Anita

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Anthony Valerio

La donna che insegnò a Garibaldi ad andare a cavallo

Presentazione di Emilio Gentile



UAO Universale d’Avventure e d’Osservazioni 44 serie Forte UAO



Anthony Valerio

Anita La donna che insegnò a Garibaldi ad andare a cavallo


Anthony Valerio Anita Presentazione di Emilio Gentile ISBN 978-88-6145-149-0 Prima edizione dicembre 2010 © Carlo Gallucci editore srl Roma ristampa 5 4 3 2 1 0 anno 2015 2014 2013 2012 2011 2010 9

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Illustrazione di copertina di Gianluca Costantini Prima edizione in lingua inglese: Anita Garibaldi, A Biography Anthony Valerio, foreword by Philip V. Cannistraro (Italian and Italian American studies, Spencer M. Di Scala Series Adviser) Praeger, Westport, Connecticut - London, 2001

galluccieditore.com

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Presentazione

Donna di fuoco di Emilio Gentile


a più celebre eroina del Risorgimento italiano non era italiana. Era una brasiliana, Anna (Anita) Maria de Jesus Ribeiro, discendente da una famiglia portoghese emigrata in Brasile dalle Azzorre, nata nel villaggio di Morinnhos, nella provincia di Santa Catarina, probabilmente il 30 agosto 1821. Aveva ventotto anni quando morì, il 4 agosto 1849, per un attacco di febbre malarica, incinta del quarto figlio, mentre seguiva il marito, il generale Giuseppe Garibaldi, in una perigliosa corsa attraverso l’Italia centrale, da Roma fino alle valli di Comacchio, per sfuggire alle truppe austriache dopo la disfatta della Repubblica romana. Fino all’ultimo, la giovane aveva voluto essere accanto all’uomo della sua vita. Del marito, bellissimo e già famoso nel mondo per le gesta guerriere compiute in America Latina, a fianco di popolazioni in lotta per la libertà e l’indipendenza, Anita, giovane non molto bella, presenza che si

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imponeva, scura di carnagione, occhi neri e nerissimi capelli, era innamoratissima, orgogliosissima e gelosissima. Una volta costrinse il marito a tagliarsi la lunga chioma perché la considerava una delle cause dell’attrazione che molte donne sentivano verso di lui. E un’altra volta gli si presentò davanti serrando nei pugni due pistole cariche per ammonirlo: con una avrebbe ucciso lui, con l’altra l’eventuale amante. Erano nel temperamento di Anita la dedizione d’amore e la passione del possesso, un ribelle spirito di indipendenza fin da ragazza, e un indomito coraggio che incuteva ammirazione e rispetto in chiunque, amico o nemico, ebbe occasione di incontrarla in situazioni difficili. Anita aveva incontrato per caso l’italiano Garibaldi nell’autunno del 1839 a Laguna, la capitale della provincia brasiliana di Santa Catarina, dove sua madre si era trasferita, quando lei era ancora bambina, in seguito alla morte del padre. Garibaldi aveva allora 32 anni ed era in America Latina da quattro. Fervido patriota del Risorgimento italiano, aveva aderito alla Giovine Italia di Mazzini nel 1833, e come accadde a molti altri patrioti italiani in lotta per l’indipendenza e l’unità d’Italia, Garibaldi aveva dovuto fuggire in esilio perché condannato a morte in contumacia dal re di Sardegna come traditore, dopo aver tentato un’insurrezione in Piemonte. Nel 1837, con un peschereccio battezzato Mazzini, il marinaio Garibaldi si era impegnato in una guerriglia da corsaro a sostegno della Repubblica del Rio

