Ma capita solo a me?

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Peter Orner

traduzione di Riccardo Duranti

Una vita da lettore, letture di una vita

Ancora oggi, per la maggior parte dei prosatori e di sicuro per la maggior parte degli editori, il romanzo rimane supremo, specie in questo Paese dove veneriamo tutte le cose grandi per la loro grandezza. È una cosa che mi ha sempre confuso. Dov’è il grande romanzo di Borges? Borges, che diceva sempre la cosa giusta, ha detto anche: Mi piacciono gli inizi e mi piacciono i finali, le lunghe parti di mezzo le lascio a Henry James. Alleluia! Quanti bei racconti sono andati perduti perché gli autori hanno lavorato per anni come schiavi per imbottirli di parole superflue e trasformarli in romanzi che non ne avevano bisogno? Quali verità sono rimaste sepolte? Quante nuove forme non sono mai state create?

Peter Orner

Ma capita solo a me?

disegni di Eric Orner

traduzione dall’inglese di Riccardo Duranti

dello stesso autore:

L’ultima auto sul Sagamore Bridge

La seconda venuta di Mavala Shikongo

ISBN 979-12-221-0594-9

Prima edizione italiana agosto 2024

ristampa 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2028 2027 2026 2025 2024

© 2024 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Titolo originale: Am I Alone Here?

testo © 2016 Peter Orner

disegni © 2016 Eric Orner

I passaggi delle opere citate sono stati tradotti dall’inglese da Riccardo Duranti appositamente per i lettori di questo libro.

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Peter Orner

Ma capita solo a me?

Una vita da lettore, letture di una vita

disegni di Eric Orner

traduzione dall’inglese di Riccardo Duranti

A Katie e Phoebe e

alla memoria di mio padre

I miei studi sono stati così inconsapevoli che non riesco mai a distinguere bene quali dei miei pensieri vengono da me e quali dai miei libri, ma è così che sono riuscito a essere in sintonia con me stesso e con il mondo che mi circonda negli ultimi trentacinque anni. Perché quando leggo, non è che leggo in verità; mi metto in bocca una bella frase e la succhio come una caramella alla frutta, oppure la sorseggio come un liquore finché il pensiero non si scioglie in me come alcol, mi pervade cuore e cervello e poi scorre nelle vene fino a raggiungere le radici di tutti i vasi sanguigni.

Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa

Appunti per un’introduzione

Solo, in garage, con tutti questi libri. Sugli scaffali, ormai, non c’è più spazio. Sono costretti a vivere impilati. Tecnicamente, sono un residente a tempo parziale dell’appartamento di sopra, ma passo un sacco di ore quaggiù, in quello che chiamo, senza abbastanza ironia, il mio ufficio. In questo spazio, i nostri ex vicini erano soliti girare i loro video porno amatoriali. Quando sono andati via, hanno lasciato dei potenti faretti sul soffitto (se li lascio accesi tutta la notte possono appiccare un incendio) e così me ne sto seduto qui, immerso nella luce brillante, a contemplare questi mucchi di libri che mi schiacceranno appena arriverà la grande scossa, e a pensare: terremoto o no, sarò bello che morto prima di aver letto un quarto dei libri quaggiù.

Lo so di sicuro e chissà che non riesca a convincermi se lo ripeto abbastanza volte a voce alta. Sarò bello che morto prima di aver letto un quarto dei libri quaggiù. Il che lascerà tre quarti di questi libri non letti. Però misurare una vita in libri non letti mi pare giusto. Tanto per andare sul sicuro,

ho chiesto alla mia famiglia di seppellirmi con una biblioteca come si deve.

Quaggiù, oltre a libri, scorte di pellicola vergine, scatole di preservativi, vasetti ancora sigillati di olio di cocco (interessante) e cuscini in velluto, ci sono anche pneumatici da neve per una macchina che ormai non c’è più. Un casco da moto incrinato. Di chi era? Perché l’hanno conservato se è difettoso? Eppure non lo butto nemmeno io. Non butto via niente. Considero ogni singolo oggetto materiale per una storia non ancora raccontata. In sostanza, sono un accumulatore seriale con scuse pretenziose. Questi avanzi mi servono per la mia arte. Ci sono valigie (sempre un buon pretesto per una storia), racchettoni, palette, un Rollerblade scompagnato (misura 13), un materasso macchiato, una culla e otto o nove latte di vernice gialla. Una volta volevo ridipingere la cucina. C’è una grande campana di ferro, troppo pesante da spostare. C’è anche una sella. Come mai una sella? Da quanto è qui questa sella? Da quanti decenni di affittuari? Una sella inglese, sento ancora mio padre dire. Vedi? Una sella come questa ha una certa eleganza. Non ha il pomello, i pomelli sono per zoticoni pigri. Ogni tanto, topolini dai denti aguzzi fanno capolino da piccole tane sparse qua e là nelle pareti. Non hanno più paura. La gatta che prima dormiva sul divano è morta un mese fa. L’ho trovata stesa al suo posto. Prima scappava sempre appena tiravo su la saracinesca del garage, lasciandosi dietro la sua impronta sul cuscino che dovevo ripianare con la mano. È così che me ne ero reso conto. Quando non si era mossa quando avevo aperto la saracinesca. Era un po’

