Anna

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Capricci


Piero Schiavello Anna

ISBN 978-88-6145-858-1 Prima edizione giugno 2015 © 2015 Carlo Gallucci editore srl - Roma ristampa 7 6 5 4 3 2 1 0 anno 2015 2016 2017 2018 2019 Foto di copertina di Piero Schiavello

galluccieditore.com

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Piero Schiavello

Anna


Ad Alessandro e Francesca


PREFAZIONE

Una storia pasoliniana di Paolo Pagliaro



Il barbiere di Guardie e ladri, il tipografo de La banda degli onesti, il Ferribotte de I soliti ignoti erano tutti vicini di casa che Piero Schiavello incrociava ogni giorno sulle scale. Non erano esattamente loro, ma ci assomigliavano come gocce d’acqua. D’altra parte, fu proprio tra le case popolari di Val Melaina, dove Piero abitava, che Zavattini e De Sica avevano ambientato Ladri di biciclette. E fu nella via Leptis Magna, “cancellata dalle mappe” per la speculazione edilizia – dove era cresciuto negli Anni Cinquanta e dove comincia il racconto che state per leggere – che Pietro Germi aveva girato L’uomo di paglia. Alcune scene proprio a casa Schiavello e nel suo cortile. Dunque questo libro si potrebbe definire la versione non cinematografica, non letteraria e non immaginaria del Neorealismo. È il diario di un figlio di ferroviere, cresciuto nella periferia romana, dalla quale non si è mai voluto allontanare, diventato adulto misurandosi con i cimenti prima della strada e del “muretto”, poi della politica, quindi del giornalismo. E infine uomo – per la precisione l’uomo di Anna – l’angelo polacco a cui è dedicato questo libro.

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Nella prima parte è una storia pasoliniana di ragazzi di borgata, che si trasforma, attraverso 15 racconti, in un avvincente romanzo di formazione. Innanzitutto della sua formazione, senza tuttavia nascondere l’intento, nello sviluppo dei racconti, di dare un senso e un valore politico alla formazione di una intera generazione, quella nata nell’immediato dopoguerra. Piero a un certo punto è diventato uno stimato caporedattore del quotidiano “la Repubblica”, dove l’ho conosciuto diventandone amico. Ma il suo percorso giornalistico non è stato che l’ultima tappa di una serie di percorsi ben più ardui, cominciati tanti anni prima. Alcuni raccontano episodi di storia del nostro paese, per lo più dimenticati dai grandi e del tutto sconosciuti ai giovani. Come quel giorno del settembre 1960, in via Val Melaina, quando un uomo col megafono diede l’un-due-tre-via a 1.500 famiglie scalpitanti. Da quel momento l’assegnazione della casa popolare dipendeva dai concorrenti e dalla loro velocità di gambe. Chi arrivava per primo dentro l’appartamento che aveva “puntato”, chiudeva la porta e quello era il suo. “Fu forse l’ultima assegnazione di alloggi popolari fatta così” scrive “con un sistema da frontiera del West”. “Dopo il via gridato al megafono, scattai. Già nel tratto in salita che da via Giovanni Faldella portava a via Ivanoe Bonomi, 150 metri circa, li avevo seminati. Imboccai il portone della scala B, sorvegliato da un arbitro messo lì a garantire la correttezza della corsa e a fischiare eventuali scorrettezze, mi attaccai al corrimano rosso vinaccia di pura plastica d’avanguardia del pianoterra e, roteando attorno alle rampe dei sei piani da venti scalini l’uno, saliti quattro a quattro, entrai all’interno 23 e chiusi la porta. Feci gli ultimi passi

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Una storia pasoliniana

per arrivare alla finestra aperta e, sbracciandomi mi affacciai: ‘Mamma, mamma, è nostro!’” Così – a 12 anni e parecchie ore giornaliere consecutive di pallone nelle gambe – seppe che, correndo, non c’era nessuno in grado di stargli dietro. Mentre anche la società, di corsa, entrava nel suo periodo di crescita felice, i migliori trent’anni degli ultimi due secoli, con ritmi che oggi definiremmo cinesi. Scriverà poi – col senno politico del poi – che “in una società irreggimentata in cui le classi avevano ancora un significato ideologico e dovevano essere socialmente distinguibili, anche le case seguivano regole precise. I portoni, le scale, il numero e l’ampiezza delle stanze, la qualità del verde e la loro cura erano progettati per corrispondere al livello sociale di chi sarebbe andato ad abitarle. Le nostre, per esempio, erano di qualità inferiore a quelle di Montesacro – che durante il regime veniva chiamata “città giardino” – dove alloggiavano dipendenti di più alto grado delle stesse Ferrovie dello Stato e funzionari di altri ministeri”. Ma per il momento – che sempre precede il ragionamento – si trattava del paradiso. Così la periferia si trasforma nei suoi racconti in un Eden popolato da creature straordinarie. Con Claudietto, l’amico del cuore della prima infanzia, rubava le albicocche, di nuovo grazie a una gara, questa volta una scalata, scolpendo nel tufo del muro delle tacche d’appoggio e piantando perfino dei chiodi, quando ne trovavano qualcuno per terra, come esperti rocciatori, per riuscire nell’impresa. “Cinque o sei tacche per quel paio di metri di altezza: dividendo il numero delle tacche per l’altezza del muro il risultato è che avremmo avuto poco più di cinque anni”.

