Alta Definizione Gallucci
James Joyce Finn’s Hotel
Traduzione di Ottavio Fatica
Disegni di Casey Sorrow
James JoyceFinn’s Hotel
traduzione di Ottavio Fatica disegni di Casey Sorrow
ISBN 978-88-6145-652-5
Prima edizione italiana novembre 2013
ristampa anno 7 6 5 4 3 2 1 0 2013 2014 2015 2016 2017
© 2013 Carlo Gallucci editore srl Roma
© 2013 Ithys Press - Dublin
L’introduzione di Danis Rose e la postfazione di Seamus Deane sono state tradotte da Giovanna Granato
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Introduzione di Danis Rose
Danis Rose è un eminente studioso testuale del corpus joyciano. Con John O’Hanlon ha curato per i Penguin Classics l’edizione critica restaurata di Finnegans Wake.
Tra i suoi libri: The James Joyce Archive vols. 28-63 (New York 1977-78), Understanding Finnegans Wake (New York 1982). Di prossima pubblicazione: Ulysses: the Restored 1922 Edition.
Ecco un’altra versione. Ai bei tempi, e per essere belli lo erano davvero, c’era un giovanotto che camminava per la via e questo giovanotto che camminava per la via incontrò una bella ragazza di nome
Nora Barnacle…Era James Joyce – Sunny Jim – enfaticamente l’uomo giusto al posto giusto. Aveva gli occhi azzurri e la carnagione chiara e portava un cappello che secondo Nora lo faceva somigliare a un marinaio svedese. Lei, la più vezzosa d’Irlanda, aveva i capelli rosso scuro come una palude al tramonto, gli occhi blu mare in burrasca e l’aria strafottente. Abitava al Finn’s Hotel, un austero edificio di mattoni lungo la via dove, sfuggita a un convento di Galway e a uno zio manesco (certo Mick, non Mark), rigovernava le stanze e serviva ai tavoli.
Deh, non dovess’ella! Di lì a poco James aveva conquistato l’amore di Nora e Nora quello di James; lui la portò con sé a bordo di una nave sopra la faccia degli abissi, palpitante di passione, lasciandosi dietro lo scandalo. Dopo tante traversie e traversate si ritrovarono, due sbandati, a vivere a Parigi. Lui intanto, in un esilio senza idillio, era diventato il
maestro della prosa: aveva scritto Ulisse. Non aveva, però, ancora raggiunto il suo scopo: forgiare nella fucina della propria anima la coscienza increata della sua razza ribelle.
Poi, com’era già successo a un predecessore, san Patrizio, la voce dell’irlandese lo chiamò più volte in sogno. Quella voce e quei sogni – difficilissimi da decifrare per il resto del mondo – avrebbero dominato la sua ultima, grande, onnivora opera, Finnegans Wake. Questo, però, soltanto in seguito. Per il momento non sapeva da che parte cominciare. Alla fine, sin dalla più tenera età lungimirante, si mise a raccogliere il materiale, dapprima a rilento, poi con sempre maggiore sicurezza.
Nel metodo compositivo di Joyce ricorre uno schema. Dapprima crea un testo, o più testi, dove chiama a raccolta i personaggi. Lo elabora fino a un certo punto e poi lo abbandona, avendolo nel frattempo (con i personaggi ormai in loco) riconcepito. Poi elabora di nuovo la versione reimmaginata, attingendo all’occorrenza ai testi precedenti.
Così vediamo il Ritratto dell’artista da giovane emergere dai frammenti di Stefano Eroe, Ulisse emergere dai frammenti di un seguito del Ritratto, da Giacomo Joyce e da un racconto di Gente di Dublino progettato e mai scritto (intitolato anche quello Ulisse). I suoi grossi tomi sono, in un certo senso, un processo in due fasi: una non poteva bastare. Le
opere iniziali sono come enzimi che accelerano la creatività.
