Mila 18

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© foto Scala Florence/Heritage Images

Leon Uris (Baltimora, 1924 - Long Island,

2003), ebreo di origine russo-polacca, durante la Seconda guerra mondiale abbandonò gli studi per arruolarsi nel corpo dei Marines. Fu giornalista, scrittore e sceneggiatore. Firmò numerosi romanzi di successo, tra i quali Exodus, di recente ripubblicato da Gallucci, e Topaz. Con Mila 18 (1961), Uris fu tra i primi a svelare al grande pubblico la storia della rivolta del ghetto di Varsavia.

ISBN 978-88-6145-377-7

19,70

MILA 18

“Scorro i libri di storia e mi sforzo di trovare un parallelo. Né ad Alamo né alle Termopili si trovarono di fronte due schieramenti più ineguali (...) Questo esercito di fortuna, privo di armi vere e proprie, tenne a bada per quarantadue giorni e quarantadue notti la più potente forza militare che il mondo abbia mai conosciuto...”

Leon Uris

Primavera 1943: nella Polonia invasa dai nazisti si incrociano le storie di Andrei Androvski, unico ufficiale ebreo dell’esercito polacco, degli adolescenti Rachael Bronski e Wolf Brandel, alle prese con le prime passioni giovanili, e di Christopher de Monti, giornalista italoamericano innamorato della sorella di Andrei. Tutti presenti nel bunker di via Mila 18, quartier generale della resistenza ebraica del ghetto di Varsavia. Una rivolta senza speranze, che però rappresenta l’unica scelta possibile per i protagonisti: compiere un atto di eroismo collettivo, con la tenace volontà di non essere dimenticati. Perché gli ebrei non siano più disposti a subire.

LEON URIS

Mila 18 Il romanzo della rivolta del ghetto di Varsavia





Leon Uris

Mila 18


Leon Uris Mila 18 traduzione di Augusta Mattioli

ISBN 978-88-6145-377-7 Prima edizione aprile 2012 ristampa 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2012 2013 2014 2015 2016

© 2012 Carlo Gallucci editore srl Roma Pubblicato per la prima volta in lingua inglese con il titolo Mila 18 © 1961 Random House Inc. Tradotto in accordo con Knopf Doubleday Publishing Group, una divisione di Random House, Inc. Foto di copertina © Imagno/Getty Images L’editore ha cercato in ogni modo i titolari del diritto d’autore sulla traduzione di Augusta Mattioli, senza riuscire a rintracciarli. Si dichiara comunque a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.

galluccieditore.com Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso CDC Arti Grafiche srl di Città di Castello (Pg) nel mese di marzo 2011 Il marchio FSC® garantisce che la carta di questo volume contiene cellulosa proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. L’FSC® (Forest Stewardship Council) è una Organizzazione non governativa internazionale, indipendente e senza scopo di lucro, che include tra i suoi membri gruppi ambientalisti e sociali, comunità indigene, proprietari forestali, industrie che lavorano e commerciano il legno, scienziati e tecnici che operano insieme per migliorare la gestione delle foreste in tutto il mondo. Per maggiori informazioni vai su www.fsc.org e www.fsc-italia.it

Tutti i diritti riservati. Senza il consenso scritto dell’editore nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e da qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, né fotocopiata, registrata o trattata da sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni.


Questo libro è dedicato a Antek-Itzhak Zuckerman, Ziviah Lubetkin e agli altri che, in un momento immortale, parteciparono alla difesa della dignità e delle libertà umane, e a uno di essi in particolare, il dottor Israel I. Blumenfeld.


Ad eccezione di quelli storici, i personaggi di questo romanzo sono interamente frutto della fantasia dell’autore e quindi non hanno nessun rapporto con persone realmente esistite.


