Tamtam (giornale) delle passioni numero 00

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TAMTAM (GIORNALE) DELLE PASSIONI

febbraio 2016 n°00 - Che fine ha fatto la riflessione critica sulle attività culturali (in regione e non)?

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Il poeta apocalittico e la caccia riuscita all’autografo di Paolo Medeossi Chi si è mangiato la critica? di Angelo Floramo Prima che la musica diventi l’epitaffio di se stessa di Anna Dazzan

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Il passato è afflosciato, il presente è un mercato di Silvia Polo La trippa e i gatti di Giovanni Vragnaz TAMTAM della piccola posta di Allegra Castelli

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A testa china di Maria Aldrigo LA FOTO Federico Tavan di TAMTAM

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Tre quadri astratti per assenza di critica di Mauro Daltin La critica a (tele) comando di Paolo Patui Stordita di rugiada di Odette Pannetier

La lista delle cose da non dire ad un ragazzo per fargli detestare la cultura, i libri e la musica di Chiara Gazziero Magic Bus di Alessandro Venier A volte accade di Maria Ariis Odi e Tam T’amo del Pelide lettor l’ira funesta! di Manuela Malisano

www.tamtamfriuli.it TAMTAM delle passioni mensile di cultura del Friuli Venezia Giulia Pubblicazione mensile iscritta al Tribunale di Udine nel Registro delle Pubblicazioni con il n° 3/16 del 23 Febbraio 2016. Tutti i diritti sono riservati. Direttore responsabile: Paolo Medeossi Gaspari Editore

Lungo la via dell’Oxiana (Robert Byron)

Il mattino dei maghi

S

entite questo: “Appartenevo a una generazione-cerniera che aveva visto crollare un mondo, era staccata dal passato e dubitava dell’avvenire. Noi cerchiamo di solito il punto di appoggio nella storia e fra gli uomini, ma esso ci viene meno continuamente. Cerchiamolo allora in noi stessi. Facciamo in modo che gli avvenimenti contro cui nulla possiamo nulla possano contro di noi. In questo modo vedrete le cose antiche con occhi nuovi, e gli occhi saranno nuovi anche per vedere le cose nuove”. Interessante, no? E poi un altro esile esempio: “La coscienza umana è simile a un iceberg navigante nell’oceano. La parte più grande è immersa. Talvolta l’iceberg si rovescia lasciando apparire un’enorme massa che non conoscevamo, e noi diciamo: ecco un pazzo”. Sono, quelle appena riportate, citando a caso qui e là, frasi tratte da un libro che probabilmente pochi conoscono, eppure molto molto molto interessante. Uscì nel 1963 e si intitola “Il mattino dei maghi”, autori Louis Pauwels e Jacques Bergier, due che volevano proporre un diario di bordo a chi si pone in cammino (a qualsiasi età, in qualsiasi epoca) verso il pianeta del realismo fantastico cercando di scoprire tra le cose intorno a noi quanto sfugge alla percezione assopita e stremata, cose nelle quali il tempo e lo spazio abituali perdono ogni senso. Ma non è finita. Allungando la mano e l’occhio di qualche centimetro più in là, sempre scrutando l’orizzonte dei sentimenti curiosi, ecco un’altra frase da annotare: “Quel rapido svelarsi di un abisso nascosto nel cuore della grandezza fu una svolta nella mia adolescenza brancolante. Mi sentivo trascinare, come un ragazzo su una barca a vela, verso uno sterminato mare avvolto nelle tenebre... Fu un viaggio alla ricerca dell’artista come eroe, come enigma, come martire, come rivelazione, e infine come frammento dell’umanità”. Queste paroline invece appartengono all’adelphiano libro “Voci”, scritto da Frederic Prokosch, nome americano-austriaco in cui si imbatteva chi una ventina di anni fa si poneva sulla stessa lunghezza d’onda di Pier Vittorio Tondelli, l’inventore del week end post-moderno, un ragazzone emiliano che perlustrava lo zoo notturno della provincia. E grazie a lui abbiamo uno

Paolo Medeossi

straordinario ritratto d’una Udine immaginifica e musicale come nessuno ha mai fatto. Prokosch era diventato famosetto in quanto, senza muoversi da casa, quasi alla Salgari, a poco più di vent’anni, scrisse un bellissimo romanzo sull’Asia, intitolato appunto “Asiatici”, che raccontava più cose e intuizioni rispetto a chi aveva trascorso una vita intera in quel continente. Tutto questo per dire che il potere della fantasia (dunque anche della vostra fantasia) è illimitato, assoluto, stupefacente, sorprendente. Ma non va ingabbiato, bloccato, intimidito, condizionato, distratto, guidato e comandato da altri poteri, furbi e abili nel maneggiare le coscienze incaute, per ottenere così i loro vantaggi, quasi sempre di tipo economico o politico. Insomma non facciamoci imbrogliare “dagli avvenimenti contro cui nulla possiamo”. La cultura è uno dei terreni più scivolosi, insidiosi, anche infidi e perfidi. Eppure in teoria è l’ambito più democratico, libero, creativo, indipendente che esista, se ci si muove con acume, sincerità e sagacia. La cultura non costa, è a portata di mano. Ci sono infinite occasioni per verificarlo, cominciando dalle bellissime biblioteche a disposizione e dallo stesso web. Poi è una questione di incontri fortunati, di maestri ispirati ed efficaci, di spirito di conservazione nel senso che è necessario accumulare sempre frasi, citazioni, ritagli, riferimenti, documenti. Se possedete un libro, sottolineate (in matita) tutti i passaggi che vi incuriosiscono. Così costruite nel tempo un altro libro, il VOSTRO ROMANZO specifico, fatto di un collage sterminato dentro il quale gli occhi nuovi sanno cogliere e vedere... Il “Tam Tam delle passioni” nasce per questo, attraverso un’esplorazione sperimentale che mette insieme una ciurma di complici dalle più diverse provenienze, età, attitudini. Si comincia così da dilettanti (e per diletto), poi si vedrà cosa accadrà alla comitiva. Le passioni esibite devono essere evidenti, dichiarate, per far respirare i cuori e le menti. Per questo motivo i testi che leggete

qui recano spesso in alto, sopra il titolo, una citazione che riguarda un libro, una canzone, una poesia, un film... Così si infoltisce questo giardino un po’ strano, insolito, dove l’occhio e il parere di ciascuno è libero e decisivo. Alla fine si scoprirà forse di poter condividere un libro, un dipinto, un verso, un brano musicale, un viaggio, una gita, una scorribanda, un momento zen, solitario o di compagnia insieme. La cultura non costa mai, se è un attimo di crescita personale, autonomamente decisa e scelta... Chi vive in Friuli, tra Udine e dintorni, ha la benefica sorte di poter raggiungere in poco tempo luoghi di impatto fortissimo, di respirarne l’aria, l’atmosfera, cogliendone i vasti e intensi riferimenti. Chi abita, a qualsiasi età, tra i territori pasoliniani, confinanti con quelli nieviani, e città di frontiera come Gorizia e Trieste, dove grazie a quella complessa condizione di frontiera è nata una letteratura unica e originale, ha grandi chances emotive da inventare senza fatica potendo costruirsele da solo in un battibaleno. Il viaggio breve verso la sua Itaca di quel giorno diventa una piccola grande avventura per lo spirito. In più c’è la grandissima fortuna di avere come guida i libri di Claudio Magris, tutti, da leggere e rileggere, da portare con sé quando in treno si parte e a un certo punto appaiono all’orizzonte i bagliori dell’Adriatico, l’angolo di mare tra i castelli di Miramare e Duino sulle cui rive le onde spingono e fanno arenare tutti i disincanti. L’interesse per la cultura asburgica, mitteleuropea come si suol dire, è dovuto all’intensità con cui essa ha vissuto una caduta, una fine, che adesso è anche un po’ la nostra. Si è tornati all’uomo senza qualità, ai poeti sull’orlo della vita, all’irrealtà che ha investito il mondo di oggi, indecifrabile, minaccioso, incapace di dare risposte sicure. L’idea è allora detta. “Il cielo in me”, c’è scritto in un verso della poetessa Antonia Pozzi. Ma il cielo è in ciascuno e non costa nulla. Basta intercettare le passioni in onda sul TamTam e aggiungerne altre. Le passioni non sono premi letterari. Guizzano come pesciolini mai stanchi e si rinnovano ogni giorno. Salvandoci.

