Alice Campello - Is The New Black

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Numero 1/II

Gen/Feb 2016

Alice Campello Modella e Stilista

Genius People Magazine Euro 5.00

#IsTheNewBlack Natalia Kapchuk · Rubens e Luciano · Antonia Sautter · Andrea Rosso Lino Ieluzzi · Alice Campello · Jean Michel Cazabat · Alberto Franceschi · Franz Kraler Umberto Guidoni · Alessandro Nasta · Mauro Corvisieri · Riccarda Grasselli Contini

Il Ballo Del Doge  ·  Gucci Timepieces & Jewelry  ·  Galleria Contini Milano – Venezia – Cortina




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COLOPHON

People Magazine Issue 1/II

Team Fondatore e Editore Francesco La Bella

Direttore Responsabile Francesco La Bella

Direttore Editoriale Massimiliano Bergamo

Direttore Artistico Marco Gnesda

Caporedattore Francesco Chert

Direttore Comunicazione On Line Francesco La Bella

Editorialisti Valentina Bach, Fabio de Visintini, Enrico Denich, Vittorio Sgarbi, Francesco Venier, Jonathan Turner, Giuliano Urbani, Ilie Zabica

Collaboratori Serena Cappetti, Michele Casaccia, Francesco Chert, Riccarda Grasselli Contini, Luca Delle Donne, Alice Noel Fabi, Oliver Fabi, Gabriele Gerometta, Sarah Gherbitz, Nicolò Giraldi, Renato Grome, Daniela Kraler, Franz Kraler, Biagio Liotti, Matteo Macuglia, Anna Miykova, Pier Emilio Salvadè, Bettina Todisco, Martina Vocci

Fotografi Noemi Commendatore, Alice Noel Fabi, Marino Sterle, Luca Tedeschi

Edito da Genius People Magazine Ufficio Stampa Francesco La Bella Grafica Marco Gnesda, Alice Micol Moro, Piero Ongaro, Marco Pignat, Daniele Redivo, Fabio Santarossa

Distribuzione ed Eventi GeniusOFF Srl Sviluppo Web Actionet Srl – Pordenone Bite Srl – Trieste

Direttore Marketing Massimiliano Dandri Social Media Manager e Traduzioni Mariaisabella Musulin Stampa Sinegraf Doo Vrbje 80 3310 Žalec – Slovenia

Prodotto e sviluppato da Genius People Magazine Redazione centrale Campo San Bortolomio, San Marco 5379 30124 Venezia – Italy tel. (+39) 041 - 528789 redazione@genius-online.it

ISSN 2420-8884 Aut. n. 1233 del 09/03/2011 del Trib. di Trieste

Contatti esteri Redazione centrale Genius People Magazine International Campo San Bortolomio, San Marco 5379 30124 Venezia – Italy tel. (+39) 041 - 528789 redazione@genius-online.it

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Redazione Estera Moldavia Ilie Zabica Via Sfatul Tarii, 17 (off. 32) 2012 Chisinau – Moldova www.genius-online.md


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E

IN

TUTTE

LE

MIGLIORI

GIOIELLERIE


EDITORIALE

La moda e il genio nel dettaglio By FRANCESCO LA BELLA

Se è vero che il lusso sta nella ricerca del dettaglio, nella qualità dell’esecuzione, nella scelta dei materiali, allora la moda, intesa nella sua accezione più elevata di dimensione espressiva di un elemento culturale come quello dell’abbigliamento, diventa paradigma per eccellenza del lusso. Nella moda si esprimono genio, fantasia, abilità, mestiere, comunicazione. Sia in chi la produce che in chi la indossa. Un capo sarà perfetto assieme ad altri capi, portato dalla perdona giusta, nel modo corretto; altrimenti ne verrà fuori un disastro. La moda permette a chi indossa di diventare creatore, non del pezzo, già prodotto dallo stilista, ma della sua messa in scena, addosso a sé. Come un regista o un attore che raccontano o interpretano, ma a modo loro, con la loro sensibilità, con il loro gusto e la loro capacità. Anche in questo occorre genialità. Bastasse avere la possibilità economica per essere eleganti! Occorre occhio, occorre la capacità di uscire dagli schemi e sfidare le aspettative. Ma un capo deve essere bello. Il bello esiste. Il bello è proporzione, qualità, materiali, fantasia. E qui incontriamo gli stilisti, i creatori di quella moda che poi ci troviamo ad amare in questa o quella stagione. Sono loro gli interpreti dei nostri gusti e coloro che ci offrono il sapore che daremo al nostro abbigliamento. Sono gli artisti che ci offrono la possibilità di essere opere d’arte. Gli scrittori che ci offrono la parola da comunicare attraverso il vestito. Gli autori che ci permettono di diventare creatori e creazioni. In questo numero parleremo di questo e di altro, sempre con l’attenzione rivolta alla genialità dell’esperienza, all’idea vincente, all’eccellenza, al metodo di chi ha talento.

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EDITORIALI

Fuori giri Di FABIO DE VISINTINI

Probabilmente l’attenzione necessaria a seguire la tendenza del momento, in ogni ambito, esiste da un bel po’, tuttavia da quando esiste il superfluo, il fenomeno si è certamente enfatizzato. Anche nel miserrimo dopoguerra, mani abili di sartine più o meno improvvisate, avranno seguito taglio o lunghezza che ricordassero, per quanto possibile, la modernità, nel sezionare e ricucire coperte per ricavarne cappotti. Barbe, capelli e messe in piega fatte in casa, avranno imitato la moda del momento, regalando una piccola gioia nella tristezza cosmica della privazione. Per qualcuno, invece, il superfluo esiste da sempre, non è certo una novità, ma quel che ci spiazza dal contesto storico è che, oggi, è appannaggio di molti. Alla corte d’ogni re c’è stata la gara effimera d’apparire adeguati o innovatori per guizzi estetici, ma oggi la questione non taglia fuori più nessuno, belli e brutti, quasi poveri e ricchi. Il consumismo è figlio dell’industrializzazione, della produzione, delle economie di scala, del bisogno di rinnovare ogni oggetto di continuo, a cominciare dai vestiti, e dalla possibilità economica diffusa di poterlo fare. Nessuna novità: costi sempre più bassi e ricambio sempre più veloce. Solo la sensazione spiacevole di essere consumatori invece di persone, e come tali costretti, come criceti, a correre sulla ruota, per non fare impacciare il sistema generatore di benessere. O forse, recentemente, la sensazione di essere fuori giri, quando, all’apice dell’estasi dell’acquisto, fatichiamo a rincorrere il rinnovamento continuo in ogni ambito. Essere aggiornati e prevedere le mode diventa un vero lavoro, a volte difficile da sostenere, anche perché ci costringe a rendere superati articoli che non sempre meritano la nostra rottamazione. Cent’anni fa quando inventarono la lampadina, successe quel che spesso accade nel mondo civilizzato, tra miglioramenti continui e concorrenza arrembante. Bastarono pochi lustri per invadere il mercato del mondo civile di lampadine a lunga durata e basso costo. Quando fu chiara la proiezione che, posizionata in ogni stanza

di ogni casa la lampadina, il Mercato da poco aperto si sarebbe presto chiuso in quanto saturo, i produttori del tempo (li conosciamo ancora oggi tra Osram e Philips..), giustamente preoccupati, una volta proiettate le curve decrescenti del proprio business, disegnarono una strategia comune. Fecero cartello segreto e si imposero di archiviare il progresso tecnologico in corso per lampadine a lunga durata in favore, al contrario, della riduzione progressiva della stessa, in modo da riaprire il mercato ad un consumo ciclico e costante. Raggiunsero l’obiettivo di farle durare 1.000 ore e non di più, quando già qualcuno aveva trovato il modo di renderle pressochè eterne.. E così fu per il secolo a seguire, fino al presente e per diverse merceologie: è l’obsolescenza degli oggetti, programmata dalle stesse aziende produttrici, a garantire una produzione continua. Che ciò riguardi la tecnologia o l’effimero, il discorso non cambia, l’importante è il turnover accelerato che garantisca il ricambio. Auto tarate per durare 3 anni, cappotti che infeltriscono: la qualità degli oggetti non è più legata alla loro durata, perché questa non è più una valore. L’avanguardia estetica o artistica di chi ha innovato negli anni, generando tendenze seguite dai più, oggi si deve confrontare con una massa di persone, dedite troppo spesso alla ricerca di appartenenza e adeguatezza, piuttosto che allo sviluppo di un gusto personale.

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EDITORIALI

Il lusso e la dialettica del made in Italy Di DANIELA KRALER

Che il lusso non sia soggetto alle normali variazioni del ciclo economico è un dato di fatto, questo perché punta innanzitutto su una clientela che storicamente ha sempre tenuto alla crisi e poi perché la qualità resta un investimento duraturo negli anni. Tutto ciò vale in particolar modo in una cornice straordinaria come Cortina d’Ampezzo che ancora oggi, dopo gli anni d’oro della Dolce Vita, continua a risplendere orgogliosa. Qui come altrove però, la fama non è sufficiente per durare nel tempo: la Regina delle Alpi è rimasta tale grazie a grandissimi investimenti che si sono fatti su tutta l’area, e anche noi credendoci moltissimo abbiamo conseguentemente deciso di rischiare. Questo è il percorso che abbiamo scelto di intraprendere assieme a Cortina con la Franz Kraler, nata originariamente a Dobbiaco, ed i suoi ormai tre store. La crisi economica mondiale ha modificato i rapporti degli italiani con il lusso: il prodotto di lusso è percepito sempre più come un’emozione. Una trasformazione che porta a cercare l’eccellenza delle emozioni in questo settore, il lusso non può più semplicemente incarnarsi in un prodotto dal grande valore, ma deve includere tutta una serie di attività di comunicazione e non solo. I marchi più importanti della moda internazionale creano un legame speciale con la nostra realtà, dalla presentazione in showroom fino all’esposizione e alla vendita nei nostri multibrand. Tutto è pensato per soddisfare il cliente con un’esperienza totalizzante. Per ottenere questo risultato è necessario avere una struttura che ci supporti adeguatamente con eventi di grande qualità che si susseguono nel tempo che valorizzino quindi gli investimenti economici, creando un contenuto adeguato ad una cornice esclusiva . Non basta dunque avere un passato di grandi successi per riuscire a proporre un’esperienza di livello. È importante puntare sul made in Italy il quale, pur continuando ad essere una punta di diamante nel mondo in termini di artigianato e di know how, non può essere

l’unico simbolo di lusso per una clientela che guarda ormai al panorama internazionale. Le maison di tutto il mondo come quelle francesi e quelle americane si affacciano sulle nostre vetrine. Con produzioni a volte di grandi volumi salvaguardando un altissimo standard di qualità, ricerca, attenzione al dettaglio. Un importante lavoro di controllo sulla produzione, un significativo apporto stilistico e una comunicazione adeguata possono così soddisfare una clientela italiana e internazionale attenta informata e sempre più esigente.

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SOMMARIO

EDITORIALE

La moda e il genio nel dettaglio di Francesco La Bella

di Gabriele Gerometta

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EDITORIALI 10

Fuori giri di Fabio de Visintini 11 Copertina: Alice Campello Modella e Stilista. Foto di Alberto Buzzanca

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Moda e genio tra storia e futuro, una chiave di lettura per comprendere la società

Il lusso e la dialettica del made in Italy di Daniela Kraler

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La moda è comunicazione di Biagio Liotti 38

Finis Austriae, l’inizio della modernità di Luca Delle Donne 40

La moda, un mondo tra fashion e postmodernità di Matteo Macuglia 42

Alle donne che hanno cambiato la storia di Michele Casaccia 44

I maestri dell’architettura contemporanea a confronto con la moda di Oliver Fabi SPECIALE IL BALLO DEL DOGE 15

Il Ballo del Doge. La bellezza e l’emozione di far parte di un sogno di Francesco Chert

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Hugo Boss: una carriera tra l’eleganza delle uniformi naziste e dei moderni abiti maschili di Anna Miykova PERSONE 52

Natalia Kapchuck: il lato poliedrico della moda di Francesco La Bella, Francesco Chert 58

Rubens & Luciano: gli artisti della scarpa di Francesco La Bella, Francesco Chert 63

Lino Ieluzzi: l’Eleganza come Emozione APPROFONDIMENTI Tutti i diritti di riproduzione sono riservati.

di Francesco Chert

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Un mondo outlet

Chi ha bisogno della moda?

di Fabio De Visintini

di Nicolò Giraldi

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SOMMARIO

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Alice Campello: eleganza, bellezza e determinazione

Nuovi eleganti modelli della Collezione Gucci Dive

di Francesco La Bella, Francesco Chert-

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BRAND

la nuova collezione di Orologi Diamantissima

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Andrea Rosso: creatività, qualità e contaminazione

CULTURA

di Francesco Chert

Joe Bastianich: cucina e cultura, il futuro del Friuli Venezia Giulia

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Jean Michel Cazabat: sapere quello che le donne vogliono ai piedi

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di Francesco La Bella 120

di Francesco La Bella,

Massimo Bray e la salute della cultura italiana

Francesco Chert

di Matteo Macuglia

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Franz Kraler philosophy di Redazione 90

Hide&Jack: la nuova generazione dell’imprenditoria italiana di Francesco La Bella, Francesco Chert 95

Royal Notes: prendete appunti. Realmente. di Francesco La Bella, Francesco Chert 100

It’s Watch, l’orologio da vestire di Bettina Todisco 102

Nodo, la moda tra artigianato e design di Francesco Chert

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Riccardo Apollonio: il futuro della “Regina delle Dolomiti” visto dall’Hotel Cortina di Francesco La Bella TECNOLOGIA 128

Prase Engineering, dalla provincia ai mercati esteri di Matteo Zanini 132

I-Cable: la rivoluzione del colore di Redazione 134

ANIA, missione sicurezza stradale di Matteo Macuglia 138

C-Boat: Il lusso di un’imbarcazione sartoriale di Francesco Chert

GUCCI SPECIAL

di Gucci 107

Gucci Timepieces & Jewelry presenta... 109

Il Motivo Flora in una serie contemporanea di design femminili 111

Le ultime varianti della collezione di Gioielli Preziosi Horsebit

FOOD TRAVELS 142

Dal seme alla tavoletta di Alice Noel Fabi GALLERIA CONTINI 146

L’Universo Fantastico di Carla Tolomeo di Riccarda Grasselli Contini, Martina Vocci

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INTERVISTA SPECIALE IL A ANTONIA BALLO DEL SAUTTER DOGE

Il Ballo del Doge NUMERO 1/II

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SPECIALE IL BALLO DEL DOGE

La bellezza e l’emozione di far parte di un sogno C’è un sogno che si materializza per una notte, una sola notte all’anno, a Venezia, un sogno fatto di regine, di eleganza assoluta, di sfarzo e bellezza, di follia e sensazioni travolgenti, di emozioni e profumi, di musica e colori, di arte e spettacolo: Il Ballo del Doge. Un sogno che nasce da colei che ha dato vita a questa «esperienza totale», Antonia Sautter, dalla sua fantasia e da una figura materna che le ha insegnato l’amore per il bello e per le cose ben fatte. E il sogno diventa la missione di una vita, diventa uno degli eventi più raffinati, eleganti ed esclusivi al mondo, diventa realtà, emozione, meraviglia.

Di FRANCESCO CHERT

Come nasce il Ballo del Doge? E soprattutto, cos’è veramente il Ballo del Doge? Il Ballo del Doge è un sogno visionario. Io stessa non mi definisco solo e unicamente una event planner, ma piuttosto una creatrice di sogni. Il Ballo del Doge è il risultato di tutte le suggestioni che popolano i miei sogni e che riporto anche negli altri eventi che organizzo. È creazione pura e ho totale libertà nel modo in cui decido di raccontarlo e condividerlo con i miei Ospiti. Il Ballo del Doge è un’esperienza totale! Il Carnevale è solo un pretesto, ma dà la possibilità di spaziare con la fantasia. Poi ho il privilegio di essere nata a Venezia e di viverci: non esiste al mondo palcoscenico più suggestivo. E’ Venezia che ha ispirato 23 anni fa la mia avventura imprenditoriale, Il Ballo del Doge, che tanto successo ha avuto nel mondo, tanto da esser annoverato dall’ABC television come una delle 100 cose da fare assolutamente nella vita!

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Ma com’è cambiata Venezia negli anni? Cosa rimane della Venezia romantica, silenziosa, rispetto alla Venezia invasa dai turisti? È molto cambiata, purtroppo. Servirebbero delle politiche più attente alla gestione dei grandi flussi turistici che non possono essere omologate al resto d’Italia. Venezia è diversa rispetto alle altre città d’arte. È più delicata, più fragile. Occorre capirne la particolarità, l’unicità, l’essenza, la diversità. I flussi turistici non ben gestiti creano più problemi che vantaggi perché questo tipo di visitatori “mordi e fuggi” non coglie la storia, lo stile, la vita vera di questa città. Visitare Venezia in 3 o 4 ore non può generare emozioni o piacevoli ricordi, al massimo un paio di selfie sul Ponte dei Sospiri sovraffollato. “È massa che si confonde dentro altra massa”. Gli Ospiti de Il Ballo del Doge, per mia fortuna, non appartengono a questa categoria, perché non sono semplicemente turisti ma viaggiatori,

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INTERVISTA A ANTONIA SAUTTER

collezionisti d’emozioni. Vengono qui spesso durante l’anno non solo per scegliere il loro costume, ma per conoscere a fondo la città, immergersi nelle sue atmosfere, vivendola con amore a 360°. Molti degli Ospiti de Il Ballo del Doge tornano ogni anno, perché sanno che il mio Ballo si rinnova totalmente ad ogni edizione, con nuove storie, nuove ambientazioni, nuove scenografie, nuovi personaggi, nuovi Sogni. Gli Ospiti tornando si aspettano di rinnovare lo stupore e l’emozione che hanno provato quando per la prima volta hanno varcato la soglia del Palazzo sul Canal Grande, lasciandosi alle spalle la realtà per entrare in un magico mondo incantato.

Il made in Italy, nel suo complesso, quindi come sogno, stile di vita, e come qualità dei materiali, della manifattura e della sartorialità, in che stato di salute versa? Siamo ancora i maestri dell’eleganza? Siamo sicuramente ancora i maestri dell’eleganza, un esempio per tutto il mondo. La nostra storia, la nostra cultura e tutto quello che è stato non si cancella. È nell’immaginario, in ogni parte del mondo. L’eleganza italiana è sempre un modello, grazie a dei geni creativi e alla loro passione. Ma stiamo vivendo un po’ di rendita o stiamo continuando a meritarcela? Quello che mi fa più male è che questa crisi ha ucciso quella che era la colonna

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portante del made in Italy, gli artigiani. Gli artigiani che lavoravano ancora il capo a mano e molti piccoli laboratori che supportavano le grandi aziende come terzisti non ci sono più. Molti produttori si sono rivolti all’estero, soprattutto a quei Paesi in cui la manodopera costa molto meno, cercando un surrogato di know how, ma le abilità artigianali italiane sono inimitabili e sono fatte di esperienza, tradizione e di estro creativo tramandate di generazione in generazione. Io che osservo molto i prodotti della moda, vedo che spesso è evidente lo scadere della qualità finale. Bisognerebbe invertire la tendenza, io lo faccio, nel mio piccolo. Nella mia azienda le sarte lavorano ancora ogni pezzo a mano, rendendolo unico, le borse, le scarpe e tutti gli altri accessori che disegno, sono fatti da artigiani della riviera del Brenta. E’ proprio tutto “made in Veneto!” Più che un made in Italy, un made in Veneto. La mia produzione è addirittura un made in Venezia. Infatti lo dichiaro sulle etichette

dei miei prodotti: “hand made in Venezia” a testimonianza del mio sforzo, nonostante tutto, nel portare avanti questo orgoglio, questa preziosità, questa storia. A me spaventa che le competenze vadano perse. Al di là della qualità del prodotto. Trovo che sia un delitto. Ha colto un aspetto importantissimo. Per esempio, per me lavorava una ricamatrice, un’anziana artigiana che ricamava le mie scarpe che però non ha trovato nessuno interessato a continuare il suo mestiere. Quando dieci giorni fa mi ha detto che non avrebbe più potuto continuare per motivi di età e di vista, mi sono resa conto di come si perda un patrimonio, la vera ricchezza dell’Italia. Di questo passo avremo tutti prodotti assolutamente uguali e non sapremo più riconoscerne la bellezza e l’unicità, che a volte sono fatte di dettagli impercettibili ma che da soli possono costituire uno stile e raccontare una storia. Poi ovviamente sappiamo che si vendono molto più facilmente i prodotti

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seriali senza anima, ma ben pubblicizzati, rispetto ai pezzi unici realizzati artigianalmente e con passione. Visitando il mio Atelier capirà cosa significa “capo unico”; le mostrerò le mie creazioni che non sono solo abiti da Carnevale. Lei, che nella bellezza ci è cresciuta, pensa si possa educare alla bellezza? La bellezza è sensibilità. La si può acquisire, però, perché è fatta di curiosità, di osservazione, di attenzione ai piccoli dettagli. E la si deve anche coltivare. Io ho avuto la fortuna di avere una grande maestra, mia mamma, una donna pratica, ma di grande sensibilità. Pratica perché riusciva a trasformare qualsiasi materiale in qualcosa di

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bello. Riusciva a coglierne la potenzialità e lo trasformava di conseguenza. Ovviamente questa era genialità che produceva bellezza. Gli artigiani che purtroppo oggi stanno scomparendo sono stati dei geni anonimi tutta la loro vita e hanno realizzate delle cose bellissime, e quasi mai riconosciute. Lavorando alacremente ogni giorno non si sono preoccupati di cercare riconoscimenti e onori perché la loro missione era fare le cose per bene, come diceva sempre mia madre: “se devi fare una cosa, falla bene”. Questo è stato il motore che ha reso il “made in Italy” così apprezzato nel mondo. Pensa che questo rapporto tra l’astrattezza della sensibilità e la concretezza della

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SPECIALE IL BALLO DEL DOGE

manualità sia il filo che tiene in piedi tutto? Creatività e mercato non vanno sempre d’accordo. Da qualche tempo, purtroppo c’è più interesse a quello che può piacere al mercato e non a quello che si può realizzare di elegante e duraturo, perché qualsiasi prodotto deve essere venduto rapidamente e produrre reddito con altrettanta velocità. Ma la bellezza e la capacità di riconoscerla, diventano una forma di resistenza al livellamento al ribasso e all’omologazione? Sì, l’omologazione soffoca l’originalità, la personalità, la creatività; spero si tratti di un momento di transizione, ci sono ancora persone tenaci e, fortunatamente, tanti giovani appassionati che si danno da fare. Eppure le crisi storicamente sono momenti di grande fermento. Oggi c’è il deserto. Alcuni grandi marchi basano tutta la loro attività su un marketing eccezionale e grandi investimenti pubblicitari. Se tutto si riduce a social network, comunicazione e promozione del marchio si perde di vista la qualità. Basta creare tendenza. Riconosco l’importanza del marketing, ma l’immagine non è tutto. A proposito il Carnevale, invece, mi sembra sia un concetto ambivalente: da un lato il fatto di essere protagonisti e di esagerare, da un lato si è difesi, protetti da una maschera. È complice il fatto che, protetti da una maschera che garantisce l’anonimato, ci si sente più liberi. Questo lo diceva Oscar Wilde: dai a un uomo una maschera e capirai chi è. Aggiungerei che non è solo la maschera, ma è anche il costume. Interpretare un personaggio rende l’esperienza ancor più intrigante. Evadere da se stessi e dal proprio quotidiano per entrare in un mondo diverso, in una storia diversa, senza rinnegare la propria identità: il mio percorso creativo ha origine da questo. Mia madre utilizzava il Carnevale per farmi interpretare i personaggi dei miei sogni, dandomi la possibilità di studiare la loro storia. A sei anni conoscevo bene Maria Antonietta, Caterina Cornaro, Elisabetta I d’Inghilterra e la loro personalità; creare

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il loro abito era l’occasione per calarmi nei loro panni. Settembre era il momento della progettazione. Così è nata la mia passione per i costumi. Indossando il mio costume mi calavo nella favola, nella storia del personaggio prescelto, aspettavo con trepidazione il Carnevale per diventare attrice protagonista in Piazza San Marco. Questo gioco che mi appassiona ancora è diventato negli anni Il Ballo del Doge. La mia più grande soddisfazione dopo mesi di preparazione è entrare a Palazzo la sera del Ballo per incontrare tutti coloro che lo vogliono condividere…. Prima lei mi ha citato delle icone che hanno creato il suo immaginario. Secondo lei esistono le icone oggi? Sicuramente esistono oggi molte donne protagoniste della loro vita che lasciano tracce anche molto importanti e sono esempio per molti. Le regine sono la mia passione e ho dedicato un’edizione de Il Ballo del Doge alla celebrazione di tutte le donne che sono regine nell’anima e tutti gli uomini che le sanno riconoscere. Che progetti ha per il futuro? Io sono pronta a sviluppare dal Ballo del Doge un grande spettacolo. È un peccato limitare a una sola notte tutto ciò che creo per il Ballo. Ho uno straordinario cast artistico e un team organizzativo e ho investito molte risorse in allestimenti scenografici. Ogni Ballo del Doge, ha una sua trama, un racconto, una favola che possono essere adattati a un grande palcoscenico. Questo mio progetto è ancora un sogno nel cassetto, ma è pronto per essere condiviso. Qual è stato uno dei momenti più emozionanti di questo sogno? Quando entro a Palazzo, ogni anno, la sera de Il Ballo del Doge e assaporo l’orgoglio di aver realizzato un evento unico, irripetibile, dove la bellezza non è solo estetica, ma armonia di creatività, passione e managerialità. Non sono alla ricerca di gratificazioni formali o riconoscimenti, ma vorrei che la mia esperienza potesse esprimersi anche sul palcoscenico di un teatro. Il Ballo del Doge è la mia formula magica,

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SPECIALE IL BALLO DEL DOGE

una alchimia di artisti, scenografi, decoratori e tante persone talentuose in grado di offrire su tutti i palcoscenici del mondo uno spettacolo mozzafiato. Sono un po’ triste quando, dopo il Ballo, si spengono le luci, si smontano le scenografie, si ripongono i costumi, si riconsegnano le chiavi del Palazzo sul Canal Grande. Vorrei che questo sogno mio e dei miei Ospiti potesse vivere più di un solo giorno all’anno. Tanta energia creativa meriterebbe d’essere replicata. Non c’è video o foto che possano davvero raccontare le sensazioni, i profumi, le luci, i colori, gli incontri di questa onirica esperienza. Il Ballo del Doge è un sogno da vivere. (16’ 35’’)

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FOCUS MODA

Moda Approfondimenti Persone Brand

Foto Brigitte Vincken, modello Massimo di Nicola @ Fashion Milan, Grooming Astor Hoxha @ CloseUp Milano Styling Matteo Greco, ass. Simona Dell’Unto. Massimo veste: abito e camicia Canali, cravatta Brioni.

