OVVIAMENTE A INSAPUTA DEL CORRENTISTA - Giuseppe Mariuz, Tita Scodeller

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Giuseppe Mariuz (Valvasone 1946) è autore di numerosi libri di storia contemporanea, di comunicazione, di poesie. Tra le sue opere: “La meglio gioventù di Pasolini” (1993), “Luogo assoluto dell’universo” (1995), un film documentario coprodotto della Rai su P.P. Pasolini (1998), il video “I giorni del Lodo De Gasperi” (1998), la biografia “Pantera il ribelle” (1991) da cui è stato tratto uno sceneggiato radiofonico (2010). Gio Battista Scodeller (San Vito al Tagliamento 1938), già sindacalista della Federazione italiana bancari e membro del Collegio nazionale dei sindaci Fiba-Cisl, è assessore alle politiche sociali del comune di S. Vito e autore del libro Vidi mio padre cadere (Gaspari 2009). In copertina: disegno di Altan

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Giuseppe Mariuz - Tita Scodeller

OVVIAMENTE A INSAPUTA DEL CORRENTISTA BANCHE E BANCARI D’ALTRI TEMPI

OVVIAMENTE A INSAPUTA DEL CORRENTISTA

Giuseppe Mariuz - Tita Scodeller

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GASPARI

GASPARI


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A cura dell’Associazione Italo Michieli, via Maggiore, 20 San Vito al Tagliamento Con il patrocinio, il contributo e la collaborazione di:

Provincia di Pordenone

CONVENZIONI ASSICURATIVE FIBA CISL FRIULI V.G. www.golinucci.it

Copyright © 2010 Gaspari editore via Vittorio Veneto 49 - 33100 Udine tel. (39) 0432 512 567 tel/fax (39) 0432 505 907 www.gasparieditore.it e-mail: info@gasparieditore.it

ISBN 88-7541-225-1


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OVVIAMENTE A INSAPUTA DEL CORRENTISTA Banche e bancari d’altri tempi


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Ringraziamenti

Dall’inizio della nostra ricerca, che risale ad alcuni anni fa, è quasi impossibile ringraziare tutti coloro che ci hanno aiutato, ma a una persona in particolare desideriamo manifestare la nostra riconoscenza: al dott. Giuseppe Ponchi per la sua preziosa collaborazione. Ringraziamo tutti gli amici che ci hanno raccontato il loro vissuto e che ci hanno fornito le prove documentali: Gianfranco Baracetti, Mario Carlini, Marco Casolo, Mario Colonnello, Marco Confetta, Pietro Falcon, Gigi Giacomin, Mosè Grigolon, Giovanni Lessio, Enzo Liberali, Antonio Manfroi, Pierangelo Mazzarella, Silvano Paschetto, Mauro Rango, Antonio Scardaccio, Mario Susanna, Renato Toffoli, Renzo Tonizzo e Francesco Vendrame. Ringraziamo inoltre il dott. Mario Riberti per l’intervista che ci ha concesso il 27 ottobre 1992. Un particolare ricordo per i preziosi testimoni che oggi non ci sono più: Silvio Bombardella, Gianni De Mori, Maggiorino Ratti e Leandro Urbani.

Gli autori Giuseppe Mariuz giu.mariuz@alice.it

Tita Scodeller giobattista.scodeller@virgilio.it


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Indice

Prefazione Lavoro e diritti Dalle gabbie salariali allo Statuto dei lavoratori La Banca Cattolica del Veneto Le traversie del bancario Ratti La Banca Cooperativa Operaia di Torre “Non voglio sindacati nella mia banca” “Prendi il ladro di ciliegie” Il motorino della Banca Operaia La Banca Popolare di Pordenone Pordenone, laboratorio di storia sindacale e luogo di affetti Il “domestico” del direttore Il vantaggio di assumere figli di clienti Una “partita di giro” costata cara Lavorare col busto ingessato “Entro i limiti di serietà” La sentenza di assoluzione Il guardiano notturno rinchiuso “Ovviamente ad insaputa del cliente” La rapina alla filiale di Valvasone Un incontro sindacale con il dott. Riberti Presentarsi al lavoro in camicia e cravatta Il tempo e le mele La sfortuna di essere mancini La calda estate del 1972 Quanto vale una cravatta Sconosciute le donne nelle banche private Non voglio donne nella mia banca L’organico femminile alla Banca Cattolica del Veneto Il consiglio comunale di Pordenone del 10 novembre 1980 Ho visto cose che voi umani … Nella mia vigna faccio ciò che voglio Una cravatta con l’elastico La gratificazione differenziata