Lost Horizon

Lo scandalo della speranza Milio Bortolus

“Non rifiutarmi, non maledirmi: è impossibile vivere se nessuno ci ama” “E sopporta più di quanto noi ti sopportiamo, Signore: la terra è viva e amabile!” “Noi siamo obbligati a vivere e nessuno beve del nostro vino. Cosa, Signore, ci resta ancora per conquistare la tua morte?” David Maria Turoldo Il 2016 è un anno di infiniti anniversari. Tantissime vicende in qualche modo si annodano in questi mesi, tra storia, eventi sociali, cultura. E uno spazio particolare sarà dedicato anche a padre David Maria Turoldo, di cui in novembre ricorrerà il centenario della nascita. Ci sono in preparazione incontri, convegni, spettacoli, con il fondamentale apporto dell’ente regionale.

Nella natia Coderno di Sedegliano esistono ben due centri culturali dedicati a Turoldo, in due sedi che si guardano. Idea piccola e non costosa: aspettando gli eventi, e sperando nel meglio (traduzione: il meglio possibile con il minor spreco), è fondamentale leggere o rileggere Turoldo (nelle nostre biblioteche c’è di tutto e di più) come abbiamo proposto citando qui sopra alcuni suoi versi, di fortissimo impatto emotivo e umano. Tra i libri pubblicati su Turoldo uno dei più importanti uscì nel 1978 su iniziativa di Gianfranco Angelico Benvenuto. Si intitolava “Lo scandalo della speranza” e venne curato da un altro grande poeta friulano, Amedeo Giacomini, che scrisse un’introduzione illuminante sull’opera del frate servita. La raccolta era impreziosita da disegni

originali di Renato Guttuso. Dato di cronaca: dopo quasi 40 anni, questo libro è ancora un po’ clandestino a Udine e dintorni nel senso che allora nessuno accettò di ospitarne la presentazione, mai avvenuta neppure in seguito. Appunto: “Lo scandalo della speranza”.


TAMTAM

Romàns

Il cantiere di Rabelais

Il poeta apocalittico e la caccia riuscita all’autografo

Chi si è mangiato la critica? Paolo Medeossi

E

mozionarsi per Pasolini... E’ ancora possibile? Le indigestioni solitamente fanno andare di traverso anche i sentimenti, eppure quando nel gioiellissimo teatro Arrigoni di San Vito al Tagliamento (un luogo di preziosa civiltà che fa amare incondizionatamente San Vito, la sua bella e ampia piazza, la gente, il Friuli, la regione intera, l’Italia, la vita in genere...) vanno in scena Massimo Somaglino, Claudia Grimaz, Nicoletta Oscuro, Vittorio Vella e Mariano Bulligan, l’onda pasoliniana arriva addosso in pieno, investe e non dà scampo. Resti lì, legato e aggrappato alla poltroncina da spettatore, come un naufrago alla propria tavola, dando un senso a tutto solo cercando la salvezza in quell’attimo preciso, ascoltando quelle parole, quelle voci, quella musica. “Suite in forma di rosa”, prodotto dal Teatro club di Udine, è un viaggio profondo, rispettoso, delicato, sorprendente, nella vita, anzi nelle vite, di Pier Paolo, dal Friuli di Casarsa ai mondi estremi, remoti, dov’è adesso. Quando Nicoletta Oscuro dà anima e forma a Pina Kaltz, la musicista slovena sfollata a Casarsa durante la guerra, si capisce subito che c’è una calibrata e partecipata sintonia con l’universo marginale che si vuole raccontare ed evocare. E tutto in seguito accade di conseguenza con punte elevatissime in certi momenti, più riusciti di altri. Succede a esempio appena Claudia Grimaz va a cogliere echi struggenti nei famosi “Turcs tàl Friul”, andati in scena con la regia di Elio De Capitani una ventina di anni fa, riproponendo quel brano in cui il coro delle donne, nei panni collettivi di Anute Perline, si rivolgeva a Pauli e Meni. Una preghiera non può essere più vera e totale. Il cuore della cantante-attrice è commosso e sincero. Così il suo sussurro straziante entra nel cuore di tutti, afferrati da un brivido inarrestabile. Il testo dello spettacolo è un insieme di citazioni pasoliniane, raccolte anche nei carteggi delle donne in dialogo spirituale con lui. Una scelta attenta, intelligente, a cura di Massimo Somaglino, che non ha sbagliato il tono, nemmeno nella complessa rievocazione del periodo romano. Dopo tanto Pasolini, proposto e riproposto in tutte le salse (sempre comunque a sua insaputa e lui ignaro, come si sa), ci sono state anche altre occasioni capaci di suscitare un interesse originale, inedito, come è accaduto in una fredda notte di dicembre a Castions di Zoppola. Puntino sulla carta geografica friulana, serata estrema quanto a orario e dislocazione, eppure calore umano nelle parole di Otello Bosari, classe 1929, originario di Cavasso Nuovo, insegnante,

e consigliere regionale del Pci dal 1964 al 1978. Quella sera Bosari presentava il libro “Pasolini ti ricordo ancora”, a cura del giovane editore veneto Giacinto Bevilacqua, che ha voluto narrare alcuni momenti del periodo friulano del poeta attraverso i contributi di Nino Roman, Giuseppe Mariuz, Angela Felice, oltre allo stesso Bosari. Da lettore appassionato di Pasolini, Otello Bosari è riuscito a fare un ritratto interessante, e anche insolito, sull’esperienza di Pier Paolo quale iscritto al partito comunista e segretario della sezione di San Giovanni. Ne emerge la complessità del rapporto tra chi viveva in maniera organica e organizzativa la vita del Pci e l’inquietudine creativa del giovane poeta. Per questo motivo, a un certo punto Bosari ha affermato: “Questo suo radicalismo lo portò qualche volta a giocare il ruolo di profeta apocalittico. Vedi le pagine del romanzo incompiuto Petrolio”. Frasi interessanti, su cui riflettere ancora, a lungo. Dato biografico curioso: da bambino la famiglia di Bosari andò a vivere a Casarsa e lui fu alle scuole elementari compagno di banco proprio del cugino di Pier Paolo, Nico Naldini, coetaneo del 1929. A proposito di Nico, che ora vive a Treviso, c’era anche lui al teatro Arrigoni (assieme alla compagnia milanese di Elio De Capitani) per assistere alla “Suite in forma di rosa”: Alla fine tutti in osteria a brindare e firmare qualche eventuale autografo, come quello tracciato da Nico su una sua splendida biografia dedicata al pittore De Pisis. Ecco le parole testuali e affettuose: “Con riconoscenza, da un povero autore”.

Angelo Floramo

B

ohumil Rabal, una delle voci più libere e belle della letteratura boema, frequentava le birrerie assieme agli operai e agli spazzini di Praga. Lo si poteva trovare lì alla fine del pesante turno di lavoro in fabbrica. Santificava così ogni giorno in osteria, assieme alle tante facce stanche come la sua, portandosi dentro il frastuono dilaniante dei turni che solo la vita, quella vera, è capace di regalare; socchiudeva gli occhi sciogliendo nell’amaro della schiuma quello dell’esistenza, di certo più difficile e aspro da mandare giù, con tutte le bestemmie del mondo. Inghiottiva dolore e lo risputava sotto forma di letteratura. Giovanissimo, era stato voce critica durante l’annessione della Cecoslovacchia al Terzo Reich del 1938; continuava ad essere un dissidente nel 1968 quando, mutati i tempi, le bandiere ma non la forma né l’ostinazione del Potere, i carri armati sovietici calpestavano i germogli di una Primavera che non vide mai la fioritura dei suoi germogli. Cantava di treni e solitudini. Di disperazione visionaria e tenerezze alcoliche. Finì gettandosi dalla finestra di un ospedale. Solo nella morte come lo era stato, per un invidiabile coraggio nella denuncia, anche nella quotidianità. Simile alla sua fu la solitudine alcolica che consumò Viktor Eroveev nei lenti viaggi tra Mosca e Petuški, in mezzo ad una umanità sudata e delirante di pendolari, barboni, rinnegati, massaie, puttane. Gli angeli più visionari non sanno spiccare il volo verso le nubi dorate degli Elisi. Evidentemente quelle porte si dischiudono soltanto per coloro che sanno cantare nel coro dei Beati. Potrei continuare bordeggiando i confini delle dittature grandi e piccole, orribili o ignobili che nel corso della Storia hanno calpestato la libertà della voce e, imponendo un becero silenzio, non hanno fatto altro che stimolare nei migliori la mitopoiesi del dissenso, nei peggiori la tendenza alla narcolessia culturale, alla triste omologazione entro quell’armonico concerto che non disturba mai l’ascolto e agevola il torpore. Rifuggendo però dalla libertà sublime, che resta sempre, in definitiva, quella della critica che si esercita nella purezza del libero pensiero. I nostri tempi, i nostri luoghi, così apparentemente lontani dagli orrori del secolo passato, nascondono tuttavia, per l’esercizio del libero pensiero, lacci e inganni non meno insidiosi, pericolosi e mortali. Lo spazio straniante in cui ogni giorno discutiamo, dibattiamo, facciamo l’amore, cerchiamo materiale per i nostri libri, e che costantemente interroghiamo, diventa sempre più una specie di plasma collettivo, un blob viscoso e attaccaticcio che è capace di sedare, senza mai provocarci davvero. La vita quotidiana, come è ovvio, necessario e tragico che sia, continua parallela a quel circo mediatico al quale la Cultura è spesso stata ridotta. Tutto il resto, il peggio di quanto rimane, è letteratura addomesticata, che nessuno si prende la briga di valutare. E di fronte a questa lenta consunzione della Libertà i critici tacciono. Dove sono finite allora le voci “aspre e chiocce”, quelle dissonanti e sempre temute che hanno il coraggio di mostrare le pudenda dell’Imperatore nudo, mentre la folla dei cortigiani continua a confondersi nel più ebete degli applausi, mendicando un contributo, sperando in un articolo più colorato e visibile nella pagina degli eventi più importanti? Ho sempre creduto che l’intellettuale debba essere profondamente “disorganico”, dissociato, capace di evitare i titoli dottorali e la vanità degli elogi, portandosi invece addosso la puzza della vita, quella vera, che batte sull’uscio del mondo e spesso viene opportunisticamente tenuta fuori: è questo, ne sono profondamente convinto, l’unico antidoto contro l”arbre magique” del compromesso, la pastorizzazione dei fermenti vivi, la sterilizzazione di quella ruvida, selvatica e graffiante bellezza che la letteratura sa regalare a chi sa sporcarsi le mani con il fango della Verità.