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APPROFONDIMENTI

Un mondo outlet

Di FABIO DE VISINTINI

Cataloghi patinati o vere opere d’arte grafica per mostrare oggetti fantastici da sognare, oggetti dal prezzo inarrivabile che nessuno, o quasi, comprerà mai. Cataloghi dedicati a tanti per prodotti accessibili a pochi. Cucine da decine o centinaia di migliaia di euro, dove un pomodoro non sarebbe gradito perché potrebbe turbare il design minimalista. Abiti, indossati da modelle tanto belle, quanto anoressiche, sotto le luci sgargianti delle passerelle milanesi, che tanto non vedremo più, perché poco portabili. Esiste un mondo artefatto che segna le tendenze o le mode, una rappresentazione che raggiunge un pubblico ammirato e vasto, ma un mondo comunque artificiale, inarrivabile. Almeno per noi italiani. Ma questo, s’ha da dire, è quel che di meglio possiamo offrire al mondo ed è fatto di creatività accompagnata da esperienza e magistralità. I veri clienti delle boutique, da via della Spiga a via Condotti, in fondo, sono perlopiù arabi o asiatici, ammirati dallo stile senza uguali del made in Italy. Il brand diventa mito e, come tale, inarrivabile, ma gli italiani ne sono consci e sanno come fare per ottenere il valore dello stesso brand senza investire patrimoni e, soprattutto, facendo acquisti utili

“Quel che di meglio noi italiani possiamo offrire al mondo è fatto di creatività accompagnata da esperienza e magistralità, ma i veri clienti delle boutique, da via della Spiga a via Condotti, sono perlopiù arabi o asiatici, ammirati dallo stile senza uguali del made in Italy.” o comunque utilizzabili. Il segreto del nostro tempo si chiama Outlet. L’accesso non è riservato soltanto a chi vorrebbe appartenere alla casta superiore, quella che si può permettere i grandi marchi, perché la stessa casta fa man bassa tra gli scaffali e le grandi aziende lo sanno. Corriere organizzate di italiani e stranieri si lanciano nei mega outlet toscani delle firme della moda, mentre corriere organizzate di negozianti cinesi comprano qualsiasi cosa, purché sia di marca, per poi rivenderla nelle loro botteghe come originale, in barba (almeno in questo caso) a chi li considera perennemente falsari. Che il prodotto sia all’ultima moda o alla penultima, cambia poco se queste hanno un ricambio così veloce, mentre la possibilità di ottenere a prezzi di mercato oggetti destinati ad una nicchia di abbienti, crea una libidine interiore che non risparmia nessuno. Zara & friends, nel frattempo, hanno smascherato il valore reale dell’abbigliamento, dove il gap per la qualità dei tessuti o per la cura sartoriale non sembra più giustificato per grandi marchi che si fanno costruire in Asia, usano materiali di sintesi e fatture non sempre eccellenti. Il forte valore intangibile rappresentato dal marchio, dunque, si sta erodendo

tra falsari sempre più perfetti, tra consumatori sempre più aggiornati sulle occasioni speciali, tra le gaffe aziendali di chi, sbandierando perfezione tedesca, viene colto con le mani nella marmellata truccando dati sull’inquinamento. La grande corsa alla rappresentazione, per ora, non segna il passo e la nostra vita è condizionata ancora dalla possibilità di avere un iPhone, un’auto tedesca, una Polo Ralph Lauren o mangiare Nutella, incuranti più o meno consapevoli, che Jobs non era un santo e Apple sta inquinando il Ghana con i suoi rifiuti, che anche le auto tedesche hanno componentistica Made in China e raccontano storie, che le Polo sono fatte in Asia e soffrono già dal primo lavaggio, che la Nutella è fatta di zucchero ed olio di palma. Il nostro obiettivo collettivo è possedere tutto questo al prezzo più conveniente, illusi di aver fatto un ottimo affare, infatti, sempre più spesso, la pubblicità non è focalizzata sulle caratteristiche intrinseche di un prodotto, bensì sui vantaggi/sconti/regali di cui il consumatore potrà godere, indifferentemente per cosa! Gratis è il sogno di tutti. (2’ 50’’)

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APPROFONDIMENTI

Moda e genio tra storia e futuro, una chiave di lettura per comprendere la società

Di GABRIELE GEROMETTA

La moda è da sempre un mondo criptico ed elitario, con dinamiche spesso incomprensibili a chi non ne fa parte, spesso frainteso o considerato futile, sempre al centro di polemiche e discussioni. Ma cos’è la moda? Letteralmente il termine moda nasce dal latino “modus”, che può significare maniera, norma, regola, tempo, melodia, ritmo, tono. La moda quindi, nella sua accezione prima, rappresenta una scelta che si fa regola, un comportamento condiviso da un gran numero di persone. Nella definizione del dizionario Garzanti la moda è ”l’usanza più o meno mutevole che, diventando gusto prevalente, si impone nelle abitudini, nei modi di vivere, nelle forme del vestire”. Il Devoto-Oli, invece, la definisce come ”…principio universale, uno degli elementi della civiltà e del costume sociale, che interessa non solo il corpo ma anche tutti i mezzi di espressione di cui l’uomo dispone”. Un concetto onnicomprensivo che fa parte della storia dell’uomo fin dalle origini, applicabile ad ogni ambito e contesto e profondamente radicato nell’identità culturale e sociale di ogni civiltà e che nel corso dei secoli è divenuta dinamica fondamentale, che appaga la necessità di coesione e differenziazione sociale, crea identità e indirizza comportamenti condivisi. Nel corso del ‘900 la moda è stata oggetto di analisi e riflessioni da parte di molti studiosi. In particolare il sociologo tedesco Georg Simmel che nel suo saggio “La moda”, del NUMERO 1/II

1895, fissa alcuni concetti fondamentali delle dinamiche che sottendono a questo ambito. Secondo Simmel, la moda rappresenta la massima concretizzazione del fascino esercitato dalle novità, in particolare sulla borghesia e le classi medie, poiché esse, a differenza delle classi più agiate, non possiedono tradizioni e stili familiari consolidati e, a differenza delle classi meno abbienti, ambiscono a migliorare il proprio status sociale costruendosi un proprio stile. Simmel continua sostenendo che il concetto di moda e le sue dinamiche calza particolarmente bene con lo “spirito moderno” perché, oltre a proporre continue novità, le pone costantemente in un ambito ciclico: la naturale propensione per la novità, che per sua stessa natura risulta transitorio e mutevole, bene si sposa al «tempo impaziente» del moderno vivere, che implica necessariamente un «desiderio di un rapido cambiamento dei contenuti della vita». In parole povere, grazie proprio alla sua natura effimera, la moda permette di percepire la novità come illimitata e contestualmente la percezione che ciò che è «assolutamente innaturale» può avere ragion d’essere perlomeno in questa transitoria forma. Calando questi concetti nelle dinamiche sociali, Simmel individua un processo ricorrente, la “teoria del gocciolamento” nella quale le classi inferiori tendono ad imitare quelle più elevate, che a loro volta adottano un nuovo stile per rimarcare la differenza. Un processo circolare, basato su un contino 33


MODA E GENIO TRA STORIA E FUTURO

“E allora parliamo di modelle anoressiche o cocainomani al centro del gossip, passerelle attraversate da abiti incomprensibili ai più e via elencando circostanze in cui la mediocrità diffusa incrocia la propria strada con un ambito che non può non vivere, per sua stessa natura, di eccessi e provocazioni.”

cambiamento. Ovviamente questi concetti rimangono parzialmente validi anche oggi, con l’ulteriore complicazione portata dalla globalizzazione. Aver ampliato l’ambito di riferimento a livello globale, ha portato a un esponenziale aumento di modelli e variabili, mettendo in discussione la centralità dei gruppi sociali a favore dell’individualità. Oggi ognuno ha un paniere potenzialmente infinito di ispirazioni per costruire la propria immagine sociale. Chiunque può aderire ad un dato “immaginario” in un dato ambito della propria vita e a mille altri in ambiti diversi, l’individualità riprende il centro nel melting pot globale. La moda rappresenta dunque un mondo di innovazione e determinazione sociale, molto più radicato nei gangli della società di quanto l’immagine condivisa dalle masse possa cogliere. Nella medietà tendente al basso della comunicazione incentrata sul web, emergono solo gli aspetti più pop, curiosi, o polemici di un mondo che meriterebbe un altro grado di approfondimento. E allora parliamo di modelle anoressiche o cocainomani al centro del gossip, passerelle attraversate da abiti incomprensibili ai più e via elencando circostanze in cui la mediocrità diffusa incrocia la propria strada con un ambito che non può non vivere, per sua stessa natura, di eccessi e provocazioni. Come spesso accade ed è sempre accaduto, il “genio”, raramente è compreso nella sua contemporaneità e con questo speciale, vogliamo provare a proporvi uno sguardo, una chiave di lettura alta, ma al contempo pop, che possa permettere di avvicinarvi ad un mondo pieno di storia e fascino, moderno e orientato al futuro. (3’ 35’’)

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APPROFONDIMENTI

La moda è comunicazione

Di BIAGIO LIOTTI

L’abbigliamento è comunicazione. Il capo che indossiamo, e ancor di più, gli accessori, permettono di identificare non solo il nostro ruolo nella società, ma l’appartenenza sociale, culturale, politica e religiosa. Negli anni Ottanta: i paninari, metallari, dark, rockabilly comunicavano con il loro abbigliamento l’appartenenza non solo a un gruppo ma ad uno stile di vita, un modo per essere etichettati e uscire dai luoghi comuni per differenziarsi da una società stereotipata. In quel modo si indossava una divisa, standardizzare la propria appartenenza al gruppo e a quella cultura: musicale, modaiola, intellettuale. Oggi, come da sempre, il concetto di divisa è peculiarità di organizzazioni complesse, prima fra tutti i militari, ma anche i medici, le forze dell’ordine, i club sportivi. Con un solo sguardo si identifica l’appartenenza di chi la indossa, le sue competenze e per uno sguardo più attento, anche il ruolo che quella persona ricopre nell’organizzazione stessa. In molti stati nel mondo, l’uniforme è peculiarità di tutti i settori pubblici: la società elettrica, il servizio postale o ferroviario, la scuola pubblica o privata. In occidente molto più spesso, per motivi legati a posizioni politiche, economiche o sociali, non sempre la divisa viene utilizzata. A fare la differenza è quindi l’accessorio, il tesserino portato al taschino, quel determinato cappellino o, semplicemente, la borsa che si impugna, stanno ad identificare l’appartenenza, l’ambiente lavorativo o scolastico. Ilaria Cappelluti, splendida voce di RADIO 101 ci

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spiega: «La moda interpreta una serie di appartenenze ma non ne crea. Un’appartenenza può essere data da una maglia? Mi vengono in mente per ovvia associazione d’idee le squadre sportive, piuttosto che certe tendenze passeggere. La moda non può creare nuove uniformi. Molto più profondamente penso che non ve ne siano da inventare e qualora ce ne fossero, oggi come sempre, non sarebbe la moda a inventarne, ma la società a richiederne. La domanda è: esistono ancora ambienti che richiedono un’appartenenza estetica? La ben più drammatica domanda è, in una società così individualista c’è ancora spazio per l’appartenenza? Il manager porta raramente il suo abito migliore, l’attrice troppo spesso un abito di seconda mano e mentre nei teatri si entra con le scarpe da tennis, i divi si fanno foto in pigiama che fanno il giro del mondo». Eppure se in determinati ambienti l’uniforme o divisa, chiamatela come vi pare, è indispensabile e obbligatoria, in altri è non necessaria o addirittura bandita. Eppure ognuno di noi indossa la propria uniforme che, immancabilmente, posta in relazione con altri simili, identifica l’appartenenza. L’uniforme non deve essere necessariamente identificata dall’abbigliamento, ma dal taglio dei capelli o della barba, dalla spilla che si porta all’occhiello della giacca, dal tablet che si usa. Provocatoriamente direi anche dal tipo di giornale che si acquista e si porta sotto il braccio o si intravede dalla propria borsa. Con l’abbigliamento pertanto

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LA MODA È COMUNICAZIONE

“Ognuno di noi indossa la propria uniforme che, immancabilmente, posta in relazione con altri simili, identifica l’appartenenza.”

si comunica eccome: efficienza, efficacia, conformismo o anticonformismo. Il nostro corpo diventa una tela da valorizzare per indirizzare, il messaggio e raggiungere l’obiettivo. Un manager senza il suo abito diventa quindi meno credibile? Probabilmente no ma ci metterebbe molto più tempo per dimostrarlo. In alcuni ambienti, poi, non indossare l’abbigliamento giusto è come profanare la sacralità dell’ambiente stesso. Penso alla prima della Scala di Milano senza indossare lo smoking o partecipare al ballo delle debuttanti in polo. Viceversa presentarsi ad una bella serata informale in doppio petto. Per concludere è interessante leggere quanto ha da dire sull’argomento Giampietro Vecchiato, Professore a contratto presso l’Università di Padova per i Corsi di Laurea in “Strategie di comunicazione” e Senior partner della P.R. Consulting: «“Mi date l’impressione di chi sta ai bordi della piscina e, mentre io sto annegando, si preoccupa di che colore ho il costume da bagno”. Così si esprimeva negli anni Sessanta un top manager della multinazionale 3M riferendosi ai suoi responsabili dell’immagine e della comunicazione. Sicuramente chi si occupa di comunicazione deve occuparsi anche di uniforme. Perché l’abito fa il monaco e quindi tutto, ma proprio tutto, trasferisce all’esterno elementi della nostra identità, del nostro essere. Proprio uno degli elementi visivi che caratterizzano una persona e/o un’organizzazione è proprio l’abbigliamento/uniforme». (3’ 25’’)

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SAN MARCO 318/A CALLE DELLA CANONICA 30124 VENEZIA Shop online at www.micheledefina.it Michele De Fina Venezia NUMERO 1/II

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APPROFONDIMENTI

Finis Austriae, l’inizio della modernità

Di LUCA DELLE DONNE

L’Impero austroungarico sembrava non avere mai una fine: nulla sembrava impensierire l’eterno succedersi dei giorni felici sotto Franz Joseph. Tutti riconoscevano con il massimo rispetto l’egemonia di Vienna per il suo illustre passato e per i musicisti che continuavano a cercarvi fortuna: essere accettati a Vienna significava entrare nel Parnaso ed essere in qualche modo accostati a Haydn, Mozart e Beethoven. Paragoni arditi e pericolosi. Al ritmo di un sorridente ed instancabile valzer si era arrivati all’alba del nuovo secolo e si stava preparando qualcosa di inatteso. La musica colta, con il passare degli anni e delle mode, era diventata classica, romantica, post romantica e infine si stava ramificando cessando di essere un patrimonio esclusivo dell’Austria. La Francia impressionista, l’eroica Russia, l’esotismo spagnolo, il melodramma italiano, il sinfonismo tedesco erano tutti figli cresciuti che non avevano bisogno di chiedere al nobile Nonno il permesso di mostrare il loro abbacinante carico di novità espressive. “La nostra passione era appunto scoprire e precedere l’ultima novità, quel che di più insolito e stravagante non era stato ancora volgarizzato da nessuno, non soprattutto dalla critica ufficiale dei nostri dignitosi quotidiani: una passione del resto alla quale io ho ceduto ancora per molti anni. Conoscere quel che era ancor sconosciuto, amare le cose meno accessibili, più audaci, più singolari e radicali, era la nostra smania [...]” Il giovane Stephan Zweig nel libro “Il mondo di ieri” così racconta la sua giovinezza a Vienna alla fine dell’Ottocento: e continua esaltato per una pacca sulla spalla ricevuta da Johannes Brahms, trionfante quando scorgeva Gustav Mahler per strada, primo tra i primi a reperire le GENIUS PEOPLE MAGAZINE

introvabili prime edizioni delle poesie di Reiner Maria Rilke. Per non parlare delle altre personalità che erano “di casa” come gli architetti Adolf Loos ed Otto Wagner, la triade di pittori Klimt, Schiele e Kokoschka, il mordace scrittore di aforismi Karl Kraus, il poeta Peter Altenberg che ogni giorno della sua vita sedette allo stesso tavolo del Cafe Central. Ed ancora Freud, Werfel, Schitzler... Ribolliva uno spirito nuovo, diverso, necessario, e che rifletteva l’urgenza di cambiamento che gli artisti fiutano prima delle persone comuni. Giovani entusiasti vissero il periodo a cavallo dell’anno 1900 come un salto coraggioso dove la forza di osare vinse sulla serena inerzia che garantiva il vecchio rassicurante imperatore. Solitamente i periodi di incertezza e di cosiddetta decadenza presentano una ricchezza stilistica fuori dall’ordinario: così fu per l’ellenismo, la fine dell’impero romano ed il manierismo dopo il Rinascimento. In questo “Fin de siècle” tutte le Arti pulsarono di nuova linfa vitale: architettura, grafica, letteratura, poesia, scultura, pittura. E, naturalmente, il cambiamento per la musica non poté essere meno potente. Le sinfonie di Wagner, Mahler e Bruckner, in diverse maniere, erano titaniche opere in cui si avvertivano i germi di un’imminente frattura. A Vienna sotto il grido di Secessione l’Arte fu scossa nel profondo. Il compositore Arnold Schönberg dapprima seguì i grandi Maestri e dopo essersi accorto del vicolo cieco in cui la musica colta si era arenata - comportandosi anch’egli da grande e coraggioso rivoluzionario - decise per la soluzione più drastica ovvero l’atonalità. L’assenza del fondamento della musica classica fino a quel momento. Non per moda, non per stravaganza ma per urgenza espressiva al pari dei suoi colleghi nelle altre arti. E da questo brodo primordiale 38


FINIS AUSTRIAE

Il Palazzo della Secessione a Vienna di Joseph Maria Olbrich.

rimise in discussione tutto, dando alla luce una nuova tecnica compositiva chiamata serialismo e più precisamente dodecafonia; musica organizzata secondo rigide regole numeriche, senza contenere necessariamente una melodia orecchiabile e quindi “borghese”.

le conseguenze: la frattura tra artista e pubblico, il bisogno impellente di evasione e sperimentazione dell’intellettuale, lo sgretolamento dell’aura attorno all’opera d’arte, l’irruzione violenta della razionalità in un campo sino ad allora dominato dal sentimento.

Un pensiero molto lungimirante che possiamo arditamente accomunare alla riforma organizzativa che Johann Sebastian Bach operò sulla musica dei tempi passati e che lo ha reso il padre della musica classica occidentale. Il serialismo e lo spirito di affrancamento dalle melensaggini post romantiche è stato ripreso rigidamente dai discepoli di Schönberg, sviluppato, trasfigurato in tutto il XX secolo. Le nuove composizioni, che non potevano piacere al gusto del grande pubblico ma gli intellettuali subito battezzarono come la nuova via, furono il punto d’inizio di infiniti processi di cui ancora oggi si avvertono

L’elogio della storia passata è inutile e sterile ma quanto mai necessario in periodi di cultura massificata e in cui il massimo della libertà di espressione è dare contro al pensiero comune. La riproposizione di un periodo di grandi stravolgimenti storici deve riportare all’ammirazione verso dei modelli dove le Arti erano al centro dell’attenzione e non un piacevole contorno spesso non retribuito – e quindi non riconosciuto – e considerato meno di una partita di calcio. Riflettere sull’attualità significa certamente pensare ma soprattutto agire. (4’ 00’’)

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APPROFONDIMENTI

La moda, un mondo tra fashion e postmodernità

Di MATTEO MACUGLIA

Con la fine delle grandi ideologie i media si sono presentati al mondo come i nuovi detentori della verità, pronti a rivelarla all’utente-consumatore in cambio di ottimi diritti pubblicitari. Con l’avvento di internet e della rivoluzione tecnologica, il mondo della notizia ha subito un’ulteriore espansione grazie ai siti web i quali a loro modo possono proporre ognuno le proprie notizie quotidiane, affrancando sé stessi ed i loro utenti dai media tradizionali. È proprio questo moltiplicarsi delle fonti che ha portato il marketing moderno a subire la sua più maestosa rivoluzione dall’alba dei tempi. Nel momento in cui si tenta di vendere qualcosa ad un cliente ci si trova di fronte ad un individuo che non è più solo mosso da bisogni di natura fisiologica o di sussistenza, ma piuttosto da una costante ricerca di significato, con una consapevolezza e completezza informative che erano impossibili in passato. Questo ha introdotto la possibilità di capovolgere uno dei paradigmi del meccanismo domanda-offerta in favore del venditore. Invece che inseguire la domanda è lui stesso a crearla, inducendo in un secondo momento il proprio cliente all’acquisto di qualcosa di cui prima non sentiva la necessità. Non poteva non rientrare tra le categorie più colpite da questo nuovo paradigma commerciale una delle più alte rappresentazioni fisiche del bisogno umano di autogratificazione ed appartenenza sociale: la moda. Se per tutta la storia dell’umanità il vestiario ha assunto una connotazione

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“tribale”, dando quindi un’indicazione dell’appartenenza di un individuo ad un certo gruppo, oggi la questione è decisamente esplosa. Dopo le lotte degli anni ’80 i giovani di tutto il mondo hanno subito una frammentazione in migliaia di subculture, tutte caratterizzate da uno specifico modo di vestirsi, comportarsi e da peculiari credenze rispetto alla vita. Tutte queste realtà poi, grazie all’avvento dei media digitali, hanno avuto la possibilità di crescere e farsi conoscere, riuscendo a varcare i confini di Stati e continenti. La moda assume a questo punto alcune importantissime funzioni all’interno di questo nuovo mondo postmoderno. La prima è assolvere al bisogno di autogratificazione che porta, come risultato finale, alla creazione di un’identità basata su di una serie di idee, atteggiamenti e modi di vestire. Si crea così uno status in cui il corpo è qualcosa da rivestire, in un processo di perenne costruzione di sé stessi e della propria personalità. Lo stesso contesto in cui le persone si muovono finisce, sempre per mezzo dell’incessante susseguirsi delle mode, per essere sempre liquido, rendendo impossibile per chi lo vive un adeguamento che possa essere al passo con le novità quotidianamente introdotte. Vi è quindi una sorta di ansia costitutiva della postmodernità dovuta alla mancanza di una determinazione esterna e l’urgenza di reperirne una in un contesto caratterizzato dal perenne divenire.

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LA MODA TRA FASHION E POSTMODERNITÀ

“In un mondo in cui i mass media non sono più i rappresentanti della verità assoluta, che può essere ricostruita dall’individuo secondo i propri interessi e le proprie attitudini, ci si trova a ricostruire la propria storia, la quale può essere anche raccontata agli altri grazie ai social. L’affrancamento finisce per avere una portata rivoluzionaria nei confronti degli individui che ne sono investiti.” In un mondo in cui i mass media non sono più i rappresentanti della verità assoluta, che come già detto, può essere ricostruita dall’individuo secondo i propri interessi e le proprie attitudini, ci si trova a ricostruire la propria storia, la quale può essere anche raccontata agli altri grazie ai social. L’affrancamento porta ad un’iniziale spaesamento di fronte alla molteplicità delle fonti della notizia, ma finisce per avere una portata rivoluzionaria nei confronti degli individui che ne sono investiti. Minoranze di ogni tipo si vedono concesso un diritto di parola pressoché illimitato, possono così presentarsi al mondo con le proprie individualità e prendere un posto all’interno dello spazio pubblico che prima poteva essergli negato grazie alla segregazione sociale. Questa possibilità di presentare sé stessi al mondo è ben evidenziata dall’opportunità che ci viene data dalla moda del vestiario, di mostrarci con un look sempre diverso, dando un’immagine sempre nuova di noi stessi al mondo, sfidando provenienza, ceto e livello sociale. Se il postmodernismo professava quindi la de-strutturazione di alcune credenze e fondamenta della società, per passare poi ad una costruzione caratterizzata dal pluralismo dei punti di vista. Così la moda è riuscita ad affrancarsi da alcuni paradigmi e a tornare a sperimentare, mischiando generi ed epoche differenti, a volte anche sapendo fare della sana autoironia con le proprie creazioni. De-strutturare, in particolare, ha voluto dire abbandonare

i preconcetti dovuti dall’autodeterminazione, legati all’inevitabile influenza di ciò che ci sta intorno, alla determinazione dall’esterno. In questo modo si è avuta una vera e propria globalizzazione della moda e degli stili, in un crogiolo che ha finalmente racchiuso al suo interno l’umanità tutta. Il relativismo ha portato poi ad una totale diffidenza verso il passato, nel tentativo di non dare niente per scontato e tentare la costituzione di dei nuovi valori estetici per la nostra società. In questo contesto, nel quale il pluralismo è il padrone incontrastato di tutto, si rischia tuttavia di andare incontro ad un sottile controsenso. Se da un lato il trionfo del relativismo segna un “via libera” per tutte quelle tendenze ed opinioni che per lungo tempo si erano dovute nascondere dal resto della società, è anche ragionevole ritenere che l’uomo non sia adatto a vivere in una costante incertezza per quanto riguarda le fondamenta del suo essere. Così ad un certo punto si rivela necessario fermarsi su alcune piccole ma solide realtà, come una camicia blu per andare al lavoro o la pila di libri mai letti sugli scaffali che fanno dell’ottimo arredamento. La moda può così continuare a cercare nuove forme, lasciando però le persone al sicuro dagli stravolgimenti continui e strutturali della realtà che li circonda. (4’ 35’’)

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APPROFONDIMENTI

Alle donne che hanno cambiato la storia

Di MICHELE CASACCIA

«Che vi piaccia o no, il mondo della moda è un mondo femminile.» Anzi, è di più. «It’s a women business.» Con queste parole perentorie Timothy Greenfield-Sanders fa iniziare il suo film documentario About Face - Dietro il volto di una top model in cui, oltre alle splendide Carmen Dell’Orefice e Isabella Rossellini, altre cosiddette “ex top model” raccontano se stesse. Vi si narra un mestiere, quello della modella, non facile e non sempre di lungo corso, è ovvio. Basti pensare che già altre due generazioni di supermodelle sono succedute a quella degli anni ‘60-’70: prima quella di Naomi Campbell, Claudia Schiffer, Cindy Crawford o Kate Moss, per poi arrivare all’ultima, dei giorni nostri, di Heidi Klum e Gisele Bündchen. Ragazze bellissime e autentiche icone che sono solo la punta di un iceberg o, se preferite, il reparto più avanzato di un esercito di donne devote e visionarie, amanti del gusto e dell’arte, disposte a tutto pur di cambiare i tempi in cui vivono. E sembra dello stesso avviso anche il Times, che, parlando di Linda Fargo, l’anima del leggendario Bergdorf Goodman, il grande magazzino più famoso di New York, afferma come spesso il lusso e lo stile ruotino attorno a donne in grado addirittura di reinventare questi stessi concetti. Donne vere, realmente esistenti. Ma donne che hanno scritto la storia della moda o che hanno cambiato il corso di quella con la esse maiuscola? In un caso sarebbe semplicistico, nell’altro, forse, apparentemente eccessivo. Ma questi dubbi devono assalire solo chi non vuole vedere nell’arte i meriti che ogni cambiamento epocale è sempre in grado di generare. A quel punto non serve più nessuna discriminazione, non c’è più bisogno di femminismo GENIUS PEOPLE MAGAZINE

e maschilismo perché tutto sarebbe mosso da un pensare comune che si insinuerebbe dolcemente nelle sensibilità solamente di chi sa ascoltare. Eppure, che nella lotta all’emancipazione della donna la moda abbia giocato un ruolo fondamentale, è fuor di dubbio. Con il termine moda sarà bene perciò indicare tutta quella macchina, quel complesso di mestieri e occupazioni e vite che trasversalmente la rendono arte e commercio a tutti gli effetti, coinvolgendo appunto artisti, fotografi, sarti, editori, stilisti, modelle, commercianti, artigiani, giornalisti, pubblicitari e via dicendo. E tutto questo è moda. Tutto questo rende possibile il cambiamento, il nascere di una tendenza che dev’essere per forza di cose prima intellettuale e poi visiva. Solo così, allora, si può provare a parlare, ad esempio, di Christina Broom, la prima fotoreporter donna della storia. Prima a immortalare le agitazioni delle suffragette britanniche, che si facevano riconoscere sì dai cartelli e dai cori di protesta, ma anche e soprattutto da un appartenere comune identificato, a volte, in un comune vestire. Regno Unito che di lì a poco, negli anni Sessanta, sarebbe stato sconvolto da un’altra rivoluzione, quella di Barbara “Biba” Ulanicki, illustratrice di moda di origine polacca e laureata in belle arti, che avrebbe aperto uno delle storiche boutique londinesi. Boutique in cui avrebbe lavorato come impiegata nientepopodimeno che una giovane Anna Wintour, oggi famosissima direttrice di Vogue e, senza esagerare, una delle donne più influenti del pianeta; e donna che, per di più, sarebbe succeduta ad un altro monumento della moda di tutti i tempi, Diana Vreeland, anche lei, guarda caso, prima commerciante e poi giornalista e redattrice non solo 42


ALLE DONNE CHE HANNO CAMBIATO LA STORIA

“Con il termine moda sarà bene perciò indicare tutta quella macchina, quel complesso di mestieri e occupazioni e vite che trasversalmente la rendono arte e commercio a tutti gli effetti, coinvolgendo appunto artisti, fotografi, sarti, editori, stilisti, modelle, commercianti, artigiani, giornalisti, pubblicitari e via dicendo. E tutto questo è moda. Tutto questo rende possibile il cambiamento, il nascere di una tendenza che dev’essere per forza di cose prima intellettuale e poi visiva.” NUMERO 1/II

di Vogue ma anche di un’altra rivista storica come Harper’s Bazaar. La vera rivoluzione però era già iniziata tempo prima, intorno agli anni Venti, per opera ovviamente di Coco Chanel, che, non per niente, la Vreeland andò spesso a trovare a Parigi. Coco fu la prima a rendersi conto di trovarsi nella necessità di vestire donne “non più oziose, ma attive”, e con la sua arte, pur non dichiarandosi mai una femminista, contribuì in modo sostanziale all’esplosione del movimento e più in generale ad un nuovo concetto di femminilità da cui prese inevitabilmente spunto tutta la moda successiva E si stava muovendo qualcosa anche in Italia, dove la pellicceria Fendi iniziava a muovere i primi passi anche al di fuori del mercato nazionale, per poi diventare negli anni, in particolare grazie alle cinque sorelle Anna, Franca, Paola, Alda e Carla, uno dei marchi più famosi e rappresentativi del made in Italy. Fa bene ricordare, a questo punto, che la rivendicazione del made in Italy interessa storicamente quattro settori della nostra industria, le cosiddette “quattro A”: abbigliamento, agroalimentare, arredamento e automobili. E non si può concludere questa breve carrellata storica senza citare le Sorelle Fontana, massima espressione dell’haute couture italiana, che, prima di Valentino, avrebbero capito la forza del cinema per esportare i propri vestiti e la cultura italiana nel mondo, e avrebbero così vestito attrici e dive come la Lollobrigida, Audrey Hepburn, Grace Kelly o Jackie Kennedy. Sono imperi che durano ancora oggi, eredità che hanno passato guerre, crisi, ma hanno sempre trovato il modus (eccola, l’origine del termine moda) di seguire la società, cambiandola o assecondandola. In questo modo, autrici e interpreti, stiliste e modelle, concorrono ad un unico grande disegno: rendere il mondo più bello. (4’ 15’’)

Coco Chanel (public domain).

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APPROFONDIMENTI

I maestri dell’architettura contemporanea a confronto con la moda

Di OLIVER FABI

Moda e Architettura a confronto, un binomio che è difficile da pensare se all’architettura si pensa in un’accezione tradizionale e conservativa, ma che in diverse interessanti occasioni ha dato frutto a collaborazioni divenute eccezionali esempi di interdisciplinarità e coerenza di risultati avuti dal rapporto tra committenza illuminata e gli architetti. Uno dei capisaldi su cui si fonda l’architettura occidentale, quella che trae le sue origini negli elementi compositivi e teorici tipici dell’architettura classica romana, è la triade vitruviana. I tre principi descritti nel “de Architectura” come i valori basilari che fondano l’architettura sono: “Firmitas Utilitas e Venustas”, Solidità, Funzionalità e la Bellezza. La moda è in apparente contrasto paradossale con il valore della Firmitas, ossia della durabilità nel tempo, ed è chiaramente legata al momento, quindi effimera e temporanea. In questo contrasto però si trova, nel paradosso del mondo contemporaneo, un rapporto d’equilibrio, dove la moda può trovare nell’architettura un punto solido su cui potersi aggrappare e dove porre delle radici e degli importanti riferimenti. Nelle collaborazioni tra gli architetti e gli stilisti, i tratti caratterizzanti dell’espressione formale dell’architettura ed i segni della moda, possono fondersi in un gusto coerente e riconoscibile. In diverse occasioni questo gusto ha accumunato il genio di architetti e stilisti. Nella collaborazione tra l’architetto giapponese Tadao Aando e lo stilista Giorgio Armani, ad esempio nell’“Armani Teatro” a Milano, troviamo un’affinità estetica tra architetto e stilista. Una sintesi formale

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chiarissima: un’architettura che rispecchia il gusto del suo committente attraverso il disegno dell’idea dell’architetto. Come afferma Armani “nella volontà di creare qualcosa di assolutamente semplice, ma abbastanza prezioso da durare nel tempo”. Altro esempio d’architettura del maestro giapponese è la Fabbrica Benetton Research Center, un complesso nato dalla ristrutturazione della villa veneta del XVII secolo che ha dato vita ad un’architettura estremamente complessa. Sempre Tadao Aando è il protagonista del progetto per l’atelier e villa a Biarritz di Karl Lagherfeld il quale dice: «In quanto artista sono più abile a creare l’effimero. La moda, quella di qualità si crea distruggendo incessantemente ciò che esiste. Per contro, il lavoro dell’architetto è creare degli spazi eterni». In queste parole forse possiamo trovare quel rapporto che può in sintesi legare le due discipline. Il gusto raffinato e moderno di Renzo Piano incontra la moda confrontandosi nell’elegante e sofisticata Maison Hermès a Tokio. Questa architettura ricorda una lanterna magica ed è caratterizzata dalla pelle dell’edificio continua, realizzata in blocchi vitrei modulati nelle misure dell’iconico foulard di Hermès. Altro esempio da menzionare è l’intervento di Renzo Piano per Prada: gli Headquarters di Luna Rossa. Sempre per Prada il genio creativo del maestro olandese Rem Khoolas, ha suscitato stupore e fascino per la boutique Epicenter di New York, divenuta famosa per la scenograficità, flessibilità e trasformabilità dei suoi spazi. A metà degli anni ’90 il minimalista inglese John Pawson, sempre a New York, progettava il flagship store di Calvin Klein.

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I MAESTRI DELL’ARCHITETTURA CONTEMPORANEA

“Nelle collaborazioni tra gli architetti e gli stilisti, i tratti caratterizzanti dell’espressione formale dell’architettura ed i segni della moda, possono fondersi in un gusto coerente e riconoscibile. In diverse occasioni questo gusto ha accumunato il genio di architetti e stilisti.” NUMERO 1/II

L’“Armani Theater” di Tadao Ando. Foto di David Mellis.

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APPROFONDIMENTI

In Giappone nei quartieri tra Ginza e Omotesando a Tokyo oggi si sta svolgendo una sfida tra le grandi griffe, il cui obiettivo è quello di essere rappresentati dall’archistar più in voga. Herzog e de Meuron per Prada qui nell’Omotesando hanno progettato un grattacielo intero, come anche Kengo Kuma per Louis Vuitton, Toyo Ito per Tods e SANAA per Dior. L’Omotessando è divenuto dunque il luogo dove trovare il maggior numero di esempi a confronto: su una stessa strada troviamo i casi studio dove stilisti e archistar si mettono in mostra attraverso edifici firmati da importanti collaborazioni che testimoniano il presente; una mostra d’architettura contemporanea a cielo aperto. In questo caso forse l’esasperata ripetizione di troppi esempi vanifica l’intimo rapporto di affinità di gusto tra moda e architettura e tra stilisti ed architetti. Indubbio dunque che tra i mecenati dell’architettura del XXI secolo anche gli stilisti stiano vestendo un importante ruolo. (3’ 10’’)

In questa pagina: SANAA per Dior a Tokio. Foto Wikimedia Commons user: Kakidai. Nella pagina a fianco: La Maison Hermès a Tokio di Renzo Piano. Foto Wikimedia Commons user: Wii.