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Grande contro l’imperatore del Brasile. Il 22 luglio, il tenente capitano José Garibaldi partecipò con l’esercito riograndese alla conquista di Laguna. Quando a 18 anni Anita incontrò per caso Garibaldi, era già sposata, dall’età di 14, a un calzolaio più anziano di lei. Forse, quando sposò Garibaldi a Montevideo nel 1842, il primo marito era ancora vivo ma nessuno ne sapeva più nulla, o forse era morto in guerra. Dell’infanzia e della giovinezza di Anita, poco si sa, e persino quel poco non è sempre certo. E non è certo neppure che il primo incontro con Anita sia avvenuto come Garibaldi stesso lo raccontò: con uno sguardo casuale attraverso il cannocchiale, dal ponte della sua nave, il marinaio guerriero avrebbe incrociato la figura di una fanciulla che subito lo colpì, e allora scese immediatamente a terra per cercarla, e per caso la vide nella casa di un ospite e subito le disse: «Tu devi essere mia». E subito Anita, catturata dal fascino del giovane dagli occhi azzurri e dalla lunga chioma rossa, lo seguì a bordo della sua nave, per unirsi a lui. E con lui avventurarsi in imprese di guerra, per mare e per terra. Fin da bambina, Anita aveva imparato a cavalcare con la perizia e l’audacia di un’amazzone, e come amazzone fu a fianco del marito in alcune sue imprese sulla terra ferma, quando Garibaldi divenne comandante nell’esercito dell’Uruguay in guerra contro l’Argentina. Così narra, di Anita Garibaldi, la storia mescolata alla leggenda.

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Anita non fu solo un’amazzone: fu anche sposa e madre esemplare quando, dal 1840 al 1847, visse col marito, molto poveramente, a Montevideo, allevando i quattro figli avuti da Garibaldi (una figlia morì ancora bambina nel 1845 per scarlattina) mentre il guerriero era impegnato per lunghi mesi a combattere, guadagnando così fama di grande condottiero per la causa della libertà. Nel 1848, deciso a tornare in Italia per combattere contro l’Austria e conquistare alla sua patria l’indipendenza e l’unità, Garibaldi fece precedere il suo ritorno da Anita con i tre figli, che giunsero a Nizza dove furono accolti da migliaia di persone inneggianti a Garibaldi. La giovane brasiliana divenne, fin dai primi tempi della sua unione con Garibaldi, parte della leggenda garibaldina, e lei stessa leggendaria, indomita compagna accanto al suo uomo, dalle gesta in America Latina fino alle gloriose giornate della difesa della Repubblica romana nel giugno del 1849. E, davvero, Anita fu un buon soldato, se con tale nome può chiamarsi la donna, che tanta tenerezza provò pel marito e pei figliuoli, mentre ebbe animo di non tremare in mezzo al fischio delle palle, e seppe correre imperterrita incontro alle baionette e alle sciabole che balenavano innanzi a lei, su que’ campi gloriosi. Non è ignoto come Anita seguisse sovente il marito nelle sue ronde sulla linea delle sen-

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tinelle morte, e l’accompagnasse ancora in qualche temeraria sortita; in quelle sortite, di cui si piaceva tanto l’invitto guerrigliero, solito dire che il nemico non basta aspettarlo sempre, ma bisogna eziandio saper correre a cercarlo. Ella non cercò in Roma gli agi dei palazzi, né accettò gli inviti delle dame, che gareggiavano nell’offrire ospizio alla eroina, che tanto eran vaghe di conoscere; ma rimase di continuo presso il marito, né mai fu possibile il tenerla oziosa, quante volte vide il marito inforcare il cavallo e spingersi innanzi sotto il fuoco dei francesi.

Il brano, tratto da una vita di Anita scritta nel 1908 da un reduce garibaldino e narratore delle gesta di Garibaldi in Italia, Giuseppe Bandi, è una testimonianza della leggenda dell’Anita garibaldina. Il libro fu ripubblicato (Giuseppe Bandi, Anita Garibaldi. Nuova edizione con documenti sulla vita di Garibaldi in America, a cura di Gino Doria), dall’editore Bemporad di Firenze nel 1932, l’anno in cui il regime fascista celebrò l’eroina del Risorgimento trasportando le sue spoglie nella capitale per collocarle ai piedi del monumento equestre a lei dedicato sul Gianicolo, che la raffigura come giovane amazzone, in corsa su un cavallo, mentre stringe al seno un figlio bambino. E Anita Garibaldi, l’eroina dell’amore, si intitolava un’altra biografia uscita sempre nel 1932, scritta da un cultore di storia del Risorgimento e

