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Numero 02
Anno 2015
Speciale cultura: Trieste, il Caffè degli Specchi rivive con Piazza Unità
“La Decade Prodigieuse" By Claude Chabrol In France In 1971
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I 100 anni di Orson Welles 4
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Editoria e politica a confronto
La guerra dei mondi FOCUS: Giornalismo, politica, esteri, cinema, cultura
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EDITORIALE
Lo scacchiere del potere Di FRANCESCO LA BELLA
In questo secondo numero di Genius People Magazine, stimolati e ispirati dall’anniversario della nascita del grande Orson Welles, ci siamo tuffati nel mondo del potere, di cui il regista è stato un superbo cantore. Il rapporto tra politica e mondo dell’informazione, che oggi attraversa una fase di evoluzione e di ridefinizione dei ruoli a causa della perdita di centralità della politica nelle scelte nazionali e internazionali e dell’impatto dei nuovi media in ogni aspetto della vita contemporanea, sarà il focus di questo numero. Abbiamo incontrato leader politici nazionali, giornalisti delle principali testate, rappresentanti delle istituzioni e abbiamo cercato di delineare un quadro che fosse non solo chiaro ma anche rappresentativo di questa fase storica di cambiamento; per l’Unione Europea, che scricchiola sotto i colpi della crisi economica, dei populismi e delle pulsioni indipendentiste che spingono dal suo interno; sicuramente per l’Italia, entrata in una nuova fase della sua storia repubblicana con la salita a Palazzo Chigi di Matteo Renzi che rappresenta la volontà del Paese di una rottura netta con un passato in cui l’azione politica era bloccata da consociativismo e barricate ideologiche ma che deve ancora dimostrare di essere degno dell’entusiasmo ha accompagnato la sua luna di miele con gli italiani; ma anche per la comunità internazionale, impegnata in minacce nuove che sfuggono agli strumenti di decodifica finora conosciuti e alle armi di difesa convenzionali, come quelle rappresentate dallo Stato Islamico e dalla radicalizzazione di molti ragazzi nati e cresciuti nelle capitali europee. La volontà di coprire il più vasto spettro di opinioni possibile non è accompagnato ovviamente alla pretesa di completezza del quadro che ci auguriamo possa comunque restituire un’idea fedele del momento storico del quale siamo testimoni.
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EDITORIALI
L’evoluzione di politica e giornalismo DI VITTORIO SGARBI
Il passaggio storico del crollo del sistema dei partiti dei primi anni ’90, che aveva ridefinito la geografia dei poteri e dei contropoteri rispetto alla cosiddetta Prima Repubblica, sembra esse entrato in una nuova fase. Il concetto stesso di potere, inteso sia nella sua dimensione politica che giornalistica, ma anche giudiziaria, era stato ripensato alla luce di una progressiva eliminazione di quella intermediazione che storicamente era stata rappresentata dai partiti e nella direzione di un sempre più diretto coinvolgimento del cittadino nelle decisioni riguardanti la gestione della cosa pubblica, come testimoniato dalla stagione referendaria che ha segnato l’inizio della fase di transizione che sarebbe durata vent’anni. Per la classe politica di allora il colpo arrivò dalla vittoria di Forza Italia contro la gioiosa macchina da guerra del Pds, mentre il mondo dell’informazione trovò la sua occasione di rinnovamento di fronte alla velocità dello scorrere della storia nel giustizialismo sensazionalistico derivato dall’onda emotiva dell’inchiesta di Tangentopoli. L’evoluzione odierna, incarnata dal renzismo e dall’almeno in parte nuovo atteggiamento di giornali e sindacati, poggia sulle spalle di questi vent’anni. Il fatto che oggi non solo la sinistra accetti ma si faccia promotrice di certe misure che per anni sono state proposte dai governi Berlusconi incontrando il niet dell’opposizione parlamentare e delle parti sociali, penso all’articolo 18 o alla responsabilità dei magistrati, dimostra come si stia andando a raccogliere quella laicizzazione del pensiero politico che rappresenta uno dei lasciti positivi della seconda fase della Repubblica. Conosciamo perfettamente le attenzioni che le opposizioni e i giudici hanno dedicato al leader di Forza Italia, conosciamo quella riserva morale nei confronti di Berlusconi derivante da un retaggio di egemonia culturale che ha continuato a pulsare in seno alla sinistra, al giornalismo manettaro e a certa magistratura politicizzata e che ora, con l’avvento del renzismo, ha perso la sponda che la manteneva in vita. Meglio tardi che mai. Ma anche a livello internazionale il potere, in quest’epoca postideologica, è stato costretto a un ripensamento di sé stesso. Si pensi al nuovo isolazionismo americano, o al suo sempre più timido interventismo, e alla schizofrenia delle sue alleanze in Medio Oriente; all’impennata della
radicalizzazione islamica che sta infestando tutta l’area musulmana e che trova terreno fertile nelle metropoli europee; alla distruzione di antichissimi monumenti da parte del totalitarismo islamista incarnato dai volgari banditi dello Stato Islamico, distruzione che è a tutti gli effetti un crimine contro l’umanità e che andrebbe punito con inaudita violenza; ai fenomeni migratori che rivelano tutta l’inconsistenza politica dell’Unione Europea e che rappresentano non soltanto un problema umanitario ma un rischio di infiltrazione terroristica sul nostro territorio; al nuovo rapporto degli Stati Uniti con Israele e al ritorno del virus dell’antisemitismo, mascherato da antisionismo, che sta infestando America ed Europa; al ritorno della Russia al centro dello scacchiere internazionale. Questioni che dovranno essere capite attraverso nuovi criteri e affrontate uscendo da schemi politici che andavano bene il secolo scorso e che oggi, di fronte al nuovo assetto geopolitico e ai nuovi fenomeni in corso, dall’Iraq alla Libia, stanno dimostrando tutta la loro inadeguatezza.
Il potere politico tra vecchie dinamiche e nuove minacce Di GIULIANO URBANI
Assistiamo, in questi anni, alla progressiva perdita di potere da parete di quei soggetti che storicamente ne rappresentavano, a loro modo e sulla base del rispetto di un equilibrio istituzionale e fattuale, le varie declinazioni: la politica, intesa come vita associata, come polis, deteriorata nella sua legittimazione e nella capacità di farsi carico del ruolo di rappresentanza che storicamente le appartiene nell’ambito delle democrazie liberali, e il giornalismo, costretto, nell’indistinto e confuso brusio che si crea con i nuovi media, ad alzare i toni nella direzione di un sensazionalismo e di un giustizialismo che poco hanno a che vedere con la deontologia classica del mestiere che si è venuta a delineare nei decenni dello scorso secolo. La stessa figura di Renzi rappresenta plasticamente l’effetto di queste dinamiche: da un lato l’uomo solo al comando, la cui azione è improntata alla velocità e alla lotta contro la farraginosa lentezza del procedimento decisionale collegiale della vecchia politica e dall’altro una comunicazione diretta e schietta, condizionata, nella forma e nei contenuti, dall’utilizzo compulsivo dei social media, simbolo anagrafico e culturale a garanzia della distanza dalle grisaglie rottamate. I numeri, sia a livello elettorale, sia
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EDITORIALI
a livello di smottamenti verso il Partito Democratico, confermano questa evoluzione e questa modificazione genetica della politica, a partire dal blocco della sinistra, da sempre conservativa sui temi classici della propria battaglia sociale e oggi riletti alla luce di una valutazione postideologica e laica. Ma la crisi della politica non interessa solo il nostro Paese. E assume i tratti apocalittici di una crisi valoriale profonda, nei vuoti della quale si insinua il virus di un fondamentalismo che, nella sua aberrante violenza, attrae giovani anche europei con la promessa di quelle certezze che la nostra società ha smesso di dare e che trova nell’islam la perfetta espressione dei propri progetti. La politica probabilmente tornerà, alla fine del vuoto che stiamo attraversando e nel quale ci troviamo soli e privi di punti di riferimento. Il problema è che sarà la politica del demiurgo. L’utilizzo dei media come strumento di propaganda, già chiarissimo negli anni ’30, da parte della politica come da parte dello Stato Islamico, indica in maniera lampante questa direzione e prepara il terreno, nella mancanza di elaborazione e nella tendenza alla semplificazione, se non alla banalizzazione che ne deriva, all’ascesa dell’uomo della Provvidenza.
Un mondo inquieto Di FABIO DE VISINTINI
Certamente, però cerchiamo di essere oggettivi e pensiamo che lo era sempre, ma semplicemente non ne eravamo al corrente! L’ambito entro il quale conoscere e muoversi era limitato, un tempo, mentre oggi non ci sono quasi più segreti e ogni angolo di mondo viene raggiunto per finire in prima pagina, a cominciare dalle sue tragedie. Una catastrofe naturale in Tagikistan, un eccidio in Burkina Faso, sono tutte calamità che ci entrano in casa senza bussare, senza sapere nemmeno dove collocarle sulla carta geografica, ignari della storia e delle genti, di come stanno e in che cosa credono. Il globo si gira in un secondo nella rete ma la nostra mappa mentale, ahinoi, è ferma a quel che ci hanno insegnato, alla cultura che ci è stata impartita. Non c’è il tempo (e la voglia) per approfondire usi e costumi, quindi giudichiamo il mondo con il monocolo della cultura occidentale, filoamericana, pseudo cattolica, consumista, un po’ decadente e quante altre cose vogliamo mettere nella nostra gerla, dal calcio agli spaghetti. Mentalmente siamo rimasti alla cortina di ferro abbattuta alla fine degli anni ‘80, dove Praga e la Repubblica Ceca sono un Paese dell’Est (in
realtà per noi è a Nord e comunque al centro dell’Europa), dove sappiamo esattamente tutto sul Presidente degli USA, quello francese o inglese, ma non sappiamo chi governa la Slovenia (qui vicino), né quale sia la capitale bulgara (membro UE), a soli 1000 km dall’Italia. Ancor di più bisognerebbe riflettere su cosa effettivamente sappiamo delle civiltà sparse per il globo, quando ci lanciamo in giudizi e valutazioni con parametri domestici e assoluti. La culla della civiltà era in Persia, tra Iraq e Iran, tramandata ed evoluta poi in Grecia per arrivare fino a Roma. Al Nord c’erano solo barbari. Anche la Cina era evoluta 2000 anni fa, mentre in America non c’era niente: come sono cambiate le cose, sembra una civilizzazione invertita nel tempo, ma siamo sicuri che la storia non ha valore? I persiani parlano arabo? Meglio evitare la domanda, faremmo pessima figura. Intanto per noi, passata la Cortina di ferro, un paese vale l’altro, lingue e culture si sovrappongono, ma il nostro giudizio trova comunque il modo di esprimersi. L’Iran ci viene presentato come un Paese arretrato, pericoloso, integralista.. poi un giorno vedi che la sua Nazionale di Volley batte più di una volta l’Italia. Ma come... non giocano scalzi ed hanno perfino le palestre?! Allenati da Julio Velasco, famoso per la bravura e soprattutto per l’intelligenza: ma cosa ci fa in Iran? Forse non ce la stanno raccontando giusta. Ci siamo abituati ad avere la sentinella del mondo, vigile e celere nell’esportare la Democrazia in ogni angolo e con ogni mezzo, ma i fatti ci dimostrano che questo equilibrio è superato e governi non democratici seguono economie di capitale, spezzando il binomio democrazia-capitalismo. L’autocrazia comunitaria cinese, quella paternalistica russa o quella tribale degli sceiccati del Golfo Persico, sono governi potenti e in piena crescita, con i quali fare i conti per sostenere un equilibrio internazionale. Dobbiamo imparare a usare altri occhiali per vedere le cose con prospettive diverse, così non aspetteremo cent’anni per capire che gli indiani erano vittime e non carnefici, che noi europei abbiamo colonizzato l’Africa derubandola delle sue risorse, per poi lasciarla in miseria e guerra civile (non abbiamo ancora finito!). Salvo lamentarci se cercano la salvezza attraversando il mare con mezzi impossibili. Magari capiremo che i governi laici, anche se non democratici, sono una soluzione migliore dell’Islam a capo del potere politico. Oppure potremmo continuare a guardare il mondo dal salotto di casa, facendoci dire dalla TV e dai suoi giudizi premasticati chi sono i buoni e chi i cattivi, indignati per l’autoritarismo di Putin, la crudeltà dei cinesi, il maschilismo degli arabi. Accomodati sul divano decadente, con i nostri partiti e i nostri politici sempre attenti a pizzicare le corde giuste della nostra magra dignità e della nostra presunta cultura. Restiamo seri… ma Balotelli è sparito?
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SOMMARIO
Genius People Magazine Euro 3.50
Numero 02
Anno 2015
Speciale cultura: Trieste, il Caffè degli Specchi rivive con Piazza Unità
“La Decade Prodigieuse" By Claude Chabrol In France In 1971
7
6
5
I 100 anni di Orson Welles 4
3
15
42
Il genio come chiave per comprendere la realtà,
Maurizio Belpietro: conversazione con il “cattivo” del giornalismo italiano
l’eredità di Orson Welles
di Francesco Chert
di Gabriele Gerometta FOCUS POLITICA ESTERA
48
Tommaso Cerno: giornalismo e politica all’epoca del web
2
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E
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G
Editoria e politica a confronto
La guerra dei mondi FOCUS: Giornalismo, politica, esteri, cinema, cultura
20
di Francesco La Bella
La variabile turca:
e Francesco Chert
l’instabilità della Mezza Luna
54
di Alice Camarda 24
Tommaso Labate: avere trentacinque anni in via Solferino
Russia e Ucraina:
di Anna Miykova
liaison dangereuse
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di Anna Miykova 28
Intervista a Gianandrea Gaiani
Lorenzo di Las Plassas: una giornata nella redazione di RaiNews24 di Serena Cappetti
di Anna Miykova 32
Yemen tra rivoluzione e terrorismo
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di Matteo Macuglia
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Intervista a Niccolò Locatelli di Matteo Macuglia in redazione Nicolò Giraldi
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FOCUS POLITICA 58
Maurizio Gasparri: chiacchierata su Renzi, Berlusconi, tweed e riforma Rai di Anna Miykova 62 In copertina: Orson Welles in “La Decade Prodigieuse” By Claude Chabrol In France In 1971. Elaborazione grafica.
Roberto Giachetti: la politica come passione e dedizione FOCUS GIORNALISMO
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Politica estera: Foto: Giacomo Cuscuna. Copertine: Elaborazione grafica di Mitja Vesnaver.
