Niente è come sembra

Page 1


STEFANIA GATTI è COmE mE

ALINE

cappotto, sperando che nessuno avesse

Ho passato i primi minuti a chiedermi cosa ci facessi lì; i minuti successivi a cercare Luca, che all’improvviso era sparito, quelli ancora dopo a togliermi il notato che ce l’avevo ancora addosso, perché stare a una festa col cappotto è peggio che farsi venire a prendere all’uscita da un genitore.

Quando mi sono voltato verso di lei, sta-

ASA va ridendo, con Luca e Viola. Le si è formata quella fossetta sulla guancia. Indossava un maglione a righe orizzontali. Non l’avevo mai vista così bella. Mi ha mozzato il fiato, sul serio, e non sono riuscito ad affrontare il suo sguardo, nemmeno quello dei suoi amici o dei miei. Perché tutti si sarebbero accorti di quello che mi passava per la testa, di come mi batteva il cuore sotto la felpa. Oddio, frignone e pure sentimentale.

UAO

Universale d’Avventure e d’Osservazioni

Stefania Gatti

Niente è come sembra

ISBN 979-12-221-0600-7

Prima edizione agosto 2024

ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2028 2027 2026 2025 2024

© 2024 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Gallucci e il logo sono marchi registrati

Se non riesci a procurarti un nostro titolo in libreria, ordinalo su: galluccieditore.com

Il marchio FSC® garantisce che questo volume è realizzato con carta proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile e da altre fonti controllate, secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. L’FSC® (Forest Stewardship Council®) è una Organizzazione non governativa internazionale, indipendente e senza scopo di lucro, che include tra i suoi membri gruppi ambientalisti e sociali, proprietari forestali, industrie che lavorano e commerciano il legno, scienziati e tecnici che operano insieme per migliorare la gestione delle foreste in tutto il mondo. Per maggiori informazioni vai su https://ic.fsc.org/en e https://it.fsc.org/it-it

Tutti i diritti riservati. Senza il consenso scritto dell’editore nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e da qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, né fotocopiata, registrata ao trattata da sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni.

Stefania Gatti Niente

è come sembra

Ai miei studenti, di ieri, di oggi.

A quelli che verranno domani.

A Gabriele, il ragazzo degli autobus.

Capitolo 1

Asa

Basta lanciare una rapida occhiata in giro per capire che Maddalena non è in casa. Vestiti appesi dappertutto, residui di cibo nel lavandino, piatti ancora da lavare. Teodoro, un occhio aperto e uno chiuso, in cima al mucchio dei panni da stirare, mi degna di una mezza occhiata annoiata e torna a sonnecchiare.

Come fa a dormire in questo caos? Mi viene voglia di gridare e tirare un calcio ai guantoni da boxe di mio fratello, al suo skate piazzato proprio davanti alla porta. Invece non dico niente e scivolo in casa come un ladro, senza fiatare, in apnea.

Se il GENERALE mi sente sono spacciato. Lascio le scarpe all’ingresso. Darei qualsiasi cosa per un bicchiere d’acqua ghiacciata, ma un movimento sbagliato, un minimo rumore, la insospettirebbero; si accorgerebbe immediatamente che sono tornato. Mica viviamo in un castello, basta uno scricchiolio ed è finita, dice che è sorda, ma ci sente più di me.

Non posso rischiare.

Per fortuna la porta della mia camera è aperta, entro e chiudo, la mano ferma sulla maniglia a dosare il peso necessario per renderla muta.

«ALESSANDRO».

Non c’è modo di scamparla.

«Alessandro, sei tu?» Una nota di allarme nella voce.

«Sì nonna, chi vuoi che sia»

«E allora rispondimi quando ti chiamo!»

Silenzio.

«ALESSANDRO, non borbottare ti sento»

«Non ho detto niente»

«Vieni qui per favore» (“Per favore” nella lingua del generale significa “non osare fare il contrario”).