Ringraziamenti

L’

esperienza del passato mi aveva ammonito che per le ricerche indispensabili alla composizione di questo libro avrei dovuto appellarmi all’aiuto di decine e decine di individui e di organizzazioni. Ebbi inoltre la fortuna di poter approfittare di molte ore generosamente donatemi da coloro i quali mi misero a parte di tutto quanto era a loro conoscenza su questo argomento. Senza la devozione del Museo e Sacrario Internazionale dei Combattenti del Ghetto, dei singoli membri del kibbuz di Israele “Combattenti del Ghetto” e dei loro compagni dell’Associazione Internazionale Sopravvissuti difficilmente avrei potuto scrivere queste pagine. Solo il loro altissimo numero mi impedisce di ringraziare gli altri; ma mi renderei colpevole di negligenza se non riconoscessi qui il valore del contributo che mi venne dagli archivi dello Yad Vashem Memorial di Gerusalemme e della Biblioteca dell’Università della California Meridionale. Entro i limiti di una struttura che rispetta la verità fondamentale dei fatti, pur temperandola in misura ragionevole con le licenze concesse all’arte, i luoghi e gli avvenimenti qui descritti rispondono a realtà. I personaggi sono immaginari, ma io mi guarderei bene dal negare che siano esistiti uomini e donne che realmente vissero e furono simili a quelli che compaiono in questo volume. LEON URIS



PARTE PRIMA Crepuscolo


I

Q

uesto è il primo passo del mio diario. Mi ossessiona il presentimento che fra poche settimane scoppierà la guerra. Se le lezioni degli ultimi tre anni possono servirci da barometro, è probabile che stia per accadere qualcosa di spaventoso, nel caso che la Germania ci invada con successo: tre milioni di ebrei vivono in Polonia. Può darsi che lo stato di tensione del momento contribuisca a farmi esagerare in questa intuizione di un dramma imminente. Forse questo mio diario si rivelerà assolutamente inutile, e quindi uno spreco di tempo. Tuttavia, in quanto storico, debbo accontentare l’impulso che mi spinge a prendere nota di ciò che va succedendo intorno a me. Dal diario di Alexander Brandel, agosto 1939

Le gocce di quella pioggia di tarda estate schizzavano contro la finestra, alta dal pavimento al soffitto. La vasta camera era intensamente polacca, quasi a ricordare il nobile terriero che ne aveva fatto un nido d’amore per l’amante del momento, durante le scappate a Varsavia dai suoi possedimenti di

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campagna. Ogni traccia di una presenza femminile era svanita. L’arredamento era solido, mascolino e odoroso di cuoio. Considerazioni di ordine pratico avevano impresso, in un certo senso, un nuovo carattere all’antica magnificenza; infatti l’attuale occupante era un giornalista in attività di servizio, affetto per di più da quella particolare forma di disordine che si accompagna al celibato. Christopher de Monti era disordinato, ma in un modo che non urtava. Per la sua governante era quasi un piacere accudirlo, perché egli aveva un gusto squisito in materia di dischi, di libri, di tabacco e di liquori e possedeva un guardaroba tutto contrassegnato dalle più raffinate etichette inglesi. In un angolo, vicino alla finestra, c’erano un’usatissima macchina da scrivere e una quantità enorme di fogli di carta, nonché un posacenere stracolmo. La camera da letto vera e propria era costituita da un’alcova profonda che poteva essere isolata dal resto della stanza tirando due tende di velluto. Su un tavolino da notte, accanto al vasto letto, faceva bella mostra di sé una vecchia radio tedesca, sagomata come il finestrone di una chiesa gotica. Dall’apparecchio uscivano gli accordi tristi, e pieni di funesti presentimenti, del “Notturno in la bemolle” di Chopin. In quei giorni non si sentiva quasi altro alla Radio Polacca: Chopin eseguito da Paderewski… Notturni. Quasi sembrava che la notte stesse di nuovo piombando sulla Polonia. Chris, ancora in uno stato di dormiveglia, borbottò qualcosa e stirò al massimo le sue membra snelle e muscolose, cercando nel letto, accanto a sé, Deborah. Non c’era più. Aprì gli occhi e frugò con