di Alessio Briganti
Mario Adinolfi: giornalismo e falsi miti di progresso di Francesco Chert
GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Matteo Salvini: programma e identità della nuova Lega Nord di Francesco Chert
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MAR/APR 2015
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Debora Serracchiani:
Intervista a Max Mestroni
l’Italia e l’Europa al tempo di Renzi
di Bettina Todisco
di Nicolò Giraldi
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Cortinametraggio
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Intervista a Laura Delli Colli di Serena Cappetti 94
“Il segreto d’Italia?” Un dodicenne
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di Serena Cappetti
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SPECIALE TURISMO CULTURALE
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Giuseppe Faggiotto:
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la nuova epoca d’oro
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dello storico Caffè degli Specchi di Trieste di Serena Cappetti
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La nuova punta di diamante del turismo italiano si chiama Portopiccolo INTERVISTE 72
Monica Guerritore: la dimensione visionaria, creativa e anarchica del teatro di Serena Cappetti 74
Giovanni Nuti: quando la musica parla dell’anima di Serena Cappetti 76
Mirt Komel: perché abbiamo ancora bisogno della filosofia di Martina Vocci 82
Giovanni Malagò: come ripulire lo sport italiano di Matteo Zanini
di Matteo Macuglia 102
Hotel Savoia Excelsior Palace: l’arte dell’ospitalità di Michele Casaccia 103
Le nuove frontiere della Trattoria Ai Fiori di Michele Casaccia 104
La Cantina del Vescovo: aperitivi tra qualità e condivisione Di Francesco Chert 105
Galleria Contini Enzo Fiore, ambra pop tra natura e cultura di Riccarda Grasselli Contini con Martina Vocci
e Francesco Chert
RUBRICA
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Simone Perotti: lascio tutto e riparto dal mare di Nicolò Giraldi
#progetto Intervista a Lorenzo Taucer di Studio-a29
SPECIALI 88
Far East Film Festival: intervista a Sabrina Baracetti di Bettina Todisco
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COLOPHON
People Magazine Direttore Responsabile: Francesco La Bella Numero 02-Mar/Apr 2015
Contatto generale: Mail: redazione@genius-online.it
Editore: Francesco La Bella
Pubblicità: GeniusOFF Srl
Stampa: Sinegraf
Collaboratori: Alessio Briganti, Alice Camarda, Serena Cappetti, Michele Casaccia,
Traduzioni: Erin Russo
Gabriele Gerometta, Sarah Gherbitz, Nicolò Giraldi, Matteo Macuglia, Anna Miykova, Pier Emilio Salvadè,
Editorialisti: Vittorio Sgarbi, Giuliano Urbani, Fabio De Visintini
Bettina Todisco, Jonathan Turner, Martina Vocci
Corrispondente editorialista: Jonathan Turner
genius-online.it
Redazione centrale: Matteo Zanini
Francesco La Bella (direttore responsabile)
Web magazine:
Redazione: Matteo Zanini (financial director)
Segreteria di redazione: Francesco Chert Mail: francesco.chert@geniusoff.it
Francesco Chert (segreteria di redazione) Riccarda Grasselli Contini (redattore arte e cultura) Web Development:
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Foto-reporter: Alice Noel Fabi, Marino Sterle, Luca Tedeschi
Redazione estera:
Videomaker Michele Colucci
Mail: redazione@genius-online.it
Ilie Zabica
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a.e. Riccardo D’Este
ISSN 2420-8884 Aut. n. 1233 del 09/03/2011 del Trib. di Trieste-p.iva 01223770320 Direzione-redazione-amministrazione c/o Piazza della Libertà 3, 34132 Trieste (TS) Contatti direzione centrale: Mail: marketing@genius-online.it / amministrazione@genius-online.it Tel: +39 040 3480497 / Fax: +39 040 364497
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LA COPERTINA
Il genio come chiave per comprendere la realtà Di GABRIELE GEROMETTA
L’eredità di Orson Welles 1915/2015
Che cos’è il Genio? In uno dei gioielli della commedia all’italiana, Amici miei del compianto Monicelli, lo si definisce come “fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”. Definizione non priva di beffarda ironia, ma che nasconde, tra le pieghe dello sberleffo, un fondo di arguta saggezza. NUMERO 02
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LA COPERTINA
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Il progetto Genius nasce in fondo proprio per questo: dare spazio alla creatività e all’approfondimento, valorizzare curiosità e talento per interpretare le sfumature del mondo che ci circonda, con la velocità che l’era del 2.0 impone, ma senza scordare ciò che è il fulcro di tutte le umane vicende: l’uomo. E proprio cento anni fa, il 6 maggio 1915, nacque un uomo, una delle personalità più vulcaniche e geniali del ‘900. Un talento eclettico e visionario, capace di muoversi con disinvoltura tra cinema, radio e teatro, in grado di padroneggiare differenti linguaggi, contaminandoli e innovandoli con sensibilità e coraggio. In parole povere, un genio. Stiamo ovviamente parlando del grande Orson Welles, regista di cinema e teatro, sceneggiatore, radiofonico e molto altro ancora. E il 2015 sarà un anno di celebrazioni, vista la doppia ricorrenza per i 100 anni della nascita e i 30 dalla morte (10 ottobre 1985). Le commemorazioni sono state inaugurate dalla Cineteca di Milano che dal 7 al 23 gennaio 2015 ha riportato sul grande schermo tredici dei più celebri capolavori del maestro statunitense. Sono molte le retrospettive programmate in tutto il mondo, molte negli natali Stati Uniti, una in terra inglese, ma nessuna nell’Europa continentale, ad eccezione della Cineteca di Bologna. Welles nasce a Kenosha, contea nei pressi di Chicago, il 6 maggio 1915, figlio della pianista Beatrice Ives e di Richard Welles, proprietario di una fabbrica di furgoni e, nel tempo libero, inventore. Un talento precoce e onnivoro, ossessionato dalla conoscenza, ma costantemente orientato alla reinvenzione. Il 30 ottobre 1938, a soli 23 anni, terrorizza gli Stati Uniti interpretando in diretta radiofonica un adattamento in forma di cronaca giornalistica della “Guerra dei Mondi”, celebre novella del romanziere fantascientifico
r di H.G. Wells. che racconta di un invasione aliena nel New Jersey. Radio, letteratura e giornalismo, al servizio di un clamoroso ‘scherzo’ radiofonico, ma anche una testimonianza di viral marketing ante litteram, che indusse la casa di produzione cinematografica RKO a metterlo sotto contratto per realizzare tre film a Hollywood. Ed infatti tre anni più tardi, prodotto dalla RKO, Welles firma il suo gioiello, il capolavoro di una carriera straordinaria, “Quarto Potere”, considerato da molti come il miglior film di tutti i tempi. Un’opera complessa e stratificata, innovativa nell’utilizzo della grammatica cinematografica e dei piani temporali, finemente ambigua nel rappresentare il magnate dell’editoria Charles Foster Kane. Welles si ispira liberamente alla figura di William Randolph Hearst, editore, politico e ricchissimo imprenditore, per mettere in scena la propria personale riflessione sulla solitudine del potere, una ricchissima digressione sugli ingranaggi del giornalismo e della rappresentazione, capace di intrecciare in modo ineguagliato l’epica di un personaggio larger than life con i limiti e le contraddizioni di un essere umano sopraffatto dalla propria solitudine. Lo stile che Welles utilizza per raccontare il successo e la solitudine di Foster Kane è quello del film d’inchiesta, indagandone a ritroso la vita per scoprire il mistero nascosto dalla sua ultima, enigmatica parola, proferita in letto di morte: Rosabella, Rosebud in originale. Attraverso le indagini del giornalista Jerry Thompson vengono sentite le persone più importanti della vita di Kane e ricostruiti gli eventi più significativi della sua scalata al successo, alla ricerca del senso ultimo, la chiave di lettura in grado di svelare il mistero di Rosabella. L’indagine si rivelerà infruttuosa per Thompson, ma non per lo spettatore a cui Welles, in un ultimo fotogramma rivelatore, concederà la soluzione dell’enigma.
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L’EREDITÀ DI ORSON WELLES
Oscar 1942: Quarto Potere - Miglior sceneggiatura originale 1970: Oscar alla carriera Cannes Film Festival 1952: Othello - Palma d’oro
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American Film Institute 1975: Premio alla carriera
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Festival del cinema di Venezia 1970: Leone d’oro alla carriera Grammy Awards 1982: Best Spoken Word Recording — Donovan’s Brain
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E proprio “Quarto Potere”, rappresenta l’ideale fil rouge che attraversa questo numero due di Genius. Un numero in cui abbiamo scelto di porre l’accento su due dei temi fondanti della pellicola, ma che restano di stretta e spesso drammatica attualità: la politica internazionale e il mondo del giornalismo. Con il consueto stile ‘biografico’ che ci contraddistingue, approfondiremo storie e chiameremo in causa persone e personaggi, alla ricerca del punto di vista, la chiave di lettura in grado di farci comprendere dinamiche e meccanismi di verità spesso complessi, ambigui. Attraverso focus mirati e testimonianze di addetti ai lavori, affronteremo la difficile situazione di tre delle zone più calde del panorama internazionale: l’Ucraina in guerra raccontata dall’intervista a Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa e firma del Foglio e del Sole 24 ore; la situazione in Yemen, alle prese con un colpo di stato, dipinta da Niccolò Locatelli, giornalista di Limes; la Turchia e la sua ambigua politica internazionale. Ma anche uno sguardo alla situazione italiana con le interviste al leader della Lega Nord Matteo Salvini, il Deputato renziano e Vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, la Governatrice del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, e il Senatore e Vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri. Affronteremo poi il mondo del giornalismo, il quarto potere con le sue contraddizioni e le sue dinamiche. Un universo sospeso a cavallo tra innovazione e tradizione, che si ritrova a fare i conti con nuovi modi e strumenti per raccontare il mondo. Ascolteremo vecchie volpi della carta stampata e nuove leve del web giornalismo, per dipingere un quadro quanto più esauriente di un mondo in perenne evoluzione. Ospiteremo il Direttore di Libero Maurizio Belpietro, Il Direttore della
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Croce Mario Adinolfi, il Direttore del Messaggero Veneto Tommaso Cerno, il giovane Tommaso Labate, firma del Corriere e Lorenzo di Las Plassas, giornalista e fondatore di RaiNews24. Ma il nostro People Magazine n.2 offre anche molto altro: avremo anche una finestra sui più prestigiosi festival cinematografici di questo periodo con i reportage dal Far East Film Festival 2015 di Udine e Cortinametraggio. Un’intervista a Giovanni Malagò, Presidente del Coni, al musicista Giovanni Nuti, all’attrice Monica Guerritore, al giovane filosofo Mirt Komel, allievo di Slavoj Zizek e Simone Perotti, giornalista e scrittore. Un viaggio per il mondo su carta patinata, fatto di territori e incontri, immagini e parole, alla ricerca della nostra Rosabella.
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POLITICA ESTERA
La variabile turca: l’instabilità della Mezza Luna Il presidente turco Erdogan, sotto pressione tra Occidente e Oriente, persegue i suoi obiettivi con determinazione ottomana ma seminando perplessità soprattutto tra gli alleati storici
Di ALICE CAMARDA
Mar Nero
Georgia
Bulgaria Grecia
Ankara
Armenia
Siria
Iran Iraq
GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Ogni giorno dall’aeroporto Marco Polo di Venezia decollano tre aerei diretti ad Istanbul. Le domande dei passeggeri sono sempre le stesse: “Cosa incontrerò?”, “Cosa porterò a casa?”, perché la Turchia è una terra in continuo cambiamento, che gira su se stessa più veloce della Terra, alle volte in armonia con essa e altre creando discrepanze e paradossi. Lo stato della Mezza Luna, terra di mezzo tra Asia ed Europa, adotta sempre più una politica indecisa nei confronti delle gravi problematiche che entrambi i continenti stanno vivendo. Ankara subisce pressioni da diversi punti, esterni ed interni, 20
LA VARIABILE TURCA: L’INSTABILITÀ DELLA MEZZA LUNA
e l’occupazione della Siria da parte dello Stato Islamico ha puntato i riflettori sulle perplessità riguardanti il capo di stato turco Recep Tayyp Erdogan. La comunità internazionale e soprattutto la coalizione anti IS capitanata dall’America, si aspettava di più. Lo stato islamico dell’Iran e della grande Siria nel settembre 2014 entrò a Kobane (Ayn al-‘Arab in arabo, cittadina ad 8 km dal confine turco) che fu liberata nel gennaio 2015 solamente grazie alla tenacia e alla resistenza del braccio armato del Comitato Supremo Curdo diviso in Unità di Protezione Popolare (YPG/YPJ) e Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). L’assedio di Kobane verrà ricordato come la vittoria dell’esercito del Kurdistan siriano, dei peshmerga (il corpo militare curdo dei cosiddetti “combattenti fino alla morte”) e anche dei tanti volontari giunti da tutto il mondo. Nell’ottobre 2014, dopo un mese di occupazione jihaidista a Kobane, a Diyarbaki (nel sud est della Turchia) sono iniziate le proteste da parte di migliaia di curdi. Questi chiedevano un intervento dell’esercito turco in Siria, o perlomeno di lasciar transitare i guerriglieri
peshmerga fino ad essa. Erdogan, sotto le pressioni soprattutto da parte dell’Onu e dell’America, aveva dichiarato di voler partecipare alla liberazione alla cittadina curda a patto che venisse imposta una no-fly zone in Siria e la rimozione forzata di Bashar al-Assad. È servito un ulteriore mese e mezzo prima di una decisione chiara e attuabile, che si è conclusa con la vittoria dei curdi sull’IS, da parte dello stato della Mezza Luna. Le richieste di non armare i curdi del PKK – poiché ritenuta ancora un’associazione terroristica da Usa, Turchia ed Iran – e di non permettere agli stessi per raggiungere le zone di guerra nel Kurdistan siriano sono state respinte. Queste necessarie azioni nel bollettino di guerra finale non sembrano bastare: nessuno si è dimenticato infatti del processo lungo e tortuoso per arrivare a questi interventi. La presa di posizione turca si è fatta attendere; ad aiutare il premier nella scelta pare sia stato il personaggio più controverso della storia contemporanea turca: Ocalan, misteriosa personalità politica, fondatore del PKK e detenuto, infatti, dal 1999 nell’isola di Ismir.
“Tira aria di tempesta nel Mediterraneo. I duplici accordi con la Turchia sulle rotte marittime e commerciali che coinvolgono Egitto e Arabia Saudita sono scaduti il 20 aprile e non verranno rinnovati”. NUMERO 02
Se la Turchia avesse lasciato che Kobane fosse presa, gli accordi, tutt’oggi in fase di trattativa, tra curdi e turchi sarebbero saltati per diretto ordine dello stesso leader curdo. Accordi molto cari ad Erdogan che nella scorsa campagna elettorale aveva dichiarato che sarebbe stato in grado di “bere veleno” pur di arrivare alla pace con il popolo di Ocalan. Tutto questo gli ha fatto guadagnare credibilità in campo internazionale e ha quindi reso più dinamici gli accordi economici con i paesi occidentali. Dopo un trentennio di repressione costato 40.000 vite, i diritti rivendicati dai curdi sono molto sentiti: libertà di espressione, l’utilizzo della lingua madre nelle istituzioni turche e una politica nazionale più incisiva nelle scelte prese da Ankara. Il dodicesimo presidente turco continua a dimostrare interesse per risolvere la cosiddetta “questione curda” ma con i dovuti dubbi in merito a questo slancio liberale. Durante gli undici anni di governo dell’AKP (Partito per la Giustizia e Sviluppo), Erdogan ha garantito una forte crescita all’economia turca. Il problema è che, come molti paesi industriali, le risorse naturali non bastano per il fabbisogno generale. Per ovviare a questo grande problema egli ha trovato un bacino petrolifero situato a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. Ed è grazie a questa scoperta che lo scorso 2 marzo Baghdad, la Turchia e il Kurdistan iracheno hanno raggiunto un accordo per iniziare a cercare il petrolio tra le montagne della regione del Qandil. La comunità internazionale spera che l’accordo dei 10 punti – ideato da Ocalan e promosso dal “Partito Democratico del Popolo” (HDP) – si trasformi in una riforma costituzionale che ridia dignità e forza ad entrambi i popoli e che porti, dopo tante sofferenze, alla convivenza e 21
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non alla condivisione forzata della stesso territorio, ma i nuovi attriti con la vicina Libia non lasciano sperare in questo processo di riconciliazione. Tira aria di tempesta nel Mediterraneo. I duplici accordi con la Turchia sulle rotte marittime e commerciali che coinvolgono Egitto e Arabia Saudita sono scaduti il 20 aprile e non verranno rinnovati. Ad adottare questa politica d’embargo nei suoi confronti sono stati questi stessi Paesi in quanto sostenitori del governo ufficiale libico di Tobruk, regolarmente eletto nel giugno 2014. Il passo falso è stato aver sostenuto il Congresso Generale Nazionale di Tripoli, capitanato da Omar al-Hasi e acerrimo nemico
In questa pagina: Siirt, 2012. Una donna completamente velata chiede l’elemosina nel centro cittadino di Siirt, nel sud est della Turchia. Nella pagina successiva: Diyarbakir, 2012. Nel corso delle manifestazioni in occasione del Newruz, il capodanno curdo, un gruppo di giovani manifestanti lanciano sassi contro un pulmino della televisione turca dato precedentemente alle fiamme. Foto: Giacomo Cuscuna.
dell’Assemblea Regionale di Tobruk. L’economia turca è fortemente minacciata da queste decisioni. Il presidente della camera di commercio di Mersin, Serafettin Asut, ha manifestato le sue preoccupazioni ricordando che se la Turchia non riuscirà a convincere l’Egitto, l’unico modo per far transitare i mercantili sarà attraverso il Canale di Suez, comportando alti costi per le casse dello stato. Per difendersi da questa complicata situazione, Erdogan ha deciso di utilizzare la più antica e potente delle manovre difensive che la cultura occidentale ha appreso in millenni di guerre e trattati diplomatici: la contrattazione economica con i paesi interessati a un controllo più o meno diretto sul suo territorio. La Russia in primis si è dimostrata molto disponibile nei confronti delle necessità turche e il presidente Putin ha saputo sfruttare a proprio vantaggio la necessità che la Turchia ha di materie prime ed energia. Si sta infatti contrattando affinché il gasdotto che dalla Russia deve arrivare in Europa passi non più per l’Ucraina ma proprio per la Turchia in cambio di sostanziali sconti sull’utilizzo del metano da parte della penisola anatolica. In questo modo non solo Putin si assicura l’appoggio turco che può sempre essere utile nel campo della trattativa Nato; ma si impone anche come presidente di uno stato che, per quanto sia comunque geograficamente relegato ai confini del mondo occidentale, sa trovare strade alternative per non essere dipendente dai paesi confinanti qualora (come sta succedendo adesso) ci siano attriti con essi. Il sultano e lo zar, insomma, (cosi infatti vengono definiti i due capi di stato dai media e dai loro oppositori) si sono incontrati spesso per concordare queste prerogative
turche in ambito ambientale e energetico con una pubblicità tale da presentarli entrambi come dei salvatori dei rispettivi popoli. Il secondo gigante a cui Erdogan si è rivolto per chiedere aiuti e riconoscimenti è un paese che, se possibile, soffre di una problematica nelle relazioni politiche peggiore persino della Russia: la Cina. Ankara ha preso accordi direttamente con Pechino per un reciproco riconoscimento di valori, identità e obiettivi. La Turchia si impegna a riconoscere le posizioni cinesi in fatto di politica estera come legittime e responsabili (cosa tutt’altro che scontata per il dragone orientale) in cambio però della disponibilità cinese a uno scambio commerciale e di manodopera particolarmente vantaggioso per la Turchia in relazione alla scarsità di risorse primarie. Il presidente della Mezza Luna sfrutta la posizione geografica tra oriente ed occidente per i suoi affari a ritmo di valzer, tra un passo indietro ed uno in avanti. Le sue relazioni con il Medio Oriente integralista ed esponenti di regimi totalitari, potrebbero dargli un ruolo sempre più marginale nelle decisioni rilevanti che emergeranno dai prossimi incontri internazionali. Le sue mosse sono giustificate dal fondato timore di non poter sostenere la rivoluzione industriale che lui stesso ha iniziato o è solo una corsa all’oro (nero)? Mentre proviamo a darci delle risposte, la Turchia cambia ancora, si ritrasforma. Personalmente, ogni volta che vado in Turchia, mi pongo le due precedenti domande “cosa troverò” e “cosa porterò a casa” perché ogni volta, è come visitare un luogo nuovo, tra la bellezza millenaria di Istanbul e la corsa inarrestabile degli imprenditori turchi. (7’5’’)
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Russia e Ucraina: liaison dangereuse La complicata relazione che intercorre tra Ucraina e Russia affonda le proprie radici nel lontano VIII secolo, quando l’Ucraina era già considerata parte imprescindibile del territorio russo. Il morboso attaccamento alla “sorella minore”, tuttavia, non può essere giustificato con le sole ragioni economiche o logistiche – legate al transito obbligato del gas russo sul territorio ucraino – ma emergono dalla sua storia e dal suo sentimento nazionale. All’occhio occidentale simili motivazioni potrebbero apparire bizzarre se riferite a semplice business tra Stati, ma per comprendere a fondo questo legame è necessario vestire i panni russi e immergersi nel passato, poiché la storia è maestra di vita.