Come mi vuoi

Prima che la musica diventi l’epitaffio di se stessa Anna Dazzan

M

i ricordo i pelucchi morbidi piegarsi sotto il peso leggero dei polpastrelli, mentre facevo scorrere le mani avanti e indietro sulla moquette bordeaux del salotto. All’età di cinque anni, musica era sinonimo di sigle di cartoni animati e dischi ascoltati rubando le note alle orecchie di mio padre, nascosta dietro le tende e sdraiata su quel pavimento morbido. La musica era una conquista, che accettavo inizialmente per osmosi emotiva. Vedevo mio padre socchiudere gli occhi mentre un vinile dei Beatles muoveva l’aria del giradischi. Vedevo le sue dita muoversi a ritmo e decidevo così che avrei amato tutto ciò che faceva stare così bene lui. Un’eredità preziosa, che si è scontrata ben presto con il mio gusto. Le canzoni ascoltate nei tragitti in macchina fino a scuola, e le colonne sonore delle lunghe trasferte estive in auto, si sono così naturalmente mescolate con me. Io. Le mie orecchie. Il battito del mio cuore che va a ritmo. I miei occhi che si socchiudono. L’eredità è sempre lì. E, ora, si traduce nell’emozione del suono

di una chitarra classica che vibra tra le pareti di casa. Un suono vivo, che parla di dita che si muovono, spalle che sussultano e piedi che tamburellano sul pavimento. Una sorta di live personale e privato, che rivive ogni volta che ascolto un concerto dal vivo. Poche situazioni, ammettiamolo, sono così coinvolgenti come quelle in cui puoi apprezzare con i tuoi occhi l’unione tra i musicisti e la loro musica. Un dono prezioso, quello di assistere al più felice tra i matrimoni: quello dell’arte con l’uomo. Situazioni che dovrebbero moltiplicarsi, essere facilitate, alla portata di tutti. Dio solo sa quanto fa bene la musica dal vivo! Quella amata da chi le dà vita, quella amata da chi la riceve in dono! Niente di male può succedere se, alla musica le si consente di essere. Eppure nella nostra sorprendente regione sono ricorrenti i casi in cui proprio alla musica si mette il bavaglio. Concerti annullati (La Scimmia Nuda a Capodanno, al Teatro San Giorgio di Udine), festival limitati o spostati (il clamoroso caso del Rototom Sunsplash o quello dell’Homepage), circoli che chiudono. Ultimo in ordine di tempo, il Cas’Aupa del capoluogo udinese: circolo Arci che da anni propone, oltre a incontri e corsi di vario genere, anche concerti dal vivo di musicisti locali, nazionali ed

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internazionali di livello. Un posto intimo, come vuole il suo nome che al primo posto mette la parola “casa”. Un posto dove poter guardare davvero da vicino la musica che prende forma e così capirla, senza i filtri di videoclip mainstream dove tutto è così luccicante che occhi e orecchie non distinguono più i colori originali delle note. Senza queste occasioni, chi è in cerca di un appiglio alla sua eredità musicale, rischia di non trovarlo. Rischia di doversi accontentare di zapping televisivo in cui la qualità si perde in un mare di proposte che si confondo l’una con l’altra. Rischia di non avere un suo gusto e di perdersi il bello di vedere con i propri occhi il miracolo dell’arte che nasce. Siamo davvero sicuri di volere che questo accada? Privarci del piacere dei -più o meno piccoli- concerti dal vivo senza provare almeno a dire la nostra, senza rincorrere quel desiderio di sapere come l’arte musicale va a finire? Io, nel dubbio, sfrego ancora le dita sulla moquette, socchiudo gli occhi e cerco le vibrazioni dell’aria, senza aspettare che muoia il prossimo cantante famoso per fare un viaggio nella sua memorabile discografia.


(GIORNALE) DELLE PASSIONI

(Non) Ogni cosa è illuminata

Le città visibili

Il passato è afflosciato, il presente è un mercato

La trippa e i gatti

R

incorrendo l’onda lunga che parte dal tema di fondo di questo numero, ovvero la frequente sospensione di riflessione critica sulle attività del nostro paese, vale la pena di considerare un aspetto di lunga durata e dagli effetti altrettanto persistenti, che riguarda la complessa macchina della costruzione della memoria, intendendo con quest’ultima la memoria pubblica del nostro paese. Utilizzando termini come costruzione o macchina già qualche dubbio dovrebbe sorgere, nulla di più giusto; bene, proviamo a indagare. Quando parliamo di memoria pubblica ci riferiamo a un “patto” in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar cadere nell’oblio degli eventi del nostro passato, quelli che, intendiamoci, dovrebbero comporre l’albero genealogico di una nazione, pilastri su cui fondare i programmi di studio da proporre nelle scuole, i luoghi della memoria, le esposizioni dei musei e le scelte sulla base delle quali si orientano tutti i sentimenti del passato che attraversano la nostra esistenza collettiva. Costruire memoria significa costruire l’identità di un Paese, quindi “ci siamo dentro tutti”. Le regole del “patto” cambiano a seconda delle varie fasi del processo storico di una nazione, così come cambiano i relativi contraenti e contenuti, tutto questo è normale, ma oggi chi sono gli attanti che stipulano tale accordo? E quali sono i contenuti? Sono domande legittime, che tutti noi dovremmo porci. A rispondere (ma anche a farci tante altre domande salutari) ci aiuta un interessante libro di Giovanni de Luna, professore di storia dell’Università di Torino, intitolato La Repubblica del dolore (2011), in cui si analizzano i meccanismi con cui è stata costruita, appunto, la memoria del nostro paese dalla Prima alla Seconda Repubblica fino ai giorni nostri. La tesi del saggio è dimostrare come le strategie, messe in atto da uno Stato sempre più delegittimato, rispondessero a un malcelato bisogno di nascondere la sua progressiva estraneità e separatezza nei confronti della società civile, cercando di incunearsi nella memoria e negli universi simbolici a essa collegati. Va subito chiarito che l’Italia non è stata e non è l’unica a guardare in questa direzione; nel panorama europeo è in buona compagnia in questo processo, infatti sono molti gli stati che hanno cercato di lenire la frattura tra Novecento e post-Novecento operando sulle memorie ufficiali. In Italia accanto alla crisi che ha investito in generale il ruolo dello Stato novecentesco va aggiunta la transizione tra Prima e Seconda Repubblica. Parliamo del periodo che va dal crollo del sistema socio-politico incardinato sui partiti fondatori della Repubblica, il cosiddetto “arco costituzionale”, ai giorni nostri, quando termina il cosiddetto ventennio berlusconiano, cominciato a metà anni ’90 dopo tangentopoli e caratterizzato, pur con un paio di brevi interruzioni, dall’egemonia di Silvio Berlusconi, per quattro volte presidente del consiglio. L’ “età berlusconiana” viene studiata al pari di quella “giolittiana” che abbiamo sui manuali di storia delle superiori; lo storico Antonio Gibelli giustifica tale espressione “Non è in causa qui la statura del personaggio né un elemento valutativo positivo o negativo sul suo operato, quanto il fatto che abbia dato un’impronta omogenea e determinante a tutta un’epoca” e ancora “Il berlusconismo appare non solo come l’esito della crisi politica italiana degli anni novanta del Novecento, ma come un fenomeno che incarna linee di tendenza più generali. Lo si potrebbe definire la manifestazione per ora più compiuta della politica nell’era post-moderna, nella quale sono tramontati i grandi sistemi ideologici” (Antonio Gibelli, Berlusconi passato alla storia. L’Italia nell’era della democrazia autoritaria, Donzelli, 2010). Il libro prosegue illustrando come la politica tenda a confondersi con il sistema del marketing e della pubblicità, benché ciò sia in evidente contrasto con i principi dello Stato liberale, che è