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“Io ho le spalle larghe” Le note caratteristiche “Laviamo i panni sporchi a casa nostra” “Non siamo metalmeccanici” Azioni di lavoro Il confino “È questa l’educazione che insegnano i sindacati?” Un trasferimento in tempo reale Mi spezzo ma non mi piego Le obbligazioni non rimborsate La giacca grigio chiara al Credito Italiano Le agende della “Popolare” L’incarico a “direttore di filiale” Il fucile del partigiano L’arrivo degli “azzurrini” Il bocchino di madreperla Arrivano i nuovi manager alla “Popolare” “Dica di levare le mani di tasca” La casa di sassi Circolavano banconote false Una rissa nella filiale di Rivignano La Banca di Spilimbergo A. Tamai & C. Licenziamento “per riduzione di personale femminile” La sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro A parità di lavoro la stessa paga Denuncia preceduta da vin brulé Una banca di paese Gli sportelli aperti di domenica Il bracconaggio Lo yacht del direttore La ragazza del direttore Il certificato medico Le rapine e le diversità di “trattamento” La rapina con raggiro Rapine: la banca adotta il “fai da te” Viaggio senza ritorno Il direttore sceriffo “Qui dentro non ci sto” Ispettorato del lavoro. “Licenziamento illegittimo” “Osservatori praticanti”

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Alla Cassa Rurale e Artigiana di Valvasone Una bomba a mano nella Vespa Una voragine di crediti inesigibili La chiusura della banca per dissesto La cambiale per una stecca di sigarette Il caffÊ del direttore Il cassiere in calzoncini corti e zoccoli di legno Un fuggi fuggi per il terremoto Il cane del direttore Il timore Impiegati tristi e demotivati Dare poco a molti I marchi tedeschi del parrocchiano A turno, l’uso della calcolatrice La gallina padovana Una colletta per la cambiale del Parroco Le cambiali galleggianti Le bottiglie di barolo Note Conclusioni

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Prefazione

Le cronache di Giuseppe Mariuz e Tita Scodeller ci riportano ad una Banca ancestrale, ad un modello di impresa e di relazioni sociali che dominò i lunghi oscuri decenni compresi tra la fine del secondo conflitto mondiale e la grande stagione di conquiste sindacali e civili della fine anni ’60 e della prima metà anni ’70. La ricostruzione di quel clima sociale, affidata alla puntigliosa sfilata di testimonianze emblematiche, rappresenta un contributo prezioso ad un’archeologia del lavoro bancario. Riporta alla luce un mondo antico, sepolto sotto la polvere di una cultura decrepita, sconosciuto alle generazioni entrate in banca negli ultimi trent’anni. Il mondo autoritario e paternalistico della sacralità della banca; del direttore di filiale che, insieme al parroco e al brigadiere completava la triade delle “autorità” riconosciute nella provincia italiana; delle rigide gerarchie tipiche del modello paramilitare del fordismo e della sua consolidata dogmatica articolata in norme – procedure – controlli – sanzioni; degli inquadramenti del personale mutuati dall’esperienza della vita militare che identificavano la professionalità con il numero di subordinati sottoposti al comando del superiore gerarchico e distinguevano nei contratti collettivi nazionali, a parità di inquadramento, la retribuzione dei maschi (superiore) e delle donne (inferiore), non essendo le donne “per natura” vocate a compiti di comando. Una vera e propria antropologia bancaria restituita in forma diretta, attraverso la quotidianità di quei lavoratori, senza mediazioni interpretative. Solo in quel contesto sociale e culturale, saturo di ancestralità e di tribalità, ormai a sua insaputa, prossimo al capolinea storico, potevano trovare posto le vicende raccontate da Giuseppe Mariuz e Tita Scodeller con il puntiglio di storici delle “annales” (esilarante quella dell’impiegato …… costretto ad una lunga assenza in seguito ad un incidente stradale, al quale il direttore di filiale impone di sbrigare quotidianamente la contabilità da casa, su una scrivania costruita dal padre falegname che gli consentiva di lavorare dal letto). Le cronache di un segmento di storia sociale italiana raccolte in questo libro sono, a un tempo, un’archeologia della liberazione. Mettono in scena, infatti, con straordinaria efficacia, il conflitto tra l’autoritarismo gerarchico ed ottuso dei ruoli di comando, da un lato, la coscienza via via più piena della dignità della persona, dei diritti del lavoro e la determinazione collettiva a conquistarli sul campo, dall’altro.