Di ANNA MIYKOVA
Biellorussia Polonia
Russia
Slovacchia
Kiev Ungheria Moldavia
Romania Mar Nero
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Nel XX secolo i rapporti e le alleanze tra gli Stati si fondavano principalmente su un interesse economico. La medesima dottrina che guidò la politica estera russa nei confronti dell’Ucraina, soprattutto all’epoca dell’Unione Sovietica, trasformò Kiev non solo in un’appendice economica ma anche in un satellite politico di Mosca. Tuttavia, con il crollo dell’URSS e del suo sistema onnicomprensivo si verificarono, su scala globale, alcuni repentini cambiamenti democratici che influenzarono nella sostanza anche l’Ucraina. Quelle peculiarità su base nazionale che nutrivano i rapporti russo-ucraini iniziavano lentamente a sbiadire, trasformandosi addirittura in contraddizioni. In Ucraina, infatti, nasceva velocemente e si alimentava il germe dell’opposizione, che osò addirittura mettersi contro l’eterna politica filorussa perseguita per decenni dai politici ucraini sacrificando gli interessi nazionali del Paese. Nell’ottica di una plurisecolare storia nazionale alle spalle, molti ucraini credettero di poter prendere autonomamente le decisioni riguardanti il loro futuro, senza la tutela russa. Ma non era cosa semplice. Il desiderio di liberarsi dallo stretto “abbraccio” di Mosca strideva con il forte sentimento nazionale, radicato in ciascun cittadino, dell’eterna e indiscutibile appartenenza dell’Ucraina alla Russia: un sentimento sempre esistito e tutt’ora tramandato di generazione in generazione. Ma facciamo un passo indietro. Come risultato della politica di conquista perseguita dagli Zar russi e, per lo più, dai governanti sovietici dopo la Rivoluzione d’Ottobre (1917), vasti territori furono annessi all’Ucraina che divenne così uno dei maggiori Paesi europei. E l’alta considerazione verso Kiev si rifletté anche in seno all’Urss dove venne a lungo considerata il membro più importante. Il cambiamento e una sostanziale crisi nei rapporti tra i due Stati si sono materializzati nel momento in cui la Russia e il suo attuale capo di Stato, Vladimir Putin, non hanno voluto capire e accettare che l’Ucraina non è più quell’entità sovietica per decenni tenuta sotto il pieno controllo del loro diktat. Risalendo alle origini, l’antico Stato russo - “Rus di Kiev” - nato nel VII secolo con capitale Kiev, è considerato fondativo sia della moderna Russia sia dell’Ucraina. Questo stato slavo-ortodosso riuniva i territori di due grandi centri, Kiev e Novgorod.
“Con il collasso del sistema sovietico nel 1991, l’Ucraina divenne un Paese indipendente e libero, in un certo senso, dalle restrizioni imposte da Mosca e il sentimento nazionale ucraino poté evolvere e rafforzarsi”. A quei tempi era uno dei più grandi Paesi d’Europa. In seguito, Kiev venne conquistata dai Tatari e divisa in due, prendendo una strada differente, mentre Novgorod venne annessa al Principato di Mosca. Nonostante questa divisione, il ricordo primordiale non è mai sbiadito dalla memoria nazionale e ancora oggi l’intero popolo considera la Rus’ di Kiev il nucleo storico della nazione e dello Stato russo. Kiev viene addirittura definita “madre delle città russe” e, nell’immaginario comune, costituisce il centro simbolico della civiltà slavo-ortodossa dell’Est. Persino la storiografia descrive tre etnie che formano il medievale Stato russo: grandi russi, ucraini-russi minori e bielorussi. Ma come già accennato, è l’invasione mongolo-tatara a dividere il destino
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del popolo russo e di quello ucraino. Quando la Rus di Kiev si dissolse, il cuore della Stato russo si spostò a nord, mentre la Rus’ sud-occidentale – l’odierna Ucraina dell’Ovest – si unì alla Rzezcpospolita, Confederazione polacco-lituana con un unico monarca. Nel XVIII secolo, l’odierno territorio ucraino passò ai russi che nel frattempo avevano costituito il Grande Impero e i gli ucraini iniziarono a essere chiamati “russi minori”, termine offensivo e sgradito ai giorni nostri. Bisognò attendere fino al XIX secolo per veder sorgere le prime basi di una moderna nazione ucraina che iniziava a definirsi attraverso un processo di identità etnico-culturale e linguistica. In questo senso, uno dei problemi principali fu l’assenza di confini etnicogeografici storicamente distinti tra i territori popolati da russi e ucraini. In molte aree del Paese infatti, la popolazione era mista e presentava differenze culturali minori. Con queste premesse e alla luce di secoli di dominio russo, L’Ucraina ha al contrario sempre avuto una coscienza nazionale radicata e probabilmente coeva alla sua nascita. Di conseguenza i due sentimenti nazionali – e contrastanti per ovvie ragioni – originarono un risentimento che si manifestò durante la Seconda Guerra Mondiale quando gli ucraini si schierarono con Hitler. Per questo “tradimento”, furono severamente puniti e i russi assunsero la guida dello Stato ucraino dopo il 1945. Con il collasso del sistema sovietico nel 1991, l’Ucraina divenne un Paese indipendente e libero, in un certo senso, dalle restrizioni imposte da Mosca e il sentimento nazionale ucraino poté evolvere e rafforzarsi. Da un lato, fu proprio il sentimento di superiorità russa che trattava l’Ucraina come entità subordinata a irritare il popolo ucraino. Ecco perché spesso gli ucraini iniziarono a rivolgere la loro attenzione verso l’Europa unita e democratica, desiderando di trovare il proprio posto lì. Il problema nelle relazioni russo-ucraine non è solo dato dalla circostanza che ci sono regioni con popolazione etnicamente e culturalmente mista. Per molto tempo, infatti, il Paese è stato diviso in due e in Ucraina de facto coesistono due culture diverse, cosa che ha provocato gravi contraddizioni tra cattolicesimo occidentale e ortodossia orientale. A riprova di ciò vi sono oggi le istanze secessioniste dell’Ucraina orientale (ortodossa) contro le proteste iniziali di Euromaidan, che rappresentavano invece la voce degli ucraini cattolici e
“Il cambiamento e una sostanziale crisi nei rapporti tra i due Stati si è materializzata nel momento in cui la Russia e il suo attuale capo di Stato, Vladimir Putin, non hanno voluto capire e accettare che l’Ucraina non è più quell’entità sovietica per decenni tenuta sotto il pieno controllo del diktat russo”.
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filoeuropei. Anche in passato, l’Ucraina dell’Ovest fece parte della Polonia prima e della Lituania poi, confermando il suo destino di stare sempre “alla fine” di una potenza, di appartenere a un Impero, come quello russo o quello austro-ungarico (l’etimologia della parola stessa “u-krayna” indica essere sul bordo o sul confine di qualcosa). La sua popolazione appartiene, per la maggior parte, alla Chiesa uniate che pratica riti ortodossi, ma riconosce il primato del Papa. Storicamente, gli ucraini occidentali parlano la lingua ucraina e sono fortemente nazionalisti, al contrario degli orientali, russofoni e ortodossi, che si raccolgono attorno alla filiale ucraina della Chiesa ortodossa russa – autocefala come le altre. Inoltre, nei primi anni Novanta i russi rappresentavano il ventidue per cento della popolazione del Paese, mentre gli ucraini russofoni il trentuno per cento. La formazione in molte scuole primarie e secondarie avviene ancora oggi in lingua russa benché la Costituzione imponga l’uso della lingua ufficiale, ovvero l’ucraino. E tutto ciò rappresenta un problema, ma non si tratta solo di un problema linguistico. È un sentire diverso. C’è chi ancora sostiene che il russo debba essere la lingua ufficiale delle regioni orientali, soprattutto ora che ben due sono state le autoproclamate repubbliche popolari: Donetsk e Lugansk. Infine, un altro elemento che complica seriamente la situazione nel Paese è la penisola di Crimea, passata sotto il territorio russo lo scorso marzo (2014). Qui, tuttavia, si è combattuto con mezzi legali e non solo adducendo ragioni prevalentemente demografiche (maggioranza della popolazione russa) ma anche strategiche, benché non espresse in maniera diretta. La Crimea era parte dell’Unione Sovietica fino al 1954, quando Nikita Kruscev decise di consegnarla all’Ucraina. Di fronte a questa prospettiva è facile comprendere come dopo il crollo dell’Urss, la nuova Federazione russa sia posta in una situazione molto sfavorevole: con la perdita di Ucraina e Bielorussia, la maggior parte del suo territorio si trova nello spazio geografico e geopolitico asiatico, quasi fuori dal vecchio continente. L’Ucraina, al contrario, appartiene geograficamente all’Europa e occupa un’importante posizione strategica sul Mar Nero: ha l’accesso agli stretti “Turchi” e alle
acque calde del Mediterraneo. Ecco perché il continuo richiamo alla “Rus” in riferimento all’Ucraina è sempre una priorità nella politica estera della Russia, che non vuole e non può permettersi di perdere il nucleo primordiale della sua statualità. E oggi è nuovamente divisa in due, come lo fu la Rus di Kiev. La parte occidentale che non è sempre stata tenuta sotto costante controllo politico e territoriale della Russia, preme per essere associata all’UE, avendo la Nato e l’Ue come principale obiettivo politico. E questa è una delle principali cause della grave irritazione e preoccupazione per Putin e quindi il deterioramento delle relazioni russo-ucraine. Con queste premesse, nel 2004 le elezioni presidenziali in Ucraina proclamarono la vittoria del filorusso Viktor Yanukovich, ma la Corte costituzionale le dichiarò “truccate”, provocando un’ondata di malcontento. Si innescò la cosiddetta “Rivoluzione arancione” di piazza Maidan – Indipendenza – che portò al potere il candidato dell’opposizione filo-occidentale, Viktor Yushchenko, lasciando Yanukovich all’opposizione. Con l’intervento della Russia nel 2010, Yanukovich è stato nuovamente eletto presidente, ma più tardi, quando ha rifiutato di firmare l’Accordo di associazione dell’UE richiesto a gran voce dall’opposizione e da più ucraini, sono scoppiate violente proteste e scontri armati tra polizia e manifestanti. Ed è da qui che nasce il movimento noto come “Euromaidan” che dopo l’annessione della Crimea alla Russia – tramite un referendum regolare – ha scatenato un’onda di ribellione nell’Est del Paese. La nota dolente è che le proteste scatenate a Kiev, concluse con la cacciata di un Presidente eletto democraticamente, Yanukovich, ha innescato una vera e propria guerra civile, basata ancora una volta sulla spaccatura ucraina. La crisi del Paese alterna vittorie e sconfitte da entrambi i fronti. I secessionisti filorussi dell’Ucraina Orientale avanzano, le forze ucraine indietreggiano e viceversa. Ma nessuno sa se la spaccatura interna potrà mai essere sanata: ecco perché la storia è maestra di vita. (8’0’’) Nella pagina precedente: Vladimir Putin al vertice intergovernativo bilaterale italo-russo tenutosi a Trieste nel novembre 2013. Foto: Francesco La Bella.
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Intervista a Gianandrea Gaiani: l’Unione Europea ha solo da rimetterci dalla crisi ucraina
A oltre un anno dall’inizio della crisi ucraina, il direttore di Analisi Difesa, Gianandrea Gaiani, ci rivela gli aspetti rimasti nell’ombra e i giochi strategici dei Paesi coinvolti. Bolognese, esperto di storia militare e strategia, giornalista affermato e firma del Sole 24 Ore e del Foglio, Gaiani non ha bisogno di molte presentazioni: le sue parole sono schiette e disarmanti.
In questa pagina: Gianandrea Gaiani. Riproduzione riservata.
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INTERVISTA A GIANANDREA GAIANI
“Non a caso, nel momento in cui sembrava che la crisi ucraina stesse degenerando in una guerra totale, tedeschi e francesi hanno rotto gli indugi senza avvisare gli americani e hanno avviato un negoziato diretto con Putin”. Il 18 marzo cade il primo anniversario dell’annessione della Crimea alla Federazione Russa, che ha segnato una grande vittoria politica per Putin. Quali sono state le implicazioni strategiche di questa mossa? Mosca è stata accusata in Occidente, e dalla NATO stessa, di aver trasformato la Crimea in una grande base militare e di averci concentrato armamenti sofisticati. Di fatto, la Crimea ha sempre avuto un valore strategico sul piano militare per la presenza di basi navali e basi aeree e la sua annessione ne ha dato conferma. Per i russi era prioritario riprendersi la Crimea, che una volta era Russia, per mantenere il controllo delle sue basi: Sebastopoli e gli aeroporti. Ma c’è un valore strategico anche nei confronti del conflitto in Ucraina. Infatti, se si guardano i movimenti sul fronte, il tentativo dei filorussi è quello di riunire il Donbass alla Crimea attraverso le offensive a Mariupol, come obiettivo a lungo termine. Infine, la Crimea e le sue basi sono state fondamentali, negli ultimi anni, per consentire alla Russia di sostenere il regime siriano di Bashar al-Assad. La flotta del Mar Nero, che ha base in Crimea, ha bisogno della sua casa madre a Sebastopoli per raggiunge la base di Tartus, in Siria, dove arrivano gli equipaggiamenti che la Russia le fornisce. Toglierla della Crimea, almeno per un certo periodo di tempo, significava anche privare la Siria della capacità di ricevere il supporto militare russo. Quindi, il golpe del Maidan - io lo definisco così perché il governo precedente era regolarmente eletto e nessuna
organizzazione internazionale ne aveva contestato la legittimità - è un attacco diretto alla Russia. Putin ha subito una sconfitta che sta cercando di compensare parzialmente con l’annessione della Crimea e con il sostegno alle rivendicazioni indipendentiste del Donbass. Quali sono invece gli interessi dell’Ue in un Paese che è sull’orlo della bancarotta? In fondo, se si trattasse di interessi strategici legati alla sua posizione geografica, l’Unione Europea potrebbe “appoggiarsi” ad altri Paesi che si affacciano sul Mar Nero (Romania e Bulgaria)? Io credo che dietro ci siano sostanzialmente gli interessi statunitensi con l’appoggio di alcuni Paesi europei, come le Repubbliche Baltiche e la Polonia, grandi sostenitori della rivolta del Maidan. Ma ci sono anche interessi tedeschi. L’Ucraina ha dei grandi distretti industriali, soprattutto industria pesante e aeronautica che fino ad oggi ha lavorato con i russi – Antonov per esempio – tecnologicamente un po’ arretrati, che potrebbero diventare facile preda di acquisizioni, in un Paese in bancarotta, da parte dei grandi gruppi europei. Alcuni di questi hanno grande liquidità, anche nel settore industriale, e sono per lo più tedeschi. Noi sappiamo bene che poter acquisire a basso prezzo interi gruppi industriali in Ucraina, dove lo stipendio medio di un operaio è tra i settanta e centro euro al mese, potrebbe consentire di delocalizzare e fare produzioni di alta qualità a bassissimo costo. Quindi di interessi ce ne sono tanti, ma non li definirei dell’Ue, quanto di alcuni Paesi europei e anche extraeuropei, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che con il trasferimento dell’Ucraina dall’orbita russa a quella occidentale darebbero un grande smacco a Mosca in termini strategici. Se domani infatti ipotizziamo un’Ucraina nella Nato, avremo gli americani a trecento chilometri da Mosca. Ma anche sul piano economico, perché l’Ucraina era una pedina fondamentale del progetto di grande Unione euro-asiatica che la Russia sta portando avanti con le sue ex Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale ma anche l’Ucraina e oggi quest’unione ha di fatto perso un pezzo importante. Quindi non sembra che l’UE abbia tanto da guadagnarci dalla crisi ucraina… In realtà, l’UE ha solo da perdere da questa crisi perché sul piano energetico avevamo il gas russo a basso costo. Se ci fosse una nuova esplosione della guerra o saltassero i gasdotti, questo rifornimento sarebbe messo a repentaglio, considerato che le nostre fonti energetiche alternative, come il Nord Africa o il Medio Oriente, sono anche queste in fiamme. Inoltre, l’interscambio commerciale con la Russia vedeva molti europei, in
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particolare tedeschi e poi italiani e francesi, fortemente coinvolti. Non a caso, nel momento in cui sembrava che la crisi ucraina stesse degenerando in una guerra totale, tedeschi e francesi hanno rotto gli indugi, senza avvisare gli americani, e hanno avviato un negoziato diretto con Putin. E come valuta il ruolo dell’Italia, soprattutto dopo le dichiarazioni del Ministro degli Esteri Gentiloni sul cambio di politica riguardo alle sanzioni alla Russia? Guarda caso, anche Renzi, dopo la sua visita a Mosca, ha precisato che non ci saranno nuove sanzioni alla Russia e che quelle in corso sono del tutto rivedibili in qualunque momento e revocabili, dando il segnale forte che alcuni Paesi europei non sono più disposti a seguire gli americani o altri Paesi filoamericani dell’Europa – le Repubbliche Baltiche e la Polonia – in una strada di collisione con la Russia, perché non è di certo nei nostri interessi. Cosa sperano di ottenere invece gli Stati Uniti dalla crisi ucraina? Io personalmente credo che l’obiettivo del golpe del Maidan nell’ottica strategica americana fosse quello di creare un solco fra la Russia e l’Europa. In realtà la reazione blanda ma sempre più decisa degli europei rischia di dare l’effetto opposto: allargare l’Atlantico, cioè aumentare la distanza tra gli Stati Uniti e i suoi alleati europei. Non dimentichiamoci che quello che tiene unita la Nato, cioè l’Europa Occidentale agli Stati Uniti, dopo la caduta del muro di Berlino è sostanzialmente l’esigenza comune di mantenere stabili le aree energetiche – Nord Africa e Medio Oriente – perché servivano a tutti. Quindi le guerre nel Golfo nel 1990 e poi quelle più recenti hanno l’obiettivo di mantenere stabili le aree energetiche ricche di petrolio e gas. Oggi questo interesse gli USA non ce l’hanno più perché sono una potenza energetica, hanno l’autosufficienza e nel 2020 saranno i più grandi esportatori di energia, quindi a loro non conviene più investire sulla sicurezza di queste aree. A noi invece sì, e con un po’ di malizia potremmo dire che a loro conviene addirittura destabilizzarle. Se guardiamo al ruolo degli USA nell’attacco a Gheddafi nel 2011 poi portato avanti dagli europei, o a quello nel sostenere la rivolta in Siria contro Bashar al-Assad – che non è un santo ma è un elemento di stabilizzazione per noi per tutta l’area – vediamo che sembra più volto a destabilizzare. Anche la stessa guerra allo Stato Islamico così blanda e inefficace è un intervento che sta ampliando la destabilizzazione. In fondo fecero cadere il regime di Saddam Hussein in sei settimane, contro Is dopo sei mesi è cambiato poco. L’Europa, quindi, deve
“Quello che gli ucraini pagano è l’avere Forze Armate che per anni non sono state addestrate: i tagli al bilancio rendevano possibile solo lo stipendio e dare da mangiare ai soldati”.