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Crepuscolo

lo sguardo gli angoli bui dell’alcova. Ma subito si quietò udendola muoversi al di là delle tende. Automaticamente cercò a tastoni sul tavolino da notte e ci trovò le sigarette; dopo un attimo egli guardava il fumo alzarsi grigio verso il soffitto mentre il notturno correva verso un crescendo vibrante. Chris si voltò su un fianco e attraverso le tende un poco scostate fra loro osservò Deborah. Il suo corpo seminudo era come lambito dall’ombra del tardo pomeriggio. A Chris piaceva di guardarla mentre si vestiva: ella appoggiava un piede in equilibrio sul bordo della sedia, tendeva la gamba e vi arrotolava all’insù la calza; poi si infilava la camicetta e la gonna con movimenti pieni di grazia che non tradivano lo sforzo. Infine si fermava davanti allo specchio: le sue dita agilissime immergevano forcine nei lunghi capelli neri come l’ala del corvo, che poi avvolgeva nervosamente in un solido nodo. Chris si ricordò della prima volta, quando gliele aveva tolte lui, le forcine, ad una ad una, e aveva visti quei capelli scendere come una cascata di nera seta. Deborah staccò dal portabiti l’impermeabile e se lo abbottonò, senza mai dar segno di sapere che gli occhi dell’amante erano fissi sulla sua schiena; e infine, con decisa precipitazione, si avviò alla porta. «Deborah!» Ella si fermò e premette la fronte contro il battente. «Deborah!» Entrò nell’alcova e si sedette sul bordo del letto. Chris spense la sigaretta, si rotolò accanto a lei e le posò la testa sul grembo. I neri occhi della donna si riempirono di malinconia; le sue dita accarezzarono delicatamente i contorni della guancia, della bocca, delle spalle di lui, che alzò la testa per guardarla. “Come sei bella!” pen-

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sò. Era biblica. Corvini i capelli, la carnagione olivastra. Sì, una Deborah della Bibbia! Quando ella fece per alzarsi, Chris le afferrò un polso e lei sentì che la mano dell’amico tremava. «Non possiamo continuare così. Lascia che gli parli» «Lo ucciderebbe, Chris» «E io, allora?! Questa situazione mi sta uccidendo» «Ti prego!» «Questa sera gli parlo» «O Signore, perché deve sempre finire così?!» «E così sarà finché non diventerai mia moglie» «Tu non devi vederlo, Chris, parlo sul serio». Il giovane lasciò andare il polso di Deborah. «Sarà meglio che tu vada» mormorò, e si allontanò da lei volgendole la schiena. «Chris… Chris…» L’orgoglio gli impose di tacere. «Ti telefonerò» riprese lei. «Vuoi vedermi?» «Lo sai che lo voglio». Chris si gettò addosso una vestaglia e ascoltò il clic-clic dei passi di lei sul pavimento di marmo dell’atrio. Aprì le tende della finestra. La pioggia si era trasformata in un’uggiosa pioviggine. Dopo pochi istanti Deborah comparve sul viale Gerusalemme. Alzò lo sguardo verso la finestra, gli fece un lieve cenno di saluto con la mano, poi attraversò di corsa la strada e raggiunse una lunga fila di dorozka1. Il cavallo si staccò trotterellando dalla cordonata del marciapiede e scomparve alla vista. Chris lasciò ricadere le tende, chiudendo fuori gran parte della luce. Andò in cucina e si versò una tazza del caffè fumante che Deborah ave1

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Vetture di piazza (Ndr).


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va preparato, poi si lasciò cadere su una poltrona, nascondendosi il volto fra le mani, scosso dall’emozione dolorosa di un altro distacco. Alla radio una voce che parlava nervosamente in lingua polacca, annunciava l’ultimo dei molti e sempre più gravi ripiegamenti diplomatici.

II Il giornale-radio ci informa che la Russia e la Germania stanno per proclamare un avvenuto patto di non aggressione. Sembra impossibile che i due nemici giurati e impegnati a distruggersi a vicenda siano giunti a questo punto. La tattica di Hitler appare logica; evidentemente egli si propone di neutralizzare per il momento l’Unione Sovietica allo scopo di evitare la possibilità di una guerra su due fronti (sempre che l’Inghilterra e la Francia tengano fede ai loro impegni con la Polonia). Io sono disposto a scommettere che il prezzo da pagare a Stalin sarà una metà della Polonia, e penso che, mentre sto scrivendo, a Mosca, intorno ad una lunga lucidissima tavola, noi siamo l’oggetto di una spartizione. Dal diario di Alexander Brandel

Nelle ambasciate, nei ministeri e, in particolare, in quelli degli affari esteri, nelle cancellerie, nei consolati, nei comandi militari, nelle sale dei cifrari come in quelle della stampa, uomini indaffarati correvano a conferenze, che duravano tutta la notte, studiavano piani di guerra, urlavano nei telefoni dei centralini sovraccarichi, imprecavano, pregavano, peroravano.

