traduzione di Raffaella Scardi
Chiusi gli occhi fingendo di dormire. Sentii che si chinava su di me e probabilmente mossi gli occhi sotto le palpebre, perché si accorse che ero sveglio. «Janek, fatichi a prendere sonno?» sussurrò.
Aprii gli occhi, mi tirai su e sorrisi, come se mi avessero colto a mentire. Si sedette sul ciglio del mio letto. Non sapevo cosa dire, perciò chiesi: «Passa da tutti, uno per uno, per vedere chi dorme e chi no?»
Ridacchiò a voce bassa per non disturbare gli altri. Forse le mie domande sono proprio stupide, pensai, fanno ridere tutti, prima Yossek e adesso il dottore. «Sono un pediatra» mi spiegò. «Anche questo è un modo per controllare come state. Passo tra i letti per sentire come respirate. Un respiro sibilante, roco o intasato da catarro rivela lo stato delle vie respiratorie, del naso e dei polmoni».
Ebbi l’impressione di sentire non solo il mio respiro, ma tutti gli inspiri ed espiri nella stanza.
YOUNG
Tami Shem-Tov
Quando mettemmo le ali traduzione dall’ebraico di Raffaella Scardi
ISBN 979-12-221-0678-6
Prima edizione italiana novembre 2024 ristampa 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
anno 2027 2026 2025 2024
© 2024 Carlo Gallucci editore srl - Roma
Titolo originale: בנג אל ינא
© 2012 Tami Shem-Tov
Pubblicato per la prima volta da Kinneret-Zmora-Dvir Publishing House
Questa edizione è pubblicata in accordo con Grandi & Associati e Assia Literary Agency
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Quando mettemmo le ali
traduzione di Raffaella Scardi
“Non esistono bambini cattivi, esistono bambini che soffrono”.
Janusz Korczak
Questo libro è dedicato alla sua memoria
Fino a quando non mi spezzarono le gambe, nessuno correva veloce come me. Ogni volta che sfrecciavo per le strade, la gente si fermava in ammirazione. “Cos’è stato?” si chiedevano e, vedendo che ero solo un bambino, sognavano che un giorno avrei partecipato alle Olimpiadi e portato vittorie e onore alla Polonia. Grazie alla mia straordinaria velocità vincevo gare, sfuggivo a bande di malviventi e alla prepotenza di bulli, e rubavo. Della mia velocità ero fiero, dei furti no. Più di tutto odiavo essere chiamato “ladro figlio di un ladro”. Però questo ero, un ladro figlio di un ladro. Una volta – tanto tanto tempo fa, quand’ero piccolo – presi tre soldatini giocattolo grigi a un bambino. È il primo furto di cui ho memoria. Mia sorella Mira, che ha dieci anni più di me, mi
sorprese a giocarci e mi costrinse a restituirli. Il bambino non se n’era nemmeno accorto, ne avrà avuti un centinaio di quegli stupidi soldatini, ma Mira insisté e pretese anche che mi scusassi con sua madre – cosa c’entrava la madre? – e quella fu la parte peggiore.
Il secondo oggetto che rubai fu un libro. Non so perché proprio quello, forse per via della bella copertina, forse perché una mamma lo stava leggendo a suo figlio. Il bambino indossava un abito a righe alla marinara, sembrava un bambolotto in un negozio e non ascoltava la mamma, pareva del tutto disinteressato. Erano seduti su una panchina in un grande giardino pubblico e io gli correvo intorno da una decina di minuti. A un certo punto la mamma posò il libro sulla panchina per pulire il naso del suo bimbo-giocattolo e io schizzai verso di loro, afferrai il libro e corsi a casa stringendomelo al petto. A parte qualche passaggio noioso, era un bel libro. Dopo lo regalai a una bambina del quartiere.
Da allora non rubai più libri, solo una gran quantità di giornali. Di solito li sfilavo dalle tasche dei cappotti o da sotto l’ascella di un signore, in una strada affollata o alla stazione del treno.
Leggevo tutti i giornali che scippavo, dalla prima all’ultima pagina: se rubavo dovevo trarne il massimo beneficio, altrimenti era mortificante. A volte dopo aver letto il giornale lo restituivo a uno strillone – uno dei ragazzini che vendevano i giornali agli angoli delle strade – perché lo rivendesse. Qualche volta in cambio dei giornali ricevevo qualche soldo. Mi sembrava giusto. E comunque, dagli strilloni non ho mai rubato.
