Il giovane Napoleone

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UAO Universale d’Avventure e d’Osservazioni 10



Ernesto Ferrero

Il giovane Napoleone disegni di Roberto Perini


Ernesto Ferrero Il giovane Napoleone

disegni di Roberto Perini

ISBN 88-88716-74-2 Prima edizione aprile 2006 © Carlo Gallucci editore srl Roma ristampa 5 4 3 2 1 0 anno 2011 2010 2009 2008 2007 2006 9

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Sogno d’inverno

pagina 9

Un giardino in capo al mondo

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Chez Balcombe

21

La casa di Ajaccio

27

Aquile e leoni

31

Alla festa del Re Sole

37

Mucche, api e polpette

41

Il tamburo di Rabulione

49

Pettegolezzi

59

Il fiuto di Jack

63

La nuova casa

65

Il signorino Malaparte

71

Cara mamma

75

Centosettantasei gradini

79

Giovane ufficiale senza futuro

83

Il tempo degli addii

87



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Sogno d’inverno

I

muri dell’aula erano grigi di muffa. Le macchie d’umidità facevano strani disegni. Con un po’ d’immaginazione ci potevi vedere un cane, addirittura un drago. «Corpo di mille draghi!» disse ad alta voce il ragazzo per farsi coraggio e la sua voce rimbombò nello spazio vuoto. Faceva così freddo che anche la fiamma della candela ne sembrava quasi intimidita e si ritraeva su se stessa. Il ragazzo non osava nemmeno guardare fuori dai vetri, nell’impasto di grigio che l’inverno faceva nel cortile del collegio. Detestava l’inverno e detestava il collegio. Non vedeva suo padre da anni. Era un tardo pomeriggio del dicembre 1781. Le lezioni erano finite, ma lui era rimasto lì da solo, in classe, perché non voleva stare con gli altri compagni in una camerata altrettanto fredda. Non voleva che quei nobilotti stupidi e arroganti lo prendessero in giro perché era troppo magro, aveva capelli troppo lunghi e uno strano accento da straniero. Si sentiva le mani di ghiaccio. Cercava di tirare la manica della 9


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giacchetta verso i polsi. Era cresciuto troppo in fretta e la manica tendeva a risalire verso il gomito, più che a scendere verso il polso. Era magro come certi gatti della sua città, che gli potevi contare le costole sulla pelle troppo tesa. Non sentiva fame. Avrebbe voluto soltanto avere un amico con cui parlare. Ogni tanto la spalla destra gli faceva un sussulto all’insù, per conto suo. Il naso cominciò a colargli. Allora tirò fuori dalla tasca il grosso fazzoletto bianco che sua madre gli aveva dato quasi di nascosto, la mattina che era partito da casa, e si soffiò il naso rumorosamente. Il fazzoletto aveva ancora l’odore degli armadi di casa: timo e lavanda, erbe aromatiche che venivano dalla campagna. Si sentì meglio. Prese l’atlante di geografia, lo aprì con cura e cominciò a sfogliarlo lentamente. Cercava i paesi del Sud, quelli che non conoscono la nebbia, la neve, gli inverni interminabili. Il suo dito si perdeva nei laghetti azzurri che il mare faceva sulle carte. Percorse tutte le coste dell’Africa bagnate dall’Oceano Indiano, la Somalia, il Mozambico, sognò palme e lunghe spiagge bionde di sabbia fine. Scese fino alla Città del Capo, poi prese a risalire lentamente verso l’Angola, il Congo. Cercava di immaginare le immense vastità dell’Africa, popolate di alberi giganteschi, di deserti e di leoni. Fu allora che la sua attenzione venne attratta da un puntino in mezzo a quell’azzurro del mare, proprio a 10


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sinistra dell’Africa. Lì per lì credette che fosse una cacca di mosca, il lume della candela era sempre più fioco. Guardò meglio. Accanto al puntino c’era scritto un nome: Sant’Elena. Che cosa ci faceva quell’isola microscopica in mezzo al mare? Di chi era? Chi ci viveva? Ci arrivava mai qualcuno, magari per sbaglio? Per sbaglio no, si disse, era impossibile arrivarci per caso. Sarebbe stato più difficile che trovare un ago nel pagliaio. Il ragazzo era uno scolaro molto diligente. Prese il quaderno di geografia, lo aprì su una pagina bianca. Non sapeva bene cosa dire. Così scrisse le uniche cose di cui era sicuro: “Sant’Elena, piccola isola”. Il ragazzo veniva da un’altra isola che era passata alla Francia da pochi anni, la Corsica. Aveva un nome strano, non francese. Si chiamava Napoleone Buonaparte.

