


Il tema di questo mese è l’attesa. E quale immagine meglio di questa che rappresenta la gravidanza? La foto è di Janko Ferlik.
Testata giornalistica registrata
presso il Tribunale di Milano: n°258 del 17/10/2018 ANNO 6, n.9
“Amoglianimali” Bellezza
Da leggere (o rileggere)
Da vedere/ascoltare
Di tutto e niente
Il desco dei Gourmet
Il personaggio
Il tempo della Grande Mela
Comandacolore
Incursioni
In forma
In movimento
Lavori in corso
Primo piano
Salute
Scienza
Sessualità
Stile Over
Volontariato & Associazioni
Minnie Luongo
Marco Rossi
Alessandro Littara
Antonino Di Pietro
Mauro Cervia
Andrea Tomasini
Paola Emilia Cicerone
Flavia Caroppo
Marco Vittorio Ranzoni
Giovanni Paolo Magistri
Maria Teresa Ruta
Attilio Ortolani
Sito web: https://generazioneover60.com/ Email: generazioneover60@gmail.com
Issuu: https://issuu.com/generazioneover60
Facebook: https://www.facebook.com/generazioneover60
Youtube: https://www.youtube.com/channel/generazioneover60
Classe 1951, laureata in Lettere moderne e giornalista scientifica, mi sono sempre occupata di medicina e salute preferibilmente coniugate col mondo del sociale. Collaboratrice ininterrotta del Corriere della Sera dal 1986 fino al 2016, ho introdotto sulle pagine del Corsera il Terzo settore, facendo conoscere le principali Associazioni di pazienti.Ho pubblicato più libri: il primo- “Pronto Help! Le pagine gialle della salute”- nel 1996 (FrancoAngeli ed.) con la prefazione di Rita Levi Montalcini e Fernando Aiuti. A questo ne sono seguiti diversi come coautrice tra cui “Vivere con il glaucoma”; “Sesso Sos, per amare informati”; “Intervista col disabile” (presentazione di Candido Cannavò e illustrazioni di Emilio Giannelli).
Autrice e conduttrice su RadioUno di un programma incentrato sul non profit a 360 gradi e titolare per 12 anni su Rtl.102.5 di “Spazio Volontariato”, sono stata Segretario generale di Unamsi (Unione Nazionale Medico-Scientifica di Informazione) e Direttore responsabile testata e sito “Buone Notizie”.
Fondatore e presidente di Creeds, Comunicatori Redattori ed Esperti del Sociale, dal 2018 sono direttore del magazine online Generazioneover60.
Quanto sopra dal punto di vista professionale. Personalmente, porto il nome della Fanciulla del West di Puccini (opera lirica incredibilmente a lieto fine), ma non mi spiace mi si associ alla storica fidanzata di Topolino, perché come Walt Disney penso “se puoi sognarlo puoi farlo”. Nel prossimo detesto la tirchieria in tutte le forme, la malafede e l’arroganza, mentre non potrei mai fare a meno di contornarmi di persone ironiche e autoironiche. Sono permalosa, umorale e cocciuta, ma anche leale e splendidamente composita. Da sempre e per sempre al primo posto pongo l’amicizia; amo i cani, il mare, il cinema, i libri, le serie Tv, i Beatles e tutto ciò che fa palpitare. E ridere. Anche e soprattutto a 60 anni suonati.
è presidente della Società Italiana di Sessuologia ed Educazione Sessuale e responsabile della Sezione di Sessuologia della S.I.M.P. Società Italiana di Medicina Psicosomatica. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e come esperto di sessuologia a numerosi programmi radiofonici. Per la carta stampata collabora a varie riviste.
è un’autorità nella chirurgia estetica genitale maschile grazie al suo lavoro pionieristico nella falloplastica, una tecnica che ha praticato fin dagli anni ‘90 e che ha continuamente modificato, migliorato e perfezionato durante la sua esperienza personale di migliaia di casi provenienti da tutto il mondo
PLASTICO presidente Fondatore dell’I.S.P.L.A.D. (International Society of PlasticRegenerative and Oncologic Dermatology), Fondatore e Direttore dell’Istituto Dermoclinico Vita Cutis, è anche direttore editoriale della rivista Journal of Plastic and Pathology Dermatology e direttore scientifico del mensile “Ok Salute e Benessere” e del sito www.ok-salute.it, nonché Professore a contratto in Dermatologia Plastica all’Università di Pavia (Facoltà di Medicina e Chirurgia).
è sicuramente il più conosciuto tra i medici veterinari italiani, autore di manuali di successo. Ha cominciato la professione sulle orme di suo padre e, diventato veterinario, ha “imparato a conoscere e ad amare gli animali e, soprattutto, ad amare di curare gli animali”. E’ fondatore e presidente della Onlus Amoglianimali, per aiutare quelli più sfortunati ospiti di canili e per sterilizzare gratis i randagi dove ce n’è più bisogno.
giornalista scientifico, dopo aver girovagato per il mondo inseguendo storie di virus e di persone, oscilla tra Roma e Spoleto, collaborando con quelle biblioteche e quei musei che gli permettono di realizzare qualche sogno. Lettore quasi onnivoro, sommelier, ama cucinare. Colleziona corrispondenze-carteggi che nel corso del tempo realizzano un dialogo a distanza, diluendo nella Storia le storie, in quanto “è molto curioso degli altri”.
classe 1957, medico mancato per pigrizia e giornalista per curiosità, ha scoperto che adora ascoltare e raccontare storie. Nel tempo libero, quando non guarda serie mediche su una vecchia televisione a tubo catodico, pratica Tai Chi Chuan e meditazione.
Per Generazione Over 60, ha scelto di collezionare ricordi e riflessioni in Stile Over.
Barese per nascita, milanese per professione e NewYorkese per adozione. Ha lavorato in TV (Studio Aperto, Italia 1), sulla carta stampata (Newton e Wired) e in radio (Numbers e Radio24). Ambasciatrice della cultura gastronomica italiana a New York, ha creato Dinner@Zia Flavia: cene gourmet, ricordi familiari, cultura e lezioni di vera cucina italiana. Tra i suoi ospiti ha avuto i cantanti Sting, Bruce Springsteen e Blondie
Milanese DOC, classe 1957, una laurea in Agraria nel cassetto. Per 35 anni nell’industria farmaceutica: vendite, marketing e infine comunicazione e ufficio stampa. Giornalista pubblicista, fumatore di Toscano e motociclista della domenica e -da quando è in pensione- anche del lunedì. Guidava una Citroen 2CV gialla molto prima di James Bond.
COMANDACOLORE è uno Studio di Progettazione Architettonica e Interior Design nato dalla passione per il colore e la luce ad opera delle fondatrici Antonella Catarsini e Roberta D’Amico. Il concept di COMANDACOLORE è incentrato sul tema dell’abitare contemporaneo che richiede forme e linguaggi mirati a nuove e più versatili possibilità di uso degli spazi, tenendo sempre in considerazione la caratteristica sia funzionale che emozionale degli stessi.
MONICA SANSONE VIDEOMAKER
operatrice di ripresa e montatrice video, specializzata nel settore medico scientifico e molto attiva in ambito sociale.