L’ultimo romanzo non fa eccezione. L’idea di base vedeva un anziano Finn McCool dormire sull’argine del Liffey mentre in sogno gli scorreva accanto la storia dell’Irlanda. Inquadrata questa idea seminale, che si sarebbe in parte realizzata in Finn’s Hotel, Joyce cominciò a scrivere.
Il Finn’s Hotel, un posto dove la gente va e viene, fa da trait d’union fra Ulisse e Finnegans Wake.
È un’opera in sé compiuta e allo stesso tempo una meravigliosa introduzione serio-comica e di facile lettura ai temi e ai personaggi chiave del libro successivo, di conclamata difficoltà.
Finn’s Hotel nasce come una serie di favole: prose brevi, concise e concentrate (“epicleti”, per usare il neologismo joyciano), incentrate su momenti formativi della storia o del mito irlandesi che abbracciano il millennio e mezzo dall’arrivo in Irlanda di san Patrizio. Le compose nel 1923, all’incirca sei mesi dopo essersi definitivamente liberato dell’Ulisse e prima di concepire la trama, la struttura o la pura e semplice immensità dell’epico Finnegans Wake.
Gli episodi di Finn’s Hotel sono scritti in una singolare varietà di stili e in genere in un inglese semplice. Presi nell’insieme costituiscono il preludio vero (e finora sconosciuto) alle voci multimodulate di Finnegans Wake. Joyce li compose uno per volta, rivedendone alcuni e lasciandone altri in
forma di abbozzo prima di accantonarli. E rimasero così, quasi dimenticati, alcuni per sedici anni (finché Joyce non rovistò in quell’armadio a caccia di materiale per le ultime parti di Finnegans Wake che aveva scritto), e alcuni per sempre, vale a dire finora. Un solo episodio, quello su Pop (Eccoquì Convenir Hominognuno) è a sé stante. Verso la fine del 1923, riprendendolo in considerazione vi scorse un’apertura, un possibile sviluppo narrativo da seguire e ampliare nella sua nuova epopea irlandese (che si contrapponeva alla sua vecchia epopea dublinese):
Finnegans Wake.
Per gli studenti di letteratura inglese James Joyce è il nonno di tutte le canaglie. Non gli è bastato lasciarsi dietro quella “cronaca giocosa, onninclusiva e farraginosissima” che è l’Ulisse. Non gli è bastato nemmeno lasciarci quel libro pantagruelico, pressoché impubblicabile e sconcertante che è Finnegans Wake. Ci ha lasciato più di cinquantamila pagine manoscritte su cui scervellarci, molte praticamente impenetrabili data la calligrafia quasi illeggibile, oltre a decine di taccuini decisamente caotici, fogli e fogli con elenchi di parole a caso che rimandano l’una all’altra e letteralmente a migliaia di lettere. E per capire fino in fondo i suoi romanzi
è davvero necessario studiare tutta quanta l’œuvre, integralmente, fin nei minimi particolari. La sfida più ardua per esegeti e testualisti (“pulisciti le glosse con quello che sai”) è stata Finne
gans Wake: da dove viene, dove va a parare e, in nome di Dickens, di che cosa parla. Adesso però, in quest’universo di accenni e congetture, di suggerimenti non dati alla stampa, i testi intermedi che costituiscono Finn’s Hotel arrivano come una specie di stele di Rosetta, una nuova lente attraverso la quale osservare le zone oscure del libro dei sogni.
