peers Boetti, Paolini and Mochetti) and – in a certain sense – was the promising enfant prodige of the generation that had grown up alongside Fontana whose goal between ’59 and ’60 was to wipe out all thinking still marooned in the various expressions of European Art Informel. Not only was Scheggi befriended and admired by his travelling companions, but he also found complicity in his artistic adventures. At the same time as he was providing the Roman exhibition “Vitalità”, set up in the rooms of the Palazzo delle Esposizioni in Via Nazionale, with works such as Intersuperficie curvabianca (Curved White Intersurface, ’63), the black plastic laminate with bronze characters Della geometria (Of Geometry, ’70) and other works from ’62, ’68 and ’70 (amongst which the pyramid Della Metafisica (Of Metaphysics, ’70)), Scheggi was displaying Il Trono (The Throne – ’70) designed and created together with Vincenzo Agnetti, his associate for the occasion, at Nancy Marotta’s Mana art Market gallery in Via del Fiume in Rome. But before that memorable association between artists, Scheggi had already formed others, combining his work

with that of dramatists such as Giuliano Scabia, musicians such as Franca Sacchi, artists such as Getulio Alviani, directors such as Raffaele Maiello and critics such as Franco Quadri. He was always looking for and finding that extra something while conceiving his pictorial and plastic works. It was blatantly clear that his work would head in a direction as unforeseeable as it was sure: towards architecture, design, theatre, environment, and perhaps towards digital art. Indeed, his work anticipated and announced the mathematical, geometrical, verbo-visual and, in a wider sense, multimedia factors implicit in his eagerness to ‘totally project’ space.

The Dialectic Contradiction between Space and Object It is in close relation to that objective of integrally conceiving space that, in a page of his theoretical notes from 1964 written on occasion of the assignment received from the Lombard Regional College of Architects to create a committee to carry out research into “total planning”, we read: The concept (…) of “total planning” has its spiritual but not methodological roots in the series of transformation that architecture has undergone since the first decade of the century. From de Stijl to Bauhaus, from the Lombard group of ’35 to integrated planning, there has been an unbroken series of proposals whose common denominator has been teamwork between various different disciplines. Coordinated work where the planning terms and criteria are laid down beforehand.

If these are the premises for the work that Scheggi would do, starting from that assignment in partnership with the architects Mendini and Olivieri and continuing for several years thereafter, it is not asking too much to wonder how he had got, in just a few years from his debut, to such an advanced point of interconnection with the disciplines that aim to investigate spatiality in all its complexity. The surprising thing is that – almost at the same time as the early spatialist dabblings of the new ’60s Italian avant-garde and in particular as the work begun by Francesco Lo Savio with SpazioLuce (Space- Light) and, in different ways, by Enrico Castellani with Azimuth and, more different still, by Dadamaino – Scheggi was carrying out

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further structural investigation into space-light on a level no inferior to those named above. All these most highbrow of propositions, together with others pointing in the same direction, though aimed more at ‘constructivist’ primacy and structure (for example Uncini), deserve separate reflection as to the comparisons that could be made, both in terms of plastic formulation and theory, with the American minimalist current. To a standard by no means less intense, and with an intuition definitely no less interesting than that of the Americans Donald Judd, Sol LeWitt, Carl Andre, Dan Flavin and Robert Morris, or Lo Savio, Castellani and Uncini, Scheggi anticipated and defined many of the basic features of minimalist conceptualism. Though this is not the right place for an in-depth look at the matter, which can nevertheless always be dealt with at another time, it will be better to take it into account in any future considerations on the wider context of Scheggi’s work compared to that of Lo Savio or others. But, where had Scheggi’s tendency towards “total planning” come from? If we stick to the unassailable facts of his works and take a few steps backwards to before his first overlapping acrylics on canvas Per una situazione (For a Situation, ’61) and the first Intersuperfici (Intersurfaces) of ’62, we can see that he found the route for his work to follow in the short period of time from ’58 to ’61. During this time he rid his outlook of informel painting, as well as protoplastic reliefs based on overlapping sheets of metal, assemblage and mixed techniques as a whole, to arrive at the Per una situazione (’61) cycle based on acrylics on overlapping canvases eloquently contrasting with the sheet metal Per una situazione (’60). Of those three or four years we are aware of a wholly relative number of works, some of which are presented in this exhibition where he “returns” to the city of his birth. In addition, we know of sporadic testimonies such as that of Fernanda Pivano, who traces a more literary than critical profile of the artist. Nevertheless, it is a precious testament as it covers the young Scheggi’s feverish, solitary and tough period between ’59 and ’60. Thanks to Pivano’s portrait of ‘large pictures, with a touch of Pollock’ and ‘examples of new-Dadaism’ that she observed on her visit to Scheggi’s first studio as a youth in the family house in Settignano on the hill above Florence, we can identify with the canvases she saw on that occasion, such as Opera numero 2 (Work Number 2, ’59) and assemblages of metal sheets such as Situazione esistenza (Situation

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Existence, ’60). Those examples of oil painting, in which lumps of coloured matter and a moderate use of dripping mix with marks/gestures and informal tâches, without doubt a reflection of Pollock’s action painting, and also those sheets more evidently showing lessons learned from Burri’s compositions Sacchi (Sacks) and Ferri (Iron), rather than from the combines of his rival Rauschenberg, show us how Scheggi’s apprenticeship followed a precise path and was anything but naïve, as he already had skills in layout and structure, and was actively looking for his own distinctive language. In my opinion, he put everything behind him in ’60 with that elementary but balanced juxtaposition of carved metal sheets and curved, round vacuums in the work Per una situazione, to start his future lexicon from scratch. From that base of bare and laminar plasticity to the “warmer” painting-plastic version of acrylic on overlapping canvases in Per una situazione (’61), it was a short step brimming with similar formalities. But this time Scheggi had achieved, with amazing speed, the prototype for all future morphology, the spatiality already punctuated by parts of interconnected surfaces and areas of reflected brightness. The system of overlapping canvases in Per una situazione (’61), in my opinion, dealt with and resolved – after Lo Savio’s Filtri (Filters) and to a different degree than with ‘chromatic-energetic absorption’ -, the contradiction that Argan was to define the ‘dialectic between space and object’. His perfecting of a protoplastic organism, like the almost monochrome one, placed Scheggi’s work in the sphere of those “objectual” tendencies which aimed to give artistic creations the features of both a painting and a raised morphology, claiming a wider and more complex spatiality than an aesthetic “thing”. Please observe that, while with his “sheets of metal”, Scheggi had already placed himself in the condition to provide the work with its own non-representative plasticity, as of the monochrome Per una situazione onwards, there would no longer be any traces of a frame in all his “intersurfaces” and his “reflected areas”, with the precise aim of underlining their entrance into the dimension of objectuality. His adhesion to Merleau Ponty and Sartre’s phenomenology, together with his ‘ideological commitment in a condition of culture’, bring about that change of direction that drove Scheggi to give his work a civil quality, as had already happened to Lo Savio when he made his Filtri and Metalli (Fil-

ters and Metals, ’60). The Roman artist had indeed written: The filters, the addition of various semi-transparent surfaces, prompt real contact with the space around, but only in the metals can the action specifically become three-dimensional, at the same time creating clear social participation with objects that remain in a limbo of usefulness, but whose quality in their civil dignity is unmistakeable.1

The ideological and poetic strain that Scheggi put into his work, which was coming into shape at that point in time, appeared evidently both in his introduction of himself at his personal exhibition “Intersuperfici curve a zone riflesse” at the Galleria Il Cancello in Bologna (1962) and in the letter written by Lucio Fontana for the occasion; in this the Italo-Argentinian master turned to Scheggi with esteem and encouragement to make some considerations that were to become true incitements: … the arts are but one manifestation of intelligence, the reason for being “man”. There can be no social evolution without the total evolution of man (…) remember to be humble, very humble, in time, we are “nothing”.2