-10-
Generazione F Odio l’attesa
Editoriale di Minnie Luongo
-11Foto d’autore
Ingannando l’attesa
Di Francesco Bellesia
-13-
Versi Di...versi
L’attesa
Di Bruno Belletti
-15-
Stile Over
Quando aspettare era la norma Di Paola Emilia Cicerone
-18Psicologia
Attesa, pazienza, ansia e insofferenza
Di Rosa Mininno
-20Riflessioni
Il sabato del villaggio… o lo scemo, del villaggio?
Di Federico Maderno
-25-
Da leggere (o rileggere)
Hai mai aspettato la focaccia?
Di Amelia Belloni Sonzogni
-31-
Da vedere/ascoltare
Una mostra dedicata all’intramontabie bambola Barbie
Di Paola Emilia Cicerone
-35Benessere
Nuovo Yakult Plus Pesca: i benefici di sempre con un gusto tutto nuovo A cura della Redazione
-37Salute
L’attività fisica è come un farmaco
Di Davide Integlia
Al momento di proporre il tema del mese non avevo realizzato che mi sarebbe toccato scrivere l’Editoriale. Beh, che c’è di strano? Il fatto è che non c’è nulla che io odi al mondo tanto quanto l’attesa. Sì, se Bruno Martino nel 1960 cantava “Odio l’estate”, io urlerei da mattina a sera la mia repulsione per l’attesa. Non quella dei ritardi in aeroporto o altrove( fanno parte del viaggio, e sono sempre occasione per conoscere persone, osservare situazioni o semplicemente meditare), né quella dell’attesa in coda in posta o altrove....No, io mi riferisco a quella di una telefonata, di una mail, di una risposta.
E quindi basta così. All’odiato argomento ho dedicato anche troppo tempo. Per fortuna i miei validi collaboratori hanno approfondito e sviscerato il tema da più punti di vista. Un grazie di cuore a tutti!
Questo recentissimo scatto di Francesco Bellesia, intitolato “Ingannando l’attesa”, fotografa alla perfezione l’atmosfera che si respira soprattutto durante i trasferimenti di un viaggio, forse all’interno di un traghetto. L’abilità di Bellesia è, anche, la capacità di cogliere al volo situazioni curiose come questa: un bambino immerso in un computer o uno smartphone, mentre la mamma al suo fianco gusta ad occhi chiusi un sapore antico come quello dello zucchero filato.
Sono nato ad Asti il 19 febbraio del 1950 ma da sempre vivo e lavoro a Milano. Dopo gli studi presso il liceo Artistico Beato Angelico ho iniziato a lavorare presso lo studio di mio padre Bruno, pubblicitario e pittore. Dopo qualche anno ho cominciato ad interessarmi di fotografia, che da quel momento è diventata la professione e la passione della mia vita.
Ho lavorato per la pubblicità e l’editoria ma contemporaneamente la mia attenzione si è concentrata sulla fotografia di ricerca, libera da vincoli e condizionamenti, quel genere di espressione artistica che oggi ha trovato la sua collocazione naturale nella fotografia denominata FineArt.
Un percorso parallelo che mi ha consentito di crescere e di sviluppare il mio lavoro, una sorta di vasi comunicanti che si sono alimentati tra di loro. Molte sono state le mostre allestite in questi anni e molte le manifestazioni alle quali ho partecipato con premi e riconoscimenti.
Continuo il mio percorso sempre con entusiasmo e determinazione… lascio comunque parlare le immagini presenti sul mio sito.
Ecco il mistero, che sorge impetuoso dai foschi anfratti del mio essere solo, e solo l’attesa del tuo apparirmi, non so quando, né dove,
guida i miei passi malfermi, mi induce a scrutare ogni spiraglio di luce albeggiante. Non ti conosco ma so che ci sei, come una fata bizzarra avvolta nel velo che occulta le vere occasioni. Tendo a te e sono foglia sospinta dal maestrale del mio desiderio.
Non sappiamo più attendere, senza sapere quanto invece serva…
Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica
Foto di Alberto Sharif (da Unsplash)
“Conta fino a dieci, prima di…”rispondere, arrabbiarti, in generale fare qualcosa. Ci siamo cresciuti, con questa frase: nella società in cui siamo nati l’impulsività non era una virtù, e ponderare su qualcosa era quasi sempre la scelta più saggia. E noi eravamo abituati ad aspettare: non c’erano app che ci consentissero di arrivare alla fermata un attimo prima dell’autobus, o di saltare la coda alla posta Né messaggistiche istantanee : le persone potevano essere irraggiungibili per ore, e succedeva di incontrarsi più o meno casualmente “al solito posto” . Oppure di aspettare la familiare scampanellata che annunciava un amico, o ritrovarsi a guardare il telefono, sapendo benissimo che quello era il modo più sicuro per continuare a sospirare una chiamata che sarebbe arrivata non appena fossimo andate in bagno, o avessimo messo una pentola sul fuoco .
Lo stesso valeva per una serie di esperienze piacevoli che ci venivano fatte sospirare: dai dolci – che arrivavano la domenica o in occasione di compleanni o altre ricorrenze – al permesso di fare un acquisto importante, rimanere fuori fino a tardi o indossare una gonna un po’ più corta del solito. Certo, c’era sempre la possibilità di trasgredire i divieti, o cambiarsi in ascensore appena uscite da casa. Comunque sia, eravamo allenati: un allenamento che tornava utile quando, arrivati al liceo pronti a sognare sui versi di Catullo o di Saffo, e ci trovavamo a compitare elenchi di “rosa rosae” o di paradigmi greci. Perché in genere per arrivare a un’esperienza gratificante – si tratti di conoscere una lingua, di praticare uno sport o di suonare uno strumento- è inevitabile passare da una fase di apprendimento che può essere noiosa e ripetitiva. E diventa sopportabile solo se impariamo ad accettare un percorso faticoso, anche se con i suoi momenti belli, e a rinviare le gratificazioni.
Ad attendere si impara: è un processo graduale, che va di pari passo con lo sviluppo della nostra corteccia frontale e si conclude, secondo le ricerche più recenti, intorno ai venticinque anni. I neonati non sono capaci di attendere – basta pensare ai loro pianti disperati quando hanno fame o sonno – ma vari studi dimostrano che bambini anche molto piccoli possono imparare a farlo. E insegnarglielo fa, o farebbe, parte dei compiti di un genitore, oltre a essere un utile allenamento all’autocontrollo che serve poi, nella vita, a superare la frustrazione delle attese.
Intendiamoci, ci sono attese che fanno male, come quella dei risultati di un esame clinico: è giusto ricordare che per chi sta male il tempo sembra non passare mai. Ma ci sono attese belle, come quelle, accompagnate dalla fatica, di chi suda su un sentiero di montagna attendendo di pregustare il panorama che lo aspetta. O quelle scandite dai rituali che accompagnano la storia dell’umanità: pensiamo al fascino che ha, anche per chi non è credente, un calendario dell’Avvento o i preparativi di qualunque ricorrenza.