«Che c’è, nonna? Sono stanco, volevo buttarmi sul letto qualche minuto prima di cominciare a fare i compiti»

«Alla tua età? Sul letto? Non dire idiozie, VIENI QUA, ho detto». Mi deve parlare, è urgente. È sempre urgente. Sto schiattando di sete, rispondo, vorrei almeno bere un po’ d’acqua.

«Quando ero giovane io, non ci si rivolgeva così a un superiore!» sbraita.

Lei non dice “a una persona più anziana”, lei dice a un “superiore”; mi manca per un attimo il fiato,

sempre, tutte le volte, quando apro la porta della sua stanza e la vedo, come se mi cogliesse di sorpresa. Il generale siede in poltrona, sempre. Mi fissa, un occhio semichiuso, l’altro aperto, la palpebra sovrasta la pupilla; continua a sfogliare una rivista con foga.

«Finalmente!» sbuffa. «Quella se n’è andata» aggiunge.

«Si chiama Maddalena»

«Fa come le pare, va, viene…»

«Qual è il problema, nonna?» Cerco di tagliare corto, parlare male della compagna di papà è uno dei suoi passatempi preferiti e io non la voglio stare a sentire.

Guarda fuori, tra le fessure delle serrande. Di profilo mi fa ancora più impressione: è la copia di Mussolini, ma ha i capelli che le cadono sulle spalle; un caschetto perfetto sale e pepe.

«Ho avuto un’idea» gracchia, spostando lentamente lo sguardo accigliato su di me.

«Ah». L’ultima idea di mia nonna è stata quella di uccidere la vicina. Sul serio, voleva ingaggiare un sicario.

«Ti do io i soldi» mi fa, accennando una specie di sorriso benevolo, anche se in realtà di benevolo mia nonna non ha proprio niente. È una vecchietta spietata. Lo è con noi di famiglia, figuriamoci con

gli sconosciuti. Scuoto la testa, no, niente soldi, di qualsiasi cosa si tratti.

«Te li do in contanti e mi vai a comprare una tomba. Non diciamo niente a papà»

«Ancora con questa storia?»

«Nessuna storia. Con quello che avanza… ti ci prendi una cosa per te, non necessariamente una tomba» prosegue con un ghigno.

Il mio silenzio è un significativo commento al suo umorismo.

«Ti ci prendi un gelato, quello che vuoi…»

«Non è questo il punto, il punto è che non ci vado e basta»

«Mai una gioia a tua nonna». L’espressione arcigna non si ammorbidisce neanche quel tanto che basterebbe per provare a impietosirmi.

«Sei più sana di un pesce, che te ne fai ora di una tomba?»

Già conosco la risposta: è una fissazione la sua, non fa altro che leggere annunci mortuari e cercare tombe su internet. Si immagina un funerale d’altri tempi, tipo quelli dei membri delle famiglie reali, con i cavalli bianchi e le carrozze. Tutti con i cappelli, a dire cose magnifiche sul suo conto.

«Siamo a Laurentino 38, nonna. LAURENTINO 38». Glielo devo ricordare ogni volta che qui

non è Buckingham Palace, prima ancora che cominci a blaterare su quanto siamo tirchi, io, Giacomo, mio padre e quella lì.

«ASPETTA» fa, quando sto per dileguarmi oltre la porta. La sua voce raschia l’aria. Tossisce in maniera convulsa. Mi si rizzano i peli sulle braccia. Lo fa apposta, ne sono sicuro.

«Ho già detto che non vado»

«Per oggi. Per oggi non vai» specifica. «Però devi scendere il gatto».

Non mi azzardo a ricordarle che non si dice, “scendere il gatto”, non è italiano.

«Senti nonna, sono le tre, mi voglio buttare una mezz’ora sul letto»

«Col telefono, eh? Sei sempre lì con quel telefono, t’ammazza il cervello». Afferra il bastone da passeggio che da quando non passeggia più usa come un’arma e comincia a sbattere la punta a terra, sempre più forte. «Scendi il gatto, scendi il gatto» ordina, e già so che non ho scampo.

«Teodoro, andiamo». Rassegnato, vado a rimettermi le scarpe; il mio pomeriggio si trasformerà in un inferno, se non mi piego ai voleri del generale.