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Fu la rivolta di quella generazione di giovani, di lavoratrici, di lavoratori, di sindacalisti, di studenti, di intellettuali a segnare un rottura nella continuità della storia. Un punto di non ritorno irriducibile, nel nome dei valori di eguaglianza, di giustizia sociale, di solidarietà, di libertà, di dignità della persona. Furono lo slancio, il coraggio, la passione, la lungimiranza di quella generazione ad aprire, d’impeto, alla nostra categoria ed al mondo del lavoro dipendente nel suo insieme, l’orizzonte della modernità delle tutele dei diritti, della rappresentanza della contrattazione della partecipazione sindacale che, ancor oggi, nella turbolenza del nostro tempo, rappresentano un solido baluardo. Per queste ragioni siamo grati a quelle figure generose e solidali, scolpite nella nostra memoria come tipologie simboliche, che il racconto di Giuseppe Mariuz e Tita Scodeller riporta sulla scena da un passato glorioso, di attualità intatta nei valori che ne ispirano le gesta! Giuseppe Gallo Segretario Nazionale della Fiba/Cisl Roma, dicembre 2010


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Lavoro e diritti In questa pubblicazione noi cercheremo di esporre la condizione dei lavoratori e in particolare dei bancari, dall’ultimo dopoguerra sino agli anni recenti, soffermandoci sullo sforzo compiuto dalle organizzazioni sindacali - e dalla Cisl in primis - per dare loro dignità oltre che miglioramenti di carattere economico. Sarà anche l’occasione per scoprire, attraverso vicende serie, ma spesso non prive di aspetti singolari e paradossali, un radicale mutamento nei rapporti di lavoro e negli stessi costumi della società. Il nostro osservatorio copre in particolare l’Italia del Nordest, anche se spesso si amplia all’intero Paese e a volte si estende su scala ancor più ampia, dato che i movimenti finanziari e le situazioni societarie sono venute assumendo caratteri sempre più globalizzati. Negli anni del dopoguerra i lavoratori uscivano a fatica da condizioni di subalternità. Il loro livello di istruzione era fra i più bassi d’Europa e molti a malapena sapevano leggere e scrivere. La disoccupazione era elevata e, in mancanza di che sfamarsi, sia nelle campagne che nelle fabbriche, molti erano dovuti emigrare. Per chi rimaneva e riusciva a trovare una occupazione, le ingiustizie sui posti di lavoro erano la regola. Negli anni Sessanta, sulla scia delle aperture del papato giovanneo, nuovi fermenti avevano coinvolto il mondo cattolico, con una dedizione verso gli “ultimi”. Ricordiamo il frate servita friulano David Maria Turoldo, il sacerdote dei baraccati romani don Gérard Lutte, molti “preti operai” che avevano deciso di compiere la loro azione pastorale nei luoghi di lavoro e soprattutto don Lorenzo Milani e la sua Scuola di Barbiana. La testimonianza e gli scritti di don Lorenzo Milani hanno costituito un solido punto di riferimento per intere generazioni. Con un ragionamento semplice, alla luce dell’ispirazione evangelica, egli constatava la divisione della società in classi, fra oppressi e diseredati da un lato, oppressori e privilegiati dall’altro. Don Milani attribuiva ai Sindacati – “le uniche Organizzazioni che applicano su vasta scala le tecniche non violente” –, un ruolo rilevante come forza di cambiamento. Il voto e lo sciopero, diceva don Milani, sono le due leve più efficaci per riscattare gli umili e trasformare la società: “Lo sciopero non è una spallata per creare una situazione rivoluzionaria, ma un momento per stabilire una legalità aziendale e dare dignità alla persona umana”. In quegli anni Sessanta, alla FIAT di Torino i “reparti confino”, i sistemati-