Foto di Elena Mozhvilo (da Unsplash)
” Colui che attende trova” ricorda lo psicoanalista Masud R. Khan. E’ difficile convincersene oggi che viviamo come eterni adolescenti nell’epoca del tutto e subito e del “ tempo reale” : tutto ciò di cui abbiamo bisogno è a portata di mano, o meglio di mouse . E questo ci rende insofferenti : secondo uno studio inglese in genere ci mettiamo otto minuti a perdere la pazienza, e quando siamo davanti al computer la soglia di sopportazione non supera il minuto
Certo, in genere quello che desideriamo arriva – sia un libro o un film da scaricare, la puntata on demand della serie che amiamo o un messaggio atteso che mail e app ci consegnano appena inviato – ma siamo sicuri che tutto questo non ci faccia perdere qualcosa? Sappiamo che attendere allena la nostra capacità di tollerare imprevisti, e spesso si porta dietro la noia, di cui ormai conosciamo il potere di sviluppare riflessioni creative.
Oggi ci sono studi che mostrano i vantaggi dell’attesa per la nostra psiche, ma già Il sabato del villaggio ci ricordava che la vigilia è spesso più piacevole dell’evento stesso. E non serve il pessimismo leopardiano per costatare che può essere così, perché attendendo una ricorrenza possiamo immaginarla come più ci è gradito, e nell’immaginazione niente può andare storto.
Proviamo a pensarci per un attimo sul quel sentiero di montagna: siamo sicuri che il panorama ci emozionerebbe allo stesso modo se potessimo raggiungerlo senza sforzo, e che l’acqua fresca che esce – finalmente!da una fontana raggiunta con fatica non ci sembri migliore di quella che esce da un distributore automatico?
PS nella mia esperienza, c’è almeno un caso in cui questa regola non vale, ed è il “ dopo” un evento piacevole: la gioia di consumare in compagnia, senza ansie o formalità, ciò che è rimasto del pranzo preparato con cura per un’occasione importante, o di ritrovare il nostro divano dopo una passeggiata impegnativa, per ripercorrere nella mente i bei momenti trascorsi.
ATTESA, PAZIENZA, ANSIA E INSOFFERENZA
Il tempo è fonte d’inquietudine, sempre più spesso e a mano a mano che si procede con l’età. E pensare che parliamo di un’invenzione umana…
Di Rosa Mininno - Psicologa Psicoterapeuta, Biblioterapeuta
In tanti contesti può essere declinata l’attesa e, a seconda del contesto, mettere alla prova la nostra pazienza o vivere inquietudine, ansia e insofferenza.
L’ attesa di qualcuno? Di una risposta? Di un lavoro? Di un referto? Di una visita? Di un autobus, di un treno, di un volo? Ma anche del sonno. Anche di un amore, anche se si è in là con gli anni e pieni di disillusioni e scarsi di speranza.
Pazienza…sempre troppo poca, bruciata dall’insofferenza che può attanagliare l’animo, la mente e restringere il campo del nostro sguardo interiore senza riuscire a vedere l’orizzonte.
L’ attesa logora il corpo che non riesce, dopo un po’ di tempo, a stare fermo.
L’attesa è lenta, terribilmente lenta e quando si è in ansia per una risposta, un referto i minuti diventano ore, le ore giorni interi e i giorni sembrano anni in una dilatazione del tempo che gonfia il cuore e oscura la mente.
“Ingannare il tempo”, quante volte lo sentiamo e l’abbiamo sentito dire e cosa vuol dire? Fare. Fare qualcosa per non concentrarsi sull’attesa, sul tempo: leggere, chiacchierare con altre persone, in attesa pure loro, ascoltare musica, disegnare, scrivere, giocare o guardare, osservare come faccio io, soprattutto quando viaggio. Così io inganno l’attesa di un arrivo durante un viaggio guardando dal finestrino scorrere il paesaggio, ricordando tratti già visti in altri viaggi, scoprendone sempre di nuovi.
Osservo le persone mentre aspettiamo il nostro turno per una visita medica, per ritirare un referto, per fare un’operazione in banca, per la fila alle poste o in altri uffici E se si tratta di salute certo l’ansia, più o meno intensa, si fa strada in ciascuno. Ma se si tratta di attesa nel traffico, attesa negli uffici, l’insofferen -
za prende piede e si fa sentire e ci spazientiamo perché il tempo non passa mai. Invece il tempo, questa incredibile invenzione umana, giacché il tempo in sé non esiste, scorre veloce e da giovani ci ritroviamo anziani, anche se è difficile ammettere di esserlo . Magari “dentro” ci sentiamo ancora trentacinquenni perché abbiamo una mente vivida, attiva, creativa, efficiente, ma è il corpo che ci tradisce: si affatica, è più lento nei movimenti, si ammala più facilmente, dormiamo poco perché anche l’insonnia si fa strada e l’attesa del sonno che non arriva ci rende insofferenti.
Vorremmo sognare sogni belli e invece siamo disillusi e iniziamo ad avere paura di rischiare di entrare in quella trappola mentale e annientante che è l’attesa del sonno eterno che ci porterà via tutti da questa terra. Come affrontare questa attesa? Ingannando il tempo e noi stessi o semplicemente vivendo consapevolmente ogni momento della nostra vita lasciando traccia del nostro passaggio? Noi camminiamo sulle orme di chi ci ha preceduti e lasciamo le nostre orme per chi verrà dopo di noi .
La vita è un’attesa, una partenza, una fermata e una ripartenza . Ma c’è anche chi per paura di vivere aspetta, fermo, immobile nei suoi rimuginii aspettando Godot.
E c’ è chi ,invece, spera in una vita migliore e agisce. Non è in attesa di qualcosa o di qualcuno, crede in se stesso e negli altri e agisce, vive la sua vita con consapevolezza.
Non è un caso che si dica “in dolce attesa” quando una donna aspetta un bambino. Solo nove mesi di attesa per fare un nuovo essere umano.
Attesa, appunto. Una vita.
Dalla chiara fama alla fame chiara
Di Federico Maderno – scrittore
Oh, quanto aveva ragione il buon Giacomo! Cosa ci riserva il domani? Delusioni, affanni, quasi certamente fatiche e privazioni. E dunque, come non seguire il consiglio del Poeta di Recanati e cercare nell’oggi la serenità e insieme la speranza del futuro, prima che cadano le illusioni e la realtà si manifesti in tutta la sua tragica crudeltà?
Di chi stiamo parlando?
Del lavoratore attempato, naturalmente. In particolare, di quel pollo che credendo di far cosa buona e giusta, di far virtù del suo impegno e dell’amore per la cultura, si è lasciato attirare dalle sirene dell’Università. Sì, perché oggi, per la serie “chi è causa del suo mal pianga se stesso, chi è vittima dell’altrui mal è comunque un fesso”, facciamo due conti in tasca a molti laureati del Bel Paese. Intendiamoci: si tratta di conteggi materialistici, brutali, per niente poetici, ma è necessario che qualcuno, prima o poi, lanci un avvertimento a quanti non hanno ancora sbagliato.
Dunque, mi scuserete, questa volta niente prosa poetica, niente invenzioni argute, niente “als ellenico”, niente dispiegar d’ali sulle vette del Parnaso.
Oggi, ci mettiamo il berretto (ammesso che ne abbiano uno) dei commercialisti e tiriamo fuori tutto il bieco razionalismo della nostra formazione ingegneristica.
Ebbene, i conti, magari un po’ semplicistici, certo privi di certe finezze da economista, sono presto fatti.