Prima o poi mi vedrete tornare a casa, al settimo ponte, al settimo piano, con una tomba in spalla.

Teodoro salta giù dalla pila di panni e mi corre in-

contro, esce di casa saltellando, cerca di infilarsi nell’ascensore, ma no, gli dico, che ti salta in mente, si va a piedi.

Arriviamo al parco, c’è un caldo che spacca le pietre, anche se è inverno. Teodoro si dedica a tutte le sue attività preferite: rincorsa della coda, poi di una lucertola, imitazione del verso del gabbiano, simulazione di lotta con belve inesistenti, nella spianata puntellata da cartacce e lattine vuote e con al centro uno scivolo sfasciato. Il telefono vibra in tasca. Un messaggio di Valerio:

Che fai, ci vediamo?

Altri dieci, sempre suoi, una cinquantina della chat di classe e altri ancora. Lo schermo si illumina. Giulia.

Che fine hai fatto Asa, ti ho cercato, ci vediamo dopo?

Mi siedo sul muretto, per prendermi il tempo di risponderle. Intanto comincia ad arrivare qualche bambino, corrono incontro a Teodoro, lo conoscono tutti. Io sono tutto preso a digitare sulla tastiera, alzo solo lo sguardo di tanto in tanto, accennando a un mezzo sorriso.

Poi una voce diversa, non squillante come le altre, per intenderci una voce di ragazza, non di cinquenne. Alzo gli occhi.

«Andiamo nella stessa scuola o sbaglio?» fa. «Abiti qui?»

Alta, molto alta. Con questi occhi nocciola pazzeschi e i capelli corti, ma non cortissimi. Sì, lo so, le descrizioni non sono il mio forte, però qui di ragazze così non ne ho viste, fino a ora. C’è un cane al guinzaglio con lei, una specie, un affare piccolo che abbaia un sacco e che tenta di azzannarmi la caviglia e di arrampicarsi sul muretto.

«Non gli piaci».

Sorrido. Neanche lui. Ma tu sì, tantissimo. Non lo dico, ovvio.

«Ho capito!» esclamo, come colto da un’illuminazione. «Sei in seconda C!»

Ludovica Nettari, detta Kensinton, seconda C, io e metà dei miei amici faremmo carte false per fare un giro di corridoio insieme a lei.

«Sì, giusto, e tu? In che classe sei, seconda E?»

«Prima B». Lo dico in un soffio, infatti si avvicina per sentire meglio. «Non ti ho mai vista qui». Infilo il cellulare che continua a vibrare in tasca.

«È vero, non ci siamo mai incontrati, ma io non vengo spesso. Piuttosto, dimmi un po’, mica è tuo

quel gatto?» indica Teodoro, che insegue i bambini.

«Sì, lo porto giù tutti i giorni»

«Come coi cani?» ride, gli occhi si allungano fino a chiudersi.

«Eh» faccio. Intanto le ho rifilato un’informazione fondamentale: tutti i giorni stessa ora, stesso posto, farò in modo di farmi trovare qui.

«Non ho mai visto un gatto che scende giù al parco, e poi che fa, ti segue fino a casa?»

«Sì, come un cane. Lui non sa di essere un gatto». Le sorrido e guardo il suo cane, che le si è acciambellato ai piedi.

«Il mio invece fa come i gatti, e dorme».

Teodoro non solo fa amicizia con tutti, ed è l’idolo dei bambini, ti aiuta anche a rimorchiare. Che si può pretendere di più da un gatto?

Ludovica chiacchiera a macchinetta e, quando ci salutiamo, io, visto che ho l’innamoramento facile e mi perdo nei suoi occhi color nocciolina, ho la sensazione che mi abbia dato delle informazioni fondamentali che non ho colto. Può essere che mi abbia detto che va alla pista di skate… o forse no. Non posso essermelo immaginato. Eppure non ne sono sicuro. E mi ha chiesto se vengo sempre qui al parco. Insomma, mi vuole rivedere. Se non me lo sono immaginato.

