ANJA REUMSCHÜSSEL
traduzione di Alessandra Petrelli
Mo scese dal te o, scavalcò la nestra della sua stanza, si bu ò sul le o con le mani incrociate dietro la testa e rimase a ssare il so o. Era la prima volta da molto tempo che si sentiva capito da qualcuno. Quella ragazza conosceva lo sconfortante oceano della solitudine. Però era un’ebrea, era glia del nemico. Una di quelle che non avevano nessun diri o di stare lì nel suo Paese. Che cosa avrebbe de o lo zio se avesse saputo che era rimasto a parlare con lei per così tanto tempo? Se avesse saputo che sperava di trovarla sul te o anche l’indomani e che nessun vicino ccanaso si accorgesse che lì c’erano due persone che non avrebbero dovuto stare insieme, sedute l’una accanto all’altra? Un’ebrea e un arabo.
Young Adult
Anja Reumschüssel
Sotto lo stesso cielo traduzione dal tedesco di Maria Alessandra Petrelli
ISBN 979-12-221-0590-1
Prima edizione italiana agosto 2024 ristampa 8 7 6 5 4 3 2 1 0
anno 2027 2026 2025 2024 © 2024 Carlo Gallucci editore srl - Roma
Titolo dell’edizione originale tedesca: Über den Dächern von Jerusalem © 2023 Carlsen Verlag GmbH - Amburgo, Germania
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Anja Reumschüssel
Sotto lo stesso cielo
traduzione di Maria Alessandra Petrelli
Per tutti i figli del conflitto.
Che possiate vedere la pace sognata dai vostri genitori.
NOTA DELL’EDITORE
La versione originale tedesca di questo romanzo è stata pubblicata in Germania nel febbraio del 2023, otto mesi prima delle stragi compiute da Hamas il 7/10/2023 in Israele e del successivo attacco dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. Al momento della pubblicazione di questa prima edizione italiana il conflitto è ancora in corso.
Primavera 2023 Karim
«Yalla, ya Karim» gridò Ahmed «sali in macchina, attacchiamo!» Agitava le braccia sporgendosi con tutto il busto dal finestrino del lato passeggero della vecchia Volvo. In una mano teneva l’arma fondamentale per attaccare, una corda, più lunga dello stesso Karim, con un pezzo di cuoio al centro. Una fionda.
Karim sogghignò. Ahmed era ben preparato. Karim era uno dei migliori tiratori del campo profughi, era in grado di colpire un passero a dodici metri di distanza. Si esercitava da anni, da quando suo fratello maggiore gli aveva regalato la prima fionda. «Ogni ragazzo palestinese deve saperla usare» gli aveva detto Mohammed. «Non abbiamo carri armati, né cacciabombardieri, né mitragliatrici. Abbiamo solo le nostre fionde e le foto che ci scattano i giornalisti quando lanciamo sassi contro i blindati israeliani. Sono le nostre armi più forti, le foto e le fionde. Devi imparare a usarla anche tu».
Karim aveva chinato la testa in un solenne cenno d’assenso e da allora aveva iniziato a raccogliere sassi a ogni occasione per esercitarsi, aveva fatto pratica, colpendo pneumatici negli spiazzi abbandonati e tondini di ferro che spuntavano dai muri come dita nodose. In seguito, man mano che diventava più bravo, iniziò a mirare anche agli uccelli. Non per torturarli, ma per portarli a sua madre, che gli insegnava a pulirli e arrostirli. Lei lo aveva imparato da suo padre, che a sua volta lo aveva visto fare da sua madre durante la guerra, quando erano arrivati gli ebrei e loro erano dovuti fuggire e avevano sofferto la fame. Erano ancora profughi e gli ebrei erano sempre lì, adesso avevano persino uno Stato. Invece loro, i palestinesi, continuavano a non avere una nazione e a lanciare sassi con le fionde, non contro gli uccelli però, ma contro soldati, carri armati e muri. Giorno dopo giorno. Era appena giovedì. Ahmed però era venuto a cercarlo lo stesso, e sicuramente anche gli altri erano già per strada. Il motore della vecchia Volvo sferragliava impaziente, quasi non vedesse l’ora di buttarsi nella mischia.