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I MAESTRI DELL’ARCHITETTURA CONTEMPORANEA

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APPROFONDIMENTI

Hugo Boss: una carriera tra l’eleganza delle uniformi naziste e dei moderni abiti maschili

Di ANNA MIYKOVA

Uniformi delle SS nera, in uso dal 1932, disegnata da Karl Diebitsch e Walter Heck, e grigia, in uso dal 1937. Dominio pubblico.

La storia a volte è beffarda, si sa. È capace di plasmare gli eventi negativi in positivi, e trasformare protagonisti del passato oscuro in personaggi di spicco del mondo contemporaneo. È il caso bizzarro del celebre stilista Hugo Boss, oggi marchio emblema dei raffinati abiti maschili che, tuttavia, a un certo punto della sua vita si ritrovò a collaborare “stilisticamente” con il Partito nazista e a vestire, seppur con eleganza, i soldati del Führer. In una calda estate del 1885 a Metzingen – una piccola cittadina a sud di Stoccarda, nella provincia di Baden-Württemberg – veniva al mondo con uno squillante vagito un altro neonato della famiglia Boss. Lo chiamarono Hugo. Al raggiungimento dell’età scolare, i genitori, piccoli commercianti proprietari di un negozio di tessuti, lo iscrissero alla scuola del popolo (Volksschule) e dopo il ginnasio, il giovane Boss affinò il mestiere, dedicandosi per tre anni allo studio degli affari commerciali. Il suo primo lavoro lo portò in una fabbrica tessile a Metzingen, dove in seguito dovette prestare il servizio militare. Ritornò poi a lavorare al telaio, ma stavolta a Costanza. Dopo la morte dei genitori nel 1908, Hugo ereditò la bottega di famiglia e lo stesso anno sposò Anna Katharina Freisinger, che non molto tempo dopo gli diede una bambina. Erano gli anni della Prima guerra mondiale ma, benché promosso al grado di

caporalmaggiore, non si ha certezza se Hugo abbia effettivamente preso parte al conflitto. Nel 1923 coronò finalmente il sogno di aprire una propria fabbrica di abbigliamento sportivo nella sua città natale. Tuttavia, per ironia della sorte l’azienda fu sull’orlo del fallimento fino al 1931, quando Hugo raggiunse un accordo con i propri creditori: lasciato con sole sei macchine da cucire, si trovò costretto a ricominciare gli affari quasi da zero. Allora, furono proprio le sfortunate vicissitudini economiche a dare una svolta alla sua svita spingendolo ad abbracciare le idee del partito nazionalsocialista. E l’iscrizione al partito – con la tessera no. 508889 – salvò i suoi affari, permettendogli di creare le uniformi per le SA (Sturmabteilung, Squadre d’assalto), le SS (Schutz Staffeln, Squadre di protezione) e la Gioventù hitleriana (Hitler-Jugend). Da allora, gli affari andarono sempre meglio e la produzione crebbe a tal punto che Boss dovette assumere altri cento operai nella sua fabbrica. Con la dichiarazione della Seconda guerra mondiale, ricevette poi l’ordine dalla Wermacht di disegnare le uniformi militari. Gli ordini di produzione aumentarono esponenzialmente e portarono nella fabbrica svariate decine di prigionieri di guerra, provenienti dalla Polonia, dalla Francia, Austria e dalla stessa

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HUGO BOSS

Russia. Alla fine della guerra, la fabbrica di Hugo Boss iniziò a produrre abbigliamento per poliziotti, ferrovieri e postini, ma la giustizia non lo aveva dimenticato: fu presto riconosciuto colpevole di collaborazionismo con i nazisti e condannato a pagare un’ammenda di 100.000 marchi. In proposito, lo storico tedesco Henning Kober descrive i manager dell’azienda come “nazisti assolti”, tutti i dipendenti di Boss come “grandi ammiratori di Adolf Hitler”, mentre lo stesso Hugo viene tacciato di conservare un posto d’onore nel suo appartamento alla foto del Führer. Hugo Ferdinand Boss morì nel 1948 all’età di 63 anni. Dopo la sua morte, il figlio assunse le redini dell’azienda fino ai giorni nostri quando Amministratore delegato della compagnia diventa il tedesco Klaus-Dietrich Lars. Fino al 1985 il marchio Boss produce abbigliamento per bambini, maschile, femminile, profumi e prodotti cosmetici, e in seguito all’accordo con Samsung e HTC, anche cellulari. Dopo la quotazione della società in borsa, il Marzotto Group acquisisce il 77,5% delle azioni per 165 milioni di dollari e vent’anni più tardi, il famoso brand di moda viene inglobato nel neonato Valentino Fashion Group. Nel 1997, il nome del leader tessile appare nella lista dei “conti dormienti” svizzeri, fatto che vale

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APPROFONDIMENTI

“Allora, furono proprio le sfortunate vicissitudini economiche a dare una svolta alla sua vita spingendolo ad abbracciare le idee del partito nazionalsocialista. E l’iscrizione al partito salvò i suoi affari, permettendogli di creare le uniformi per le SA, le SS e la Gioventù hitleriana.”

a Boss l’incriminazione di collusione con il nazismo. Due anni più tardi, i guai per la compagnia incrementano. Alcuni avvocati americani intentano una causa a nome degli eredi o delle famiglie, per contestare il lavoro forzato che i loro parenti avevano prestato nella fabbrica di Boss durante la guerra. Dopo lunghi dibattiti, la società e il governo sono quindi costretti a creare un fondo compensativo per i dipendenti (si presume che la società vi abbia partecipato con circa 752.000 dollari). In ogni caso, il risentimento oltreoceano contro il marchio non si quieta in fretta. Quando Boss decide di chiudere la fabbrica di abiti maschili in Ohio e lasciare 375 persone per strada, cresce il malcontento. E per impedire che si arrivi a uno sciopero generale, la dirigenza offre il compromesso di ridurre il salario giornaliero a trenta dollari l’ora. Pur non trovandosi d’accordo, gli operai sono costretti ad accettare l’accordo sotto minaccia di spostare la produzione in Turchia, Bulgaria e Romania. Hugo Boss ricevette il compito di creare i modelli per le SS Totenkopf,

la 3° Divisione corazzata delle SS detta Testa di morte (teschio). È curioso notare come fino ad allora le divise fossero conformi ai teatri di guerra, mentre l’estro di Boss le volle nere, colore allora considerato per tradizione tedesco e associato al cupo e all’autoritario. Il tricolore imperiale nero-bianco-rosso fu invece adottato come simbolo dal Partito nazista con la successiva aggiunta del teschio, come richiamo della Cavalleria prussiana. Fu poi Hitler stesso a riconoscere il teschio come suo angelo custode, e allo stesso tempo simbolo di paura e rispetto. Le uniformi delle unità di combattimento delle SS-Verfügungstruppe (S-VT) e, più tardi, delle Waffen-SS, furono invece soggette alle sfumature del grigio e del verde, similmente alle divise della Gestapo (Polizia segreta di Stato) che operava nelle aree occupate, per distinguerla dai civili. Oltre alle cuciture perfette, il taglio complesso, una linea elegante e di stile, Boss pose particolare attenzione ai dettagli e agli accessori: stivali, pugnali, copricapi, baschi, intarsi ed emblemi come la foglia di quercia e le aquile. Tuttavia,

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per evitare il riconoscimento del rango militare, la scrupolosa cura dei particolari scomparve dalle divise nere dei tedeschi inviati sul Fronte orientale. Curiosamente, quando il Partito nazista in Austria venne vietato, i negozi furono letteralmente sommersi dalle camicie in denim marroni, create per le uniformi nei tropici, che ben presto furono acquistate per l’abbigliamento militare nazista, con l’aggiunta di una svastica cucita sul braccio. Anche le mimetiche usate nel Sud Europa e nel Nord Africa erano creazioni di Hugo Boss. Profondamente ispirate allo stile italiano e con l’aggiunta di applicazioni tessutali per i feriti in guerra, la camicia aveva le maniche corte e spesso al posto del basco veniva indossato l’elmetto. Per il freddo, invece, abbigliamento mimetico prevedeva calde fodere e interessanti soluzioni per il fissaggio delle giacche a vento. A volte a cena non era richiesto di indossare l’uniforme. Veniva allora sostituita dal frac ma sprovvisto di “coda” (l’odierno tight), un papillon bianco o nero e un gilet. I risvolti erano rigorosamente in seta pregiata, mentre l’appartenenza al rispettivo grado militare si esprimeva nei tipici nastri d’argento cuciti sul colletto. Un percorso altalenante quello di Hugo Boss, che attraversa alti e bassi raggiungendo il picco della sua carriera nel buio della Seconda guerra mondiale al fianco del regime nazista, e nel mondo contemporaneo che fluttua tra la voglia di raffinatezza e il desiderio di apparire. Indubbia è tuttavia la presenza dello stilista nella moda di ieri e di oggi, e la capacità di essere un indiscusso protagonista dell’eleganza militare del recente passato tedesco e di quella dell’uomo d’affari moderno. (6’ 15’’)

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Natalia Kapchuck: il lato poliedrico della moda Nata professionalmente come modella, è riuscita a diventare attrice, produttrice televisiva, imprenditrice, artista, seguitissima web influencer. L’incredibile storia della giovanissima Natalia Kapchuck.

Di FRANCESCO LA BELLA FRANCESCO CHERT

Foto di Irene Eastington.

Natalia, tu nasci come modella ma, pur essendo giovanissima, sei già riuscita a diventare anche attrice, produttrice televisiva, imprenditrice, artista. Questa evoluzione è avvenuta per caso o avevi già idea della strada che avrebbe preso la tua carriera? A dire il vero non ho mai pensato che la vita mi avrebbe portato dove sono ora. La vita è piena di sorprese, ma sono stata fortunata a ricevere un’educazione prima nelle belle arti e poi nelle relazioni internazionali. Grazie ai miei genitori, che mi hanno sempre incoraggiato nelle mie imprese universitarie, sono stata in grado di accumulare conoscenza da diverse aree. Loro si sono impegnati molto perché io potessi accedere alla migliore università possibile secondo gli standard russi. All’inizio, la mia carriera stava andando in un’altra direzione, non esattamente quella per cui ero stata educata. Iniziai a fare la modella molto presto, quando uno stilista mi ha notata: avevo 14 anni. Poco GENIUS PEOPLE MAGAZINE

dopo arrivarono le gare di sfilate. Vinsi il titolo di Miss Siberia nel 2002 e a questo seguirono molti anni di moda. Tuttavia ho sempre sentito che fare la modella non era abbastanza per soddisfare le mie ambizioni e i miei sogni. Nel 2013 fui scritturata per il film di successo cinese “Switch”, che incassò 50 milioni di dollari al botteghino. L’anno successivo co-produssi un film “Talking Stock”, dove recitavo anche una parte. Il film è una commedia contemporanea con Kelly Brook, ispirata a “Bonnie and Clyde”. L’hanno scorso ho ricevuto un’offerta da Bollywood per una parte per il film “Dilliwali Zaalim Girlfriend Movie – Cruel girl from Delhi”. Inoltre l’anno scorso ho recitato nella serie TV di FOX “Meet the Russians”. Nello stesso periodo ho iniziato a co-dirigere una mia azienda. Sono un partner della società di Lifestyle Management e Business Concierge “The Anonymous” dal 2010.

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INTERVISTA A NATALIA KAPCHUCK

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“Per me l’Italia è un’icona di stile e classe. Amo l’Italia! Passo un sacco di tempo qui. Ho anche studiato italiano all’Università, dato che amo questo paese fin da quando ero piccola. Ho anche molte amicizie qui. Roma è la mia città preferita in Europa, la sua storia e la sua architettura sono fantastiche. Amo anche la Sardegna, Capri e, naturalmente, Venezia.” Ci racconti cos’è The Anonymous? La società ha sede a Dubai, Londra e Montenegro e ha le sue radici nel campo della moda e dell’intrattenimento. L’altro lato di Anonymous è strategico. Sviluppiamo strategie di marca per brand di moda e ci occupiamo molto di gestione di eventi, consulenze di qualità e reti di contatti. Ci occupiamo anche di servizi di concierge per clienti con stili di vita più esigenti. Le richieste sono varie: dal trovare una borsa in edizione limitata o un gioiello o una bottiglia di vino, ad esempio, fino all’organizzare la vacanza più esotica. Riceviamo anche molte richieste di biglietti per gli eventi più esclusivi del mondo: gli Oscar, il festival di Cannes, importanti partite di calcio, settimane di moda, e così via. Tutto quello che il cliente vuole, noi possiamo realizzarlo (sorride). Tu vivi tra Londra e Dubai, due capitali della moda ma adesso sei qua con noi a Venezia, simbolo di uno stile italiano che da sempre detta le regole del lusso in tutto il mondo. L’Italia è ancora la patria dell’eleganza? Per me l’Italia è un’icona di stile e classe. Amo l’Italia! Passo un sacco di tempo qui. Ho anche studiato italiano all’Università, dato che amo questo paese fin da quando ero piccola. Ho anche molte amicizie qui. Roma è la mia città preferita in Europa, la sua storia e la sua architettura sono fantastiche. Amo anche la Sardegna, Capri e, naturalmente, Venezia. Credo che gli italiani semplicemente nascano con un senso di eleganza e di stile. Il modo in cui gli italiani vestono è una gioia per gli occhi. Amo fare shopping in Italia, specialmente a

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Milano. La settimana della moda di Milano è uno dei momenti migliori per me. Si può dire che in Italia e in Francia la moda è davvero di casa. Gli altri paesi seguono loro. Che influenza ha avuto il made in Italy sul tuo concetto di eleganza? Il “made in Italy” parla da sé. Per me, indica la qualità. Oggigiorno i vestiti sono prodotti in tutto il mondo, sopratutto in Cina. Se uno dovesse scegliere, il “made in Italy” sarebbe il massimo. Tu giri il mondo per lavoro. Quali sono i posti che meglio rappresentano il tuo concetto di eleganza e che consideri imprescindibili per chi vuole lavorare nel mondo della moda? È vero, viaggio molto. Non lo sento come un lavoro, a dire il vero. È più come un modo di vivere, uno stile di vita, direi. Credo che quelli che mi seguono ogni tanto mi perdono di vista. Amo viaggiare con uno scopo. Come professionista di Lifestyle so qual è il periodo dell’anno migliore per visitare un determinato posto. Quando si parla di moda, amo partecipare alle settimane della moda: New York, Milano, Parigi e così via. C’è la possibilità di vedere nuove tendenze non solo sulla passerella ma anche nelle strade e nelle feste dopo gli show. Anche i Festival del Cinema sono eventi dove non manco mai. Vado a Cannes ogni anno, stando vicino alle celebrità, partecipando alle migliori feste ed eventi. Amo gli eventi col tappeto rosso – indossare abiti glamour è come un rito per me. Quest’anno sono stata vestita dallo stilista di Dubai Dar Sara High Fashion. Per quanto riguarda il festival di Venezia, è la

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mia seconda volta e lo amo. Venezia è unica e quando la bellezza incontra il cinema e la moda si crea una combinazione magica. Anche il Festival di Ischia è fantastico, perché è molto intimo, ma il calibro di attori e persone del settore che vi partecipa è impressionante. Devi essere in questa cerchia per farne parte e sentire la qualità di questi eventi. Porto Cervo nella prima settimana di agosto è il luogo più elegante, con le migliori persone e fantastiche feste nell’hotel Cala di Volpe. Quest’estate ci sono stati due fantastici eventi: la festa di Fawaz Gruosi (De Grisogono jewellery) e il concerto di Robbie Williams. Esistono delle icone del passato alle quali ti ispiri? Sì. Sophia Loren, Brigitte Bardot e Coco Chanel sono le più iconiche secondo me. Esistono oggi le icone? Chi sono? Ogni epoca ha le proprie regine di stile, che personificano un certo spirito di quel periodo. Le icone di oggi sono Monica Belucci, Donatella Versace, Chiara Ferragani e Anna Dello Russo, per citarne alcune. Come abbiamo accennato sei anche una apprezzata pittrice. Come nasce la tua passione per l’arte? La consideri una semplice passione o un vero e proprio lavoro? Non ho mai voluto essere un’artista, dato che mia madre lo era e fin da piccola ho visto come essere un’artista è una lotta continua. Per questo motivo, ho evitato l’arte per diversi anni, anche dopo essermi diplomata alla scuola d’arte. Comunque, nel profondo l’arte mi mancava. Recentemente, ho iniziato a dipingere nel tempo libero e mi sto impegnando sempre di più. Quando dipingo, il tempo passa senza che me ne accorga. Ho scoperto di essere una pop artist di diversi media, ispirata da artisti come Mr. Brainwash, Dain, e il leggendario Andy Warhol. Dipingo quasi tutti i giorni ora e mi sono resa conto che questa passione

“Quando si parla di moda, amo partecipare alle settimane della moda: New York, Milano, Parigi e così via. C’è la possibilità di vedere nuove tendenze non solo sulla passerella ma anche nelle strade e nelle feste dopo gli show.” resterà con me per sempre. Il mio prossimo passo è avere una mostra e aprire la mia galleria d’arte. Tu sei anche seguitissima sui social network. Oggi è più importante, per un personaggio pubblico come te, avere il maggior numero di fan o la copertina di una rivista famosa? Molte cose sono cambiate dall’emergere dei social media. Prima le star erano create dalla stampa. Oggi i social media sono la chiave. Oggi puoi essere famosa per il numero dei tuoi followers su Instagram, Twitter, Snapchat o Facebook. La gente vive il momento e i fan vogliono avere informazioni velocemente. L’immagine è il miglior messaggio. Questo spiega, ad esempio, la popolarità di Instagram. Hai nuove sfide per il futuro? Dopo un’estate piena di delizie culinarie, la mia sfida sarà tornare al mio allenamento 4 volte a settimana con il mio trainer. Mi piace essere in forma, il che significa anche che il mio ritmo di vita è salutare. Per quanto riguarda l’arte, voglio impegnarmi ancora di più nella pittura. Ho frequentato alcuni corsi extra al Central Saint Martins quest’estate, dove ho provato la pittura ad olio, quindi potete aspettarvi ancora di più da Natalia Kapchuk – un’artista del futuro! (6’ 55’’)

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Rubens & Luciano: gli artisti della scarpa Nel cuore del Nord-Est, per la precisione a Stra, in provincia di Venezia, nel solco di quella tradizione che da sempre lega la Riviera del Brenta alla scarpa, in una meravigliosa villa veneta progettata da Giannatonio Selva, l’architetto della Fenice, dove il bianco dell’arredamento minimal e delle pareti ondulate della sala riunioni si sposano perfettamente con le architravi di legno del soffitto, si torva la sede creativa di due dei maggiori designer di calzature al mondo: Rubens Bressanin e Luciano Ferraresso. Stilisti freelance, fondano nel 1989 prima la società, poi lo studio Rubensluciano. Un anno dopo, creano e vendono la prima collezione di successo, mentre sei anni dopo ricevono le prime committenze internazionali. Nel 2013, a causa dell’esponenziale incremento di impegni professionali, sono costretti a cambiare sede per la seconda volta e decidono di trasferirsi in un prestigiosa barchessa, nella quale li abbiamo incontrati. Oggi, dopo aver saputo sfruttare la crisi come occasione di miglioramento e di incremento del lavoro, progettano scarpe che vengono indossate da 35 milioni di persone all’anno.

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INTERVISTA A RUBENS & LUCIANO

Di FRANCESCO LA BELLA FRANCESCO CHERT

Rubens (a sinistra) e Luciano (a destra) all’interno della sede di Stra, in provincia di Venezia.

Ragazzi, voi siete arrivati alle vette del mondo della moda. Quando avete capito che avevate svoltato e che stavate andando nella direzione giusta? Rubens: È stata una cosa graduale. Siamo partiti davvero da zero. Il nostro primo ufficio era poco più che un garage. Abbiamo sempre lavorato sodo, con umiltà e impegno, anche venti ore al giorno, e piano piano siamo cresciuti, perché siamo convinti che, così come esiste il sogno americano, esiste anche il sogno italiano, il sogno del nordest. La svolta è stata nel 2008, con la crisi. Scoppiata la bolla finanziaria, avevamo dieci dipendenti e un pacchetto clienti che ha cominciato

a scricchiolare, tutti ci chiedevano di spendere meno, la situazione si era fatta difficile. A quel punto ci siamo guardati negli occhi e ci siamo chiesti: «Che si fa?» e come nel gioco lascia o raddoppia abbiamo deciso di raddoppiare, investendo tutto quello che era stato accantonato negli anni precedenti, rilanciando, e questo ci ha premiato. Inoltre ci siamo adoperati per fornire tutta una serie di servizi in più, puntando sull’immagine e sull’acquisto di questo immobile che è la nostra sede operativa da quasi 3 anni. Questo ci ha premiato. La crisi è stata un’opportunità: molti competitors stavano tirando il freno mentre noi abbiamo spinto sull’acceleratore.

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“Siamo molto legati alle nostre radici e alle nostre tradizioni. Noi siamo dei designer e l’eccellenza del design è in Italia, l’ombelico del mondo delle calzature è la Riviera del Brenta: tutti i brand più importanti vengono sviluppati in questo distretto.”

Luciano: Lì c’è stato il salto di qualità perché abbiamo cominciato ad avere più visione a livello internazionale, iniziando a seguire molto di più il mercato americano, che è stato per noi il vero trampolino di lancio. Da dieci dipendenti siamo passati a trentacinque, da un ufficio di 400mq a questo immobile prestigioso in cui ci troviamo ora. Qui abbiamo cercato di rendere le cose diverse, abbiamo contribuito in prima persona all’interior design, per creare un ambiente di lavoro stimolante e che non stanchi, con linee morbide e arrotondate. La scelta del bianco deriva da questo. Come si arriva a calzare piedi famosi come quelli, ad esempio, di Julia Roberts? R: Avendo un pacchetto clienti variegato e seguendo i mercati internazionali, alla fine sono le celebrities che vengono a scegliere i modelli delle collezioni che noi disegniamo. L: Oppure ci sono cose programmate. Adesso, ad esempio, stiamo lanciando la nuova collezione per Kendall e Kylie Jenner, due sorelle della famiglia Kardashian molto seguite sui social, i numeri parlano di 35 milioni di follower. Con loro stiamo seguendo un progetto programmato, con eventi pilotati, presentazioni e loro che postano la foto delle scarpe da noi ideate.

Quand’è la prima volta che vi siete sentiti fieri del vostro lavoro? L: Quando abbiamo iniziato a disegnare per Versace e abbiamo iniziato a frequentare i backstage delle sfilate. R: Vedere Donatella nel backstage ci ha fatto capire che stavamo facendo cose importanti. Ricevete direttive molto rigide da certi clienti? R: Noi disegniamo per circa 37 marchi. Ci sono marchi che sono molto stretti nelle direttive e mettono paletti, altri che in base al loro dna ci lasciano fare ricerche e proporre quella che dovrebbe essere la collezione. Si parla di brand internazionali, molto strutturati, tutti o quasi con un loro ufficio stile. L: Però se vengono da noi è perché si vogliono appoggiare a livello di progettazione al nostro studio e seguire insieme lo sviluppo del progetto. Altri invece si affidano completamente a noi. Utilizzate i social? R: Noi siamo dei freelance, dei “ghost designer”, nel senso che non appariamo quasi mai in prima linea. Noi disegniamo collezioni vari marchi importanti ma siamo dietro le quinte.

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L: Quindi siamo attivi, nel senso che abbiamo una pagina Facebook ed Instagram, ma sviluppiamo personalmente le nostre pubbliche relazioni. Perché le aziende non vogliono far sapere che dietro le quinte ci siete voi? R: Ci sono due motivi. Nell’ottanta per cento dei casi il motivo è che le aziende hanno uno stilista di facciata e il marchio deve ruotare sempre attorno a una figura che non può non essere quel determinato stilista. L: E a noi, che non abbiamo queste ambizioni di apparire, va benissimo. In altri casi, con aziende più commerciali, con collezioni da milioni di paia, subentrano altri tipi di interesse, o la paura del cliente che il competitor possa arrivare alla fonte del suo design. Nonostante l’Italia sia la patria del lusso e dello stile, guardiamo spesso fuori, sapendo che quel capo arriverà solo il prossimo anno. Perché questa soggezione? R: È un discorso complesso. Il mercato italiano sta cambiando, basta osservare quanti indipendent store hanno chiuso nel nord in questi ultimi anni e si ha già una risposta. È diventato sempre più un mass market, e tante volte è più

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INTERVISTA A RUBENS & LUCIANO

facile trovare prodotti italiani a New York piuttosto che a Padova, perché il piccolo negoziante non ce la fa. È un circolo vizioso da cui avremo difficoltà ad uscire. L: Siamo anche molto conservatori, il nostro gusto innato ci impone una sobrietà un po’ da pecoroni, i ragazzi di oggi si vogliono tutti assomigliare. Che ruoli avete nell’azienda? R: Il mio ruolo è sempre stato legato alle pubbliche relazioni, al cercare contatti con nuovi possibili clienti, perché ho molta facilità con le lingue, il che mi ha portato a viaggiare. Luciano è la mia metà quando sono all’estero e si preoccupa di far girare l’ufficio a pieno regime.

L: Rubens disegna determinate collezioni, io altre. Io mi occupo più della parte amministrativa, Rubens di incrementare le nostre partnership commerciali, coltivando le nostre pubbliche relazioni. Ma non ci sono stati ruoli definiti, abbiamo ancora la mentalità di quando eravamo una s.n.c.: eravamo soli, e ci occupavamo di tutto. Perché avete scelto di restare e di investire in un territorio difficile? R: Siamo molto legati alle nostre radici e alle nostre tradizioni. Noi siamo dei designer e l’eccellenza del design è in Italia, l’ombelico del mondo delle calzature è la Riviera del Brenta: tutti i brand più importanti vengono sviluppati in questo distretto.

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Sopra: La facciata della sede, progettata da Giannantonio Selva, architetto della Fenice di Venezia. Nella prossima pagina, sopra: Rubens e Luciano con lo staff nella sala riunioni. Nella prossima pagina, sotto: Lo staff durante la creazione dei modelli.

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che i brand attuano soprattutto a livello produttivo, e non di progettazione e ricerca. È la strada che detta la moda o viceversa? R: È la strada che detta la linea. Poi ci deve essere la sensibilità di capire cosa ci sarà per strada da qui a dodici mesi. L: Se ad esempio ricevi informazioni da un cliente su un articolo che sta vendendo molto bene, sai che dovrai cercare di fare una reinterpretazione di quell’articolo. Chi sono i vostri modelli ispiratori, nel cinema, nella moda o nella musica? R: il mio mito è Richard Gere in American Gigolò come icona di stile, mentre i Rolling Stones rispecchiano la mia anima rock. L: A livello musicale potrei spaziare dai Beatles ai Queen, dai ‘70 ai ‘90 siamo andati forte.

L: Io sono per la globalizzazione perché non avrebbe senso pensarla in maniera diversa. Dobbiamo considerare i diversi aspetti del mercato. Quello dei prodotti made in Italy, per quanto li ami, è solo una nicchia di mercato che non ci permetterebbe di sopravvivere. A proposito di globalizzazione, i russi rappresentano la nuova tipologia di ricco. Qual è la vostra esperienza con questo tipo di clienti? R: Noi non siamo mai riusciti ad allacciare rapporti con il mercato russo, anche se siamo aperti a tutti i mercati che ci possono dare la possibilità di crescere.

L: La nostra clientela è nel mercato europeo e americano, ma da un po’ abbiamo iniziato col mercato cinese. Molte aziende legate al lusso delocalizzano la produzione in paesi dove il costo del lavoro è minore. Voi che avete deciso di rimanere nonostante le difficoltà che si incontrano da noi, che opinione avete su queste aziende? L+R: Certe scelte strategiche di brand importanti sono purtroppo legate alla difficile competitività dettata da un alto costo del lavoro e dall’altissima pressione fiscale. Questo effetto di delocalizzazione però non ci vede coinvolti direttamente, in quanto è una strategia

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Che piedi vorreste calzare? L+R: Avremmo voluto poter calzare i piedi di Marilyn Monroe, ma sfortunatamente siamo in ritardo di un paio di generazioni ! Perciò, lasciando un po’ da parte il cuore, il nostro desiderio sarebbe quello di sapere che sempre più persone nel mondo stanno calzando le nostre idee. Questa sarebbe per noi la maggior soddisfazione a livello professionale. Chi di voi due è più saggio? R: Lui è più saggio e riflessivo e mediatore, io sono impulsivo e irriverente. L: Ci compensiamo. Non saremmo soci da 26 anni! (7’ 50’’)

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Lino Ieluzzi: l’Eleganza come Emozione Di FRANCESCO CHERT

“Luxury is a matter of money. Elegance is a question of education.” Il motto di Lino Ieluzzi, proprietario della boutique Al Bazar di Milano e autorità internazionale nel campo dell’eleganza, non ammette repliche. L’eleganza diventa concetto universale e attitudinale e ogni formalità lascia il posto a quella consapevole e divertita disinvoltura che altro non è che la quintessenza di una raffinatezza senza tempo. Questo è Lino Ieluzzi, che col sorriso di chi ama ciò che fa e che ha sempre vissuto a modo suo e con la sua simpatica parlata milanese resa roca e profonda dalle troppe sigarette ti accoglie nel suo mondo fatto di cura del dettaglio e di qualità sartoriale. Questo è il Bazar, punto di riferimento di ogni gentleman che si rispetti in ogni parte del mondo. NUMERO 1/II

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Lino, come nasce la tua passione per l'eleganza? Parte da ragazzo, perché queste cose vengono trasmesse dai genitori. Mio padre era uno che per andare dal barbiere si metteva il doppio petto. Mia madre era una sartina del sud, che aveva ereditato questo mestiere dalla madre, mentre mio nonno, come tutti gli uomini del sud, ci teneva ad essere vestito in un certo modo. La voglia viene da qui. Ti viene insegnato di essere sempre a posto, ordinato. È una regola fissa dei tempi passati. Oggi non è più così. Hai poi avuto, immagino, delle suggestioni tue, nell'adolescenza. Quand'ero ragazzo amavo vestire in un certo modo perché esistevano momenti bellissimi, feste e altre situazioni che oggi ci sono molto meno, e che davano molte possibilità di apprendere alcune cose sia nel piacere che nel divertimento. Un tempo poi non c'erano i negozi: si andava dal sarto da cui ti facevi fare la giacca, l'abito, ed era un piacere vestire. Noi abbiamo iniziato presto a lavorare e, con i primi soldi, l'idea

era il vestire, perché altre cose all'epoca non c'erano. Quali sono i punti fermi della filosofia che sta dietro alla tua boutique, Al Bazar? Una delle cose fondamentali è fare ciò che piace. Io faccio solo ciò che mi piace, ciò che sento di fare e poter trasmettere, che mi affascina, quindi dai tessuti al taglio, alla presentazione di capi. Ho sempre seguito l'emozione, più che altre cose che possono portare solo al business. Se mi crei emozione, io lavoro a 360 gradi e a cento all'ora. Se no, non lo faccio. Questo ti porta a fare cose che stranamente piacciono molto alla gente. Ho la mia base di colori, che sono la mia passione, un gioco di beige, panna, azzurro, nocciola pastello. Non amo il nero, tutti lo sanno perché è un non-colore. Tutto questo nasce dal passato. I colori solari ti danno molta più solarità e questo è fondamentale. Uno degli aspetti dell'eleganza, che forse si è un po' perso, è quello del dettaglio, dell'accessorio. Quali sono quelli imprescindibili e che

Gli interni della Boutique Al Bazar a Milano.