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appassionato garibaldino, Giacomo Emilio Curatulo, che paragonava l’eroina garibaldina a Giovanna d’Arco. Sei anni prima, lo stesso Curatulo, pubblicando di Garibaldi Le lettere ad Anita e ad altre donne, aveva scritto che l’amore dell’Eroe dei due mondi per Anita era stato “fuori dal comune”, molto più intenso della passione che egli ebbe per la baronessa Maria von Schwarz e per le altre due mogli, la marchesina Giuseppina Raimondi e Francesca Amorosino. Furono molte le vite romanzate dell’Anita garibaldina pubblicate in Italia e in America Latina, che la resero, al pari del marito, “eroina dei due mondi”. Il villaggio dove nacque fu ribattezzato Anita Garibaldi, la città dove visse fino all’incontro con Garibaldi ha trasformato in museo la sua abitazione. Il personaggio di Anita è divenuta protagonista di romanzi, di film e sceneggiati televisivi. Nel 1952, nel film Camicie rosse (Anita Garibaldi) di Alfredo Alessandrini, terminato poi da Luchino Visconti e Francesco Rosi, fu Anna Magnani a dar volto ad Anita, accanto a un Raf Vallone nei panni di Garibaldi. Divenuta eroina garibaldina, la vera Anita fu sommersa nella leggenda. Ha scritto Jasper Ridley, storico inglese autore di una delle migliori biografie di Garibaldi, pubblicata nel 1974 e tradotta in italiano nel 1975: La sua vita e la sua morte hanno fatto di lei un’eroina nazionale sia in Brasile sia in Italia, e un’eroina da romanzo in molti altri paesi del mondo. Libri su di

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lei furono letti ovunque; fu soggetto di molti celebri quadri che raffigurano il suo primo incontro con Garibaldi, ambientato chissà perché lungo il muro di un giardino, con lui che la guarda con maschia ammirazione, e lei che risponde al suo sguardo affascinata e riluttante; mostrano Anita che galoppa a pelo attraverso la foresta brasiliana, i suoi capelli lunghi disciolti, ciò che almeno corrisponde a verità; mostrano Anita e Garibaldi, che in barca a remi, lungo un fiume pieno d’ombre sfuggono ai malvagi soldati che li minacciano da riva, e questo non ha la minima base di realtà; e mostrano la morte di Anita, in una casupola nel mezzo d’una palude, con Garibaldi che piange inginocchiato al suo capezzale, e che serra disperatamente la sua mano. Tutto ciò fece di lei una figura remota e romantica come quella d’una eroina da saga germanica o da mito greco; e però una sua pronipote è morta appena nel 1970, e a Laguna c’è ancora molta gente che ha parlato a persone che la conobbero.

Narrare la vita di Anita senza mescolarla al mito di Garibaldi è forse impossibile. Gli stessi dati incerti e discutibili sulla sua vita, forniti da varie e non sempre attendibili testimonianze quando Anita era già divenuta una figura leggendaria accanto al suo più leggendario marito, divenuto

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Eroe dei due mondi, hanno contribuito a confondere la sua figura reale nell’alone del mito garibaldino. È merito di Anthony Valerio, come ha scritto nella sua introduzione il compianto storico italo-americano Phil Cannistraro, aver raccontato la biografia della più celebre eroina garibaldina e risorgimentale, immortalata in tante narrazioni epiche ma spesso alterate storicamente da romantiche invenzioni, restituendo ad Anita la sua personalità e la sua vita, unita ma non confusa con la biografia e il mito di Garibaldi. Ma senza neppur dissolvere del tutto l’alone leggendario, che comunque emana dalla sua vera vita. Emilio Gentile

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nita, Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, detta Aninha, nacque qualche minuto prima della mezzanotte del 30 agosto 1821. Agosto era un mese ritenuto sfortunato, che disgrazie sarebbero accadute? Così mormoravano gli abitanti del villaggio. Nella stanzetta che condivideva con le sorelle si sentiva il profumo familiare del caffè e si udiva il canto del gallo, mentre da lontano giungeva il richiamo del passero Bem-te-vi, con il suo verso che sembra dire: “ti-piglio, tipiglio”. Da bambina suo padre Bentão la portava a fare lunghe cavalcate in sella a Pinha, il suo cavallo preferito. I lunghi capelli neri le svolazzavano sul viso. Anita rideva e poi si addormentava sul braccio che l’uomo teneva saldo sull’arcione. Lui strofinava il volto barbuto sulla guancia morbida della figlioletta per chiederle un bacio, che lei gli scoccava felice. Al calare della notte, nera come i capelli della bambina, Bentão la portava fuori e indicava