Scheggi’s research to develop his intuitions and creations was not only listened to by the artists closest to him, most of all Alviani, Castellani and Bonalumi, but also by poets like Eugenio Miccini and Lamberto Pignotti, or by musicians like Franca Sacchi, Sylvano Bussotti, Giuseppe Chiari and Vittorio Gelmetti. His participation in exhibitions on monochrome painting (in the Florence gallery Il Fiore), together with Fontana, Yves Klein, Piero Manzoni and Giulio Turcato, and other important appointments in Italy and in Belgium brought his work to the attention of the general public. Against this background, we owe to Carlo Belloli the first proper reading, at least in a lexical sense, of the phenomenology and the principles used by Scheggi in his intersurfaces; Belloli, who was to invite Scheggi to partake in the exhibition “44 protagonisti della visualità strutturata” (’64) at the Galleria Lorenzelli in Milano and, subsequently, in the XXI Salon de Realitées Nouvelles, Section Constructiviste for the Musée d’Art Moderne in Paris (’66), was also the author of the preface to Scheggi’s exhibition at the Galleria Il Deposito in Genoa, for which he wrote:

The intersurface concept puts Scheggi’s work in a particular morphological condition between a relief, a pierced surface and a europlastic object. Scheggi chooses curved shapes or shapes derived from rotations of logarithmic spirals and he cuts out the outlines of the areas corresponding to their spatial boundaries on canvas surfaces. Scheggi overlaps three or more levels and fastens them together to make a single object (…). What comes about is a complex and unusual visual depth where light and shade meet in the dialectic position of protagonists of these surfaces’ inner lives joined in a single structural body.3

In his short but accurate examination, Belloli did not fail to describe every phenomenological aspect of the processes Scheggi went through to ‘construct’ his intersurfaces. He outlined the possible route taken by the light from the curves formed by the cuts shaping the canvases, the reflections of the shadows at various degrees within the cavities, the shapes highlighted in relation to the shadows and the defined spatial ‘fields’: Scheggi is looking for an inner strength to animate his overlapping of planes of the same colour and he manages it (…). A plastic condition of a certain transcendence comes to life among Scheggi’s surfaces, already free from outside reference to obtain that spiritual rigour he is aspiring towards.4

While Belloli is one of the first to use the “structured visuality” title, which really does fit in with Scheggi’s work, the personal exhibition at the Boccadesse gallery in Genoa had the merit of showing a consolidated version of the results achieved up to that point and was able to outline both the different monochromatic versions of the curved intersurfaces, and some “spatial composer” projects. Following that exhibition, the next year during the display at the Centro Arte Viva in Trieste, Scheggi noted his “10 proposals for the circle”, which reads as follows: Objects are square and derive from operations on a square. Space is divided by rotations of logarithmic spirals, logarithmic parabolas, modular and continual relationships. Inscribed shapes have elementary structures.5

Scheggi’s notes reveal that his systematically experimental research ‘draws its spiritual but not methodological origins from elementarism and concretism’ and also that, far from wanting to make it a reason for breaking it off, if anything he intended to continue the experiences in order to obtain ‘structures aimed at extending perception’.

Francesco Lo Savio, Spazio-Luce: evoluzione di un’idea, De Luca Editore, Rome 1962, vol. I, p. 9. Lucio Fontana, Lettera a Scheggi, presentation for the Paolo Scheggi exhibition at Il Cancello gallery, Bologna, 1962, published again in Paolo Scheggi, catalogue for the exhibition at the Galleria d’Arte Moderna in Bologna, October-November 1976, p. 13. 3 Carlo Belloli, Paolo Scheggi, catalogue for the exhibition at the Galleria Il Deposito, Genoa, from 26th May 1964. 4 Ibid. 5 Paolo Scheggi, “Proposte sul cerchio” (notes), published in Paolo Scheggi catalogue for the exhibition at the Galleria d’Arte Moderna in Bologna, cit., p. 16. 1 2

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The statement declaring that the phenomenological and optical-physical effects boost the Gestalt factor of his experiences placed Scheggi’s works on an aesthetic-experimental axis where the operating methods were performed with the aim of forming ‘greater cognitive dialectics’ (Scheggi) rather than looking for artistic qualities. Scheggi’s itinerary then started to stray more frequently into a great range of spheres, for example touching on electronic and concrete music, and beginning to combine with architecture.6 Noticing this tendency were Umbro Apollonio and Germano Celant, who did not fail to underline the artist’s unusual behaviour at the presentation of the exhibition at the Galleria del Cavallino in Venice. While Apollonio - in truth after some situational considerations – restricted himself to repeating the terms of the discourse formulated by Scheggi based on: Module and Structure, logarithmic parabola and its overlapping at calculated distances, a pure surface with frontal openings to another surface of the same pureness and with the same holes…

Celant instead immediately underlined Scheggi’s ‘clear refusal of the aesthetic act as the end target of expression’ and also highlighted how the artist tended to raise awareness of the development of the image, its progress in time so that it comes to fruition without any iconological leaps (…) for simple and elementary reasons.7

Meanwhile, he had begun to integrate his work with architecture. This key passage in Scheggi’s experience had started with planning the rooms for the Marucelli dressmakers in Milan, where he had also designed a “Compositore euro-cromo spaziale” (Euro-chrome Spatial Composer) for the experimental cinema hall at the XIII Triennale, invited by Bruno Munari. In these experiences and in the research into “total planning” Scheggi dealt with the problem of the ‘dialectical contradiction between space and object, the absurd (yet only thinkable) definition of the void’ (Argan).8 Between ’63 and ’64 it was not uncommon for Scheggi to use collages of curved shapes of can-

vases overlapping canvases in his work, a sort of superimposing of surfaces in a positive instead of negative manner, with the reflected zones effectively overhanging in space rather being depressed. At the XXXIII Biennale in Venerai (1966), where he was invited to share a room with Bonalumi, Scheggi also displayed some versions of Intersuperficie curva bianca (Curved White Intersurface, ’66), Intersuperficie curva dall’azzurro (Intersurface Curved by Blue) and Intersuperficie curva dal rosso (Intersurface Curved by Red), all strictly square in shape and of the same dimension. His work by all means deserved to be displayed alongside that of Fontana, Bonalumi and Castellani in the thoughts that Gillo Dorfles dedicated to the “Pittura-oggetto a Milano” (Picture/Object in Milan), in the exhibition at the Arco d’Alibert art gallery in Rome (’66): (…) we (…) all have great respect for personalisation, but we prefer the route (…) of “object painting”: of the “picture/ object”, the painting that is an integrative element of the habitable space, which may therefore act as modulator in a dimensional situation or also simply as an exquisite plasticchromatic element resulting from the meeting of shapes and colours, always aroused, nevertheless, by careful and preordained structural planning.9

At this point, when he began his partnership with the firm Nizzoli Associati, he was more sure of his work and was not bound to simply creating packaged creations. With this firm he came up with the plans for the ECSC housing project “Unità di abitazione CECA” and above all for the new district in Bratislava. This encouraged him to create an Intercamera plastica (Plastic Interchamber, January ’67) which was the natural follow-on from the Contenitore spaziale rosso (Red Spatial Container, ’64) made for the Sartoria Marucelli in Milan together with other work on that atelier’s architecture. The Intercamera plastica – writes Scheggi – is a discourse that links back in time to some of my research on volumetric interferences, parallel to the first “curved intersurfaces” (…) Later, when the curved intersurfaces became “spatial models”, the two branches of research found a common method, in the end becoming totally integrated and therefore triggering new research.10

