Stefania Spadoni Come mi senti testi | Stefania Spadoni fotografie | Stefania Spadoni stefaniaspadoni.com ISBN 978-88-9348-198-4 Prima edizione aprile 2017 ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 anno 2021 2020 2019 2018 2017 © 2017 Carlo Gallucci editore srl - Roma in copertina: foto dell’autore, elaborazione ufficio grafico Gallucci g a l l u c c i H D. c o m
Il marchio FSC® garantisce che la carta di questo volume contiene cellulosa proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. L’FSC® (Forest Stewardship Council®) è una Organizzazione non governativa internazionale, indipendente e senza scopo di lucro, che include tra i suoi membri gruppi ambientalisti e sociali, comunità indigene, proprietari forestali, industrie che lavorano e commerciano il legno, scienziati e tecnici che operano insieme per migliorare la gestione delle foreste in tutto il mondo. Per maggiori informazioni vai su www.fsc.org e www.fsc-italia.it Il bilancio dell’anidride carbonica generata da questo libro è uguale a zero. Le emissioni di CO2 prodotte per la realizzazione del volume, infatti, sono state calcolate da NatureOffice e compensate con progetti di rimboschimento, realizzati anch’essi da NatureOffice e finanziati in proporzione dall’editore. NatureOffice è una società di consulenza che studia e sviluppa strategie sostenibili per la salvaguardia del clima su base volontaria. È attiva in Europa e nel Nord e Sud America. Per saperne di più visita il sito www.natureoffice.com Tutti i diritti riservati. Senza il consenso scritto dell’editore nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e da qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, né fotocopiata, registrata o trattata da sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni.
a Sara
che è parte di me
PREMESSA «Come ti senti se ti racconto che correndo sono caduta e mi sono sbucciata un ginocchio? Ti fa male come se fossi caduto tu, oppure avverti solo un certo senso di empatia che poi una volta svoltato l’angolo ti è già scivolato via? Mi senti? Ti dico che sto bene. Perché non mi credi? E se invece ti dicessi che ho paura? Vuoi scappare? Vuoi restare? Io voglio vedere». Come mi senti è una scatola, dentro ho messo delle storie. Questo progetto di scrittura e fotografia nasce dalla mia esigenza di condividere momenti intensi di un percorso non facile. Come si affrontano la notizia di una malattia, la strada verso una possibile guarigione, le privazioni, gli ostacoli, le gioie, le delusioni, gli incontri? Non credo in una risposta unica e risolutiva, penso si proceda per tentativi. In questo libro ci sono i miei di tentativi, la necessità di tirare fuori tutto quel magma di emozioni, la possibilità di farlo con dei mezzi che mi erano familiari, il corpo, la scrittura, la fotografia. La prima parte del libro coinvolge trenta persone che non appartengono alla mia storia, ma a cui ne ho voluta raccontare un pezzo per poi chiedere loro: «Come mi senti?» e fotografarle. Ho sentito il bisogno di condividere con chi non sapeva nulla di me un momento di quello che era stato, per poi cercare nei loro occhi, nel loro atteggiamento, nella loro postura, nelle loro difese una risposta. Ogni singolo ritratto è stato per me un momento catartico, un modo per archiviare quel pezzo di storia, metterla dentro la scatola, superarla e andare oltre. Ho avvertito forte questa necessità di iniziare il progetto fotografando altri e non me stessa per condividere con loro il peso di tutto questo e per accettare il fatto che il dolore ti può toccare in qualsiasi momento della tua vita, quando meno te lo aspetti, e una volta che lo conosci, non puoi più tirarti indietro. La seconda parte, invece, è un percorso più intimo, fortemente legato al mio corpo, che ho fotografato prima e dopo la malattia. Una serie di autoritratti senza parole perché la storia ce l’ho scritta addosso. Un unico racconto li introduce. Parla del momento più sofferto e travagliato di questo mio percorso: la decisione di fare il trapianto di midollo osseo da donatore. Parla di rimettersi in gioco, di affrontare una scelta difficile, difficilissima, di un’invasione fisica notevole, di rischi, di paure, di incertezze, ma soprattutto di speranza. Ora ho chiuso la scatola, ci ho messo dentro tutte queste storie scritte e fotografate, l’ho chiusa per poter andare avanti e affrontare tutto quello che verrà. Ora puoi aprirla tu e sentirmi, se vuoi.