Quando, nel 1992, la Penguin Books annunciò l’imminente pubblicazione di Finn’s Hotel, la notizia suscitò un certo scalpore. I commentatori fantasticarono di un possibile insieme di racconti alla Gente di Dublino scovato sotto chissà quale materasso, in un cassetto segreto o in qualche altro posto improbabile. In realtà è un caso che ricorda molto da vicino quello della lettera trafugata di Poe. Buona parte del manoscritto di Finn’s Hotel è stato per decenni sotto gli occhi di tutti e in passato l’hanno preso in esame non pochi illustri studiosi. Il problema non era tanto che i manoscritti esistessero o meno, bensì che costituivano un coacervo. Harriet Shaw Weaver (proprietaria in prima persona dei documenti) aveva tentato di dare un ordine ai manoscritti del testo precedente scomponendoli e inframmezzandoli singolarmente ai manoscritti di gran lunga più numerosi del testo successivo. Di conseguenza i singoli elementi di Finn’s Hotel sono stati interpretati come “versioni precedenti” di episodi ampiamente separati di
Finnegans Wake (distanti sia per la posizione che occupano all’interno del romanzo sia per la data di composizione).
Un equivoco comprensibile e forse evitabile se non ci fossero state tante interpolazioni e se gli studiosi fossero venuti a sapere di un’altra serie di carte relative a Finn’s Hotel nascoste per davvero – un ampliamento dei frammenti già noti – venuta alla luce soltanto pochi anni fa a Parigi e ora conservata alla National Library of Ireland. Questi episodi “extra” non sono mai stati reintegrati nel testo successivo di Joyce e corroborano fortemente la tesi di un’opera intermedia autonoma anche se abbandonata. Sta di fatto che all’epoca io (e a quanto pare nessun altro) non ero convinto dell’opinione diffusa sulla natura e la posizione che quei frammenti occupavano all’interno dell’œuvre. Non si combinavano in alcun modo con la genesi di Finnegans Wake, che oramai conosciamo a menadito e con grande dovizia di particolari. Possiamo ripercorrere ab ovo e nel dettaglio l’evoluzione di capitoli, sezioni e sottosezioni di Finnegans Wake da cima a fondo e non c’è un solo punto dove occorra, o razionalmente si scorga, una sovrastruttura che questi elementi “precoci” (“nodi” secondo la terminologia di David Hayman) dovrebbero fornire. Di sicuro uno, Eccoquì Convenir Hominognuno, che racconta come Pop si sia guadagnato il nome di Earwicker, è diventato la base di partenza per Fin
negans Wake e di sicuro il tema di chi ha scritto la lettera e di chi l’ha consegnata è stato ampiamente elaborato; ma Finnegans Wake nelle sue linee generali puntava da tutt’altra parte e il fatto che la fase finale della sua composizione, il 1938, abbia visto l’integrazione ad hoc di alcuni brani di Finn’s Hotel non avvalora in alcun modo la presunta natura di prima stesura attribuita a questi ultimi.
Ciò che ne consegue a rigor di logica – ossia il fatto che essi non sembrano adattarsi perché non si adattano – mi è diventato chiaro dopo aver messo insieme i pezzi, separandoli dalla raccolta più ampia, e dopo essere risalito all’ordine di composizione e averli confrontati (a prescindere da Finnegans Wake) con i commenti altrimenti inapplicabili e inspiegabili che Joyce forniva nella sua corrispondenza del periodo (dove diceva, per esempio, che il titolo di quanto andava scrivendo era un’allusione diretta a Nora Barnacle; che stava percorrendo la galleria di una montagna da tutt’e due le parti nella speranza di ritrovarsi al centro; che era una storia dell’Irlanda eccetera) e, cosa importantissima, capendo che i pezzi “fuori posto” avevano un titolo originale, Finn’s Hotel, la cui ombra si è allungata sui successivi diciassette anni della composizione di Finnegans Wake. Pare anzi che Joyce volesse mantenere quel titolo originale. Solo verso la fine dell’“opera in corso”, com’è ovvio, non l’ha considerato più adeguato e ha optato per il nuovo titolo
Finnegans Wake. Il “vecchio” titolo l’ha seppellito (come .i..’. .o..l) nel corpo del testo dell’opera in corso, un titolo dentro un titolo.