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tutelarsi evitando di scavare un solco più profondo con la Russia con cui ha molti più interessi in comune rispetto agli USA, anche nella guerra con l’Islam estremista, in cui i russi sono da sempre in prima linea. Si è spesso sentito parlare di dipendenza della Russia da una produzione industriale di nicchia in cui l’Ucraina si sarebbe specializzata in epoca sovietica, ovvero componentistica per razzi e motori per elicotteri. Se ciò fosse vero, potrebbe costituire un importante strumento nelle mani di Kiev così come per Mosca, il gas da cui l’Ucraina è dipendente. In entrambi i casi bisognerebbe trovare un’alternativa… Per la precisione, la dipendenza era legata anche alla produzione di motori navali e la Russia ha già trovato l’alternativa. Dall’anno scorso, lo ha annunciato Putin stesso, l’industria militare nazionale sta facendo uno sforzo per produrre in Russia quei componenti dei vari prodotti della difesa che prima venivano realizzati in Ucraina ed entro due o tre anni Mosca prevede di raggiungere l’autosufficienza in questo campo. L’Ucraina, al contrario, non ha questa opportunità e dovrà continuare a dipendere dalla Russia oppure dall’Europa, nel senso che quest’ultima acquista il gas russo e lo rigira all’Ucraina. Questo è già in parte successo negli ultimi tempi per compensare le sue carenze legate al ritardo nei pagamenti in cui è incorsa Kiev. La Russia, insoddisfatta dell’insolvenza ucraina o dei suoi ritardi, bloccava le consegne. Di conseguenza, pare molto difficile che l’Ucraina riesca, al contrario della Russia, a compensare questa sua dipendenza. È meglio dire “la superiorità dei mezzi in dotazione ai separatisti filorussi” o “le pessime condizioni e l’obsolescenza delle armi dell’Esercito ucraino”? Normalmente gli armamenti sono quasi sempre gli stessi, con delle differenze. Ultimamente, ci sono delle prove anche fotografiche, di equipaggiamenti presenti solo in Russia. E questo accade in concomitanza con le ultime offensive. Diciamo che chi va a visitare il fronte vede che a difendere le postazioni ci sono i miliziani del Donbass, anche armati in maniera un po’ raffazzonata, dai quali non ci si può aspettare offensive lampo e vincenti come quelle che ci sono state. È molto probabile che se si parte all’offensiva dalla frontiera russa entrino volontari, più facilmente militari inquadrati in gruppi non ufficialmente riconducibili all’Esercito russo, ma anche soldati russi, perché l’anno scorso vennero catturati dalle forze ucraine dei paracadutisti russi e Mosca si giustificò dicendo che si erano persi. In questo caso, sono arrivati anche armamenti in dotazione solo ai russi con una sofisticazione maggiore che riguarda
l’elettronica, come l’uso di visori notturni e radar campali, sistemi che permettono di avere una consapevolezza delle operazioni sul terreno che gli ucraini non hanno. Quello che gli ucraini pagano è l’avere Forze Armate che per anni non sono state addestrate: i tagli al bilancio rendevano possibile solo lo stipendio e dare da mangiare ai soldati. Di conseguenza, non sono in grado di combattere e spesso, quando sono circondati dai filorussi, non hanno neppure il carburante (un po’ ne è stato fornito dalla Polonia) per ritirarsi. Allora, quando hai delle fanterie inchiodate sul territorio che non hanno il carburante per muoversi e poche munizioni basta solo che l’avversario abbia un po’ di equipaggiamento, mobilità, carburante e qualcuno che sappia come si conducono delle operazioni e il successo lo puoi già conseguire. La mobilità in quelle aree è importante, l’abbiamo visto già nella Seconda guerra mondiale quando i tedeschi circondarono interi reparti russi che ne erano privi. Quali sono, secondo lei, gli sviluppi futuri della crisi? È possibile immaginare un “conflitto congelato”? Io credo di sì, perché Kiev non ha i mezzi per riconquistare il Donbass. Nel momento in cui Putin, se vogliamo metterla sul piano di una partita a poker, sostiene le forze indipendentiste dell’Est, queste partono all’offensiva e riconquistano territori. La Nato che invece a parole promette di sostenere militarmente Kiev, si rivela un bluff sul piano militare. Perché quando i separatisti del Donbass avanzano, manda un po’ di truppe, aerei e navi nei Paesi membri circostanti, un intervento che non ha nessuna influenza sull’andamento del conflitto che si gioca in Ucraina. Nemmeno un soldato ad aiutare Kiev, che la obbliga a negoziare con i russi per evitare di ritrovarseli fino al Dnepr. Quindi, il congelamento della crisi tentando un accordo che stabilisca nuovi confini con un’autonomia regionale molto forte nell’Est, un’Ucraina federale o a una piena indipendenza, lo si vedrà. Credo, però, che se la debolezza di Kiev continuerà a persistere ed emergerà chiaramente che gli europei non vogliono più rischiare un confronto con Mosca, c’è il rischio che qualcuno in Russia o nel Donbass possa pensare di completare l’opera riconquistando quei territori dell’Ucraina che sono tradizionalmente russofoni e spezzare il Paese: da un lato inglobando Kharkiv, a nord, dall’altro, creando un cordone che unisca nel fronte meridionale attraverso Mariupol il Donbass alla Crimea e nell’ipotesi più ampia, portando i confini tra le due Ucraine (filorussa e filoeuropea) al Dnepr. Tuttavia, questi sono scenari, anche militarmente, molto rischiosi. (9’60’’)
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Yemen, tra rivoluzione e terrorismo Ancora una volta la primavera araba porta la guerra in un Paese della Penisola Arabica
Di MATTEO MACUGLIA
Arabia Saudita
Oman
Sana’a
Oceano indiano
Mentre tutti gli occhi sono puntati su Libia, Siria ed Ucraina, un altro fronte è aperto in Medio Oriente: parliamo dello Yemen. Paese molto povero, da sempre interessato da una corruzione molto elevata e da intense lotte tribali, vede la sua unica fortuna in dei modesti giacimenti petroliferi, che gli esperti danno però in esaurimento entro il 2017. I fatti più importanti della sua storia risalgono agli anni recenti in cui, dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano, lo Yemen si divide in due stati a seguito di una deriva comunista nel sud del paese con annessa instaurazione di una repubblica popolare nel 1970. Otto anni dopo, l’instaurazione di un regime nella parte settentrionale traghetterà lo Yemen fin quasi ai giorni nostri, con la riunificazione avvenuta nel non lontano 1990. Luogo prescelto da al-Qaeda per i propri centri di reclutamento e addestramento, è un paese diviso tra una maggioranza sunnita a sud ed una minoranza sciita a nord (si parla di una ripartizione di circa 60 a 40). Il dittatore ‘Ali ‘Abd Allah Saleh lascerà il posto al suo vice, ‘Abd Rabbih Mansur Hadi solo nel 2012, in quello che fin da subito parve come un cambiamento più di facciata che di sostanza per fronteggiare l’ondata di rinnovamento imposta dalla Primavera Araba, con una classe dirigente immutata rispetto al precedente periodo autoritario. Così si spiega la grande corruzione che affligge il Paese. Inizialmente i temi del dibattito per il rinnovamento furono incentrati sulla disastrosa situazione economica vissuta dal Paese, per poi virare sui temi legati ai diritti umani a seguito della reazione molto dura del governo nei confronti dei manifestanti. Del
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YEMEN, TRA RIVOLUZIONE E TERRORISMO
caos derivante da questa frattura all’interno della società si avvantaggeranno gli houthi, una popolazione tribale sciita del nord che da anni lottava per la propria indipendenza con scontri a bassa intensità che hanno raggiunto il proprio apice nel 2004 con l’uccisione del leader del movimento nordista che si contrapponeva all’elite dominante dello Yemen. Nel settembre 2014 i miliziani separatisti del nord hanno lanciato un’offensiva piuttosto pesante contro le truppe governative, sbaragliandone la resistenza. In pochi mesi gli Houthi sono riusciti a conquistare tutte le sedi istituzionali e militari yemenite, fino a costringere il premier eletto da soli due anni ad accettare un governo di unità nazionale, chiedendone poi le dimissioni. Il Paese è ora retto da un consiglio dei miliziani houthi con poteri esecutivi, composto esclusivamente da leader anti-governativi. La situazione è di completo stallo, con il sud che viene finanziato dai Paesi limitrofi per resistere ai ribelli del nord così da alimentare l’instabilità. Quella descritta finora potrebbe sembrare a prima vista una scaramuccia di poco conto in un angolo remoto e di poco interesse del pianeta ma, dopo una prima analisi, capiamo immediatamente che così non è e che le conseguenze possono interessare anche noi. In prima battuta c’è la questione legata al terrorismo. In Yemen si trovano infatti le più grandi basi di addestramento dei terroristi di al-Qaeda, i quali sfruttano la debolezza dei governi centrali e la loro incapacità di monitorare il territorio per insinuarsi all’interno della frattura tra l’islam sciita e quello sunnita, creando così proseliti. È facilmente immaginabile quindi che l’assenza di un governo centrale forte possa far peggiorare ulteriormente la situazione di sicurezza internazionale, con grande pericolo per tutti i Paesi occidentali. Ma anche la nuova minaccia, costituita dall’Is è dietro l’angolo. In una zona così destabi-
“Lo Yemen ricopre una posizione strategica sullo stretto di Bab al-Mandeb, dal quale si può controllare l’ingresso al Mar Rosso”.
lizzata anche il sedicente Califfato, che ricordiamo essere sunnita, potrebbe tentare di aprire i battenti. Lo Yemen consentirebbe di aprire un fronte meridionale contro tutti quegli stati, con la confinante Arabia Saudita in testa, che hanno deciso di contrastare i miliziani di al-Baghdadi. Esiste quindi una possibilità concreta che l’ex stato secessionista del sud, o una sua parte, tenti di entrare nell’orbita degli jihadisti neri nel tentativo di riprendersi la capitale ed il controllo del Paese, o quanto meno l’autonomia dal nord controllato dagli houthi. Ma i problemi non finiscono qui. Uscendo dall’orbita religiosa, ed inserendosi in un ambito più internazionalizzato, è possibile notare fin da subito che lo Yemen ricopre una posizione strategica sullo stretto di Bab al-Mandeb, dal quale si può controllare l’ingresso al Mar Rosso. Da questo snodo marittimo passano tutte le merci che scelgono la via del mare per giungere in Europa tramite un secondo stretto, quello di Suez. Gli interessi economici in gioco si attestano nell’ordine dei miliardi di dollari e colpiscono tutti i Paesi mediterranei tra i quali l’Italia e l’Egitto, con il secondo che trae ottimi guadagni dal commercio internazionale che attraversa le sue terre. Non stupisce quindi che il Paese dei faraoni, oggi guidato dall’ex generale al-Sisi, abbia predisposto una forza d’intervento immediato allo scopo di rispondere con prontezza a un’eventuale chiusura dello stretto meridionale da parte degli houthi. Questa si presenta in ogni caso come un’eventualità piuttosto remota, visto che l’escalation che certamente ne seguirebbe (con la possibilità in questo caso di un intervento anche da parte delle Nazioni Unite), porterebbe rapidamente la tribù sciita alla capitolazione. Ultimi giocatori di una partita già piena di competitors sono gli Stati Uniti e l’Iran. I primi vedono nello Yemen diviso e tribalizzato un rischio legato ai terroristi di al-Qaeda, che il governo precedente si era invece impegnato a osteggiare, anche permettendo i raid americani sul suolo del proprio Paese, oggi molto mal visti dagli houthi. Il paese della repubblica islamica sciita è invece accusato di aver finanziato e armato i ribelli del nord, che oggi controllano le istituzioni yemenite e che rifiutano di allontanarsene, anche forti di un certo consenso da parte della popolazione. La situazione sembra molto intricata e lontana da una soluzione. L’inviato dell’Onu, Jamal Benomar, ha dichiarato che lo Yemen sta “collassando davanti ai nostri occhi”, ma nulla è riuscito a fare per portare le parti al tavolo delle trattative né per promuovere un accordo sulla costituzione di uno stato federale ad ampio respiro che sembra ormai l’unica strada per salvare le sorti del Paese. (5’10’’)
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POLITICA ESTERA
Intervista a Niccolò Locatelli: gli errori di valutazione di fronte alle rivolte del 2011 Niccolò Locatelli, laureato in scienze internazionali e diplomatiche, giornalista di Limes, la più importante rivista italiana di geopolitica, ha accettato di parlare con noi di politica estera per fare un po’ d’ordine nel panorama internazionale fornendoci il suo parere di specialista. Partendo dalla crisi in Yemen visiteremo tutti i teatri caldi del momento come l’Iraq, la Libia, l’Ucraina, fino ad arrivare a casa nostra.
Di MATTEO MACUGLIA In redazione NICOLÒ GIRALDI
Cos’è che l’Europa non capisce dei Paesi arabi e delle meccaniche che agiscono al loro interno? Per decenni i dittatori di luoghi come l’Iraq o la Libia ci andavano bene, fino a un certo punto, ovviamente, perché garantivano un ritorno di risorse energetiche. Successivamente abbiamo ignorato le istanze del cambiamento della primavera araba o, meglio, le abbiamo appoggiate quando si sono movimentate, in effetti quand’era già tardi. Ci siamo mossi solamente perché animati da un’agenda politica, come quando la Francia ha voluto guidare l’offensiva contro Gheddafi. Alla fine abbiamo scoperto che la primavera araba era peggio di prima, proprio perché abbiamo abbandonato quei luoghi a se stessi. Così, oggi, siamo di nuovo terrorizzati dall’Islam o dal nemico di turno. Mi sento di dire che abbiamo derubricato il problema, poiché il nemico da combattere era un altro. Tra i tanti punti caldi in Medio Oriente c’è anche lo Yemen. La comunità internazionale farebbe GENIUS PEOPLE MAGAZINE
meglio a prendere atto dell’ascesa al potere degli houithi o può esserci ancora spazio per ulteriori colpi di scena? Vorrei dire che quando parliamo di comunità internazionale rischiamo di essere fuorvianti, perché pensiamo spesso che dietro a questo ci sia una convergenza di valori comuni e così non è. Diciamo pure che li abbiamo dimenticati o non ricordiamo cosa significhino veramente. Detto questo, lo Yemen è uno dei tanti casi di guerra fredda per interposto soggetto, cioè tra Arabia Saudita ed Iran. Gli houithi sono appoggiati dall’Iran, è una realtà in divenire, viste anche le lotte intestine del radicalismo islamista. La situazione yemenita rischia di destabilizzare tutta l’area circostante, dalla vicina Arabia Saudita alla Somalia, che dall’altro lato del mare sembra sempre più punto di riferimento per il jihadismo di matrice islamico-africana. Ci sono a dire il vero moltissimi punti neri a partire dal sud del Sudan. Tuttavia non pos34
INTERVISTA A NICCOLÒ LOCATELLI
siamo guardarla da un punto di vista solamente interno. Rischia di essere una guerra intestina, soprattutto quando degli attentati colpiscono le popolazioni civili. Credo che bisognerà aspettare l’accordo sul nucleare iraniano e capire il ruolo che gli Usa daranno a Teheran nell’area. Africa e terrorismo sono tra l’altro due temi particolarmente caldi per l’Europa e soprattutto per l’Italia, che si trova a far fronte in prima linea all’emergenza degli sbarchi e ai rischi ad essi connessi in termini di sicurezza. Il Governo italiano minimizza tramite il Ministro degli Interni mentre dall’agenzia Frontex arrivano messaggi più possibilisti riguardo al rischio di infiltrati tra le fila dei migranti, in particolar modo valutando la prossima ondata migratoria stimata tra i 500mila ed il milione di sbarchi; l’Italia sta sbagliando atteggiamento? Premesso che i governi le informative sulla sicurezza e sui dati sensibili le tengono per sé, e non saremo mai in grado di ottenerle in anticipo, credo che non ci sia una minaccia diretta proprio per il fatto che i migranti solo le persone più soggette a controlli quando sbarcano. Diciamo pure che probabilmente è più facile per un terrorista entrare nel nostro Paese con un volo regolare di linea e rimanere in Italia oltre la data di scadenza del visto. C’è poi un ultimo dato, il che tuttavia è forse quello più significativo: gli attentati compiuti sul suolo europeo sono stati realizzati da cittadini europei, nati e cresciuti in Occidente. A proposito dello Stato Islamico, ci spiega qual è la differenza tra il jihadismo promosso dal califfato nero e quello, se vogliamo più radicato nel tempo, di al-Quaida? Come possono coesistere? Partiamo da un concetto base:
il nemico è diverso, gli obiettivi pure. Gli Stati Uniti sono stati un obiettivo a lungo termine, per il semplice fatto che si voleva, a tutti i costi, escludere la presenza statunitense dall’area di riferimento. Il Califfato propone invece uno stato alternativo a quelli esistenti, dove dovrebbero andare a vivere tutti i musulmani. Crisi Libica. Prospettive e criticità per l’accordo che la comunità internazionale sta cercando di promuovere in questi giorni? Trovare un accordo tra i due parlamenti, quello di Tripoli e quello di Tobruk sembra sia difficile, visto anche che ci troviamo di fronte a due coalizioni abbastanza lasche e
Non si guarda troppo al campo, a ciò che sta accadendo. Putin ha reagito con forza, al Governo democraticamente eletto di Viktor Yanukovich, per il semplice fatto che si stava assistendo ad una prospettiva di entrata nella sfera di influenza Nato ed europea di Kiev. Putin ha ritenuto necessario intervenire, visto il fatto che il popolo russo ha una forte presenza culturale e storica in Ucraina. Sembra tuttavia che questa guerra stia conducendo alla creazione di una sfera cuscinetto, per così dire. La via di uscita sembrerebbe quella per la quale Putin chieda all’Ucraina una garanzia di non entrare in quella sfera di influenza. Da dire, infine, che però la Nato e l’Unione Europea
“Probabilmente è più facile per un terrorista entrare nel nostro Paese con un volo regolare di linea e rimanere in Italia oltre la data di scadenza del visto”. che sul campo non controllano le criticità. Credo che però un accordo sia l’unica soluzione al momento percorribile. Un intervento militare in Libia rischia di essere suicida, vuoi per la mancanza di chiarezza negli obiettivi, vuoi per un possibile coinvolgimento di lungo e difficile periodo, vuoi perché non sarebbe molto diverso da scenari già visti.
ad oggi non sembrano contenti di questa soluzione. Inglobare l’Ucraina nella Nato sarebbe decisamente suicida.