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In una scia di sangue i trattati giacevano qua e là come cadaveri dopo una invasione di mongoli. Gli uomini di buona volontà restavano sbalorditi dinanzi alla logica distorta alla quale ottanta milioni di uomini civili si accodavano urlando e marciando impettiti come automi isterici. Gettati in una trance ipnotica dai ben ritmati furori che caratterizzavano il genio folle di Hitler, gli uomini di buona volontà sprofondavano sempre più nella melma e nel sudiciume, incapaci di liberarsi del mostro insaziabile che imperversava fra loro. I geopolitici avevano rappresentato e suddiviso il mondo in aree di lavoro e di materie prime, e offerto un piano generale tale da far impallidire al suo confronto il Gengis Khan e tutti i più scellerati tiranni di ogni tempo. Le masse tedesche, con terrificante enfaticità proclamavano come un editto: “Sieg Heil! Sieg Heil! Sieg Heil!” “Lebensraum2!” “Sieg Heil!” E si tenevano pronte a recitare la parte dei teutonici “re della guerra” al suono del wagneriano “Incantesimo del fuoco”. «Noi dobbiamo salvare i cittadini germanici che vivono sotto la tirannia dello straniero! Un tedesco è sempre un tedesco!» «Sieg Heil!» L’Austria e la Cecoslovacchia servirono d’esempio. Alimentato dalle vittorie incruente, certo che l’America, la Francia, l’Inghilterra non avrebbero combattuto, il cancro nazista si diffondeva. «Danzica è tedesca! Restituite il Corridoio Polacco! Si ritorni ai confini del 1914! Basta con i trattamenti inumani inflitti ai cittadini di razza germanica!» 2

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Spazio vitale.


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«Sieg Heil!» Una volta il mondo era stato a guardare, indifferente, scrollando le spalle, dei piccoli uomini gialli che combattevano altri piccoli uomini gialli in un paese chiamato Manciuria; e un’altra volta la Francia aveva debolmente protestato quando la Germania, violando il Trattato di Versailles, aveva rioccupato la Renania; e un’altra volta ancora gli uomini avevano discusso e infine sospirato tolleranti, mentre uomini dalla pelle scura e che abitavano capanne di fango combattevano, armati di sole lance, in difesa del loro paese… un nome che i bambini usavano nei loro giochi… l’Abissinia. Un mondo ipnotizzato aveva rabbrividito dinanzi al banco di prova della sterilità democratica: lo stupro della Spagna a opera delle orde italiane, marocchine e tedesche. Poi l’Austria, poi la Cecoslovacchia, e i giusti tacquero intimiditi, mentre i malvagi si facevano sempre più audaci. Un giorno i messaggeri della pace dissero ai loro popoli che in una città chiamata Monaco avevano firmato un accordo di pace; ma, a mano a mano che si avvicinava l’ora della Polonia, ci si rendeva conto che non c’era più un luogo dove riparare o nascondersi, né v’erano più parole da dire né trattati da sottoscrivere. A Mosca un astuto giocatore di scacchi ben sapeva che gli Alleati nutrivano da tanti anni il sogno di vedere Russia e Germania dilaniarsi a morte fra loro. La sua diffidenza nei confronti dell’Inghilterra e della Francia poggiava su decenni di boicottaggio, sulla lezione a duro prezzo imparata quando la Spagna repubblicana era stata abbandonata e infine quando l’Unione Sovietica non era stata invitata alla capitolazione di Monaco. Hitler, convinto della definitiva viltà degli Alleati, sicuro che alla loro lunga serie di tradimenti avrebbero aggiunto quello della Polo-