che era molto magra. L’ho seppellita – non ho mai saputo come si chiamava – in un pezzo di terra dietro l’edificio. E ora i topi s’affacciano e mi salutano. Io li risaluto. Gli dico, ehi, sto leggendo un gran bel libro di tizio e caio. Loro alzano le spalle e si ritirano nel loro mondo di segatura e polvere rugginosa.

Ho sempre sospettato un po’ di introduzioni, prologhi, prefazioni, preamboli, eccetera, perché spesso sembrano essere l’ultimo tentativo di influenzare il modo di leggere un libro. Ecco perché il libro che segue è degno della vostra attenzione. L’autore, specie lui, è l’ultima persona che è nella posizione di giudicarlo. È come essere il proprio avvocato difensore. Ti fa sembrare ancora più colpevole. E siccome io come lettore di solito le salto a piè pari, non ve ne farò una colpa se la saltate, visto che sono sul punto di provare a fare esattamente quello per cui condanno altri che ci provano. Se lo confesso apertamente sono forse meno ipocrita? Comunque, ecco un mio tentativo di spiegarmi meglio: per un anno circa dopo la morte di mio padre, ho scoperto, per la prima volta da quando ho memoria, che non riuscivo a scrivere neanche un paragrafo di narrativa. Io e mio padre non siamo mai stati tanto vicini quanto lui avrebbe desiderato. Per anni aveva cercato di telefonarmi spesso. Tre o quattro volte al giorno, chiamava senza sosta. Non rispondevo mai. Ma in qualche modo questo non essere vicini, perlomeno per quel che mi riguarda, era un modo di essere vicini. Contribuiva a definire la mia esistenza precaria. C’era sempre un piccolo vuoto da riempire tra

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noi. E dentro questo vuoto: una specie di amore. Adesso questo vuoto non c’è più, non c’è più niente. Non mi era mai venuto in mente prima che non ci sarebbe più stato un tempo in cui lui non girasse nella casa in cui ero cresciuto, caricando l’orologio a pendolo in corridoio, o passandosi il filo interdentale nel bagno azzurro. La sua improvvisa non-esistenza mi ha lasciato con un vuoto che non avevo la minima idea di come riempire. Visto che è mio dovere riempire di parole i vuoti, mi sentivo particolarmente perduto. L’incapacità di fare il mio mestiere quotidiano – e scrivere narrativa è il mio mestiere quotidiano, nonostante spesso sia così poco remunerativo – potrebbe dipendere dal fatto che per molti versi mio padre era effettivamente sempre stato un personaggio fittizio nella mia vita. Senza di lui avevo perso la mia creatura più strana. Però il suo funerale a Skokie, Illinois, non era mica stato fittizio. Era l’inizio di aprile e nevicava. Leggeri fiocchi di neve mi si scioglievano in faccia come lacrime finte. Avevamo lasciato cadere un’urna piena di fuliggine in una piccola buca quadrata e poi eravamo tornati nelle nostre macchine.

Il peso del lutto è gravoso, quello del rimorso ancor di più e io ho scoperto che senza una certa leggerezza non riesco a entrare nelle vite degli altri. È stato in quei mesi confusi e paralizzati che mi sono reso conto di una cosa. Non ridete. Tutti quegli anni in cui ho letto e tentato di scrivere, ore e ore in cui ho letto e tentato di scrivere e poi un pomeriggio, in un garage, sono stato sorpreso dal fatto che in tutto quel tempo io ero stato effettivamente vivo.

Per quanto tempo pensavo che sarebbe andata avanti questa prova generale?