capitolo uno
Sono seduta in una delle tante sale d’aspetto dello IEO. Sono in attesa, ho con me un libro che mi ha regalato un’amica, Passerà anche questa di Milena Busquets, e un foglio. Sul foglio ci sono scritte delle cose tipo: “incremento numerico e dimensionale… comparsa di… reperto meritevole di approfondimento RM… possibile infiltrazione linfoproliferativa… adenopatie…” e tante altre cose mediche che non capisco. Ho scritto alla mia dottoressa ieri quando ho letto da sola questo foglio che tengo in mano. Le ho scritto: “In questi momenti vorrei davvero essere un medico perché ci sono scritte tante parole che mi spaventano, ma in realtà non capisco e quindi non so se spaventarmi o no”. La sua risposta non mi ha rassicurata. Ma come? Sono appena passata dentro una tempesta, le cure sono state lunghe e il trapianto autologo doveva essere la fine e invece? Cosa mi devo aspettare ora che si aprirà la porta e passerò dalla sala d’attesa alla verità? Cazzo ne ho passate tante e mi hanno cambiata e sono cresciuta, ma soprattutto non sono uscita illesa dalle cose. Niente intorno a me è uscito illeso. Ci sono segni e ammaccature ovunque. Oltre alla forza, oltre all’unione, oltre all’amore, ci sono botte dappertutto. E fanno male. E adesso cosa mi aspetta? Tocca a me, entro. La porta si chiude e mi crolla il mondo addosso, di nuovo. È tornato, il tumore, di nuovo. Mi spiace, l’ematologo si scusa (neanche fosse colpa sua), invece è colpa di questo mio corpo che continua a tradirmi, che continua a far spazio al dolore. Poi una piccola luce, una speranza e mi ci aggrappo con tutte le forze. Una cura sperimentale per i linfomi come il mio che resistono e ritornano. Non ci sono numeri, non ci sono statistiche, nessuna percentuale, nessuna rassicurazione, solo tanto ottimismo. Va bene mi basta! L’ottimismo va bene. Corriamo in tangenziale, corriamo come non abbiamo mai corso per arrivare in tempo in un nuovo ospedale, conoscere un nuovo dottore, una nuova cura. Arriviamo appena in tempo. Firmo ed entro nel protocollo, le spiegazioni dopo, non c’è tempo, sta chiudendo. Ci entro per un soffio, ma sono dentro. Ricomincio. Mi faccio spazio fra le macerie di questo percorso, vorrei piangere, ma l’unica istruzione che ho è l’ottimismo. Devo resistere alle lacrime e ricominciare. Il mio nuovo primario si chiama Stella, mi piace, è un buon punto di partenza. Seguiamo questa nuova stella, passerà anche questa.