Partiamo dalla materia prima, ossia appunto da un ragazzo di belle speranze che ha faticato tanto per conseguire un diploma. Un suo amico ha già scelto diversamente. Il poverino, strappato ai balocchi dell’infanzia, si è trovato un’occupazione alla tenera età di quindici anni. Certo, si tratta di un lavoro da garzone, magari. Molto sudore e poche soddisfazioni economiche (in apparenza). Però, così giovane, a fine mese si ritrova già qualche soldo da spendere.
Il suo amico studente cosa fa, nel frattempo? Studia, appunto. Ossia, per quanto se ne dica altrimenti, non frequenta il paese di cuccagna, non fa il perditempo nei baretti del paese. Ma se è serio, come dobbiamo presumere, ha anche gli impegni di studio pomeridiani. Se gli va bene, riesce a ottenere la paghetta di mamma o di nonna e a fine settimana, se è parsimonioso, può scapparci anche una pizza (mezza se provvisto di anima gemella). Intanto, la famiglia deve mantenerlo (libri, vestiti, trasporti, cure, vettovagliamenti…). Facendo un calcolo approssimativo, si può pensare che il mantenimento di uno studente in età adolescenziale (medie superiori) si aggiri sui 4000 euro all’anno. Che per i cinque anni canonici fanno 20.000 euro tondi tondi. Li accantoniamo un attimo e passiamo oltre.
Ecco che, dopo il diploma, a qualcuno viene la bella idea di fare la scelta universitaria. Ora, dicono sempre le statistiche che il 50% degli studenti universitari è “fuori sede”. Per forza, del resto. L’Italia è fatta per lo più di minuscoli paesi o da città di medie e piccole dimensioni, rarissimamente fornite di un ateneo. Dunque, occorre calcolare il nuovo esborso per i 5 anni curricolari (ma bastano?).
Presto fatto: tasse universitarie 2000 euro, trasporti locali 400 euro, affitto di una camera/loculo 2500 euro, vitto 3500 euro, pubblicazioni universitarie, fotocopie, cancelleria, computer 600 euro. Ovviamente, restano le spese fisse per cure, vestiario eccetera. Ma il ragazzo è giovane e pieno di salute e le magliette e le scarpe ce le facciamo passare da Gigi, il cugino maggiore.
Quanto sopra, sia ben chiaro, per ogni anno di frequenza; che vuol dire a fine corso 45.000 euro di “investimento”. Che sommati a quelli già impiegati alle superiori fanno 65.000 euro.
Intanto, l’amico ex quindicenne ha già 10 anni di esperienza lavorativa ed altrettanti di contributi previdenziali. Ma lui insiste, il laureato. Mettiamo il caso che gli venga la malaugurata idea di diventare insegnante. Del resto, se scemo è, è bene che lo sia fino in fondo.
Lo aspettano, allora, una media di sette anni di precariato, pagato al minimo, senza avanzamento di carriera e con probabilissimi “buchi” contributivi.
Poi, per ambire ad un impiego a tempo indeterminato, altre spese per crediti formativi (60 crediti universitari ormai obbligatori costano altri 2500 euro), concorsi (magari, lui che è poniamo il caso di Bolzano deve andare a sostenerli a Napoli, e sono altri 500 euro). Se gli va bene, alla fine diventa di ruolo nella sua provincia, ma meglio mettere in conto un altro paio di anni fuori sede (facciamo altri 10.000 euro di spese extra). E con questo, è arrivato all’agognata meta.
Tiriamo un po’ le somme e scopriamo che ha sborsato 78.000 euro, mentre se si fa un po’ di conti sulle entrate, può ritenersi fortunato se è arrivato a 130.000. Bilancio totale provvisorio: ha guadagnato, al netto, 52.000 euro, ha più o meno 33 anni di età e circa 6 anni di contributi versati.
Ah, non bariamo! In quanto a previdenza, lo Stato gli fa la cortesia di riconoscergli gli anni universitari (naturalmente fino ad un massimo di cinque).
Come dici? Ho sentito bene, hai detto: “almeno sono gratis”?
Ma ti gira il berrettino (come dicono dalle mie parti)? Se li deve pagare, naturalmente. Fatti due conti, gli vengono a costare circa 25.000 euro e dunque il saldo netto scende a 27.000 euro che “spalmati” sui diciassette anni che sono trascorsi è come se il nostro laureato fosse andato anche lui a lavorare a 15 anni percependo uno stipendio mensile di 132 euro!
Però, non deve perdersi d’animo. Ora, comincia il bello. Gli anni della sicurezza sociale, della progressione professionale ed economica, quello delle soddisfazioni, insomma. Basta saper attendere, ma lui è ormai un campione, in materia.
Infatti, lavora con gli stipendi quasi più bassi d’Europa per altri 35 anni e intanto cova quella splendida attesa che si chiama meritata pensione.
E attende… e attende… Di tempo ce n’è, perché la pensione è come quei lumicini che ci sono nelle favole, quando un bambino si sperde nel bosco e va a finire nella casa dell’orco. Solo che il lumicino della pensione lo tirano indietro mano a mano che il lavoratore va avanti. A cinquanta anni, il nostro laureato ha ancora dodici anni da lavorare. E cinque anni dopo? Ancora e sempre dodici. E cinque anni dopo? Probabilmente sempre e comunque dodici. Del resto, abbiamo detto che l’attesa è davvero bellissima. Come diceva il Poeta: è il vero momento godibile. Per questo lo Stato ce la allunga a dismisura. Per farci godere come ricci. Però, un bel (?) giorno ci si accorge che questa attesa inizia a fare a pugni con un altro concetto di attesa. E quest’idea antagonista che come un tarlo inizia a entrarti nel cervello si chiama “aspettativa di vita”. Così, quando lo Stato ti comunica di averti regalato per l’ennesima volta un paio d’anni di quell’attesa gioiosa,
piena di aneliti e speranze, capisci che il sistema sta funzionando come una pressa per rottami di ferro. Perché mentre l’aspettativa di vita quando va bene rimane fissa ed immutabile, l’attesa della pensione, invece, continua a funzionare come il lumicino delle favole e allora lo spazio tra le due situazioni si fa così piccolo da poter sentire lo stridio dei rottami di ferro che poi sarebbero i tuoi miseri resti di docente.
Ebbene, un giorno, ti decidi. Decidi di capire cosa sarà realmente “il giorno di festa”. Perché il “sabato del villaggio” è agli sgoccioli e conviene sapere in anticipo, a grandi linee, cosa ti riserverà la domenica. È più semplice di quello che ti aspetti . Ci sono cento siti, online, in grado di calcolare il gioioso finale di partita . Del resto, non dovrebbe essere una grande sorpresa . Il collega che si è pensionato solo qualche anno fa, ha l’importo mensile superiore a quello dell’ultimo stipendio Tu non osi sperare in tanto È vero, ci sono state parecchie novità fiscali, in questi anni Sai che il paese di Cuccagna, se mai c’è stato, è chiuso per restauri .
Ti basterebbe qualcosa di meno. Magari, una riduzione del 10% potrebbe andare più che bene. Perfino il 20% sarebbe accettabile.