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INTERVISTA A LINO IELUZZI

andrebbero ripresi? Gli accessori possono essere tanti o pochi, dipende da come uno li indossa e li porta. Se sei una persona di un certo carisma, puoi benissimo farne a meno; viceversa ti servono. Una delle poche cose che uno deve avere quando si veste è una sua cravatta e un suo fazzoletto, o altri accessori personali se sei uno che ci tiene ad avere il suo orologio, la sua penna, il suo accendino, le scarpe sempre a posto e ordinate - cosa fondamentale con certi tipi di abito. Il lucido nelle scarpe, poi, dev'essere un effetto, la scarpa non dev'essere nuova, deve essere solo lucida. Sono accessori che ognuno ama, c'è chi ama le bretelle, ma ce ne sono altri che amano tutti. Io amo la vecchia catena che portava mio padre, per cui la metto anche quando indosso i jeans. Le cose che mi piacciono di più dall'orologio al portafoglio, le porto sempre e comunque in un certo modo. Ognuno di noi si crea i suoi accessori, personali e personalizzati. Alcuni accessori sono stati sfortunati; penso ad esempio al cappello: una volta tutti ce l'avevano, adesso nessuno. Il cappello come altre cose subiscono i periodi del fascino della moda. C'è un periodo in cui grazie alla comunicazione viene spinto un prodotto piuttosto che un altro, e ha più successo. Oggi il cappello si sta riscoprendo, è tornato. Quest'estate erano tutti col cappello, non tanto perché amino il cappello, ma proprio perché è stato sdoganato e perché è tornato. Io, il mio vecchio cappello in feltro inglese, me lo metto su quando piove, punto. Altrimenti ne ho uno più sportivo, per tutti i giorni. Il cappello, come tutte le cose, ha subito il fascino della comunicazione. Se un articolo non è coinvolto dalla comunicazione, resta solo per una piccola nicchia di mercato.

Uno dei punti cardine del tuo lavoro è il made in Italy. Oltre ai prodotti abbiamo anche veicolato il nostro stile di vita. Abbiamo logorato questo concetto, sia delocalizzando e abbassando la qualità del prodotto sia logorando la nostra immagine all'estero o siamo ancora i maestri di stile che eravamo? Diciamo che noi siamo molto bravi, anzi siamo i più bravi, su questo non

c'è dubbio. Nel mondo ci invidiano. Qualsiasi cosa facciamo è molto amato. Poi, molte volte ti adegui ai mercati, che purtroppo fanno la differenza, e la differenza è fatta sul prodotto, sul fatto di andare in paesi in cui il lavoro costa meno. Sono esigenze di mercato. Molte cose si perdono, ma fortunatamente siamo talmente bravi che restiamo sempre in sella, nonostante siamo un paese

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strano. Parliamo bene e razzoliamo male. Siamo i primi a criticare e i primi a fare i danni maggiori. Non ci rendiamo conto, ma noi abbiamo un potenziale enorme. Il nostro paese è una macchina da soldi e non ce ne rendiamo conto. Potremmo fare cento volte di più, se ognuno di noi dovesse dare qualcosa in più al proprio paese: non ci batterebbe nessuno e nessuno ci fermerebbe. Io sono per il totale made in Italy. Dalle scarpe ai tessuti alla manifattura, tutte cose che facciamo fare in Italia, che è la cosa che gli stranieri amano di più. Gli italiani magari non ci fanno caso, guardano al prezzo, mentre gli stranieri sono attentissimi, a volte molto più di noi. Quali sono i personaggi che hanno ispirato il tuo stile? Io da ragazzo amavo lo stile dell'Avvocato, un genio di eleganza, stile e fascino. Lo seguivamo quando appariva sui giornali, in televisione. Ho letto molti suoi libri. Era un uomo affascinante. Dovevamo cercare qualcuno da imitare in tutti i modi. A cui assomigliare o da cui capire il perché era così affascinante. Ognuno di noi nel proprio lavoro ha cercato di fare cose credendo nel passato e portandolo nel presente e nel futuro.

L'icona esiste ancora? E se sì chi è? Oggi non è che esista un'icona. Molte persone vengono considerate icone. Molti credono che io sia un'icona, quindi figurati! Secondo me non esistono icone. Esistono persone che sanno di avere un certo fascino e carisma e possono permettersi di indossare, parlando di abbigliamento, alcuni capi senza problema e vengono considerate icone di stile. Ma non è sinonimo di stile. Una persona affascinante non è una persona di stile; una persona che ha classe, che vedi camminare, ti crea un'emozione. Com'è cambiato il tuo cliente negli anni? Cambiamenti ce ne sono stati tanti. Ci sono anche cambiamenti politici ed economici che ti portano a cambiare. Questo purtroppo è un dato di fatto: quando tutto funziona bene, economicamente e politicamente, ti puoi permettere alcune cose. Viviamo un periodo molto particolare e questa cosa devia su tutti i settori. Alcune cose si dimenticano, altre non si prendono più in considerazione e si tendono a fare errori madornali. Dovremmo capire che dobbiamo amare molto di più il nostro paese.

“Una delle cose fondamentali è fare ciò che piace. Io faccio solo ciò che mi piace, ciò che sento di fare e poter trasmettere, che mi affascina, quindi dai tessuti al taglio, alla presentazione di capi. Ho sempre seguito l'emozione, più che altre cose che possono portare solo al business. Se mi crei emozione, io lavoro a 360 gradi e a cento all'ora. Se no, non lo faccio.” GENIUS PEOPLE MAGAZINE

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INTERVISTA A LINO IELUZZI

Con i social network hai avuto un cambiamento nel tuo modo di lavorare? È sicuramente cambiato il mondo. Chi non ti conosceva, in capo al mondo, ti può conoscere, può venirti a vedere o puoi trasmettergli in tempo reale quello che fai, tramite foto e video. Cose che non esistevano. I social sono stata una cosa eccezionale, per noi, ma penso anche per tutti i lavori che oggi esistono sul nostro mercato. L'eleganza si impara o è innata? O ce l'hai o se non ce l'hai. Puoi comunque migliorare. Però è un qualcosa che ognuno di noi ha dentro. Molte volte ce l'hai e non riesci ad esprimerla. Perché nessuno ti dà la possibilità e alcune volte la segui, altre no, e non riesci a trovare il tuo filone. Per altri non c'è proprio. Ti puoi vestire come vuoi, con le giacche d'oro, ma se non c'è, non c'è. Esistono dei tabù nell’eleganza? Non ci sono regole, ma fondamentali, come nella vita. Io dico sempre che l'educazione è fondamentale. Se sei maleducato, non hai

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considerazione di chi ti sta vicino. Il tabù è quello di coprirsi continuamente pensando di essere chissà chi. Invece ti sei solo coperto. Con qualsiasi cosa, il vestito, la macchina, pensi di essere, ma non è così, l'eleganza è un'altra cosa. Elegante è ad esempio anche una persona puntuale agli appuntamenti. Come ti senti di descrivere il concetto di stile? Se pensi di avere un minimo di carisma personale, di creare qualcosa di tuo, diventa un modello, un modo di essere e uno stile preciso. Uno che ha uno stile ben preciso lo deve portare avanti, da quando è piccolo. Oggi lo stile si cambia continuamente: un giorno così, domani in un altro modo. Pensi che lo stile lo puoi cambiare, ma non è così. Lo stile è uno solo, non ci sono cento stili. Fa parte della nostra vita, se sei in un certo modo non cambi ogni giorno bandiera. Oggi è tutto a breve termine. Stile non vuol dire per forza doppio petto. Parlo anche di chi mette camicia jeans o infradito. Se hai stile ce l'hai e basta.

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PERSONE

Tu ti occupi di abbigliamento classico. Come si mantiene il classico aggiornato e appetitoso per le nuove generazioni? Oggi è molto più facile, grazie ai social, seguire tanti tipi di stile e modi di vestire o di coprirsi. Ognuno segue alcuni personaggi. Seguire chi ritieni sia un uomo di gusto e di stile ti può dare qualche consiglio, da cui puoi apprendere e migliorare il tuo modo di vestire, e puoi scoprire quello che hai dentro e che hai timore di trasmettere perché pensi di sbagliare. Oggi il grande dramma delle persone è che hanno paura di sbagliare. Se ti piaci, hai fatto un grosso passo avanti. Piacersi è la cosa più difficile.

Il classico deve ricevere input dall’esterno? Sì, se sei uno che ha capacità di coordinare le tue cose con naturalezza e scioltezza. Io sono uno che mette i jeans col doppio petto, ma lo porto in un modo diverso. Metto cose che mi sento di portare. Molte persone non stanno a proprio agio nel vestire, molti lo fanno perché pensano di esserlo, ma non è il loro modo i vestire. Tante volte, l'insicurezza, la paura di sbagliare, di essere ridicoli o criticati porta ad avere sbandamenti enormi. Magari per non sbagliare fai tutto ciò che è normale, ma l'emozione non ce l'avrai mai. Emozione zero. Ce l'avrai se crei qualcosa di tuo, che ti diverte e che ti piace.

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Le cravatte di Lino Ieluzzi e l’immancabile numero 7.

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INTERVISTA A LINO IELUZZI

“Esistono persone che sanno di avere un certo fascino e carisma e possono permettersi di indossare, parlando di abbigliamento, alcuni capi senza problema e vengono considerate icone di stile. Ma non è sinonimo di stile. Una persona affascinante non è una persona di stile; una persona che ha classe, che vedi camminare, ti crea un'emozione.”

C'è qualcosa nell'abbigliamento classico alla quale saresti disposto a rinunciare perché secondo te ha fatto il suo tempo? Oppure c'è qualcosa di nuovo, venuto fuori negli ultimi anni, che ti ha stupito piacevolmente? Faresti il cambio: lascio il vecchio per qualcosa di nuovo? Onestamente ho certe cose vecchie che mi piacciono più delle nuove, ma ci sono cose vecchie che trasformo in cose nuove, le rimodifico, do loro più attualità perché siamo in un momento diverso. Molte cose tornano, hanno periodi morti. Quindi fai così: lasciale lì e lascia che tornino. Nel nostro mondo tutto torna. Torna il cappello, tornano le bretelle, il cachecol. Tutto torna. Niente viene affossato e dimenticato. Arriva sempre il momento adatto per indossare qualcosa di qualche anno fa, e di colpo la comunicazione è in grado si smuovere ogni tutti i tipi di mercato.

del mondo, trovi gente con le mie cravatte, e la gente dice: «Ah, anche tu vai da Lino?» È diventato un simbolo, c'è gente che viene apposta per le mie cravatte. Adesso ho fatto anche quella doppia, che puoi portare con due colori, quindi in due modi. E sono comunque sempre fatte da tessuti di giacca, non sono in seta. Io uso solo lana perché qualsiasi cosa in lana, dal mattino fino a sera, resta uguale. La seta ogni volta la devi sistemare perché si allenta, si molla, cade, non ha mai quella perfezione... (11’ 30’’)

Che significato ha il numero sette che viene ricamato sulle tue cravatte? È iniziato come un gioco: il sette è il giorno in cui sono nato, e, le cravatte, me le ero fatte per me, una decina di anni fa. Mi divertiva. Dopo dieci anni, dal nord al sud

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Chi ha bisogno della moda? Enrico Matzeu, giornalista collaboratore de Il Post, nonché analista televisivo a TvTalk il programma guidato da Massimo Bernardini, ci accompagna nel mondo delle sfilate e ci spiega qual è il ruolo del giornalismo nella moda.

Di NICOLÒ GIRALDI

Sei appena rientrato dalla Milano Fashion Week. La maggior parte degli addetti ai lavori – il sito Business of Fashion su tutti - è concorde sul fatto che nella moda italiana qualcosa sia cambiato, rispetto alla mancanza di creatività che aveva colpito il nostro mercato. Dalla sfilata di Gucci sembra che si spendano solo parole al miele. È proprio così oppure c’è qualcosa ancora che non va bene? Secondo me, per quanto riguarda la moda italiana, le cose stanno cambiando da tempo, solo che molti se ne stanno accorgendo solo ora, perché Alessandro Michele, fino a qualche mese completamente nell’ombra, è stato messo in un posto di rilievo. Come Michele, però, ci sono tantissimi giovani designer, alcuni molto più giovani di lui, che hanno una concezione nuova della moda sia a livello creativo che imprenditoriale, però

non c’è in Italia ancora quella voglia di rischiare, di scommettere su qualcosa di nuovo e innovativo, puntando sui giovanissimi. Cosa questa che purtroppo accade anche in altri settori. Il caso Gucci ha questa eco perché è un colosso del lusso e ha clienti in tutto il mondo, però anche da Iceberg ha debuttato un designer giovanissimo, Arthur Arbesser, che sta facendo un buon lavoro, oppure da Emilio Pucci con l’arrivo di Massimo Giorgetti, che piaccia o no è un esempio di giovane imprenditore che sta avendo successo anche con il suo marchio MSGM. Diciamo che la nota dolente della moda italiana è sempre stata quella di tenere gli emergenti relegati a concorsi o vetrine, ora invece secondo me si sta agendo più concretamente. Vedremo.

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In un articolo apparso il 23 settembre scorso su Il Post hai raccontato


INTERVISTA A ENRICO MATZEU

contrario ai blogger o alle nuove forme di comunicazione, sia ben inteso, ce ne sono di davvero bravi, cito una su tutti Susie Bubble che nel suo blog posta foto stupende e scrive cose molto interessanti. Da sempre la moda, e il made in Italy in particolare, rappresentano una colonna portante del sistema Italia. Quanto incidono sull’immagine del nostro paese agli occhi del mondo? Moltissimo. Oltre ai vari mercati, da quello americano a quello orientale, che sono sempre floridi per le aziende che fanno made in Italy, l’immagine della moda italiana è importante e apprezzata anche da tanti designer stranieri che scelgono le materie prime e gli artigiani del nostro paese per produrre i loro capi. Tantissimi sono gli emergenti che mi è capitato di incontrare, che anche se sono cinesi o inglesi, producono in Toscana, in Veneto o in Lombardia. La forza del made in Italy è secondo me soprattutto questo, la capacità di contaminare con la propria qualità anche la creatività internazionale. Speriamo non si perda. “le prime file” alle sfilate di moda. Chi sono le persone che animano le prime file? Sono veramente loro che “comandano” il mercato della moda o esiste anche un puro piacere edonistico nello stare seduti dove conta, soprattutto di quelle che vengono definite “street style star”? La maggior parte di quelli che ho citato io sono persone che più che comandare nel mondo della moda, danno a mio avviso un contributo importante, soprattutto nel giornalismo o nello scouting. Detto questo è anche vero che sono sempre affiancate da altre personalità a mio avviso sopravvalutate come i blogger o gli influencer, che per le aziende di moda oggi sono ormai più influenti dei giornalisti. Questo secondo me è un grave errore, perché si tende a sminuire agli occhi delle persone il senso della moda, che è certamente business e lusso, ma è anche cultura. Parte della colpa però secondo me è delle aziende che assecondano senza ritegno né distinzione questi fenomeni. Ci vorrebbe un po’ più di onestà intellettuale, anche nella moda. Non sono

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Hai lavorato a Trieste per molti anni, continui a collaborare con Taglia Corti – festival di cortometraggi dal buonissimo successo – e dai tuoi profili social ne parli sempre molto bene. Ad ogni modo uno degli eventi che contraddistinguono la scena della moda e del design – International Talent Support - ha base a Trieste. Cosa pensi di questa rassegna? Credo sia una delle piattaforme più valide oltre che uno dei concorsi che riesce a dare maggiori opportunità ai giovani creativi oggi. È una realtà credibile che lavora molto bene e che valorizza il senso della formazione. Molti rimproverano ITS di non avere mai abbastanza italiani in concorso, però il livello di ricerca e di creatività che richiede il concorso è giustamente molto alto e secondo me i creativi italiani per certi aspetti faticano ancora a essere competitivi con i loro pari stranieri. Spesso è anche colpa della formazione, ma qui si aprirebbe un capitolo infinito.

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Il termine moda deriva dal latino “modus”, maniera, norma, regola. Quali sono secondo te, le regole della moda nel XXI secolo? Non so se ci sono delle vere e proprie regole. Anzi forse ultimamente la regola è non avere regole. Sembra che valga tutto e che ogni cosa sia indossabile da chiunque. È giusto che la moda sia democratica, ma bisogna stare attenti a non essere inopportuni. Se parliamo di moda, le città che più vengono in mente sono Parigi, Milano, Londra, New York. Ci sono poi mercati che potenzialmente potrebbero espandersi, vedi il caso dell’Iran, che con la fine delle sanzioni, potrebbe diventare un buon investimento per aziende estere – come d’altronde già ha fatto Benetton. Sarà l’Iran ad adeguarsi alle regole delle settimane della moda o viceversa? In realtà il mondo della moda e quindi molti brand importanti, da Calvin Klein ad Armani, si sono già adattati al mondo arabo. In occasione dell’ultimo Ramandan, ad esempio, molte aziende hanno prodotto abiti griffati adatti alle esigenze religiose delle donne musulmane. Non so se prevedessero questo cambiamento in Iran, ma sicuramente sanno che è un mercato fertile e che l’attenzione per la moda italiana e internazionale è molto alta. Una settimana della moda a Teheran la vedo difficile, però sicuramente nasceranno iniziative simili. Cosa pensi di come si vestano oggi le persone? C’è a tuo avviso qualcosa di nuovo oppure è già stato tutto inventato? È veramente difficile oggi trovare qualcosa di nuovo e originale,

soprattutto che sia portabile. C’è naturalmente un continuo riuso degli stili e dei gusti del passato. Una novità però c’è, che è anche, per fortuna, sintomo dei nostri tempi. Parlo della moda genderless, ovvero abiti che possono essere indossati da maschi o femmine indistintamente. Può sembrare solo un trend inventato dagli stilisti, ma in realtà stanno nascendo dei veri e propri brand dedicati solo a quello e nell’ultima edizione di Pitti Uomo 87 a Firenze, c’era addirittura un intero padiglione dedicato a quei marchi.

per ovvie questioni pubblicitarie, alcuni giornalisti sembrano diventati più che altro dei manager, che devono gestire click e inserzioni o piazzare il titolo strategico che faccia fare visualizzazioni. Nelle testate native del web si è perso secondo me il senso dell’inchiesta e del reportage, soprattutto per ragioni economiche, però c’è anche da dire che non tutti i quotidiani online sono uguali, anzi alcuni servono proprio da antitesi al giornalismo raffazzonato. (6’ 35’’)

Il quotidiano online fondato da Luca Sofri nel 2009 con il quale collabori, secondo uno studio di Alexa, agenzia che si occupa di statistiche online, è uno dei 130 siti web più visitati in Italia. Com’è cambiata la professione del giornalista a seguito del grande impatto che Internet ha avuto sull’editoria? A dire la verità io ho sempre lavorato nel giornalismo web, quindi non ho potuto sentire su di me il cambiamento, però da osservatore credo che con l’avvento del web, l’informazione ne abbia risentito parecchio. Per velocità del mezzo e

“Oltre ai vari mercati, da quello americano a quello orientale, che sono sempre floridi per le aziende che fanno made in Italy, l’immagine della moda italiana è importante e apprezzata anche da tanti designer stranieri che scelgono le materie prime e gli artigiani del nostro paese per produrre i loro capi.”

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Alice Campello: eleganza, bellezza e determinazione La rete è letteralmente intasata dalle splendide foto di questa giovanissima ragazza che proviene dalla famiglia proprietaria della concessionaria Campello Motors, fondatrice, insieme ad Alberto Franceschi, del brand Hide&Jack, e che è diventata una vera e propria influencer sui social network, capace di trascendere la propria immagine di “giovane e bella” per chiarire a tutti che qua non si sta scherzando. Qua si è imprenditori e si fa sul serio.

Di FRANCESCO LA BELLA FRANCESCO CHERT

Come nasce la tua passione per la moda? Penso che derivi da mia madre, che è una stilista e da quando son nata mi veste e mi porta per negozi. Mi ha trasmesso lei questa passione. Quali sono le tue icone, se oggi per te esistono? Esistono però vengono fuori dopo. Cara Delevingne rimarrà nella storia. Adoro Blake Lively, attrice di una raffinatezza pazzesca e di gran eleganza. Non amo quelle esagerate che hanno bisogno di farsi notare. Se un abito è bello, se una persona è bella, la noti comunque. Ci sono icone che nel passato hanno fatto di alcuni difetti i loro punti di forza. Cosa ne pensi? Subentra il carattere. Guarda Kate Moss: lei era molto ribelle. Cara Delevingne invece

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è sicuramente una bella ragazza, ma di lei piace che fa le smorfie. Se tu fai emergere il carattere, quello che sei davvero, avrai successo. Di ragazze bellissime ne è pieno il mondo, ma se hai carattere, se sei interessante e hai qualcosa in più degli altri, quella sarà la tua forza. Essere blogger è anche giornalismo, scrittura. Cosa pensi dei fashion blogger? Io non ho un blog: uso i social network, Facebook Instagram e Twitter. Non scrivo molto ma metto molte foto che rappresentano la mia quotidianità. Alla gente interessa questo più che leggere grandi poemi; vuole questo: l’immagine che rappresenti, la rappresentazione di una vita che magari non può vivere e quindi dice, cavolo guarda che bello. Senza ostentare comunque. Ormai interessa questo. Io mi diverto da morire con queste cose qua. Non sono ossessionata assolutamente e alla

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INTERVISTA A ALICE CAMPELLO

fine l’ho preso come hobby, tutto il resto è venuto dietro. Forse piaccio proprio per questa semplicità e per il fatto che non l’ho preso troppo seriamente. Ci sono amiche mie che appena salgono di followers impazziscono. Ci sono ragazzine di tredici anni, pazze secondo me, che nella mia città mi fermano e mi chiedono di poter fare una foto assieme. Io mi vergogno, e mi sento di avere anche una grande responsabilità, ma sono contenta di essere un esempio sano. Mi sono resa conto che queste ragazzine hanno proprio bisogno di avere un ideale. Guarda ai personaggi della Disney o a Zac Efron: ha milioni di followers e guadagna spropositi; perché? Perché a sedici anni ha iniziato a fare un programma tv per ragazzine, ragazzine che cercano di emulare, nel bene e nel male. C’è meritocrazia nell’ambito della moda o alla fine è la rete che decreta il successo di un personaggio? Sì e no come in tutte le cose. C’è chi ha favoritismi, conoscenze, ma tramite social network noti di più la meritocrazia, perché c’è chi piace e ha tanti followers e chi fa programmi tv e magari ti rendi conto che ha solo mille persone che lo seguono. E dici, ma scusami, ma allora? Cosa c’è che non va? Chi è che conosce quello? Con i social vedi cosa interessa davvero alla gente. Ti è mai capitato di essere sottovalutata o presa sotto gamba per il fatto di essere donna? No, mai. Anzi ho tanta gente che tifa per me. Alla gente interessano le cose carine. Poi c’è sempre quello fuori dal branco che ti dà della cretina, ma sono più le persone che ci approvano e questo ci dà molta forza.

preferisco sbagliare, devo vivermele, le cose. Devo provare. Visto questo tuo ruolo pubblico, dicci le tue tre regole d’oro. Sempre essere se stessi. Non usare per forza cose che usano le altre persone e che potrebbero non starti così bene come credi. Guardare i propri punti di forza e farne appunto una forza. Insomma essere diversi. (3’ 50’’)

Chi ti piacerebbe conoscere o con chi ti piacerebbe andare a cena? Tutte le persone che sono sopra di me, che hanno più esperienza di me. Da tutti puoi catturare qualcosa. Ognuno ha qualcosa di interessante da dirti, che faccia il macellaio, che faccia la modella. Non c’è uno in particolare con cui vorrei andare. Mio papà dice sempre che ci vorrebbero due vite: una per imparare e una per fare. Io

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BRAND

Andrea Rosso: creatività, qualità e contaminazione Il lavoro di Andrea Rosso, direttore creativo delle licenze Diesel, è guidato da passione, creatività e forte personalità. Partendo da questi valori e con un approccio al design ironico e audace, la collezione Diesel Living riflette ogni aspetto della filosofia del brand. Materiali grezzi, forme contrastanti e particolari trattamenti sui materiali sono gli elementi che caratterizzano la linea. Ma a fare la differenza sono soprattutto la creatività, la qualità dei materiali e della lavorazione e la contaminazione tra le fonti di ispirazione.

Di FRANCESCO CHERT

Andrea, la realtà delle licenze di Diesel copre una gamma estremamente vasta a livello merceologico, dagli occhiali agli orologi, dall’arredamento ai profumi, per citarne solo alcuni. Come fai ad avere il controllo dell’aspetto creativo di un gruppo così eterogeneo di prodotti? La bellezza di tutto ciò sta proprio nella varietà. Trovare una connessione tra i vari mondi, lavorare a una cucina o a un passeggino, sperimentare nuove texture negli occhiali o in un orologio, applicare il DNA Diesel al packaging di un profumo sono tutti stimoli creativi molto interessanti per me. Sembra un caos, ma non appena impari ad orientarti, diventa una grande fonte d’ispirazione. Il rock, il militare e il denim sono i capisaldi del brand ed è bello poterli applicare a una GENIUS PEOPLE MAGAZINE

gamma così vasta di prodotti. È una sperimentazione continua con forme, materiali e volumi. Da dove prendi l’ispirazione per la creazione dei prodotti? Da moltissime cose. Prima di tutto dall’usato: l’aspetto vissuto, rotto, per certi versi classico di questi prodotti ti racconta una storia. L’amore per il vintage passa dal comprendere l’essenza di un prodotto all’attualizzarla, trasformandola da passato a futuro. Il prodotto Diesel Living non è mai saturo, finito, ma porta i segni di una storia che inizia lontano. L’idea è proprio quella di dar vita ad un ambiente vissuto, che mixa un’anima vintage a dettagli di ispirazione industriale. Parallelamente ci piace anche guardare al 76


nuovo, lasciarci ispirare dall’arte, dalla musica e da quello che la strada ti offre. Si dice che la creatività si impari, come ha insegnato un grande maestro del design come Bruno Munari. Qual è il tuo metodo e come l’hai imparato? Penso che la creatività si impari molto ascoltando gli altri e osservando, osservando curiosamente. Come quando arrivi in un posto nuovo e assorbi in modo visivo tutto quello che puoi. L’immagazzinamento delle cose che vediamo e quello che impariamo dalla strada sono alla base del nostro processo creativo, che ci porta poi a rivederle in chiave futura, creando qualcosa di nuovo. L’importante è non essere mai stanchi di guardare, assorbire, curiosare.

A tuo giudizio è la strada che detta le linee alla moda o viceversa? Sicuramente la strada. Come dicevo prima, gli incontri che fai, le cose che vedi e le esperienze personali sono la più grande fonte d’ispirazione. Si va per strada, si assorbe e si crea. Le mode cambiano, ma il loro cambiamento dipende prima di tutto dal cambiamento delle persone, della società, degli stili di vita. A volte le rivoluzioni stilistiche nascono in maniera spontanea e travolgono quelli che fino a quel momento sono stati i codici estetici dominanti. Esiste ancora questa spontaneità o tutto passa attraverso i brand? Quando parli di rivoluzioni, penso a quelle delle decadi 60/70/80/90, NUMERO 1/II

dalla pop art all’alternative punk rock: ecco, queste hanno davvero creato ideologie e movimenti. A quel tempo il modo di vestire era un modo d’essere, era un modo per gridare al mondo la tua appartenenza. Se ci pensiamo, ancora oggi molti – se non tutti – i brand si ispirano a quelle epoche. Il vero movimento di oggi invece è il mix, il caos totale. Sei nostalgico di qualche epoca? Sono nato nel ‘77 e quindi sono cresciuto con le influenze anni ‘80 e ‘90, ma sono gli anni ‘70 quelli che più ammiro. Quali sono le icone che hanno ispirato la tua sensibilità estetica? Bertone, Carlo Scarpa, Gio Ponti, che sono stati e sono tutt’ora 77


BRAND

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simbolo dell’italianità e della forza del design italiano nel mondo. Mi sono molto ispirato alla musica “organica” di Tommy Guerrero, Ray Barbee e The Mattson Two, come anche al beat dei The Meters e di Donald Byrd.

Per le foto di interni: Diesel Living, “Salone Del Mobile” 2015.

Quanto conta lo stile italiano, inteso come immaginario nel suo complesso, per un brand come il vostro basato sul concetto di denim? Lo stile italiano è sinonimo di un buon prodotto, del “made in”. La conoscenza dei materiali è sempre stata centrale sia nella creazione di un capo di abbigliamento che oggi nelle nostre collaborazioni Diesel Living, dove c’è una grande attenzione a forme, costruzioni, materia, tecnicità e volumi. Per noi è una soddisfazione pensare di aver creato un lifestyle Diesel al 100%, NUMERO 1/II

legandoci a partner che sono tra i big player non sono in Italia, ma a livello globale. Da direttore creativo di uno dei brand italiani più competitivi, come giudichi lo stato di salute del made in Italy oggi? Possiamo ancora considerarci i maestri dell’eleganza? Sicuramente sì, ma più che di eleganza parlerei di know how, che ancora oggi è invidiato in tutto il mondo. Esiste un’idea talmente folle che non hai avuto il coraggio di realizzarla? Si, e prima o poi ne sentirete parlare! (3’ 55’’)

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Jean Michel Cazabat: sapere quello che le donne vogliono ai piedi La sua passione per le scarpe da donna inizia più di trent’anni fa, quando ragazzino rimaneva affascinato a osservare le gambe di donne bellissime. Cresciuto al fianco dei più grandi fotografi di moda di tutti i tempi, oggi Jean Michel Cazabat sa esattamente cosa vogliono le donne. I suoi modelli stanno letteralmente facendo impazzire le celebrities di mezzo mondo, da Madonna a Sharon Stone.

Di FRANCESCO LA BELLA FRANCESCO CHERT

Come nasce la tua passione per la moda? L’ho sempre avuta e l’ho sempre amata, fin da quando ero un bambino. Ero attratto dalla bellezza delle cose e intorno agli anni Settanta mi ricordo che d’estate vedevo queste donne bellissime che indossavano grandi zeppe di sughero, espadrillas e avevano bellissime gambe. Iniziò lì la mia attrazione per le donne e le scarpe. E poi cos’è successo? Iniziai a studiare fotografia nel sud della Francia, e per mantenermi gli studi facevo i classici lavoretti part-time: fotografie per matrimoni, eventi sportivi. Il mio sogno era diventare fotografo di moda, così andai a Parigi e iniziai a cercare un lavoro per diventarlo. Il difficile era che molti assistenti erano giapponesi che lavoravano gratis. A quei tempi poi ovviamente mi piaceva uscire e andare alle feste, mangiare e bere bene, per cui avevo bisogno di soldi. Un mio amico, che era un importante rivenditore di scarpe per

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Charles Jourdan, uno dei più importanti designer di scarpe, mi presentò a una compagnia in modo che potessi lavorare part-time nel loro negozio. Quella volta la loro campagna pubblicitaria era fotografata da Helmut Newton e Guy Bourdin. Stando con loro imparai molte cose, a vendermi, ad essere manager di me stesso. Rimasi a Parigi per cinque anni. Poi conobbi Stephane Kelian che mi propose di andare a New York per interessarmi al mercato americano. Aprii un piccolo store. Dopo cinque anni ne avevo dodici, di negozi, e vendevo molto bene. Iniziai anche a lavorare con Stephane su una collezione. Restai con lui dieci anni. Alla fine Charles Jourdan mi propose di tornare a Parigi come direttore creativo della sua compagnia, con cui restai per due anni. Dopodiché decisi di aprire il mio brand, perché avevo iniziato ad avere idee differenti, visioni diverse sui prodotti. Ecco perché nel 2000 decisi di lanciare il mio brand.