Da sempre rifuggo il dolore. Non è proprio vero, nel senso che sono un’eterna romantica e l’idea di crogiolarmi nelle sofferenze d’amore mi ha sempre affascinata, ma il dolore fisico no… Ecco di quello ho paura. Non ho mai fatto un piercing, ad esempio, mai un tatuaggio anche se mi piacciono, perché gli aghi mi impressionano e l’idea di provare dolore mi atterrisce. Ogni volta che ho avuto modo di alleggerire il dolore o di soffocarlo l’ho fatto, ho usato e abusato di tutti i mezzi legali per non soffrire. Ho chiesto e implorato di non sentire e quasi sempre sono stata accontentata, tranne oggi, oggi no. Sono in sala operatoria. Una brutta infezione ha messo fuori uso il mio catetere venoso regalandomi una bella dose di fastidio e dolore, quindi oggi dopo tentativi vani di sistemare la situazione sono in questa stanza sterile per espellerlo dal mio corpo e cancellare il dolore che mi provoca. È un intervento semplice in anestesia locale. Di solito rapido e indolore. Tranne oggi, oggi no. Il chirurgo sta lavorando su una zona infetta, sopporto malamente il fastidio dell’anestesia locale, stringo i denti mi faccio pungere e il liquido inizia a bruciare. È un attimo poi silenzio. Sopporto perché penso che mi aiuterà e che dopo non sentirò più nulla. La dottoressa inizia. Punge per verificare che l’anestetico abbia fatto effetto. Sento. Ancora? Sì! Adesso? Sì! Aspettiamo. Sente se pungo? Sì! I tessuti sono troppo compromessi dall’infezione e non ne vogliono sapere di addormentarsi per un po’ di blando anestetico. Aspettiamo ancora, anestetizziamo ancora, proviamo a iniziare ancora. È stata l’esperienza più assurda di tutto il mio percorso medico. L’anestetico non ha mai funzionato e non ho avuto nessun aiuto o supporto farmaceutico che mi stordisse un po’, che ammortizzasse il sentire. Il mio volto coperto per non mostrare il dolore al chirurgo e non condizionarlo, come unico aiuto la mano dell’assistente che ho stritolato per tutto il tempo, fortissimo. Per il resto dolore e sentire, un forte sentire, vivo, pulsante. Ogni gesto, ogni taglio, ogni punto.
Dopo soli due mesi su sei dall’inizio della mia prima terapia, un cocktail di farmaci chemioterapici chiamato ABVD, mi sono sottoposta alla prima valutazione di malattia. Che poi io ho pensato: si può valutare una malattia e se sì in che modo? Perché a me verrebbe da valutarla in maniera molto semplice: schifo. Più schifo, meno schifo, non sei malato. Ecco i parametri. Invece la storia è un po’ più complessa di così. Comunque in sintesi quando guardi i risultati di una PET, che è l’esame complesso al quale mi sono dovuta sottoporre per la mia valutazione, ciò che vedi è il tuo corpo fatto a pezzi con spruzzi di colore psichedelici. Colori bellissimi, accesi, fluo. Verde, azzurro, viola, giallo. È quasi bella da vedere, la PET, se non fosse che quei colori non li devi vedere, non li vuoi vedere. Perché se ci sono i colori non va bene. Non va assolutamente bene. Quella volta però i colori non c’erano. Nessuna luce, nessun colore, nessuna malattia. Ero guarita? Già? Dopo soli due mesi? Ma è stato così facile? Davvero? Non posso aspettare, devo uscire, guidare con la musica a tutto volume, voglio cantare. È primavera e la felicità mi esplode in petto. Oggi c’è il sole, tiro giù i finestrini, guido e canto ad alta voce. Fortissimo! Mi sembra tutto bellissimo, mi sento forte e piena di vita. La gioia è ovunque dentro di me, la sento sulla mia pelle. Non ho mai provato una felicità così forte e così totalizzante. L’illusione che andrà tutto bene, tutto sarà facile, tutto sarà finito presto, perché è andata bene non ci sono colori dentro di me. Ma fuori sì! Ce ne sono tantissimi e sono i colori della vita, tutta la tavolozza. Sto bene e mi sento libera e non ho paura del futuro. Niente può ferirmi, perché non conosco la delusione e la speranza disillusa. Non so cosa vuol dire cadere e poi rialzarsi e ricominciare tutto da capo. Non so ancora nulla. Conosco solo la gioia. Sono passati solo due mesi dalla prima flebo di chemioterapia, dal mio primo cocktail. Sembra tutto così facile. Che bello essere già guarita! Sento che andrà tutto bene e che non potrà accadermi niente di brutto d’ora in poi se dopo soli due mesi il mio male è già sparito. Sto bene e sono felice.