Inserisci i dati, fiducioso. Anno di nascita, importo lordo dell’ultimo stipendio, numero di anni di contributi… Dapprima ti esce la data di pensionamento e già speravi in qualcosa di meglio (sono riusciti a spostare il lumino ancora di quasi due anni, ma si è nati in questa valle di lacrime e allora soffriamo).
Guardi con una certa fiducia il dato della contribuzione totale: quarantadue anni e sette mesi. – Insomma, niente male… – pensi, considerando che in quella cifra ci sono anni di sacrifici e di progressive disillusioni. Ci sono, più o meno, 24.000 verifiche corrette (per questo non c’è il simulatore, il conto va fatto a mano).
Ma qui, consentiteci, facciamo una piccola pausa e torniamo un’ultima volta a parlare del nostro amico la -
voratore precoce. Perché lui, che come sappiamo ha iniziato a lavorare a quindici anni, in pensione c’è già arrivato da nove, ossia da quando ne aveva 53, mentre a te di lavoro ne mancano ancora sei. Se ha provato a compilare anche lui la scheda del simulatore, avvalendosi di una cospicua parte retributiva e di altre amenità tecniche, ha ottenuto un importo di 1790 euro netti mensili (per intenderci, così scopriamo le carte, lavorava in un autogrill sull’autostrada, a fare panini e vendere ciucci di zucchero), cifra che infatti ritira regolarmente dai predetti nove anni, standosene comodamente a casa a guardare programmi sportivi.
Mentre tu…
Mentre tu, con 42 anni e sette mesi di contributi avrai diritto a…
Prendiamoci qualche secondo per permettere ai lettori di pensarci un attimo e fare delle ipotesi. Vediamo chi indovina.
Ne approfittiamo per ricordare che sulla A 94, al chilometro 45 presso il punto di ristoro Autostarr, poco prima dell’uscita Piottarello – Vardesco – Casamiccola, Pinuccio Spatola vi attende al banco dei tramezzini con il nuovo “rustichello di Valsassola” (pomodoro, melanzane grigliate, salsa di soia, tofu). Se lo vedete ridere, non fateci caso: pensa ad un suo compagno delle elementari che si è laureato. Torniamo a noi. Chi ha indovinato? Non barate, mi raccomando. Lo leggi una decina di volte, prima di capire che non si tratta di un errore o di una tua svista. Sono proprio 1470 euro. Il giorno prima, docente di chiara fama, quello dopo, di fame chiara (e innegabile). No, non è vero, non è cambiato nulla: sei solo lo scemo del sabato del villaggio.
Era un rito, allora, per noi ragazzi negli anni ’70: davanti al mare in attesa che aprissero i fornai
Di Amelia Belloni Sonzogni – scrittrice
Settembre, 1972
Era ancora estate, anche dopo il 21, anche se i bagnini avevano già smontato quasi tutte le cabine, chiuso e radunato quasi tutti gli ombrelloni che stavano là, ammucchiati uno sull’altro, appoggiati a un muretto, in attesa di essere portati in un deposito. Poco distante, un addetto spogliava le sdraio, separando le barrette sfilate dalle tele multicolori, tutte da lavare, e accatastando gli scheletri di legno, appoggiati allo stesso muretto.
Era ancora estate per i pochi ragazzi che si godevano gli ultimi giorni di vacanza nell’attesa del nuovo primo giorno di scuola, tutti radunati vicino alle poche sdraio lasciate intere per loro e le loro famiglie, le poche in grado di pagare il servizio per l’intera stagione.
Sui costumi, le magliette attendevano di essere sfilate al primo raggio di sole più caldo, abbandonate sul telo di spugna, steso sulla sabbia, sul quale appiattirsi bagnati, appena usciti dal mare, per rubare il calore del sole sopra qualche brivido negato. Freddo? Ma quando mai! Si doveva fare il bagno fino all’ultimo giorno, cascasse il mondo!
– Il sole dei mesi con la erre fa male, lo sai, Eleonora?
– Sai cosa ti dico, Paola? Non me ne frega niente! Voglio tornare a Milano abbronzata e far morire di invidia tutte le spitinfie che ronzano attorno a Luca.
– Ma poi, lo hai finalmente incontrato a quella festa?
– Macché! La festa è saltata: non si trovava mai il giorno giusto. Lo vedrò a scuola.
– Resterà abbagliato dal tuo splendore…
– Ne sono certa… ma che fai, sfotti?
Tutto il gruppetto sorrise allo scambio di battute, ironiche ma con uno schizzetto velenoso appena percettibile. Carlo chiese l’abituale sigaretta che nessuno gli diede; si alzò per andare a cercarla altrove. Andrea si incantò a guardare il mare, gli occhi azzurri persi nel blu. Gianni e Rita si abbracciarono più stretti: per loro, l’attesa del rientro in città era un conto alla rovescia fino al momento del distacco, della distanza, dei mesi lontani in due luoghi distanti, mesi trascorsi nell’attesa di ritrovarsi ancora lì, su quella spiaggia.
Aspettavano tutti insieme il momento giusto per l’acqua più tiepida possibile e per nuotare, il più possibile: era finito il clima adatto ai tuffi continui, alle gite in barca nel caldo mare di agosto, alle nuotate al tramonto; stavano per finire i momenti spensierati nei quali importava solo inventare modi nuovi per divertirsi, decidere dove andare dopo cena: cinema? gelato? discoteca? passeggiata lungomare o tutti a casa di…?
Allungavano le gambe sulla sabbia, tendevano le braccia appoggiate alle mani per sostenere la schiena e raccogliere meglio i raggi più obliqui.
Eleonora abbandonò la testa indietro per goderseli meglio, senza pensieri; cadde la massa di tutti i suoi riccioli. Voleva il vuoto nella mente, perché l’attesa si prolungasse, e un’abbronzatura fresca, a testimonianza del suo stare al mare fino all’ultimo minuto prima che le porte del liceo si riaprissero e il grigio tossico milanese la inglobasse in un pallore giallognolo. Fare il vuoto nella mente, però, non era così semplice perché tensioni contrastanti la stuzzicavano: tuffarsi nell’acqua del mare o in una pagina di libro, ritrovarsi con quegli amici la sera davanti alla gelateria o con i compagni davanti al liceo, aspettare l’inizio della scuola e poi la sua fine e di nuovo le vacanze, ancora al mare, ancora e sempre lì. Desiderava il prossimo futuro ma con intensità diversa da come rimpiangeva quello che era stato, che era ancora, sarebbe stato per il tempo dell’attesa, che le scappava di mano. Correva, avanti con la fantasia e indietro con la memoria, in un via vai estenuante.
Andrea le si sedette a fianco; prese tra le dita una ciocca dei suoi lunghi capelli ramati e le fece il solletico sul collo.
– Ma la smetti di pensare? Sento il rumore del tuo cervello… Sono gli ultimi giorni, goditeli.
– Ci provo, ma non ci riesco.
– Dimmi: cosa ti tormenta?
Il tono non era scherzoso, ma un dubbio le rimase:
– Lo vuoi sapere davvero o mi prendi in giro come tuo solito?
– Sono serio. Se ti va di dirmelo, ovvio.
– Certo, ma non qui – bisbigliò. Poi aggiunse:
– Vieni in acqua con me?