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Via Leptis Magna

Nel raccontare le loro storie, le persone di una certa età, forse proprio per l’età o chissà per quale altro motivo, dicono di essere state, rispetto ai propri figli, più smaliziate, più furbe, più capaci di cavarsela. Con l’aria di chi la sa lunga e con nostalgica memoria della propria infanzia, non riescono a nascondere una punta di compiacimento raccontando di aver saputo affrontare la vita con più astuzia. I romani, poi, maestri nel virare il compiacimento in vanto, traducono il tutto in una massima che non contempla il beneficio del dubbio: «Noi eravamo più “fiji de ’na mignotta”». Anche io da piccolo lo sentivo dire continuamente e allora non mi sarebbe mai passato per la mente di metterlo in dubbio. Tutti i nostri padri avevano, d’altronde, visto la guerra. I nonni addirittura due. Avevano sofferto la fame, che noi non sapevamo nemmeno lontanamente cosa fosse. Avevano dovuto cercare i modi per sopravvivere, avevano rubato almeno uno scioccherello di qualcosina, alcuni qualcosona, e molti avevano rischiato perfino di non portare la pelle a casa. Era assodato che la sapessero più lunga di noi. Non so dire se sia andata davvero sempre così nei secoli. Che una generazione l’abbia saputa sempre più lunga della successiva.

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Non ne sono affatto convinto. So però che si dice sempre così. Quasi si trattasse di una regola pitagorica. E quando una verità viene enunciata in modo inconfutabile, questo lo so, perde valore scientifico. Popper di sicuro l’avrebbe declassata. Comunque sia, a conferma della regola o forse contribuendo a demolirla, sto per raccontarlo anch’io. Sono perfino più titolato di altri a farlo. Due dei miei compagni d’infanzia erano proprio i figli di Peppina, la storica mignotta del Viale del giardino zoologico di Roma, a Villa Borghese. E chi è romano, oltre ad aver dovuto salire il celebre scalino, non può non ricordare che, su quelle cinque panchine appena illuminate da fiochi lampioni, si consumava in quegli anni, i Cinquanta, il mercimonio sessuale di mezza città, quella orientata a Nord, dalla Cassia alla Nomentana. Dove Peppina è stata per anni la regina incontrastata. Era una signora sulla cinquantina, Peppina, e se gli anni erano di meno, sicuramente se li portava male. Piccola e vivacissima, con i capelli tinti biondo oro, il rossetto sempre acceso sulle labbra, gli occhiali da miope, la voce roca e abbassata dalle sigarette. La mattina a volte si andava con lei e mia madre a fare la spesa in viale Eritrea, la sola occasione della giornata in cui spegneva sia le sigarette sia il rossetto, e si aggirava come ogni madre di famiglia tra i banchi del mercato. Il più bello che abbia mai visto in vita mia. A primavera montagne di ciliege, albicocche, susine che mamma mi dava da assaggiare con la scusa di verificare se erano davvero buone come gridavano dai banchi. Assaggiare era gratis e ne approfittavamo per fare una scorpacciatina di mezza mattina, una seconda colazione volante, dopo la zuppa di latte e pane raffermo con la quale immancabilmente salutavo il risveglio. Sbrodolandoci, sciacquando

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e risciacquando alla fontanella accanto, si assaggiava di tutto. Fino a quando il banchista si spazientiva e, smettendo per un attimo di gridare: «Dajé che belle» «Dajé che dorci» si curvava verso di noi, abbassava un po’ la voce mettendosi una mano davanti alla bocca per non farsi troppo sentire dagli altri e sbottava: «A signò, carma, nun se po’ solo assaggià, stamo qui pe’ vende». Abitavamo in portoni adiacenti, con la famiglia di Peppina, in via Leptis Magna, noi al numero 6; lei, separata e coi suoi due figli maschi, all’8. Una via che – pensate un po’ che roba – non c’è più. Scomparsa, assieme alla nostra infanzia. Senza metafore: finita l’infanzia scomparsa la via. Cancellata dalle mappe. Insieme a via Tobruk, altra desaparecida, sulla quale affacciavano le finestre delle nostre due camere da letto. Là dove c’era la strada dei nostri giochi – ora, ancora oggi, a distanza di oltre cinquant’anni – c’è solo un palazzo “moderno”. Orribile. Come la maggior parte dei palazzi moderni. E accanto un disordine di cancelli automatici, serrande, garage sotterranei, sopraelevati, buttati lì alla rinfusa, partoriti dalla mente di qualche ubriaco, in attesa di chissà quali altri orribili palazzi. Dopo più di cinquant’anni. «Solo il nome» ha scritto una volta Raffaele La Capria a proposito dei corrispettivi orrori di Napoli. «Vorrei solo che il nome del responsabile fosse inciso su una targa di ottone. Così che chiunque passi lì davanti ci possa almeno imprecare sopra». Io, che sono più screanzato, ci farei volentieri di peggio. Ad aggravare le colpe di chi decise di cancellarla dalla faccia della terra, aggiungo che via Leptis Magna era molto più bella di una banale strada. Non consisteva nella solita striscia d’asfalto, con i