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nia, accordò le sue trombe di guerra sui toni più alti e chiassosi, cui risposero i rullii cupi dei tamburi e il pesante calpestio degli stivali in marcia. Stalin, assolutamente certo del tradimento degli Alleati, in un tentativo disperato e necessario di prendere tempo, entrò in trattative col suo arcinemico. Per assicurarsi una vittoria facile e sicura, Hitler strinse il patto con Stalin, e gli Alleati gridarono allo scandalo! E, nel mezzo, una Polonia orgogliosa e arrogante, che odiava con uguale forza la Russia e la Germania, mise fine ad ogni speranza di unione fra gli Alleati rifiutandosi di chiedere aiuto all’URSS. Chris spinse velocemente la sua Fiat lungo il viale reso lucido dalla pioggia e svoltò nella via del Nuovo Mondo, fiancheggiata da negozi. Il cielo era grigio. Gli ultimi compratori camminavano rasente i muri e passavano frettolosi davanti alle vetrine eleganti. All’angolo di via Traugutt, dove finiva la fila dei negozi, la via del Nuovo Mondo, per ragioni che sembrava nessuno conoscesse, cambiava il suo nome in quello di viale del Sobborgo Cracovia. Chris si diresse verso il Bristol, un vecchio albergo che conservava ancora qualche pretesa di eleganza. Era un buon quartier generale per un giornalista: aveva un suo centralino telefonico che funzionava giorno e notte e inoltre era situato nel vertice del triangolo che abbracciava l’Albergo Europa, il Ministero degli Esteri, il palazzo del Presidente ed il municipio di Varsavia. Dall’uno all’altro di questi edifici scorreva un flusso ininterrotto di notizie. Chris affidò la macchina al portiere, si fece strada nella confusione rumorosa dell’atrio e si avviò all’ascensore Otis, un modello con cabina visibile che risaliva ai tempi della Prima guerra mondiale.

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Giunto al mezzanino, entrò attraverso la porta di un appartamento, sul cui battente stava scritto: Agenzia Svizzera di Informazioni. Ervin Rosenblum, fotografo e giornalista nonché aiuto indispensabile di Chris, era seduto al suo tavolo traboccante di fotografie, telegrammi, articoli e materiale giornalistico vario. Chris si avvicinò, senza parlare, e raccolse una manciata degli ultimi dispacci; uno dopo l’altro li lasciò cadere volteggianti al suolo. Ervin Rosenblum era un ometto scialbo, alto poco più di un metro e cinquanta e quasi cieco se non inforcava i suoi occhiali dalle grosse lenti. Mentre Chris leggeva, Ervin gli frugò nelle tasche alla ricerca di una sigaretta. «Salve!!» borbottò Chris. «Sono maledettamente decisi a cominciare presto la sparatoria!» Ervin rinunciò alla ricerca della sigaretta. «Sta’ bene attento a quello che ti dico: la Polonia combatterà» disse. «Forse ne uscirebbe meglio se non combattesse». Ervin, nervoso, guardò l’orologio. «Dove diavolo si è ficcata Susan? Devo portare questa roba al laboratorio». Prese la sua Speed Graphic e si ficcò in tasca i flash. «Chris, credi che l’Inghilterra e la Francia ci aiuteranno?» Chris continuava a leggere i dispacci. «Quando vi sposate, tu e Susan?» domandò ad un tratto. «Non riesco a trattenerla il tempo necessario per chiederglielo. Se non lavora all’orfanotrofio, è a una riunione sionista. Hai mai sentito dire che si possa assistere a sei riunioni la settimana?! Solo gli ebrei riescono a parlare tanto. E così io sono entrato a far parte del comitato esecutivo solo per riuscire a vederla e a fissarle degli appuntamenti. La mamma mi ha domandato se vieni a