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Foto courtesy Jean Michel Cazabat.

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“Ero attratto dalla bellezza delle cose e intorno agli anni Settanta mi ricordo che d’estate vedevo queste donne bellissime indossavano grandi zeppe di sughero, espadrillas e avevano bellissime gambe. Iniziò lì la mia attrazione per le donne e le scarpe.”

Oggi, quando devi creare, dove trovi l’ispirazione? Viene da molte cose, ovviamente dai trend della moda stessa, ma anche dalle mostre nei musei, dai film. L’ispirazione viene dappertutto. La cosa importante è essere freschi, perché il difficile è non essere ripetitivi. Per questo quando hai qualcosa di nuovo devi essere bravo a promuovere bene te stesso. Ovviamente la moda è “continuativa” e se proponi qualcosa di troppo diverso, di troppo nuovo da quello che succede in quel momento la gente può prendere paura e non capire. Questo mi succede un sacco di volte. Tra i tuoi clienti hai molti vip. Chi fu il primo? Sharon Stone. No, sorry, Madonna. La storia con Madonna è una storia divertente. Ero a Los Angeles e arrivò una donna che disse, rivolgendosi alle mie scarpe: «Ho bisogno di un paio di quelle». La guardai e le dissi: «Mi dispiace, non vendo un paio di scarpe solo». Lei mi disse: «mi chiamo Arienne Philips, sono la personal stylist di Madonna». Allora le ho detto: «Ok! Ok!» La moda di un certo livello, quella elegante, è cambiata negli ultimi

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vent’anni. Ma sta andando meglio o peggio? Non importa se va meglio o peggio. Io devo andare meglio, con tutte queste grandi aziende. Il mio sentimento di adesso è quello di diventare più “gustoso” e meno estremo. Perché proprio per colpa dei grandi brand siamo tutti diventati più estremi. Stiamo venendo da una lunga stagione di estremismi. C’è bisogno di più eleganza e tranquillità, di sofisticatezza fatta di semplicità. Mi prenderei un rischio a dire che stiamo andando meglio, però ci voglio credere. È sempre un cerchio: l’essere estremo porta alla pazzia, poi si torna indietro, alla purezza. Parlando di icone del passato, come ad esempio Grace Kelly, come le vestiresti oggi? La mia attenzione è sulle new women. Se pensiamo all’industria musicale, ad esempio a Rihanna che mi piace molto - pensiamo a qualcosa che si muove: i cantanti sono molto più attratti dalla moda che gli attori. Tutti vogliono vestire Rihanna o Beyoncé, ma chi pensa seriamente a vestire un’attrice, oggi? Soprattutto, quale? Chi è oggi un’attrice che potresti vestire? La moda è più interessata all’industria musicale. Se proprio dovessi pensare

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ad un’attrice del passato penserei ovviamente a Brigitte Bardot, la donna più sexy di sempre, molto più di Sofia Loren, troppo classica. Grace Kelly o Nicole Kidman sono bionde a cui manca un po’ di pepe, a me piace il cibo piccante! Tra le mie clienti però c’è Sarah Jessica Parker: ci sono molte foto di lei che indossa le mie scarpe. In un articolo di People Magazine dicono che SJP ha lasciato Manolo per venire con me! Due anni fa sei andato in Cina, ma hai detto che lì non si lavora con il cuore. Qual è la cosa dell’Italia alla quale non potresti rinunciare? Questo è quello che amo dell’Italia, che la gente qui lavora con l’arte e con l’anima. Anche se le mie scarpe venivano fatte bene, un amico di qui mi disse che avrebbero “perduto l’anima”. Io adoro lavorare con artigiani che usano i materiali migliori. Quando hai la bellezza di un prodotto speciale, non ci sono più limiti. Anche quando mi compro scarpe non mie, preferisco pagare mille per avere una cosa fantastica che duecento e averne di scadenti. Ogni scarpa ha un cuore in velluto rosso, perché questi sono i colori del mio brand: blu, oro e rosso. Quando ho lanciato il brand volevo che le scatole fossero diverse dalle solite, che normalmente erano bianche o nere. Ho provato a cercare qualcosa di speciale, ma non era facile. Guarda la pioggia, immagina una donna che dopo una doccia si deve preparare per uscire e andare a lavoro. Apre l’armadio e quando, tra tutte le sue scarpe, vede la mia scatola, sorride, si sente meglio. Perché il blu è il colore del cielo in estate e dell’oceano quando sei in vacanza. Il rosso è il colore dell’amore, della passione. E l’oro è il colore dei soldi. Quando vedrà quella scatola il tempo sarà sempre bello! (5’ 20’’)

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Franz Kraler philosophy

Una nobile famiglia di ceppo asburgico con l’eleganza nel dna. Forse prevedibile viste le origini ma l’attuale generazione dei Kraler Franz, la moglie Daniela e il figlio Alexander - ha quel fiuto raro e innato per il bello in assoluto. Avrebbero potuto essere collezionisti, artisti o chissà che altro, e invece hanno scelto la moda. La storia dei Kraler imprenditori ha radici in Tirolo nel primo Novecento e Dobbiaco è la loro dimora. Una famiglia di stampo antico, dedita al lavoro, con un unico credo: impegno e serietà alla base del successo. In un contesto così concreto non c’è spazio per eccentriche stravaganze perché il vero lusso è la sobrietà. Franz cresce respirando cultura

Di REDAZIONE

Famiglia Kraler nel Castello di Dobbiaco.

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FRANZ KRALER

e rigore e da questo clima raffinato nasce il suo primo luxury store, faro della moda per la regione del nord-est e successivamente un punto di riferimento anche in tutto il Paese. Daniela e Alexander sono il cuore e la mente di una dinastia che ha rivoluzionato il concetto del lusso in Alto Adige (e non solo). Che inizia con la prestigiosa sede Franz Kraler, “Il castello”, ricavata dalla dependance del famoso Grand Hotel Dobbiaco, residenza estiva dell’ imperatore Francesco Giuseppe, che ospita una raccolta dei marchi internazionali più glam, selezionati con grande gusto e dedicati a cultori della moda.

Sopra: Cortina d’Ampezzo, corso Italia 107, reparto uomo. Sotto: Esterno di Cortina, Corso Italia 107.

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Tradizione, rigore, lusso e determinazione sono le parole chiave dei Kraler, e il cliente è sempre al vertice della piramide, sia nel negozio di Dobbiaco sia in quello di Cortina. La scelta di collocare i luxury store in località votate al turismo di alto livello non è casuale. Anzi, al contrario, è una strategia premiante che permette il “dialogo” tra chi acquista e chi vende l’oggetto del desiderio. Il cliente tipo delle boutique Franz Kraler è generalmente un persona che fa shopping per piacere, che rifugge l’acquisto mordi e fuggi, ma piuttosto si muove in negozio come fosse in atelier. Mentre si sceglie in tutta tranquillità, si fanno quattro chiacchiere di fronte a un caminetto, si sosta nella zona relax o nelle aree all’aperto in un’atmosfera mitteleuropea. Nei negozi Franz Kraler non ci sono barriere architettoniche e ci sono spazi dedicati al relax alla convivialità,ai bambini e anche agli amici a quattro zampe, ma non solo. Chi passeggia a cavallo a Dobbiaco e viene attratto della

vetrine sfavillanti, può lasciare il destriero in aree dedicate e entrare nel tempio della moda. A Cortina, invece, nei due negozi in corso Italia che affacciano su “Piazzetta Kraler,” troviamo lo spazio più concettuale dedicato a uomo, donna e accessori e quello dedicato al bambino. Il nuovo spazio Franz Kraler in corso Italia 90 sarà nella sede storica di Ritz Saddler. Sette vetrine nella posizione più centrale e prestigiosa della via dello shopping per eccellenza. L’ ennesima sfida e un grande impegno personale e professionale per il rilancio dell’immagine della perla delle Dolomiti e dell’imprenditoria illuminata, capace di promuovere gli aspetti più contemporanei della cultura moderna e preservare nel tempo tradizioni altrove scomparse. Nel tempo i negozi di famiglia si sono evoluti e i diversi ambienti, sempre più versatili, intrecciano arte, moda e cultura. I nuovi progetti per “il Castello di Dobbiaco”

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FRANZ KRALER

prevedono ampie metrature polivalenti integrate in strutture e territorio, ma completamente indipendenti, con grandi superfici vetrate che esaltano l’eccellenza di capi haute couture come opere d’arte. E la realtà attuale è nei 2000mq espositivi tra Cortina e Dobbiaco, con uffici direzionali e logistica che esprimono un forte radicamento al territorio e un complesso know how che permette gestione e ampliamento degli spazi anche in tempi brevissimi per addattarsi con rapidità a qualunque tipo di esigenza e dare origine a un futuro sempre più ambizioso. (3’ 05’’) Nella pagina accanto: Franz Kraler Dobbiaco, Via Dolomiti 46, La Stube. Sopra: Cortina d’Ampezzo, Corso Italia 111, Franz Kraler Junior. Sotto: Nuovo negozio di Cortina, Corso Italia 92.

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Hide&Jack: la nuova generazione dell’imprenditoria italiana Alice Campello e Alberto Franceschi, entrambi giovanissimi, entrambi veneti di Trebaseleghe, il cuore pulsante dell’imprenditoria del Nord-Est. Lei imprenditrice e seguitissima influecer, lui giovane imprenditore. Dal 2014 hanno lanciato la loro linea di calzature e abbigliamento Hide&Jack Style e producono vestiti in materiali innovativi e scarpe che possono cambiare aspetto in un attimo a seconda delle necessità della situazione e dell’abbinamento e che già sono apprezzate da vip e da negozi di tutto il mondo. La possibilità di personalizzare la scarpa nel colore e nel materiale attraverso le tantissime cover intercambiabili rende le Hyde&Jack uniche e geniali.

Di FRANCESCO LA BELLA FRANCESCO CHERT

Per tutte le immagini: Courtesy Italian Flag Srl.

Possiamo definirvi tra i rappresentanti della giovane generazione imprenditoriale italiana. Come vi è venuta questa idea? Alberto Franceschi: L’idea nasce da un evento in particolare. Eravamo a Miami e non avevamo l’abbigliamento adatto per entrare in un locale. L’idea è stata questa: è possibile cambiare il tuo abbigliamento in un istante? Questo si unisce alla mia passione per gli abbinamenti e sono dell’idea che le scarpe devono essere sempre abbinate al modo in cui sei vestito. Ero partito da solo poi Alice mi ha aiutato a pubblicizzare e un giorno, con l’idea di voler fare una linea a 360°, le ho proposto di fare la linea donna. Avendo io e lei due stili completamente diversi è venuta fuori una collezione con

una doppia personalità. Il suo stile è più raffinato, più preciso, il mio è più underground e casual luxury. Queste casualità hanno creato un pacchetto completo. Anche sulla stampa e a livello di marketing sui social network è importantissimo. Io ho cinquantamila persone che mi seguono, Alice trecentomila. E grazie a questi social network abbiamo contatti nel mondo dello spettacolo che ci posano aiutare a farci conoscere. Ad esempio El Shaarawy ci ha contattato per comprare le nostre scarpe.

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Alice Campello: Moda, la fanno un po’ tutti. Abiti, li fanno un po’ tutti. Noi siamo diversi in questo, noi diamo la possibilità di cambiare. Ad esempio, la scarpa che stiamo


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HIDE AND JACK

vendendo di più è una scarpa che ha delle mascherine intercambiabili. Abbiamo una t-shirt con la catena che per alcuni è molto pacchiana, ma se stacchi la catena diventa una t-shirt normale. È tutto, per così dire, customizzabile. Abbiamo un giubbotto che cambia colore con la luce, frutto di una ricerca di tessuti che volevamo fossero diversi e pregiati. Non abbiamo ancora messo in commercio una maglietta che però abbiamo già progettato, e che cambia colore con la temperatura del corpo. Com’è avere alle spalle realtà imprenditoriali come Campello Motors per Alice e Grafica Veneta per Alberto aiuta o diventa un peso a causa di possibili pregiudizi? A F: I pregiudizi purtroppo ci sono sempre. Ma la vera capacità è di non sentirli. Ormai ci siamo fatti le ossa. Se non le sentiamo, quasi quasi ormai ci mancano. A C: Alla nostra età una persona che sta bene economicamente può divertirsi e fare quello che ha voglia di fare, spendere tranquillamente. È da ammirare il fatto che cerchiamo di crearci qualcosa di nostro. Chiaramente però venire da famiglie imprenditoriali aiuta. Ma è un’arma a doppio taglio. Aiuta perché puoi studiare la testa di una persona che ha fatto quello che stai cercando di fare tu, perché nell’imprenditoria cambia il settore, ma il metodo è lo stesso. Ma è un’arma a doppio taglio perché si rischia che la persona che ha le spalle coperte non abbia la fame di chi crea qualcosa dal nulla. Su quali settori consigliate di puntare, a livello imprenditoriale? A C: Bisogna provarle tutte. Se una ti va male, un’altra ti andrà bene. Il settore è indifferente. L’importante è la voglia di fare e di superare gli altri. Mettersi in gioco è facile, il difficile è sorpassare le altre persone. A F: Il consiglio che do è quello di trovarsi un buon finanziatore, uno che ci crede, a cui piace il progetto e non mette i soldi solo per provare. È importantissimo entrare in qualsiasi avventura con la testa ben attaccata al corpo. Se ti distrai ti fregano tutti. Io da quando ho iniziato sono in guerra: NUMERO 1/II

chiunque vuole spillarti soldi, cerca d’ingannarti, di entrare. Dal più piccolo al più grande. Tutti vogliono essere pagati subito e non pagarti mai. L’Italia è un paese meritocratico? A F: Secondo me no. Cioè lo è, però è molto più difficile emergere in Italia che negli States. Paradossalmente dovrebbe essere il contrario, gli States sono molto più grandi e se in Italia hai cinque concorrenti negli Usa ne hai cinquecento. Ma in Italia abbiamo una burocrazia che ti fa passare la voglia, che deve avere tutto sotto controllo, e poi fa scappare quello che vola via col jet privato e dichiara zero. Voi siete molto attenti al made in Italy, anzi, al made in Veneto. Cosa direste al ragazzo con la valigia pronta per andarsene all’estero a investire e a spendere il suo talento: buon viaggio oppure resta e insisti? A F: Una persona deve sentirselo, quello che deve fare. Se uno cerca esperienze all’estero ben venga, ma deve ricordarsi da dove viene e apprezzare quello che l’Italia ti sa dare, nonostante i difetti. È facile dire ciao a tutti e andarsene. Se facessero tutti così in Italia non ci sarebbe più nessuno. Per esempio suo padre o mio padre ci tengono tantissimo al territorio e, nonostante le tasse da pagare su centomila metri quadrati di stabilimento, mio padre si sta continuando ad allargare. Bisogna ricordarsi da dove si viene e apprezzare i tanti pregi che ci sono. A C: Quello che non mi piace dell’Italia è la poca voglia di fare. Noi abbiamo i posti turistici più belli che ci siano, ma non riusciamo a sfruttarli. La Germania ci batte nell’esportazione di cibo, con i würstel. È pazzesco. Quindi dico: andate ma poi tornate. Ché l’Italia ha bisogno di ripartire. Quali sono secondo voi i pregi e i difetti della vostra generazione? A C: Si stava meglio quando si stava peggio. Pensiamo ai social. Quando vedo una persona con una bella macchina, un bel lavoro e fa vedere che è forte, ha in mano la sua vita e sa dove vuole andare, io lo stimo. L’italiano medio è invidioso. Invece di guardare una persona per cercare di essere meglio di lei. 93


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A F: Io, come modello di dedizione e determinazione, penso a Philipp Plein, perché ha un’idea del suo brand molto aggressiva e poi è un grandissimo lavoratore, ama la vita notturna, lavora anche di domenica e dorme tre ore a notte. È più importante avere obiettivi anziché cercare di sminuire chi ha successo. È importante prendere spunto dai migliori. C’è troppo bigottismo. Io dico sempre che mi sentirò realizzato quando diventerò l’idolo dei miei idoli. Abbiamo più mezzi rispetto alle vecchie generazioni, ma usati male. Quali sono i vostri progetti futuri? A F: Stiamo lavorando ad una linea più americana, più gangster, in cui ci sarà sempre l’idea del lusso, nella ricerca del materiale. A C: Per ora siamo stati più attenti al mercato europeo e russo. Ora il problema non è ricevere soldi. È che il marchio sia visibile. Bisogna dare un ideale, dare un perché. (6’ 00’’)

“L’idea nasce da un evento in particolare. Eravamo a Miami e non avevamo l’abbigliamento adatto per entrare in un locale. L’idea è stata questa: è possibile cambiare il tuo abbigliamento in un istante? Questo si unisce alla mia passione per gli abbinamenti e sono dell’idea che le scarpe devono essere sempre abbinate al modo in cui sei vestito.”

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Royal Notes: prendete appunti. Realmente.

Foto courtesy Italian Flag Srl.

Nato nelle stamperie di Grafica Veneta, Nicola Franceschi un giorno ha avuto un’idea. Quella di mettere a disposizione la sua professionalità e la sua conoscenza per la realizzazione di Royal Notes, la prima azienda affiliata a GV in grado di offrire un prodotto unico nel suo genere, un’agenda di lusso, totalmente made in Veneto, che sta rapidamente convincendo appassionati e non, anche grazie a una vasta gamma di accessori. Chiamarli solo bloc-notes sarebbe riduttivo. Royal Notes è eleganza e accessibilità, un modo di pensare la scrittura uscendo dallo schema al quale tutti li stanno adeguando. Un accessorio che unisce la democraticità della carta all’altissima qualità che il concetto stesso di scrittura merita.

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Di FRANCESCO LA BELLA FRANCESCO CHERT

(1) Eleganti accessori da ufficio.

Come nasce l’idea delle agende Royal Notes? Royal Notes nasce quasi da un gioco. Quando ho iniziato a lavorare in Grafica Veneta, un collega, vedendo che prendevo appunti su blocchi che mi erano stati regalati dai fornitori mi dice «Ma dove vai con quel blocco? Te ne faccio uno io e vedrai che poi userai solamente quello.» Da lì abbiamo cominciato ad andare in magazzino a dare un’occhiata ai materiali che avevamo per creare e personalizzare un modello sulla base dei nostri gusti (qui, la maggior parte di noi è in grado di fare un blocco a mano). Poi abbiamo deciso di darlo a tutti i dipendenti e ci siamo sbizzarriti ancora un po’ nel costruire collezioni, provare nuove combinazioni di materiali, colori, copertine. Ma lì ci siamo detti: perché questo gioco non la facciamo diventare una professione, e non proviamo a sviluppare delle collezioni e facciamo un nostro marchio? La maggior parte degli aspetti è stata tutta definita seduti a un tavolo, tra amici, familiari, parenti e colleghi fuori a cena. Buttando giù le prime idee a livello di marketing, distribuzione ci siamo chiesti perché non farlo diventare un accessorio. Infatti da lì abbiamo cominciato ad

utilizzare tessuti diversi e colori, in base agli abbinamenti con l’abbigliamento di ogni giorno. Quando l’azienda è partita, aveva un solo dipendente: io. Ho iniziato sviluppando l’e-commerce perché volevo provare con le mie mani a riuscire a mettere in vendita questi blocchi. Affidarsi alla distribuzione tradizionale sarebbe stato uno sforzo troppo grande. Ho cominciato a inserire un po’ di prodotti e man mano che vedevo che la cosa prendeva forma gradualmente ho cominciato ad aggiungere la professionalità in più per farla diventare un’azienda. Dalle spedizioni iniziali che si facevano con la posta, poi siamo passati a contratti con GLS DHL e UPS per fare spedizioni oltre confine. Lavorando in Grafica Veneta, conosco bene le dinamiche di produzione di un libro. Quindi il prodotto che viene fuori è studiato sulla capacità produttiva dell’azienda in modo da utilizzarla al massimo. Ecco perché l’idea di Royal Notes è una buona idea: perché riesce a sfruttare al massimo le possibilità di Grafica Veneta, come ad esempio i contratti di spedizione, che sono quelli d’appoggio della casa. Per quanto riguarda il marketing abbiamo da subito deciso di dare i nostri prodotti

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“Quando l’azienda è partita, aveva un solo dipendente: io. Ho iniziato sviluppando l’e-commerce perché volevo provare con le mie mani a riuscire a mettere in vendita questi blocchi.”

agli influencer per fare in modo che un prodotto piuttosto vecchio come concezione torni ad essere un accessorio. Come concepisci la differenza tra carta e digitale? Quella che offriamo è un’esperienza diversa, che non può dare una semplice applicazione di uno smartphone. Io in primis ero uno abituato a prendere appunti in cloud, quindi tecnologicamente “avanzato”. Ma credo che sarà sempre più immediato prendere il proprio blocco, aprirlo, disegnare, scrivere a mano libera, che non un foglio elettronico: non darà mai la stessa possibilità di raggruppare i concetti. Anche questo è un punto a favore per la carta. Un tablet con pennino e tutto non avrà mai la stessa comodità di un blocco. La batteria di un blocco non finisce! Qual è il cliente a cui vi rivolgete? Inizialmente, dato che il target di comunicazione era tutto sui social network, e considerando il fatto che il grosso si acquistava online, ci saremmo immaginati per lo più un pubblico giovane e attivo sui social. In realtà abbiamo visto che gli utilizzatori sono anche

professionisti abituati ad utilizzare prodotti molto classici, e che hanno un grosso interesse per i bloc-notes. Ma l’offerta che trovano è sempre la stessa, perché la concorrenza tende a emulare chi vende, e questa è un’impostazione sbagliata, perché vendere solo ciò che nello storico ha venduto non può funzionare nel lungo termine. Per questo stiamo usando un modello nuovo sia nella distribuzione, sia a livello di comunicazione. Stiamo cercando di far passare l’immagine dell’accessorio e per dare forza a questa idea noi siamo presenti solo nelle cartolerie più importanti, quelle che ci possono dare visibilità. È una fase di passaggio: ci stiamo allargando per cercare di finire nei negozi di abbigliamento. Vogliamo spostare un prodotto e metterlo in un mondo che a rigor di logica non sarebbe il suo, contestualizziamo in ottica moderna un prodotto classico. Per questo oggi siamo presenti in più showroom a Milano. C’è ancora attenzione per il dettaglio, l’accessorio? Penso che l’attenzione per l’accessorio sia ancora molto alta. Proprio da nostri clienti sta partendo la tendenza a postare foto del bloc-notes

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con la penna, in un abbinamento di colori che rispetti il mood della giornata. Non è più Hemingway che prende appunti su un taccuino in pelle, ma è una persona normalissima che così come ha l’orologio rosso in tinta, adesso ha anche il blocco. Che tipi di prodotti vendete? Tutto quello che facciamo, sia a livello di bloc-notes che di pelletteria e strumentazione da ufficio, è rigorosamente fatto qui in Italia. Non c’è una minima parte del prodotto fatta in Cina. Gli stessi fornitori di pellami, sono quasi tutti della zona. Soprattutto per quanto riguarda le borse potremmo dire Made in Veneto, perché sono prodotte tutte da artigiani di queste parti. Quindi chi acquista i nostri prodotti va a nutrire tutta una filiera qui nei dintorni, a differenza dei grossi concorrenti. Tra i prodotti, l’anima dell’azienda è la collezione di bloc-notes, collezione che segue le dinamiche e i colori della moda, per cui ogni anno escono due collezioni nuove e due ci abbandonano. Poi c’è sempre l’agenda, uno strumento, ahimè, ormai non necessario, perché, devo dirlo, in formato elettronico si va molto meglio, ma la richiesta che abbiamo è sorprendente, e lo stile è sempre lo stesso di quello che poteva essere dieci anni fa. È la dimostrazione che la gente ha ancora voglia di stare sul tradizionale, e usa la tecnologia per altri scopi. Utilizzare un blocco non solo è più di classe, ma per certi aspetti è più funzionale. Il mio pezzo forte è il blocco in pelle liscia classica, nero o blu scuro. Il top della classicità. Un’altra nostra particolarità è che tutti i prodotti che abbiamo possiamo personalizzarli per il cliente, per rendere sempre più personale l’esperienza e l’interazione con i nostri prodotti. Ogni prodotto può avere, ad esempio, le proprie iniziali, oppure, per i compleanni spediamo a casa il pacchetto con una lettera di auguri; nessun altro comptetitor ha le energia e la flessibilità per poter fare cose simili.

(2) Zaino anaconda grigio, (3) astuccio in velluto.

Il design? Escludendo Velvet, l’ultima collezione, visto che ho iniziato da solo sono stato anche il designer delle collezioni. Quindi l’accostamento dei colori, gli interni, ma GENIUS PEOPLE MAGAZINE

anche lo stesso logo, li ho fatto io. Il bello di Royal Notes è che sembra proprio la tipica start up americana, con la differenza che poi, quando ha iniziato a suscitare interesse è stata presa in braccio da un grosso gruppo come Grafica Veneta. Ma l’idea è nata in casa e venuta su a passetti. Questo percorso ci ha portato ora nelle più grosse cartolerie a livello nazionale, ci ha portato alla Fiera del Mobile l’anno scorso e adesso arriveremo da COIN, che per noi è un bel risultato. Per i clienti comunque il nostro primo canale di vendita rimane internet, che con la stessa semplicità ci permette di vendere a Milano come in Messico, dove stiamo avendo abbastanza successo grazie ad un influencer che è riuscito a lanciarci e sta diventando un’epidemia di prodotti. Non me lo sarei mai aspettato. Mi continua a fare un certo effetto vedere che tramite i canali tradizionali, tramite agenti di cartoleria, non riuscivamo ad arrivare in Olanda. Con il web siamo entrati tranquillamente e il nostro prodotto piace, perché le informazioni che riceviamo sono le opposte di quelle riportateci dagli agenti. Questo ci fa capire di quanto ancora sia all’antica il mondo della cancelleria. Quali sono le icone del passato alle quali ti ispiri? Quando penso a un prodotto non mi ispiro alla persona, ma mi ispiro a un mood di altri brand. Il mood che ha fatto crescere Royal Notes all’inizio era il mood della Rolex, ecco perché abbiamo la corona sul nostro logo. Pensavo ad un concessionario Rolex che ad esempio vendeva l’agendina Cartier. Quella era l’idea originaria. Se devo pensare ad una musa ispiratrice mi viene in mente un’azienda. Che rapporto hai con il lusso? La tua agenda, la potrebbe avere sia lo studente che l’imprenditore. I nostri punti di riferimento sono Cartier e Mont Blanc, un lusso molto alto. Noi infatti abbiamo due linee: una più elegante impostata come potrebbe essere Cartier, e un’altra, comunque di alto livello, come Mont Blanc. Come politica di prezzi però cerchiamo sempre di stare sotto i concorrenti per i prodotti più standard. Vogliamo dimostrare al mercato che i nostri prodotti 98


ROYAL NOTES

“Soprattutto per quanto riguarda le borse potremmo dire Made in Veneto, perché sono prodotte tutte da artigiani di queste parti. Quindi chi acquista i nostri prodotti va a nutrire tutta una filiera qui nei dintorni, a differenza dei grossi concorrenti.”

sono di qualità perché tutti made in Italy, ma che riusciamo a stare sotto i concorrenti. Stiamo cercando di rovinargli la piazza! Di fargli capire che chiedono troppo. Vieni da una famiglia di imprenditori, quindi hai l’imprenditoria nel sangue. Cosa bisogna mantenere della lezione dei nonni e dei padri? Per quello che è il nostro prodotto va sempre bene l’impostazione classica, ma va rivista in base all’evoluzione dei tempi, sulla realtà attuale. Il modo di fare affari bene o male è sempre quello, solo che deve evolversi seguendo le dinamiche di mercato che invece sono in continua evoluzione. Nella moda, ma anche in altri settori, non c’è più spazio per modi di pensare statici. Per sopravvivere bisogna essere dinamici. Seguire schemi preimpostati per paura di esporsi, seguire le piste già tracciate, vuol dire rischiare, nel medio e lungo termine, di essere escluso dal mercato. Cosa consiglieresti a chi volesse mettere su una sua linea? La cosa più importante è avere ben chiara in testa l’idea, nel modo più dettagliato possibile. Se l’idea è bene impostata si trova sempre il modo di finanziarla. Nei siti di crowdfounding è pieno di tecnologie non così eccezionali ma ben presentate e ben impostate che riescono a decollare. (8’ 50’’)

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It’s Watch, l’orologio da vestire It’s Watch vuole essere più di un orologio: un accessorio da vestire a seconda del momento, dell’occasione o dello stato d’animo.

Di BETTINA TODISCO

Da sinistra a destra, i cinturini: Positano (composizione mista di cotone, cupro, spun raynon e metallo); Capri (100% cotone); Panarea (100% cotone). www.itswatch.it info@itswatch.it

Abbiamo incontrato due imprenditori triestini, Giuseppe Taranto e Valentina Lesini, uniti dalla passione per l’orologeria e dalla voglia di proporre un orologio classico, volutamente distante dalle esasperazioni della moda e, soprattutto, personalizzabile. È It’s Watch, il primo orologio al quarzo che “si veste e si cambia” come un capo d’abbigliamento a seconda del proprio estro creativo. E il cui nome ricorda il mondo anglosassone, richiamando alla nostra memoria quelle prime lezioni di inglese quando alla domanda “What time is it, please?” si rispondeva “It’s…”. Ma la ricerca dei due imprenditori è ben più sofisticata, perché la I di It’s vuole richiamare il Made in Italy e le altre due lettere sono la sigla di Trieste, città natale di questo interessante progetto.