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il cielo: la Croce del Sud, la cintura di Orione e il diamante splendente di Venere. Uscivano a cavallo, notte dopo notte, e Anita guardando le stelle imparava a seguire il movimento delle costellazioni. Maria Antonieta de Jesus, madre di Anita, è un personaggio tenuto in scarsa considerazione nella saga della vita della figlia, quasi avesse influenzato poco il suo rapporto con Garibaldi, o comunque in misura minore rispetto al legame con il padre1. Donna di maestosa bellezza, Maria Bento veniva dalla città, dal mondo civile di San Paolo, e parlava bene portoghese, cosa che influì sul modo di esprimersi delle sue figlie, sane e graziose. Il motivo per cui Maria Bento si spostò dalla città alla campagna è ignoto, ma accadeva spesso che la gente di città fosse spinta verso la campagna da rovesci di fortuna. Qui le giovani donne colte incontravano gli uomini della pampa, forti e selvatici, se ne innamoravano e li sposavano, e l’amore e la bellezza della natura circostante finivano per far loro dimenticare la città2. Tra le montagne del Brasile meridionale, nella provincia di Santa Catarina, Maria Bento ebbe due figlie femmine, Manuela e Felicidade, e poi un maschietto, che però non sopravvisse al primo inverno. Si dice che Maria volesse un altro figlio maschio. Comunque, quando annunciò che aspettava un altro bambino, tutta la famiglia si trasferì a valle. Il carro con le loro cose, trainato da buoi, si avventu-

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rò per pendici scoscese, attraverso profondi burroni e fiumi in piena. Dall’alto si vedeva l’Atlantico. La famiglia si stabilì a Morrinhos3, un insediamento commerciale, e Bento Ribeiro da Silva detto Bentão, uomo forte e muscoloso, costruì una baracca su pilastri di legno in una radura tra i banani, sulla riva occidentale del fiume Tubarão (che significa squalo). Bentão era un tropeiroa, che conduceva anche mandrie di cavalli e greggi di pecore. Faceva parte di un gruppo di uomini che, come molti degli abitanti maschi dei villaggi brasiliani, si guadagnavano da vivere andando a caccia di animali, da cui ottenevano pelli e sego. Ricercavano anche piume di struzzo americano, tanto amate dalle donne europee, e cavalli selvaggi da addomesticare e impiegare per il loro lavoro. I mandriani e i soldati di cavalleria montavano usando la cavalhadas: una scorta di due cavalli in più sui quali saltare, uno dopo l’altro, quando il primo era stanco. Per il padre di Anita, dunque, i cavalli erano essenziali. Le aveva insegnato a fischiare, richiamando così i cavalli che sbucavano al galoppo dal folto dei banani, dietro la curva del fiume. Correvano in formazione: i grossi castrati tutti dello stesso colore preceduti dalla giumenta bianca, che si a

Vaccaro (Nota del traduttore).

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vedeva anche di notte e portava al collo un campanaccio perché la mandria fosse facile da trovare nell’oscurità o nella boscaglia. I cavalli arrivavano al galoppo. Bentão indicava il suo preferito e la figlia lo sellava con cura. La sella, che pesava quasi venti chili, una volta sistemata doveva diventare un comodo giaciglio per suo padre. Prima di tutto Anita stendeva sull’animale una spessa coperta per assorbire il sudore e una serie di matrasb. Poi fissava due cilindri di pelle imbottiti tenendoli paralleli con le cinghie, da un lato e dall’altro del garrese e della spina dorsale del cavallo. Dopo di che sistemava un quadrato di pelle al quale agganciava le staffe e un largo straccale che, stretto bene, teneva ferma la sella evitando che si girasse. Sopra metteva una pelle di pecora, con il lato lanoso rivolto verso l’alto, e per ultima la copertura di cuoio, tenuta stretta dal sottopancia, a serrare gli ultimi due strati. Per ultimo agganciava il laço all’anello dello straccale4. A quel punto sistemava le altre armi del padre: il facãoc, la lancia di bambù dalla punta a doppia falce d’acciaio affilato e le bolas, l’arma più importante per qualsiasi mandriano o cavaliere. Era chiamata familiarmente “Tre Marie”, dal nome portoghese della costellazione di Orione, per via b c

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Panni di lana colorata (Ndt). Coltello dalla lunga lama (Ndt).