Allontaniamoci, si fa per dire, dalle vicende di casa nostra e andiamo in Ucraina: i patti del Minsk-bis sono stati rispettati? Che partita sta giocando la Russia di Putin? La guerra in Ucraina è una guerra che gli altri stati, le grandi potenze, decidono che debba andare così.
Quale pensa che sia il tema di politica internazionale più sottovalutato nel nostro paese e perché? Diciamo pure che ci muoviamo per ossessioni. L’Iraq prima, poi la Libia, poi l’Ucraina. Così facendo rischiamo di dare risposte sbagliate ai problemi, poiché trascuriamo fenomeni ed altri processi in corso, magari meno clamorosi, ma notevolmente impattanti come l’ascesa vertiginosa della Cina, la sua presenza in Africa e così via, in una sottovalutazione abbastanza pericolosa. (5’20’’)
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SPECIALE GIORNALISMO
Mario Adinolfi: giornalismo e falsi miti di progresso Giornalista, politico, blogger, Mario Adinolfi non ha mai fatto mistero delle sue posizioni ultracattoliche che da più parti gli valgono il marchio di crociato, oscurantista e guerrasantista. Da parte sua, Adinolfi porta avanti la sua battaglia contro quelli che chiama “falsi miti di progersso” con piglio provocatorio e frontale. Ultima fatica, la fondazione de La Croce, quotidiano cartaceo e organo ufficiale dell’associazione Voglio la mamma.
Di FRANCESCO CHERT
Intervista rilasciata il 6 marzo 2015
Lei in rete funziona benissimo, sia per i suoi argomenti, che suscitano immancabilmente polemiche e dibattiti, sia per il modo in cui lo fa. Cosa l’ha spinta verso la carta stampata, tra l’altro in un momento di crisi per il giornalismo tradizionale? Non ho mai capito granché il concetto del “funzionare”. Io semplicemente dico quello che penso in modo piuttosto diretto, lo scrivo, ne dibatto. In tutti gli spazi in cui mi è consentito, non solo in televisione o sul web, in radio o sul giornale. Lo faccio anche a cena tra amici. Non penso a distinzioni reali tra giornalismo “tradizionale” e altre forme di comunicazione. Semplicemente, o si ha qualcosa da dire, o non la si ha. Io ho qualcosa da dire. Credo si percepisca. A volte sembra che, nel chiasso indistinto della rete e della televisione, si sia costretti ad alzare i toni. Lei è così di suo o cerca di farsi spazio attraverso il suo personaggio? Non mi pare semplicemente di essere una persona che alza i toni. Dico le cose con nettezza, ma cerco di evitare risse stru-
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mentali, rifiuto tantissimi inviti a dibattiti televisivi in cui so che l’unica finalità è provocare lo scontro. Non ho un personaggio. Sono Mario Adinolfi, con pregi e difetti, nella vita personale e in quella pubblica. Per lei i falsi miti di progresso sono matrimonio omosessuale, aborto, eutanasia infantile, diagnosi prenatale e deriva eugenetica, dolce morte, omogenitorialità, utero in affitto, transessualità. Da chi sarebbero costruiti e diffusi, questi miti? Da un sistema mediatico e culturale, innervato da forti interessi economici e politici, portatore di una visione antropologica che vuole trasformare le persone in cose. E le persone fallate in cose eliminabili. Non lo dico io, lo dice Papa Francesco che insiste sulla viltà di una società dell’efficienza che ha prodotto una cultura dello scarto. In cui la persona umana malata, anziana, in qualche modo “fallata”, deve essere scartata, eliminata. Il magistero di Papa Francesco è illuminante sulla contemporaneità.
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INTERVISTA A MARIO ADINOLFI
“Mi sono battuto tutta la vita a sostegno dei soggetti più deboli, del precariato soprattutto esistenziale della mia generazione, dei trenta milioni di italiani nati dopo il 1970 che sono stati devastati dall’insipienza e dall’ingordigia delle generazioni che che li hanno preceduti e ora hanno lasciato solo debiti e disastri anche etici e intellettuali”.
In cosa sta il vero progresso, secondo lei? E non parlo di difesa o conservazione di qualcosa. Il vero progresso è condurre i soggetti più deboli, gli scartati per restare a Papa Francesco, verso una condizione di uguaglianza e piena dignità riconosciuta da tutto il consesso umano. Il soggetto più debole in assoluto oggi è il bambino. Il primo progresso che la contemporaneità deve compiere è tutelare il bambino, tutelare i suoi diritti dal concepimento al diritto di avere una mamma e un papà, che viene negato da ideologie regressiste che vogliono creare legioni di orfani di madre o di padre. Gli altri soggetti deboli da tutelare per chi si considera progressista sono gli anziani e i malati. Poi le donne, di cui va tutelata la maternità e impedite le varie forme di riduzioni in schiavitù, dalla prostituzione alle pratiche di utero in affitto. Insomma, c’è molto da fare verso un pieno progresso della società contemporanea. Quali obiettivi si prefigge con la Croce? Non c’è il rischio che a leggere il quoti-
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diano sia soprattutto chi già la pensa come lei? La Croce è un quotidiano che ha molti lettori giovani e giovanissimi, d’altronde è un giornale nato sui social network e dibattuto ogni giorno da decine di migliaia di persone proprio sui social. Senza La Croce molti non comprerebbero nessun giornale, non andrebbero in edicola. Ci legge chi ha bisogno di argomentazioni chiare e notizie sempre aggiornate rispetto ai temi essenziali che ci interessano: la nascita, l’amore, la morte. E le tremende leggi che vogliono occupare questi ambiti trasformando ciò che non è in ciò che è. Quale spazio ha la componente illuminista nella sua idea di Europa? Sapete bene che il primo numero de La Croce si è aperto con un richiamo diretto ed esplicito fin nella titolazione al discorso di Ratisbona di Papa Benedetto XVI. E anche noi abbiamo citato esplicitamente l’illuminismo, da tenere però dentro la forza del messaggio cristiano. Ragione e fede marciano insieme.
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SPECIALE GIORNALISMO
“I ragazzi si sentano liberi, non hanno nulla da imparare dal giornalismo italiano contemporaneo. Forse l’unico maestro sono io, ho indicato una strada diversa, montanelliana, di totale autonomia dai condizionamenti esterni, di una libertà che atterrisce e spinge all’insulto e alla denigrazione chi così libero non è”. Papa Francesco farà mai un discorso di Ratisbona? Francesco porta avanti il discorso di Benedetto, con le sue peculiarità. Sull’Europa soffiano venti di crisi, paura e guerra. Da giornalista e da cattolico, qual è il suo atteggiamento di fronte a scenari come quelli di Grecia, Ucraina e Stato Islamico? Quali sono, secondo lei, gli errori da non ricommettere? Sono molto preoccupato dal 18 agosto 2014, da quando Papa Francesco ha parlato di “terza guerra mondiale combattuta a pezzi, a capitoli”. Mi pare davvero che sia così, siamo dentro un quadro bellico globale e l’errore da non ricommettere è pensare che l’unica via di soluzione ai problemi sia la guerra. Esiste un islam buono? L’islam ha bisogno di una rivoluzione religiosa, non politica. Lo si sta capendo bene in Egitto, lo si comincia a teorizzare: aveva davvero ragione Benedetto a Ratisbona nel 2006. Lo insultarono, ma aveva colto pienamente nel segno. C’è ancora spazio per l’approfondimento e per la figura dell’intellettuale, nell’era digitale? Assolutamente sì, anzi lo spazio si è dilatato. I più giovani possono prendere esempio dalla mia storia: un blogger che all’alba dell’era digitale ha aperto un piccolissimo sito di elaborazione di personali pensieri e riflessioni su me
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stesso e sull’attualità, che ha finito per diventare parlamentare e direttore di quotidiano, scrittore e protagonista del dibattito pubblico. Tutto è cominciato con un blog. Bisogna avere qualcosa da dire e non avere paura di farsi dei nemici. La rete può essere anche terribile, ti massacra, è una quotidiana prova del fuoco. Ma forgia per questo gli strumenti intellettuali che servono a praticare un mestiere del genere. Chi sono oggi i maestri del giornalismo? Mi fa qualche nome? Non vedo grandi maestri in giro. Da ragazzo amai la lezione di assoluta libertà di Indro Montanelli, il suo essere davvero controcorrente. Ora il giornalismo italiano è organizzato in clan e cosche. No, nessun maestro. I ragazzi si sentano liberi, non hanno nulla da imparare dal giornalismo italiano contemporaneo. Forse l’unico maestro sono io, ho indicato una strada diversa, montanelliana, di totale autonomia dai condizionamenti esterni, di una libertà che atterrisce e spinge all’insulto e alla denigrazione chi così libero non è. È poco elegante dirlo, ma è così: un giovane impari da me. Mi dice qualcosa di lei che ritiene di sinistra? Mi sono battuto tutta la vita a sostegno dei soggetti più deboli, del precariato soprattutto esistenziale della mia generazione, dei trenta milioni di italiani nati dopo il 1970 che sono stati devastati dall’insipienza e dall’ingordigia delle generazioni che che li hanno preceduti e ora hanno lasciato solo debiti e disastri anche etici e intellettuali. Mi batto per i bambini che rischiano di non nascere, per quelli malati spazzati via dall’eugenetica abortista, per le donne in condizioni di bisogno che i ricchi si comprano per far partorire bambini che poi strappano al loro seno, per gli anziani malati che una società efficientista vuole sopprimere con la nuova ideologia dell’eutanasia. Mi batto per i senza voce da tutta la vita e per tutta la vita lo farò. Chi vuole mi piazzi a destra o a sinistra, tutto sommato non me ne frega niente. Io so chi sono. (6’15’’)
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SPECIALE GIORNALISMO
Maurizio Belpietro: conversazione con il “cattivo” del giornalismo italiano Di FRANCESCO CHERT
Confermando la meritata fama di mastino del giornalismo, Maurizio Belpietro, direttore di Libero, non le manda a dire. E ne ha per tutti, per i colleghi giornalisti, per i politici di sinistra, per giudici e magistrati. Uno sguardo sul presente di un’Italia «che ha paura del futuro», «un’Italia che non ha il coraggio di voltare pagina», sospesa tra l’infatuazione riformista del momento e la tendenza culturale alla conservazione, tra le garanzie dello stato di diritto e il tintinnar di manette, tra Rivoluzione e Vandea, tra buoni e cattivi. E Belpietro, nel suo ruolo di cattivo, sta perfettamente a suo agio.
Com’è cambiato il mestiere del giornalista da quando lei ha iniziato a scrivere? Io ho cominciato che c’era ancora il piombo, i giornali venivano ancora composti in maniera quasi artigianale, oggi non e più così, è tutto molto più veloce, perché intanto si chiude con tempi diversi, ma soprattutto si deve fare i conti con delle fonti d’informazione che sono diverse e degli strumenti che diffondono notizie che son diversi. Quando ho cominciato io non c’era internet, non c’erano i siti, non c’erano gli smartphone, non c’era quella concorrenza che oggi conosciamo, ma non c’erano nemmeno così tante trasmissioni televisive di approfondimento e così tante edizioni dei telegiornali. Non c’era Mediaset. Non c’erano neanche le radio libere. Quindi, l’unica fonte di informazione era il quotidiano oppure radio e televisione, ma su fatti nazionali, sui fatti locali o comunque non degni di essere riportati in un telegiornale o in un radiogiornale c’era soltanto la carta stampata. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Nell’era del digitale c’è ancora spazio per l’approfondimento? Secondo me ne esiste di più: nel senso che paradossalmente nell’era del digitale tu hai delle informazioni che sono molto veloci e che ti arrivano rapidamente e però non hai l’approfondimento. Faccio un esempio: quando ho iniziato esistevano i quotidiani del pomeriggio. I quotidiani del pomeriggio avevano la funzione di riempire un vuoto informativo nel senso che i quotidiani uscivano la mattina con le notizie del giorno prima, sostanzialmente, e quindi il quotidiano del pomeriggio cercava di colmare la lacuna. Erano quotidiani molto efficaci da un certo punto di vista ma anche con una capacità di approfondimento assai limitata tanto è vero che gli articoli erano molto ma molto brevi, davano la notizia punto e basta e ai quotidiani toccava approfondirla. Ecco, secondo me internet ha un po’ sostituito la funzione dei quotidiani del pomeriggio, che i lavoratori che uscivano alle cinque dal luogo di lavoro 42
INTERVISTA A MAURIZIO BELPIETRO
nei confronti del Governo. Secondo lei il giornalismo può essere filogovernativo senza rinunciare alla sua vocazione di cane da guardia della democrazia o deve per forza mantenere una diffidenza a priori nei confronti del potere? Secondo me non deve avere una contrarietà a priori perché i pregiudizi son sempre sbagliati. Certo, quando vedo l’asservimento della stampa, dei mezzi di informazione nei confronti di Renzi oppure anche, nel passato, di Monti, lo trovo imbarazzante: perché si è passati da un pregiudizio contro Berlusconi a un pregiudizio invece a favore a prescindere di Renzi o a favore di Monti.
prendevano per essere informati e oggi tu hai il telefonino che però ti dà l’informazione base: quando devi sapere realmente, nel dettaglio, le faccende o come sono andati certi fatti, hai bisogno di un’informazione più approfondita, a volte di un’inchiesta, a volte di un’opinione o di un’interpretazione di quello che succede. In questa pagina: Maurizio Belpietro. Foto Archivio Libero Quotidiano.