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Giuseppe Taranto, un orologio, perché? Forse perché per l’uomo è uno dei pochi accessori con i quali può personalizzare il suo look? Ci tengo a premettere che l’orologio è un 38 mm, adatto quindi sia al polso maschile sia a quello femminile. E’ stato, fra l’altro, molto apprezzato dalle donne. Nasce da una crasi sugli elementi tipici dell’orologeria anni ’40, anni ’50: quadrante rotondo, font, finitura argenté soleil, vetro lievemente bombato, effetto cangiante del quadrante. Gli anni ’40 e ’50, perché? La mia socia, Valentina Lesini, ed io siamo appassionati di oggettistica vintage e di design. Ci siamo chiesti perché non esistano orologi come il cipollone dei nostri nonni prodotti oggi e che sappiano evocare l’atmosfera di quegli anni. Abbiamo così pensato di attualizzarli e personalizzarli quei cipolloni. E abbiamo voluto accostare il mondo dei

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tessuti all’orologeria. Un elemento di novità, perché raramente i cinturini erano allora di cashmere, velluto, seta o lino. E poi lo splendido dettaglio del passante rosso… Sì, il passante è sempre rosso, perché noi siamo per l’originalità delle persone. Io come Giuseppe sono unico e originale. Dovremmo essere più propensi a essere originali, anziché omologarci e temere di discostarci dagli altri. E questo orologio si discosta. Non per niente il claim è “Scegli una trama. Parlerà di te”, e gioca sulla polisemia della trama e del tessuto. Ogni vita è una trama. E noi possiamo raccontarci a parole oppure con gli oggetti che indossiamo. La sensibilità estetica di chi sceglie un orologio di gomma è diversa dalla sensibilità di chi sceglie It’s Watch. Noi ci siamo concentrati molto sulla qualità, ma abbiamo voluto proporla a un prezzo accessibile. E una qualità, dicevi, che fosse Made in Italy. Sì, abbiamo trovato in Italia chi produce l’orologio e chi produce il cinturino. Ci vogliono ben quaranta passaggi per costruire i cinturini. Per l’interno abbiamo scelto la pelle pieno fiore che è la qualità più pregiata. E’ stato difficile trovare gli artigiani? Da come sono andate le cose sembrava proprio che il progetto It’s Watch dovesse nascere. Ascolta, è una bella storia. Andiamo alla ricerca di chi avesse in Regione una stampante 3D, per stampare il prototipo, e ci indicano una persona. Andiamo da lui e, senza sapere chi fosse, scopriamo che produce orologi. Lui sposa la nostra idea e, a quel punto, ci indica un produttore di cinturini che lavora per le maison svizzere. In due passaggi abbiamo trovato la nostra strada. Il quadrante e il movimento sono interamente

progettati, ingegnerizzati e assemblati a Udine, mentre i cinturini nascono nella provincia di Vicenza. E la scelta dei tessuti, come avviene? Scegliamo i tessuti che ci piacciono. Possono provenire da un’azienda prestigiosa o da una vecchia sartoria-laboratorio che magari sta per chiudere. Scegliamo la qualità e vogliamo che i tessuti rispecchino un gusto raffinato e un’estetica non gridata. Un tessuto sobrio, raffinato, da palato fine. It’s Watch non vuole essere un oggetto chiassoso. Quando siete partiti e come sta andando? Siamo partiti a novembre 2015, tre mesi di vita per un progetto che sta compiendo i primi passi, ma speditamente. It’s Watch è in vendita, oltre che online nella sezione e-commerce del nostro sito web, a Trieste da Dobner, un’azienda prestigiosa che vende marchi di orologi come Rolex, Audemar Piguet, Patek Philippe, Jaeger LeCoultre e molti altri. Essere ospitati in un contesto così prestigioso è per noi un ottimo segno. Permettetemi di complimentarmi per il sito web e la fotografia! Grazie. La campagna fotografica è

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di Massimo Gardone, la persona giusta che si muove tra fotografia e arte e che possiede la rara capacità di far parlare gli oggetti. Come vedi l’idea della qualità è declinata a 360°. Abbiamo voluto discostarci dai cliché della comunicazione in fatto di orologi, con la modella o il modello che portano al polso l’orologio. Abbiamo scelto di far parlare It’s Watch creando una commistione tra sartoria e orologio. E, a quanto pare, ci sta dando ragione. E per il futuro, quale l’impegno? Lo chiediamo a Valentina Lesini. Stiamo lavorando per portare It’s Watch in tutta Italia e in Europa in orologerie di alta gamma, in posti esclusivi, perché il posizionamento del nostro brand vuole essere alto. Salutiamo i due imprenditori triestini, Giuseppe Taranto e Valentina Lesini, non prima di aver visionato dal loro iPhone gli splendidi tessuti scelti per i cinturini della collezione estiva, in uscita il prossimo aprile. Sono sete cangianti color del mare, rigati d’antan e immancabili lini. Una delizia per i nostri occhi. E, mi auguro, per i vostri. (4’ 35’’)

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Nodo, la moda tra artigianato e design Cresciuta osservando le donne della famiglia fare quei lavori manuali e antichi che appartengono a una tradizione che sta ormai scomparendo, formatasi culturalmente all’Accademia delle Belle Arti e fuggita, per trovare la sua dimensione creativa, nella capitale che forse meglio rappresenta il futuro e la folle creatività dei giovami talenti, Londra, Sara Bellinato getta, con il suo lavoro, un ponte tra l’emozione di un prodotto artigianale e unico alla sublimazione della contemporaneità che diventa concreta nel design.

Di FRANCESCO CHERT

Nella prossima pagina: Cut Out Collection. Foto di Nika Furlani, Pagina 82: Lunar Collection, Foto di Katarina Bell, modella Lisa Rayski.

Come nasce l’idea di Nodo? Sono cresciuta sentendo il ticchettio dei ferri da maglia di mia mamma, il rumore metallico della macchina da cucire di mia nonna, indossando i calzettoni di lana fatti da mia zia. Ho sempre provato un trasporto emotivo per questi capi, perché dentro a ogni trama nascondono amore, passione e molte ore di lavoro, tante idee e creatività. Ogni capo fatto a mano è unico, irripetibile e la sua bellezza dura per sempre. Sono sempre stata attratta dalle tecniche tradizionali e da come queste vengono tramandate di generazione in generazione.Pur essendo sempre stati nel mio DNA, ho iniziato a interessarmi ai needleworks negli anni trascorsi all’Accademia di Belle Arti, cercando di tradurli in un linguaggio che fosse contemporaneo e minimale. Mi sono accorta però che i miei ricami contemporanei non arrivavano dritti al cuore, non portavano nessuna emozione, poiché non potevano essere indossati. Ho

iniziato così a creare cose che avrei potuto indossare io stessa, sentendomi appagata dall’unicità di quei capi. E così nasce Nodo. Con la voglia di portare un accessorio speciale e moderno a chiunque fosse stanco del fast fashion e della produzione di massa, a chi come me sentisse il bisogno di un oggetto speciale. L’idea è proprio quella di contrapporsi a questa filosofia che ci vuole schiavi della quantità piuttosto che della qualità, alla rincorsa dell’ultimo trend da cestinare in pochi mesi. Ogni accessorio Nodo è interamente realizzato a mano utilizzando materiali naturali di prima qualità o materiali riciclati da scarti di produzioni industriali. Ogni pezzo, proprio per la sua natura di oggetto artigianale, risulta unico. Le collezioni, acquistabili sul sito e in negozi selezionati, saranno disponibili per più stagioni e prodotte su richiesta; a testimoniare che un oggetto bello e ben fatto non ha tempo.

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NODO

Tu, anni fa, ti sei trasferita a Londra. Come pensi sarebbe stato preso il tuo prodotto se fossi restata in Italia? Avresti potuto fare quello che hai fatto? Vivere a Londra è di certo il modo migliore per non essere mai a corto di idee e ispirazioni. A differenza dell’Italia, in Inghilterra le nuove aziende e liberi professionisti hanno la possibilità di far crescere in maniera più semplice le loro idee. Non intendo ovviamente dire che sia facile emergere dalla massa, ma che la burocrazia e la facilità di poter aprire o chiudere una attività, o per lo meno di provare a farlo è davvero disarmante per un italiano. Perché, secondo te, l’Italia si trova sempre a rincorrere pur essendo storicamente la patria della moda e dell’eleganza? Cosa ci manca o cosa abbiamo perso? Questa è una domanda che richiede una risposta molto complessa da dare in maniera

obbiettiva-oggettiva. Non siamo esattamente un paese all’avanguardia sotto molti punti di vista, siamo piuttosto tradizionalisti e tendiamo a essere conservatori o protezionisti a volte. Questo non per è forza un aspetto negativo della nostra cultura, lo diventa però quando deportiamo le nostre eccellenze in paesi stranieri con manodopera sottopagata e svalutiamo un nostro grande punto di forza: l’artigianato. Made in Italy penso voglia dire molto di più del paese di provenienza di un capo, racchiude storie, esperienze, maestranze che stanno scomparendo sotto il peso di pressione fiscale e concorrenza che nasconde orribili scenari di sfruttamento. Il fatto di essere italiana ha rappresentato più un ostacolo o un vantaggio a Londra, considerando la quantità di nostri connazionali? Ci racconti come hai trovato la tua dimensione? NUMERO 1/II

Il bello di Londra è che come in ogni metropoli c’è spazio per tutti e c’è molta libertà. All’inizio per me è stata dura, durissima e ammetto di non considerarmi tutt’ora stabilizzata al 100% nella mia dimensione londinese. Ma a conti fatti la mia storia è simile a quella di quasi tutte le persone che ho incontrato qui: tanti sogni, tante speranze e tante energie investite per cercare di rendere i sogni realtà. Non importa da dove arrivi, che lingua parli o dove sarai l’anno prossimo, ciò che davvero conta è quello sai fare, il tuo lavoro parla per te. Finalmente! Nodo ha anche il significato di legame, come quello che c’è tra la contemporaneità dei tuoi prodotti e la tradizione di una tecnica manuale e antica. Che rapporto hai con queste due dimensioni del tuo lavoro? Una amica e collega nel suo biglietto da visita riporta la descrizione “contemporary artisan”. Ecco, credo sia la parola giusta per 103


BRAND

descrivere questo lavoro. L’artigiano contemporaneo è colui che impara a fare le cose “a regola d’arte”, le rilegge in chiave design, comunica tramite delle belle foto che posta sui social, dove si confronta con i suoi follower e vende principalmente online. In tutto il mondo! Ma Nodo è anche memoria, o meglio promemoria. Di cosa non ti vuoi assolutamente dimenticare? Di lavorare sodo. Di essere grata per quello che ho avuto, che ho e che avrò. Di non smettere mai di sognare. Senza i sogni non c’è la possibilità di realizzare i sogni. Dove trovi di solito gli stimoli per i tuoi gioielli e accessori? Ci sono stimoli un po ovunque: principalmente li trovo nelle mostre, nel lavoro di artisti e artigiani che stimo, viaggiando, e osservando le persone per strada. Poi tanto tanto web e libri. C’è da dire che tra l’ispirazione e la realizzazione di un progetto c’è molta ricerca, ore e ore di esperimenti, di fallimenti, di test e infiniti confronti con amici e colleghi. Credo nella collaborazione, è una grande forza, un privilegio. Hai mai pensato a una linea maschile? Bracciali e accessori sono tornati molto. Mi piacerebbe pensare maschile, ma il mio compagno fa tatuaggi che per me sono l’accessorio maschile per eccellenza. Ci descrivi le tue collezioni, le nuove uscite e le idee che hai in mente per il futuro? Nodo ha in attivo una collezione che si chiama Cut-Out. L’idea è quella di rendere prezioso il jersey che viene scartato dalle industrie tessili lavorandolo all’uncinetto e rendendolo un gioiello contemporaneo, il cui vero valore non è il materiale di cui è fatto ma la tecnica con cui è fatto. La collezione Ropes è ispirata

alla lavorazione delle corde usate in marina, tre diversi colori aiutano a evidenziare il dialogo di trame ordite a mano e annodate. L’ultima arrivata è la collezione Lunar, che sarà disponibile a giorni solo tramite il sito www.wearenodo.com. Nasce dalla collaborazione con la designer e orafa Jessica Tonioli e rispecchia la voglia di fondere assieme elementi dissonanti: minimale e materico, geometrico e organico, razionale e gestuale. Il calore del filato mohair lavorato a maglia si contrappone al freddo metallo ossidato che ne intrappola e contiene le trame. Molti

progetti in cantiere per il futuro che vedranno protagonista la sperimentazione con nuovi materiali, l’ampliamento del range di prodotti e l’introduzione nuove tecniche artigianali. Non mancheranno le collaborazioni con artigiani e le contaminazioni interculturali! (6’ 20’’)

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La cultura dell’abitare Zinelli&Perizzi sbarca a Portopiccolo Incastonato fra le falesie dell’esclusivo villaggio Portopiccolo a Sistiana (TS), SPAZIOPICCOLO Zinelli&Perizzi è un luogo delle idee dove design, arte e cultura dell’abitare si fondono per esprimere un nuovo concetto del vivere la casa oggi. Un tempio dell’arredamento e delle grandi firme del design italiano ed internazionale, selezionato con eleganza, passione ed originalità, caratteristiche dell’inconfondibile firma Zinelli&Perizzi.

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SPECIALE GUCCI

Gucci Timepieces & Jewelry presenta...

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SPECIALE GUCCI

Gucci Jewelry presenta Il Motivo Flora in una serie contemporanea di Design Femminili

Di GUCCI

Gucci Jewelry è lieta di presentare una nuova collezione di gioielli preziosi ispirati al motivo flora. Questa linea poetica, delicata ed elegante, si declina in capolavori di alta gioielleria e in deliziosi gioielli preziosi. I fiori e le farfalle di Gucci Flora sono lavorati in nuovi materiali e con nuove tecniche, mentre altri motivi come un teschio e un fiore aggiungono audacia al disegno originale. La collezione Gucci Flora comprende capolavori di fascia alta dai sorprendenti dettagli che rappresentano l’apice dell’artigianalità Gucci nel campo della gioielleria. L’articolo di spicco della collezione è una collana in oro bianco e rosa 18 carati, costituita da una fitta serie di splendidi

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fiori e farfalle abilmente lavorati, con diamanti incastonati e smalto bianco, per un totale di 5,12 carati. La collana, un girocollo, è una sontuosa opera di gioielleria. Un anello a serpente coordinato dalle sinuose curve aperte, completamente ricoperto di diamanti, è ornato da una farfalla e dall’iconica chiusura a morsetto Gucci. Coloro alla ricerca di un’interpretazione più moderna del classico motivo Gucci apprezzeranno la parure di collana con pendente a forma di teschio e anello coordinato. Questa parure con pavé di 164 diamanti taglio brillante ravvivati dagli occhi e da un fiore di zaffiri è sinonimo dello street chic contemporaneo in fatto di gioielli.

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Gli altri pezzi della linea Gucci Flora, che abbinano complesse tecniche orafe ad affascinanti design, esprimono un diverso carattere. Collane, bracciali bangle, orecchini e anelli sono realizzati in oro bianco o rosa 18 carati e offrono il perfetto connubio tra femminilità e modernità. Le collane a catena in oro rosa sono fantasiose e lussuose, cosparse di piccolissimi rubini e zaffiri che conferiscono un tocco al contempo glamour e romantico. Una versione più preziosa è la collana dai molti dettagli, con farfalla in smalto fucsia e ciondoli floreali, con rubini incastonati. Lo stesso tema prosegue negli orecchini, piccoli e deliberatamente diversi, rispettivamente ornati da una farfalla e da un fiore: un accenno allo stile individuale e anticonvenzionale di Gucci. La parure comprende anche una serie di anelli aperti ornati di farfalle rosa, fiori o impreziositi da rubini. Il look è completato da un sottile bracciale bangle abbinato con farfalla. Tutti questi deliziosi gioielli in oro rosa sono ornati da farfalle rosa cremisi smaltate e dipinte a mano. Tutti gli articoli sono incastonati, montati e finiti a mano, il che significa che ogni farfalla ha un carattere e un colore unici. I gioielli in oro bianco 18 carati, tutti ornati di gemme, portano Gucci Flora a nuove vette. Gli anelli sono raffinati e moderni, ornati da diamanti o zaffiri e realizzati con un design a serpente o aperti, sormontati da una farfalla e un fiore tempestati di diamanti. Questi pezzi sofisticati possono essere accompagnati dal sottile bracciale bangle coordinato, su cui spiccano una farfalla di diamanti e una chiusura morsetto con pavé, e da una splendida collana intrecciata con cuori, fiori e farfalle in oro bianco e rosa 18 carati. Gucci Flora è proposto nelle sue molte interpretazioni che esprimono un nuovo look sorprendente e contemporaneo che rivela tutta la straordinaria maestria degli orafi italiani di Gucci.

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Gucci Jewelry presenta

Le ultime varianti della collezione di Gioielli Preziosi Horsebit

Di GUCCI

Gucci Jewelry è lieta di presentare le ultime varianti della collezione di gioielli preziosi Gucci Horsebit. Questi pezzi, bracciale, orecchini pendenti ed anello, disponibili in oro giallo o oro rosa 18 carati, esibiscono tutte l’iconico morsetto della Maison Gucci. Questi gioielli, realizzati a mano dagli orafi italiani di Gucci Jewelry, sono declinati in uno stile più sottile rispetto all’attuale gamma Horsebit e si abbinano alla perfezione ai pezzi già esistenti della linea. Il raffinato motivo morsetto è un intramontabile simbolo della tradizione della Maison e si ispira al mondo equestre dell’aristocrazia fiorentina. Ideato da Aldo Gucci negli anni 50, questo motivo è stato inizialmente utilizzato come elemento decorativo per le borse e successivamente applicato a scarpe e piccola pelletteria. Il Morsetto è considerato sinonimo del glamour caratteristico di Gucci e si declina mirabilmente nelle sue collezioni di gioielli rendendole molto ambite e autenticamente uniche.

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SPECIALE GUCCI

Tutte le creazioni Gucci nascono dalle mani di esperti orafi italiani, che fanno della collezione di alta gioielleria l’emblema di una manifattura impeccabile. Qui il lusso nasce dalla scelta di materiali preziosi, dall’unicità del design e dalla meticolosa attenzione ai dettagli. I gioielli Gucci offrono un design made in Italy da indossare ogni giorno e custodire per sempre. Per maggiori informazioni su Gucci Timepieces & Jewelry, visitate il sito www.guccijewelry.com. Gucci fa parte del Gruppo Kering, uno dei leader mondiali dell’abbigliamento e degli accessori, che sviluppa una serie di importanti marchi del lusso e del settore Sport & Lifestyle.

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Gucci Timepieces & Jewelry presenta Nuovi eleganti modelli della Collezione Gucci Dive

Di GUCCI

Nel 2013, Gucci Timepieces & Jewelry ha presentato Gucci Dive, un vero orologio sportivo subacqueo con meccanica ad alte prestazioni. Oggi, Gucci Timepieces & Jewelry arricchisce questa collezione simbolo di nuovi modelli Gucci Dive al quarzo, in una varietà di materiali e colori. Tutti questi modelli esibiscono la tradizionale estetica degli orologi subacquei, con la lunetta girevole unidirezionale e il carattere decisamente sportivo. Gli orologi sono realizzati in acciaio e presentano una varietà di stili personali grazie a un mix di modelli classici, sportivi o innovativi. Questi audaci orologi ‘Swiss Made’ sono tutti dotati di movimento al quarzo e sono impermeabili fino a 200 metri. Le dimensioni variano: due sono proposti in versione 32 mm, tre in una variante più grande da 40 mm e altri due in misura extra large da 45 mm. I due modelli da 45 mm sono perfetti per coloro che non vogliono passare inosservati. Una versione blu in due tonalità, con quadrante blu opaco e bracciale in acciaio, si ispira al tema nautico mentre la versione autenticamente maschile, con look total black e caucciù, rappresenta l’espressione più potente del Gucci Dive.

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Sia nei modelli grandi che in quelli più piccoli, sono i dettagli italiani caratteristici di Gucci a conferire ad ogni orologio la sua personalità unica. L’iconico web verde-rosso-verde di Gucci è utilizzato per aggiungere un tocco di colore al quadrante bianco opaco e conferirgli un look fresco. Dettagli rossi sulla versione da 40 mm interamente nera ne accentuano il dinamismo, mentre, su un altro modello, il quadrante spazzolato rosa aggiunge un tocco delicato. Tutti gli orologi esibiscono il logo Gucci alle ore 12 con il datario e il timbro ‘Swiss Made’ alle ore 6. Come sigillo finale di qualità e autenticità, questi nuovi orologi recano inciso sul fondello lo storico stemma della Maison. Questo stemma racconta la storia di Gucci attraverso una serie di simboli significativi: un cavaliere che porta una valigia e una borsa invece di scudo e spada rimanda all’epoca in cui Guccio Gucci lavorava come fattorino, mentre la rosa è simbolo di bellezza. Il nome Gucci vola alto scritto su un nastro. Questa collezione Gucci Dive testimonia la capacità di Gucci Timepieces & Jewelry di sviluppare diversi design partendo da un unico concetto, portando l’inimitabile stile italiano nel mondo dello sport.

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SPECIALE GUCCI

Gucci Timepieces & Jewelry presenta La nuova collezione di Orologi Diamantissima

Di GUCCI

Gucci Timepieces & Jewelry è lieta di presentare una nuova prestigiosa serie di orologi da donna, la collezione Diamantissima. Cinque modelli in diverse misure, dal carattere decisamente femminile e finiture di una sobria eleganza. Tutti gli orologi esibiscono il motivo diamante che ha ispirato questa linea. Questa nuovissima creazione completa la collezione di gioielli Diamantissima e propone uno stile nuovo e fresco, perfetto per la donna moderna. Il motivo diamante trae ispirazione dalla famosa tela Gucci stampata con motivo a losanga. Questi orologi dalla cassa raffinata e dal quadrante minimalista offrono l’espressione più pura di questo disegno: il motivo diamante è inciso sulla cassa e ripreso sul quadrante in modo da creare l’effetto di una stampa su tessuto.

Gucci Timepieces disegna, progetta e realizza iconici orologi Gucci sin dai primi anni 70. Forte della fama mondiale della Maison fiorentina e dell’esclusivo posizionamento del brand che coniuga modernità e tradizione, innovazione e artigianalità, moda ed eleganza - Gucci Timepieces è uno dei marchi di orologi più affidabili e consolidati, con un evidente orientamento al design.

Declinato nei colori acciaio e bianco (32 mm, 27 mm e 22 mm) o PVD oro rosa e nero con cinturino di vitello nero abbinato (32 mm e 27 mm), il motivo diamante spicca sulla cassa, realizzata in acciaio tono su tono o nei colori contrastanti nero e PVD oro rosa. Quattro modelli sono dotati di quadranti minimalisti senza numeri, mentre una variante più piccola e preziosa (22 mm) esibisce un quadrante in madreperla ornato da quattro diamanti alle ore 12, 3, 6 e 9. Il logo Gucci e il timbro di qualità ‘Swiss Made’ sono incisi sotto il vetro zaffiro alle ore 12 e 6. La collezione Gucci Diamantissima, con il suo carattere sobrio ma inconfondibilmente Gucci, offre alla donna moderna un nuovo, raffinato orologio.

Gli orologi Gucci, realizzati in Svizzera, sono apprezzati per le loro linee, la qualità e l’impeccabile manifattura e sono distribuiti in tutto il mondo attraverso l’esclusiva rete di boutique gestite direttamente da Gucci e dai rivenditori autorizzati. Dal gennaio 2010, Gucci Timepieces distribuisce anche le collezioni Gucci Jewelry, sfruttando l’esperienza acquisita con gli orologi e facendo NUMERO 1/II

leva sulle sinergie tra i due settori. Per maggiori informazioni su Gucci Timepieces & Jewelry, visitate il sito www.gucciwatches.com. Gucci fa parte del Gruppo Kering, uno dei leader mondiali dell’abbigliamento e degli accessori, che sviluppa una serie di importanti marchi del lusso e del settore Sport & Lifestyle.

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CULTURA

Joe Bastianich: cucina e cultura, il futuro del Friuli Venezia Giulia Di FRANCESCO LA BELLA

Joe Bastianich: è stata un’occasione vederti qui in un momento di degustazione, però ti abbiamo visto anche all’interno di Portopiccolo nei giorni scorsi. Partiamo subito da una prima battuta su questa location. È una grande valorizzazione di un territorio molto ricco di prodotti, cibo, mare, cultura: Portopiccolo è la visione del futuro del Friuli Venezia Giulia. L’arte si esprime in varie forme e ovviamente tu sei diventato un protagonista nell’arte del cibo e del bere; in questo tuo momento professionale, cosa ti senti di rappresentare? A livello imprenditoriale nel nostro ambito l’intento è sempre quello di rappresentare la grande cultura della tavola italiana nel mondo, anche in Asia, America e Sud America, in tutti i posti dove facciamo ristorazione e vendiamo del cibo; il nostro compito è quello di prendere la ricchezza della cultura e del cibo italiano e metterla in mostra in tutto il mondo. Quando affrontiamo un mondo ancora più globale, in Paesi come Cina e India, ci troviamo di fronte a un abisso che separa queste culture dal modo di mangiare all’italiana: il mio compito è essere un comunicatore e un imprenditore che lancia il messaggio della ricchezza culturale del cibo e del vino italiani nel mondo. Partiamo dal Friuli Venezia Giulia, un territorio particolare di cui

Bastianich è rappresentante nel mondo. Questa regione ha opportunità? Più di qualunque regione in Italia, perché qui c’è un poco tutto, mare, montagne, confini culturali, cibo e sapori: il Friuli Venezia Giulia ha tantissimo, come hanno già confermato i romani più di 2000 anni fa. Questo è un territorio ricchissimo geograficamente e culturalmente, è dotato un po’ di tutto; purtroppo negli ultimi anni, forse per motivi di trasporto o altro, è stato lasciato un po’ fuori dal giro principale rispetto a città come Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Venezia o Milano, ma questo difetto è diventato un pregio per il Friuli Venezia Giulia perché rappresenta un’Italia ancora molto pura e vera e il turista che viene qui può ancora fare esperienza diretta di tutto questo. C’è una strana tendenza nel cercare un prodotto di altissima qualità ma in un ristorante che esprima qualcosa di non troppo lussuoso. A tuo avviso può realizzarsi il fatto contrario, ovvero cercare il posto meno impegnativo ma con il prodotto d’eccellenza? È un argomento con cui vengo spesso a confronto; io sono nato nel mondo della ristorazione stellata e costosa, con ristoranti che possono permettersi di avere le verdure a chilometro zero, la mucca e le galline sul posto e vendere piatti a 50 euro che va anche bene ma crea un po’ un contrasto nella comunicazione perché il consumo troppo GENIUS PEOPLE MAGAZINE

legato al territorio non può essere riservato solo a persone che possono permettersi esperienze molto care. Qui in Italia c’è una ricchezza incredibile nell’agricoltura un po’ dappertutto e questo è un messaggio da lanciare a livello globale, anche in paesi come il nostro e come l’America dove la divisione sociale è segnata dal modo di mangiare. Se sei povero mangi cibo industriale, se sei ricco ti puoi permettere di mangiare bene: questa è una cosa che non va bene e l’Italia può insegnare molto su questo tipo di sensibilità per cui il magiare sano non è un privilegio ma un diritto di chiunque. Oggi sei qui al Bris, un ristorante che punta sul fatto di regalare un palcoscenico stupendo su Portopiccolo. In un breve futuro Joe Bastianch potrebbe pensare di prendere in mano e di marchiare uno di questi locali? Abbiamo un ristorante a pochi chilometri da qui, per cui siamo presenti sul territorio, nel mondo del vino, dell’ospitalità e della ristorazione, nel nostro piccolo. Portopiccolo è un progetto molto più ambizioso. Io sono un uomo di mare, quindi vediamo cosa succederà. Perché dal vivo sembri buonissimo e alla mano mentre in TV sei molto severo con chi cucina? Sei fortunato, finora non mi hai fatto incazzare! (3’20”)

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Nato a New York e, professionalmente, «nel mondo della ristorazione stellata e costosa», Joe Bastianich non ha mai perso il legame che lo lega all’Italia e a quell’incrocio di culture, sapori e tradizioni che da sempre è l’area che unisce il Friuli Venezia Giulia all’Istria, da cui la sua famiglia proviene. E se la sua missione di personaggio pubblico e di ristoratore di altissimo livello è quello di rappresentare il cibo italiano nel mondo, nel Friuli Venezia Giulia ritrova una meta incredibilmente ricca e ancora da scoprire del tutto, non solo da parte del turista straniero ma anche di quello italiano.

Foto: Pedra Consulting.

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CULTURA

Massimo Bray e la salute della cultura italiana

L’Italia possiede un patrimonio artistico e culturale straordinario, superiore a quello di ogni altro paese al mondo. Il Sud tuttavia, pur essendo custode di alcuni unicum della storia dell’umanità, tra i quali diversi siti Unesco, non sembra riuscire a capitalizzare questo immenso potenziale, come dimostrano i risultati economici di regioni come Veneto e Toscana, le quali da sole hanno un introito superiore a quello dell’intero Sud Italia nel settore del turismo. Come si spiega? Il patrimonio italiano è un patrimonio di forte tradizione storica, quindi il nostro primo dovere è quello di saper tutelare il suo significato. La sua esistenza definisce il nostro essere italiani, il nostro senso di comunità e di memoria che abbiamo verso la storia che ha fatto grande il nostro paese. Il tema della capacità di valorizzare tutto questo immenso potenziale è qualcosa di cui si discute da molto tempo ma a mio parere proprio perché tutto questo patrimonio si identifica con

la nostra comunità nazionale, è un patrimonio che assolve un compito di grandissima importanza, contribuendo a definire quello che è il nostro essere cittadini di questo paese e la nostra capacità di riconoscerci come tali. Detto questo, il nostro sforzo dovrebbe essere quello di tutelare questo lascito del passato e diffonderlo alle nuove generazioni. Il tema della valorizzazione è legato alla capacità di far percepire il valore di questo patrimonio. Mi è capitato in agosto di vedere qualche dato sui numeri incredibili dei visitatori che tentavano di vedere alcune rinomate opere del Louvre. Mi sono chiesto se questo fatto fosse qualcosa di positivo o meno in quanto non so quanto si possa apprezzare il significato di un’opera d’arte in mezzo a cinquecento persone. Forse a quel punto è meglio vederlo in alta definizione al computer. Dico questo perché quando ci si pone il problema di quanti visitatori accedano ai nostri musei ci si dovrebbe prima porre la questione di come si pensa di far usufruire i visitatori delle opere al loro interno. Questo dipende in massima parte da quali sono le finalità di un museo o del contenitore in oggetto della discussione. Non credo quindi che il problema sia il numero di visitatori, quanto invece permettere che questo patrimonio continui a svolgere la funzione che ha svolto finora. Noi italiani guardiamo la storia dell’arte con un occhio e con una sensibilità che derivano dal nostro essere eredi di tutto questo. Il rapporto tra cultura e turismo è qualcosa che va certamente accresciuto ma nella forma di quello che io definisco un turismo consapevole, un turismo che rispetta il patrimonio. Al sud c’è ancora molto da fare ma c’è chi ha già fatto notevoli progressi, come ad esempio la Puglia, la quale da sempre ha investito molto nel suo territorio e nelle sue tradizioni storico-culturali.

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Ex ministro ed ex parlamentare a seguito di una rinuncia che ha destato molto clamore, è oggi tornato ad occupare il suo posto in Treccani, convinto che per fare un lavoro bene si debba svolgerne uno soltanto. Grande conoscitore dell’Italia e dei suoi pregi e difetti, non ha mai smesso di credere che il turismo rappresenti la vera occasione di riscatto per il nostro Paese.

Di MATTEO MACUGLIA


INTERVISTA A MASSIMO BRAY

investimenti sulle infrastrutture e sulle reti wifi, ancora assenti in grandi zone del paese. Si sente molto spesso parlare del turismo come l’occasione per il nostro paese per sbloccare grandi ricchezze economiche ed occupazionali. Secondo lei è verosimile pensare a questo settore come assimilabile alle industrie o al primario in termini di risultati macro-economici, PIL in testa? Durante il mandato del Governo Letta avevamo predisposto un decreto interamente dedicato al turismo dal nome “Valore Turismo”. Si trattava di un piano strategico in questo settore che secondo le nostre stime rendeva questo ambito cruciale per la realtà economica italiana. Se si investisse con grande decisione in questo settore i posti di lavoro ed il ritorno in termini economici sarebbero sorprendenti. Per poter far ciò bisognerebbe però puntare su di una rete informativa che porti alla conoscenza del visitatore tutto il territorio italiano e non solo le quattro o cinque città principali. Vi sono tantissimi luoghi del nostro paese sconosciuti ai più che riservano tuttavia sorprese straordinarie.