Capitolo 2

Aline

«Aline… Aline… ci stai ascoltando?»

Ho i pugni chiusi, sotto il tavolo, il fiato intrappolato; ingurgito rapidamente, e i bocconi arrivano come cazzotti nella pancia.

«A cosa pensi, sei sempre così distratta, Aline».

Mio padre ha accennato un mezzo sorriso. Da quando sa che io so, non ci va giù pesante come mia madre con le lamentele e i rimproveri, un po’ mi teme, anche se ho giurato di non dire niente. Sì, mi ha fatto promettere, poi ha detto GIURA, lo ha gridato in un sussurro. Parola gigante, GIURA.

Ha continuato a triturare il cibo con ammirevole dedizione senza staccarmi gli occhi di dosso, con quell’aria che diceva: Vabbè, che ci sarà di male se è assorta nei suoi pensieri, non le stare sempre così addosso.

Quanta tolleranza.

«Hai già finito! Quante volte ti devo dire che… ora però non ti muovi da tavola. Niente cellulare,

eh». Mia madre. La sua voce a volte mi infilza a tradimento e si va a ficcare sotto la pelle. Poi si disfa liquefacendosi. E il braccio comincia a prudermi.

«La smetti di grattarti a tavola? Aline. Non sta bene, Aline».

I pasti insieme sono un supplizio.

«Capito, ma chérie?» il sorriso, nevrotico e conciliante.

«Ti ho detto di parlarmi sempre francese, se no non imparo. Non solo ma chérie, anche altro»

«Tesoro, a volte non mi viene naturale, mi dimentico. Ci proverò, me lo devi ricordare»

«Te lo ricordo ogni volta». Se sapesse che non è per imparare che le chiedo di parlare la sua lingua, si offenderebbe a morte. Avevo scelto inglese e spagnolo alle medie, ma mi incuriosiscono anche le lingue orientali, il francese no, quello è solo SUO. Voglio che mi parli francese perché in quei momenti la riconosco, proprio con tutto il corpo, i nervi si distendono e riprendo possesso del respiro. Non gliel’ho mai detto che l’italiano, dopo tanti anni vissuti qui, in certi momenti, mi sembra così stonato su di lei da entrarmi nella pelle e darmi prurito. Le parole che si facevano bolle. È strano come possano diventare qualsiasi cosa, le parole.

«Cos’è quel sorrisetto?»

«Mmm, niente».

Al ticchettio delle posate che affondano nel silenzio si alternano i lunghi interrogatori sulla scuola, sul perché non mangio, o mangio troppo, o mangio così velocemente, perché non mastico, perché sto sempre col cellulare in mano, perché non parlo, perché non esco con l’amica, abbiamo litigato, sto studiando, ci sono problemi?

Non è sempre stato così. Ci siamo scambiati anche sorrisi veri e piccole rivelazioni, noi tre, a pranzo. Prima di essere diventata così “sbagliata” per lei, e prima di tradire la sua fiducia. Non lo immagina, non può immaginare che io la stia tradendo. Mio padre la tradisce, non si sa da quanto tempo, e io ho trovato le prove in un messaggio, letto per errore, mentre cercavo altro, e ora lo proteggo, senza dire una parola. Lui mi è riconoscente per questo. Detesto quello sguardo da cane bastonato che gli si è appiccicato addosso e che non gli si addice. Certo, non dev’essere facile per lui affrontare il mio, di sguardo. Prima, ogni volta che mi vedeva col cellulare in mano, si spendeva in predicozzi sulla pericolosità dell’utilizzo smodato dei social per noi adolescenti, poi proprio io, la figlia quattordicenne, l’ho beccato a chattare con una donna, conosciu-

ta molto probabilmente online, una tizia che si fa chiamare Dolly, a cui ha scritto quello che non avrei mai voluto leggere.

«Non crederai mica…» si era subito posto sulla difensiva, sgranando gli occhi incredulo, quando gli avevo ripetuto per filo e per segno parte di quei messaggi sdolcinati incastonati nella memoria. Mi ero limitata a ripetere, facendo il verso, le parti romantiche, non quelle da voltastomaco.