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delle tre cinghie di cuoio intrecciato lunghe quasi due metri ciascuna. Unite a un’estremità da anelli di catena mentre l’altra, libera, portava un peso rotondo di pietra, piombo o osso cucito in una tasca di cuoio. Il cavaliere teneva in mano uno dei pesi e roteava gli altri due sulla testa, in uno spaventoso crescendo sibilante di velocità, per poi lanciarli con straordinaria precisione fino a cinquanta o addirittura settanta metri di distanza e agganciare le zampe del vitello in fuga, dello struzzo da catturare o del cavallo nemico. La preda cadeva di peso, rotolando su se stessa, in un gran frullo d’ali o un disperato ansimare. Anita lavorava con suo padre. Insieme tagliavano alberi e arbusti per dare cibo alle mandrie e costruire gli steccati; domava i giovani puledri selvaggi che lui portava a casa. Solo i giovani e agili addestratori professionisti di colore potevano rivaleggiare con lei in queste occupazioni. Saltava in groppa al puledro, che non sapeva neppure cosa fosse un morso, una sella o uno sperone; si teneva aggrappata alla criniera, con le gambe salde come una morsa, seguendone la corsa folle, spronandolo, calciando. Saltava nell’aria con il cavallo, cadeva a terra restandogli in groppa e, sempre in groppa, insieme si rialzavano, con l’animale che sudava, senza fiato, schiumante e con le zampe tremanti. Sopraffatto, il puledro schizzava come una freccia che scocca, in pochi minuti copriva enormi distanze e poi, veloce com’era partito, tornava. In tre giorni quella ragazzina

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era in grado di mettere il morso al cavallo, sellarlo e montarlo nella prateria. Aveva dieci anni. A suo padre piaceva raccontarle dei loro antenati, originari delle isole Azzorre5. Appartenevano a una razza di pianura, tenace, adattabile, con un forte senso dell’onore. Un popolo abituato a vigilare, sui crateri e sui vulcani, ma anche pronto ad ammirare la superficie calma dei laghi vulcanici e le nuvole che vi si specchiavano passando, così come i raggi del sole e della luna, e le stelle cadenti. Come i cavalli più forti catturati nelle incursioni del guerrigliero Pedro de Abreu, chiamato “Moringue la martora” per la sua destrezza, che uccideva i cavalli più deboli prima di galoppare via, le coppie formate dagli abitanti più robusti delle isole erano state ingaggiate e pagate per emigrare. Erano arrivate nel Brasile meridionale a bordo di baleniere, con l’incarico di conquistare il territorio e difendere la frontiera. Soldati e agricoltori, si erano stabiliti sulle coste fondando la città di Laguna, che allora era un avamposto, e avevano attraversato quasi 2.500 chilometri di spaventoso deserto, esplorando e colonizzando i vasti altipiani e le immense pianure vergini, le fertili pampasd. d

In lingua quechua (lingua dell’America Latina), pampas significa spazio (Ndt).