Oggi, soprattutto dopo la conquista di Palazzo Chigi da parte di Renzi, assistiamo ad un giornalismo molto docile NUMERO 02
Quali sono il suo giudizio e la sua previsione sul processo di riforme inaugurato dall’Esecutivo Renzi? Renzi ha sicuramente un merito: io non sono tra i sostenitori e cantori di Renzi, ma bisogna riconoscere che ha lo straordinario merito di aver deciso di fare qualche cosa. Le riforme le ha varate. Funzioneranno? Secondo me non del tutto. Secondo me sono riforme fatte in maniera un po’ frettolosa e qualche volta forse anche controproducenti, soprattutto perché consegnano nelle mani di una sola persona troppe decisioni e quindi potremmo anche scoprire che molte di quelle decisioni non vanno nella direzione di modernizzazione del Paese. Ciò detto, almeno sta facendo qualche cosa, quindi almeno si vede un risultato: questo è il Paese in cui si sono fatte non so quante commissioni bicamerali per discutere delle riforme ma nessuna le ha tradotte in pratica e stiamo ancora a discutere del bicameralismo perfetto quando forse serviva una costruzione costituzionale molto più dinamica e più adeguata ai tempi. Quindi tutto sommato ben venga anche questa decisione di Renzi di fare qualche cosa. Quella di Renzi, soprattutto dopo l’elezione di Mattarella al Colle, è davvero la Terza Repubblica? Se sì, sembra molto simile alla prima. No, io non penso che sia molto simile alla prima. È vero che ai vertici della Repubblica c’è un signore che sta in Parlamento dagli anni Ottanta e che comunque viene da una famiglia politica che esiste almeno dagli 43
SPECIALE GIORNALISMO
anni Cinquanta, quindi, da questo punto i vista ci sarebbe una continuità perché il padre di Sergio Mattarella era Bernardo Mattarella, ministro a sua volta. Ma al di là di questo aspetto penso che dal punto di vista delle modifiche che si stanno approvando in fondo ci sia un passaggio ulteriore, cioè non torneremo più ai partiti così come li abbiamo visti. Paradossalmente Renzi è, ancora più di Berlusconi, la svolta dal punto di vista dei partiti personali, dei partiti fatti a immagine e somiglianza del proprio leader, cioè il comitato centrale e la segretaria. La segreteria del Pd oramai ha una parvenza di segreteria, non esiste più, perché Renzi va in segreteria, annuncia quello che loro devono votare e quelli votano. Non so se vi ricordate quando annunciò che avrebbe sfiduciato Letta e lo avrebbe costretto alle dimissioni: lo decise lui, si presentò in Segreteria e annunciò che voleva cambiare il Presidente del Consiglio con un’inedita formula, perché le crisi in genere non si fanno così, dovrebbero essere per lo meno crisi parlamentari, passare attraverso un voto. Invece lui andò tranquillo e sereno in una riunione di partito dicendo che avrebbe mandato a casa un presidente eletto per sostituirlo con sé stesso che non è mai stato eletto. Letta era almeno stato eletto in Parlamento mentre Renzi non lo è neppure. Un cambiamento totale di tutte le procedure, di tutti i riti di cui eravamo abituati in settant’anni di Repubblica. In cosa ha fallito la cosiddetta Seconda Repubblica, di cui Berlusconi è stato uno dei protagonisti indiscussi? Un fallimento soprattutto economico, nel senso che, a parte tutte le riforme che non si riuscivano a varare, tutti si dimenticano un piccolo dettaglio: nel 1994, quando nasce la Seconda Repubblica, Berlusconi pone al centro del dibattito politico la riforma delle pensioni e su questa riforma è caduto. Perché è vero che poi il colpo di grazia venne dato dall’avviso di garanzia a Napoli, ma in realtà l’argomento che mette in fibrillazione la maggioranza di Berlusconi è questo. Il sindacato si schiera contro, la sinistra parla di lesa maestà. Risultato: arriviamo alla riforma delle pensioni con un ritardo di vent’anni e GENIUS PEOPLE MAGAZINE
già questo dà la misura di quello che non funziona in questo Paese. Poi c’è l’articolo 18: Berlusconi viene eletto di nuovo nel 2001 e la prima mossa che fa è la riforma del lavoro. Succede il finimondo, Cofferati si porta in piazza tre milioni di persone, o dice di averne portati tre milioni, viene bloccata la riforma, non si modernizza il mercato del lavoro, lo si tiene congelato come sappiamo, dopodiché, con un ritardo di quasi quindici anni, la riforma arriva. Praticamente le stesse cose che Berlusconi aveva suggerito. Sempre nel 2006, Berlusconi riesce a far passare la riforma che abolisce il Senato eletto e che cosa diceva sostanzialmente quella riforma che è molto simile a quella varata oggi? Diceva semplicemente che sarebbe entrata in vigore alla legislatura successiva, quindi nel 2008, visto che si andò a votare, quando venne rieletto Berlusconi; noi avremmo già potuto avere un Senato ridotto. Invece siamo nel 2015 e quel Senato ridotto - per opposizione della sinistra che fece un referendum conservativo, come scritto nella Costituzione, nell’idea che si sarebbe scardinato l’impianto costituzionale - è ancora in fase di discussione. Quindi ho fatto un elenco di tutte le cose che non hanno funzionato e che in vent’anni sono state rese impossibili dall’opposizione della sinistra. Oggi Renzi, avendo smantellato gran parte di quell’apparato ideologico, fa passare le cose che per vent’anni o quindici la sinistra ha fermato. Le fa passare bene? Le fa passare male? Comunque le fa passare. Vent’anni di ritardo. Quanto è costato al Paese tutto ciò? Quanto è costato in termini di debito pubblico, di mancata crescita, di disoccupazione? Questo è tutto da addebitare dalla prima all’ultima riga alla sinistra, che si è opposta per vent’anni alle leggi di Berlusconi. Come mai, a suo giudizio, la destra ha sempre fatto fatica ad imporre i propri intellettuali, che pure non sono mancati e non mancano, nel dibattito culturale italiano? C’entra il retaggio dell’egemonia culturale della sinistra? C’entra il complesso di superiorità della sinistra. Anni fa una rivista dell’Ordine dei giornalisti fece un’inchiesta sull’orientamento politico dei giornalisti italiani. 44
INTERVISTA A MAURIZIO BELPIETRO
“Vedo tanti giovani anche bravi, che hanno voglia di fare, che si danno da fare, però confesso che ormai i giornali son diventati un tempio di conformismo e di conservazione, del resto non poteva essere altrimenti”. E siccome il 75% era di sinistra, si capisce che quelli che sono in minoranza non se la passano tanto bene: nel senso che tutte le volte che sostengono tesi vengono etichettati come servi, mentre quando si leggono degli articoli dove si elogia con tanta saliva il Presidente del Consiglio di sinistra, quella è una libera, autonoma e indipendente presa di posizione del giornalista. Allora, se uno dice, guardate che questo governo di centrodestra sta facendo bene, essendo lui di area politica assimilabile al centrodestra, è un servo, se invece un giornalista di sinistra parla bene del governo di sinistra, anche con lodi sperticate, a volte persino imbarazzanti, persino compromettenti per chi le ha scritte, invece è un signore che ha del coraggio perché ha il coraggio delle proprie opinioni. Allora è il pregiudizio della sinistra progressista che condiziona il nostro mondo, il nostro piccolo mondo di giornalisti. C’è un razzismo culturale che segna le cose: quando leggo, faccio un piccolo esempio, tutti questi che parlano di come bisogna aiutare gli immigrati, di quelli che arrivano, sono gli stessi che scrissero degli editoriali in cui dicevano che invadere la Libia non avrebbe provocato alcunché ma avrebbe consentito di portare la democrazia in quel Paese, non ci sarebbe stato Califfato, non ci sarebbe stata l’invaNUMERO 02
sione dei profughi. Oggi siamo di fronte al Califfato e all’invasione dei profughi e quegli stessi signori, dall’alto della loro supremazia e del loro pregiudizio, ci spiegano ancora una volta che cosa si deve fare. Anziché tacere e vergognarsi per non averne mai azzeccata una nella vita. Dalla rivoluzione e dalla lotta di classe ad oggi, ancora pretendono di insegnarci come funziona questo Paese. Sono la nostra rovina. Come ha cambiato il modo di fare giornalismo l’esperienza di Tangentopoli? L’ha cambiato nel senso che i giornali e le redazioni sono diventati gli uffici stampa delle Procure. Per cui, tutte le volte che una Procura apre un’indagine, i giornali applaudono, i giornalisti si mettono al servizio dell’informazione del magistrato, senza nessuna voglia e capacità di approfondire davvero le accuse. Guardi, ho qui sul tavolo in questo momento il libro di un signore che faceva il manager fino a qualche anno fa quando un bel giorno fu arrestato con l’accusa terribile di essere un delinquente per aver fatto non so quante cose. Bene, il risultato, dopo anni, è che è stato assolto. È rimasto un anno in carcere ed è stato assolto perché contro di lui non c’erano alcuni elementi ma tutti i giornali avevano scritto come se lui e altre persone che erano state coinvolte nella stessa inchiesta fossero un’associazione a delinquere. Nessuno si è vergognato di tutto ciò. Credo di essere stato l’unico giornalista che per primo ha detto: ma scusate ma perché tenete in carcere queste persone? Ma perché se c’è un’accusa di frode non fate i processi invece di mettere le manette? Ecco, noi siamo diventati quelli che applaudono tutte le volte che scattano le manette anziché dirci, sarà davvero così? Cerchiamo di leggere le carte prima di accusare qualcuno e di mettere nero su bianco queste accuse. Non ci capita mai. Non abbiamo imparato niente! Chi sono i maestri del giornalismo oggi? E quali i giovani più promettenti? Mi basterebbe che ci fossero i bidelli del giornalismo, anziché i maestri, io non vedo più né maestri né niente, ho appena descritto una situazione che francamente non fa ritenere ci siano tanti maestri. 45
SPECIALE GIORNALISMO
Qualche rondine che non fa primavera, non la vede? Vedo tanti giovani anche bravi, che hanno voglia di fare, che si danno da fare, però confesso che ormai i giornali son diventati un tempio di conformismo e di conservazione, del resto non poteva essere altrimenti. Ricordiamoci una cosa: i giornalisti sono stati i difensori del passato. Quando nelle redazioni cominciarono a essere introdotte le nuove tecnologie, i giornalisti si schierarono contro e già questo dice che sono contro la modernità, contro il futuro, contro la voglia di cambiare. L’atteggiamento dei cronisti, dei giornalisti, dei colleghi e delle redazioni è sempre stato quello di rifiutare l’innovazione e il cambiamento e quindi si capisce che ancora siano fermi al secolo scorso anche dal punto di vista ideologico, dal punto di vista delle tesi, non hanno mai guardato oltre il proprio naso, hanno sempre cercato di conservare l’esistente. Il risultato è disastroso, perché le condizioni oggi del settore e della carta stampata in particolare sono delle condizioni di grande affanno e difficoltà che certo sono dovuti all’introduzione delle nuove tecnologie ma che i giornalisti non hanno saputo cavalcare.
“È inutile girarci intorno, come fanno alcuni. Qui non siamo di fronte a una cosa che riguarda la libertà di espressione, siamo di fronte a un problema più complesso: è tollerabile, integrabile un certo tipo di islam con la nostra cultura? Secondo me no”. È il cattivo giornalismo che crea un’opinione pubblica immatura o viceversa? Sicuramente l’opinione pubblica non è così immatura come la si descrive, del resto non ci sarebbero stati tanti fenomeni se il cattivo giornalismo avesse potuto condizionare l’opinione pubblica. Cito due esempi, di cui in qualche modo sono stato testimone: il primo riguarda la Lega Nord, che quando fece la sua prima apparizione tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Novanta, fu descritta da tutti i giornali che non capirono questo fenomeno politico importante, che ha segnato un ventennio, e ancora oggi rappresenta un’area di pensiero politico - come una sorta di fenomeno folcloristico, dopodiché abbiamo visto quello che è successo: nel 1992 ci fu la vittoria della Lega Nord, il che vuol dire in sostanza che i giornali non condizionano le idee degli italiani e nemmeno a volontà degli elettori. Lo stesso si è riverificato qualche anno dopo, nel 1994, con Silvio Berlusconi che aveva tutti contro, i talk show, Santoro, che allora imperversava, e con i giornali che scrivevano cose imbarazzanti: ebbene, non ne hanno azzeccata una. Se oggi noi prendessimo qualcuna delle previsioni dei nostri maestri del giornalismo, di quelli che vengono considerati i maestri del giornalismo, ci sbellicheremmo dalle risate. Me ne viene in mente una in cui un signore come Scalfari sosteneva che l’Unione Sovietica ormai aveva sostanzialmente vinto e aveva ottenuto la supremazia sul capitalismo e che i piani quinquennali sarebbero stati formidabili e che avrebbero consentito alla Russia di scavalcare per produzione e capacità tecnologica il mondo occidentale: si è visto com’è andata. L’Italia, nella classifica della libertà di espressione, compare al 73esimo posto, superata da Ungheria, Burkina Faso e Niger. Qual è l’antidoto per questa pericolosa deriva? Questa è un’altra di quelle cose comiche. Se queste classifiche le buttassimo nel cestino sarebbe meglio per tutti perché fa ridere tutto ciò. Ma mi scusi: quand’è uscita questa statistica ho detto, voglio vedere domani mattina le prime pagine dei giornali; ricordo che in passato ci furono titoli su tutti i quotidiani, quando al Governo c’era Berlusconi, e addirittura si fece una trasmissione televisiva con Adriano Celentano, il re degli ignoranti, definizione sua, in cui elencava questa classifica e poi fece apparire il martire della televisione italiana, Michele Santoro, che era talmente martire che percepiva uno stipendio da europarlamentare a Bruxelles, abbastanza cospicuo, da quel che mi risulta, e ci fu un grande scandalo perché 46
INTERVISTA A MAURIZIO BELPIETRO
stavamo al cinquantesimo, cinquantaseiesimo o cinquantaquattresimo posto, non ricordo quale fosse la graduatoria. Dopodiché andiamo al settantatreesimo, superati anche da tutta un’altra serie di Paesi, alcuni dei quali anche ritenuti non propriamente democratici e nessuno dice niente. Addirittura sulle pagine dei giornali, sono andato a verificare, ho trovato in qualche caso delle brevi, in altre neanche quelle: il che la dice lunga sull’onestà del giornalismo italiano. Dopo l’attacco islamista alla redazione di Charlie Hebdo si parla molto di libertà di espressione. Secondo lei esiste un limite oltre il quale anche la satira non deve spingersi? Io penso che il limite debba esserci e non ci debba essere l’insulto anche se si tratta di satira; l’offesa è un’offesa sia che tu la dica sorridendo e cercando di fare una battuta, sia che tu la dica senza il sorriso sulle labbra: sempre di offesa si tratta. Ma qui non siamo di fronte ad un problema di libertà di stampa oppure di libertà di satira, siamo di fronte a un altro tipo di problema, siamo di fronte all’intolleranza religiosa: quando c’è dimezzo l’intolleranza religiosa, il problema non è che magari tu hai rappresentato in maniera offensiva un simbolo religioso, magari hai semplicemente dissentito rispetto a una religione, semplicemente hai detto che non condividi, semplicemente hai deciso di rappresentare l’immagine di Maometto, che di per sé non è un’ingiuria dal nostro punto di vista e sulla base dei principi occidentali di libertà di opinione e di libertà religiosa, ma per qualcuno lo è. Quindi siamo di fronte ad un problema di intolleranza religiosa. È inutile girarci intorno, come fanno alcuni. Qui non siamo di fronte a una cosa che riguarda la libertà di espressione, siamo di fronte a un problema più complesso: è tollerabile, integrabile un certo tipo di islam con la nostra cultura? Secondo me no. È incompatibile. Alcune cose di una determinata religione sono incompatibili. Se oggi noi applicassimo quello che faceva l’Inquisizione, saremmo incompatibili con il mondo moderno. Se oggi fosse accettato che la sposa deve seguire il marito e quando lui muore lei debba essere bruciata viva, questo NUMERO 02
sarebbe incompatibile con i nostri principi di rispetto dei diritti dell’uomo. Allora, vale di più la libertà religiosa o il principio dei diritti dell’uomo? Secondo me vale di più il principio del rispetto dei diritti dell’uomo, quindi o guardiamo in faccia la realtà e quindi badiamo bene che il tema vero non è tanto la libertà di espressione ma questo, oppure non capiremo dove stiamo andando e infatti non lo stiamo comprendendo. Com’è fatta l’Italia che lei vorrebbe? Come la vorrei? La vorrei più moderna, la vorrei meno ancorata al passato, la vorrei meno ostaggio delle ideologie, la vorrei meno rancorosa. È un’Italia incattivita quella che io vedo, è un’Italia che non ha il coraggio di voltare pagina su tutto e anche su vent’anni di storia che ci sono stati, tanto è inutile recriminare. Prendiamo la pagina, giriamola e iniziamo a costruire. È un’Italia che ha paura del futuro, è un’Italia che non sceglie di cambiare università perché bisogna difendere il sistema. È un’Italia conservatrice. Paradossalmente noi che parliamo sempre di sinistra e del progressismo, siamo vittime del conservatorismo della sinistra, che non vuole cambiare. La giustizia non si può cambiare perché l’autonomia dei giudici va preservata. I giudici sbagliano? Bisogna cacciare i giudici che sbagliano, come ovunque bisogna cacciare le persone che non sono capaci di fare il proprio mestiere come i giornalisti, come gli insegnanti. Perché devo tenermi un insegnante che non è capace? Perché non do alle scuole la possibilità di scegliersi gli insegnanti migliori e licenziare i peggiori? O di licenziare quelli di cui ritengono di poter fare a meno? Cioè dobbiamo creare un’evoluzione. Non siamo tutti uguali! L’egualitarismo non esiste, siamo diversi tutti. L’importante è consentire a tutti di avere una chance, poi uno se la gioca: allora uno se è bravo va nella scuola migliore, cerca di insegnare bene e quindi avrà mercato. Se non è bravo, andrà in un’altra scuola. E chi ha la possibilità di andare in quella migliore, ci andrà, per imparare e per diventare classe dirigente. Noi questa cosa non la vogliamo accettare, vogliamo dire che siamo tutti uguali e non è vero. È una legge contro natura. (17’20’’) 47
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Tommaso Cerno: giornalismo e politica all’epoca del web Giornalista e scrittore, Tommaso Cerno, nuovo direttore del Messaggero Veneto, non risparmia punti di vista originali e affilati sulla classe politica e su certo giornalismo che pare aver perso la sua vocazione per la difesa dei più deboli per diventare megafono del potere.
Di FRANCESCO LA BELLA e FRANCESCO CHERT
Nella pagina a fianco: Tommaso Cerno. Foto: Andrea Lasorte.