Karim lanciò un’ultima occhiata al paesaggio che si apriva davanti a lui. Era seduto sopra un muretto sul ciglio di Manger Street, tra il bar di Reem Al-Bawadi e il negozio di alimentari Bandak, in un punto da cui si riusciva a vedere fino alla Giordania. Alle sue spalle, ben oltre le basse colline a ovest, il sole si stava tuffando nel Mediterraneo e gettava i
suoi ultimi raggi sulla terra promessa e martoriata. Le case giallo chiaro sulle alture intorno a Betlemme risplendevano nella luce e proiettavano la loro ombra su cipressi e ulivi. Ancora più lontano, il paesaggio si increspava in colline più alte, sormontate da piccoli villaggi e minareti, per poi scomparire all’improvviso. Sembrava quasi che il mondo finisse proprio lì, dietro l’ultimo minareto, ma ogni tanto, al tramonto, dalla foschia spuntava una catena montuosa color rosa pallido, simile a un miraggio. Le montagne della Giordania.
Qualche volta, quando i monti si fondevano in una barriera azzurrognola nella caligine, Karim immaginava che fosse in arrivo un gigantesco tsunami, pronto a travolgere ogni cosa, inghiottendo la terra tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo fino a cancellare tutto quanto, profughi e soldati, torri di guardia e muri, lasciando al suo posto un placido mare blu che scintillava alla luce del sole.
Dietro di lui la Volvo tuonava implacabile come il fuoco dei cannoni. «Karim, smettila di sognare, c’è bisogno di tutti gli uomini!» lo esortò Ahmed. Aveva appena compiuto tredici anni, ma ne dimostrava dieci. A Karim venne quasi da ridere nel sentirlo appellarsi a tutti gli uomini, riferendosi a loro due. In realtà non aveva nessuna voglia di andare con lui. Aveva fatto apposta una deviazione tornando dal mercato, per passare dal centro. La via più diretta verso
casa si snodava in mezzo alla folla e al traffico fino all’incrocio di Bab El-Zakak e da lì lungo Khalil Road, fino al campo profughi. Invece Karim aveva trascinato lungo i vicoli del centro, attraversandolo da una parte all’altra, i pesanti sacchetti di plastica pieni di cetrioli, pomodori e melanzane, prima di posarli a terra accanto al muretto di Manger Street e perdersi ancora un po’ a contemplare il paesaggio in lontananza.
Adesso però non poteva mollare Ahmed, che chiaramente era andato a cercarlo apposta e lo voleva con sé a qualunque costo. Saltò giù dal muretto, caricò i sacchetti della spesa sul sedile posteriore della Volvo e richiuse la portiera dietro di sé. Il fratello di Ahmed, che guidava, ripartì accelerando.
Per poi inchiodare subito dopo.
Le macchine in coda per la strada non li facevano passare, ignoravano che a bordo della Volvo c’erano dei combattenti in missione. Tutti volevano tornare a casa. Era giovedì sera, il venerdì cominciava il fine settimana. Il fratello di Ahmed suonò il clacson per scacciare i pedoni dalla carreggiata e inveì contro l’automobilista davanti a loro, che a sua volta rispose, ma non accelerò. Dal finestrino, Karim gettò un’altra occhiata alle montagne della Giordania. Quando la Volvo si rimise in moto le vide scomparire dietro il bar di Reem.
Si sporse in avanti. «È successo qualcosa?» chiese. «Perché attacchiamo gli israeliani?»
«Perché occupano la nostra terra, uccidono i nostri padri e stuprano le nostre sorelle!» rispose gridando Ahmed, per superare il rombo del motore. Oramai si era messo in testa di cacciare gli israeliani dalla Palestina esattamente quella sera di marzo.
«Ma perché proprio oggi?» domandò ancora Karim. «È morto qualcuno?»
«Ma tu non sai proprio niente?» ringhiò il fratello di Ahmed. «Ieri sera sono stati a casa di Jamal. Volevano arrestarlo, perché aveva lanciato dei sassi o roba simile. Lui però non c’era. La piccola Layla si è messa a piangere per la paura. Non possiamo più tollerare certe cose!»