From spring 1964 to the end of 1965, Scheggi took part in numerous initiatives, amongst which: in Florence, the exhibition “Musica Elettronica e Concreta + Arte Visuale”, invited by Umbro Apollonio, Pietro Grossi and Lara-Vinca Masini; in Brussels at the Smith gallery, in Milan at the first experience of plastic integration into architecture at Germana Marucelli’s atelier and then at the exhibitions “Null = zero” in Amsterdam, “Nouvelle Tendance 3” in Zagreb, “Art Rental” at MoMA in New York and “Perpetuum Mobile” at the Obelisco in Rome. 7 Umbro Apollonio and Germano Celant, in Paolo Scheggi, catalogue for the exhibition at the Galleria del Cavallino, Venice, 15th-24th May 1965. 8 G. Carlo Argan, in Paolo Scheggi, catalogue for the exhibition at the Galleria d’Arte Moderna in Bologna, cit.; the handwritten text is shown on p. 4 dated September 1976. 9 Gillo Dorfles, Pittura Oggetto a Milano, catalogue for the exhibition at the Arco d’Alibert gallery, Rome, 1967. 10 Paolo Scheggi, “Nota per l’intercamera plastica”, published again in Paolo Scheggi, catalogue for the exhibition at the Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Bologna, cit. 6

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The catalogue for the exhibition of this work at Il Naviglio gallery in Milan only features the yellow colour model and Apollonio writes: This plastic interchamber of Scheggi’s is therefore a model (…) it is a room, very simply a place, with varied appearances, made homologous by simply using the same colour to cover them. On its wall surfaces the dotted holes with the resulting shadows, set out at different cadences, more or less close together, more or less in a straight line, accompany alternative coincidences and conditions…11

Even though Apollonio promised that it was definitely an experiment for builders/architects, the plastic interchamber was instead to become, that very same year, one of the most stimulating attractions in the exhibition on art environments “Lo Spazio dell’Immagine” (Image Space) organised in Palazzo Trinci in Foligno which was destined, due to the participation of Fabro, Castellani, Pistoletto, Scheggi himself and others, to become a pioneering and successful event in environmental art.

From Plastic Spatiality to Interdisciplinary Action Like for many of us, contemporaries but slightly younger than Scheggi, for other writers, artists, men of the theatre and young people still involved in their studies, the peak reached in ’67-’68 was crucial and determining in the development of the paths already undertaken. And so it was for Scheggi’s work which, having got to the fateful 1968, found that it had to face up to the ferment that had appeared in Italian and international society in the meantime for the many well-known reasons that made that period a historic watershed. The most advanced Italian artistic scene, not unlike in France, Germany or the United States, had gathered important stimuli which had matured in activities for the theatre, experimental music, amateur filmmaking, visual and concrete poetry and dance, in turn providing new conceptions for the formalisation of images and spatiality. Theatrical training like Grotowski’s Teatro Povero, Beck and Malina’s Living, the experiences of Kantor and Barba, but also the Piccolo in Milan directed by Strehler and an exceptional proliferation of groups and authors with different individual leanings had opened up new spheres of possible interaction for the visual arts. It is against this background that, after taking part in the original Teatro delle Mostre (’68) initia-

tive, organised by La Tartaruga gallery in Roma and directed by Plinio de Martiis, Scheggi saw that opening towards interdisciplinary action as a way of checking his results, and so he stepped into the domain of theatrical experimentation. While Scheggi’s part in the Roman exhibition, entitled Interfiore (Interflower - circles hanging in the dark like bright flowers leading the observer to wander around them in a space undefined to the perception), was considered the ‘most abstract invention’ (Calvesi), his experiences immediately after that saw him committed to making his work more ‘functional’, by helping to come up with scenery within a truly theatrical space. His meeting with Giuliano Scabia was decisive in starting up an intense partnership which made the show “Visita alla Prova dell’isola Purpurea” (Trip to the Rehearsals of Crimson Island) by Bulgakov + Scabia at the Piccolo Teatro in Milan the occasion for creating some ‘plastic-visual operations’ (’68). The association with Scabia – which he would keep alive even after Scheggi’s death, by repeating some of his “actions” or writing poems dedicated to him – encouraged Scheggi to introduce his plastic experiments into the theatre space. He wanted to make them functional for shared reasons, and in a way “rewrite” the theatre and ‘counter the deliberate immobility of the machines and the traditions of the stage space’ (Scheggi). Without interrupting his exhibition activities at numerous museums and European galleries, Scheggi also intensified his incursion into the territory of theatre action and creating scenery, making all his efforts relating to this new trend combine increasingly with the integral dynamism of spatial creation. In the last two years of his life, from ’69 to ’71, Scheggi designed or created a series of events for the street, the theatre or the traditional space of the art gallery, almost as if to expand the original idea of his debut. To a large extent all this work included the hidden or explicit feeling forewarning his death, almost like a fast-track appointment with the unavoidable meeting with his maker. But this did not mean Scheggi lived these experiences with less intensity. The sensation that one gets from reading his theoretical texts and the testimonies of that period is that, on the contrary, he seemed to want to “eat up” the new occasions for plastic and poetic expression in a drive where

11 Umbro Apollonio, Paolo Scheggi, catalogue for the exhibition at the Galleria d’Arte Naviglio 2, Milan, 9th-22nd January 1967.

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genius, irony, poetic-ideological tendencies, visual imagination and intellectual vigour blended together. To paraphrase the political theatrical work of Erwin Piscator, who had practised on the plays of Ernst Toller like Hoppla, wir leben! (1927), Scheggi staged Oplà-stick, Passione secondo Paolo Scheggi (Oplà-stick, Passion according to Paolo Scheggi) at Il Naviglio gallery in Milan, interpreted by Getulio Alviani, Terezha Bento, Franca Dall’Acqua (who he married in ’64), Gianni Emilio Simonetti and Troni (narrating voice); the action was divided into nineteen movements and took place inside one of Scheggi’s “white containers”. Together with the actors’ gaunt gestures, other transparent structures, black screens and white letters provided a funereal version of the socialist movement. A version of Oplà was taken into the streets of Florence with large white letters, already present in the play in Milan, parading out of Galleria Flori towards the old town centre. On that occasion Lara-Vinca Masini wrote: It is without doubt that today there are many possible meeting points between current artistic research and the theatre (precisely because art has to project itself further into a dynamic that appears as life); but on the other hand, I am not wholly convinced that theatre is this and that, therefore, theatre is the right path for figurative art.12

But Scheggi did not seem to hold any doubts. In Dies Irae (’69), an action in three moments created with Franca Sacchi and put on in Varese, Milan and Florence, death appeared to “triumph” in its existentiality and finally in its own death! In the Marcia funebre o della geometria (Funeral or Geometrical March, ’69), again alongside Sacchi, the solid volumes of the cube, the sphere, the pyramid, the cone, the cylinder and the parallelepiped wearing red, white, purple, black, blue, yellow clothes and animated by actors, broke out among the people in Como with the funeral march transmitted from loudspeakers in that “Campo urbano” event organised by Luciano Caramel, which, among others, Giulio Paolini, Bruno Munari, Gianni Pettena, Ugo La Pietra and Giuseppe Chiari took part in. Fifteen years later, in the exhibition dedicated to Scheggi by the city of Florence in the Sala d’Arme in Palazzo Vecchio (1983), in a beautiful poetic text Chiari clearly showed his positive judgement both of the initiative and the effective linguistic capacity of Scheggi’s Marcia funebre:

Scheggi is not a “concrete” artist. He is not afraid of the theatre. He considers it an experience he has to try. But he does not fall in the theatre, his works are “points” of balance. A balance that I am unable to explain. But that I can see. I consider Scheggi a conceptual artist.

