anna oliverio ferraris madri e figlie
Cinque storie ispirate a vicende realmente accadute. Anna Oliverio Ferraris racconta, con la passione della narratrice e l’esperienza della psicoterapeuta, quel legame tra madre e figlia unico, speciale, irripetibile. A dispetto di tutti i paradigmi, le tradizioni e gli stereotipi, questi due universi femminili compongono un quadro più che mai variopinto di sentimenti profondi e radicati, tra affinità, rispecchiamenti, dipendenze, contrasti e riconciliazioni. Anche quando il filo sembra spezzato, non lo è quasi mai in modo definitivo: rimane nel ricordo e nell’immaginario.
Da queste pagine profonde emergono i chiaroscuri del rapporto madre-figlia e le dinamiche emotive di una relazione che l’età e i ruoli sociali rendono a volte asimmetrica, ma il cui equilibrio si fonda sempre sugli strati più profondi dell’Io.
Anna Oliverio Ferraris Madri e figlie
ISBN 979-12-221-0663-2
Prima edizione agosto 2024 ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
anno 2028 2027 2026 2025 2024 © 2024 Carlo Gallucci editore srl - Roma
Le citazioni presenti nel libro sono tratte da Gustave Flaubert, La signora Bovary, traduzione di Libero Biagiaratti, Einaudi, Torino 1949 Lev Tolstoj, Anna Karenina, Traduzione di Maria Bianca Lugorini, Sansoni, Firenze 1967
Gallucci e il logo sono marchi registrati
Se non riesci a procurarti un nostro titolo in libreria, ordinalo su:
galluccieditore.com
Il marchio FSC® garantisce che questo volume è realizzato con carta proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile e da altre fonti controllate, secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. L’FSC® (Forest Stewardship Council®) è una Organizzazione non governativa internazionale, indipendente e senza scopo di lucro, che include tra i suoi membri gruppi ambientalisti e sociali, proprietari forestali, industrie che lavorano e commerciano il legno, scienziati e tecnici che operano insieme per migliorare la gestione delle foreste in tutto il mondo. Per maggiori informazioni vai su https://ic.fsc.org/en e https://it.fsc.org/it-it
Tutti i diritti riservati. Senza il consenso scritto dell’editore nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e da qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, né fotocopiata, registrata o trattata da sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni.
SMARRIMENTI
Singhiozzavo senza ritegno. Non avrei mai immaginato di abbandonarmi in questo modo al dolore. Alla mia età, poi. Più cercavo di controllarmi, più gli occhi si riempivano di lacrime e il respiro diventava affannoso. Ansimavo, tossivo e non riuscivo a mettere in fila due parole.
Quando a morire era stata la nonna, avevo pianto molto e a lungo, ma sommessamente. Non al funerale, ma a letto, di notte. Non davanti a tutti, ma da sola. Avevo pianto nel cuscino perché lei se n’era andata via per sempre e non ero affatto sicura che fosse già in cielo, come tutti mi dicevano, con la certezza adamantina di chi c’è già stato o ha ricevuto segni inequivocabili.
Avevo nove anni, allora, e già covavo dei seri dubbi
sull’aldilà. Se esistesse, pensavo, qualcuno ci invierebbe un segnale, uno qualunque, per alleviare il nostro dolore. E invece, a parte Dante, nessun altro era riuscito a “riveder le stelle”.
Il cimitero rendeva tutto più complicato. In mezzo alle tombe, così ordinatamente allineate e infiorate, ci sono tanti passati ma nessun futuro. Non c’è nulla, tra le lapidi e i vialetti ghiaiosi, che tu possa progettare o a cui tu possa porre rimedio. Puoi soltanto prendere atto che qualcosa di definitivo è accaduto e che, da lì in avanti, tu e tutti gli altri non potrete più farci niente. Quello che è stato è stato, e se pure chiedi scusa ai morti, per le omissioni e le cattiverie che pensi di avere commesso, loro non ti rispondono. Ti abbandonano lì, sola col tuo fardello. Con i tuoi dubbi, con i tuoi tormentosi sensi di colpa. Solamente i bambini ridono a volte durante i funerali, puntando sulla magia del loro buon umore.