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ci licenziamenti dei sindacalisti più in vista, le rappresaglie sindacali e i “premi” antisciopero (che venivano pagati ogni sei mesi) erano la regola. Anche in ampi settori della Chiesa si avvertiva che il regime instaurato nelle fabbriche costituiva un attentato alla dignità umana del lavoratore. Ad esempio, il Vescovo di Vittorio Veneto, Albino Luciani, poi diventato Papa, ha dato un contributo notevole alla nascita della Fiba-Cisl nel Veneto. Sempre in quel periodo, la visione miope degli imprenditori alimentava rabbiose impazienze anche negli ambiti cattolici del movimento sindacale. In precedenza lo sciopero veniva guardato con sospetto da questi settori; si temeva che ogni lotta sindacale potesse offrire spazi per manovre politiche; c’era la paura ossessiva che scioperando si facesse il gioco dei comunisti. I primi teorici della Cisl, nell’immediato dopoguerra, avevano addirittura avanzato l’ipotesi che le grandi lotte di massa fossero retaggio di Paesi arretrati e che i conflitti sociali si sarebbero attenuati man mano che si fosse proceduti sulla strada dello sviluppo economico. Tali teorie vennero smentite dai fatti. Il cosiddetto “miracolo economico” di quegli anni era ben lontano dal trasformarsi in miracolo sociale. Rievocando il periodo di quegli scioperi, Pierre Carniti disse che si stava nel Sindacato come in trincea. Gli scontri erano quotidiani. Il 27 dicembre 1960, dopo quattro mesi di vivaci lotte, con la solidarietà della Curia milanese, gli elettromeccanici della “Franco Tosi” erano riusciti a concludere l’accordo sul contratto nazionale. Si apriva così, per la prima volta, il principio della “contrattazione articolata” che significava il riconoscimento della politica contrattuale della Cisl che da anni sosteneva la necessità di decentrare la contrattazione, di stipulare oltre che i contratti nazionali anche quelli aziendali. I metalmeccanici milanesi, con in testa la Fim (metalmeccanici) di Carniti, facevano da battistrada al movimento sindacale. Nel 1963, per convincere gli industriali a sottoscrivere l’accordo, i lavoratori avevano dovuto lottare per 9 mesi e attuare 40 ore di sciopero. Pietro Ottone sul Corriere della Sera osservò con sorpresa in quell’occasione che la funzione di punta veniva svolta dalla Fim. “Gli altri Sindacati, socialisti e comunisti di solito i primi sulle barricate – scrisse - questa volta subiscono l’iniziativa della Cisl”. Fu un grosso successo: i benefici salariali si aggirarono attorno al 32% e si riuscì a codificare il diritto alla contrattazione articolata, in via definitiva.Tale risultato scatenò la controffensiva delle aziende che si rifiutarono di applicare il contratto nazionale e la contrattazione aziendale che, nella concezione della Cisl, doveva rappresentare lo strumento principale per instaurare la “legalità” sui posti di lavoro e assicurare il corretto sviluppo dei rapporti sin-


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dacali e il collegamento fra salari e produttività. Il comportamento degli industriali di non applicare il contratto ed erogare il premio di produzione fu definito da Carniti “un’azione di autentica pirateria”. La vertenza si sbloccò quando sei operai della Fim decisero di effettuare lo sciopero della fame. Lo sciopero cessò a intesa raggiunta con la mediazione del Sindaco di Brescia, Boni. La stagione dei bassi salari era ormai chiusa e si doveva fronteggiare la concorrenza internazionale con l’ammodernamento tecnologico.

Dalle gabbie salariali allo Statuto dei Lavoratori Un accordo interconfederale, intervenuto subito dopo l’ultima guerra, prevedeva paghe diverse a seconda dell’area geografica di appartenenza del lavoratore, arrivando a differenze salariali del 30%. Nel 1969, dopo numerosi scioperi, con la mediazione del Ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, si raggiunse l’accordo sull’abolizione delle “gabbie salariali”. I lavoratori della provincia di Pordenone e di altre aree del Nordest ne trassero vantaggio in quanto precedentemente erano collocati nella fascia salariale più bassa. La stagione che seguì fu definita in tutta Italia “autunno caldo”, in quanto si caratterizzò per i massicci scioperi a sostegno della richiesta salariale egualitaria. Le lotte sindacali furono relativamente brevi (la partita si chiuse in tre mesi), ma di una intensità senza precedenti. Mai nella storia sindacale del dopoguerra s’era registrata una così diffusa mobilitazione. La pressione operaia trovò un valido punto di riferimento nella mediazione, non neutrale, ma di sostegno ai sindacati, del Governo di centro sinistra che, collegandosi al movimento di massa di quel periodo, visse la sua stagione più avanzata. Tutti gli obiettivi furono realizzati: le 40 ore settimanali, l’aumento salariale uguale per tutti di 13.500 lire (rispetto a una richiesta di 15.000). Il trattamento degli operai, in caso di malattia, fu parificato a quello degli impiegati. Nel maggio del 1970 fu approvata la legge 300, cosiddetta “Statuto dei Lavoratori”. All’inizio la Cisl si era dichiarata contraria a questa legge in quanto fin dalle origini questo Sindacato, in omaggio alla sua visione autonoma e privata della contrattazione, aveva fermamente respinto qualunque interferenza legislativa in materia sindacale. Secondo questa visione, il Sindacato doveva conquistarsi il potere con la sua forza contrattuale; non gli poteva cadere dall’alto, per legge. Tuttavia, la Cisl di Carniti si convinse che i “reparti confino”, i licenziamenti di rappresaglia, le