Gli altri non li seguirono. Rimasero stesi al sole, in attesa che il gruppo si infoltisse. Arrivarono i dormiglioni, quelli che la sera tiravano sempre più tardi degli altri perché volevano dormire in spiaggia. Una notte intera, su una di quelle sdraio in attesa che la luce del giorno arrivasse piano: dormicchiavano, fumavano, si baciavano, amoreggiavano, si addormentavano arrotolati nei maglioni, avvolti negli asciugamani presi in cabina, ancora umidi del bagno del giorno prima.
Alle sei del mattino, i bagnini che sistemavano le sdraio li facevano rotolare sulla sabbia; per compassione e riguardo per le ragazze, aprivano i bagni mentre qualcuno si tuffava in mare, il costume come una seconda pelle. D’estate, però. A settembre era troppo freddo anche per i più temerari.
Anna e Laura avanzarono tra uno sbadiglio e l’altro. Paolo e Luigi arrivarono dietro di loro, bisticciando per gli occhiali scuri. Uno dei due aveva perso il proprio paio la sera prima sulla spiaggia e non sopportava la luce del sole, l’altro non gli voleva cedere i suoi. Crollarono tutti e quattro seduti sulla sabbia:
– Ciao ragazzi. Che fate?
– Aspettiamo di fare il bagno. Roberto non è con voi?
– Starà ancora dormendo.
– Dove, qui o in un letto?
– Qui era troppo umido. Siamo stati tutti da Vincenzo.
I dormiglioni erano in debito di sonno. Si sdraiarono così com’erano, come un branco di animali che, stanchi per il lungo girovagare, avevano trovato un posto sicuro dove sostare.
Rimasero tutti zitti. Andrea ed Eleonora erano in mare. Nuotavano vicini, parlavano, andavano sempre più al largo. Paola notò che erano molto vicini, parevano abbracciati. Aguzzò la vista per distinguere meglio le sagome, ma non riuscì a vedere bene. Le restò il dubbio che quei due si stessero baciando. Sperò di sbagliarsi perché Andrea le piaceva, ma lui non pareva ricambiare; era gelosa, invidiosa, infastidita dalla spontanea ingenuità di Eleonora. Pensava fosse costruita, ma era solo lei a pensarlo.
Passò un tempo che non seppero calcolare.
Si appisolarono tutti al tepore del sole.
Il campanile suonò la mezza. Paola si mise seduta:
– Vado in mare.
– Vengo con te.
Rita e Paola, sulla battigia, procedettero lente, un centimetro di pelle alla volta, nell’acqua resa più fredda dal contrasto con il sole. Eleonora e Andrea erano a poche bracciate da loro ma non le avvertirono che tutti gli altri ragazzi stavano correndo per buttarsi in acqua in una esplosione di schizzi.
Le schiene si inarcarono, acute urla stridule, mischiate a qualche parolaccia, si sentirono nell’aria, i brividi di freddo furono vinti dalle risate e dalla battaglia di spruzzi che tutti ingaggiarono contro tutti. I dormiglioni ripresero vitalità, si diressero in gruppo verso la boa più vicina, mentre Andrea prese Eleonora per mano e uscirono dall’acqua. Si sdraiarono al sole, incollati. Quando lui si girò su un fianco per guardare il mare e vedere dov’erano gli altri, gli sembrò che Paola li osservasse. La salutò con la mano, lei gli rispose; avvicinò le labbra a quelle di Eleonora e la baciò, ancora e più a lungo di prima, quando la necessità di stare a galla aveva limitato il desiderio.
I dubbi di Paola svanirono.
Le tensioni di Eleonora si sciolsero. Passò le dita tra i capelli biondi e bagnati di Andrea, gustò quella nuova dimensione in cui aveva visto trasformarsi l’amico più grande, universitario inarrivabile, in un uomo che le aveva detto chiaro cosa provava per lei, da quanto? Non lo sapeva, ma non era importante.
– La sai una cosa che vorrei fare con te, qui, sulla spiaggia?
Andrea si spostò di poco per guardare la collina che aveva di fronte, di un verde squillante, con riflessi argentati. Eleonora dovette coprirsi gli occhi con la mano per osservare la sua espressione. Era curiosa di sapere a che cosa pensasse. Doveva essere una cosa speciale e non la più ovvia.
– No, Andrea. Cosa?
– Hai mai aspettato la focaccia?
– No. Devo tornare a casa a dormire, è la regola.
– Da infrangere, fidati. Una notte intera davanti al mare può cambiare il tuo modo di vedere le cose, che ci sia qualcuno con te oppure no; e l’aria che arriva con la luce ha il profumo del mare, del sale e dell’olio. I fornai aspetteranno solo noi che per mano entreremo da loro a scaldarci con un cartoccio tiepido di focaccia. E se avrai freddo, o paura, ti abbraccerò. Parto domani pomeriggio, quindi stasera…
La voce sonora di Roberto li interruppe.
– Ciao! Gli altri? Sono in mare vedo. Era arrivato con un amico, che aveva una chitarra a tracolla.
– Lui è Claudio.
Claudio chi? Si chiese Eleonora. Poi si rimproverò, perché era una domanda da matusa. A volte si sentiva così, un po’ matusa anche lei. Tutti i suoi amici avevano aspettato la focaccia almeno una volta in vita loro, lei no. La proposta di Andrea la ingolosiva e la metteva in crisi. Come avrebbe potuto evitare sgridate e punizioni? Cosa poteva inventare, che fosse anche solo un po’ credibile?
Andrea si mise a parlare con Roberto, Claudio accordava la chitarra; intervenne solo per rispondere alle curiosità di Andrea. Aveva capelli lunghi castani, la barba, i baffi, un paio di occhiali tipo Ray-Ban da vista e un sorriso aperto, simpatico, alla mano e al tempo stesso discreto. Che bravo, però. Gli accordi che stava provando la catturarono.
– Che canzone è? – gli chiese – Non la conosco.
– Fa parte di un album.
– Ma l’hai scritta tu?!
Claudio accennò di sì. Non le sembrò tipo da vantarsi. Le piacque. Provò a insistere:
– Come si intitola?
– Te la suono.
Aspettando Godot l’avvolse nella sua infinita, disperata e lucida tristezza Le parole precise, mirate, poetiche la scossero . Fu una strofa a centrare e distruggere con la forza di un proiettile il meccanismo di quel suo cervello sempre in funzione :
L’adolescenza mi strappò di là
E mi portò ad un angolo grigio
Dove fra tanti libri però
Invece di leggere io aspettavo Godot
E un’altra ancora, poco prima che terminasse, completò l’opera:
È la prima volta che sto per agire
Senza aspettare che arrivi Godot
Non sapeva che cosa avrebbe detto a casa, ma aveva addosso il calore delle braccia di Andrea, negli occhi il blu del mare di notte e in bocca il gusto sapido e morbido della focaccia appena sfornata.
N.d.A. Me lo ricordo così, con questa espressione. Ricordo benissimo la canzone che ha suonato e cantato, sulla spiaggia, per noi pochi eletti fortunati: l’ho canticchiata per giorni, allora. Non ho riscontri di altri presenti che me lo possano confermare, ma sono certa di aver vissuto questo momento, su queste note. Si possono riascoltare con un clic: https://www.youtube.com/ watch?v=Ee8XiILtHaU
È questo l’unico riferimento autobiografico di tutto il racconto.Oltre la focaccia, ovviamente.