Io, a quarantotto anni, non riuscivo a guardare con rassegnazione la bara che veniva sospinta, con mia madre sdraiata dentro, nel loculo accanto a quello di mio padre – tanto più che loro due non erano mai andati d’accordo.
E invece fui costretta non solo a udire lo stridio della bara che scorreva su una rotaia di metallo dentro a quel loculo freddo e scuro, ma anche ad assistere alla
tumulazione – con i mattoni, la calce e la cazzuola –che un operaio eseguì dando gli stessi colpi secchi e compiendo gli stessi movimenti sicuri con cui avrebbe costruito un qualsiasi muretto di recinzione.
Quando saltò giù dal trabattello ed esclamò «Fatto!», una mano d’acciaio mi strizzò il cuore riducendolo a una misera spugna raggrinzita. Se non scivolai a terra lunga e distesa è perché Franca, la mia più cara amica di sempre, comprese che cosa mi stava succedendo. Mi afferrò sotto le ascelle con entrambe le mani, lasciò che il mio corpo si adagiasse sul suo e mi sostenne spingendo in avanti un ginocchio.
Anche lei aveva pianto per la mia mamma, ma in modo rassegnato, più con il cuore che con le lacrime.
Orfana di entrambi i genitori all’età di otto anni, a seguito di un rovinoso incidente automobilistico, e da allora ospite di una zia dall’aspetto insignificante e dallo sguardo sfuggente, l’amica Franca aveva trovato in mia madre un sostituto materno a tutti gli effetti.
Tornavamo insieme da scuola e si fermava quasi sempre a pranzo da noi. Di pomeriggio, dopo aver fatto i compiti, ci abbandonavamo alle nostre chiacchiere ridanciane senza fine e senza costrutto, salutari per il nostro umore. Capitava così che rimanesse an-
che per cena. E quando mamma capiva che Franca era restia a rientrare a casa dopo aver cenato, mi lanciava un’occhiata d’intesa che significava che potevo chiederle di fermarsi a dormire da noi, con me, nella mia stanza. Lei accettava quasi sempre e allora, contente di poter dormire una accanto all’altra, sfilavamo la brandina da sotto il mio letto, sistemavamo le lenzuola, il cuscino, la coperta di lana o di cotone a seconda della stagione e, a luce spenta, ci raccontavamo storie di mostri e di vampiri. Ci immaginavamo amazzoni su dei destrieri alati che riportavano l’ordine là dove i cattivi avevano scatenato il caos. Crescendo, negli anni del liceo, parlavamo invece molto di sesso. Passavamo in rassegna i ragazzi che ci piacevano e quelli che non ci piacevano. Parlavamo del coito nelle sue diverse declinazioni. Fino a che punto spingersi con un ragazzo per non sembrare né troppo disponibile né troppo inibita? Il primo bacio, a labbra chiuse o aperte? Se lui chiedeva di palpeggiare il seno sotto al reggiseno, glielo si poteva concedere? E due dita nella vagina? Che fare se chiedeva di leccarglielo? Quali precauzioni prendere per non restare incinta? Era necessario che lui entrasse o bastava anche qualche residuo del suo seme sui peli del pube?
La zia di Franca aveva un marito obeso e di cattivo carattere, che Franca per spregio chiamava zio Adolf, invece che Rodolfo. Quell’uomo, che da bambino aveva perso un occhio giocando alla guerra con dei bastoni nel cortile di casa, era praticamente muto, nel senso che non parlava mai con nessuno e al saluto o non rispondeva affatto o rispondeva con un grugnito rabbioso. Anni dopo venni a sapere che, sebbene non fosse mai stato arrestato, era stato denunciato due volte per pedofilia. Insidiava le ragazzine ma anche le bambine, tra cui forse sua nipote.
Franca, però, non aveva mai detto nulla né lasciato trasparire alcunché. Solo a distanza di anni venni a sapere di quelle denunce. Compresi allora il motivo per cui la mia amica accettava con entusiasmo di trascorrere i pomeriggi e le notti a casa nostra.