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limitazioni al libero svolgersi delle libertà sindacali, erano stati possibili anche perché le libertà costituzionali s’erano arrestate davanti ai cancelli delle fabbriche. Perciò convenne che lo Statuto dei Lavoratori doveva essere approvato. Con questa legge si chiudeva nell’industria italiana l’era del potere assoluto dell’impresa. In particolare, la “giusta causa” impediva il licenziamento arbitrario in tutte le aziende di medie e grandi dimensioni. All’inizio degli anni ’70, le banche che operavano in regime di monopolio, senza le regole della concorrenza, non volevano adeguarsi al nuovo. In particolare, alcune banche pordenonesi che costituivano il fiore all’occhiello della reazione e su cui ci soffermeremo nei successivi capitoli, negavano ai propri dipendenti le libertà fondamentali della persona. Se i dipendenti delle banche si iscrivevano a un Sindacato confederale, venivano emarginati, vessati o trasferiti. Le direzioni esigevano che i propri impiegati fossero servili, subalterni alle disposizioni aziendali, arrivando a comandare loro di eseguire operazioni vietate dalla legge. Alle donne era di fatto impedito di accedere ai lavori di banca e quelle poche assunte venivano impiegate ai centralini telefonici o ai centri contabili. Era inoltre mal tollerato l’impegno dei lavoratori nei partiti politici o negli incarichi pubblici. A partire dal 1992, le banche italiane che nel frattempo si erano modernizzate con l’introduzione di nuove tecnologie e procedure per l’estendersi dei servizi bancari, si trovarono a operare nel contesto europeo, non più protetto ma competitivo. Come logica conseguenza il bancario, per fronteggiare il mercato e la concorrenza, doveva essere motivato e possedere un’elevata professionalità. Per gestire questo tipo di lavoratore, le banche più importanti su scala nazionale sono state le prime ad aver compreso l’esigenza di stabilire corrette relazioni sindacali.


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La Banca Cattolica del Veneto Dopo la prima guerra mondiale e fino al 1929 le Banche Cattoliche in Italia stavano attraversando momenti difficili: navigavano in un mare di fallimenti e dissesti, soprattutto quelle che avevano intrapreso attività speculative. Un crollo delle Banche Cattoliche avrebbe avuto gravi ripercussioni politiche in quel mondo, prevalentemente rurale di risparmiatori, il cui consenso era particolarmente ricercato dal regime. Tuttavia, la Banca d’Italia suggerì al Governo di “provvedere al risanamento di una sola parte delle Banche Cattoliche, lasciando che cadessero quelle più dissestate”. Il Governo Mussolini, con il decreto dell’11 agosto 1930, autorizzò la Banca Cattolica Vicentina a incorporare i seguenti istituti di credito in dissesto: - il Credito Veneto; - la Banca Cattolica Atestina; - la Banca Cattolica di Udine; - la Banca Cadorina; - la Provinciale di Belluno; - la Banca Feltrina; - il Credito Palesano; - la Banca della Venezia Giulia e la Banca Popolare di Capodistria. Con tali incorporazioni la Cattolica Vicentina assume la denominazione di: Banca Cattolica del Veneto Spa - Direzione Generale di Vicenza. Con il concordato di salvataggio, previsto dal Decreto governativo suaccennato, i depositanti del Credito Veneto vengono indennizzati solo parzialmente: il 25% in contanti e il 15% in azioni della Banca Cattolica del Veneto. Dalla “Relazione del direttore generale, Secondo Piovesan, nell’adunanza del Comitato direttivo della Banca Cattolica del Veneto (11 giugno 1934)”, riportiamo:

«Vorrei precisare, anzitutto, che dal 1 gennaio 1933 si è provveduto alla riduzione del personale, e fin dove è stato possibile, alla riduzione degli emolumenti goduti dai medesimi. Durante il 1933 vennero licenziati n. 56 tra impiegati e funzionari; riassunti o nominati ex novo n. 18. Differenza di n. 38 unità con un economia annua di lire 407.500.