How right Chiari was with his concise assessment, in identifying the character of Scheggi’s work. Confirming this was the “active” interest in those years ’69-’70 of an irresolute and conceptual artist like Vincenzo Agnetti, by now an unswerving companion of Paolo Scheggi as Alviani had been in the decisive days of his artistic growth and his growing affirmation. And new chapters were written thanks to Scheggi’s impulse to plan, as he started a partnership with the architect Mario Brunati based on a mythicalpolitical commitment. Together they designed both the Centro Culturale per un Insediamento Abitativo cultural centre in Pisa, and 7 ambienti autopunitivi per 7 spazi neutri (7 Self-punishing Environments for Neutral Spaces). At the same time however, his activity of visualising the immaterial entity of death was no less intense. La tomba della geometria (The Tomb of Geometry, ’70), La piramide (The Pyramid, ’70) dedicated to Metaphysics, Il Trono (The Throne, in the shape of a pyramid) and Il Tempio (The Temple), the last two designed and created alongside Vicenzo Gemetti, are works that appeared as emblematic morphologies of studies of death. In designing and creating them Scheggi made the shape and colour lessen the distance between them and his feeling of disappearing, but they were also gestures which warded off the considerations of the cognitive metabolism of art. And so I met Scheggi in this particular moment of his life and work and like many of his admirers, like his closest friends, I cannot manage to distinguish between the value and strength of his artistic determination and the intensity of the feeling of esteem and brotherly friendship which had arisen in me in those months between November ’70 and the day of his death in Rome. Things dissolve and by integrating become defined. While the creation of the Ondosa environment for Eurodomus in Milan on occasion of the birth of his daughter Cosima – Ondosa – Serenissima and the plastic works making up the exhibition “6profetiper6geometrie” (6prophetsfor6geometries) (’71) were

the generous and courageous compendium of an artist who, while leaving the stage staked a claim on it once and for all with a work as short as it was intense, in my view Scheggi’s conceptual masterpiece remains that Autospettacolo (Self-spectacle) brought to the public as a “unique act in time” in Caorle in the summer of ’69. In this, the attempt to ‘make the visitor, the author, the casual passer-by an

osmosis of show-act-time’ (Scheggi) tallied with and went well beyond his death, with great farsightedness and premonition, arriving at the present day in which ruling satellite eyes and ears weigh upon our every thought and gesture and we are implicated but at the same time ousted and bewildered by the self-spectacularity of everyday. Oplà, Scheggi is more present than ever!

12 Lara-Vinca Masini, in Oplà – azione – lettura – teatro + intersuperfici modulari, catalogue for the exhibition at the Flori gallery, Florence, 1969.

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PAOLO SCHEGGI Lara-Vinca Masini

The Paolo Scheggi exhibition that Andrea Alibrandi is organising at the Galleria Il Ponte is the second that Florence has devoted to him since the one I presented in ’83 at the Sala d’Armi in Palazzo Vecchio as part of the “Made in Florence” event. It is mainly based on the artist’s “Papers”: a corpus of 115 works that go from ’57 to ’61, the year in which Scheggi left Florence to go to Milan. There are 20 other pieces (from ’59 to ’67), almost all on display for the first time, which include works in sheet metal, canvas, on linen paper and aluminium, and in PVC, documenting the evolution of his research prior to his work for the theatre, his “actions” and his installations. The first papers, starting from those done at the age of seventeen, all display ongoing research, full of vitality, extraordinary maturity in the way they are composed, in how the images, the marks, the colour is laid out, in his grasp of the language. A refined and very fresh touch of Art Informel seems to unite gestural expressions and Tachisme in a crisp and successful marriage, with hints at times of the most sensitive new-Dadaism. A series of works display almost heraldic lines, with signs and shapes already alluding to his future “phonemes” and bringing to mind the symbols and alphabets of archaic populations. In some works, in Indian ink on paper, it is just possible to make out images which coolly thrive in playful irony, obtained using just a few extravagant, darting marks which almost seem out of line. In some a single long, black, scratching mark cuts vertically through the sheet, giving the composition a perfect identity. Beautiful, extremely delicate watercolours show profound assimilation and the desire to continually measure up to what has gone before. Some achieve a lightness of touch that bring to mind Bissier. Among the works in sheet metal, begun more or less in the same years as Burri was making his (which shows the young Scheggi’s attention to what was happening on the art scene), there are some of a rare intensity, and they take on a particular importance in his work. Overlapping sheets, at times cut into curved sections that already tend to create a sort of intersurface, announce the line of research

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he had just begun, depicted in the exhibition in a series of works that exemplify the forms, the colour variations that he met on his way… On reading the critical texts of the artists, friends of Paolo Scheggi, contained in the beautiful book devoted to his work by the Galleria Niccoli in Parma in 2003, a book which also contains the first general catalogue of his works, I found a short recollection by Giancarlo Calza, the son of Germana Marucelli, the famous and ingenious stylist too soon forgotten. I remember some of her catwalk shows: the models wore jewellery by Pietro Gentili, another artist who at the time was using his mirrored circles to formulate a sort of reverse of Fontana’s “space beyond”, by projecting it towards the spectator. We must also thank Germana Marucelli for being the inventor of prêt-à-porter, a title later claimed by others, and introducing Italy to “Op” fashion, with beautiful clothes designs by Getulio Alviani, one of which, a gorgeous azure shift dress with two blue spirals - something I could still get away with wearing then - Germana kindly wanted to give me as a present. Calza’s words remember Paolo Scheggi’s arrival in Milan, at the age of twenty, a guest of Germana, and the brotherly relationship that sprang up between the two of them. But he also remembers that, shortly after Scheggi’s arrival in Milan, ‘a great cardiologist who was close to him told him that with an operation, which was risky however, he could have defeated the illness that otherwise would have inexorably condemned him after the age of thirty; he refused, even the smallest amount of risk was too much’. I do not think that he refused because he was scared or even because ‘at the age of twenty, thirty seems an age away’, but because in the ‘infinite awareness’ which McLuhan attributes to artists, he did not intend to jeopardise the possibility of realising his extremely hard, and short, art project, which he already considered ‘his life’, anticipating ideologies that were already in the air (just think of Beuys). He had left Florence, still stubbornly and docilely entangled in the memory of a great past which,

instead of being, as it should be, an incentive and model of behaviour and creativity for making a present and future worthy of that past, had become into a sort of ball and chain and excuse for taking it easy. This is still the case today (this is not the right place to speak of the even more disastrous current conditions caused by aggressive building falsely and arrogantly reputed to be “modernisation”). From the middle of the ’70s until the ’80s, in Florence too something had changed: student protest; the birth of “radical architecture” which tended to highlight the situation of crisis in architecture, falsely connected to the last manifestations of what had transformed from Rationalism into “International Style” and into speculative building; the establishment of new galleries, Quadrante, Schema, Zona, L’Aquilone…, embracing a new relationship with the contemporary international scene with even more open arms than the institutions. I think that this openness on the part of the institutions ended with “Umanesimo, Disumanesimo nell’arte contemporanea, 1890-1980”, which I organised in Florence in the very year of ’80 upon the desire of Franco Camarlinghi, then the municipality of Florence’s councillor for culture. Most Florentine artists still leave the city to look for new possibilities elsewhere. Many keep Florence as a base and generally continue to work with other cities in Italy and abroad. As of ’61 Scheggi nevertheless found the world he was seeking in Milan: a city that was culturally alive with like-minded people and companions such as Alviani, Colombo, Bonalumi, then Agnetti, and his master/friend Fontana. He came to Florence (Settignano) to meet up with his family, his friends, and sometimes he would ring me and pop by. He also came just a few days before his death: with tranquil awareness and without regret he spoke to me of his condition (already clearly visible in the almost transparent paleness of his thin profile); of his life in Milan; of the recent episode when he had gone on the catwalk with his friends (Fontana, Bonalunmi…) for a famous Milanese stylist; he smiled remembering the fun. He spoke to me of his sweet little Cosima Ondosa Serenissima, who was just a few months old; of his young wife, and also his work, his ongoing research and recent transformations. In Milan he had gone from his first “intersurfaces with reflected areas” which started off from a rethink of Fontana’s “cut”, nevertheless still an intuitive, immediate gesture, towards a “beyond” without