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Via Leptis Magna

marciapiedi ai lati, lungo la quale corrono i palazzi. Era un tortuoso cortile ricoperto di un brecciolino bianco – gioia delle nostre fionde – che separava case di tre o quattro piani irregolarmente disseminate, un po’ come “quel ramo del lago di Como”, con rientranze e allargamenti che formavano anse, piazzette e giardini. Chi passava per via Tripolitania e non sapeva che lì dietro c’era una strada, non ne percepiva la presenza, tanto era riservata e nascosta. Tutti i portoni si affacciavano all’interno di questo spazio che era anche piazza, aia, giardino, e nessuno sulle strade che la delimitavano: via Tripolitania, da un lato, e via Tripoli dall’altro. Lungo il perimetro esterno soltanto l’interruzione di un muretto di cinta – senza cancello come era naturale in quegli anni “aperti” – indicava l’ingresso nel cortile, che era poi la “nostra via”. Quando in giro ci chiedevano: «’Ndò abiti?» «A via Leptis Magna» rispondevamo orgogliosi. «E ’ndò sta?» «Sta lì dietro, nascosta, ma ce poi venì a giocà, se stai con noi». A rigor di toponomastica non avrebbe dovuto nemmeno chiamarsi via, non avendone alcuna sembianza. Si sarebbe potuto chiamarla crescent, per la sua sagoma a mezza luna, fossimo stati in Inghilterra. Comunque il nome ce l’aveva, e anche la targa incisa nel marmo travertino, esattamente come tutte le strade di Roma. E nessuno avrebbe dovuto arrogarsi il diritto di cancellarla dalle mappe. Non ci sono ancora mai stato in questa antica città romana, ora libica, che dicono incantevole, dalla quale prese il nome. Sto rimandando l’incontro sapendo che quando ci andrò i ricordi della storia romana saranno niente a confronto di quelli che conservo dentro la mia anima. Ricordi che posso rinnovare solo concentrandomi, chiudendo gli occhi, proiettando le poche immagini che ancora riesco a

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custodire: la siepetta che scavalcavo per prendere la palla quando andava di là, il portone di legno scuro chiuso solo di notte e pesantissimo da aprire per noi piccoli, le scale fresche dove d’estate trovavamo sempre qualche angolo per giocare a figurine, le cantine piene di carbone per l’inverno, il terrazzo assolato e pieno di fili dove si stendevano i panni. Flash nitidi ma intermittenti, che a volte non leggo più tanto bene e confondo non poco per mancanza di approvvigionamenti visivi. Tutto è stato distrutto. Quando ogni tanto, passando di lì, mi fermo per richiamo nostalgico irrefrenabile e cerco di capire quante case di allora occupa oggi quel mostro di vetro e cemento, quanto grande fosse stato il cortile dove giocavamo a pallone e dove ora campeggia un supermarket con volta di legno alla svedese, invece di essere aiutato a ricordare meglio i particolari, mi confondo. E scappo via, richiudendo gli occhi e concentrandomi per ridisegnare con la mente la mappa di quel luogo che non c’è più. Maledicendo ogni anno di più chi decise di spazzare via tutto, per metterci niente. A chiudere il triangolo con via Tripoli e Tripolitania c’era via Tobruk, una piccola stradina senza uscita che finiva davanti a un portone formando un’altra deliziosa piazzola. Un solo marciapiede correva lungo uno dei suoi lati, ma non ci passava mai nessuno, meno che mai le macchine. Era il nostro “piano B” nella strategia dei giochi quotidiani, il posto dove ci rifugiavamo quando qualche rompiscatole che voleva sonnecchiare il pomeriggio ci faceva cacciare dal portiere dal cortile principale. Purtroppo era asfaltata male con un granulato catramoso che sbucciava le ginocchia ogni volta che lo sfioravi, che per noi ragazzini voleva dire ogni giorno, anche più volte al giorno.

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