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Al 30 aprile 1934 le percentuali di costo dei Depositi, in rapporto agli stipendi (esclusi i Depositi in titoli) complessivamente per tutte le Sedi risulta dell’1,75%. Ecco il dettaglio delle più importanti: - Sede di Vicenza percentuale 1.13%; - Sede di Udine percentuale 1.50%; - Sede di Treviso percentuale 2.13% - Sede di Pordenone percentuale 4.28% (Sede di nuova formazione). […] non posso ammettere che si leghi, come cosa assoluta la questione dell’assetto del bilancio con l’economia nelle spese del personale. La nostra Banca si trova tutt’ora in una particolare situazione per le vicende e per le emergenze che tutti conosciamo. L’aver resistito, dopo tante bufere e tante difficoltà, è gia prova di saldezza ed è di buon auspicio per l’avvenire. Non abbiamo ancora, però, nelle mani, le armi indispensabili per controbattere la concorrenza ed i focolai di sfiducia e lo stato di perplessità che qua e là ancora affiorano. Tutt’altro. La Banca è sulla difensiva. Deve difendersi e deve giustificarsi. E quando un Istituto, che ha bisogno della fiducia del pubblico e che su questa fiducia deve poggiare per poter vivere e camminare, è costretto a coprire le proprie batterie anziché levarle alla luce del sole, tutti dovremmo convenire che questo Istituto ha bisogno di un nerbo di soldati di provata fede, saldi e ben disciplinati. Pensiamo: che cosa offre al pubblico, e particolarmente al clero, la Banca Cattolica del Veneto per ottenerne il favore? Elementi per lo più negativi. Infatti: tassi sugli investimenti quasi sempre superiori alla concorrenza; nessun dividendo alle azioni; restrizione nella beneficenza; la raccolta delle azioni serie B a prezzi notevolmente inferiori al valore nominale, da cui le ire di moltissimi che ritengono la Banca Cattolica del Veneto una continuazione degli Istituti concordatari; restrizione nella rèclame e nella pubblicità; dibattiti nei Tribunali di cause dove ballano milioni e dove sono riesumate vicende e situazioni tristi del passato. Io non nego nulla al merito di chi ha voluto un istituto regionale come il nostro, obbedendo a ragioni economiche e politiche, e di chi lo protegge con autorità e con interrotta cura. Non nego che molto giova in talune zone, il prestigio del nome di coloro che lo amministrano, ma non posso tacere che se in momenti come questi, con i tassi di cartello comuni a tutte le Banche, il nostro Istituto conta L. 262 milioni di Depositi (contanti e titoli) e, ad onta di tutte le sensazioni non favorevoli offerte al pubblico, il termometro dei Depositi del 1° semestre corr. anno segna pressoché una posizione di stabilità mentre nello stesso periodo del 1933 avevamo una diminuzione di L. 15 milioni di contanti e L. 1.500.000 di titoli, il merito primo indiscutibile ed inoppugnabile spetta al piccolo esercito di funzionari ed agenti inquadrato e disciplinato, che ha tenuto alto onore alla bandiera, che si è battuto e si batte con fervorosa passio-