limits, towards an infinity outside time: for Scheggi space and time were to have another meaning: there would be that “interspace” that plays with the shadow caused by overlapping levels, by the time taken by light to bounce from one level to the one below, limiting the “beyond” to a set distance. It is as if he wanted to tame his idea of “space beyond” and as a consequence also the concept of time and cut them down to size. In a first period his work was organised and beautifully arranged into free, oval, oblong cuts like moon craters. At that time he was already playing with the richness of colour - always monochrome of course -. His subsequent research would become the ‘visual application of geometrical patterns’, using spiral rotations and logarithmic parabolas. The allusive dialogue with subsequent, interacting spatial levels became increasingly dense and pressing as they underwent ever closer examination, organised around a square and a strictly circular cut. His was research into space which became research into space-time, to then extend towards a concept of ‘social space’, and then towards architecture and what he defined ‘a hypothesis of total planning’. ‘As the infrastructures in a neo-capitalist society change… we have to become newly aware that reality is substantially the search for a neo-Humanist dimension to planning’, he wrote in his notes. He would start with a ‘living environment produced by plastic integration’ for Germana Marucelli; then going on to work alongside the architects Mendini and Olivieri; with Nizzoli Associati he would work on the ECSC housing project “Unità di abitazione CECA” and the new district in Bratislava (’67). At the “Teatro delle Mostre” at La Tartaruga gallery in Roma (’68) he would present his “Interfiore” (Interflower) environment. At this point he would start his experimentation in the theatre for the Piccolo Teatro in Milan (“Interventi plastico-visuali”(Plastic-Visual Interventions) for the play “Visita alla prova dell’Isola Purpurea” (Trip to the Rehearsals of Crimson Island) by Bulgakov and Scabia); this was the beginning of the transformation of his research and actions that would take him out of the galleries onto the city streets (“Oplà Stick, passione secondo Paolo Scheggi e Franca Sacchi” Oplà Stick, Passion according to Paolo Scheggi and Franca Sacchi …). He then began to analyse the city which after the young people’s movements was seen as a ‘time for total performance’, as a ‘standstill in time spent’. Scheggi started to use the letters of the alphabet as “phonemes”, ‘as the need

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to investigate the relationship between language and death’, I wrote in ’83, ‘taking inspiration … from Heidegger’s philosophy’, and I quoted Agamben: ‘Writing and death have the same negative structure and are metaphysically inseparable. Experiencing Voice means … becoming capable of another death, which is no longer simply dying, and which constitutes the proper and insuperable possibility of human existence, its freedom.’ From the theatre Scheggi moved to the gallery space (later Fabio Mauri would work the opposite way, also following a similar route). Scheggi then followed on with installations for galleries and big exhibitions where he would combine the topic of death with rituals and myth-politics (in ’70 the “Ondosa” environment for Eurodomus as a homage to the birth of his daughter; “La Tomba della Geometria” (The Tomb of Geometry) for “Amore mio” in Montepulciano; and, with Agnetti, “Il Trono” (The Throne) at the Mana-art-Market gallery in Rome; “La Piramide” (The Pyramid) for “Vitalità del Negativo” in Rome; up to the last, splendid, glowing and icily formal exhibition of death, “6profetiper6geometrie” (6prophetsfor6geometries), at the Galleria del Naviglio in Milan in ’71). On the subject of Scheggi’s last works, continuous open dialogues with death, Getulio Alviani wrote (Parma catalogue): ‘On this road you chose the vehicle of involvement, of dialogue, of spectacle. And you burnt all that was left of this approach when, consciously on the threshold of death, you planned your funeral and placed yourself outside it… Your way of behaving was not behaviouralism; the spectacle of yourself was not exhibition of your body; it was the very insuppressible need to make ideas and creation, work and worker coincide.’ But, in my opinion, Paolo Scheggi not only experienced the feeling of his impending end, but also the perception of how much the moment that he was still sharing was one of profound change: art was leaving Rationalism behind (in architecture, as we have said, it had transformed into “International Style”); the currents linked to Rationalism (Concrete Art and those defined “New Trends” - Op Art, Programmed and Kinetic Art …-) were about to be moved from the ‘fifth column’ by the invasive Anti-Rationalism (whose intentions he could not understand, that is, not being overcome by technology but dominating it in a positive sense to make it a further tool of creativity, an ‘extension of the arm’ according once again to McLuhan); Irrationalism seemed to want to take up, from a point further in time, and on new bases, the old challenge of Art

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Informel, transforming gestures into action. For Paolo Scheggi his death was also, therefore, ‘the death of geometry’. Art and life were already one and the same. Paolo Scheggi and Gianni Colombo, pillars in the ‘New Trends’ current, for which Munari and Mari on one hand, and Fontana on the other, had opened the way, were the first to understand the meaning of that moment: the birth of Behaviour and Action Art; it was the end of ‘Object Art’ (Dorfles). ‘We filled the world with objects’, Colombo told me once when I called to ask him to follow me in a lesson on ‘New Trends’. ‘It is time to get rid of it.’ We were heading towards “Conceptual Art” (Kosuth’s “Art as Idea, as Idea”). And it was precisely Scheggi and Colombo who found Agnetti (alongside Paolini the most conceptual artist in Italy) to be the ideal partner in making “Neg” (Colombo), “Il Trono” (The Throne) and “Il Tempio” (The Temple) (Scheggi). I have to admit that I found it hard to write this text. This doesn’t happen to me often. I am not used to looking backwards. I believe greatly in the memory of history, but not my own. I live very much in the present. And I am not used to voicing my impressions either. But thinking back to the moment when Paolo Scheggi left us made me relive a period that was I think one of the most important in my work, when I participated in art events with more emotion and my relationship with the artists was more intense, because I had only recently started to work; it made me think of the dear friends I have lost during my life: Scheggi, then Agnetti, and then Colombo. And I connected them with recent (extremely recent) losses, from Gelmetti, to Grossi, and Dorazio, and this year Ori, Chiari, Fabro… I didn’t think I would have reacted like this. But it was as if they were all back again, with the same relationship of affection and friendship that we had shared, with the work that they entrusted to me. I will end by again quoting a text of Scheggi’s that I used in’83: ‘This is why the spectator’s mind is not united with the body in the mythical-magical dimension. It is an object that dies on the stage, but has the origin of life, or it is a symbol that was reality during that time, clothed in an apparent image.’ ‘Which is like upturning,’ I commented, ‘Hegel and Heidegger’s “Dasein”, from “living for death” into “dying for life”’. Perhaps this, with its ability to cause mental leaps across time is also what art is for…