Silvia Polo

fondato sull’equilibrio dei poteri. Va considerato, nella nostra analisi, che questa deriva s’innesta in una situazione sociale, economica e politica del paese agli inizi degli anni Novanta già con caratteristiche molto cambiate rispetto alla situazione della cosiddetta Prima Repubblica. La spettacolarizzazione della politica era già cominciata con Bettino Craxi, poi mettiamoci la grande inflazione di quegli anni, il debito pubblico, passato dal 30% del prodotto interno lordo nel 1961 al 125% dei primi anni Novanta (Guido Crainz, Autobiografia di una Repubblica, Donzelli, 2009), la forte pressione fiscale, l’impoverimento dei ceti medi a fronte di una sempre più arrogante corruzione del ceto politico. Terreno fertile per il sentimento dell’antipolitica. Abbiamo molti ingredienti per capire meglio l’inconsistenza del rapporto con il passato proposto dalla nostra classe politica. I partiti che avevano costruito e monopolizzato il suddetto “patto di memoria” sono tutti scomparsi, sostituiti da partiti che con il passato hanno un rapporto aleatorio, contraddittorio o semplicemente non ce l’hanno. Nel vuoto che avanza si sono affermati altri e più potenti costruttori di memorie: i venti della privatizzazione spirano robusti alimentati dal mercato e dal sistema mediatico che ne organizza i contenuti, per usare la stessa metafora di De Luna. Oggi tutte le grandi narrazioni del passato sono affidate alla pervasiva capacità dei media e in particolare della televisione. Questa ha la facoltà di proporre un racconto commisurato al senso comune, condito di sentimenti familistici e individualistici che hanno demolito molte appartenenze collettive, inoltre ha contribuito massivamente a legittimare l’impiego di un linguaggio aggressivo, qualunquista o settario. Ecco, i media sono formidabili costruttori di memoria e di identità, lo sapevamo? Auspichiamo un sì. Quando questi contenuti sono arrivati a minare la credibilità degli uomini politici (facile, no?), la politica ha reagito, e lo ha fatto con un impiego massiccio di interventi sul tema della memoria, ad esempio un elenco di “leggi di memoria” incredibile, soprattutto quelle che privilegiano la centralità delle vittime e del loro ricordo: della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, del dovere, delle calamità naturali. Vittime e famiglie delle vittime, individui-vittima catapultati in uno spazio pubblico assoggettato al lutto e al dolore. Questa strategia, però, lungi dal dimostrare la presenza e la forza dello Stato, di fatto ne convalida la fragilità. Infatti provoca richieste di risarcimento e riparazione, impeto rivendicativo, e non per ultimo crea competizione tra le stesse vittime. Per emozionare, commuovere, suscitare consenso (possibilmente non compassione o pena, quella non la vuole nessuno: siamo ben lontani dal boccacciano umana cosa è aver compassione degli afflitti), le sofferenze vanno gridate; più si grida forte più si sfondano le barriere dell’audience. Quasi che le emozioni siano merci e quasi che sia il mercato a imporre le sue regole, a controllarne domanda e offerta. Il panorama delle vittime ha forse lo scopo di dirottare il focus dell’attenzione da chi ha responsabilità (la politica, le istituzioni, i controllori) a chi sciagurato è caduto e va aiutato, assistito e supportato. Non è un controsenso invece che più forte è la sete di giustizia e verità, più impegnativo diventa il ruolo delle istituzioni, che devono dimostrare attributi e virtù. Per questo, si legge in La repubblica del dolore, in Italia la subalternità al mercato e la trasformazione delle emozioni in merci appaiono ancora più clamorosamente evidenti: nell’assenza di una politica credibile e autorevole, affidata alle regole del mercato e della comunicazione mediatica, la centralità delle vittime posta come fondamento di una memoria comune divide più di quanto unisca.

TAMTAM della Piccola Posta

“Sognatrice abbandonata” Allegra Castelli

Cara Piccola Posta sono un’anima semplice, e non rinuncio a esserlo, pagando pesantemente questa ingenuità. Sempre, ogni giorno, San Valentino compreso. Per esempio, credo nel colpo di fulmine che accende la passione senza incenerirla. E Lei ci crede?

C

ara Sognatrice Abbandonata, anima nel mar dei sensibili, cosa ti è successo, animula vagula blandula, che mi scrivi così sconfortata? Non ci è mai dato sapere cosa ci riservi il destino, eppure, cara lettrice di Piccola Posta, se tu mi chiedessi come mi sento, ti risponderei che sono felice. Stupidamente felice. Felice di amare, anche se non corrisposta. E libera di credere sempre al colpo di fulmine. Nella mia vita ho dato, mi sono offerta, ho congelato le armi di fronte all’estasi, e non me ne pento. Come disse un giorno alla radio, - erano gli anni Cinquanta del secolo scorso- la tanto amata Signorina Snob “sono su come spirito e nervi”, e anche io, pur essendo “deboletta come arti più o meno inferiori”, (ho sempre i piedi in difficoltà perché cammino, cammino molto alla ricerca del mio amore… a volte, mi basta osservarlo anche da lontano… come in un soffio inaspettato), mi sento anima semplice. Ma chi

non lo è quando parte la scintilla che tutto muove? Se il cuore è gonfio di passione, lo saranno anche i tuoi pensieri. Sii leggera, ragazza mia, e pensa che è meglio concedersi alla passione che rifiutarla per paura di soffrire. E poi impara dalle zie più vecchie di te, concedimi “zie”, o “signorine di ogni tempo”: la passione è un’arte che non si dimentica. Sii fiduciosa. Non ascoltare coloro che ti suggeriranno pozioni diverse. Tu ama invece, e bacia, e accarezza; goditi il tuo paesaggio. Circondati di bellezza, alza gli occhi al cielo, respira il sentimento e non ti pentirai. Fai come fece Tina Modotti, l’artista fotografa nata a fine Ottocento, la pasionaria che amò e fu amata dagli uomini più intensi del globo. Bella, viva. Femmina; come vuoi essere tu, cara sognatrice abbandonata, occhi dolci. Tina nacque a Udine in via Pracchiuso, la via dedicata a San Valentino, che sorpresa, proprio il santo che mi regali in questa tua. Scrivimi ancora, anima semplice che in realtà non sei, raccontami perché il tuo amore ti ha girato il mondo e te l’ha gettato addosso. Dall’alto fino al più piccolo sasso che ora fai fatica a calpestare. Là dove sei stata con lui, in volo. Ma tu, tu scivola libera e continua a pensare che San Valentino è il santo che fa ruggire il Tam Tam delle passioni. Piccola Posta è qui per te, regina di cuori. E Allegra Castelli, in ascolto.