Ho imparato la pazienza. Mi sono seduta su una delle tante sedie in una delle tante sale e ho atteso. L’ho dovuto fare perché la malattia ha fatto irruzione nella mia vita in maniera prepotente, si è presa spazi, si è presa pezzi, ha deciso i ritmi. L’attesa può essere frustrante, può diventare insopportabile, può essere produttiva, a volte è necessaria. Ho imparato anche a godere degli spazi vuoti, dei tempi morti, ho dovuto gestire il mio desiderio di alzarmi e andarmene, l’ho fatto perché semplicemente a volte non te ne puoi andare. Durante le attese ho fatto altro. Il tempo sembra come dilatarsi e l’unico modo per contenerlo è vivere altrove. Così ho cercato di spostarmi pur rimanendo sempre concentrata sul punto di ritorno. Certo a volte non bastano tutti gli aerei e i treni e i chilometri e gli oceani di tutto il mondo per sopportare l’attesa di una notizia che deve arrivare. Starò bene? Andrà meglio? È tornato? Ma io ci ho messo impegno e volontà e ho cercato la pazienza. Sono stata un’allieva diligente, ho imparato e una volta imparato ho provato a insegnare a chi mi stava accanto quest’arte così pacifica e serena di dare tempo al tempo, di non avere fretta, di non avere ansia, di respirare semplicemente e attendere. Ho imparato molto velocemente, forse troppo velocemente, tant’è che a volte mi viene il dubbio che forse la mia non sia proprio pazienza, ma più incoscienza. Forse è la paura di sapere, di conoscere, di affrontare, di concretizzare. Forse è la paura che tutto diventi reale. Forse, se ci penso bene, è questo, perché detto fra noi io di pazienza non ne ho mai avuta molta per le cose della vita. Io la vita me la prendo subito, non aspetto mai. Eppure ora sono qui seduta su una delle tante sedie in una delle tante sale e sto pazientemente aspettando.
La prima volta che indosso un pezzo di vita di un’altra persona è la vigilia di Natale. Seduta nel mio letto d’ospedale quest’anno non aspetto l’arrivo di Babbo Natale, ma di non so chi. Hai mai avuto la necessità di chiedere aiuto a qualcuno? Aiuto per davvero perché da solo non ce la fai. Io ho lottato con tutte le mie forze per farcela da sola, ho sopportato la stanchezza, la debolezza, mi sono scontrata contro un’infezione e ho perso. Non l’ho fatto per orgoglio, né tantomeno per coraggio. L’ho fatto per paura. Non volevo fare una semplice trasfusione di sangue. Ho puntato i piedi, ho pianto terrorizzata. Di chi era quel sangue, qual era la sua storia? È un uomo o una donna? Sano? Ha una moglie? Ha mai partorito? Lavora in banca? Legge? Gli piace ballare? Le dà fastidio il fumo? È tatuato? Mille domande, le più assurde, le più stupide e inutili. Paranoie mentali senza senso, una paura ancestrale ricordo della mia nascita, quando con un parto difficile ho rischiato di far perdere la vita a mia madre, salvata dal sangue di sconosciuti. Era il 1985, il virus dell’AIDS era appena esploso, e così per i mesi successivi lei si era fatta controllare, non era successo nulla, ma il ricordo di questa storia si è sedimentato dentro di me, e adesso avevo paura. Non volevo la trasfusione, perché non sapevo chi era che mi donava un pezzo della sua vita. Ma ne avevo bisogno per stare meglio e tornare a casa per Natale. Non farla il mese prima non mi aveva portato nulla di buono. Perciò ho accettato il dono e ho indossato un pezzo di vita di non so chi. Dopo sono stata così bene, tanto. Forse è un uomo forte, un ragazzo giovane pieno di vita, una donna energica… non lo so. Ho indossato i suoi vestiti, mi hanno protetta, mi hanno resa più forte e me ne sono andata per la mia strada. Sono stata bene e non ho avuto paura mai più. È strano. È anonimo. È meravigliosamente umano.
