Accordi minori

Page 1



Alta Definizione Gallucci



Grazia Verasani

Accordi minori


Grazia Verasani Accordi minori ISBN 978-88-6145-592-4 Prima edizione luglio 2013 ristampa 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2013 2014 2015 2016 2017

© 2013 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Il marchio FSC® garantisce che la carta di questo volume contiene cellulosa proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. L’FSC® (Forest Stewardship ® Council ) è una Organizzazione non governativa internazionale, indipendente e senza scopo di lucro, che include tra i suoi membri gruppi ambientalisti e sociali, comunità indigene, proprietari forestali, industrie che lavorano e commerciano il legno, scienziati e tecnici che operano insieme per migliorare la gestione delle foreste in tutto il mondo. Per maggiori informazioni vai su www.fsc.org e www.fsc-italia.it Tutti i diritti riservati. Senza il consenso scritto dell’editore nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e da qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, né fotocopiata, registrata o trattata da sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni.


«Si ricorda quel che dice Darwin della musica? Sostiene che la capacità di eseguirla e di apprezzarla esisteva nella razza umana molto prima che si arrivasse alla facoltà di parlare. Per questo, forse, la musica esercita su di noi una sottile influenza. Ridesta nella nostra anima vaghi ricordi di quei secoli oscuri agli albori del mondo…» Arthur Conan Doyle, Uno studio in rosso



Accordi minori



Ehi, Janis

Una donna sui trent’anni gira intorno a un microfono ad asta, al centro della scena spoglia. Si ferma, lo accarezza, controlla se è acceso, ci batte due dita contro e dice: «Prova… Prova…» Canticchia: «All is loneliness here for me, all is loneliness here for me, all is loneliness here for me… Qui tutto è solitudine per me…» Sembra alticcia, a volte le scappa una risata bassa, sgangherata, o solo un accenno, una smorfia. Sul lato destro c’è una sedia, e a terra una bottiglia di vetro verde. La donna si siede, beve un sorso di vino dalla bottiglia. I lunghi capelli scuri e arruffati le coprono un volto senza trucco. Ai polsi porta numerosi bracciali che tintinnano. Di tutte le canzoni che ho cantato mi è rimasto in testa questo verso di Move Over… Amami o lasciami in pace. Non sarebbe stato male come epitaffio. (Ridacchia.) Amami o lasciami in pace… Beh, non c’è niente da ridere, Janis, proprio niente da ridere. Non ti hanno amata e non ti hanno nemme9


no lasciata in pace. Colpa loro? Avevi promesso che ti saresti presa cura di te stessa, ricordi? No, non mentire. Il blues non mente mai, lo hai imparato da piccola, ascoltando dischi su dischi. Il problema è che nel blues non c’è mai niente che finisce bene. (Beve un altro sorso.) Niente amore, niente pace, ma hai avuto la folla. Eh, la folla non ce l’hanno mica tutti, sei stata fortunata, eri il loro idolo. Ma sai come funziona, no? Ti adorano e intanto ti tirano da una parte e dall’altra. È questo il loro modo di amare, l’amore della folla è possessivo. Ma fa parte del gioco. (Estrae da una tasca della giacca il pacchetto delle sigarette e ne accende una.) Il successo. Un gioco pericoloso. Un gioco per bambini che diventano grandi di colpo. (Espira il fumo, guarda davanti a sé.) Ve lo spiego io cos’è il successo, ne so qualcosa. È quella spinta che ti fa partire dal buco del culo del mondo con tanti di quei sogni da farci su un corredo. Sei ingenua e pronta a tutto, canti nei posti più assurdi e scalcinati, e poi, una sera, ti ritrovi lì, al centro di un grande palco, coi brufoli sul viso, qualche chilo di troppo, le luci sparate, la polvere che ti arrossa gli occhi, quei cavi lunghi come arterie che ti fanno inciampare, e il microfono. (Si alza, va verso il microfono. Emette qualche vocalizzo stentato.) I capelli non stavano mai a posto, e se sei timida è con quelli che cerchi di nasconderti, perché la folla, da te, si aspet10