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Giovanni Vragnaz

el dicembre scorso ci hanno avvisato che il Friuli ha la più alta quantità di metri quadri di grande distribuzione per abitante in Italia. Noi pensavamo intanto al commercio a Km zero e globalmente a quanto “piccolo è bello”. E l’assessore alla pianificazione regionale ci raccontava sulla stessa fonte ( Il Messaggero Veneto) come esista una previsione, letteralmente spaventosa, di 1,2 milioni di metri quadri possibili, già previsti nei piani regolatori comunali, di ulteriore grande distribuzione. Mi è imbarazzante ricordare ancora e di nuovo l’ovvietà di come il paesaggio sia l’immagine costruita maggiormente rivelatrice della storia dei valori operanti e delle aspirazioni di una comunità: un imbarazzo però forse ingiustificato se misuriamo la sorprendente indifferenza della stampa locale e degli altri strumenti di comunicazione verso le scelte ( o le non scelte) di pianificazione del territorio che tale paesaggio determinano. Stretti fra la comica (o collusa ) mitologia dello sviluppo e conservatorismo difensivo fondato su una idea di “natura” separata, anche gli intellettuali di questa regione prevalentemente tacciono, proprio sul terreno che dovrebbe mettere tutti alla prova. Già molti ( troppi) anni fa Leonardo Benevolo, con la solita capacità di sintesi e chiarezza ,ci ricordava in un suo piccolo libro, che io ritengo ancora esemplare ,( L’Italia da costruire.Un programma per il territorio, Laterza 1996) come “ la distruzione del paesaggio,lo sperpero di valori ambientali nelle campagne e nelle città , come sulle coste e le montagne, è la testimonianza degli ultimi sessanta anni di democrazia imperfetta in questa nazione, la distanza che ci separa dall’Europa e l’entità dei compiti che ci aspettano: nessun governo in Italia ha posto al centro delle sue preoccupazioni la pianificazione territoriale come elemento portante di una sintesi politica capace di condizionare l’economia, la correttezza amministrativa, il rapporto fra poteri, l’esercizio della sovranità popolare.” Il disegno dello spazio fisico è stato visto come un intervento settoriale e non strategico.Al contempo il paesaggio è una straordinaria macchina del tempo che conserva a lungo nel bene e nel male le impronte lasciate dalle epoche passate. Immaginare attraverso il progetto un nuovo, corretto, paesaggio ha bisogno oltre che di continuità - amministrativa e tecnica-di tempo, di raccoglimento e pazienza, in quanto questione complessa per sua natura comprensiva di una vasta gamma di aspetti. Una sfida nei tempi lunghi, dove ogni dettaglio è essenziale e qualunque semplificazione disastrosa e dove calcoli e mediazioni devono poggiare su previsioni durevoli. Ma le condizioni oggi sono cambiate, rendendo tutto più difficile. Qualcuno di accorge che ( forse) ci sono troppi centri commerciali solo perché questi cominciano a chiudere, come ci siamo colpevolmente tardi accorti ( ma qui il discorso è ancora più colmo di responsabilità politiche) che avevamo grandi caserme vuote ( di proprietà pubblica, ed ara il 20012004 !) e poi interi distretti industriali in crisi,come il Triangolo della sedia, mentre realizzavamo le urbanizzazioni per altre, adiacenti aree industriali. E le difficoltà non sono solo ( enormi) di ordine economico. Un centro commerciale è molto difficilmente convertibile in altre destinazioni e forse è inopportuno farlo, se non altro per la collocazione : la sua naturale trasformazione è la demolizione e la restituzione del suolo alla campagna. Ma la questione è ben più vasta e radicale: siamo in presenza di un fenomeni nuovi ( almeno per l’Italia) che non sappiamo affrontare e verso i quali anche la cultura del progetto è impreparata. Anche il millantato “eroismo” dei piani regolatori che declassano i terreni a non più edificabili - in realtà su accorata richiesta dei proprietari - è sintomo di una nuova realtà. In sintesi abbiamo un eccesso di quantità costruite ed una domanda decrescente. Anche i progetti di riqualificazione urbana che sono la parola d’ordine “politicamente corretta” dobbiamo chiederci: a chi sono rivolti? “per chi? “,con quali risorse? Per rispondere a quali domande, di servizi, abitazioni o attività produttive? Le trasformazioni anche se oculate, di lungo periodo, ponderate si alimentano di necessità e risorse: qui non c’è più trippa per gatti. Sia per gli astuti felini che si sono riempiti la pancia fino a qualche anno fa, sia che un ponderato,lungimirante (e mite, perché “pubblico”) Gatto con gli Stivali. Senza poteri magici, fra l’altro.


TAMTAM

Esperando la sopa

A testa china

I

mendicanti di oggi si accucciano nei cantoni tra le porte scorrevoli e le pareti dei supermercati e dei grandi centri commerciali. Sono stranieri, di pelle scura, ma anche bianchi. A volte sono proprio bizzarri, cupi e inadatti alle scarpe di ginnastica di poco prezzo che li portano in giro e che qualche ente benefico gli ha rimediato. Altre volte quieti ti lanciano il loro “Buongiorno!” con accenti di tutte le lingue del mondo, e aspettano. Molto spesso trovi le donne, inginocchiate sui marciapiedi o sulle scale del sottopassaggio che porta alla stazione. Davanti hanno un cartello che enumera le loro disgrazie e supplica aiuto. Qualcuno dice che quello dell’ elemosina è un racket, che ad aiutarli si peggiora la situazione: in questo modo le donne vengono sfruttate ancora di più e così i bambini che a volte sono con loro. Comunque sia è la miseria che credevamo scomparsa in Occidente a cantare vittoria e ad acquattarsi beffarda e invincibile davanti a chi entra nei paradisi del consumismo. Si espone senza vergogna, è forte, dura. Quelle presenze deflagrano dentro il sistema come quei proiettili che frammentandosi si espandono e si artigliano con più efficacia dentro la carne. Fotograferesti uno di quei soggetti? Con l’onnipresente smartphone immortaleresti quelle vessate creature?

Maria Aldrigo

Certo: ormai fanno parte del paesaggio delle nostre città, immancabile decorazione urbana di questo primo scorcio del ventunesimo secolo, ma chi mai si farebbe un selfie con questi individui? Però c’è stato un artista che ha lasciato testimonianza volontaria e diretta dell’ emarginazione, strega violenta e fredda. Lo ha fatto con i suoi disegni e dipinti, opere della fine dell’Ottocento inizi Novecento, sconvolgenti per la loro attualità. Io le ho ammirate per la prima volta nella mostra tenutasi a Ferrara l’autunno scorso dedicata a “Barcellona, la rosa di fuoco”. Accanto ai nomi altisonanti di Picasso e Gaudí compariva nell’ultima sala dell’esposizione, un po’ in sordina, quello di un pittore poco conosciuto in Italia che per me ha rappresentato una vera e propria scoperta: Isidre Nonell. Ero arrivata quasi alla fine del percorso di Palazzo Diamanti, sfilando tra le sale quietamente interessata, quando, dopo l’ingresso in una nuova stanza, mi sono bloccata: dei piccoli quadri alle pareti mi hanno attirato come calamite, mi hanno inquietato e commosso, scuotendomi dentro. Figure contorte, scure ma abbaglianti, tormentate e ripiegate su se stesse , in una universalità di atteggiamento che ne faceva scomparire la collocazione temporale: vecchi soli, donne miserabili con figli piccoli in braccio, zingari, malati … rappresentazioni eterne del nostro ogni giorno. Il pittore rappresenta semplicemente i poveri

con profonda comprensione e pietà, e insieme con la cattiveria di chi vuole sbattere davanti agli occhi dei contemporanei la brutalità dell’esclusione, con una potenza che ti agguanta i pensieri. La cosa non fu molto gradita all’epoca, specialmente a Barcellona, sua città natale, e a lungo, dopo un promettente inizio, questo pittore fu isolato e il suo lavoro rifiutato perché era un insulto verso i benpensanti barcellonesi e forse li chiamava ad una presa di coscienza non voluta. I biografi di inizio ‘900 affermano in realtà che egli non lo facesse per spirito cristiano né per motivi sociali o politici, ma volesse solo freddamente riproporre la realtà così come gli si presentava , in una ricerca figurativa della verità. O ancora scegliesse di esprimere l’estetica del brutto e dell’ignobile perché connessa alla sua natura, in modo perverso diremmo oggi. Certo, se la miseria è spregevole; senz’altro se si considerano gli emarginati scarti indegni dell’umanità. Ma sono tanti, forse oggi più di ieri, e dobbiamo averne considerazione. Marciano nelle file dei profughi, si ammucchiano nei maledetti campi Rom, ci scocciano da morire al supermercato, spuntano dappertutto: non riusciamo proprio a non vederli. Ma anche rappresentarli, dai: è un pugno nello stomaco! Isidre Nonell, chi era costui? Perché ha scelto di riprodurre la “fealdad”, la bruttura del mondo, la disperazione? E come l’hanno presa i suoi contemporanei? Con ammirazione e riconoscenza ho realizzato una breve ricostruzione della sua vita per comprenderlo e motivarne le scelte artistiche così anticonformiste e innovative, capaci a mio avviso di rappresentare significativamente gli aspetti più controversi della nostra società globalizzata anticipandola già più di un secolo fa. Un viaggio che comincia dal dipinto riprodotto qui sopra, intitolato “Esperando la sopa”.