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Insieme a duecento abitanti della città di San Paolo, capeggiati dal cittadino-soldato Cristovão Pereira, e a 254 uomini provenienti dalle capitanerie di Silva Pais, circa cinquecento coppie che venivano dalle Azzorre si spostarono verso Sud, fondando l’insediamento fortificato alla foce della Lagoa do Patos, la laguna delle anatre. Questi erano gli antenati di Anita: gente capace di mettere da parte in un attimo la zappa e il laço per imbracciare la lancia e il moschetto, coprirsi di pelli e cavalcare per difendersi dai castigliani di Buenos Aires, dai Guaraní delle Riduzioni fondate dai gesuiti e da quel che restava delle tribù indigene, sparse e decimate, a caccia di bestiame selvatico. I conquistatori spagnoli e portoghesi erano arrivati senza donne e si erano uniti a quelle delle tribù dei Guaraní, Tepé e Minuano. Potevano anche godere dell’arrivo delle africane che giungevano in nave e venivano consegnate, due volte l’anno, ai gesuiti spagnoli, e neppure erano tassate come le altre merci. “Donne robuste, dal corpo pulito” scriveva a re Manuel I il suo corrispondente, “femmine vigorose che portano le ombre della foresta nel colore della pelle”6. Poi arrivarono le donne delle isole, già sposate, e infine le nubili dette mazuelas, invitate a cercare marito dal generale di brigata. Quella di Anita era una famiglia povera. Maria Bento lavorava come domestica, Felicidade e Manuela andavano

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a scuola in un istituto pubblico fondato dalla corona nel 1826 e Aninha stava in casa a prendersi cura dei fratelli, nati uno dopo l’altro. Così rafforzò sempre più il legame con il padre. Ma presto fu necessario dare via Salvador e Bernardo, affidandoli al Capitano Aborim e a sua moglie. Re Giovanni VI del Portogallo contava tra i suoi sudditi più di 2 milioni di schiavi, che aveva visto fuggire in massa verso l’Uruguay, attraversando la frontiera meridionale del paese. L’Uruguay aveva infatti abolito la schiavitù, decretando che chiunque avesse messo piede sul suo territorio sarebbe stato libero. Facendo appello alla tradizione dei popoli meridionali, sanguigni e reattivi, Giovanni aveva invaso l’Uruguay, scatenando una guerra che sarebbe durata 11 anni (dal 1817 al 1828). L’ottantacinque per cento dei suoi soldati veniva dal Sud. Il risultato principale della guerra fu dunque che la popolazione della zona meridionale del paese venne decimata, le finanze della regione esaurite, le città rase al suolo. Città fondate a partire dalle fattorie che i coloni avevano costruito con fatica lungo le vie della transumanza del bestiame: bovini, cavalli e muli condotti verso i mercati della carne di Sorocaba, a Nord, nei pressi delle miniere d’oro, argento e diamanti. Le pelli, il cuoio e la carne subirono una tassazione pesante, i pascoli si coprirono di carcasse di bovini bradi, spesso uccisi per procurarsi un po’ di cibo e poi abbandonati ai corvi di passaggio.

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Nel giro di un anno, sia Salvador sia Bernardo morirono di febbre perniciosa; affidati a un’altra famiglia per salvarli dalla miseria, tornarono indietro in piccole casse di legno di pino. Anita maledisse Dio e il re, e per il resto della vita non smise mai di chiedersi come sarebbero stati i suoi due fratellini, se fossero sopravvissuti. Dalla morte dei due bambini non era trascorso neppure un anno quando un giorno, di ritorno dal lavoro con il bestiame, Bentão sellò un cavallo e si recò al nuovo galpão. Sorta di magazzini, i galpão erano utilizzati per seccare la carne e, in tempo di guerra, per le riserve di erba matee, carbone, armi, acciaio e ferro. Bentão salì sul tetto del magazzino, ma una trave cedette sotto il suo peso facendolo precipitare dritto su una pertica di legno, che lo trafisse. La scena sembra uscita da un film western molto prima dell’avvento del cinema: l’uomo di casa che tarda, le donne in attesa, chi intenta a sistemare gli abiti per la festa del paese, chi a fare il formaggio. Poi si sente bisbigliare fuori, sono i mandriani del vicinato. Le donne si precipitano alla porta, la spalancano e vedono il corpo insanguinato, su un carretto trainato da un mulo, avvolto in un cencio che lascia scoperto soltanto il viso. Gli uomini lo fanno scivolare su una rozza barella, lo portano in cucina passando e

Arbusto sempreverde con le cui foglie si prepara un infuso simile al tè (Ndt).