Compresi anche che il disagio che una bambina prova per quel genere di avance da parte di un uomo maturo e per di più di famiglia, la porta a reprimere, dimenticare, negare, minimizzare. Non ne vuole parlare. Non ne vuole sapere. Ha paura delle conseguenze. Ma soprattutto non vuole sporcare se stessa con il racconto di un uomo che di notte entra furtivo nella sua stanza e, scostate le coperte, le preme una mano sulla bocca e le infila l’altra tra le cosce. Bavoso. Torvo. Senza profferire parola.
Lei non voleva sentirsi sporca o sfortunata o inferiore a me e a qualunque altra amica del nostro giro: questo l’avrebbe ferita più della mano grassa e sudata del sudicio zio Adolf. Non voleva che si sapesse. Temeva di essere considerata un’appestata. Temeva, soprattutto, la nostra compassione.
D’altro canto, chissà come avrei reagito se me lo avesse raccontato, in quegli anni fluidi e incerti, quando il pensiero, non ancora del tutto autonomo, è influenzato dai pregiudizi e dai luoghi comuni. Avrei provato disgusto per quell’uomo, senza alcun dubbio. Con i sensi di colpa che mi avevano inculcato le suore agostiniane, però, avrei pensato che anche lei, Franca, fosse macchiata di qualche genere di peccato. Confondendo la causa con l’effetto mi sarei domandata perché mai il Padre Eterno, comprensivo e giusto, non interveniva in sua difesa. Forse lei non pregava abbastanza? Forse, inconsapevolmente, incoraggiava quell’uomo con atteggiamenti provocanti? Mamma invece quel sospetto deve averlo sempre avuto. Il che spiega perché la invitasse così spesso a cenare e a dormire a casa nostra. A me però non disse mai nulla, perché non era il genere di argomenti che le madri di allora affrontavano con i figli. Come le altre donne della sua generazione era anche molto restia a parlare del sesso in generale, così quando ca-
pitava che parenti o amici alludessero con accenni o doppi sensi, lei arrossiva.
Arrossiva violentemente e all’improvviso. E non si poteva non notarlo. Aveva anche degli accessi di tosse. E quando si riprendeva si portava una mano sulle labbra, assumeva uno sguardo fisso e un’espressione imbarazzata. Se eravamo tutti quanti seduti a tavola, lei si alzava e accampando una scusa cercava rifugio in cucina. Papà scuoteva il capo e ridacchiava, il che non faceva che aumentare l’imbarazzo della mamma e di noi tre figli.
Capimmo fin da piccoli che quell’argomento pruriginoso era da evitare. Non fu comunque un problema per me, che potevo parlarne con le amiche, alcune informatissime, nonostante nessuna delle nostre insegnanti, neppure quella di scienze, affrontasse mai il tema.
Del resto, lei non mi aveva spiegato nulla neanche a proposito delle mestruazioni. Quando ebbi le prime perdite ricordo che, appena alzata dal letto, con una certa agitazione le confessai di avere fatto un lago di sangue sulle lenzuola. Lei corse a prendere nella sua stanza un pacco di assorbenti, me lo mise in mano, mi diede un paio di rapide istruzioni e il giorno stesso fissò per me un appuntamento con la sua ginecologa: «Ti dirà tutto ciò che è necessario sapere e risponderà
a tutte le tue domande» mi aveva detto con un tono più professionale che materno. E la questione, per lei, si era chiusa così.
In quel freddo pomeriggio al cimitero, anche Danilo ed Elio, i miei due fratelli, erano circondati dagli amici, ma non piangevano disperati come invece stavo facendo io. Erano più composti. Più attenti a non dare spettacolo del loro dolore. Forse perché negli ultimi anni, dopo la morte di papà, avevano vissuto lontano da noi. Da me e dalla mamma, voglio dire.