Com’è cambiata in 65 anni l’immagine, e non solo, del sogno di molte noi bambine over 60
Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica
A volte bisogna aspettare sessant’anni per ricevere un regalo molto desiderato: me ne sono resa conto l’altro giorno, prendendo in mano la Barbie che mi è stata regalata all’inaugurazione della mostra Barbie
A cultural Icon exibition ,dedicata alla famosa bambola e arrivata a Milano dove rimarrà, negli spazi di Next Exibiton in via Paolo Sarpi 6/8, fino al 19 gennaio (info e biglietti www.ticketone.it/artist/barbie-cultural-icon-exhibition/ ).
Occasione della mostra, per cui Milano è la prima tappa europea, i sessantacinque anni della bambola creata nel 1959 da Ruth Handler, che le ha dato il nome di sua figlia Barbara: in mostra si può vedere anche il primo modello, insieme all’edizione creata per l’anniversario. In altri termini, la Barbie ha solo due anni meno di me. E anche se da bambina preferivo i pelouche alle bambole, era inevitabile che la creazione della Mattel diventasse, per me come per le mie coetanee, un oggetto di desiderio Che è rimasto tale per le generazioni future, a giudicare dall’entusiasmo delle signore che hanno partecipato all’inaugurazione, emozionate davanti alle vetrinette rosa tra ricordi, nostalgie e rimpianti .
Beh, rimpianti: i miei genitori non erano avari di doni ma una bambola frivola e modaiola, con proporzioni fisiche tali da mandare in crisi qualunque bambina goffa e tondetta, non era la loro idea di regalo. Nonostante le mie richieste quindi la desiderata Barbie non arrivò mai. Non che avessero torto, perché le proporzioni della bambola prodotta dalla Mattel, in particolare di quella originale, sono totalmente irrealistiche: è stato calcolato che meno di una donna su centomila può sfoggiare un fisico del genere, e a prezzo di seri problemi di salute. E ci sono anche studi che mostrano come possedere una Barbie equivalga, specie per le bambine più piccole, a desiderare di somigliarle. ( https://www.researchgate.net )
Anche se negli anni le cose sono cambiate. Per rendersene conto, vale la pena di percorrere le sale di questa deliziosa mostra che racconta i cambiamenti apportati alla bambola nel corso degli anni, ma al tempo stesso un pezzo di storia della moda e di evoluzione della società, in particolare per quanto riguarda il ruolo della donna. Le 250 bambole esposte, pezzi originali e da collezione, molti provenienti da raccolte private, mostrano come è cambiata la moda, in un gioco di specchi che vede le bambole impersonare famose top model e al tempo stesso gli stilisti ispirarsi al loro look. Se visivamente le Barbie più belle sono le edizioni speciali realizzate da artisti e creatori di moda, i giocattoli pensati dalla Mattel per le bambine vere riecheggiano anno dopo anno il mutare dei costumi, e se le prime Barbie in carriera sono hostess o infermiere col passare degli anni arrivano Barbie pilota o chirurga, o comunque impegnate – nonostante le mise a volte improbabili – in professioni prestigiose. C’è anche una Barbie candidata alla presidenza – degli Stati Uniti, ovviamente – e nella sala che celebra la donna nello spazio, accanto alla prima Barbie astronauta datata 1965, c’è quella dedicata a Samantha Cristoforetti E poi compaiono le Barbie “role model”, con scelte a volte improbabili che vedono la primatologa Jane Goodall accanto a influencer come l’Estetista Cinica.
Ma negli anni la bambola è cambiata anche nel fisico. Se le prime Barbie sono bionde e decisamente caucasiche, nel 1968 entra in scena una Barbie con la pelle scura e nel 1980 la prima Barbie dichiaratamente afro, seguita da altre versioni etniche. Oggi ci sono 175 varianti, che includono diverse etnie ma anche una struttura fisica più realistica – denominata curvy, formosa – e bambole in carrozzina, senza capelli e dotate di protesi: non poteva mancare in questa mostra italiana una Barbie Bebe Vio. Un’immagine confortante anche se, come ha osservato la collega che mi accompagnava, resta il tabù dell’età: quando potremo vedere una Barbie Over? Intanto, resta il piacere di visitare la mostra immergendosi nel rosa e nella bellezza degli ambiti e delle ambientazioni, ricordando che non stiamo guardando dei modelli da imitare: le bambole, inclusa la Barbie, sono fatte della stessa materia di cui sono fatti i sogni. E quella che mi è stata donata è destinata a far felice qualche bambina.
Informazione promozionale
A cura della Redazione
Da questo mese nei supermercati per tutti gli estimatori dei prodotti Yakult è disponibile il nuovo Yakult Plus pesca . Se amate il gusto di questo frutto, che sui banchi del fruttivendolo si trova solo da giugno a settembre, ora è possibile continuare a gustarlo tutto l’anno grazie ad una nuova formulazione ricca in vitamina C per il sistema immunitario e gli immancabili 20 miliardi di fermenti probiotici L. casei Shirota esclusivi di Yakult, per il benessere della flora intestinale.
Accanto all’iconico Yakult Original, dalla ricetta classica ideata quasi 90 anni fa, e a Yakult Balance, ricco in vitamina D per la salute della ossa ed il buon funzionamento muscolare, il nuovo Yakult Plus pesca si aggiun -
ge al ventaglio di prodotti Yakult per offrire una gamma più ampia di sapori tra cui scegliere e venire così incontro alle esigenze di più consumatori.
Con questa nuova referenza, infatti, Yakult offre per la prima volta, in Europa, un prodotto che si distingue per il suo delizioso gusto alla pesca, sostituendo la precedente versione di Yakult Plus, senza rinunciare ai noti benefici dell’esclusivo fermento probiotico LcS.
Il nuovo Yakult Plus pesca è anche ricco in vitamina C per sostenere il sistema immunitario e contiene fibre alimentari che alimentano i cosiddetti batteri buoni dell’intestino. La sua ricetta, inoltre, prevede il 70% di zuccheri in meno e il 33% di calorie in meno rispetto a Yakult Original.
I prodotti di Yakult sono il risultato di quasi 90 anni di ricerca scientifica, iniziata nel 1935 quando il Dottor Minoru Shirota, pioniere nel campo della microbiologia e fondatore di Yakult, isolò il ceppo esclusivo LcS e sviluppò la bevanda a base di latte fermentato che ancora oggi è apprezzata in tutto il mondo. Infatti, in ogni bottiglietta di Yakult Plus pesca, così come in tutte le altre versioni (Yakult Original e Yakult Balance), sono contenuti ben 20 miliardi di L. casei Shirota, un ceppo unico di “batteri buoni” che giunge vivo nell’intestino favorendo l’equilibrio della flora intestinale.
Come promuoverla in maniera preventiva ed efficace per la popolazione malata o fragile
Di Davide Integlia – PhD, General Manager ISHEO
Un terzo degli italiani non fa sport né si dedica all’attività fisica nel tempo libero : nel 2021 le persone che, pur non praticando uno sport, dichiaravano di svolgere qualche attività fisica erano solo il 31,7 per cento. Sono dati che vengono dall’annuario statistico Istat 2022 e che colpiscono, particolarmente in questo momento dell’anno: dopo la bella stagione, durante la quale qualcuno- almeno si spera – ha fatto più movimento, il rientro rappresenta per troppi il ritorno alle cattive abitudini e all’inattività.