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ne, offrendo a sé scudo di ogni incertezza, di ogni riserva e di ogni malignità. Perché, signori amministratori, il nostro Istituto è formato in gran parte di modeste agenzie sparse nel Veneto (ed è questa la sua caratteristica inconfondibile), ed in ciascuna di esse c’è un esponente che assume la morale responsabilità delle simpatie e della fiducia dei depositanti. Battere in pieno queste benemerite schiere di collaboratori federali con provvedimenti draconiani, che rattristerebbero i colpiti e i non colpiti, e finirebbero per disanimare i superstiti e per aggiungere un pericoloso alone di malcontento dentro e fuori, non è cosa ammissibile. Fu detto da qualcuno che il personale, tali provvedimenti li attende, sembra quasi sia lì a rimproverare gli organi centrali perché non si decide ad attuarli. Signori, questo sa di tremenda ironia! E io che vivo in mezzo al personale, che ne interpreto i sentimenti e il cuore, so invece che, nella stragrande maggioranza, esso lavora con fiducia e con raddoppiata lena per rendere più della modesta mercede che riceve, consapevole delle necessità dei tempi, e che l’eventuale provvedimento di liquidazione gli tornerebbe come una grande iattura perché fuori dalla Banca, dopo anni e anni di onesta attività spesa nel suo seno, difficilmente troverebbe il pane per sé e per i cari di famiglia. Ripeto per l’ennesima volta, perché non ci siano equivoci: io sono d’accordo nel programma di riduzione del personale, fatto a gradi, con prudenza e con il tatto necessari. Rifiuto di associarmi a provvedimenti estensivi e immediati che turberebbero, a mio avviso, la compagine impiegatizia, creando una grave incognita all’andamento dell’Istituto. E vengo alla mia posizione personale. Ho definito la massa dei funzionari e impiegati: un piccolo esercito disciplinato e inquadrato. Come in tutti gli eserciti, specie in tempo di guerra, c’è bisogno di un capo che possa esercitare piena e indiscussa autorità, al cui criterio inappellabile sia deferito ogni potere di gerarchia e di coordinamento. Incrinare questo potere, vuol dire compromettere l’unità del comando e permettere deviazioni e sconfinamenti che porterebbero indubbiamente a un principio di disordine e anarchia. La scelta del personale, la sua utilizzazione, le promozioni e i castighi tutto deve dipendere dal Direttore Generale. È, questa, l’unica funzione nella quale l’Amm. non deve intervenire se non per controllarne le linee generali. Se l’indirizzo, se l’impostazione, se i metodi del Direttore Gen. contrastano con lo spirito e i criteri dell’Amm. non c’è che una sola strada: sostituirlo. Non importa, quel che vale è il maggior bene della causa, è la sorte di tante famiglie che vivono all’ombra dell’Istituto, è la difesa dei depositanti. Io non defletto della mia linea. Prego i signori Amministratori di prenderne atto e di stabilire il da farsi senza riguardo alla mia persona che è cosa trascurabile di fronte ai formidabili interessi che investono il problema in questione. F. to Secondo Piovesan».


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La circolare del saluto romano

Le traversie del bancario Ratti Ricorda Giovanni Maggiorino Ratti, classe 1902, di Pescincanna (Pordenone), in un’intervista rilasciata agli autori in data 24 novembre 1995: «Fui assunto dal Credito Veneto, filiale di Pordenone, nel 1925 e dopo il dissesto della Banca avvenuto nel 1929, per sbarcare il lunario, svolsi lavori in precario assumendo anche l’incarico di segretario della latteria di Pescincanna.


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In questo periodo accadono due episodi che meritano di essere raccontati: il primo riguarda un esame per “ufficiale esattoriale” che si tenne a Udine nel 1934; io vi partecipai, assieme a un compaesano, certo Moro. La commissione d’esame nel valutare la documentazione dei candidati s’accorse che Moro non era iscritto al Partito di regime e pertanto venne invitato ad andarsene, mentre a me che ero iscritto venne consentito di effettuare la prova. Superato l’esame mi presentai dal direttore dell’Esattoria di Pordenone, il quale mi pose delle condizioni: per alcuni mesi non era previsto alcun compenso e poi non c’era la certezza dell’assunzione. Ovviamente non accettai». L’altro episodio è legato al clima euforico di quel momento politico: siamo nel 1935 e il regime ordina di scrivere a grandi lettere sui muri delle case frasi a effetto propagandistico. A Pescincanna, Ratti viene incaricato di scrivere su un muro di una casa a lato della Chiesa parrocchiale: “Mediterraneo mare nostro”. Ratti osserva: «Ho scritto quella frase sull’onda emotiva del momento, ma aveva un significato distorto in quanto gli abitanti di Pescincanna, non solo non conoscevamo il mare Mediterraneo, ma non avevano neppure visto il mare Adriatico a Caorle».

La casa di Pescincanna (Pordenone) con la scritta di Ratti.