PAOLO SCHEGGI FROM PICTURE-OBJECT TO THE LIVING ENVIRONMENT Paola Bortolotti

Milan, ’61. A precise place, a large city in the industrious north, and time, the beginning of an overwhelming decade. A physical space and a space in time that gave the decisive input to the short, condensed and prodigious existence of a Florentine lad, rich in enthusiasm and with a wealth of talents. Paolo Scheggi was 21 years old when he arrived in Milan in the year of ’61 (the year John Kennedy was elected president, and the start of the Apollo space programme, as well as the musical debut of Bob Dylan and The Beatles), with the right qualities to explore a different world: a refined education and a mind itching to discover new things. Certain biographical notes and bohemian anecdotes could now do to be unpicked and put back into their real context. Indeed, what better occasion for a young person who wanted to make a break in the fascinating world of culture and art, which was really quite animated in Milan, than an offer from a famous and generous relative, the fashion stylist Germana Marucelli, who welcomed him into her atelier and opened the doors to her literary circles, which were as worldly as they were intellectual. When talking about him, Marucelli noted: ‘The various different ways in which Paolo Scheggi expresses his artistic language stimulate me and help me take the materialistic cover off life to discover the true significance of its development. Ever since the day in time I came across his research, our dialogue has continued and borne fruit.’ While living in Milan Scheggi had the possibility and the privilege to grow within that area touched on by the master Lucio Fontana - a strong experience that left its mark on him and many of his generation. The fervent years between ’58 and ’64 have been thoroughly analysed by Angela Vettese, in the essay “Milano et mitologia” (Milan and Mythology, which is also the title of a work by another dazzling and short-lived talent, Piero Manzoni), which accurately remembers the salient moments from that period and the thoughts of its pioneers, amongst whom the ingenious eclectic Bruno Munari. It is into this fertile ground that the young Florentine was to cast his roots, finding himself working alongside Getulio Alviani, Agostino

Bonalumi, Enrico Castellani, and it is with them that he started to look into the directions that this constantly moving world of art was taking. So, no flight from his home in restrictive Settignano or even from his mother city Florence – where on the contrary Scheggi held his first personal exhibition at the Vigna Nuova in that very year, ’61 – but a natural choice that turned out to be a winning one, as confirmed in his many essays that are also included in this catalogue. Today, on occasion of this important exhibition at Il Ponte gallery, rich in illuminating works on display for the first time, I am interested in taking another look at some of the many elements of Scheggi’s creativity: first of all, his premature ability to restyle interior architecture and then the revolutionary idea, which he reached in a compressed time span brimming with events, to bring art and its various conceptual forms out of the galleries and into the urban context, to mix with the life of the city. Although he shared this idea with others with similar research interests and planning skills, the times were as yet unripe. So, his contact with the eclectic Marucelli gave rise in 1964 to the first “curved intersurface” simulating a wall, also made of overlapping panels covered with canvas with holes in precise points, laid out in a geometric pattern. This 3D structure was the evolution of picture-objects, that is, layers of monochrome acrylic placed on the canvas at the same time. The structure was placed alongside another modular element and this time was used to change the interior of a place, a dressmakers. An apparently simple work which however needs to be seen as the first step towards his belief that there was a different way of communicating with the work of art: from placing a work in space, we can make the space a work of art. In order to try to understand the logical development of that first step along the painstaking and precise path that brought Scheggi to think up those “environments”, as they were called on the other side of the Atlantic – which also involved a public of spectators –, we need to delve into the artist’s biography and consult his theoretical writing, to avoid the risk of unnaturally bringing it up-to-date, after all, now more than thirty years have passed since his death.

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Meantime, in ’64 the new arrival in the Lombard capital had already got himself noticed and was invited to take part in the experimental cinema hall in the XIII Triennale with his “spatial scenery” as he himself called it in a letter to his parents where he also hinted that he was helping Bruno Munari make a small stage set. Between’64 and ’65 Scheggi started to work with an excellent team of architects and designers, amongst whom Alessandro Mendini: the firm Nizzoli Associati. They also worked with other artists and a critic, Germano Celant, and had a vocation towards “total” planning, which Scheggi called ‘neo-Humanistic’, meaning that the primary intention of their way of planning was to create a relationship between man and architecture, a ‘renewal of society’, as the group’s manifesto read. Thanks to this work he found out how to design houses on an industrial scale, what a prefabricated building was and how to use it. Again with Nizzoli, the artist would get involved in town planning on a more demanding scale in the development of a district in the city of Bratislava. In that period his “spatial composers” became cubic shapes, made of cardboard and Plexiglas or metallic materials, under the name of “inter-ena-cubi”. Again in a letter to his family, Scheggi told of the constant stream of assignments he was receiving (‘the funny thing is that if I was in Florence they wouldn’t even know my name’), from Lerici and then the magazine Casabella, and the success of the ‘industrial design research and planning firm that I founded with Oliveri, Mendini and Fronzoni’. Two years later those shapes would be used for a specific purpose, they would become real walls which when assembled would form the “plastic interchamber”, a type of functionless architecture, a space of pure mental invention. The ’68 housing model was the result of a seminar at the architecture faculty while the practicable optical telescope was designed for Piazza del Duomo in Florence. Time was about to run out and Scheggi, as if he foresaw this, intensified his research activities. The last three years of his life coincided with the revolutionary ferment of the students’ movement in Europe and in Italy. For many young artists, happenings and performances became the most effective way of expressing their protest. At the time Scheggi was attracted to the theatre which he got involved in first as a stage designer and then as a director. The images that have come down to us of those events which took place between ’68 and ’71 form an interesting repertoire. Part of this

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is the work “Interfiore” (Interflower) – which could be called a real installation – for the exceptional “Teatro delle Mostre” group exhibition at La Tartaruga gallery in Rome, comprising large circles of coloured wood hanging from the ceiling lit up in the dark by strips of light; and the white letters of the alphabet arranged around the stage at the Piccolo in Milan, invented for a work directed by Maiello, with Scabia, called “Visita alla prova dell’Isola Purpurea” (Trip to the Rehearsals of the Crimson Island). In an interview given to the magazine Sipario in ’69, Scheggi declared among other things: ‘My need to transform words, gestures, sounds and movements into total-plastic-time stems from the necessity to continue research that I began earlier in the sphere of plastic experiences. I at least think that the most plausible place for this is the world of theatre.’ And so we have the photographs of “Oplà-stick. Passione secondo Paolo Scheggi” (Oplà-stick. Passion according to Paolo Scheggi), another action designed for the interior of Il Naviglio gallery, and put on show a short time afterwards in the streets of various cities, Florence included, where the phoneme O-P-L-A, broken up and enlarged, was carried on the shoulders of the characters who mingled with ordinary passers-by. Also worth remembering is the “Autospettacolo” (Self-Spectacle) at the Totale theatre in Caorle, with music by Franca Sacchi, which brought together a good group of artists, presented as “main performers”, together with other “actors” who, so the poster read, were the inhabitants of the town and the visitors to the exhibition. And once again, we should underline his desire to involve those who lived in the urban fabric. It is inevitable that his work is associated with other similar events from the same time. In the same years and in the city of his birth, Florence, the socalled “radical” counter-architecture movement, Archizoom, Superstudio, 9999, Zziggurat, UFO and Gianni Pettena, was forming, destined to become famous. The latter in particular made their first public forays on the street; and during them they performed brief actions involving the inhabitants. In ’68, the UFO group, a member of which was Lapo Binazzi, put on one of these parades, carrying ironic blown-up objects with wording alluding to the consumer society. Gianni Pettena, who worked alone, at the same time was creating architecture using letters and strips of light projected onto historic buildings. By saying this I do not wish to attribute to Scheggi revolutionary intentions that were not exactly his own, even though his work

did include a “political” commitment. I simply want to link back up to the beginning of this essay when I stated my intention to underline the part the artist played in making art that wanted to extend to the urban environment, and go beyond the limits of the places set aside for the purpose. The interest of himself and other directors in “radical” groups is nevertheless given great documentation in issue no. 2/3 of March/June 1971 of the magazine “In”, founded by Scheggi alongside Ugo La Pietra and directed by Pierpaolo Saporito. It is also true that Scheggi’s performances were more internalised, perhaps more mystic, as remembered by both his wife Franca and his younger sister Elisabetta, who knew him better than others. The artist admired the troubled Artaud and often quoted his phrase: ‘And with the hieroglyphic of a breath, I can rediscover the idea of sacred theatre.’ It is in this sense of sacred representation, magical celebration, that we should interpret two other public actions that he wrote and directed: “Dies irae. Inquisizione secondo Paolo Scheggi e Franca Sacchi” (Dies Irae. Inquisition according to Paolo Scheggi and Franca Sacchi), and “Marcia funebre o della geometria” (Funeral or Geometrical March), the latter composed for the Campo Urbano event at Como, using cube, cylinder, pyramid, cone, sphere and parallelepiped shapes as the leading figures. Among the projects that Scheggi did not manage to complete there is the mysterious and slightly disturbing series of the “7 ambienti autopunitivi per 7 spazi neutri” (7 Self-punishing Environments for 7