«È successo qualcosa a Layla?» chiese Karim preoccupato. Conosceva Jamal dalla scuola. Aveva un anno più di lui e abitava al campo profughi con i genitori e le tre sorelle, in un piccolo alloggio a un paio di strade di distanza da quello di Karim. Era da un bel po’ che Karim non lo vedeva. Né al campo, né a scuola e neppure nell’autofficina dello zio, dove lui si guadagnava qualche shekel lavando le macchine.
«Ma non mi hai sentito?» ribatté il fratello di Ahmed. «I soldati hanno messo paura a Layla! Sono piombati in camera sua nel cuore della notte, con le armi in pugno, perché cercavano Jamal! E se le avessero sparato per farla stare zitta?»
«Dobbiamo vendicarla» lo appoggiò Ahmed.
Karim non aveva mai sentito di soldati israeliani che sparavano a una bambina che strillava per farla tacere. In compenso conosceva tante altre storie in cui i soldati israeliani perquisivano le case dei palestinesi nel cuore della notte e arrestavano gente. Quasi sempre ragazzi e uomini giovani, con l’accusa di aver tirato sassi o di essere dei terroristi. In fin dei conti, per gli israeliani, ogni palestinese è un terrorista, pensò Karim stringendo nel pugno la fionda.
Finalmente arrivarono alla torre di guardia. Sorgeva proprio all’incrocio dove Manger Street sfociava su Hebron Road. Un tempo Hebron Road saliva direttamente fino al centro di Al-Quds, che gli israeliani chiamavano Yerushalayim e tutti gli altri Gerusalemme. Ma dopo la Seconda intifada, la rivolta palestinese contro gli israeliani, qualche anno prima della nascita di Karim, la strada era stata bloccata da un muro di cemento alto nove metri. Il muro proseguiva su entrambi i lati intorno al confine settentrionale di Betlemme, con il campo profughi di Aida da un lato e le propaggini orientali della città dall’altro. Nella direzione opposta Hebron Road passava accanto alla tomba di Rachele, la seconda moglie del patriarca biblico Giacobbe, che era venerata dagli ebrei. Da lì saliva serpeggiante fino alla Città Vecchia di Al-Quds. Karim non c’era mai stato. I palestinesi come lui non potevano entrare nella zona israeliana. Glielo impedivano i varchi di frontiera pattugliati dai soldati, il
muro e le torri di guardia che svettavano a intervalli di duecento metri per tutta la sua lunghezza.
Adesso si erano fermati davanti a una di quelle torri. Il cemento era coperto di graffiti, schizzi di bombe colorate e fori di pietre e pallottole. Si capiva che era stata oggetto della collera palestinese già parecchie volte.
«Scendete, io devo proseguire» annunciò il fratello di Ahmed, strappando Karim ai suoi pensieri.
«Non sei dei nostri?» chiese abbattuto Ahmed.
«No, ho da fare»
«Vuoi solo tornare da Fatma» sbuffò Ahmed che, dopo essere sceso, sbatté la portiera con tanto slancio da far ondeggiare la vecchia Volvo.
Anche Karim era sceso. Portò faticosamente le borse della spesa fin davanti al City Mart, dove non aveva mai il permesso di comprare nulla, benché vendesse ghiaccioli e tavolette di cioccolato. Troppo caro, diceva sua madre. Lasciò i sacchetti accanto al muretto di fronte al supermercato in modo che non si rovesciassero. Calcolò che lì, a una quarantina di metri dalla torre, i preziosi ortaggi sarebbero stati al sicuro da pietre e gas lacrimogeni.
«Karim, porta le munizioni!» gridò Ahmed.
Karim trasalì. Munizioni? Si accorse allora del mucchio di calcinacci davanti all’edificio che era sempre stato un cantiere da quando aveva memoria. Raccolse una bracciata di
frammenti e corse da Ahmed che si era appostato con qualche altro ragazzino dietro un muretto e ammucchiava sassi.
Karim rovesciò il suo carico di munizioni, strinse brevemente la mano di Mohammed, il più grande, e rivolse un cenno di saluto agli altri. Ce n’erano alcuni più piccoli di lui. Erano quelli che raccoglievano sassi con più entusiasmo di tutti, quasi a voler dimostrare che non era vero che non fossero abbastanza forti per tirare lontano o usare la fionda.
«Chi c’è all’angolo più avanti?» domandò Ahmed a Mohammed, che aveva sedici anni ed era il comandante in capo degli attacchi alla torre di guardia.