Il numero 01 di TAMTAM sarà in edicola il 1° aprile al prezzo di euro 2,00. Puoi anche abbonarti a TAMTAM online sul sito w w w. t a m t a m f r i u l i . i t

LA FOTO Federico Tavan nel parco giochi sulle rive del lago di Barcis, in una giornata del 2005, dopo un soddisfacente pranzo nella trattoria di Andreis. E poi all’esterno di un tendone, nel 2007, durante “Absolute poetry”, a Monfalcone, l’unico festival letterario tra i tanti organizzati in regione a cui venne invitato, pur con ruolo molto marginale e minimo. Le foto sono inedite e vennero scattate su richiesta dello stesso poeta.

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(GIORNALE) DELLE PASSIONI

Nel tempo di mezzo

L’ultimo dei Buendìa

Tre quadri astratti per assenza di critica

La critica a (tele) comando

L

o scaffale La donna entrò in libreria poco prima dell’orario di chiusura. Si avviò verso il banco informazioni e attese il suo turno come si attende alla cassa del supermercato. Dopo pochi minuti, di fronte a lei una ragazza con gli occhiali dalla montatura grossa e gli occhi sul computer disse: “Prego?” “Il settore riviste”. La ragazza sollevò gli occhi dallo schermo. “Scusi?” “Il settore riviste” ripeté la donna. “Ad esempio?” “Ad esempio cosa?” “Quali riviste?” “Riviste di letteratura, cinema, teatro, politica, cultura”. La ragazza la guardò come si guardano le cose incredibili. “Ha dei titoli?” “Tempo fa c’erano Diario, Carta. Forse avete Nuovi Argomenti, Internazionale. “Attenda”. La ragazza digitò qualcosa al computer. Poi rialzò la testa e sorrise. “Se trova qualcosa, lo trova nell’ultimo scaffale in basso, vicino alla porta d’uscita sul retro. Accanto alla poesia, dopo lo sbarramento dello scaffale di tutti i titoli citati da Fabio Fazio. Sa, vanno come il pane, quelli”. La donna prese a camminare lungo scaffali pieni di libri di ogni genere. Poi arrivò davanti alla gigantografia di Fazio e Gramellini che si abbracciavano. Superò quel muro e proseguì per un tempo che le parve lunghissimo. Vide la porta d’uscita rossa con i maniglioni antipanico. Lì accanto comparve un vecchio Neruda e, a fianco a un Raboni ingiallito, giaceva una copia sgualcita di Latinoamerica del 2003.

I

l suicida Il ragazzo amava i libri. Leggeva tutto quello che trovava. Poi, ad un certo punto della sua vita, attorno ai venticinque anni, gli venne il desiderio di approfondire, curiosare dietro le quinte di quello che leggeva, capire se altri la pensavano come lui, sapere che cosa ne dicevano i critici, quelli che avevano studiato un autore nel profondo, i giornalisti specializzati, altri scrittori. Si sedette al computer e digitò su google “critica letteraria” (gli parve la cosa più logica) e comparvero di incanto 1.020.000 risultati in 0,34 secondi. Pianse. Pianse perché capì che lì dentro c’era proprio tutto, quello che cercava e quello che nemmeno si immaginava di trovare. Tremante, cliccò sul primo sito e iniziò a leggere. Lesse per giorni interi, senza andare a dormire, senza mangiare nulla. Lesse

Mauro Daltin

recensioni, interviste, consigli, commenti. Sfinito, cliccò sul secondo sito della lista prima di crollare in una dormita lunga due notti. Si riprese e ricominciò senza soste fino ad ammalarsi. Gli proibirono di leggere altro, ma lui continuò finché non cadde dal settimo piano. Nella mano destra teneva saldo il computer portatile connesso con wi fi al trentasettesimo sito nell’elenco. Nella mano sinistra stringeva “L’uomo senza qualità” di Musil. Volume I. Edizione Einaudi. Crollò a terra dopo un volo di 2,34 secondi. In tasca un biglietto: “Ho trovato tutto. Ho trovato niente”.

I

numeri Il giovane giornalista, al termine della conferenza stampa di chiusura del Grande Evento, inseguì il Direttore Artistico fino all’entrata del bagno. Tremava dall’emozione di trovarsi di fronte a lui. Il Direttore Artistico si fermò, quasi infastidito. “Serve qualcosa?” “Solo due altre battute”. “Va bene, veloce però”. “Può dirci il segreto?” “Di cosa?” “Del vostro strabiliante successo”. “Il lavoro e le idee. E la quantità mostruosa di eventi e repliche, ma quest’ultima cosa non la scrivere”. “Anche quest’anno avete avuto il record di pubblico. Ormai sono 15 anni che battete tutti i record”. “Quelli sono numeri”. “In che senso?” “Sai, ci sono i numeri della questura e quelli degli organizzatori, ma non scriverlo” rise il Direttore Artistico mentre si stava slacciando i pantaloni. “Ma su tutti i giornali ci sono questi numeri. È stato un grandioso successo, a leggere gli articoli”. “Paghiamo bene l’ufficio stampa, sai. Cosa credi, ragazzo?” e il Direttore Artistico aprì la patta e pisciò abbondantemente contro il muro.

Zukclub: Rodchenko, Kandinsky, Tatlin - Moscow, 2013 - www.zukclub.com

Estasi

Stordita di rugiada

V

ivere all’ombra di San Valentino non è facile. San Valentino il giorno dopo si chiama San Faustino, 15 febbraio, che è proprio il giorno scelto per far salpare il “TamTam delle passioni”. Un caso, non una scelta assoluta e precisa, ma anche una curiosità. Da qualche tempo San Faustino ha acquisito un po’ di notorietà in quanto è diventato, per strani motivi, un po’ tradizionali, un po’ commerciali, il patrono dei single. Se gli innamorati hanno il 14 febbraio, i disoccupati e gli agnostici in senso sentimentale possono consolarsi con il 15 febbraio, che quest’anno cade pure di lunedì. Più di così! A Udine San Faustino non trova molto spazio e questo non accade perché qui sono tutti innamorati, ma per il fatto che il culto valentinesco da secoli va per la maggiore in città e dintorni con una capillare presenza di confraternite, cappelle, oratori, altari, iconografie. Già nel 1355, quindi esattamente sette secoli fa, la nobile famiglia de’ Valentinis fece costruire nel borgo di Pracchiuso l’oratorio dedicato al santo, sulla cui identità non c’è mai stata chiarezza e certezza. E infatti nel 1970 il Consiglio per la riforma liturgica aveva deciso di cancellare dal calendario liturgico proprio San Valentino, sostituendolo con i Santi Cirillo e Metodio. Questo in quanto non si riusciva a mettere ordine nella ressa di Valentini spuntati un po’ in tutta Europa, tanto da arrivare a un certo punto a ben diciassette. Ma l’estromissione ufficiale di San Valentino non ha avuto effetti pratici in quanto a furor di popolo il 14 febbraio è rimasto legato al suo nome, quale protettore (sempre più impegnatissimo) degli innamorati, di ogni continente, età e condizione. San

Odette Pannetier

Faustino invece, che avrebbe le carte in regola per una identità sicura, deve limitarsi a dare un occhio al popolo, comunque vastissimo, di chi per il momento sta facendo tacere il proprio cuore. C’è da chiedersi come, in una situazione simile, si sarebbe comportata la grande poetessa Emily Dickinson, la donna che visse una vita praticamente chiusa dentro una stanza e che scrisse bellissimi versi d’amore senza mai poter condividere il sussulto di un amore vero. A lei si avvicinavano solo vecchi, consunti, educati signori, quanto bastava comunque alla sua fantasia per disseminare dovunque le “valentine”, e cioè le cartoline e i biglietti con messaggi d’auguri in uso il 14 febbraio. Parole dolci e intense, che poi diventavano poesie, riunite in fascicoletti. Emily, la donna che non trovò mai un amore, cui aspirava con tutta se stessa, scrisse: “Con te nel deserto, con te nella sete, con te nel bosco di tamarindi il leopardo respira, finalmente”. “Vieni lento, Eden! Labbra a te disabituate timide, sorseggiano le tue essenze come l’ape stremata”. “Inebriate of air, am I and debauchee of drew...”.