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Un giardino in capo al mondo

N

el giugno 1815 Napoleone Bonaparte, imperatore dei Francesi, fu sconfitto a Waterloo al termine di una battaglia sanguinosa e si consegnò nelle mani dei nemici di sempre, gli Inglesi. Pensava che gli Inglesi gli avrebbero assegnato una villa nella loro campagna così bella, verde e riposante. Invece questi, che avevano una gran paura che lui se ne scappasse di nuovo, come aveva fatto tre mesi prima dall’isola d’Elba, decisero di portarlo in un posto così lontano che da lì non sarebbe potuto scappare nemmeno il Diavolo in persona. Scelsero Sant’Elena. Un pezzo di roccia vulcanica in mezzo al mare infinito che sembra una noce di pietra: tutta nera e con pochi alberi, battuta dai venti, umida d’estate e d’inverno. Ci vivevano bene solo le capre, che la facevano da 13


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padrone. Difatti ce n’erano tantissime e andavano a brucare dappertutto. Sant’Elena era il posto giusto per vendicarsi di un nemico sconfitto. Napoleone ci arrivò dopo un viaggio lungo sessanta giorni. Gli Inglesi non sapevano bene dove sistemarlo, lui e le venticinque persone del suo seguito. Finalmente trovarono in mezzo alle colline una casetta, poco più di una stalla, che poteva essere messa a posto alla meglio per l’illustre ospite. Lì avrebbe vissuto come un prigioniero l’uomo che, sino a poco tempo prima, era stato padrone dell’Europa ed era famoso anche in Cina. Nei primi giorni Napoleone non sapeva bene cosa fare. Andava in giro con il suo cavallo per fare conoscenza di quell’isola così poco ospitale. Scoprì in una valle meno peggio delle altre una villetta bianca, immersa in un bel giardino verde, che gli sembrava niente male. Poco lontano c’era una cascatella d’acqua che produceva un suono gentile. La villetta era molto inglese. Ci viveva la famiglia del signor Balcombe, un ricco proprietario che riforniva d’acqua e di viveri tutte le navi che facevano scalo sull’isola. Il signor Balcombe era un uomo piuttosto allegro, panciuto, che amava chiacchierare e bere buoni vini. Aveva una moglie (che, guarda caso, dicevano assomigliasse a Giuseppina, la moglie di Napoleone) e quattro figli, due maschi e due femmine. 14


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La più sveglia di questi figli era una ragazzina di nome Betsy, diminutivo di Elizabeth. Era quel che si dice un peperino. Adorava giocare in giardino, si arrampicava ovunque e amava gli animali, soprattutto i cavalli, come ogni bambino della sua età. Portava i pantaloni, che erano più comodi per giocare, ed era sempre spettinata. I suoi genitori dicevano sospirando che era un vero maschiaccio. Però imparava con facilità e leggeva molti libri. Al tempo in cui la sua famiglia stava ancora in Europa, Betsy aveva fatto un lungo viaggio con suo padre e con una cameriera francese. Imparò la sua lingua in fretta. Quando cinque signori stranieri, molto eleganti nelle loro divise, si presentarono al cancello del giardino, il signor Balcombe fu preso dal panico: «E adesso come facciamo a capirci con loro?» «Ma c’è Betsy, che parla benissimo il francese», disse con orgoglio la signora Balcombe. Mandò a chiamare la bambina, che arrivò di corsa, come al solito, perché non stava mai ferma. Sembrava che non aspettasse altro: fu gentile, disinvolta e del tutto a suo agio. Fece una riverenza e guardò negli occhi quello strano signore. Gli sorrise. Lui le restituì prontamente il sorriso. L’Imperatore era piuttosto rotondetto, proprio come il signor Balcombe, non troppo alto, dagli occhi tra il grigio e il nocciola, giacca verde da generale dei Granatieri, pantaloni bianchi. In testa portava il fa15



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