«Sei ridicolo! Vuoi fare il ragazzino, alla tua età, a…»

Mi ero dimenticata quanti anni avesse, quarantacinque, cinquanta, poco cambiava.

«Quarantotto. Ti sembro così vecchio?» E poi ha detto qualcosa tipo che i quaranta sono la nuova giovinezza. Lo scrutavo, seduta sul letto, con le gambe incrociate. I pugni sotto le cosce, chiusi.

Le sue spiegazioni mi imbarazzavano; per la prima volta ho notato che si stava facendo crescere la barba e che portava le scarpe da ginnastica, di un bianco candido, con la marca che spiccava in verde. Non le aveva mai indossate.

«Sono nuove?» le ho indicate con lo sguardo.

Non ha risposto.

Quello che volevo sapere e che non ho chiesto è quando ha smesso di amare la mamma.

Quando c’è stata quella litigata furiosa, e le porte sbattevano e poi mamma è uscita trafelata e dopo tre ore che non tornava io e papà siamo andati a cercarla arrivando a piedi fino al Colosseo Quadrato, rimuginando e congetturando e quando siamo rientrati a casa col buio pesto lei era sulla poltrona, gli occhi gonfi di pianto e un sorriso tremulo, sulle labbra… non l’amava più già allora?

La vacanza sul Nilo. Mia mamma aveva la testa da un’altra parte, diceva che era per la nonna, che stava male, ma non era solo quello, lei e papà sembravano due estranei… era l’inizio della fine?

A Berlino, quando si sfidavano nelle gare di bici e si abbracciavano, impalati in mezzo alla strada, col sorriso impigliato nei capelli e le macchine che strombazzavano e io che gli gridavo di farla finita con le smancerie, volevano forse lasciarmi orfana in una città straniera? Era tutta una finta? I biglietti attaccati al frigorifero, sempre, tutti i giorni, gli sguardi complici, venivano prima o anche dopo l’incontro con Dolly?

«Vi lascerete?»

Ha detto di no, ma mamma non deve sapere niente, perché non c’è niente da sapere, non ha significato niente, è stata una sciocchezza.

«Non proprio una sciocchezza»

«Intendevo un errore, una cazzata, come la vuoi chiamare».

Non aveva mai detto una parolaccia prima d’ora, almeno non in mia presenza. Mi sono irrigidita, poi ci siamo sbraitati addosso, prima io e poi lui e poi insieme, e subito dopo lui si è adagiato in un’insopportabile docilità, mista a pentimento e sofferenza, e allora lo preferivo quando sbraitava. Mio padre sofferente era un cazzotto nella pancia. E allora ho giurato.

Asa e Aline hanno quattordici anni e frequentano il primo anno dello stesso Liceo classico. Le loro strade si intrecciano lungo i corridoi della scuola, tra contrattempi, equivoci e incomprensioni, ma sembrano destinate a non convergere mai. Lui è simpatico e sfrontato e non ha avuto alcun problema a fare nuove amicizie; lei, invece, è chiusa, ombrosa, e sta attraversando un periodo difficile, dopo aver scoperto e deciso di custodire con sofferenza

Anche Aline però ha un segreto. Chiusa nella cabina armadio, riesce a sentire frammenti dei discorsi tra la madre, psicoanalista, e i suoi pazienti. Lì dentro abbandona la propria quotidianità, lasciandosi trasportare e attraversare da parole che a stento riesce a distinguere, fino a entrare, non vista, in altre vite. Una voce, in particolare, comincia a insinuarsi nelle sue fantasticherie…

Il tempo sembra dilatarsi, sto provando una sensazione che vorrei non provare, perché Aline è l’ultima persona che ho voglia di baciare. Eppure in questo preciso istante non desidero altro.

tore del premio letterario Il Battello a Vapore .

Copertina: © PEPE nymi
Art Director: Stefano Rossetti
Graphic Design: Eleonora Tallarico / PEPE nymi

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.