ta grandi cose, e più tu gliele dai e più ti strappi dentro, ma a furia di strappare cosa resta? (Si risiede col microfono in mano, trascinandosi dietro il filo. Sospira, schiaccia la sigaretta.) La folla, dicevamo. Ecco, la folla… L’amore con l’ignoto è sempre uno scontro, ha le sue risse, i suoi lividi, le sue contusioni. Concerti. Al chiuso. All’aperto. E di aperto, in me, c’era tutto. Cantare è questo, niente a che vedere col risparmio. Del talento non si butta via niente. A parte te, forse. (Gira la testa di scatto, a destra e a sinistra.) Oh, non fare la vittima. Che senso ha lamentarsi dei sogni che si realizzano? Correvi, andavi veloce. Cantavi. Troppo. Troppo subito. Troppo accelerato. Trop­ pi uomini di cui non ricordi neanche il nome, o il modo in cui lo facevano. (Si guarda le mani.) Amami o lasciami in pace… Nessuna delle due cose è mai successa. Nessuna. Eh, ma ci vuole fegato per diventare una leggenda, Janis. Ne valeva la pena? (Dà un altro sorso; il microfono, a terra, fischia leggermente.) La leggenda… Crepare a ventisette anni tra gli osanna del pubblico. Eri una cantante e una drogata. My unhappy, oh little girl, little girl blue… Credi a me, Janis, il talento è feroce. Brucia più di un marchio a fuoco sulla pelle e ti avvelena più di un’overdose. Ti mette a soqquadro l’anima e il sangue, ti deruba di tutto, a parte della voce. E non 11


puoi fare ordine, non ti è più concesso, perché è il disordine, dicono, la parte migliore di te. (Dondola la testa, riprende in mano il microfono.) Il successo… Ci pisciavamo sopra. Ma quando la folla è gigantesca, sai che non potrai più permetterti di sbagliare una sola nota e hai paura, sì, una stronza paura. Non c’è gloria senza sconquassamento. Janis… Janis? (Si guarda alle spalle.) Mi hai chiamato? Scusa, è che parlo a bassa voce, poi la riscaldo, o salgo sul palco a freddo, così come sono, vada come vada, un putiferio di cose mi esce dalla gola, a valanga: nebbia, asfalti, fucili, centri commerciali, collane di fiori, cicche, improperi, sguardi, insulti, preservativi. Alla folla piace moltissimo. Strano, più muoio e più mi applaudono. (Si alza, rimette a posto il microfono, sull’asta.) Ammirate i volteggi, le acrobazie vocali, il timbro, i rantoli, i bassi, gli acuti, i sussurri, la raucedine: arrivo fino al cielo, mi abbasso fino al vomito. No, qui non c’è nessuna vittima, sia chiaro. Corri, vai di fretta, sei sola, lì, davanti alla gente, alla folla. Sei un’ar-ti-sta. Ma quella furia d’amore è lontana, è un boato nelle orecchie: urlano, si sbracciano, ma non ti sfiorano, non ti accarezzano. Dicono di amarti, Janis, ma tu sei solo un puntolino distante mille miglia da loro, sei una strana tizia che si agita, si lacera, si sgola. Sei l’immagine di te, sei solo l’immagine di te. Ricorda. Tu per come sei… Tu per 12


come sei non gli interessi. D’ora in poi non si farà più l’amore con te, ma con Janis Joplin. E sarà solo l’ennesimo pettegolezzo. (Cammina sulla scena a capo chino.) Roba buona, roba cattiva, tagliata, fumata, sniffata, e bere, fumare, ridere, piangere, dimenticare. Cantare. C’è altro, Janis? (Si risiede.) Cantare. Metterci l’anima. Musica e anima e soul, stessa cosa. (Si gira di lato.) Ti ricordi, Leonard? Indossavo la stessa maglia per settimane, puzzavo come una capra, ma sotto ad aspettarmi c’era la limousine. (Ride, si accende un’altra sigaretta.) Cos’è che hai scritto in quella tua canzone, Chelsea Hotel? L’hotel dove ci siamo rotolati su un letto, qualche volta… Ah, sì, hai scritto che ero famosa, che il mio cuore era una leggenda. Il cuore di Janis, mai andato fuori tempo, gran senso del ritmo, meglio di una negra. Cos’è che hai scritto, signor Leo Cohen? Che ho gettato via tutto, che ho girato le spalle alla folla. Pettirosso caduto, è così che mi hai chiamato. (Schiaccia la sigaretta, si mette a cavalcioni della sedia.) Una cosa è certa, Leonard, quando cantavo io ero bellissima. Sì, io, la ragazzina ordinaria, grassoccia, coi capelli stopposi, l’acne, il naso a patata, diventavo bellissima. Sai perché? È semplice. Perché non avevo niente, un cazzo di niente, a parte la musica. Perché io ero tutta musica. 13