Neutral Spaces) designed with the architect Mario Brunati. It consists of seven rooms that are difficult to get into which are the re-elaboration of the same geometrical shapes. The result is Corten steel, marble or plastic laminate containers, each of which contains the functional elements that the environment is designed for, laid out in an extremely refined, narrow internal space, completed with elegant and precious materials like velvet, gold and porcelain. At the historic “Amore mio” exhibition, held in Montepulciano, in 1970, another sort of room was put on display which was a black practicable parallelepiped with the names of the geometrical shapes on the walls, called “Tomba della geometria” (Tomb of Geometry). This is one of his last works, together with “Trono” (Throne), thought up alongside Agnetti, “Piramide” (Pyramid), “Copia dal vero” (Copy from the True Original), and finally “6profetiper6geometrie” (6prophetsfor6geometries), dating from ’71, which the artist was not able to finish. I had said that I would limit my paper to a particular part of our artist’s activity, and I have deliberately left out a lot because I take it for granted that it is well known, while it is less often that Scheggi is presented as a plastic artist among the forerunners to a new way of communicating the language of art. We will never know how Paolo Scheggi’s work would have developed, but in my refutable opinion, in his last projects there are the seeds of contemporary thought and more lively debate on the idea of cities and the relationship between urban and artistic practices.

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MY BROTHER Elisabetta Scheggi

On my seventh birthday Paolo woke me up in the morning with a bunch of violets. It was the first time I had been treated like a lady, I couldn’t believe it. That’s how Paolo was, kind and smiling, lighthearted and pleasant, seductive and ironic. He always spoke quietly, in his beautiful soft and precise manner, without an accent. Like a background sound, his voice was a telling description of his character. I am told that he was like that when he was little too, serious and thoughtful, but at the same time cheerful and lively, curious, attentive and kind. And already very good at drawing. When he got a box of oil paints for his sixth birthday, he went out painting with his granddad and came back with a picture that marked the beginning of Paolo’s legendary talent: a farmhouse in perfect perspective. Paolo really was good, he was naturally able in a special way right from the start. But our family and our background certainly helped him and allowed him to cultivate this gift. We grew up among liberty-style statues and photo albums of sculptures, art books, watercolours and temperas, sepia pencils and cardboard. Our dad was keen on art and antiques and had educated us from when we were little by taking us to museums and churches all over Italy. My granddad on my mother’s side, Mario Burelli, was born into an artistic family and at the beginning of the century had been a refined sculptor. His oriental-style works had been sold all over the world, from Philadelphia to Lyon. His studio was a silent and fascinating room full of statues, drawings, sketch pads and books. Similarly, mum had a beautiful work table where she worked as a miniaturist, with watercolours and images by Lippi, Rafael, Giorgione, notes and ivory; it was another world that even when we were young we were allowed to enter - with due care and attention - and where we spent our time drawing, talking, watching her paint. In short, we came from a typically Florentine strain, consisting of that mix of art and craft that

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has characterised Florence ever since the Renaissance. We lived in Settignano, the home town of Rossellino and Desiderio, a beautiful place where lots of Brits came to stay. Among these were Edna and Bernardo Constable, affable, elegant Londoners who we made friends with. It was 1957. It was under the protective wing of the Constables that Paolo went to London to study. And then came the friends. First the ones from the dances we held at home, to the sounds of the Platters, up to the arrival of the “intellectuals”. Who came into our house dressed in black, full of ideas and words, books and cigarettes, of new names like Marx, Sartre, De Beauvoir. They came in and I thought they were beautiful, mysterious. It was 1958 and the gold-painted fingernails of Roberta Popovich, the wife of Claudio, both very dear friends of Paolo, took me off to a dream world. Besides, everything about Roberta made me dream, her beautiful red hair, her black clothes, her gold nails, her smile. They went to Paris to meet Sartre and De Beauvoir to present the magazine that Sartre wrote the introduction to, “Il Malinteso” (The Misunderstanding), a title that me and my brother Lorenzo laugh. Meanwhile I was watching Zurlì the Magician on children’s TV. To me it all seemed a big game, the exhibitions, the pictures and that splendid studio where even I could write on the walls – and where I wrote a poem that Paolo liked very much called “The Bat” – I was trying to fit in with the intense and slightly oppressive atmosphere of existentialism. The studio was beautiful, full of quotations, of things, of metal sheets, of colour, I liked to see those reds and silvers drip down the canvas, I liked those strange pictures made of metal, I liked the smell of turpentine, oil, paper, I liked the sense of possibility in the air.

Then in ’61 he went to Milan to live with Germana Marucelli. Germana was the cousin of my grandmother on my mother’s side, they were the daughters of a brother and sister, Alessandro and Esterina Marucelli. The ingenious daughter of a Florentine dressmaker, Germana had made such a name for herself in Milan that she had become one of the great inventors of Italian haute couture alongside Shubert, the Fontana sisters and the other stylists from those years. She arrived with a swish of her hair, wearing silk blouses, different jewellery from everyone else, full of charm and funny stories. When she came to Florence for the catwalk shows, we went to the Sala Bianca and then backstage. It was fantastic. Paolo liked living with Germana and she was very fond of him. In Paolo she had someone to share her art with and she appreciated his work. And so, out of kindness – and regard – she opened up her world to him. She introduced him to her famous elitist circle, to the Milan scene, she offered him opportunities. He also worked for her: with Getulio Alviani he restyled the atelier in Corso Venezia, transforming it into a contemporary and minimal space, he helped direct the catwalk shows, he made decorations for fabrics. And above all he began the “intersurfaces” thing, the monochrome pictures, the overlapping and pierced canvases, which then got him into plastic integrations for architecture. It was the beginning of his period of work with galleries, international exhibitions, awards, commendations. He married Franca, they had a beautiful house with ochre or black walls and large letters hanging from the ceiling. Paolo sweetly told us everything in his affectionate letters full of serene thoughts for his grandparents, friends, and brother and sister. Whenever my brothers came home, for me, a teenager, it was always a celebration. Paolo came from Milan, Lorenzo from Rome, where he had moved in the meantime to be a journalist. I was very young, I went to school and had other

things on my mind, but this artist brother of mine was always good fun. From Milan, where he had bumped into the burgeoning world of design, he opened my horizons towards this unknown and marvellous universe. Paolo always brought newfangled ideas with him. I liked to go to the inaugurations of exhibitions in Milan and meet lots of people, to the Biennale in Venice and see his 4 large coloured pictures on the wall, and hear of all the things he did, the people he knew, the artists’ names. Once he came home with a strange blue picture that had a tuft of fibreglass on the front. He said that a friend had asked him to look after it for a while. That friend was Piero Manzoni. In the following years, when his work embraced the world of installations, happenings and events like Campo Urbano, Oplà Stick, Dies Irae, I liked how it fitted in with what I was experiencing at school and in life at that time of great transformations and enthusiasm, of widespread creativity and ideas. It was nice to take part in the actions on the street and in the theatre that he involved me in, but also to visit his works, the white pyramid of Vitalità del Negativo, the black room of Morte delle Geometria (Death of Geometry), to follow his varying path, in never-ending motion. And it was wonderful to celebrate the birth of Cosima, his beloved daughter. From the end of 1970 I was able to experience his analysis of the Bible, magic and alchemy close up, while I helped him to build the Profeti exhibition presented in Milan on 18th May ’71 at the Naviglio. In those months I went to craftsmen to make the boxes, the solid shapes, and photos for the event; I looked for silver for him, gold, marble, stone, lacquer and fasteners, it was good to work under his guidance. Which was always firm and tranquil, light-hearted and fun. Despite always dealing with the topic of death, Paolo was always light-hearted. Never tragic. His light tone was always his byword.