Qual è stata la logica dietro la scelta di tornare a Udine e di accettare la direzione del Messaggero Veneto? Più che una mia scelta è stata una richiesta dell’editore. Mi ha chiesto di tornare a Udine a dirigere il Messaggero Veneto perché riteneva che potessi evidentemente mettere assieme la mia esperienza giornalistica fatta in Italia con la mia origine e conoscenza del territorio. Ma questo dovrebbe chiederlo all’ingegner De Benedetti. Quali differenze ci sono nel modo di fare giornalismo tra una testata nazionale e una locale? Intanto non esistono testate nazionali, perché in Italia il giornale più grande vende 240 mila copie su 60 milioni di abitanti. Direi che è superato il concetto di giornale nazionale e giornale non nazionale. I giornali rappresentano tutti un gruppo di lettori che sono GENIUS PEOPLE MAGAZINE
territorialmente distribuiti o dal punto di vista culturale si sentono in un territorio giornalistico. Ci sono giornali come il nostro che vendono in un territorio fisico, ci sono giornali come il Fatto Quotidiano che vendono in un territorio mentale. A volte il territorio fisico è più grande del loro territorio mentale: quindi sono tante espressioni e racconti della realtà italiana attraverso punti di vista che messi insieme fanno l’informazione. Quindi c’è un unico giornale nazionale che è la somma dei giornalismi italiani. Il Messaggero Veneto è uno dei giornalismi italiani. I lettori del Messaggero Veneto sembrano molto vivaci nei commenti a certi argomenti, anche con toni particolarmente accesi. Il giornalismo, soprattutto sui temi più delicati, deve avere un ruolo più di eccitante o di calmante nei 48
INTERVISTA A TOMMASO CERNO
confronti dei mal di pancia della gente? In un Paese che ha paura delle parole vorrebbero che il giornalismo non raccontasse i fatti. Dopodiché i fatti parlano da soli, quindi, se il giornalismo li racconta e la gente li fa propri, significa che sono avvenuti davvero. Se ci si immagina una stampa che pettina le notizie, dovete tornare al 1933 e occuparvi della stampa fascista che faceva esattamente questo e non mi pare abbia prodotto un Paese democratico né un Paese migliore di quello che può produrre un’informazione oggi, che viene criticata solo dai soggetti che se ne sentono vittime ma che sono colpevoli di aver prodotto inefficienze, sprechi, disastri in un’Italia che chiede buon governo e che ha anche, rispetto ad altri Stati, pure un po’ più di pazienza ed è più di manica larga. Quindi dare la colpa ai giornali per ciò che raccontano
è vergognoso, significa guardare il dito anziché la luna. In un Paese dove arrestano tutti, bisogna che i giornali scrivano chi hanno arrestato. Se ci fosse un Paese dove non arrestano la gente, lei non troverebbe nessuna campagna contro la corruzione. Se un quarto del Paese vota Beppe Grillo al Parlamento, c’è da domandarsi quanto schifo facciano quelli che non sono stati votati. Non c’è da domandarsi se sono i giornali che hanno fomentato il populismo. Poi, dare del fesso al popolo, è quello che fanno i dittatori. Siccome la stampa è democratica per definizione, non può certo farlo lei. Con l’avvento dell’era renziana il giornalismo italiano, salvo rari casi, sembra avere avuto una virata in senso filogovernativo. Come dovrebbe comportarsi il giornalismo nei confronti del potere? Il giornalismo è fatto per raccon-
tare le cose importanti e quindi rispetto al potere deve mantenere un atteggiamento critico nel senso che deve andare a scavare dietro a quello che i Governi, i ministri e i Presidenti del Consiglio fanno: compito dei giornali non è fare da megafono a chi ha già il potere ma cercare di capire se questo potere segue dei paletti precisi e non sconfina in ambiti che non sono suoi. Quindi è chiaro che dare voce a chi comanda e mettere il tappo a chi non comanda non è buon giornalismo. Il giornalista sta sempre dalla parte del debole e il debole è il popolo, che in qualche modo deve sapere davvero cosa avviene e per poterlo difendere si deve andare a scavare dieci volte di più dietro a Renzi di quanto scavi dietro all’opposizione perché è il Governo che decide e ha le leve per dominare, gli altri alla fine contestano. Quindi prendersela con l’opposizione, come in Italia capita
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molto spesso, è un atteggiamento antigiornalistico. Dopodiché lei parla di era Renzi e questo le fa capire quanta voglia di normalità in un Paese. Se uno che governa da un anno è già considerato un’era, lei si figuri Berlusconi, dovremmo chiamarlo pleistocene. Parlando di politica, come vede la ventata riformista portata dal Governo Renzi? Intanto diciamo che per capire Renzi bisogna capire quelli che non l’hanno capito; durante la campagna per le primarie contro Bersani, il Pd che inseguiva da anni la vittoria e che aveva Berlusconi condannato, processato, sputtanato e tutto quello che vuole, è riuscito a perdere le elezioni perché non ha capito quello che succedeva a casa propria. Quindi il fatto che chi non capisce ciò che avviene nel suo partito non governi è una buona notizia. Detto questo, ci sono due Renzi: il Renzi Davide, cioè il Renzi che ha innescato un meccanismo di riforma dentro l’elettore, mentalmente nel suo partito, prima ancora che nel Governo, e il Renzi Golia cioè quello che con la forza del dominio della segreteria del Pd e del l’incarico di Presidente del Consiglio cerca di attuare per il Paese quella teoria riformista che nasceva dal piccolo che sfida il gigante e quindi che lo rendeva simpatico. È chiaro che questo processo è da grande statista e quindi servirà del tempo per capire se Renzi, che è un buon comunicatore e un discreto segretario di partito, riuscirà ad attuare su ampia scala il suo programma di cambiamento. Certamente si intuisce qual è il punto di vista di Renzi sulle riforme. Renzi ritiene, come un po’ Einstein nelle sue teorie, che la velocità con cui si compie una trasformazione in un Paese dove non cambia mai niente modifichi la percezione generale, cioè la velocità GENIUS PEOPLE MAGAZINE
modifica la massa: la gente vede bella una riforma perché è fatta presto. Questo è un elemento virtuoso di una democrazia moderna, ma bisogna stare attenti che non diventi solo velocità, perché se diventa solo velocità si cade dentro un altro tragico equivoco della democrazia italiana, cioè “buoni propositi, pessime leggi”, che volevano dire una cosa ma finivano per dirne un’altra. Siccome il Paese è aggrovigliato in queste pessime leggi bisogna che Renzi, una volta stabilita la velocità media contemporanea di riforma del Paese, ci metta dentro anche un po’ di massa e in alcuni casi bisogna dire che c’era più velocità che massa. La vicenda dell’assoluzione di Berlusconi, per La Repubblica come per Avvenire, lascia aperto il dato morale. Politica e morale sono conciliabili? La morale della Repubblica e dell’Avvenire non coincidono del tutto, nel senso che la morale dell’Avvenire è cattolica, quindi va chiesta a un vescovo nella sua visione pragmatica, cioè che cosa un uomo deve fare per essere sulla retta via; probabilmente la morale cui fa riferimento Repubblica è più l’etica pubblica che la morale, e cioè l’idea che in Italia bisogna superare, ma non per Berlusconi, il principio per cui se un politico non viola la legge, qualunque cosa faccia è legittima. È un meccanismo invertito, nel senso che la politica non deve solo rispettare la legge, quello è il minimo, deve anche proporre un’etica pubblica che sia specchio per un Paese che in qualche modo cresce. Quindi il giudizio di Repubblica, che uno può condividere o no, riguarda questo principio, che non basta stare dentro l’alveo del codice penale, per essere un buon governante, bisogna stare nell’alveo di una visione della politica come qualche cosa che 50
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mostra un esempio agli altri e non che è border line fino a schivare una condanna. Detto questo, io personalmente non ritengo che l’assoluzione di Berlusconi, così come non sarebbe stata la sua condanna, in questo frangente aggiunga o tolga molto a quello che può essere il giudizio politico che un italiano in questi vent’anni, mettendo insieme tante cose, può essersi fatto di Berlusconi, né di chi lo assolve, né di chi lo condanna. Trovo abbastanza marginale questo ultimo elemento biografico se uno vuole cominciare a dare un giudizio storico-politico dei vent’anni di Berlusconi. Considero irrilevante alla fine questo tipo di valutazione. Come si pone nei confronti di quello che viene definito il giornalismo dal buco serratura o pornogiornlaismo? Il giornalismo per definizione racconta ciò che ha un interesse generale. Entrare nella camera da letto del vicino di casa può avere al massimo un interesse proprio, ma non certo generale. Il problema non è spiare dal buco della serratura le persone, il problema è quali sono i comportamenti di chi ha in mano, attraverso un voto, il destino di milioni di persone e quali sono i comportamenti che rendono pericoloso, sul piano pratico, gestire potere e informazione oltre un certo livello. Dopodiché non esiste nessuna norma in nessun Paese che sia la perfezione, perché non è la legge che stabilisce la qualità dell’informazione. Ci sono Paesi dove il senso del rispetto del prossimo è enorme, Paesi dove l’idea di sporcare con una cicca una strada è considerata qualche cosa di terrificante e Paesi come il nostro dove si seppelliscono rifiuti tossici nei giardini delle scuole. Quindi è l’insieme dell’etica pubblica, delle regole, del rispetto civile che stabilisce se un Paese è moderno dal
punto di vista dell’informazione e non accanirsi sulla fotografia o sulla legge che la vieta perché questo lascia soltanto intendere la prevalenza di interessi particolari in quel momento e gli interessi particolari, in Italia, hanno generato la mafia, le tangenti e le peggiori leggi che siano mai state fatte. Il digitale e i social network rappresentano per il giornalismo più un’opportunità o una minaccia? Rappresentano un’enorme opportunità nel senso che l’informazione non è mai stata così grande come adesso. È chiaro che rispetto a un gruppo editoriale che non si mette in gioco, che non si costringe a cambiare, quest’opportunità può diventare una minaccia. Perché è come l’avvento dei computer: se uno si fissava con le macchine da scrivere, probabilmente falliva. Quindi è chiaro che l’evoluzione della richiesta di informazione e della tecnologia che consente di distribuirla pretende anche un cambiamento nella testa di chi l’informazione la produce. Se vuoi sbattere contro il muro sarà una minaccia. Se ne cogli la grandezza sarà un’opportunità. Ovviamente, come tutti i processi di cambiamento, come il passaggio dall’aristocrazia alla borghesia industriale, come il passaggio delle grandi epoche, il passaggio all’era tecnologica, all’era digitale che azzera le distanze e azzera il tempo necessario per entrare dentro la vita delle persone, costringe i giornalisti a una riforma della propria professione che non hanno mai fatto, dall’invenzione della stampa. E quindi una cosa che sarà molto difficile e molto lenta e certamente non si risolve in pochi minuti.
dantesche come la Divina Commedia dove nessun concetto compiuto ha più di 140 caratteri. Quindi già nel 1300 si era in grado di scrivere un libro come quello che scrisse Dante che ancora oggi è studiato e approfondito nell’idea di non essere riusciti a capirlo fino in fondo, che pure aveva un meccanismo di scrittura contenuto nei 140 caratteri per ogni concetto. Non è la lunghezza di ciò che si dice che ne determina la profondità, ma anzi il taglio, la visione, la forza con cui lo si dice. Quindi credo che anzi evitare lo spreco di parole inutili e di tempo perso a leggerlo possa lasciare più tempo per l’approfondimento. In che condizioni di salute le sembra essere l’opinione pubblica italiana? L’opinione pubblica ha sempre ragione, quindi versa in ottima salute, nel senso che è in grado di trasmettere attraverso il voto quello che pensa nel profondo il Paese. Sta benissimo.
Nell’epoca dei concetti in 140 caratteri c’è ancora spazio per l’approfondimento? Io ho scritto un libro in terzine
Lei si batte da sempre per l’affermazione e la difesa dei diritti civili. Il giornalismo può e deve avere un ruolo pedagogico nella maturazione in un senso o nell’altro dell’opinione pubblica? Non è pedagogia, è trincea di libertà nel senso che il diritto di un singolo individuo debole è una storia da raccontare. In un Paese dove 60 milioni di persone godono tutti degli stessi diritti tranne una, per un direttore di giornale, per un giornalista, per chiunque faccia informazione, è la storia di quel singolo che diventa importante per gli altri 60 milioni e non la retorica dei 60 milioni che spiegano al quell’uno come dovrebbe vivere. Quindi è contenuto nel giornalismo il tema di denunciare i diritti dei deboli; se invece si fa il megafono di chi comanda o di chi i diritti ce li ha già non si fa giornalino ma ufficio
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“È contenuto nel giornalismo il tema di denunciare i diritti dei deboli; se invece si fa il megafono di chi comanda o di chi i diritti ce li ha già non si fa giornalino ma ufficio stampa del ministro”.
all’idea di fondo che si stava sviluppando in Europa di una violenza inaudita nel nome di una cosa che noi non comprendiamo. Se sono serviti a farci capire la pericolosità di quella violenza, mi pare che fosse giusto allora che scrivessero e facessero quello che hanno fatto.
stampa del ministro, del governo o della formazione culturale dominante del momento. Ma quello è antigiornalismo.
Quali sono i Suoi progetti per il futuro? Arrivare a stasera, nel senso che comunque in questo mestiere tu racconti ciò che succede, per cui il mio futuro dipende da ciò che succede, dipende da quello che questo Paese ci fornirà come elemento di riflessione, quindi penso che il mio futuro sia fare il giornalista, che è anche un po’ il mio passato e anche un po’ il mio presente.
A proposito dei fatti di Charlie Hebdo, esiste un limite oltre il quale la satira non deve spingersi? Charlie Hebdo era una cosa che in Italia conoscevano credo al massimo duecento persone. Quindi il fatto che siano morti ha consentito agli italiani di conoscere una satira che prima non conoscevano. Se lei la vede in questi termini verrebbe quasi da dire che dentro quella morte l’Italia ci ha guadagnato, cioè ci ha guadagnato l’idea di essere più libera in quello che può giudicare. Nessuno oggi avrebbe criticato Charlie Hebdo per i contenuti in Italia, perché nessuno l’aveva letto. Quindi come in tutte le cose, il tema non è dove si può arrivare, il tema è che quando tu arrivi in un dettaglio così critico e così profondo, sei appannaggio di pochi e loro erano tra i pochi che facevano una battaglia culturale rivolta a classi dirigenti e intellettuali. Sono diventati popolari perché sono morti. E quindi sono dei martiri di una libertà di stampa che non stava facendo danno a nessuno, tranne
Che consiglio darebbe ai giovani giornalisti? Il mio consiglio ai giovani giornalisti è credere che sotto le lobby che ogni professione a un certo punto manifesta, sotto il tentativo di mettere i piccoli contro i grandi, come se esistessero piccoli e grandi, contro il tentativo di creare gruppi di contrapposti, il giornalismo è uno, rimane quello, è legato alla notizia che racconti e qualunque giornalista, giovane o vecchio, famoso o sconosciuto, esperto o non esperto, che incontri una notizia, la riconosca e la sappia raccontare, è un grandissimo giornalista. Quindi che continuino, se vogliono continuare a fare questo lavoro, a parlare solo con le loro notizie, con i loro fatti e che se ne freghino di tutti quei meccanismi che stanno intorno invece alla cerimoniosità del giornalismo, allo stabilire che qualcuno è più bravo, qualcuno è meno bravo, sono tutte sciocchezze. Il giornalismo parla attraverso ciò che racconta. Quindi loro pensino solo a raccontare. (13’15’’)
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Tommaso Labate: avere trentacinque anni in via Solferino In un momento storico particolarmente difficile, in cui i giovani cercano di trovare il proprio posto nel mondo, decidiamo di incontrare un giovane e brillante giornalista del Corriere della Sera per parlare del suo lavoro e raccogliere consigli. Orgoglioso delle sue più volte citate origini calabresi e una significativa carriera alle spalle, vanta al suo attivo una Vespa e un amore spropositato per l’Inter, gran protagonista dei suoi cinguettii.
Di ANNA MIYKOVA
Sul suo blog ho letto che inizia a scrivere a 22 anni. Cos’è cambiato nel mestiere del giornalista da allora? Innanzitutto le possibilità di accesso. La crisi del comparto editoria, che secondo me è tutt’altro che irreversibile, rende difficilissimo l’accesso anche ai più bravi. Serve un’inversione di tendenza. E, ne sono certo, arriverà. Giornalista e commentatore politico. È la politica che ha scelto lei o è lei che ha scelto la politica? Entrambe le cose. Diciamo che sono troppo di parte per occuparmi di calcio. Con la politica, invece, ho maturato un certo distacco.
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Parlare di politica è un po’ come passare su un campo minato: c’è il rischio di pestare l’ordigno e saltare per aria. A lei è mai successo di non andare a genio a qualcuno? Tantissime volte. Soprattutto a qualche vecchio leader del centrosinistra. Nella classifica mondiale sulla libertà di stampa del 2014, l’Italia occupa appena il sessantaquattresimo posto posizionandosi tra i Paesi dove la stampa è parzialmente libera, insieme al Cile, alle isole Nauru e alla Namibia. Lei ha mai subito censure? So che sembra incredibile, ma la
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INTERVISTA A TOMMASO LABATE
risposta è no. Anche per questo credo poco alle classifiche mondiali sulla libertà di stampa. L’editoria è in forte crisi da anni ormai e molti hanno deciso di passare dalla carta stampata al web. La nostra rivista invece ha percorso la strada al contrario. Scelta azzardata o coraggiosa? Entrambe. Azzardata e anche coraggiosa. In bocca al lupo, ne avete bisogno. Internet è sicuramente uno potente strumento di comunicazione soprattutto perché molto democratico. Basta avere una connessione e si possono esprimere liberamente le proprie opinioni. Non c’è il rischio che proliferino in maniera indiscriminata siti d’informazione o giornali, ricchi di contenuti ma poveri di qualità? Internet aumenta a dismisura sia la concorrenza che la competizione. Per questo il rischio che qualcuno giochi sporco, con notizie false o non verificate, aumenta. L’unico metro per valutare e valutarsi è l’autorevolezza. E quella te la con-
“Internet aumenta a dismisura sia la concorrenza che la competizione. Per questo il rischio che qualcuno giochi sporco, con notizie false o non verificate, aumenta. L’unico metro per valutare e valutarsi è l’autorevolezza. E quella te la conferiscono i lettori”. NUMERO 02
feriscono i lettori. Dice di sé che è «Tifoso dell’Inter (…) lo è da sempre. Dall’epoca in cui, ad appena due anni, non faceva un passo senza il mangiadischi». Facciamo finta che giovedì 19 febbraio il Questore di Roma si fosse chiamato Tommaso Labate. Cosa avrebbe disposto nei confronti dei tifosi del Feyenoord che hanno provocato gravi danni alla Fontana della Barcaccia (tra l’altro, da poco restaurata) e messo a ferro e fuoco Piazza di Spagna e i dintorni? Servono dei chiari piani d’azione. Non è possibile che per una manifestazione politica ci si muova come in guerra e per una partita di calcio no. A Roma, la mia idea è istituire le “fan zone”, come si fa all’estero, fuori città. E poi tutti insieme scortati allo stadio all’ora della partita. Il calcio, soprattutto quello italiano, è un forte catalizzatore di denaro e mi riferisco in particolare agli aspetti grigi della questione come gli scandali sulle scommesse per le partite e sui risultati truccati. Eppure i tifosi non sembrano affatto delusi dal “presunto” coinvolgimento di alcuni dei loro idoli calcistici, come Buffon, per esempio. Come mai? Siamo un popolo di tifosi. Nel bene e, soprattutto, nel male. Lei è un giornalista giovane e brillante e oggi possiamo leggerla, tra gli altri, sul Corriere della Sera. Quale consiglio si sentirebbe di dare a un giovane che vuole intraprendere questa carriera? Basta la passione, o solo d’amore non si vive? Insistere, ma solo se c’è la passione vera. Altrimenti è meglio demordere. Ma se quella passione c’è, mai mollare. (3’20’’)
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Lorenzo di Las Plassas: una giornata nella redazione di Rainews 24 A tu per tu con Lorenzo di Las Plassas, giornalista, inviato, fondatore e presentatore di RaiNews24. L’esperienza della professione giornalistica dal punto di vista della conduzione di un canale televisivo all-news.