Ci sono scambi nella vita che ti conducono in posti inaspettati. Ad esempio in Sicilia in una piccola chiesetta gotica piena di ventagli bianchi e gente sconosciuta vestita a festa. Qualche mese prima ero in una camera d’ospedale, Valeria era solo una sconosciuta senza capelli spaventata del futuro e in perenne crisi con se stessa. Incerta sicuramente. Oggi, invece, qui in questa chiesetta gotica a Palermo, è una donna forte, decisa e bellissima. È soprattutto un’amica. È diventata un’amica. Non di quelle amiche che conosci da bambina e da cui non ti separi più, un’amica di quelle che incontri per strada in un momento definito della tua vita. Un’amica che ti insegna e alla quale tu insegni. Un’amica della quale impari presto i ritmi, che sai come dorme, se russa, cosa mangia o cosa riesce a mangiare, come si sveglia e di cosa ha bisogno per stare bene, come si lava e quante volte al giorno sente sua madre. Un’amica che soffre e che sa cosa vuol dire sperare. Conosci delle cose così intime e riservate di questa tua nuova amica che solo la condivisione di una piccola stanza d’ospedale ti sa dare. È a tutte queste cose che penso mentre la vedo camminare, bianca ed emozionata. L’abito da sposa, i capelli biondi, ricci, forti e belli. I fiori in testa, non più il turbante, non più i foulard. La sensazione di averla vista nel momento peggiore della sua vita e qualche mese dopo nel momento più bello, mi travolge, non mi abbandona. Splendente, vestita da sposa ora, stanca, con il pigiama prima. L’emozione che mi si dipinge in volto non c’entra nulla con l’emozione delle altre donne in chiesa. Valeria si sposa, ma non m’importa. Valeria è viva, bella, forte, cammina sui tacchi. È libera. E io sono qui di fianco a lei, per un secondo solo, mi sento bella, forte e libera anche io. Poi avanza, va verso il suo altare. La guardo, sento che dall’incubo si esce, che si va avanti e si lasciano le cose brutte indietro. Basta camminare. Sento che dopo la crisi c’è la festa. E festa sia, amica, almeno per oggi, almeno in Sicilia. Sia festa per sempre e sia festa a lungo, che sia festa per tutti, perché la malattia ti toglie molto, ma ti lascia tanto.
Dovetti accettare l’opzione numero tre. Il linfoma era ancora presente, ma facevamo ugualmente il trapianto. Certo, con qualche “precauzione” in più. Dovetti quindi buttar giù anche il fatto di dover affrontare una decina di sedute di radioterapia prima del ricovero. Dovetti buttar giù un bel po’ di cose e il 4 novembre, cinque giorni prima del mio compleanno, mi diedero un letto e un nuovo catetere venoso per chemio e trapianto di midollo. Festeggiai i miei 31 anni in ospedale, dopo tre giorni di chemioterapia ad alte dosi, in pigiama, con una torta confezionata. Soffiai le candeline, in camera con me mia madre e le infermiere. Il giorno dopo, il 10 novembre 2016, ricevetti da mia sorella, che guarda caso ha proprio il mio stesso identico sangue, il più bel regalo di compleanno che mi si potesse fare. Il mio medico e due infermiere mi portarono una sacca piena di quel sangue. Era il sangue di mia sorella, erano le sue cellule staminali, era la mia nuova linfa, vita e speranza. Era emozione pura. In mezz’ora d’infusione ero rinata e ora Sara era sangue del mio sangue o viceversa, non saprei qual è la formula migliore, quello che so è che è stato il più bel regalo di compleanno di sempre. Per sempre. Spesso si parla di trapianto come di seconda nascita, lo è, tutto