L’opera più vasta è scaturita dall’episodio Eccoquì Convenir Hominognuno di Finn’s Hotel: la storia di un “uomo montagna” di nome Earwicker. Joyce, per inciso, aveva incontrato lo strano nome a Bognor, nel 1923, leggendo sulla guida turistica del luogo che nel cimitero di Sidlesham nella Hundred of Manhood (un distretto territoriale) gli esponenti della famiglia (inglese) degli Earwicker riposano accanto a vicini dai nomi altrettanto strani: Glue, Gravy, Northeast e Anker.
Alla sua prima apparizione Earwicker è un locandiere balbuziente che esce trafelato e con il viso in fiamme dal giardino dietro il suo albergo con un finto scettro in mano – stava piazzando le trappole per catturare le forfecchie (earwigs), trappole fatte con bastoni e vasi di fiori capovolti – per accogliere una partita di caccia reale che si è momentaneamente fermata all’esterno. Il re, notando lo strano equipaggiamento del suddito, ride e scherza con due del suo seguito dicendo che è straordinario imbattersi in un tipo che oltre a essere un casellante è anche un “forfecchiere” (earwicker).
Senza mai discostarsi da una vena comica profondamente irlandese, Joyce scrisse le cose più disparate sulla storia di Earwicker, sul suo presunto peccato originale “nel parco” e le relative conse-
guenze, su Mom (ripensata come Anna Livia) che scrive una lettera al “re” scagionando/incolpando il marito, e sulla famiglia di Earwicker (due figli guerrafondai che da grandi faranno rispettivamente lo scrittore e il postino, e la sorella, che comincerà a spezzare cuori non appena l’età glielo consente). Con questo nucleo familiare ben inserito sia a Chapelizod sia nella storia mondiale, non c’è più niente a frapporsi tra lui e l’espandersi esponenziale del nuovo romanzo nel suo personalissimo Libro dei morti, il libro destinato a diventare la più grande favola dell’Irlanda e con ogni probabilità del mondo intero: Finnegans Wake.
Lascio ulteriori commenti a Seamus Deane che, nella postfazione, considera Finn’s Hotel da un punto di vista storico-letterario più ampio. Pochi sanno delle difficoltà che ho incontrato a partire dal 1992, dopo l’annuncio dell’imminente pubblicazione di Finn’s Hotel corredata dei miei argomenti a sostegno del testo. Apriti cielo. Sui giornali hanno riferito in tono volutamente ingigantito di un contenuto che nessuno aveva ancora visto. Gli studiosi di Joyce, con lodevoli eccezioni, sono, neanche a dirlo, inorriditi, come un branco di talpe sorpreso dalla luce del sole. Il Joyce Estate, pur avendomi già dato il permesso di pubblicare l’edizione, è andato su tutte le furie e gli editori hanno avuto paura. Si sono formati gli schieramenti, ci sono state pressio-
ni, più o meno velate, di vario genere, gli avvocati tra collisioni e collusioni si sono rivelati quei lacertini temporeggiatori che sono e alla fine tutto, come Finn, come Finnegan, è finito nella bara.
In un certo senso, la storia della pubblicazione di Finn’s Hotel, con tutte le sue ramificazioni, rispecchia la storia del signor Earwicker, la peste del parco. Viene alla luce; fa un figurone; minaccia un manigoldo che lo minaccia di rimando; si salva fuggendo in un mondo sotterraneo; diventa prima uno scandalo pubblico poi un semplice pettegolezzo; e, trascorsa una generazione, la sua stessa realtà ontologica è in discussione: alcuni arrivano al punto di mettere in dubbio “la canonicità della sua esistenza come ipercubo”.
Con questa pubblicazione un’altra piccola tessera del complicato puzzle della storia e della letteratura irlandesi si sottrae alla repressione e ci fornisce un quadro più chiaro di come siano andate davvero le cose. Sono felice di interpretare il ruolo del postino che si presenta, sia pure in ritardo e sbarellando, con un “bellissimo pandono naturlizio”.
Finito di stampare per conto di Carlo Gallucci editore srl presso CDC Arti Grafiche srl di Città di Castello (Pg) nel mese di novembre 2013