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davanti alle donne impietrite. Saranno loro a piangerlo. Gli uomini si limiteranno a raccontare l’accaduto, più tardi, con un dolore che trasparirà quieto, come se il palo di legno avesse trafitto anche loro. Cosa può aver provato quel giorno una ragazzina di 12 anni, che voleva così bene a suo padre e che suo padre amava tanto? Quale sarebbe stato il suo stato d’animo nei mesi e negli anni seguenti? Perdere suo padre voleva dire perdere la sua ragione di vita: quel che considerava perduto per sempre non sarebbe tornato mai più. In compagnia di suo padre aveva imparato a sostenere le sue posizioni, forse anche in modo troppo diretto, e tutti la rispettavano. Aveva imparato a essere sincera, non c’era motivo di mentire. Ora invece era semplicemente una ragazzetta di 12 anni alla quale nessuno prestava ascolto. Ci volle un po’ di tempo perché la crepa che si era aperta nel suo cuore diventasse più profonda e lo spaccasse in due. Il posto di suo padre fu preso da un nuovo tropeiro. Anita ritornò al suo lavoro, continuò ad andare a pesca con le sorelle, a cucinare e aiutare sua madre nelle faccende domestiche. Ma dal suo cuore spezzato proveniva un enorme silenzio. Un silenzio grande come lo spazio, un’immensa pianura arida che solo lei vedeva, illuminata soltanto dagli occhi della mente. E in quel luogo non c’erano le

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parole della lingua degli uomini. Le parole erano sostituite dalla sua forza interiore. L’usanza voleva che a tre mesi dalla morte fosse celebrata una messa in onore del defunto. Dopo, gli amici andavano a trovare la famiglia, portando qualcosa da mangiare. Forse Bentão avrebbe preferito che Anita restasse in casa, con gli ospiti, ma lei si allontanò lungo il fiume, verso il suo posto preferito, una roccia vicina all’acqua. Pianse, lanciando sassi bianchi nel fiume e rinfrescandosi il viso con l’acqua. Improvvisamente sentì sulla spalla il tocco sgradito di una mano. Era Pedro, che lavorava in una fattoria vicina. Anita aveva bisogno d’affetto, certo. Ma non quello di Pedro, che non era cambiato dalla morte di suo padre: volgare, maleodorante, con il volto e le braccia pelose. Anita cercò di allontanarsi, ma lui non mollò la presa e la spinse verso un albero, tenendole ferme le braccia e schiacciandola con il suo peso. La ragazza si sforzò di rilassarsi, sentì la presa allentarsi e riuscì a divincolarsi e scappare. La domenica successiva Anita portò fuori Pinha. Una fune spessa sbarrava la strada tra l’insediamento e la chiesa, avvolta da un lato attorno al tronco di un albero e dall’altro a un tiro di buoi accovacciati al lato della strada. Appoggiato all’albero, dietro di lei, c’era Pedro. Anita tirò le redini, piroettò su se stessa, poi cavalcò decisa verso i buoi. Pedro cercò di bloccarla, afferrò il morso del cavallo. Lei fece scattare la frusta e lo colpì alla mascella, galoppando via.

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Pedro andò dal giudice di pace, mostrò lo sfregio. Anita fu convocata e interrogata in presenza di sua madre. Non disse nulla. Il giudice rispettò il silenzio della ragazza e ne interpretò il gesto violento come una vendetta per l’aggressione subita in precedenza, della quale sia lui sia gli anziani del villaggio avevano saputo. Forse adesso nessuno le dava ascolto, ma il giudice aveva dato di certo ascolto a Bentão, in passato, e l’amicizia che aveva nutrito per lui valeva anche per sua moglie e le sue figlie. Anita fu lasciata andare7. Felicidade sposò un operaio che coibentava le navi, di Rio de Janeiro, e Manuela andò a Florianópolis a imparare il mestiere da una celebre levatrice venuta dalla Francia. Maria Bento vendette i cavalli, pagò i debiti e con la figlia più giovane emigrò verso Sud, raggiungendo l’insediamento di Carniça, dove ricevettero l’assistenza e il conforto del padrino João Braga e della sua famiglia. Poi si spostarono di altri tre chilometri fino al porto di Laguna, proprio dove erano arrivate le prime coppie dalle Azzorre. Prive di forze e di denaro, madre e figlia si stabilirono in due stanze su Rua Rincão, vicino al porto.

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