Per lo più rubavo cibo: pane, burro, formaggi, salami, dolci, torte, biscotti, frutta, verdura, persino pesci, al mercato o dalle ceste delle persone. Una volta soffiai delle frittelle di patate da un piatto in un ristorante. Quasi riuscivo a filarmela attraverso la porta aperta, ma qualcuno mi fece lo sgambetto e finii steso a faccia in giù. Due uomini mi saltarono addosso in un attimo e, con la bocca ancora piena di pesce sotto sale, mi presero a schiaffi.
Fu spiacevole, naturalmente, e anche doloroso, ma niente in confronto al giorno in cui mi spezzarono le gambe. Successe nell’orfanotrofio. Alcuni ragazzi più grandi mi avevano teso una trappola per sorprendermi a rubare. Mi bloccarono a terra e mi presero a calci, una scarica di calci nelle
gambe. Il direttore, in disparte, assisteva mentre li scongiuravo di smettere. Prima di svenire lo sentii commentare: “Vedremo come riuscirai a correre, adesso”. Passò parecchio tempo prima che recuperassi forze a sufficienza da scappare dall’orfanotrofio e trascinarmi nella neve fino a casa di mia sorella. Per diversi mesi rimasi lì, sdraiato su un materasso, senza mai uscire. Non volevo che mi vedessero zoppo.
La voce si sparse ugualmente. Capitava che qualcuno passasse dal cortile e gridasse: “Janek il ladro è zoppo!” Oppure: “Ti voglio vedere a battermi nella corsa adesso, sciancato”. Mia sorella Mira fingeva di occuparsi del suo bebè, ma naturalmente li sentiva. Sapeva che era tutta colpa sua: era stata lei a spedirmi in quel posto. Per questo reagii con incredulità quando un giorno, mentre strofinava i pannolini bagnati sul lavatoio, mi disse: «Janek, ho sentito parlare di un orfanotrofio eccellente». Le voltai le spalle e sorrisi, amaro. Accostare la parola “orfanotrofio” a “eccellente” era impensabile. Io sarò anche un ladro zoppo, pensai, ma Mira è una bugiarda. E una traditrice.
TAMI SHEM-TOV
(Israele, 1969) è un'autrice pluripremiata per bambini e ragazzi. Scrive soprattutto romanzi storici, biografie e storie basate su eventi reali. Vive a Tel-Aviv con le due figlie. I suoi libri hanno vinto numerosi riconoscimenti internazionali e sono stati tradotti in sei lingue.
In copertina
© Glasshouse Images / Alamy Stock Photo
Foto dell’autrice: Ido Peretz
Art director: Francesca Leoneschi
Graphic designer: Pietro Piscitelli / theWorldofDOT
Nell’orfanotrofio di Janusz Korczak, pediatra, educatore e scrittore, in via Krochmalna 92, tutti possono coltivare i propri sogni. Rosie vuol diventare un avvocato per riscattare le donne povere; Itcho, che adora Charlie Chaplin, aspira a fondare un teatro comico; Hannah vuole invece fare la bibliotecaria, perché ama i libri e soprattutto leggere le storie ad alta voce. Anche Janek ne ha uno, diventare come Janusz Kusociński, il mezzofondista che sfreccia sulle piste olimpiche, leggenda del popolo polacco. Sogno che gli è stato spezzato, assieme alle gambe, quando è stato sorpreso a rubare. Korczak lo accoglie nella sua comunità fondata sull’amicizia, la solidarietà e la giustizia, gli infonde fiducia, apre in lui scenari inimmaginabili. Sullo sfondo della Varsavia del 1935, il mondo è sull’orlo del baratro e il nazismo sempre più minaccioso, con il suo insensato carico di odio e intolleranza. Una storia vera, delicata e struggente. Il ricordo di un uomo illuminato, un eroe del secolo scorso che tutti dovrebbero conoscere.
Della mia velocità ero fiero, dei furti no. Più di tutto odiavo essere chiamato “ladro figlio di un ladro”. Però questo ero, un ladro figlio di un ladro.