il percorso è stata una lunga gravidanza che ha portato alla luce una persona nuova. Oggi non sono più la ragazza a cui è stato diagnosticato il linfoma nel 2013. La malattia ti cambia e ogni singolo gesto, pensiero, decisione dal giorno della diagnosi fino al giorno della guarigione contribuisce a formarti in modo unico e speciale. Passo dopo passo arrivare alla guarigione è la scuola. Passarci attraverso è complesso, la malattia ti costringe a lavorare con te stessa, su te stessa e per te stessa. Occorre trovare un modo. Accettare, imparare il fallimento e la possibilità, comprendere che la realizzazione costa fatica, che la meta non è unica, ma il percorso è fatto di tante piccole tappe. Gennaio 2017, la mia tappa questo mese porta con sé gioia e soddisfazione. L’indagine è stata acquisita 60 minuti dopo la somministrazione del radiofarmaco utilizzando un tomografo dedicato, in modalità di acquisizione 3D. È stata eseguita scansione TC per correzione dell’attenuazione, registrazione e fusione con le immagini PET… L’analisi delle immagini evidenzia la sostanziale scomparsa del reperto descritto all’altro controllo… in rapporto a una risposta metabolica completa alla terapia. Null’altro da segnalare. Vuol dire che va bene, il tumore non c’è più.
QUALCOSA DA IMPARARE
Scrivere di un libro è spesso impresa difficile e scivolosa. Scrivere in merito al libro di Stefania Spadoni, però, è stato spontaneo perché come ci dice l’autrice «non ci sono numeri, non ci sono statistiche, nessuna percentuale, nessuna rassicurazione, solo tanto ottimismo». Qui si impara ad amare la vita, a non sprecare il tempo, a gioire dei successi in modo intenso, semplice ma assoluto, a non abbattersi per gli insuccessi trasformandoli con la meditazione e con la forza delle immagini in un’attesa piena di speranza, come in una specie di Siddharta. Con lo scorrere progressivo delle immagini, ti senti calato in un mondo dove l’affetto è un gesto quotidiano, dove la paura perde significato, dove la vita è il bene più prezioso. Un mondo fantastico che riesce a unire la realtà ai sogni più segreti, trasformare ogni istante di vita, anche il più cupo, in un momento di gioia, un mondo dove si respirano i profumi di “vaniglia e zenzero”. È evidente che le terapie a cui Stefania si è sottoposta non solo non hanno mai leso la sua dignità, ma anzi le hanno fatto fare un percorso più intimo, fortemente, anzi direi indissolubilmente, legato al suo corpo che lei fotografa prima e dopo la malattia. Non c’è dolore in questo contenitore, ma la semplice volontà di mettere in pratica tutta la bellezza della sua morale: ammalarsi non è una sottrazione di vita, ma l’occasione per guadagnarne di più. La tempesta non è poi così brutta, anche per chi vorrebbe essere cullata dolcemente. La pazienza, l’arte di non avere fretta né ansia deve essere il compagno di viaggio che ti fa respirare dolcemente. Come mi senti? È la domanda implicita che il medico che affronta un malato di tumore deve sempre sentire dentro di sé. Ringrazio l’autrice che è riuscita, dopo molti anni di attività medica in campo oncologico, ad aumentare le mie conoscenze, a ispirarmi e insegnarmi qualcosa che la professione non mi aveva ancora fatto conoscere. Va bene, ci basta! L’ottimismo va bene, lentamente torneranno i colori, i frutti e la bellezza, cara Stefania. Torneranno a te e ai tanti amici che hai trovato per strada in un momento così bene definito della tua vita.