Abbiamo toccato il tema degli investimenti sul territorio; il nostro turismo presenta delle criticità ben definite che sono state molto ben elencate nei più recenti Travel Competitiveness Index, come si può affrontare queste sfide, anche infrastrutturali, in un momento caratterizzato da diverse ristrettezze economiche come quello che stiamo affrontando adesso? Ricollegandoci alla situazione del Mezzogiorno vi è senz’altro la questione legata ai collegamenti ed

alle infrastrutture. È inconcepibile che per andare da Roma a Lecce ci vogliano sei ore mentre da Roma a Milano solamente tre. È difficile pensare che la Sicilia e le Baleari a parità di perimetro abbiano una differenza di visitatori così ampia. Se cerco i motivi di questa dicotomia vedo immediatamente che le possibilità di raggiungere la Sicilia dalla Germania sono infinitamente inferiori a quelle che si hanno qualora si vogliano raggiungere le isole spagnole. Ci vogliono grandi

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Matera sarà capitale della cultura europea nel 2019, quali sono i temi che andranno affrontati con maggiore urgenza? Ho avuto la fortuna di seguire tutto l’iter che ha portato il comitato organizzativo a scegliere una città italiana come capitale per un evento di questo tipo. Ora penso che la cosa più importante sia valorizzare al massimo quest’opportunità così come già successo a Marsiglia. Si dovrà fare in modo di capitalizzare quest’occasione negli anni a venire e sono certo che le risorse della città, così come della provincia, saranno in grado di far fronte

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CULTURA

alla sfida che viene posta. Anche Treccani ha contribuito a definire con il comune di Matera una “Biennale delle Memorie” la quale vuole dare particolare enfasi all’importanza della nostra storia per tutto il Paese, in quanto crediamo che questa possa essere epicentro di un rilancio di tutto il Mezzogiorno. Perché questo sia possibile bisogna innanzitutto crederci, investendo così che il territorio circostante si predisponga al meglio al fine di accogliere tutti i turisti che saranno richiamati in zona per via di questo importante evento. Dalla posizione che riveste oggi in Treccani quale pensa che sia lo stato di salute della cultura italiana? Perché facciamo così fatica a far accedere i nostri giovani agli studi di livello superiore? In Italia si fa molta ed ottima cultura. Probabilmente è una delle tantissime cose che gli italiani fanno bene, con grande passione ed ancora maggiori sacrifici. Se ne parla sicuramente troppo poco, in particolare a livello politico. Le biblioteche fanno di tutto per diffondere il nostro immenso patrimonio culturale, a volte anche facendo leva sullo sforzo individuale del personale che, nonostante sia sotto organico, si sforza per poter dare un servizio di qualità all’utenza. Così si può dire anche per i musei, gli archivi, il teatro ed i balletti. Le tantissime organizzazioni attive nel settore, spesso nella totale ignoranza di coloro che governano, organizzano festival, creando legami per far vivere e prosperare la cultura. Questo mi ha sempre colpito e dato modo di pensare di essere di fronte ad uno dei punti di forza del nostro Paese. Una buona politica dovrebbe fare in modo di far crescere e prosperare questo genere di energie, purtroppo con risultati non sempre all’altezza delle aspettative.

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Secondo lei la riforma della scuola del Governo Renzi va nella giusta direzione nel tentativo di proporre un modello più snello ed al passo con i tempi? La riforma ha molti propositi di adeguare la scuola ai tempi moderni. Mi pare però giusto fare alcune precisazioni. Abbiamo un corpo docente di altissima qualità, sarebbe il caso di cominciare ad elogiarli ed a parlarne il più possibile. Seguono i nostri figli con passione e dedizione, con aggiornamenti spesso a carico proprio. Dovremmo pagarli meglio oltre a valutarli sul merito visto che svolgono l’essenziale funzioni di educare i cittadini del futuro. La riforma della scuola investe molto nel modello di scuola digitale. A mio parere un intervento di questo tipo deve essere accompagnato da una visione complessiva del paese che vogliamo avere di qui a dieci anni, quando la riforma avrà ormai preso piede. È così necessario riuscire ad avere un’idea su cosa vogliamo ottenere in un futuro non-prossimo, bisogno avere visione del Paese. In Francia i musei sono interamente gratuiti per i giovani fino ai 25 anni e per gli over 65. Secondo lei questa è una spia della diversa concezione di cultura che c’è tra noi ed i nostri “cugini d’oltralpe”? Io sono convinto che i musei, gli archivi e le librerie siano luoghi vivi, dove i cittadini riconoscono e formano la propria identità culturale. Il mio sogno sarebbe che fossero tutti gratuiti, così da diventare le palestre della nostra sensibilità e del nostro modo di formarci. Sarebbe bello quindi poter indirizzare una grande quantità di risorse verso questo settore ma siamo in un territorio di scelte politiche ovviamente. Questo richiederebbe appunto un forte cambiamento di prospettiva che per ora non sembra profilarsi all’orizzonte. 122


INTERVISTA A MASSIMO BRAY

Il flusso dei migranti che in questi giorni sta attraversando i Balcani ha riproposto con grande forza il tema di come pensiamo l’Europa, in particolare guardando alle reazioni poco omogenee dei primi ministri dei diversi paesi. Secondo lei la risposta dell’Italia è stata adeguata alla sfida lanciata dalla nuova situazione geopolitica? E gli altri paesi invece? Abbiamo bisogno innanzitutto di Europa. L’Europa che stiamo vedendo in questi mesi non regge al confronto con la realtà, non è in grado di dare le risposte che nei secoli i cittadini europei, pur divisi da realtà para-statali molto diverse tra loro, sono stati in grado di trovare. Tutto questo perché forse manca una cultura europea, perché non siamo in grado di leggere il significato dell’Europa. Per fare questi non sono sufficienti una moneta ed un ceto burocratico che impone delle scelte spesso lontane dal sentire comune. Il tema dei migranti è un tema cruciale che non penso che si esaurirà molto presto. Ricordo sempre che quando si scelse di dare vita all’ONU di fronte allo spinoso problema del dopoguerra e degli sfollati... forse si dovrebbe scegliere un approccio simile e dare vita ad un’agenzia europea per i migranti, in grado di accogliere tutti coloro che arrivano

nei nostri paesi. Queste persone si spostano per fuggire a guerre o alla povertà, per dare ai propri figli un futuro migliore. Dovremmo ricordare questo dolore che noi stessi abbiamo vissuto quando dal Sud Italia fuggivamo verso il Nord, sia dell’Italia che dell’Europa. Non dovremmo far rivivere a queste persone i drammi che sono toccati a noi, perché è giusto poter dare ai propri figli delle condizioni di vita migliori di quelle che sono toccate a noi. Questa agenzia dovrebbe poter offrire a chiunque una qualità di accoglienza degna dei valori che permeano la persona, con il diritto d’asilo, in quanto diritto europeo, comprensivo anche delle condizioni di lavoro necessarie ad una vita decente, respingendo al contempo tutte quelle situazioni che vedono la violazione delle nostre regole. Se tutto questo fosse gestito da un’agenzia europea, quindi connotata da poteri ai quali i singoli Stati non possono opporsi, avremmo dato il segno di un’Europa che sa essere degna di questo nome.

vediamo nel nostro confronto politico sono date dall’urgenza che per mesi ci siamo trovati ad affrontare da soli o piuttosto da una generale arretratezza del nostro sistema democratico? Sicuramente abbiamo gestito senza una concertazione europea il problema. Siamo arrivati impreparati rispetto all’emergenza che ci ha colpiti. Avremmo dovuto cogliere con maggior forza quella che è stata la responsabilità e l’occasione data dal Semestre Europeo a presidenza italiana per cercare ad ogni costo una soluzione caratterizzata da una visione più ampia. La risposta che la Germania è stata in grado di dare è qualcosa alla quale dovremmo guardare. Dispiace però arrivare sempre in ritardo. Mi spiace che l’Italia non sia stata in grado di essere capofila in Europa per quanto riguarda le richieste per una politica estera più concertata ed armonica, guidando delle scelte che non possono prescindere dal contesto comunitario nel quale ci troviamo. (10’ 15’’)

Considerando il problema da una prospettiva più prettamente politica, l’Italia si caratterizza per un dibattito polarizzato tra il “tutti a casa” delle destre e l’accoglienza generalizzata o quasi delle sinistre. Secondo lei le esasperazioni che

“Noi italiani guardiamo la storia dell’arte con un occhio e con una sensibilità che derivano dal nostro essere eredi di tutto questo. Il rapporto tra cultura e turismo è qualcosa che va certamente accresciuto ma nella forma di quello che io definisco un turismo consapevole, un turismo che rispetta il patrimonio. Al sud c’è ancora molto da fare ma c’è chi ha già fatto notevoli progressi, come ad esempio la Puglia, la quale da sempre ha investito molto nel suo territorio e nelle sue tradizioni storico-culturali.” NUMERO 1/II

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CULTURA

Riccardo Apollonio: il futuro della “Regina delle Dolomiti” visto dall’Hotel Cortina Riccardo Apollonio, proprietario dell’Hotel Cortina di Cortina d’Ampezzo, rappresenta la nuova generazione degli albergatori ampezzani. Ma cosa significa gestire uno degli alberghi principali della “Regina delle Dolomiti” in una fase di crisi e di ridefinizione del concetto tradizionale di lusso, in cui i fasti della Cortina dei vip che abbiamo conosciuto al cinema e sulle riviste di gossip si stanno evolvendo in base alla necessità di adeguarsi alle nuove tecnologie e all’emergere di nuovi mercati e quindi di nuovi clienti?

Di FRANCESCO LA BELLA

Riccardo, tu appartieni alla nuova generazione degli albergatori ampezzani. Cosa hai imparato da chi è venuto prima di te e cosa invece hai ritenuto di dover rinnovare rispetto a una gestione più tradizionale? Sicuramente con la gestione del vecchio cliente bisogna mantenere il vecchio stile, quindi coccolarlo e dargli ciò che si aspetta di ricevere. E poi c’è la nuova generazione di albergatori che, come succede anche per i clienti più giovani, è molto più attenta a internet rispetto alla gestione precedente. Ma non è una cosa facile perché è per tutti un mondo nuovo. Una gestione diversa che risponde quindi anche al fatto che il turista tipo sta cambiando? Esattamente. Questo avviene soprattutto con l’incremento dei turisti stranieri.

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Gestire uno dei principali alberghi di una delle mete più ambite del turismo italiano rappresenta una grande responsabilità. Quali sono gli aspetti più difficili e quelli invece più gratificanti del tuo lavoro? Sicuramente uno degli aspetti più difficili oggi è rappresentato dalla burocrazia e dalle normative a cui bisogna attenersi. Per quanto riguarda gli aspetti positivi sicuramente il fatto di conoscere tanta gente diversa, nuova e soprattutto i turisti stranieri e la clientela internazionale. È un aspetto del nostro lavoro molto piacevole. Come si rimane la “Regina delle Dolomiti” in tempi di crisi? Ultimamente a Cortina qualcosa si sta muovendo. Ci si sta un po’ svegliando, perché c’è più necessità rispetto a una volta quando i clienti quasi piovevano. Ora i clienti bisogna andarli a cercare. Occorre

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INTERVISTA A RICCARDO APOLLONIO

la montagna, perché Cortina non è e non è mai stata solo mondanità, ma propone cultura e sport di vari tipi. Cortina si è adattata a questo nuovo mercato? Ci stiamo adattando alle nuove richieste. Anche perché devi considerare che Cortina ha sempre avuto una vocazione sportiva, grazie ai luoghi meravigliosi e alle attrezzature e i servizi, e su questo aspetto stiamo puntando molto. E poi c’è tutto il resto, il turismo tradizionale, che viene soltanto per il lusso e per la mondanità, e che solo eventualmente fa una passeggiata in mezzo alla natura.

“Cortina è di tutti e ognuno in Cortina vede qualcosa di diverso perché è soprattutto un modo di vivere che può dare soddisfazioni diverse a diverse tipologie di clienti.”

cercare di capire che cosa sta succedendo e organizzarsi. Com’è cambiata Cortina negli anni? È effettivamente molto cambiata. La Cortina bene esiste sempre, ma si nasconde un po’ di più, i personaggi si fanno vedere di meno ma ci sono sempre. Chi cercate di raggiungere come target? La nostra attenzione è rivolta soprattutto a quelle fette di mercato che non conoscono ancora Cortina e che per questo motivo devono essere raggiunte. Mi riferisco ai turisti provenienti dai Paesi emergenti e comunque a tutte le tipologie di persone che hanno voglia di montagna perché Cortina non è più conosciuta così tanto e i turisti vanno attirati. Quindi persone dei Paesi emergenti e persone che cercano un modo diverso di vivere

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In cosa l’offerta dell’Hotel Cortina ha recepito la nuova domanda? Noi sicuramente, come tutti, siamo entrati nel mondo internet con i nuovi portali per le prenotazioni. Quindi essenzialmente direi che la vera innovazione è stata internet. Un po’ come in tutti i campi la rete ha influenzato parecchio l’offerta. Da albergatore di una delle località più famose e internazionali del nostro Paese, che giudizio dai della strada per l’uscita dalla crisi che l’Italia sta seguendo? Da un lato un fatto molto positivo è rappresentato dall’Expo, perché può dare una nuova visibilità alle tipicità e alle eccellenze italiane e in questo senso è un’iniziativa ottima e utilissima. Dall’altro riscontro una forte carenza per quanto riguarda l’attenzione al turismo. Cortina ha davvero bisogno di pubblicità? Noi abbiamo una grandissima necessità di pubblicità e puntiamo molto sul 2021, quando ci saranno i campionati mondiali di sci, perché abbiamo un grande bisogno di rifare quel nome che Cortina aveva per gli

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CULTURA

italiani e all’estero. La visibilità che avremo nel 2021, con tutto quello che sarà fatto come divulgazione e promozione, potrà darci un grosso ritorno di immagine. Cortina può rappresentare un modello da seguire per il resto d’Italia o è e rimane una meta unica? Penso che rimaniamo una meta unica perché abbiamo una mentalità particolare. A Cortina tutti possono stare bene e trovare una nicchia senza dover dimostrare niente a nessuno. Cortina è di tutti e ognuno in Cortina vede qualcosa di diverso perché è soprattutto un modo di vivere che può dare soddisfazioni diverse a diverse tipologie di clienti. Come dicevo prima ce n’è per tutti, per coloro che vogliono mondanità e per coloro che desiderano fare sport. Ma specialmente è la facilità di poter vivere uno stile di vita casual, di essere se stessi senza problemi. Cortina, nell’immaginario collettivo, rappresenta il lusso. Secondo te è giusto considerarla una meta

esclusiva o rischia di essere un concetto limitante? Penso che quello del lusso sia un concetto limitante perché è fondamentalmente sbagliata l’impostazione. Per quanto mi riguarda il lusso è poter stare tranquilli, è poter vivere come si vuole. Poter incontrare gente quando lo si desidera o potersi isolare senza che nessuno dia fastidio. Il lusso per me è tutto questo e lo vediamo in molte persone che vengono e che vivono qui.

I vostri ospiti hanno cultura positiva e sono maturi? Sì, certamente.

Se arrivasse un russo e ti facesse un’offerta che non puoi rifiutare? Seguiresti il tuo cuore o accetteresti? Non lo so. Dipenderebbe dal momento.

E quello più appagante? Le amicizie che si sono create e che si rinnovano dopo un anno che non ci si vede ma poi ci si rincontra e si ha voglia di chiacchierare insieme, anche con le persone più inavvicinabili ma con le quali si crea un rapporto molto facile perché nessuno ha bisogno di dimostrare niente. (5’ 30’’)

In uno speciale su Venezia che abbiamo fatto abbiamo capito che loro non hanno bisogno di turismo perché sono saturi e hanno bisogno di controllare i flussi. Noi invece abbiamo bisogno di nuovi mercati, e non abbiamo sicuramente i problemi di Venezia

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Italiani o stranieri? Entrambi. Forse anche perché chi va in montagna ha molto più rispetto dell’ambiente di altre tipologie di turisti. Il caso più simpatico e quello più fastidioso? Non ne ricordo di particolari.

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TECNOLOGIA

Prase Engineering, dalla provincia ai mercati esteri Una storia lunga quarant’anni, o quasi: è il 1978 quando Alberto Prase decise di mettere in piedi un’azienda che, ancora oggi, è ai vertici nel campo dei sistemi audiovisivi. Una vera e propria sfida, che parte dalla provincia veneta e si estende, oggi, in tutto il mondo. La Prase Engineering è una ditta solida, che ha diramazioni in tutto il globo e che opera in diversi settori: fare di un hobby il proprio lavoro, è questo il motto di Alberto Prase, che insieme al fratello Ennio rappresenta un marchio oramai di fama mondiale.

Di MATTEO ZANINI

Alberto (a sinistra) e Ennio (a destra) Prase.

Prase Engineering Spa opera in Italia in qualità di distributore ufficiale di prodotti per i sistemi audiovisivi nell’ambito professionale. Da dove inizia la vostra storia? Partiamo dal 1978, anno nel quale io lavoravo ancora in un’azienda che costruiva pionieristicamente HIFI ma che però iniziava a subire la concorrenza dei giapponesi (che erano i cinesi di oggi…), con le varie Technics, Pioneer e industrie simili; la proprietà di allora voleva passare alla telefonia ed allora io, con l’amore che ho verso questo mestiere, decisi di mettere in piedi un’azienda assieme ad altro socio. Quarant’anni fa, l’audio-video non era così intrinsecamente “dentro” alle nostre vite ed alle nostre case com’è oggi, per cui abbiamo patito la fame per diversi anni e soprattutto ci trovavamo in campagna, a Ponte di Piave, dove non si lavorava molto con queste cose. Negli anni Ottanta, poi, si è aperto un mercato

importante come quello delle discoteche e questo ci ha permesso di costruire grandi impianti, ci ha fatto svoltare ed economicamente ci ha dato la forza per la fondazione, nel 1993, di Prase Engineering.

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C’è una questione “familiare” in seno all’azienda, giusto? Esatto: il mio attuale socio è mio fratello Ennio e, oggi, possiamo dire orgogliosamente che le azioni della Spa sono in mano alla famiglia; lavoriamo con i nostri soldi e non con quelli delle banche. Facciamo attività di due tipi: il primo settore è quello commerciale. Parlando di questo, importiamo da quindici paesi attrezzature per la visualizzazione ed il controllo delle immagini e li distribuiamo in esclusiva sul territorio nazionale: importiamo soprattutto da Stati Uniti, Cina, Giappone e Germania e, fra tutti i prodotti, vorrei citare in particolare Shure, che produce


INTERVISTA A ALBERTO PRASE

Venezia, il San Carlo di Napoli ed il Petruzzelli di Bari. Operiamo anche nel settore broadcasting avendo rapporti con la Rai, Fininvest e Sky: direi che, alla fine, abbracciamo un po’ tutti i mercati, compreso anche il settore commerciale. Parte del nostro catalogo, poi, è destinato anche al residenziale ed allo yachting: lavoriamo da alcuni anni con la Fincantieri nelle grandi navi, dove le nostre attrezzature sono molto presenti, e nelle grandi ville, nelle quali siamo attivi anche con la domotica con telecomandi a funzione remota che facilitano molto la gestione dell’ambiente.

“Negli anni Ottanta si è aperto un mercato importante come le discoteche: questo ci ha dato forza per fondare, nel 1993, Prase Engineering.”

il 60% dei microfoni venduti a livello mondiale e rappresenta oggi uno standard d’eccellenza, basti pensare che è il marchio di microfono con cui ha cantato Elvis Presley o ha parlato Kennedy. Il secondo settore è rappresentato da un team di sei ingegneri all’interno dell’azienda, che studiano e progettano come mettere assieme i prodotti all’interno di servizi richiesti da determinata clientela: prepariamo i preventivi al cliente e aiutiamo l’installatore a creare il progetto. In quest’ambito rientrano strutture come le sale conferenze, gli stadi di calcio, le stazioni ferroviarie, gli aeroporti e tutti quei grandi ambienti dove c’è necessità di comunicare o di avere degli strumenti per sentire colonne sonore o effetti musicali; vorrei citare anche i quattro importanti teatri italiani che, ultimamente, sono stati rinnovati con le nostre attrezzature e cioè la Scala di Milano, la Fenice di

Da Ponte di Piave alla grande città; dalla grande città agli stati esteri: un bel salto, no? Dal 2004 abbiamo uno stabilimento di 4000 metri quadrati a Noventa di Piave, dove gestiamo tutte le attività, dall’immagazzinamento di prodotti all’assistenza, dalla progettazione alla pianificazione dei grandi progetti; in più abbiamo aperto, da tre anni, una filiale a Cinisello Balsamo dove seguiamo le due regioni più importanti che sono il Piemonte e la Lombardia. Quest’ultima, in particolare modo, è il mercato di riferimento perché ci sono Sky, Fininvest e la Rai, oltre a grandi lavori come le Torri Unicredit, i saloni dell’Expo e l’ultimo arrivato, l’Unicredit Pavillion, che è una sala conferenze di riferimento mondiale fiore all’occhiello della più grande Banca Italiana, fatta tutta in legno nella zona nuova di Garibaldi Porta Nuova Milano. Stiamo lavorando anche all’estero ed il paese più grande dove operiamo è l’Algeria, dove si sta realizzando uno dei più grandi centri congresso del mondo: solo l’impianto audiovisivo costa trenta milioni di euro, ci sono ventidue sale e la sala maggiore ha addirittura seimila posti. Una

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TECNOLOGIA

grande struttura, che sarà collaudata nella primavera del 2016, dopo quattro anni di lavoro; contemporaneamente, nel mese di maggio 2015, abbiamo realizzato insieme ad un noto System Integrator di Milano, l’impianto dello stadio di Algeri, in soli venti giorni. Gran parte degli hotel di Algeri hanno le nostre attrezzature e la prossima sfida sarà rappresentata dalla grande moschea di Algeri, che ha una capienza di centoventimila persone ed avrà diecimila altoparlanti al suo interno: ne avremo per qualche anno, visto che in questi paesi non è possibile lavorare con la stessa celerità con cui si opera in Europa. Qual è il segreto per mantenere sempre una qualità alta per quel che riguarda il livello di produzione? Il nostro segreto è quello di fare “scouting” continuo: ogni anno, scegliamo i prodotti migliori del mercato; è una cosa che facciamo da sempre e che ci permette di essere al top del mercato oggi, in Italia. Qual è il prodotto d’eccellenza di Prase Engineering? Ne abbiamo tanti, in realtà, ma direi che il marchio più prestigioso è Shure. Per quanto concerne l’azienda, quali sono i prossimi obiettivi? Essere l’integrazione di tutte le tecnologie di comunicazione quindi audio, video e controllo su rete, perché oramai, con l’avvento dell’audio e del video su trasmissioni digitali, tutto è diventato molto più semplice ed integrabile; con un unico cavo ethernet possiamo mandare segnali in giro per tutto il globo ed è l’obiettivo dei costruttori di hardware e di chi fa i chip. Un momento da ricordare per la realtà che rappresenta.

Mi piace dire che il momento migliore sarà domani, questo concetto ci permette di spostare sempre più su l’asticella; un momento esaltante per noi sono state le Olimpiadi del 2006, nelle quali abbiamo fornito e collaudato gli impianti di gran parte dei palazzi, (il Pala Hockey, Il Palavela, il PalaOval e lo Stadio Olimpico) riuscendo a far sì che tutto funzionasse correttamente.

“Mi piace dire che il momento migliore sarà domani, questo concetto ci permette di spostare sempre più su l’asticella.”

Lavorando nel campo dell’audiovisivo sarà venuto a contatto con personaggi dello spettacolo o particolari eventi. L’episodio più emozionante è stato nel 2014, quando siamo stati in Piazza San Pietro nella giornata in cui Papa Francesco ha santificato Papa Wojtyla e Giovanni XXIII: io e i miei ingegneri eravamo a sette metri dal palco, perché per la prima volta il Papa e collaboratori hanno parlato attraverso dei radio microfoni in una giornata dove le interferenze radio erano al massimo livello, viste le interferenze dei sistemi antiterrorismo... Radio Vaticana, infatti, non aveva mai consentito prima ad un’azienda di provare dei radio microfoni in contesti del genere: il giorno dell’evento, comunque, è andato tutto per il verso migliore e tutto ha funzionato. Chiudiamo con un motto, una sua massima. Facciamo questo mestiere, io e mio fratello, preché il nostro motore è azionato da una passione incredibile che siamo riusciti a infondere anche a tutti i nostri collaboratori: chi lavora con noi sa che prima di tutto amiamo le attrezzature del mestiere che facciamo. Il successo è una conseguenza, la nostra base è la dedizione assoluta, una caratteristica che oggi si sta un po’ perdendo. (6’ 30’’)

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Corso Italia, Corso Italia, 92 92 Cortina d’Ampezzo Cortina d’Ampezzo (BL)(BL) ItalyItaly * * **** * * Telefono Telefono (7 linee ric. aut.) +39 +39 04360436 42214221 (7 linee ric. aut.) Fax Fax 860760 +39 +39 04360436 860760 * * **** * * Mail Mail info@hotelcortina.com info@hotelcortina.com hotelcortina@dolomiti.org hotelcortina@dolomiti.org WebWeb www.hotelcortina.com www.hotelcortina.com cortina.dolomiti.org/hotelcortina cortina.dolomiti.org/hotelcortina


TECNOLOGIA

I-Cable: la rivoluzione del colore I cavi per smartphone sono diventati accessori che è necessario avere sempre con sé. E renderli oggetti di lusso e design, resistenti e colorati, è stata la vera intuizione di Alessandro Nasta, fondatore di I-Cable.

Di REDAZIONE

Come nasce I-Cable? I-Cable nasce da una mia riflessione e da un’esigenza comune: una mattina mi sono chiesto chi non ha oggi un smartphone? Quanti cavi si rompono e vengono persi durante un anno? Perché non arricchire il mercato con un cavo di lunghezze diverse, fatto con materiali di qualità, che possa accontentare le esigenze dei consumatori? La Apple è un’icona in ambito tecnologico e culturale. Cosa sono per te le icone? L’icona per me è la trasfigurazione oggettiva di un fenomeno sociale di tendenza. Nell’accezione di iCable è il connubio tra una pratica esigenza reale ed un particolare oggetto di fashion design. Mi pare che la contaminazione e la decontestualizzazione siano alla base dell’estetica del tuo prodotto. Da dove trai ispirazione per le tue idee? Semplice... traggo ispirazione dai colori che dipingono la nostra esistenza.

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Hai nuovi prodotti a cui stai lavorando? Assolutamente sì. In cantiere ho nuove idee che nel prossimo 2016 diventeranno realtà. Pensi che l’Italia sia ancora maestra nel lusso e nell’eleganza? Certamente, noi siamo maestri del design e dell’eleganza. Vedi ad esempio la moda o le soluzioni per interni, per non parlare delle nostre architetture che ora più che mai stanno ritornando in auge nel panorama mondiale. Cosa significa essere imprenditori in tempo di crisi? Significa avere coraggio e credere talmente nelle proprie idee da portarle avanti fino a renderle una realtà concreta ed efficiente. Cosa ti senti di dire ad un ragazzo che decide di andare a lavorare all’estero? Rimani e lotta o scappa prima che puoi? Gli dico di rimanere nel nostro “bel Paese”, crearsi il proprio habitat lavorativo per poi un giorno farsi conoscere anche all’estero. (1’ 35’’) 132



TECNOLOGIA

ANIA, missione sicurezza stradale Dal 2004 la Fondazione si occupa dei temi legati ai pericoli al volante ed alla sensibilizzazione degli automibilisti. Il dottor Guidoni, Segretario Generale di ANIA, ci ha spiegato la mission di questa associazione nei confronti degli automobilisti d’Italia.

Di MATTEO MACUGLIA

Dottor Guidoni, lei è Segretario Generale della Fondazione ANIA per la Sicurezza Stradale e Responsabile del Servizio Auto di ANIA. Dalla sua esperienza, come giudica il livello di educazione stradale degli italiani? La mia è un’esperienza ormai decennale come Segretario Generale della Fondazione. In questo lasso di tempo mi sono avvicinato molto sia al mondo assicurativo che a quello delle tematiche sociali connesse alla sicurezza sociale. Ho preso conoscenza di una problematica che molti, vedendola dall’esterno, sottovalutano ma che consiste in realtà in un grande dramma di questo paese. Venendo a contatto con i familiari delle vittime così come dei numeri i quali portano con sé delle storie così forti, si viene coinvolti con una intensità davvero difficile da gestire a livello manageriale. Alcuni progetti che abbiamo realizzato, tra i quali tra l’altro quelli di maggior successo per la Fondazione, sono stati appunto frutto di questo coinvolgimento emotivo. Per quanto riguarda l’educazione stradale degli italiani purtroppo non siamo un paese modello, anzi. Siamo un Paese

in cui gli elementi deboli della strada come pedoni, ciclisti e motociclisti rappresentano circa il 50% dei morti complessivi, con pedoni e ciclisti investiti sulle strisce pedonali o sulle ciclabili, con dei numeri in continuo aumento in controtendenza con la diminuzione complessiva delle morti su strada. Tutti coloro che godono della protezione dell’abitacolo di un veicolo assumono dei comportamenti che noi definiamo incivili in quanto da un lato non tengono conto delle regole e dall’altro decidono di non considerare i rischi ai quali chi non gode di queste garanzie va incontro stando sulla strada. Tutto ciò costituisce un alert di una forte sottovalutazione delle regole del codice italiano così come dimostrano il frequente superamento dei limiti di velocità e la guida in condizioni psico-fisiche alterate.