A un certo momento, questi appunti hanno cominciato a trasformarsi in qualcosa di più personale di quanto avessi originalmente concepito. Ho cominciato a buttarli giù nel 2008, un altro periodo di grande confusione, subito dopo il fallimento di un matrimonio, ma inizialmente non volevano essere una cosa personale. Erano semplicemente appunti che al mattino annotavo per me stesso. Considerate quel che segue come un libro di meditazioni non dotte che incidentalmente incrociano ricordi. Dopo un po’, questa attività ha cominciato ad avere (almeno in apparenza) una certa logica. Solo attraverso la lettura il resto del mondo, compreso il piccolo spazio che ne occupo io, ha iniziato ad assumere un certo senso. I racconti dicono quello che io non riesco a dire. Qualche anno fa ho incontrato la parola ecfrasi. Mi ci sono voluti un paio di dizionari per scoprire cosa significasse: in pratica è un’arte che cerca di descrivere altra arte. All’inizio la parola mi pareva un po’ pretenziosa e non sono ancora tanto sicuro di come si pronunci, ma poi sono arrivato a capire che magari è proprio quello che ho cercato di fare qui: produrre un’arte (inferiore) da un’altra arte (superiore) come modo di spiegare certe cose a me stesso. Le storie, sia le mie che quelle che ho preso a cuore, alla fine costituiscono chiunque io sia diventato. Sono un ragazzo ebreo di Chicago, ma senza Anton Čechov, senza Isaak Babel’, senza Eudora Welty, senza Juan Rulfo, senza John Edgar Wideman, senza Gina Berriault,

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senza Malamud, Gallant e Dubus (e l’elenco non ha fine1), non sono sicuro che avrei la più pallida idea di chi sono io. E anche con loro, certe volte, chi diamine lo sa? Ecco qua. Abbiamo completato il cerchio. Sono altrettanto confuso ora di quanto lo fossi all’inizio. Capite ora quello che voglio dire a proposito delle introduzioni?

Però, di una cosa sono sicuro: sono attratto da certe storie per via del loro sfacciato rifiuto di fare quello che ho appena fatto io, e cioè di spiegarsi da sole. La narrativa non è un meccanismo, è alchimia. Chiunque pretenda di gettare piena luce sui meccanismi di funzionamento della narrativa è un ciarlatano che cerca di rifilarvi elisir magici. Un pezzo di narrativa può anche avere tutti i cosiddetti elementi essenziali: ambientazione, personaggio, trama, tensione, conflitto, eppure continuare a essere così morto sulla pagina che ogni sforzo per resuscitarlo non riuscirebbe allo scopo. Chiamate pure questo un contromanifesto. La narrativa non funziona. Non c’è alcun al-

1 Hawthorne, Dickinson, Whitman, Jean Toomer, Sherwood Anderson, Akutagawa, Henry Green, Elizabeth Bowen, V.S. Pritchett, Devorah Baron, Camara Laye, Bruno Schulz, Felisberto Hernández, Joseph Roth, Elio Vittorini, Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, Primo Levi, Italo Calvino, Bessie Head, Herman Charles Bosman, Dambudzo, Clarice Lispector, Ralph Ellison, Nelson Algren, Jane Bowles, J.B. Edwards, Elizabeth Bishop, Peter Taylor, Ida Fink, Alistair MacLeod, Penelope Fitzgerald, Henry Dumas, Marie Vieux-Chauvet, Danilo Kiš, Richard Yates, Grace Paley, Benedict Kiely, Guillermo Rosales, Larry Levis, Leonard Michaels, Zbigniew Herbert, Gwendolyn Brooks, Joseph Brodsky, Caleb Casey, Raymond Carver, Ryszard Kapuściński, Tillie Olsen, Evan S. Connell (che una volta ha scritto: “I racconti parlano con mille voci”)… Ogni giorno me ne sto qui circondato da tutti questi nomi sui dorsi dei libri, nomi che già da soli sono una specie di musica, e da tanti altri non elencati, compresi tutti i viventi e quelli non ancora letti.

goritmo. Nessun robot o supercomputer scriverà mai un racconto commovente. Prova pure a smentirmi, Silicon Valley. Puoi guidare le nostre macchine, ma non riuscirai mai a farci piangere, perché è impossibile spiegare con esattezza come fa una storia inventata a funzionare oppure a non funzionare proprio come è impossibile spiegare l’amore o il non-amore. Diciamo che si vede un volto tra la folla che ci viene incontro. Questo volto particolare ci ricorda qualcuno del nostro passato, qualcuno che un tempo abbiamo amato. Si riesce a spiegare a parole quel momento di riconoscimento? Oppure, ancora più difficile, infinitamente più difficile, quel momento di non riconoscimento? Quando quel volto si avvicina e ci si rende conto che quella persona sconosciuta non è chi si pensava fosse? Quando la visione nei nostri occhi da lucida diventa annebbiata. Perché la persona che si pensava fosse – lui o lei, chiunque fosse per noi un tempo – non c’è più. Non c’è più da un pezzo. Provate a spiegare il momento in cui ci si scusa con lo sguardo perché non si ha la forza di spiegarlo ad alta voce. Scusi tanto, pensavo lei fosse…

L’altro giorno mia figlia al parco mi ha detto: «Tu vuoi bene solo ai libri e alle mele». Ho protestato, dicendo che ci sono un sacco di cose che amo al pari dei libri e delle mele, che ho molto a cuore, comprese, naturalmente, lei e sua madre. Le ho detto che essere suo padre era stata di gran lunga la cosa migliore che mi fosse mai capitata, una volta che mi ero ripreso dal colpo. «Quale colpo?»