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pranzo da noi questa sera. Ti ha preparato i latkes di patate, un piatto speciale!» «I latkes di patate?! Ci vengo senz’altro, fra un’ultimissima e l’altra!» Susan Geller si affacciò alla soglia dell’uscio: era piccola e scialba come Ervin, tozza e priva di quasi tutti gli elementi che rendono attraente una donna. Portava i capelli tirati all’indietro, piatti e stretti in una crocchia sotto la cuffietta da infermiera; aveva le mani grosse e nodose di chi passa la vita a sollevare corpi malati e a cambiare padelle. Tuttavia, come parlava, la sua bruttezza scompariva. Susan Geller era una delle più buone creature di questa terra. «Sei in ritardo di mezz’ora» fu il saluto di Ervin. «Salve, tesoro» disse Chris. «Mi piaci più tu che lui» rispose Susan a Chris. Ervin afferrò un fascio di negative, di pellicole, di flash e la sua macchina e disse all’amico: « Tutta roba tua, se vuoi!» «Puoi fermarti al palazzo del Presidente? Cerca di vedere Anton. Forse lui riesce a combinarci cinque minuti di intervista con Rydz-Smigly3. Chissà che non cambi musica, ora che è ufficiale la notizia del patto russo-tedesco di non aggressione!» Squillò il telefono. Con la mano libera Ervin alzò subito il ricevitore. «Salve… un minuto» e mise la mano sul microfono. «Aspettami fuori» disse a Susan «vengo subito». Susan e Chris si lanciarono un bacio. «Chi è, Rosy?» domandò de Monti. «Il marito di Deborah» rispose Ervin; gli passò il ricevitore e uscì. 3

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L’allora presidente della Repubblica Polacca (Ndr).


Crepuscolo

«Salve, Paul! Come state?» «Vi stavo facendo la stessa domanda. Poco fa dicevo a Deborah che sia noi che i ragazzi abbiamo sentito molto la vostra mancanza» «La situazione è stata piuttosto movimentata» «Me lo posso immaginare» «Mi devo scusare di non avervi telefonato. E come… sì… come sta Deborah?» «Bene, benissimo. Perché non cercate di rendervi libero per domani sera e non venite a pranzo da noi?» Chris cominciava a trovare insopportabile da sostenere quella commedia. Ogni volta che vedeva insieme Deborah e Paul, ogni volta che pensava che essi dormivano nello stesso letto, cresceva in lui il senso di repulsione. «Temo che non mi sia possibile, Paul. Forse dovrò mandare Rosy a Cracovia e…» La voce di Paul Bronski si abbassò. «È piuttosto importante che voi veniate. Avrei bisogno di vedervi per una faccenda urgente. Facciamo alle sette, allora?» Chris si sentì invadere dalla paura. Il tono di Paul aveva assunto l’imperiosità di un ordine. Forse anche lui desiderava quel chiarimento totale della situazione che Deborah sino allora aveva evitato. O forse era solo uno scherzo della sua immaginazione? In definitiva, erano buoni amici. Perché non avrebbe dovuto invitarlo a pranzo? «Verrò senz’altro».

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Indice

Ringraziamenti Parte prima. Crepuscolo

VII

7

Parte seconda. Tenebre

187

Parte terza. Notte

457

Parte quarta. Alba

603


© foto Scala Florence/Heritage Images

Leon Uris (Baltimora, 1924 - Long Island,

2003), ebreo di origine russo-polacca, durante la Seconda guerra mondiale abbandonò gli studi per arruolarsi nel corpo dei Marines. Fu giornalista, scrittore e sceneggiatore. Firmò numerosi romanzi di successo, tra i quali Exodus, di recente ripubblicato da Gallucci, e Topaz. Con Mila 18 (1961), Uris fu tra i primi a svelare al grande pubblico la storia della rivolta del ghetto di Varsavia.

ISBN 978-88-6145-377-7

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MILA 18

“Scorro i libri di storia e mi sforzo di trovare un parallelo. Né ad Alamo né alle Termopili si trovarono di fronte due schieramenti più ineguali (...) Questo esercito di fortuna, privo di armi vere e proprie, tenne a bada per quarantadue giorni e quarantadue notti la più potente forza militare che il mondo abbia mai conosciuto...”

Leon Uris

Primavera 1943: nella Polonia invasa dai nazisti si incrociano le storie di Andrei Androvski, unico ufficiale ebreo dell’esercito polacco, degli adolescenti Rachael Bronski e Wolf Brandel, alle prese con le prime passioni giovanili, e di Christopher de Monti, giornalista italoamericano innamorato della sorella di Andrei. Tutti presenti nel bunker di via Mila 18, quartier generale della resistenza ebraica del ghetto di Varsavia. Una rivolta senza speranze, che però rappresenta l’unica scelta possibile per i protagonisti: compiere un atto di eroismo collettivo, con la tenace volontà di non essere dimenticati. Perché gli ebrei non siano più disposti a subire.

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Mila 18 Il romanzo della rivolta del ghetto di Varsavia


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