«Shahid e i suoi. Bloccheranno la strada per evitare che le macchine che sbucano dalla curva si prendano i nostri sassi» rispose Mohammed. In realtà anche Shahid si chiamava Mohammed, come molti figli nelle famiglie musulmane. Ma per non fare confusione i ragazzi lo chiamavano “Shahid”, in onore di suo fratello minore, Khalil, che era uno shahid, ovvero un martire. Tre anni prima era caduto dal tetto quando si era arrampicato per controllare i serbatoi d’acqua. L’acqua proveniva dall’acquedotto israeliano e la fornitura era stata interrotta per l’ennesima volta. Se gli israeliani avessero distribuito più acqua, Khalil non si sarebbe arrampicato sul tetto e non sarebbe precipitato di sotto. Invece era stato l’ennesima vittima dell’occupazione israeliana. All’epoca avevano coperto la sua bara con una grande bandiera palestinese,
le donne avevano pianto, gli uomini avevano sparato in aria e, dopo il funerale, i ragazzi avevano lanciato sassi contro la torre di guardia. E da allora Mohammed raccontava orgoglioso di essere il fratello di un martire. Per questo avevano iniziato a chiamarlo Shahid.
Una volta che la catasta di pietre raggiunse l’altezza dei fianchi dei ragazzini più piccoli, si fermarono tutti a guardarsi. Chi doveva lanciare per primo? «Oggi tocca ad Arif» stabilì Mohammed indicando il più piccolo del gruppo. Per una frazione di secondo il bambino parve spaventato, poi raddrizzò le spalle, annuì serio e afferrò una pietra. Lanciò un’ultima occhiata a Mohammed, quasi volesse assicurarsi di essere proprio lui il prescelto. Mohammed fece cenno di sì. Allora Arif, che aveva appena compiuto otto anni, partì di corsa su per la strada in salita. Karim, Ahmed e un altro Mohammed caricarono le fionde, gli altri si armarono di sassi e rimasero in attesa. Il tempo parve dilatarsi mentre Arif correva verso la torre con le sue gambette, rallentava come se gli mancasse il fiato, quindi accelerava di nuovo, finché fu abbastanza vicino da lanciare la pietra contro la struttura di cemento.
Due giovani donne si erano fermate sull’altro lato della strada. Avevano occhiali da sole e zaini. Agahanib, straniere: forse erano turiste, che se la sarebbero data a gambe, spaventate e pronte a rifugiarsi nel loro hotel, oppure operatrici di qualche organizzazione per i diritti umani che avrebbero
tirato fuori le macchine fotografiche dallo zaino per documentare la lotta per la libertà degli shabaab, i giovani palestinesi. Un’ultima automobile superò la curva e passò tra i ragazzi con i sassi e le due donne, che in effetti tenevano in mano gli smartphone. Adesso gli shabaab dovevano aver bloccato il traffico su Manger Street. Gli automobilisti avrebbero dovuto scegliere un altro tragitto, passando un po’ più a sud, su Moradeh Street. Dopotutto lassù non c’era altro che il muro, la torre e un benzinaio.
Il sasso di Arif rimbalzò sul cemento della torre. Subito dopo il lancio, Arif si voltò e tornò indietro a tutta velocità. Questo fu il segnale di attacco per gli altri. Avanzarono anche da Manger Street, i sassi lanciati dalle fionde dei più grandi sibilarono in aria fino alle finestre della torre. Quando uscì allo scoperto insieme ad Ahmed e Mohammed, Karim sentì stridere i freni delle macchine dietro di lui. Risalì di corsa la strada, fino a trovarsi alla distanza giusta, si piazzò a gambe larghe per avere più stabilità, sistemò la pietra nell’alloggiamento di cuoio, strinse in mano le due estremità dello spesso cordone e cominciò a roteare la fionda vicino al corpo. Poi, al momento giusto, lasciò andare uno dei lacci e la pietra fu scagliata verso il bersaglio.
CRAC!