Inebriata d’aria e stordita di rugiada Stupenda Emily

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C

Paolo Patui

he sia tutta colpa del telecomando? Nell’epoca precedente al suo avvento la pigrizia frenava ogni tentativo di abbandonare il divano posto dinanzi al teleschermo. Privi dell’immediata comodità del telecomando finivamo per rassegnarci a guardare fino alla fine anche quel film che non corrispondeva alle nostre aspettative e che però ci costringeva a entrare nella mente e nelle intenzioni del regista. In definitiva dinanzi a ciò che accadeva sul teleschermo eravamo persino costretti a ragionare, pensare, provare a capire. Non è detto che ne valesse sempre la pena, ma eravamo pur sempre obbligati a togliere qualche ragnatela dal nostro cervello. Poi è arrivata la magica scatoletta, il telecomando, grazie al quale senza fatica alcuna abbiamo iniziato a fare zapping ovvero a eliminare (to zap) ogni ipotetico programma che potesse infastidirci, compresi quelli in grado di costringerci alla fatica del pensiero. Risultato? Spazzata via la noia, eliminata la pesantezza, ma anche abolita la possibilità di capire, valutare, criticare. Tutto veloce, simultaneo, alla ricerca della soddisfazione immediata del proprio effimero bisogno. Una sorta di televisione gastronomica per dirla alla Brecht. Poco male se non avessimo esportato il modello a altre discipline e situazioni, convinti di poter affrontare ogni istante della vita con il telecomando in mano. Anche a teatro, al cinema, durante un concerto; persino dinanzi alle pagine di un libro o della carta stampata; se chi scrive prova a fare un ragionamento per distinguere ciò che vale da ciò che no, ci pare abbia perso tempo lui o lo stia facendo perdere a noi. Meglio “zappare”, eliminare. Meglio pubblicare altro. Hanno cominciato a farlo anni fa i giornali nazionali, ma poi l’idea si è diffusa anche in periferia: la convinzione è che le recensioni, le critiche, le analisi non le legga più nessuno: ciò che conta è la notizia. A cosa si sono ridotti i quotidiani che un tempo sfoggiavano la loro terza pagina come un motivo di orgoglio? All’intervista superficiale (spesso telefonica), al comunicato suggerito dagli uffici stampa, alla polemica futile. Questo vuoto è stato colmato da istituzioni e costosissimi uffici stampa, che diramano comunicati sempre e comunque elogiativi, qualsiasi sia l’iniziativa di cui si dà notizia. Una volta per sapere se uno spettacolo teatrale, un film, un disco erano di valore sfogliavamo giornali e riviste o ascoltavamo autorevoli voci tele o radio foniche. Oggi ci dobbiamo fidare della grande promessa (mancata?) dei social, su cui chiunque (appunto: chiunque!) può emettere giudizi motivati e immotivati, pertinenti o impertinenti. Che cosa è successo? Che qualcuno ha deciso che siamo utenti troppo distratti e distraibili per poter essere interessati a un ragionamento critico. E più di qualcuno di noi gli ha creduto. In terra friulana poi, va detto che chi lavora di e con la cultura in genere fatica a sbarcare lunario; la torta è piccola e per potersela spartire è necessario occupare e presidiare gli spazi anche informativi per dare visibilità a ciò che si fa. Oltre a ciò la cultura è (anche fortunatamente) un fiore all’occhiello di chi amministra: giocoforza tutto ciò che è sostenuto e patrocinato dall’istituzione è di indiscutibile valore. L’istituzionalizzazione della cultura ha potenziato e diffuso il criterio dell’evento (festival e affini) promosso dalle istituzioni pubbliche e benedetto dagli sponsor, in cui prevale inevitabilmente la dimensione del consumo e dell’intrattenimento rispetto a quella dell’interrogazione e della consapevolezza critica. Aggiungiamo che autori e operatori non percepiscono più la critica come contributo a una crescita, ma come un fastidio. Di chi è la colpa? Di una critica spocchiosa e pedante, acida e parziale? Di chi gestisce il potere e decide a prescindere chi vale e chi no? O non è forse vero che abbiamo tutti perso l’educazione a uno spirito critico globale? Fosse vero (e forse lo è) vorrebbe dire che non ci siamo ancora accorti che non siamo noi a gestire il telecomando, ma che c’è qualcuno che telecomanda noi.


TAMTAM

Per un sogno che muore, un sogno nascerà

La lista delle cose da non dire mai ad un ragazzo per fargli detestare la cultura, i libri e la musica

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Chiara Gazziero

empre più spesso noi giovani veniamo accusati di non amare particolarmente la lettura, di essere superficiali nei confronti della buona musica e, come se non bastasse, di non interessarci quanto servirebbe all’arte. Questo non può essere smentito completamente, ma a nostra discolpa possiamo dire che non sempre veniamo incuriositi e invogliati nel tuffarci nel meraviglioso mondo delle cultura. Ecco a voi la lista delle cose da non fare e da non dire se tenete al nostro patrimonio culturale. 1. Per iniziare, presentare ad un adolescente un libro che conta le pagine di un dizionario bilingue non è sicuramente un buon atteggiamento per avvicinarlo alla lettura 2. In classifica segue il momento in cui il professore, allo scoccare delle vacanze estive, estrae la lista con tutti i romanzi che l’alunno dovrà affrontare durante i tre mesi successivi. Obbligare un ragazzo a leggere qualcosa è il miglior modo perché quest’ultimo non lo faccia. 3. “Non hai visto quel film? Allora è inutile parlarne, non potresti capire!”Non può mancare questa classifica frase, che scatena il disprezzo di un qualsiasi giovane verso l’opera in questione. 4. Ciò che appare all’occhio di un giovane come ovvio, giá detto, scontato e noioso.. Perché per interessarsi di qualcosa deve sempre entrare in gioco la novità. 5. Ultimo, ma non per importanza, non bisogna per nessun motivo al mondo svelare il finale di un libro o spifferare quello di un film. Questo perché noi ragazzi amiamo svestire da soli ogni opera da ciò che la veste. Facendo questo scopriamo anche lati di noi che non conoscevamo, che ci appassionano, che ci fanno crescere, che ci fanno vivere. Ecco, questo vogliamo, vogliamo vivere. Questo ci interessa, ci rende curiosi di scoprire, di leggere, di ascoltare musica, di guardare, di fare qualsiasi cosa; basta che in questo ci sia VITA. Lo stato delle cose

Magic Bus

U

Alessandro Venier

n giovedì di marzo il ragazzo di Rigolato salì sull’Autobus. Aveva il brutto vizio di arrivare sempre in anticipo e così strinse le braccia al petto per custodire il tepore nello stesso modo in cui si custodisce un pensiero. La strada era ghiacciata e l’autobus era in ritardo, come la primavera. Ogni giorno, alle 14:24, l’autobus raggiunge la piazza di Rigolato. Il suo viaggio inizia da lontano, come i sogni migliori. Parte da Sappada e collega la Carnia al porto sicuro, alla Tolmezzo delle tentazioni, per poi proseguire per Udine e forse per altrove. Dopo qualche minuto di attesa, il ragazzo salì sull’autobus con il sorriso della consapevolezza. Lo chiamava Magic Bus perché era un autobus diverso. Lo chiamava Magic Bus perché anche quel giovedì, come tutti i giovedì dell’anno, l’autobus avrebbe portato il ragazzo al cinema. Salutò l’autista dalla pelle scura e dalle bretelle chiare, e si sedette accanto a un signore non troppo anziano, nascosto sotto la sua sciarpa rossa e il cappello nero. Si sedette lì perché la madre gli aveva insegnato a evitare i posti in fondo, dove i bulli facevano confusione. Si voltò per guardare verso la fine dell’autobus e vide due signori non troppo alti dall’aria giovane, vestiti con abiti senza colore. Il più basso aveva degli strani baffetti e piedi troppo grandi. L’altro uno strano cappello che gli ricordava quello dei gondolieri veneziani. Vide che si prendevano in giro, ma non gli parve di sentire rumore. L’unico suono che percepì era, a ogni curva, lo svolazzare del vestito bianco di una ragazza bionda seduta poco più in là. E in questa assenza di rumore, da non confondere con il silenzio, il ragazzo si addormentò.