(Sale in piedi sulla sedia.) Cosa volete che vi canti? Su, non fate i timidi… Dite che ci so fare? Che ci sono portata? Oh, al diavolo la vocazione, quella non c’entra. La musica era la vita, la mia vita. Nonostante il marcio che le girava intorno. Loro lo sapevano. Lo sapevano che più ti ammazzi e più gli fai vendere copie. Loro lo sanno. Tutto quello che hai, tutto quello che sei, a patto che sia vero. (Scende dalla sedia.) Vero. È così che emozioni. È tutto lì, il trucco. Emozionare la folla. E io, cazzo, ci riuscivo. (Sposta una cicca con la punta dello stivaletto.) Il tuo ego è alle stelle. Ti guardi allo specchio. Merda, sei Janis Joplin. Sei proprio tu? Sì, sei tu, sei Ja-ni-s Jo-plin». (Scuote la testa con forza.) No, non hai capito. Autodistruggersi è solo un modo più violento di amarsi. (Si siede.) C’ero cascata, avevo creduto a tutti. Piacevo alla folla. (Accenna una risata.) Poi quando è finita è finita. (Guarda dritto davanti a sé.) Va bene, ci sto, facciamo un passo indietro, riavvolgiamo il nastro… Ci ho messo un po’ a farmi prendere sul serio da quelli della band, li andavo a sentire, li pregavo di farmi cantare, ma ero solo una ragazza, una femmina. (Sputa a terra.) Dovevo dimostrare di valere qualcosa. Dimostrare, dimo14


strare, dimostrare. Pazienza. Alla fine ho sputato più lontano di loro. Ma ero la mia peggiore nemica. (Prova ad accendersi una sigaretta, l’accendino è scarico, lo getta.) Dissero che la fama era il mio risarcimento, la mia rivincita, perché ero sempre stata rifiutata. Le solite sparate sulle adolescenze difficili, che voltastomaco, o su mia madre, che pare abbia detto: «Era meglio se non fosse mai nata». Stronzate. (Si gira di lato.) Ehi, Janis, com’è che è cominciato tutto? Mettevi su Bessie Smith a ripetizione, e ogni volta ti spezzava il cuore. Ogni volta. Forse la tua vera madre è stata lei, Bessie Smith, e non è che se la passasse tanto bene, come donna, come cantante, e come negra. Ti sentivi un po’ come lei? (Si alza, cammina lentamente su e giù.) Andiamo avanti, sforza la memoria. Volevi farti notare, certo. Volevi il tuo on the road. Non c’entrava niente il sogno americano. C’erano il beat, San Francisco, la benzedrina. Ti piacevano le cose maledette. All’inizio i locali erano grandi come sputi, poi qualcuno ti scopre: eureka! È il business, è l’industria. Ma va’, pensavi di poterne fare a meno? Inutile che gli spieghi che non sei e non sarai mai una professionista, che il talento non ha le braccia conserte, la postura diritta, e non è svolgere bene il compitino, rispondere educatamente alla maestra, e pulirti la bocca dopo che hai mangiato, chiedere scusa, scusa, e dire «Buongiorno signore», «Buon15


Nella collana Alta Definizione:

Andrea Emo La voce incomparabile del silenzio Federico Platania Il Dio che fa la mia vendetta Alberto Bellini Niente che sia al suo posto Grazia Verasani Accordi minori




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.