Danilo, cardiochirurgo a Berlino, viveva con la moglie bavarese e i loro due bambini biondi. Elio, single come me, ma al contrario di me sempre coinvolto in elettrizzanti eventi mondani, lavorava a Milano nel campo della pubblicità e del design.
Io, insegnante di storia e filosofia nell’unico liceo classico della città, avevo accudito la mamma durante la sua lunga malattia, e tra di noi si era creata tardivamente un’intimità che non c’era mai stata prima.
Un’intimità fisica, prima di tutto, che all’inizio ci aveva causato non pochi imbarazzi.
Non avevo mai immaginato che avrei dovuto aiutarla a lavarsi con una grossa spugna naturale di mare, simile a quelle con cui lei, in epoche diverse, aveva lavato il culetto di noi tre bambini.
Non solo: prendendomi cura di tutte le sue necessità, avevo la sensazione di offenderla, di obbligarla a una posizione di dipendenza nei miei confronti. Mi sembrava anche che non fosse mio compito maneggiare il suo corpo fino a scoprire quelle zone private, sulle quali non avevo mai posato gli occhi e men che meno strusciato quella grossa spugna gialla.
Vivevo questa faccenda come una profanazione. Ma anche con molta tensione, sia nelle mani, dalle quali la spugna mi scivolava spesso, sia nella testa, dove ogni tanto avvertivo delle vere e proprie fitte di dolore.
Il fatto che madre e figlia abbiano entrambe un corpo femminile non significa che sia semplice, per due donne adulte, entrare così in intimità. È facilissimo, finché una delle due è una bambina. La mamma maneggia con disinvoltura il corpo della bimba e per la bimba il corpo della mamma, i suoi movimenti, il suo odore sono una bussola per orientarsi nel mondo.
Da piccola appoggiavo tutte e due le manine sulla schiena grande e liscia di mamma. Le afferravo i capelli, le infilavo le dita nelle orecchie. Accostavo la guancia al suo seno. Aspiravo il suo profumo. Poi quella scioltezza si è persa, anche se nessuna delle due ricordava come, quando e perché si fosse verificata un’inversione di rotta. Da un giorno all’altro si sono alzate barriere che non sarebbero state facili da smantellare.
CARBON NEUTRAL
Stampato e fabbricato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Grafica Veneta spa (Trebaseleghe, PD) nel mese di febbraio 2022
con un processo di stampa e rilegatura certificato
100% carbon neutral in accordo con PAS 2060 BSI
CARBON NEUTRAL
This book is manufactured by Grafica Veneta S.p.A. with a printing and binding process certified 100% carbon neutral based on PAS 2060 BSI
CARBON NEUTRAL
Stampato e fabbricato per conto di Carlo Gallucci editore srl
Stampato e fabbricato per conto di Carlo Gallucci editore srl
presso Grafica Veneta spa (Trebaseleghe, PD) nel mese di febbraio 2022 con un processo di stampa e rilegatura certificato
presso Grafica Veneta spa (Trebaseleghe, PD) nel mese di agosto 2024 con un processo di stampa e rilegatura certificato
100% carbon neutral in accordo con PAS 2060 BSI
100% carbon neutral in accordo con PAS 2060 BSI
CARBON NEUTRAL
Anna Oliverio Ferraris è stata ordinario di Psicologia dello sviluppo e Psicologia Sociale alla Sapienza di Roma dal 1980 al 2010. Ha partecipato, in qualità di esperta psicologa e psicoterapeuta, a numerosi convegni e trasmissioni televisive. Ha diretto “Psicologia contemporanea”, collabora con “Mind” e con altri quotidiani e riviste. È autrice di volumi di psicologia (da Il significato del disegno infantile a La comunicazione manipolata) e opere di narrativa, tra le quali Tutti per uno e Tacchi a spillo.
Due mondi femminili in continua relazione tra affetto, dipendenza e conflitti.
“Come quei raggi di sole che bucano prepotenti le nubi al tramonto, la storia d’amore che mi aveva raccontato gettava un fascio di luce calda e intensa sulla vita della mamma. Ora vedevo in lei anche la donna, non soltanto la madre”.