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Nel 1942, il Governo Mussolini ordina ai possessori di azioni al portatore di trasformarle in azioni nominative. Ratti, che possiede alcune di queste azioni, ricevute quale indennizzo a seguito del crac del Credito Veneto, si presenta agli sportelli della Banca Cattolica del Veneto di Pordenone, per effettuare l’operazione richiesta dal decreto governativo. In tale occasione incontra il direttore della Banca Cattolica del Veneto, Montini, il quale, venuto a conoscenza che il nostro Maggiorino aveva lavorato al Credito Veneto, gli propone di assumerlo. Accetta subito il lavoro e manifesta l’intenzione di lasciare l’incarico di Segretario della latteria di Pescincanna; il direttore Montini lo sconsiglia, anzi lo incarica, per il futuro, di portargli i prodotti caseari, considerato che il direttore stesso ha una famiglia numerosa e che, essendo tempo di guerra, i prodotti alimentari scarseggiano. Così Ratti, dovendo fare il percorso da Pescincanna a Pordenone per recarsi al lavoro, porterà giornalmente in bicicletta il latte al direttore e, saltuariamente, anche gli altri prodotti del Caseificio. Dopo un periodo di lavoro presso la sede di Pordenone viene assegnato alla filiale di Zoppola. Nelle filiali la banca esigeva che il contante in cassa non superasse il massimale previsto dall’assicurazione per non esporlo alle rapine. Pertanto Ratti doveva recarsi, quasi giornalmente, alla sede di Pordenone per effettuare il trasporto del contante. Un giorno, sul ponte Meduna, in bicicletta, gli scivola la borsa che teneva sul manubrio sotto la giacca. Quando si accorge è troppo tardi: trova la borsa e i documenti, ma non il contante. La Banca sa che Ratti è un dipendente onesto e affidato: non lo licenzia, ma si fa rilasciare una cambiale per saldare il debito. Così lavorerà gratis per un lungo periodo di tempo.

La cambiale di Ratti di 200.000 lire nel 1948.


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Prefazione di Alberto Monticone, con un saggio di Paolo Gaspari ISBN 88-86338-85-6; pp.160, 80 foto, ? 12,00

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Aurelio Baruzzi QUEL GIORNO A GORIZIA vol. II. Sull’Altipiano di Asiago, sul Piave, la prigionia e la fuga ISBN 88-86338-97-X; pp. 192, 56 foto, 6 piante topogr., ? 15,00

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ATTUALITÀ DELLA GRANDE GUERRA Conversazioni di Mimmo Sacco con Alberto Monticone e Mario Rigoni Stern ISBN 88-7541-038-0; 30 illustrazioni, pp.120, ? 14,00

Guido Favetti L’ESERCITO DELLA MORTE Dall’Africa al Carso. Il diario di un volontario irredento. Prefazione di Fabio Todero A cura di Giuseppe Magrin ISBN 88-7541-004-6, 48 il., pp.128, ? 12,00

RILEGGIAMO LA GRANDE GUERRA L’AMICO DEL RE Il diario di guerra inedito di Francesco Azzoni Avogadro, aiutante di campo del Re. Vol 1° Prefazione di Gherardo degli Azzoni Avogadro Malvasia ISBN 88-7541-177-8; illustrato con 98 foto, pp. 208, ? 14,50

Franco Favre LA MARINA NELLA GRANDE GUERRA Le operazioni navali, aeree, subacquee e terrestri in Adriatico ISBN 88-7541-135-2; 20 illustrato con 175 foto e cartine, pp. 264, ? 14,80

LE CROCEROSSINE NELLA GRANDE GUERRA Aristocratiche e borghesi nei diari e negli ospedali militari. Una via all’emancipazione femminile ISBN 88-7541-134-4; 20 illustrato con 186 foto, pp. 320, ? 18,00

ESERCITO E POPOLAZIONI NELLA GRANDE GUERRA A cura di Alberto monticone e Paolo Scandaletti ISBN 88-7541-131-X; 20 ill, pp. 208, ? 12,00

Corrado Tumiati ZAINO DI SANITÀ Prefazione di Paolo Gaspari ISBN 88-7541-150-6; ill, pp. 208, ? 14,50

SUI CAMPI DI BATTAGLIA PER CAPIRE LA STORIA


Giuseppe Mariuz (Valvasone 1946) è autore di numerosi libri di storia contemporanea, di comunicazione, di poesie. Tra le sue opere: “La meglio gioventù di Pasolini” (1993), “Luogo assoluto dell’universo” (1995), un film documentario coprodotto della Rai su P.P. Pasolini (1998), il video “I giorni del Lodo De Gasperi” (1998), la biografia “Pantera il ribelle” (1991) da cui è stato tratto uno sceneggiato radiofonico (2010). Gio Battista Scodeller (San Vito al Tagliamento 1938), già sindacalista della Federazione italiana bancari e membro del Collegio nazionale dei sindaci Fiba-Cisl, è assessore alle politiche sociali del comune di S. Vito e autore del libro Vidi mio padre cadere (Gaspari 2009). In copertina: disegno di Altan

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Giuseppe Mariuz - Tita Scodeller

OVVIAMENTE A INSAPUTA DEL CORRENTISTA BANCHE E BANCARI D’ALTRI TEMPI

OVVIAMENTE A INSAPUTA DEL CORRENTISTA

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