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ANIA produce degli spot molto impressionanti ed efficaci sugli incidenti stradali. Come nascono le idee e fino a che punto pensa sia necessario spingersi nell’impatto dello spot? Gli spot nascono da un lavoro molto duro da parte della Fondazione che


INTERVISTA A UMBERTO GUIDONI

parte da un briefing con il quale si identificano le tematiche che intendiamo affrontare. Da questo punto in poi subentrano i creativi ed i professionisti della comunicazione con i quali andiamo a costruire il messaggio che intendiamo lanciare. Lo spot, che ricordiamo avere unicamente uno scopo di sensibilizzazione, viene quindi sottoposto ad una serie di aggiustamenti che riguardano in particolare il tono che vogliamo offrire alla cittadinanza. Questo può essere soft, con immagini e suoni che indirettamente ricordano i rischi legati ai cattivi comportamenti stradali, oppure hard, con dei riferimenti diretti. Noi siamo partiti dal primo, anche per via di una specifica conformazione culturale del nostro Paese, per poi approdare al secondo con delle immagini di forte impatto che portino i cittadini a sentirsi coinvolti da ciò che vedono. Il punto non è tanto scioccare ma piuttosto far sentire partecipi da un punto di vista emozionale gli spettatori, facendoli dunque riflettere sul peso delle proprie azioni al volante. Gli incidenti stradali oltre ad arrecare danni fisici a chi li subisce lasciano un’impronta nella psiche. Ci parli del progetto di supporto per elaborare il trauma degli incidenti stradali appena annunciato dalla vostra fondazione. Il progetto AniaCares è nato per via del confronto che abbiamo avuto con i familiari delle vittime, i quali ci hanno trasmesso un fortissimo senso di disagio e di abbandono che seguono questi eventi. Il malessere va via via assumendo i contorni di un fenomeno che viene definito come “vittimizzazione secondaria”. Si è vittime una prima volta per via delle lesioni fisiche subite ed una seconda volta se si è familiari delle vittime, sottoposti all’incidente come soggetti costretti a convivere con questi lutti. Solitamente queste

persone si sentono completamente abbandonate dalle istituzioni, dalle assicurazioni e da tutti coloro che dovrebbero far fronte comune per alleviare queste ferite. Abbiamo quindi cercato di intervenire con il tentativo di trovare un sistema di supporto psicologico alle vittime attraverso le assicurazioni che offrono quindi un aiuto ai grandi invalidi derivanti dagli incidenti così come ai parenti. A livello nazionale stiamo poi lavorando, in collaborazione con i grandi ospedali italiani, per mettere a disposizione degli psicologi del trauma

specializzati in incidenti stradali. Il progetto si divide dunque in due grandi parti: la prima è quella di formazione di tutti i soggetti che entrano in contatto con le vittime. Partendo come abbiamo detto dagli psicologi si arriva fino ai liquidatori assicurativi ed infine ai poliziotti, la vera prima linea nei confronti dei parenti che chiedono notizie dei propri cari. La seconda fase è quella dell’intervento vero e proprio con l’individuazione dei soggetti che dovranno sottoporsi a questi trattamenti che seguiranno delle linee guida elaborate dai principali

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TECNOLOGIA

esperti a livello mondiale nella psicologia del trauma come il dott. Solomon (consulente della Casa Bianca che seguì tutte le vittime dell’attentato dell’11 settembre) e l’Università La Sapienza di Roma con la dott.ssa Giannini ed il professor Ammaniti. L’ultimo step del nostro progetto sarà infine l’intervento vero e proprio che mirerà quindi ad assistere i soggetti a rielaborare un trauma seguito ad un incidente stradale. Lei pensa che il reato di omicidio stradale sarà un deterrente efficace all’uso di sostanze alcoliche e stupefacenti alla guida? È una buona legge quella che uscirà dal Parlamento italiano? Noi siamo stati tra i principali fautori dell’introduzione del reato di omicidio stradale in alcune fattispecie, in particolare quando si causa la morte o lesioni molto gravi dopo che ci si è messi alla guida in condizioni psicofisiche alterate, in particolare con un tasso alcolemico superiore a 1,5gr per litro di sangue (il massimo previsto dalle attuali norme del codice della strada) o la presenza nel corpo di sostanze stupefacenti. In tutti questi casi, così come per quanto riguarda il reato di pirateria stradale, riteniamo che l’inasprimento delle pene possa rappresentare un deterrente. Le sentenze in applicazione del diritto vigente portano spesso, anche nel caso di omicidi plurimi, gli imputati non solo ad evitare completamente la misura

detentiva, ma anche a vedersi restituire la patente dopo questi fatti. La natura del provvedimento all’esame del nostro Parlamento secondo noi è andato un po’ oltre. Vi sono infatti diverse fattispecie ulteriori oltre a quelle che abbiamo già elencato, con il rischio di andare ad irrogare una sanzione sproporzionata rispetto al comportamento posto in essere, che sarebbe dunque più difficile da applicare. La ratio della norma sostenuta dall’ANIA sta nel colpire tutte quelle situazioni nelle quali vi sia la consapevolezza del soggetto di poter provocare danni se sottoposto a determinate condizioni e che, nonostante tutto, decida ugualmente di mettersi al volante. Lei crede che i marchi automobilistici abbiano una responsabilità nel modo in cui presentano le loro auto veloci negli spot televisivi? Non credo. I marchi automobilistici seguono delle operazioni di marketing; se la velocità rappresenta un elemento di attrazione nei confronti dell’utenza non ne si può dare colpa a loro. Sta al compratore sapere che questa caratteristica non va sfruttata sulle strade ma sui circuiti appositamente creati. Molte distrazioni alla guida sono rappresentate oggi dagli smartphone. Per le telefonate il problema si è gestito con l’uso degli auricolari. Come si può combattere invece la tendenza a messaggiare al volante?

“La formazione potrebbe fare senz’altro di più. Le scuole potrebbero inserire l’educazione stradale nei programmi di educazione civica, questo cambiamento potrebbe essere favorito tra l’altro da un intervento diretto del legislatore con una legge ad hoc.” GENIUS PEOPLE MAGAZINE

Purtroppo non è vero che per quanto riguarda le telefonate il problema sia stato completamente risolto, così come non è dimostrato che l’uso dell’auricolare azzeri i fattori di distrazione. Ad ogni modo, per quanto riguarda i messaggini, questi sono ugualmente sanzionabili con sanzioni piuttosto pesanti che portano alla perdita di punti della patente. Il concetto che deve passare è che la guida è un’attività che richiede attenzione, qualsiasi elemento di distrazione rappresenta un fattore di rischio non trascurabile. Pensa che scuole e genitori facciano abbastanza per educare i futuri guidatori? La formazione potrebbe fare senz’altro di più. Le scuole potrebbero inserire l’educazione stradale nei programmi di educazione civica, questo cambiamento potrebbe essere favorito tra l’altro da un intervento diretto del legislatore con una legge ad hoc. Molte scuole hanno già implementato questo provvedimento su base volontaria in quanto ritengono che possa essere utile all’educazione dei cittadini di domani. Per esperienza personale sappiamo che la formazione che riguarda le fasce più giovani della popolazione porta ad osservare una frequenza di incidenti minore. Le famiglie dal loro canto potrebbero fare di più. È innanzitutto importantissimo dare il buon esempio, con i genitori che devono mostrare ai loro figli di essere i primi a rispettare il codice della strada. La prima causa di morte nella fascia d’età tra gli 0 ed i 14 anni è l’incidente stradale; dal momento che non sono i bambini a guidare è evidente che sono stati trasportati male dal guidatore. Si potrebbe poi fare più informazione a livello familiare, prendendo il coraggio di affrontare argomenti difficili ma dalla grande importanza per i soggetti che la ricevono. (7’ 35’’)

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TECNOLOGIA

C-Boat: Il lusso di un’imbarcazione sartoriale Mauro Corvisieri, nato e cresciuto sul mare, a Palermo, ha unito la sua passione per le barche al proprio istinto imprenditoriale e a un intraprendenza fuori dal comune. Il risultato è un’azienda che produce barche personalizzate, «sartoriali», totalmente made in Italy che stanno diventando un simbolo di lusso in tutto il mondo.

Di FRANCESCO CHERT

Tu sei palermitano, quindi nato sul mare. Nato sul mare, vissuto sul mare, portato già da piccolo sul mare dai miei. Quindi una passione per le imbarcazioni che è nel dna? Una passione che è nel dna e che è cresciuta con la vita e con l’esperienza. Qualcosa che ti entra dentro e che comunque capisci che è la tua strada da vari segnali. Quando hai capito che questa passione poteva diventare un lavoro? Ho avuto sempre delle barche. A 18 anni mio padre mi comprò una barca di 3 metri e 75, con un motore da 6 cavalli e io la trainavo con una Fiat Uno e mi sembrava un transatlantico quando la tiravo giù dal carrello e la mettevo nelle varie marine e andavo a fare un giro con le fidanzatine dell’epoca. Poi papà comprò una barca da 5 metri e mezzo, poi da 7 metri. Comunque da sempre abbiamo avuto questa passione per il mare.

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E come è diventata una professione? La mia storia un po’ particolare, perché io mi occupavo di operazioni finanziarie per banche estere. C’era un posto dove fare un determinato business, io confezionavo quel business e lo vedevo a vari imprenditori. Poi ho capito che c’era una fascia vacante di business che era quella del charter delle imbarcazioni da diporto. Era circa il 1998. Praticamente questo charter era gestito soltanto da piccoli proprietari di imbarcazione di 20, 24, 25, 30 metri che, non utilizzando al barca in determinati periodi dell’anno la mettevano a disposizione e facevano la locazione. Questo però non aveva una rete, come poteva essere una società di autonoleggio, cioè, se si sfasciava una barca non c’era la barca che la sostituiva, non c’erano servizi annessi a quel sistema di noleggio, dall’affitto della moto d’acqua all’aeroplano all’elicottero, cioè un sistema integrato. Io in quegli anni lo creai. Con qualche risparmio e qualche soldo che ricevetti da mio padre comprai una barca che era un Tecnomarine

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INTERVISTA A MAURO CORVISIERI

Jaguar 60, una barca di 30 metri e la rimisi a posto in cantiere a Olbia e l’ho noleggiata subito per un mese ad un cliente romano che oggi è un amico a distanza di dieci anni. Circa un giorno prima lui aveva richiesto espressamente un cuoco, un comandante e hostess. Un giorno prima che iniziasse questo charter che era il primo, il cuoco non si fece più trovare e io non mi persi d’animo e mi imbarcai come cuoco su quella barca senza che nessuno sapesse chi ero. E ho vissuto un mese esaminando in maniera profonda quelle che erano le problematiche non da dietro un scrivania ma dal campo. Lì capii tantissime cose. Poi cos’è successo? Gli anni successivi incominciai a prendere altre barche, facevo un sistema integrato, incominciai ad acquistare ore di volo di elicotteri e aeroplani, fino a quando poi nel 2010 siamo riusciti ad avere circa 13 barche, 2 elicotteri, 3 aeroplani, una grossa flotta, che poi abbiamo dismesso perché con la crisi è diventata una guerra dei poveri perché si giocava al ribasso. Tornando indietro negli anni nel 2003 avevo l’esigenza di avere una determinata barca che non esisteva sul mercato, larga, lenta, costruita in acciaio, che tenesse bene il mare, che consumasse poco, che avesse costi di esercizio bassi. Non c’era. In mente mia ce l’avevo ben chiara perché io catturavo le esperienze e gli spazi di ogni singola imbarcazione che vivevo e chiamai il mio amico ingegnere, Mauro Mortola, e gli chiesti: «Se ti disegno una barca con certe caratteristiche, la possiamo progettare? Anche perché sono entrato in contatto con dei cantieri turchi che pioterebbero realizzarcelo a un prezzo basso». Lui era un progettista di navi. Disse: «Se non è una delle tue solite follie si può fare». Disegnammo questa barca, la progettammo, costruimmo un modello in scala. Eravamo in giro per cantieri. In Turchia, dove siamo andati all’epoca, non c’erano esperti di acciaio. Alla fine abbiamo trovato un terzista che ci poteva fare i lavori in Italia. Nel frattempo avevo conoscitivo delle persone alle quali era piaciuta moltissimo la barca

e ne ho vendute due in pochi mesi. Questo ha portato comunque poi ad affinare tutte le esigenze e ad approfondire il concetto che era la nostra barca, la filosofia C Boat, cioè una barca d’acciaio, costruita tecnicamente e impiantisticamente come un rimorchiatore, quindi una barca importante, molto robusta, ma che avesse, dal punto di vista estetico tutte le caratteristiche di un vero e proprio yacht di lusso. E da lì la voglia di fare le barche 100% custom. Una sartorialità delle imbarcazioni. Tu sei riuscito in qualche modo a riunire in questa tua attività, tutte le tue passioni

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TECNOLOGIA

e inclinazioni: il mare, l’imprenditorialità, l’intraprendenza. Ma che rapporto hai avuto invece con il lusso, che è un concetto che sta alla base delle tue imbarcazioni? Il lusso è molto cambiato negli anni. Prima si comprava un bene perché aveva un brand noto e lo si catalogava come lusso. Oggi il lusso è più inteso come qualità. Qualcosa di personale, che non ha nessuno. Questo è considerato lusso. Esistono anche le automobili personalizzate. Il lusso sta nell’avere una cosa mia fatta soltanto per me. E noi vogliamo che chi vede per mare la nostra imbarcazione la riconosca. Chi è il vostro cliente? Globalizzazione e crisi hanno spostato i baricentri e il rapporto tra centri e periferie. Avete adeguato la vostra offerta a questo nuovo equilibrio? Noi avevamo 25 milioni di commesse che sono sparite con l’avvento di Monti. E questo è stato disastroso. Ho capito da poco quanto una semplice imbarcazione genera una mole di lavoro, sia diretta che indiretta, straordinaria. Avevamo circa 60 persone che lavoravano per noi. In tutto questo, abbiamo mandato persone negli alberghi a dormire, a mangiare, ditte di pulizie, fornitori, un indotto straordinario. E trovarsi da 25 milioni a zero in poche settimane è stato veramente brutto. Ci siamo dovuti convertite immediatamente al mercato estero cercando una serie di clienti che dovevano però ancora percepire l’azienda C Boat. In Italia avevamo investito in pubblicità, all’estero no. Avevamo fatto dei piccoli passaggi. Ci siamo rimboccati le maniche. Abbiamo parlato con tutti i nostri fornitori e partner che ci hanno appoggiato in questo periodo, dove non esisteva più un mercato di riferimento. L’Italia dall’estero veniva percepita quasi come un paese sull’orlo del fallimento, sull’orlo della rivoluzione. E i nostri clienti non si sono impoveriti da un giorno all’altro, i nostri clienti si sono impauriti. Oggi, c’è una persecuzione del diportista. Mentre, considerando che il moltiplicatore che la nautica ha per i posti di lavoro è di 1 a 8, quando qualcuno compra una barca, bisognerebbe ringraziarlo perché ha dato lavoro ad aziende che pagano tasse, ha

generato consumi e ha messo in movimenti l’economia. Eravamo i migliori al mondo e stiamo ammazzando questo nostro settore. La crisi ha rappresentato un’occasione di miglioramento, per l’esempio la conquista dei mercati esteri? Io sono ottimista di natura. Anche le situazioni negative sono sono opportunità. La crisi ha rappresentato di sicuro un’opportunità. Certo, mi sarebbe piaciuto avere le mie commesse da 25 milioni ma forse ora facciamo le barche con ancora più attenzione. Forse il mercato ha tagliato via tutte quelle aziende che erano nate dalla bolla che era la nautica. C’è stata un po’ di selezione naturale. Il made in Italy sta vivendo di rendita o è il suo valore è ancora meritato? Stiamo vivendo di rendita ma il made in Italy è ancora un brand. E comunque bisogna rafforzarlo. Noi abbiamo aggiunto al nostro marchio una bandiera italiana. Dobbiamo smetterla di essere nemici. Siamo troppo impieganti a farci la guerra. Io parlo sempre di colleghi, non di competitor. Se il mio competitor vende una barca, io sono contento, perché comunque abbiamo venduto il made in Italy. Dovremmo fare più cooperazione. Gli americani sono molto uniti, in questo, hanno un patriottismo invidiabile. C’è un atteggiamento del fisco e dello Stato, ma forse anche una mentalità secondo cui chi è ricco di sicuro ha combinato qualcosa. Hai perfettamente ragione. Quando da giovane stavo a Palermo e si vedeva passare una macchina io pensavo che la persona avesse lavorato molto mentre la mentalità spingeva a ritenere che ci fosse qualcosa di losco sotto. I mafiosi e i delinquenti ci sono. Ma esistono anche le persone che lavorano e che lavorano duramente. Bisognerebbe aiutarsi a lavorare, non mettersi i bastoni tra le ruote. Bisogna avere un atteggiamento positivo. (7’ 25’’)

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FOOD TRAVELS

Il cibo viaggia, viaggiare per il cibo

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FOOD TRAVELS

Dal seme alla tavoletta Cioccolato di alta qualità in Costa Rica Testo e foto di ALICE NOEL FABI

Difficilmente riesco a immaginare una maniera migliore di terminare un pasto. Tra gli alimenti in assoluto più consumati nel mondo Occidentale e ubiquo sulle tavole di tutto il mondo, il cioccolato ha caratteristiche uniche. La consistenza ad esempio: a temperatura ambiente dura e asciutta, cremosa e liquida invece non appena tocca la lingua, salendo a temperatura corporea. Può essere modellato praticamente in ogni forma possibile e la superficie tirata a lucido come un vetro. E pochi sono i cibi a vantare una tale esperienza sensoriale, capace di creare un desiderio di assunzione - a quanto pare soprattutto nelle donne - paragonabile a una tossicodipendenza. Alcuni ritengono sia dovuto alla presenza di teobromina, caffeina e di alcuni cannabinoidi, ma questi sono presenti in quantità talmente piccole da non poter influire in alcun modo. Si tratta proprio di un piacere dei sensi. Storicamente, l’albero tropicale del cacao - che cresce all’incirca dal 10° parallelo Nord al 10° Sud - si è probabilmente evoluto nelle vallate equatoriali del Sud America. Gli Olmechi - civiltà precolombiana dominante il Centro America tra il 1400 ed il 400 a.C. - ancor prima degli Aztechi e dei Maya sono forse i primi ad assaggiarlo come bevanda amara arricchita di spezie. I conquistadores spagnoli ci aggiungono lo zucchero, tolgono gran parte delle spezie e lo portano in Europa nel sedicesimo secolo. Rimane una bevanda di lusso praticamente fino

alla fine dell’800 quando una serie di innovazioni (molte Svizzere, e per questo spesso pensiamo che il migliore arrivi da qui) portano al cioccolato che conosciamo oggi, prodotto industrialmente ad un prezzo abbordabile per tutti. Passando alla produzione su larga scala la geografia del cacao si sposta dal Sud del mondo al Nord, concentrandosi in pochi grandi gruppi industriali: negli Stati Uniti Archer Daniels Midlands e Cargill, in Svizzera Barry Callebaut e Nestlé. Da soli questi colossi acquistano l’85% delle fave di cacao prodotte al mondo. La gran parte arrivano dai Paesi dell’Africa occidentale, come Costa d’Avorio, Ghana e Nigeria (circa il 45% della produzione mondiale) con il rimanente prodotto in paesi come Indonesia, Brasile ed Ecuador. I produttori di fave sono all’incirca 15 milioni con appezzamenti di

terreno mediamente compresi fra 3 e 10 ettari ma il 90% sono in realtà piccolissimi, con meno di 3 ettari di terreno spesso coltivati a cacao in abbinamento con altre coltivazioni. Chi trasforma le fave di cacao in prodotto finito per i colossi di cui sopra sono i Paesi Bassi (515,000 tonnellate) la Germania (455,000) e gli Stati Uniti (400,000). A livello di consumi, l’Europa è principe con una media annua di 1,794,700 tonnellate, seguita dal Nord e Sud America con 1,254,000 tonnellate mentre Asia e Oceania consumano 568,100 tonnellate annue e l’Africa 127,600 tonnellate (dati 2011-12). Tradotto in linguaggio più semplice significa che un tedesco si “pappa” una media di 4kg di cioccolato l’anno, un Americano 2,49kg, un Olandese 2,29kg, mentre in Italia siamo sul chilo e quattrocento grammi. Negli ultimi anni c’è stata una lenta

“Tra gli alimenti in assoluto più consumati nel mondo Occidentale e ubiquo sulle tavole di tutto il mondo, il cioccolato ha caratteristiche uniche. La consistenza ad esempio: a temperatura ambiente dura e asciutta, cremosa e liquida invece non appena tocca la lingua, salendo a temperatura corporea. Può essere modellato praticamente in ogni forma possibile e la superficie tirata a lucido come un vetro.” GENIUS PEOPLE MAGAZINE

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CIOCCOLATO: DAL SEME ALLA TAVOLETTA

diminuzione della quota di fave macinate in Europa e Nord America. Il declino è bilanciato da un progressivo aumento della trasformazione direttamente nelle regioni di produzione, favorendo un prodotto finale di alta qualità. Ciò avviene in Costa d’Avorio e Ghana ad esempio e, come ho scoperto di persona, anche in Costa Rica. È qui che ho conosciuto Marco Corsetti, un italiano controcorrente, intelligente e appassionato che si è buttato anima e cuore nel concetto produttivo “from bean to bar”, che significa fare tutto da soli: coltivare la pianta di cacao, estrarne i semi, fermentarli, seccarli, tostarli e macinarli per poi passare al concaggio (indispensabile processo scoperto da Lindt che esalta il gusto e l’aroma del prodotto), al temperaggio fino ad

arrivare alla barretta. Un processo complicato ed è forse per questo motivo che fino a tempi recenti è stato soprattutto appannaggio del mondo industriale. Marco è proprietario di due finca (in spagnolo: appezzamenti agricoli) di cioccolato. La più piccola, Finca Chocoatl La Victoria, si trova a Santo Domingo sulle pendici caraibiche del Vulcano Tenorio, 20 km a Sud-Ovest di Upala. La più grande, Finca Chocoatl El Progreso, è a El Progreso sulle pendici caraibiche del Volcan Rincon de la Vieja, 30 km a Nord di Upala. Le genetiche utilizzate sono tutte Trinitario, selezionate per l’alta qualità e le caratteristiche simili alla varietà Criollo. Mi racconta Marco che “Il Costa Rica era un discreto produttore di cacao fino alla fine degli anni ‘60 - ‘70. Poi

le grandi aziende dell’agro-business hanno invaso il paese con i loro terribili veleni e convinto i produttori a usare diserbanti, insetticidi e concimi. Una spinta avvenuta anche a livello accademico, nelle università, finanziando studi e programmi per cambiare le metodologie produttive a loro favore. Questa massiccia introduzione di prodotti chimici ha fiaccato il sistema immunitario delle piante che nel giro di pochi anni sono state decimate dalla Moniliasis, un fungo letale: alla fine degli anni ‘70 sono andate perse l’85% delle piante di cacao nel paese.” “Le genetiche che si piantano oggi in Costa Rica, hanno un’alta resistenza alla Moniliasis, e anno dopo anno la produzione ha ripreso piede, aiutata anche dalla crescente domanda

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FOOD TRAVELS

di cacao “etico” e di qualità, destinato soprattutto a mercati europei come Germania, Svizzera e Belgio” dove sempre più artigiani del cioccolato sono a caccia del miglior prodotto possibile, in forma di fava e non di prodotto trasformato. Anche in questo Marco va controcorrente, puntando a produrre in loco per la vendita al mercato costaricense, perché a suo vedere il consumatore locale ha il potere d’acquisto e sa apprezzare prodotti di alta qualità, specialmente se nazionali. Mi fa l’esempio del caffè, tra i migliori del mondo ma fino ad oggi interamente prodotto per l’esportazione lasciando al paese solo gli scarti o le briciole. Finalmente ha trovato un mercato seppur limitato, aiutato anche dal flusso considerevole legato al turismo. Non credo esista filiera produttiva più etica di quella impostata da Marco. Condivide i profitti con costaricensi del luogo, suoi partners oltre che collaboratori in questa impresa, e non usa alcun tipo di prodotto chimico se non in caso di emergenza (leggasi: rischio distruzione del raccolto). Le erbacce lungo le interminabili file di piante di cacao - in una foresta pluviale crescono ad una velocità inimmaginabile per noi Europei - vengono tagliate a mano con il macete settimanalmente, tanto per fare un esempio. La raccolta è tutta eseguita manualmente e i successivi step dalla fermentazione in poi avvengono nella maniera più tradizionale possibile. Il risultato è un cioccolato di qualità altissima, che di straforo mi sto gustando ancora adesso essendo riuscita a “contrabbandare” alcune barrette nel mio bagaglio. Tra i più buoni che ho mai assaggiato. Marco mi rivedrà, prima o poi. (5’ 45’’)

“Negli ultimi anni c’è stata una lenta diminuzione della quota di fave macinate in Europa e Nord America. Il declino è bilanciato da un progressivo aumento della trasformazione direttamente nelle regioni di produzione, favorendo un prodotto finale di alta qualità. Ciò avviene in Costa d’Avorio e Ghana ad esempio e, come ho scoperto di persona, anche in Costa Rica.” GENIUS PEOPLE MAGAZINE

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GALLERIA CONTINI

L’Universo Fantastico di Carla Tolomeo Ovvero come viaggiare con la fantasia comodamente seduti su un'opera d'arte Di RICCARDA GRASSELLI CONTINI e MARTINA VOCCI

In questa pagina: “Pigs”, 2015, 10 sculture più una prova d’artista, struttura in resina elaborata dall’artista con velluto, disegno esclusivo Tolomeo, passamanerie e velluti di seta, 20 (h) x 42 cm. Nella pagina accanto: “Loving”, 2015, velluto esclusivo devorèe ricamato in oro gentilmente concesso da Marta Marzotto all’autore, velluti in seta cangianti, passamaneria, 134 (h) x 63 x 45 cm, seduta 50 (h)x 49 x 45 cm.

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CARLA TOLOMEO

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GALLERIA CONTINI

Stai seduto composto, non ti dondolare, Mani dietro la sedia - chi da bambino non ha sentito queste parole? Apostrofi che coinvolgono un oggetto di uso quotidiano: la sedia. Pallino di molti architetti e designer, da Mies van der Rohe a Le Courbusier passando per la celebre sedia Thonet che con il suo storico modello 214 di produzione industriale è entrata nelle case di tutto il mondo. Dall'immaginario legato al mondo della sedia parte la ricerca di Carla Tolomeo, l'artista che dalla fine degli anni Novanta si è guadagnata l'epiteto di signora delle sedie e che attualmente espone le sue opere alla Galleria Contini a Venezia, dopo i mesi estivi negli

spazi di Cortina. Con irresistibile carica ironica e fantastica la mostra si intitola Ti piacerebbe sedere su un'opera d'arte sottolineando come il gioco raffinato e insieme concreto di Carla Tolomeo attraverso una metafisica della fantasia reinventi un oggetto di uso quotidiano per renderlo il soggetto della sua arte attraverso la mediazione e la riflessione dell'artista anche attraverso gli insegnamenti del suo amico e maestro Giorgio De Chirico. Preziosi rasi, velluti froissé, tessuti indiani, lampassi e paillettes danno vita alle esotiche forme delle sediescultura di Carla Tolomeo che, pur utilizzando come referenza irrinunciabile l'oggetto sedia nella sua struttura tradizionale, ne stravolge le fattezze per regalare allo spettatore un'insieme di emozioni e colori che ne reinventano e celano l'elemento quotidiano e consueto fino a rendere le sedie trofei fantastici in grado di stimolare il movimento e la fantasia. Gli stessi elementi decorativi non rimangono puramente ornamentali ma si fondono con la sostanza materiale delle sculture fino a diventare parte integrante dell'opera che è un invito al viaggio e alla suggestione di mondi lontani e incantati. Carla Tolomeo nasce a Pinerolo e inizia a dipingere a Roma dove si trasferisce con la sua famiglia; alterna studi regolari e pittura, incoraggiata da Maestri quali Guttuso,

“Turtle’s Throne”, 2014, struttura in legno design Tolomeo, schienale-scultura in velluto di seta Armani e disegno esclusivo Tolomeo, decorato con collages, paillettes, perle di vetro e passamaneria, 160 (h) x 110 x 80 cm, seduta 48 (h) x 80 x 80.

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CARLA TOLOMEO

Gentilini, Attardi, Pirandello e De Chirico, che avevano notato il suo talento, ancora bambina, e a cui la Tolomeo deve gran parte della sua formazione e della sua crescita artistica. Ha iniziato ad essere conosciuta ed apprezzata in Europa con l’invito alla mostra internazionale D’après, a Lugano nel 1971. Da allora ha esposto le sue opere tra Vienna, Ginevra, Zurigo, New York, Londra, Parigi e in Italia, come a Milano, a Palazzo Reale, o a Mantova alla Casa del Mantegna. Fa parte del gruppo dei “Casanoviani”, studiosi dell’opera e della vita di Giacomo Casanova, cui l’artista dedica una serie di disegni e acqueforti. Dal 1997 diventa la Signora delle Sedie. Le Sedie-scultura sono immediatamente recensite dalle più importanti riviste d’arte e arredo del mondo e oggetto di attenzione, citazione e collezionismo. Attualmente Carla Tolomeo vive e lavora a Milano. (2’ 45’’)

“Lisboa Antigua”, 2015, struttura circolare disegno Tolomeo, velluto in seta e decorazioni dell’autore in lampasso e passamanerie antiche, 147 (h) x 97 x 78 cm, seduta 50 (h) x 75 x 67 cm.

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Roma Pio Monti Arte Contemporanea - Piazza Mattei Senigallia Sirio Group - Via Corvi

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Treviso Al Duca D’Aosta - Via XX settembre, 12 Trieste Cantina del Vescovo - Via Torino Caffè degli Specchi - Piazza Unità d’Italia Griffe Concept Store - Via San Nicolò La Carega Osteria Contemporanea - Via Cadorna Mondadori Bookstore - Via di Cavana Portopiccolo - Sistiana Zinelli & Perizzi - Via San Sebastiano

Gorizia Società Agricola Castelvecchio - Via Castelnuovo Londra Mauro Guerresco - 310 king’s Road, London SW3 5UH, Regno Unito

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Mestre Al Duca D’Aosta - Piazza Ferretto, 54 Milano Body Balance Center - Via Contardo Ferrini

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FABIO DE VISINTINI Figura eclettica in un’epoca di transizione, dove si parla di innovazione ma, troppo spesso, le cose cambiano solo nelle apparenze. Consulente e docente di Comunicazione, Marketing e Innovazione, in precedenza manager in ambito pubblico e privato, giornalista, fotografo e pittore, oggi si dedica, da imprenditore, a un suo progetto d’innovazione che recupera la cultura degli inizi, quella di farmacista prima e aromatiere poi: creme di cioccolato eccellente emulsionate in acqua, senza conservanti, olio di palma e tutti gli altri orridi ingredienti del junk food. DANIELA KRALER Daniela Kraler, giovane manager veronese, è riuscita, fin dal 1984, a dare vita, assieme a suo marito Franz, a una delle realtà multibrand tra le più importanti a livello internazionale, la Franz Kraler Luxury Multibrand Store. Le sedi sono le meravigliose località di Dobbiaco, con oltre 50 vetrine e 2000 mq suddivisi in 3 piani per ospitare più di 200 marchi del panorama fashion internazionale, e Cortina d’Ampezzo, aperta nel 2004 e completamente rinnovata nel 2014 in un negozio concettuale che rinuncia ai criteri formali e culturali della tradizione e si proietta nel futuro allestendo nell’area esterna una piazza multimediale con sistema di comunicazioni satellitare autogestito. Da Franz Kraler lo shopping diventa una vera e propria esperienza con aree esterne riscaldate, caminetto, bar, stufe e nursery per i bambini, cui nel 2015 è stato dedicato Franz Kraler Junior. MASSIMILIANO DANDRI Nemmeno trent’anni e la responsabilità di curare il reparto commerciale di Genius People Magazine: Massimiliano Dandri è la “faccia” del giornale, colui che si prende in carico i rapporti con le aziende ed ha la visione per poter gestire gli spazi pubblicitari di Genius. Laureato in Scienze dell’Amministrazione all’Università degli Studi di Trieste, Massimiliano ha occupato in passato il ruolo di agente per una nota realtà italiana ed ha sposato il progetto Genius dopo averne apprezzato la qualità e le potenzialità. Grande appassionato di golf, nel (poco, a dir la verità) tempo libero si diletta tra i manti erbosi: non sfidatelo, però; potrebbe rivelarsi un avversario molto arduo! MASSIMILIANO BERGAMO Come affrontare la vita con un sorriso: è quello di Massimiliano Bergamo, CEO di Genius People Magazine. Insieme all’inseparabile e fraterno amico Francesco, Massimiliano è colui che sta dietro le quinte della nostra rivista, tratteggiandone le strategie e coinvolgendo innumerevoli partners. Veneziano con importanti connessioni a livello immobiliare, ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo di Genius a Venezia, una cornice di livello e prestigio nella quale il magazine ha trovato casa. Atteggiamento sereno e guascone, il suo spirito influenza positivamente tutta la redazione, riuscendo sempre a trovare il modo di strappare un sorriso a chi gli sta davanti.

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