Il sasso urtò il cemento e si frantumò, senza causare nemmeno una scalfittura. Karim gettò una breve occhiata alle fi-
nestre più basse che si aprivano lungo la circonferenza della torre, a una decina di metri da terra, dandole l’aspetto di un feroce robot che guardava con disprezzo quei piccoli guerrieri e le loro ridicole armi. Dietro i vetri oscurati erano appostati soldati israeliani con l’uniforme color cachi e un binocolo davanti agli occhi, grazie al quale osservavano la zona palestinese, ficcanasavano dentro i loro quartieri e le loro case restando invisibili. Tranne quando spuntavano all’improvviso di notte nelle loro camere. Karim sentì la rabbia ribollirgli dentro. Come sempre, quando pensava a queste ingiustizie. E a quanto potessero essere pericolosi quei soldati.
A volte ignoravano gli shabaab che si sfogavano sulla loro torre. Ma altre volte aprivano le finestre, scattavano foto ai ragazzi là sotto e qualche tempo dopo, durante l’ennesimo controllo in uno dei tanti checkpoint, ne arrestavano uno che avevano fotografato mentre tirava sassi, lo interrogavano oppure lo tenevano rinchiuso per qualche giorno. Chi voleva evitare questo rischio si legava un panno intorno al viso. Karim non ce l’aveva. Per questo rimase in disparte, abbastanza lontano perché la sua faccia non risultasse a fuoco nelle inquadrature. Abbastanza vicino per lanciare i sassi contro la torre. Caricò di nuovo la fionda, afferrò i lacci, la fece sibilare e notò con una certa soddisfazione che le due straniere sull’altro lato della strada avevano rivolto gli smartphone verso di lui.
Tutt’a un tratto si udì uno schiocco dagli altoparlanti sopra di loro. E poi il grido «Allaaaaahu akbar» – Dio è grande – risuonò prima dalla moschea di Salah ad-Din nel piccolo insediamento di Al-Azzeh, a sud del loro campo di battaglia, e poi anche dalla moschea di Abu Bakr-As-Siddiq nel campo profughi di Aida. Era l’ora dell’adhan, il richiamo per la preghiera della sera. Solo in quel momento Karim si rese conto che si era fatto buio. E sua madre aspettava la spesa!
Senza degnare di un’occhiata gli altri shabaab, attraversò la strada fino ai sacchetti da cui spuntava un cetriolo. Più oltre, vide una macchina della polizia palestinese fare capolino all’incrocio di Bab El-Zakak. Con le luci blu accese, senza sirena. Tra poco avrebbe accostato al ciglio della strada, i poliziotti sarebbero scesi e avrebbero disperso gli shabaab. Tutto come di consueto.
Alle spalle di Karim risuonò il tonfo di un’altra pietra contro il cemento e la voce di Ahmed che gridava: «Prendete questo, israeliani di merda!» Karim recuperò i sacchetti e si avviò di corsa verso casa.
ANJA REUMSCHÜSSEL
(1983) è una giornalista tedesca. Scrive per varie testate, tra cui “GEO”, “National Geographic” e “Stern”. Ha vissuto per due anni in Israele e in Cisgiordania e qui ha ambientato il suo primo romanzo, Sotto lo stesso cielo , candidato al Deutscher Jugendliteraturpreis.
In copertina
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Art director: Francesca Leoneschi
Graphic designer: Pietro Piscitelli / theWorldofDOT
Primavera 1948. Tessa, sopravvissuta alla Shoah, arriva a Gerusalemme in cerca di un posto da chiamare di nuovo casa. Mo, arabo palestinese, assiste alla nascita dello Stato di Israele e alla fine del mondo che ha sempre conosciuto. L'incontro tra i due ragazzi e i sentimenti che provano l’uno per l’altra aprono a entrambi una nuova prospettiva, mentre tutto intorno a loro gli eventi si susseguono incontrollabili.
Primavera 2023. Anat e Karim, lei arruolata nell'esercito israeliano, lui giovanissimo combattente per i diritti del popolo palestinese, si odiano ancora prima di incontrarsi, ma a loro insaputa sono legati a doppio filo dal comune passato delle loro famiglie.
Un romanzo che attraversa la tormentata storia della Palestina e di Israele e racconta l’aspirazione alla libertà e alla felicità di chi da quasi un secolo vive un conflitto che sembra non avere una fine possibile.
«Voglio vivere in un paese dove non importa a nessuno da dove vieni e chi ami. Voglio uscire da questa grande prigione. Non voglio vivere nella paura».