Definitely the best thing that Paolo gave me was the sense of possibility.

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BIOGRAPHY Susanna Fabiani

Paolo Scheggi was born in Settignano (Florence) in 1940 and attended art college and the academy of fine arts in Florence. Still very young, between ’58 and ’60 he was already making his first sheet metal works, which were displayed at the Numero gallery in Florence in ’60, and his first canvases which were to lead to the overlapping ones in the following years. His first personal exhibition - Itinerario plastico prestabilito – was held in ’61 at the Vigna Nuova gallery in Florence. Scheggi’s work started off from the last tendencies of Art Informel and New Dadaism, which he immediately took his distance from, in the same way that he left the Florentine area, too much of a backwater for a curious artist hungry for new experiences. He moved temporarily to London (where he discovered the works of Mondrian and Arp) where he attended a course on Visual Design. As of ’61 he set up in Milan, the pulsing core of contemporary art. Here, under the prevailing presence of Fontana, the air was heavy with excitement. And so the artist established a strong working relationship and comradeship with a group of young people, Alviani, Bonalumi, Castellani and Manzoni, who under the stimulus of the artistic waves created by Pollock, Max Bill and Klein, worked in contrast to Art Informel. They were defined by Gillo Dorfles as “objectual artists”, that is, creators of “picture/ objects” which with their mix of colour and matter went beyond figurative or abstract painting. In ’62, his personal exhibition at the Galleria Il Cancello in Bologna was presented by Lucio Fontana. In the mere three decades of his life (he died in Rome in ’71of a heart disease that he was conscious of having) and in particular as of ’64, the year in which he married Franca dall’Acqua, Scheggi condensed his work; work which, from the first experiments to his last “actions”, showed the great artistic maturity and coherence that he had achieved. Already at the beginning of the ’60s his interests were aimed not only at painting, but also architecture, literature (e.g. he founded and worked on magazines such as Il Malinteso in ’60, Marcatrè in ’65, Nuova Corrente in ’67, In in ’69 and he drafted a novel of visual poetry from ’62 to ’65) and the theatre.

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In ’62 at Germana Marucelli’s Milanese dressmakers (a leading personality in Italian fashion at the time, the person behind the diffusion of optical style) he tried out his project for plastic integration in architecture: interchangeable spatial modules which could transform the space in accordance with different requirements. The space itself had to succumb to the artist’s need for formal research and spiritual rigour, which demanded an interconnection between painting, design, graphics, architecture and fashion. ‘…In creating an intersurface that in addition to Space/Time also grasps the total sense of architecture for a “new man”…, planning becomes an absolute imperative.’ He developed bonds with architecture, and with Mendini and Olivieri who were involved in research into “total planning”; with Nozzoli he designed the ESCS housing development Unità di abitazione CECA and the new district in Bratislava. ‘Art and society, as well as the object, in an infinite and usable space.’ In ’64 he had his first personal exhibition abroad, at the Smith gallery in Brussels. This was to be followed by many more, amongst which, in 1966, Section Constructiviste at the “XXI Salon de Realitées Nouvelles”, at the Musée d’Art Moderne in Paris; Nueva Tendencja Italiana, organised by Umbro Apollonio for the museum of modern art in Buenos Aires; Weis auf Weis at the Kunsthalle in Bern; Realtà dell’immagine e strutture della visione, organised by Maurizio Calvesi at Il Cerchio gallery in Rome. He was invited to the XXXIII Biennale in Venice. His work was followed constantly by important critics, from Celant to Trini, Bonito Oliva to Fagiolo dell’Arco, and Argan. In ’67 he created the Intercamera Plastica (Plastic Interchamber), inter-spatial methods for plastic integrations in architecture. The space could be modelled, the work became practicable. He took part in architectural projects and his works were exhibited at Expo 67 in Montreal, at the Biennale in Paris, at the Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea and the Galleria Civica d’Arte Moderna in Turin, and at the museum of modern art in Copenhagen. He lectured in Psychology of the Form at the academy of fine arts in L’Aquila.

His last works were increasingly linked to research in the sphere of performance, confirming that the function of painting and sculpture was veering towards modes of expression connected with the theatre and other forms of “visual” communication. In representing “other art” he was able to combine everything that he had always dedicated himself to: painting, sculpture, architecture, objects and environment, gestures and coordination, to achieve a total experience. In ’68 he was actively involved in experimental theatre with the Piccolo in Milan, organising the Interventi Plastico-Visuali (PlasticVisual Interventions) for the play Visita alla prova dell’Isola purpurea (Trip to the Rehearsals of Crimson Island) by Bulgakov+Scabia; the action Garone e Geremia s.p.a. (Garone and Jeremiah Inc.) was presented with Gambone, Isgrò and Sacchi at the Galleria d’Arte Moderna in Bologna and Autospettacolo (Self-Spectacle) was put on in Caorle in ’69. He started to use “alphabets”, the stage for the performance was dotted with enormous letters/ sounds/words, true performances, like the OplàStick operation from ’69 (Passione secondo Paolo Scheggi – Passion according to Paolo Scheggi -, “action theatre” presented at Il Naviglio in Milan and then repeated in Zagreb at the Nouvelle Tendance event) and Oplà from the Flori gallery onto the streets of Florence, with the presence of lettercharacters. Dies Irae, Inquisizione secondo Paolo Scheggi e Franca Sacchi (Dies Irae, Inquisition according to Paolo Scheggi and Franca Sacchi) was presented at the Teatro Manzoni in Milan, at the Teatro del Palazzo degli Estensi in Varese, and at Space Electronic in Florence. In Marcia funebre o

della geometria, processione secondo Paolo Scheggi (Funeral or Geometrical March, Procession according to Paolo Scheggi), presented in Piazza Duomo in Como for the Campo Urbano event, Scheggi presented a funeral as a work of art – a celebration of death itself and the death of all geometrically ordered things. In the next year (the year of the projects with Vincenzo Agnetti Il Trono (The Throne) for the Manaart-Market gallery in Rome and Il Tempio (The Temple)), with 7 ambienti autopunitivi per 7 spazi neutri (7 Self-punishing Environments for 7 Neutral Spaces) he entered the symbolic/political sphere; he made La tomba della geometria (The Tomb of Geometry) for the Amore mio exhibition in Montepulciano, La Piramide (The Pyramid) for the Vitalità del negativo exhibition in Rome and in the Eurodomos exhibition in Milan he dedicated his “Ondosa” environment to the birth of his daughter Cosima-Ondosa-Serenissima. The last plastic exhibition/work in ’71 was 6profetiper6geometrie (6prophets for6geometries) at Il Naviglio, which would be presented along with Tomba della geometria in ’72 at the XXXVI Biennale in Venice. In the following decades, numbering among the posthumous exhibitions that would be dedicated to him were the exhibition at the Galleria d’Arte Moderna in Bologna (Bologna, ’76), at the Sala d’Arme in Palazzo Vecchio (Florence, ’83), at Il Naviglio gallery (Milan, 1990), Galleria Niccoli (Parma, 2002) and this year at the Colossi (Chiari), Il Ponte and Tornabuoni galleries (Florence, 2007).

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Questo volume a cura di Andrea Alibrandi è stato stampato dalla Tipografia Bandecchi & Vivaldi di Pontedera, per i tipi delle Edizioni “Il Ponte” Firenze Finito di stampare a Firenze nell’ottobre duemilasette


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