Marco Alloisio Presidente della Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori Milano
GRAZIE Agnese Bargero, Armando Meroni, Chiara Paglieri, Deborah Beretta, Eugenio Pini, Alessio Negro, Alice Beatrice Carrino, Alessandro Floris, Francesca Bosio, Giulia Piccolo, Alessandro Del Gaudio, Giulia Trimaglio, Fabio Tripaldi, Irene Leone, Annalì Rainoldi, Lorenzo Conti, Giusy Orsino, Martina Venturi, Michele Beccaria, Ingrid Maenza, Nathalie Roudier, Nicola D’Incecco, Paolo Stella, Patrizia Milazzo, Linda Tintero, Sara Boetti, Sara Mauro, Serena Tripaldi, Silvia Danielli, Valerio Oneto per essersi fidati, aver letto un pezzo della mia storia ed essersi lasciati fotografare Studio O, DanceHaus, Casa Berroni, FE Fabbrica Esperienza, Marco C. Matarese, Roberta Ceretto, Villa Pattono, Cascina Stella, Istituto Umberto I per aver dato una casa alle mie foto International MBA - Making Beauty Academy e in particolare Valentina Becker, Sara Bedarida, Filippo Del Bola, Chiara Marinosci, Maria Gabriela Torres, Sara Turconi, Elisa Vogesi per aver reso tutto più bello e Petit Garçon Bijoux per la splendida sirena metropolitana Valerio Berruti per aver creduto in me sempre e avermi dato la forza di essere me stessa Elisa Giordano perché si commuove per ogni mio successo Laura Valetti per i saggi consigli quando neanche immaginavo di poter fare un libro Cristina Ghisolfi per le dritte preziose, le mail, le telefonate Armando Meroni perché ogni volta che tentavo di mollare non me l’ha mai permesso Massimo Locati per le mille parole spese insieme davanti a un caffè Efrem Civilini per la sua umanità e il suo supporto Marco Alloisio per il suo impegno medico, umano e le sue parole Elena Vaninetti e Matilde Scaramellini per avermi fatto uscire dagli schemi I medici, gli infermieri e tutto il personale degli ospedali Cardinal Massaia, IEO e Humanitas che si sono presi cura di me, vorrei davvero nominarvi tutti uno per uno, ma siete tantissimi, ci vorrebbe un altro libro e forse ci sarà Mia sorella Sara per avermi donato speranza Graziella ed Ercole perché una madre e un padre così vuol dire sapere di potercela fare Tutta la mia grandissima famiglia per esserci Giovanni che mi è stato vicino sempre dall’inizio e ancora c’è Valerio, Elisa, Patrizia, Fabio, Irene, Marco, Serena, Dema, Veronica, Samuele, Sara, Pony la vostra amicizia è la mia forza e Zeno, Tea, Nina siete la mia dolcezza Adriano Porta, Alberto Mastria, Alessandro Porta, Alessandro Rittà, Andrea Demagistris, Andrea Porta, Antonietta Mastria, Arturo Ricciuti, Bruna Bertuccioli, Bruno Carbone, Carmela Mastria, Chiara Mastria, Cristina Mastria, Dario Mastria, Davide Cavallotto, DJ Pony, Domenica Mastria, Elisa Giordano, Ercole Spadoni, Fabio Chiarla, Francesco Mastria, Gabriella Ricciuti, Giuseppe Rinaldi, Graziella Mastria, Ines Falletto, Irene Giordano, Jessica Fregoni, Katia Brusco, Luca Cravanzola, Marco Castrone, Marco Severi, Nivruti Bodino, Paola Brusco, Paolo Mastria, Patrizia Giordano, Pietro Deligia, Produttori del Barbaresco, Rita Campi, Sara Aria, Sara Rocca, Serena Inserra, Tonino Porta, Valentina Voghera, Valerio Berruti, Veronica Dellapiana, Vittore Alessandria, a tutti voi un grazie speciale per aver contribuito alla realizzazione di questo libro
Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl da Longo spa (Bolzano) nel mese di aprile 2017