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«Sai quanto ti piacciono le sorprese? Qualcosa del genere. Ti piacciono, ma non è che si è sempre pronti a…»

«Io sono sempre pronta»

«Insomma, alla fin fine, quando sei arrivata, fondamentalmente, mi hai salvato la vita. Capito? È solo che non me…»

«Ti ho salvato la vita da cosa?»

«Quella è una storia ancora più lunga»

«Lunga quanto?»

«Prima che arrivi a metà il parco sarà già chiuso»

«Be’, allora accorciala»

«Ma non ti piacerebbe andare su quella giostra che fa girare la testa?»

«Parla. Usa le parole»

«Ecco, diciamo che ero arrivato sul bordo»

«Della piscina?»

«In un certo senso»

«Quale piscina? Quella di Woodacre?»

«No, una piscina ipotetica»

«E dove sarebbe?»

«In Montana»

«Ma tanto sai nuotare»

«Certe volte la gente si dimentica»

«E allora che succede?»

«Be’, ci si addormenta un po’ in acqua»

«Vuoi dire che si affoga. Anche se si sa nuotare? Kaputt?»

«Già. Anche se si sa nuotare. Ad ogni modo, senti, tu sei molto meglio di qualsiasi libro. Capito? Non scherzo

mica. Quando torniamo a casa puoi buttare tutti i miei libri per strada».

I suoi occhioni mi hanno guardato in tralice con una mancanza di fede assolutamente fuori posto nello sguardo di una ragazzina di cinque anni. Magari non ero stato del tutto convincente. Per risponderle, avevo dovuto alzare gli occhi dalla pagina, ma per tutto il tempo, avevo tenuto il segno con il dito.

Anche mio padre leggeva. Sul suo comodino c’erano sempre mucchi di gialli di Dick Francis ambientati nel mondo dell’ippica, ma anche romanzi di John Galsworthy. I gialli sul mondo dell’ippica li capivo. Mio padre era cresciuto montando a cavallo e adorava leggere sui cavalli, più che sul mondo delle corse. Una volta disse che in un’altra vita gli sarebbe piaciuto essere un poliziotto a cavallo canadese. Ma perché mai era attratto da Galsworthy e da storie di intrighi e ipocrisie tra le classi aristocratiche inglesi? Mio padre, che veniva da Fargo Avenue, Rogers Park, Chicago? Come sono semplici e irrecuperabili le domande che non abbiamo mai posto. Quanto mi sarebbe potuto costare alzare il telefono quando lui era ancora sulla faccia della terra?

Giugno 2015

Stampato e fabbricato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Grafica Veneta spa (Trebaseleghe, PD) nel mese di agosto 2024 con un processo di stampa e rilegatura certificato 100% carbon neutral in accordo con PAS 2060 BSI

PETER ORNER (Chicago, 1968) è autore di romanzi, racconti e saggi. Esther Stories, la sua raccolta d’esordio, è stata segnalata dal “New York Times” come uno dei “libri da ricordare” del 2001. I suoi racconti sono stati anche pubblicati da “The New Yorker”, “The Atlantic Monthly” e “The Paris Review”. Insegna inglese e scrittura creativa al Dartmouth College, nel New Hampshire, e vive con la famiglia a Norwich, nel Vermont. Con Gallucci ha già pubblicato la raccolta di racconti L’ultima auto sul Sagamore Bridge e il romanzo La seconda venuta di Mavala Shikongo.

Illustrazione di copertina di Angela Kuo

Art Director: Stefano Rossetti

Graphic Designer: Eleonora Tallarico / PEPE nymi

“Le storie, sia le mie che quelle che ho preso a cuore, alla fine hanno formato la persona che sono diventato”

Peter Orner parte da questa considerazione e si abbandona a un flusso di riflessioni sull’intreccio tra vita, lettura e scrittura, soffermandosi su alcuni degli autori più influenti degli ultimi due secoli: Anton Čechov, Franz Kafka, Herman Melville, Virginia Woolf, Saul Bellow, ma anche Lyonel Trouillot, Eudora Welty, Álvaro Mutis e Bohumil Hrabal. Il risultato è una raccolta di pensieri intimi, spontanei e brutalmente sinceri che ci invitano a ragionare sul nostro rapporto con la letteratura e, soprattutto, a rintracciare, dentro i libri e nella vita, le storie che ci hanno portato a essere chi siamo.

“Grazie al cielo, questo libro sfugge a qualsiasi categorizzazione”

DAVE EGGERS

“Gli amanti dei libri divoreranno queste storie personali e genuine sulla lettura e la letteratura”

KIRKUS REVIEWS

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