ginò il buio che conosceva prima di un film ancora sconosciuto. Passò un istante lungo e breve, ma le porte non si aprirono. Il ragazzo si girò. “Non posso farti scendere”. “Io devo andare al cinema”, disse il ragazzo. “Lo so” rispose l’autista “ma il cinema a Tolmezzo non esiste più. Lo hanno chiuso. Dicono che le cose stanno cambiando, ma non sono ancora cambiate mica tanto”. Il ragazzo si morse il labbro e si sedette di nuovo al suo posto. Il signore con la sciarpa rossa lo osservò ma non disse nulla. Nessuno all’interno dell’autobus parlò. La confusione silenziosa dei bulli in fondo al veicolo smise di essere silenziosa e iniziò a fare rumore. Il vestito bianco della ragazza bionda, a ogni curva, smise di svolazzare. La sciarpa rossa del signore sbiadì, e il rosso divenne altro. Alle porte di Udine, l’autobus si fermò. Il ragazzo guardò fuori dal finestrino e vide un grande centro commerciale con l’insegna cinema. “Vieni con me. Ti faccio vedere una cosa” disse il signore con la sciarpa rossa. “Questa è la fermata tra la otto e la nove?” rispose il ragazzo. “No” sorrise il signore “e non lo sarà mai”. I due scesero dall’autobus e entrarono nel centro commerciale. Arrivarono all’ingresso del cinema camminando su un pavimento bianco che scricchiolava sotto i piedi ed emanava un odore ora dolce, ora salato. Si fermarono dietro ad una folla armata di scatole contenenti pezzi di pavimento. “Guarda all’interno. Riesci a vedere il cinema?” disse il signore con la sciarpa rossa. “Non ci riesco” disse il ragazzo e indicò con la mano un gigantesco comico televisivo di cartone. Il signore con la sciarpa rossa annuì al ragazzo. I due uscirono dal centro commerciale e videro che l’autobus era ancora lì. Le porte si aprirono e l’autista sorrise. Il ragazzo di Rigolato e il signore con la sciarpa rossa si sedettero al loro posto e il Magic Bus ripartì. Fuori fuoco - (S)Vista sul Friuli

A volte accade Maria Ariis

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atale è tempo di regali. Quest’anno uno dei più graditi mi è arrivato dall’amica Carla Manzon. Si tratta di una pubblicazione, promossa dall’associazione pordenonese Thesis, che raccoglie i contributi scritti di diversi studenti sugli spettacoli della stagione teatrale 2014\2015 di Pordenone, Casarsa, San Vito e Sacile. Il corposo libro è la tappa finale della diciassettesima edizione del progetto “Adotta uno spettacolo”, finalizzato all’educazione teatrale per la scuola superiore e di cui Carla è curatrice e responsabile. Scorro le quasi trecento pagine e trovo il mondo caldo e variegato degli adolescenti, un mondo a volte un po’ incasinato, ma sempre prepotentemente vivo. Usano mezzi espressivi diversi, legati al loro quotidiano modo di comunicare: la recensione strutturata si accompagna al rap, alla fotografia, all’illustrazione grafica. Mentre leggo, mi scopro a sorridere. Un sorriso di gratitudine e nostalgia. Gratitudine nel trovare, tra le parole dei ragazzi, dei tasselli di pensiero libero e lucidamente anti-retorico, anche nei commenti negativi. Come Daniele che di Goldoni non ne può più e guarda l’orologio in attesa che cali finalmente il sipario o Andrea che si sente offeso per il modo in cui vengono ritratti i suoi coetanei nella pièce a cui assiste. Ma poi c’è anche Gea che, presa dallo spettacolo, per più di un’ora non sente bisogno di fiatare e alla fine si ritrova “con più fiato di prima” e Giacomo che scrive: “Questa notte il pubblico è stato protagonista fino al collo, fisicamente e spiritualmente”. Ecco: è questo approccio fisico che mi piace. Il teatro è uno spazio, uno dei pochi, uno degli ultimi, in cui persone sconosciute si incontrano e si trasmettono pensieri, emozioni. Un percorso biunivoco, dal palco alla platea e viceversa. E quando questo movimento fluido si compie, l’applauso finale non è rivolto solo agli interpreti, ma all’intera piccola comunità radunata in quello spazio, che ringrazia se stessa per essersi

Per Tolmezzo non mancava molto e il signore non troppo anziano con la sciarpa rossa diede una pacca sulla spalla del ragazzo. “Siamo quasi arrivati” disse. “Anche lei scende a Tolmezzo?” rispose il ragazzo. “Io no. Scendo dopo, alla fermata numero 8”. “Non sapevo che le fermate avessero un numero”. “In realtà ho un accordo con l’autista, ci conosciamo da troppo tempo. Scendo a metà tra l’ottava e la nona”. Il ragazzo non aggiunse altro e si alzò per guadagnare l’uscita dall’autobus. L’autista frenò, l’autobus si fermò. Passò un istante lungo e breve. Quel momento in cui attese che le porte si aprissero, lo riportò indietro nel tempo, alle feste di compleanno, a quell’istante in cui gli invitati stanno per arrivare e la meraviglia sta per iniziare. Quella attesa per il cinema, ogni giovedì, aveva questo sapore. Immaginò la coda, la cassiera, il sorriso gentile con cui avrebbe accettato il resto dovuto e il biglietto strappato. Imma-

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lasciata andare a un’esperienza che coinvolge il corpo e l’anima. Lasciarsi andare. Questa è la componente nostalgica del suddetto sorriso: il ricordo di me spettatrice adolescente, già infettata dal benefico virus del teatro e quello scatenamento di adrenalina, quella leggera aritmia cardiaca che provavo nell’istante in cui si spegnevano le luci in sala e iniziava l’altro mondo. Lo spettacolo. Mi chiedo se forse non sia il caso, per noi che operiamo nel campo teatrale, di toglierci gli scarponi delle conoscenze acquisite (strumenti utili, certo, ma rigidi e desensibilizzanti) e camminare scalzi nel sentiero della fruizione spettacolare, sentendo i sassi sotto i piedi. Vivere senza filtri il rapporto tra artisti e spettatori è il modo migliore per poter poi, rivestiti i panni delle proprie competenze professionali, raccontare criticamente l’esperienza. Perché questo dovrebbe essere il teatro, non solo un prodotto da consumare. A volte accade. Questi ragazzi ce lo ricordano. Chi crede nella telecinesi mi alzi man

Odi e Tam T’amo del Pelide lettor l’ira funesta

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Manuela Malisano

l colle resta sempre ermo, il ramo è dello stesso lago, il balcone sempre quello di un amore sfortunatissimo, eccole lì le pillole di saggezza letteraria per i classici, ma che ve lo dico a fare ssiori e ssiore, anche le novità hanno le loro disgrazie, ne sapete qualcosa vero? Dai che vi si leggeva in faccia a Natale: “cos’è ‘sta roba?” mentre scartavate quel bel libro, ecco magari bel è un parolone, per non dire una parolaccia vero? Ebbene sì anche nei libri il regalo urendo è dietro l’angolo, proprio dietro, giusto sotto quella bella carta luccicante che si scarta con tanta attesa, ma non temete è accaduto a tutti! Un bell’Adelphi? ehm, no, un’edizione illeggibile... una bella edizione di Anna Karenina? eee, no, una fascina di sfumature di una russa misconosciuta, e ora? Come agire? Ringraziare innanzitutto, che ve lo dico a fare, eppoi farsi venire un’idea per trasformare il regalo errato in un dono azzeccato, sì, ma come? Ecco allora alcuni trucchi salva libro dono, uno al dì per ogni dì. 1 “L’hai letto? “al fatidico “non ancora” prestarlo forzatamente al donante perchè “ho ancora tanti libri da leggere, goditelo tu intanto” dato che si sa ogni scarrafone e bello a mamma soja e la saggezza popolare non sbaglia. 2 “L’hai letto?” al temuto “sì” prestarlo forzatamente al donante bis “ho ancora tanti libri da leggere e Calvino diceva che un classico non ha mai finito di dire quello che ha da dire”, perchè la citazione è quella ciliegina che non stroppia e ci sta sempre bene (eppoi Calvino, dai, eh) 3 Assaggiarlo da metà circa “in medias res” o dalla fine “dulcis in fundo” , (la saggezza popolare non sbaglia bis) “il veleno è nella coda” dite? non sottilizziamo, non per nulla i serpenti non si sono diffusi quali animali domestici. 4 Allestire un club del libro con lettori che vi stanno antipatici, ma attenzione, chi la fa... (saggezza popolare ter). 5 Donarlo alla biblioteca del vostro comune, ricordate: il fegato fa orrore a molti, ma alcuni lo gradiscono grandemente con le cipolle, di certo incontrerà il gusto di un altro lettore che ben felice lo leggerà con una tazza di tè caldo davanti al caminetto (no, gettarlo nel caminetto NON è una buona soluzione!) 6 Leggerlo! L’abito non sempre fa il monaco e se lo farà, beh, non è mai troppo presto per iniziare a pensare ai regali di Natale... p.s. Non riutilizzarlo come regalo ripiego verso un non lettore perchè “tanto non lo leggerà” se mai deciderà di farlo sarà un potenziale lettore perso per sempre e voi che amate leggere non potete compiere un lettoricidio, vero?

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