La sedentarietà, lo sappiamo, è un problema di salute pubblica non indifferente legato com’è a un’infinità di patologie il cui rischio cresce in funzione della mancanza di movimento. E’ importante sottolineare che questo – lo ricorda sempre l’Istat – riguarda in particolare le donne e chi vive nelle regioni del Centro-Sud. Solo qualche numero: secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, la sedentarietà è causa del 9% delle malattie cardiovascolari, dell’11% dei casi di diabete di tipo 2, del 16% dei tumori al seno.
Una situazione che ha inevitabilmente ripercussioni economiche. L’osservatorio Valore Sport promosso da The European House-Ambrosetti ha stimato che ogni persona che non fa movimento grava di circa 200 euro sul sistema sanitario, pari a un costo complessivo della sedentarietà di 4,5 miliardi, ossia il 2,2 per cento della spesa sanitaria pubblica e privata del Paese. Costi che si eviterebbero con un aumento dell’attività fisica ai livelli minimi raccomandati nell’Unione Europea (150 minuti a settimana). Proprio a livello europeo è stato calcolato che fare sport consentirebbe di evitare 11,5 milioni di nuovi casi di malattie non trasmissibili entro il 2050, inclusi 3,8 milioni di casi di malattie cardiovascolari, 3,5 milioni di casi di depressione, quasi 1 milione di casi di diabete di tipo 2 e più di 400mila casi di tumori. Ritengo che a oggi esistano numerose criticità che rendono difficile l’inserimento concreto dell’attività fisica tra le strategie fondamentali per preservare la salute pubblica. Non si tratta, insomma, di banale indolenza dei cittadini. Da un lato esiste un vuoto legislativo a livello nazionale e regionale, dall’altro manca una risposta adeguata a livello territoriale in termini di strutture accreditate idonee – palestre o strutture riabilitative – che possano “somministrare” quella che è tutti gli effetti una terapia, tanto in ottica di prevenzione quanto di cura.
Essere attivi, infatti “allunga” la vita fino a 4,5 anni. L’attività fisica regolare riduce la mortalità per tutte le cause e quella correlata a patologie cardiovascolari del 20-30 % È provato inoltre un effetto preventivo dell’attività fisica, moderata o vigorosa ma costante, con una riduzione del 30% del rischio di comparsa del diabete, senza dimenticare i benefici nella prevenzione di sovrappeso e obesità, cui malattie cardiovascolari e diabete sono legati a doppio filo Ancora, ricorrere all’attività fisica contribuisce alla riduzione dei sintomi depressivi .
Per arrivare a questi obiettivi è però necessaria una rivoluzione culturale . In altre parole, sappiamo tutti quanto sia utile l’attività fisica, ma davvero abbiamo la percezione dei suoi effetti sulla nostra salute? E la classe medica ne è pienamente consapevole? I clinici sono abituati a inserire l’attività fisica tra le strategie terapeutiche da prescrivere al paziente?
Per quanto riguarda l’area oncologica, in particolare, sarebbe importante promuovere il concetto di attività fisica adattata, che prevede protocolli di allenamento personalizzati in base a capacità ed esigenze del paziente, da eseguire in collaborazione con un professionista sanitario. Così concepito, l’esercizio fisico consente, infatti, di ridurre l’infiammazione sistemica migliorando la funzione immunitaria, e di ridurre la tossicità di alcuni farmaci chemioterapici e della radioterapia e i loro effetti indesiderati, quali nausea, perdita di appetito e di massa muscolare, oltre a ridurre inoltre la fatica e la percezione del dolore. Quali sono le strade percorribili per promuovere l’offerta di attività fisica e stimolare la ricerca? Credo che occorra creare percorsi di accreditamento e certificazione di strutture idonee (palestre, centri riabilitativi e strutture sportive, strutture ad hoc per l’attività fisica preventiva e adattata) promuovendo allo stesso tempo lo sviluppo della loro offerta grazie a percorsi formativi. Questo però non può prescindere dalla necessità di confermare e ampliare le conoscenze sul legame tra salute e attività fisica. L’obiettivo è dimostrare l’utilità di singoli protocolli di attività sulle differenti patologie, dando sempre maggiore rilevanza alle varie professionalità coinvolte, tra cui quelle del chinesiologo, del medico dello sport, del nutrizionista e dello psicologo, in un’ottica multidisciplinare.
Per approfondire
• Attività fisica e tumori , Fondazione Aiom, settembre 2020, https://www.fondazioneaiom.it/wp-content/uploads/2020/10/2020_FondazioneAIOM_Attivita_fisica_e_tumori-1.pdf
• Bellinazzo M, “Italiani sedentari, il costo sanitario del non fare sport sfiora il miliardo all’anno”, Il sole 24 Ore , 25 gennaio 2023, https://www.ilsole24ore.com/art/italiani-sedentari-costo-sanitario-non-fare-sport-sfiora-miliardo-all-anno-AEgAAPaC
• Minardi V et al, Attività fisica e salute: adulti , Istituto Superiore di Sanità, https://www.epicentro.iss.it/ attivita_fisica/Adulti-Passi-2018
• “Non fare sport fa male sia alla salute che al Ssn. L’inattività fisica costerà all’Italia 1,3 miliardi nei prossimi 30 anni in spese sanitarie. Tutti i numeri nel nuovo rapporto di Oms e Ocse”, Quotidiano Sanità , 18 febbraio 2023, https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=111196
• Osservatorio Valore Sport , Forum Osservatorio Valore Sport, Seconda edizione, Presentazione Emiliano Briante, 12-13 febbraio 2024, https://eventi.ambrosetti.eu/valoresport-2024/wp-content/uploads/sites/260/2024/02/2.-Presentazione-BRIANTE.pdf
• Principali evidenze dell’Osservatorio Valore Sport , Osservatorio Valore Sport, The European House Ambrosetti, 30 maggio 2024, https://www.ambrosetti.eu/site/get-media/?type=doc&id=21105&doc_ player=1
• Valente S, “All’Italia i sedentari costano 4,5 miliardi all’anno”, Milano Finanza , https://www.milanofinanza.it/news/all-italia-i-sedentari-costano-4-5-miliardi-all-anno-2626142
Copyright
Dove non espressamente indicato le foto o le immagini presenti attualmente nella rivista sono situate su internet e costituite da materiale largamente diffuso e ritenuto di pubblico dominio.
Su tali foto ed immagini la rivista non detiene, quindi, alcun diritto d’autore e non è intenzione dell’autore della rivista di appropriarsi indebitamente di immagini di proprietà altrui, pertanto, se detenete il copyright di qualsiasi foto, immagine o oggetto presente, oggi ed in futuro, su questa rivista, o per qualsiasi problema riguardante il diritto d’autore, inviate subito una mail all’indirizzo generazioneover60@gmail.com indicando i vostri dati e le immagini in oggetto.
Tramite l’inserimento permanente del nome dell’autore delle fotografie, la rimozione delle stesse o altra soluzione, siamo certi di risolvere il problema ed iniziare una fruttuosa collaborazione.