Di SERENA CAPPETTI
In che modo si struttura la tua giornata da conduttore? Io mi occupo della conduzione per la fascia del giorno. Con la riunione delle 11.00 si predispone il menù del giorno: ogni redazione (Politica, Interni, Economia, Esteri, Cultura, Spettacoli, Sport, ecc.) propone gli argomenti già preparati o in fase di ultimazione. Ma chiaramente tutto può saltare ed essere completamente rivoluzionato, per esempio per l’incontro non programmato di due personaggi di rilievo oppure per un avvenimento imprevedibile come una sparatoria. Il conduttore prepara il lancio per ogni notizia, avendo quindi dei servizi già predisposti, ma questi possono essere sospesi o modificati a causa di imprevisti, come nel caso di inviati in collegamento. Come comportarsi in caso di imprevisti di GENIUS PEOPLE MAGAZINE
questo tipo? A questo punto devi riuscire ad interagire con l’inviato, valutando modalità e tempi in base allo sviluppo del servizio. Le domande non sono infatti quasi mai concordate, a parte alcuni ambiti specifici come scienza e medicina, come nel caso dell’emergenza ebola, per cui in questi casi particolari è la redazione a scrivere le domande, in modo da poter essere il più completi e adeguati possibile. Vi possono poi essere anche ospiti a sorpresa in studio, per cui devi improvvisare in base alle tue capacità e conoscenze non solo professionali, ma anche personali. E una volta terminata la fascia del giorno, cosa accade? Subentra il turno successivo, quello della sera. Ogni fascia si compone di caporedattore, caposervizio, conduttori e assistenti. Nell’ora tra una fascia e l’altra, i due gruppi si aggiornano all’interno di quella che viene chiamata la newsroom, aperta 24 ore su 24, cioè il terminale dove confluiscono e si scambiano tutte le informazioni e le notizie. Come funzionano i collegamenti con gli inviati? Quali strumenti utilizzano? Gli inviati, per collegarsi alla redazione e comunicare con questa, utilizzano lo zainetto, di fatto una scatola trasmittente con dalle sei alle otto reti telefoniche, che permettono la trasmissione audio e video in diretta. È sicuramente uno strumento largamente utilizzato al giorno d’oggi, perché permette di realizzare dirette di qualità con attrezzature relativamente semplici e maneggevoli, utilizzando la rete telefonica per veicolare i dati. Cosa caratterizza la vostra linea editoriale? Si basa sulle decisioni prese dal direttore, e nel caso di RaiNews24 l’idea di base è quella di stare molto sulla notizia, riproponendo ogni trenta minuti le ultime notizie e quelle del giorno, con lo scorrimento continuo sullo schermo delle headlines. La parte che preferisci del tuo lavoro? La parte del mio lavoro che preferisco è l’imprevedibilità che lo caratterizza. (2’25’’) 56
SPECIALE POLITICA
Maurizio Gasparri: chiacchierata su Renzi, Berlusconi, tweet e riforma Rai Di ANNA MIYKOVA
In questa pagina: Maurizio Gasparri. Foto: Andrea Lasorte.
La sua è una carriera politica importante che percorre il Msi, passando per An, il PdL fino ad arrivare a Forza Italia, oggi. Il Senatore Maurizio Gasparri, che ricopre la carica di Vicepresidente del Senato dal marzo 2013, è diventato oramai un personaggio pubblico oltre che un politico. Amato e odiato, fa parlare di sé e talvolta attira l’ira dei suoi detrattori. A ogni buon conto, una cosa è certa: difende senza mezzi termini gli ideali in cui crede e guai a toccargli la «famiglia tradizionale». Senza dimenticare, poi, le sue lotte sul caso dei marò Girone e La Torre, tristemente stigmatizzato dalla stampa mondiale. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA A MAURIZIO GASPARRI
Senatore, Lei si occupa di politica dall’inizio degli anni Novanta e ha mantenuto una linea piuttosto coerente, portando avanti ideali di destra, prima, e poi aderendo a formazioni politiche più liberali e appartenenti al centrodestra (prima Pdl e ora Forza Italia). Quali sono gli ideali di destra che la descrivono maggiormente? L’ideale resta tale se poi non si mette in pratica. Preferisco parlare di ciò per cui mi sono sempre battuto, in Parlamento e fuori. Per la legge, in primo luogo. Per una giustizia giusta e per la certezza della pena. Per la sicurezza, per uno Stato che tuteli i suoi cittadini e li faccia vivere sicuri e liberi. Per la famiglia, basata sull’unione tra un uomo e una donna, nucleo fondante la nostra società. Per la vita, dal suo concepimento fino al suo termine. Sono questi alcuni principi che hanno guidato la mia vita da legislatore. In questi mesi si sta ad esempio discutendo, prima in commissione e poi in Aula, di unioni civili o di divorzio breve. Ho presentato dei precisi emendamenti perché, ad esempio, sono fortemente contrario al “divorzio spray”, al divorzio istantaneo, che si risolve in pochi mesi e che sfascia anche situazioni sentimentalmente e socialmente recuperabili. Per la famiglia sono note le mie battaglie soprattutto in materia fiscale e contro le cosiddette unioni civili, anticamera per le unioni omosessuali il cui unico scopo è l’adozione. Altri che invece non condivide? Sono contro il pensiero unico che vuole imporre il politicamente o socialmente corretto. Le faccio un esempio. In Senato qualche settimana fa bisognava ratificare la convenzione dell’Aja del 1996 in materia di responsabilità genitoriale e protezione dei minori. Alcuni punti della convenzione introducevano nel nostro ordinamento l’istituto islamico della kafala. Cosa vuol dire? Una coppia italiana, che avesse intenzione di chiedere in adozione un bambino proveniente da un paese islamico, in base alla loro legge deve essere di religione islamica o deve convertirsi all’Islam. Un fatto intollerabile, che contrasta palesemente con il nostro ordinamento e che avrebbe voluto dire NUMERO 02
sottomettersi al diritto islamico. Trovo intollerabile l’atteggiamento di chi rinnega il nostro diritto, la nostra democrazia, le basi stesse della nostra società in nome di una finta integrazione e di una tolleranza astratta che poi si traduce in sottomissione. Giorni fa la Senatrice Manuela Repetti ha lasciato Forza Italia con una lettera pubblica indirizzata al Corriere della Sera in cui, tra gli altri motivi, indica «l’azzoppamento del nostro leader, il presidente Silvio Berlusconi, con la conseguenza di un centrodestra senza più un punto di riferimento». Lei è d’accordo sul fatto che non esista più una guida carismatica del centrodestra? La Senatrice Repetti, dopo aver avuto un colloquio privato con il presidente Berlusconi, ha chiarito la sua posizione e ritirato le dimissioni. A dimostrazione che il ruolo del nostro leader è ancora tutt’altro che marginale. Il centrodestra ha evidentemente bisogno di ritrovare la sua unità. I sondaggi dimostrano che la coalizione di centrodestra ha pochi punti di differenza rispetto alla sinistra. Vedo tanti che si auto celebrano delfini, quando in realtà si comportano da piranha. Per il centrodestra serve lo spirito federatore che solo Berlusconi ha sempre avuto e messo in campo. Una figura che unisce e non divide. Quello che sta succedendo anche all’interno della Lega è significativo. Scissioni, lacerazioni, rotture sono deleterie. Fanno il gioco, tra l’altro insperato, della sinistra. Al di là del carisma, che pure Berlusconi continua a mantenere, serve lungimiranza, spirito positivo e propositivo, capacità di sintesi. Meriti indiscussi che vanno riconosciuti al nostro leader. Sembrerebbe che l’attuale Presidente del Consiglio Renzi abbia attirato le simpatie di molti elettori del centrodestra. Propaganda o verità? Renzi ha raccontato tante belle cose ma, come dimostrano d’altra parte anche i recenti sondaggi, in tanti si sono resi conto che erano solo dichiarazioni di intenti alle quali non hanno fatto seguito azioni concrete. Se pensiamo allo specchietto per le 59
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allodole rappresentato dai famigerati 80 euro in busta paga, ci si rende conto della misura delle bugie raccontate. Si è dato ad alcuni ma poi si è tolto a tutti, e tanto. Più tasse, a cominciare da quelle sulla casa, meno agevolazioni. Se qualche elettore del centrodestra aveva visto in Renzi un’alternativa si è dovuto ricredere subito. Lo stanno facendo a sinistra, figuriamoci a destra!
“Il centrodestra ha evidentemente bisogno di ritrovare la sua unità. I sondaggi dimostrano che la coalizione di centrodestra ha pochi punti di differenza rispetto alla sinistra. Vedo tanti che si auto celebrano delfini, quando in realtà si comportano da piranha”. Cosa ne pensa su un’eventuale coalizione con Salvini? È favorevole o contrario? Credo nel centrodestra unito. Una coalizione di centrodestra che dovesse escludere la Lega sarebbe innaturale. Certo, i toni usati anche recentemente da Salvini non hanno favorito questa unità. Ha spinto un po’ troppo l’acceleratore e ha causato fratture prima nel suo partito e poi all’interno del centrodestra. Credo sia un atteggiamento sbagliato. Alzare la voce può essere utile nell’immediato a raccogliere qualche voto in più, ma nel lungo termine non serve a vincere la sfida più importante che è quella di sconfiggere la sinistra. Se l’obiettivo anche di Salvini è accantonare Renzi, questo può farlo solo se stabilisce un’alleanza con noi. Da soli non si va da nessuna parte. Solo uniti si vince. E questo anche Salvini dovrebbe capirlo. La legge sul riordino del sistema televisivo che porta il suo nome è stata fortemente criticata da Renzi, soprattutto ora che si avvicina la resa dei conti sulla riforma Rai. Se ce l’avesse davanti cosa gli risponderebbe? Cosa le viene contestato? Renzi si è mostrato arrogante e saccente
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ma ha dovuto fare una clamorosa retromarcia sulla Rai. Voleva addirittura riformare la tv pubblica con un decreto, quando chiunque è in grado di capire che non ci sono i requisiti di necessità e urgenza tali da giustificare un provvedimento di questa natura. Ma è stato soprattutto ignorante. In primo luogo perché ha parlato ignorando completamente che ci sono sentenze e ordinanze della Corte costituzionale che hanno stabilito la centralità del Parlamento nella scelta dei vertici aziendali, a partire dalla sentenza 225 del 1974. Quando, da ministro delle Comunicazioni, riformai il sistema radio televisivo italiano (quindi non solo la Rai), lasciai che fosse il Parlamento a stabilire i criteri di nomina del Cda della tv pubblica. E il Parlamento stabilì che questo compito spettasse a un’apposita commissione parlamentare di vigilanza proprio per garantire la democrazia della rappresentanza. La norma della Gasparri sul Cda Rai, quindi, è solo un comma della legge. Una piccola parte che, volendo, si può anche cambiare, ma sempre rispettando i vincoli imposti dalla Consulta sulla ‘parlamentarizzazione’ nella scelta della governance. Ma l’ignoranza di Renzi è doppia. Ha infatti anche ipotizzato che il Cda fosse eletto dal Parlamento in seduta comune. Non è possibile. La Costituzione dice chiaramente (articolo 55 comma 2) quando il Parlamento si può riunire congiuntamente. E l’elezione del Cda Rai non è uno di questi casi. Di recente ha dichiarato che al Senato bisognerebbe ricorrere ai test antidroga perché sarebbero «tutti un po’ su di giri». Stava scherzando o faceva particolari riferimenti? Assolutamente. Credo sia necessario sempre. Intanto perché la politica deve dare il buon esempio. Sono contrario all’assunzione di qualunque sostanza stupefacente, ho condotto storiche battaglie contro la legalizzazione della cannabis e tutt’ora con il senatore Giovanardi ho istituito un intergruppo parlamentare per fermare la dissennata proposta di libe-
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INTERVISTA A MAURIZIO GASPARRI
ralizzare la droga. Serve il pugno fermo. Anche in Parlamento. Usa spesso la battuta sarcastica sull’uso degli stupefacenti anche sul suo profilo Twitter per rispondere a critiche nei suoi confronti. La sincerità paga? Non sempre, ma fa parte di me. D’altra parte mi capita spesso di rispondere ad insulti. Non sono il primo che attacca, ma se vengo insultato credo di avere il diritto di difendermi. Mi rendo comunque conto che talvolta mi espongo a un rischio, perché i social network hanno la capacità di scatenare reazioni a catena incontrollabili. Penso ai cosiddetti tweet storm. Poi la rapidità con la quale si scrive, non consente di approfondire alcuni aspetti come ad esempio l’età dell’interlocutore o altro. Anche per questo non ho mai perso il contatto con la realtà. Uso molto i social, ma continuo a preferire il contatto con la gente. Credo molto nel contatto umano, stringo mani, guardo in faccia chi mi parla. Semmai oggi attraverso internet abbiamo uno strumento in più per favorire il prosieguo di un contatto, un’amicizia. Facebook o Twitter sono utili perché riesco in pochi parole a far sapere il mio pensiero a una platea vastissima fatta di persone che magari ho singolarmente conosciuto e con cui in passato ho parlato. Faccia un tweet su Grillo e il M5S. Allora vede che mi istiga all’insulto? Il caso dei due fucilieri di Marina, Girone e La Torre, dura ormai da tre anni e i militari italiani non sanno ancora quale futuro li attenda. Preferisce “Andiamo a riprenderci i nostri Marò” o “Usiamo il dialogo e la diplomazia”? Il tempo della diplomazia, semmai c’è stato, è finito. Questa storia drammatica dura da oltre tre anni. Un tempo infinito e ingiusto che ha portato sofferenza ai nostri due fucilieri e alle loro famiglie. Latorre e Girone erano impegnati in una missione internazionale anti pirateria. Hanno agito secondo il loro dovere. Sono innocenti. C’è stato un periodo in cui non
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si sapeva con chi parlare. Abbiamo aspettato che in India ci fossero le elezioni e ora con Modi al governo bisognava risolvere subito la faccenda. Il governo Renzi ha anche chiesto che si abbassassero i toni per facilitare questo percorso diplomatico. Lo abbiamo fatto ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Di che parliamo? Il tempo delle chiacchiere è finito. La faccenda andava internazionalizzata dal primo momento. È stato sbagliato impostarla come una questione afferente i rapporti tra due paesi proprio perché i nostri fucilieri erano in acque straniere a compiere una missione internazionale. Bisognava coinvolgere l’Onu, cosa che in maniera decisa e fattiva non si è fatto. La vicenda delle due giovani cooperanti Vanessa e Greta ha scatenato numerose polemiche, incluse le sue. L’Italia ha pagato un riscatto per salvare le loro vite e riportarle a casa? Il governo non lo ha ammesso, ma ha anche detto che ci si è regolati come per altre faccende simili in passato. La mia opinione è che pagare riscatti sia sbagliato. Uno Stato si mostra debole e arrendevole. A chi vanno quei soldi? A criminali e terroristi che li useranno per i loro scopi. Cedere una volta, poi, implica cedere sempre. Ritengo piuttosto necessaria cautela e maggiore attenzione da parte di chi si spinge in zone a forte rischio mettendo a repentaglio la propria vita. Le iniziative umanitarie sono lodevoli. Ma la mia riflessione è molto semplice. Ci sono tante situazioni di disagio, condizioni difficili di bambini in difficoltà, di disabili che hanno bisogno di aiuto, di anziani che necessitano di assistenza. Tante realtà che meriterebbero maggiore attenzione e aiuto in Patria, da parte nostra, da parte degli italiani e spesso sono dimenticate, sottovalutate. Va bene andare in Africa, in Siria o altrove a portare conforto. Ma ci sono contesti di guerra dove semplicemente non si può andare se non coordinati da un’azione governativa. Chi non ha presente questo o è incosciente o ha altri fini che non sono quelli nobili della filantropia. (9’45’’)
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SPECIALE POLITICA
Roberto Giachetti: la politica come passione e dedizione Di ALESSIO BRIGANTI
Intervista rilasciata il 27 febbraio 2015
In questa pagina: Roberto Giachetti, Riproduzione Riservata.
Cinquantaquattro anni, romano, con una storia politica nata in quel fertile vivaio che fu il Partito Radicale, Roberto Giachetti è oggi il Vicepresidente della Camera dei Deputati e forse uno degli interpreti più vivaci e veementi del new deal renziano. Dopo gli anni impegnati nell’amministrazione Rutelli, diviene deputato nel 2001 con La Margherita fino a confluire poi nel Partito Democratico, all’interno del quale per anni è stato un liberal di minoranza con accenti frequentemente critici, soprattutto durante la segreteria Bersani. Considerato più renziano di Renzi, siamo riusciti a fare con lui un bilancio della prima fase di “governo Leopolda” e a sfogliare assieme l’agenda delle riforme prima che entrasse in silenzio stampa per stemperare l’accesa polemica che lo contrappone alla sinistra dem. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA A ROBERTO GIACHETTI
Il governo Renzi ha superato la boa del primo anno: molti annunci, un importante piano di riforme messe in cantiere, consenso elettorale senza precedenti, strategia vincente per l’elezione del Presidente della Repubblica. Ma anche una spending review accantonata, una tassazione che non diminuisce, i rapporti difficili con la minoranza Pd e la rottura del discusso Patto del Nazareno. E in Europa i nostri conti pubblici sono sempre nel mirino... Cosa ha funzionato e cosa no a suo dire di questa prima fase? Ci faccia il suo bilancio. Credo che ci siano due cose: una assolutamente normale e una che, per lo stato del nostro Paese, possiamo tranquillamente definire straordinaria, nel vero senso della parola. Quella normale è che in un anno di Governo ci siano cose fatte, cose annunciate e messe soltanto in cantiere, progetti avviati, altri soltanto pensati. Che ci siano cose che piacciono e cose che non piacciono. La cosa straordinaria è che in un solo anno il Governo, nonostante le opposizioni interne ed esterne alla maggioranza parlamentare che tutti conosciamo, sia riuscito ad intervenire in maniera incisiva su nodi che la politica non riusciva ad affrontare da troppo tempo, in alcuni casi da decenni: mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati (fermi al referendum del 1987), al superamento del bicameralismo perfetto (di cui si parlava dall’entrata in vigore della Costituzione, più o meno), alla legge elettorale, al contratto unico a tutele crescenti. Sul merito di questi interventi si può essere d’accordo o dissentire, ovviamente. Quello che credo sia incontestabile, però, è che in un solo anno il Governo Renzi ha smosso acque che da troppo tempo - e colpevolmente - si tenevano ferme. Una domanda che mi preme farle è sulla legge elettorale, giacché lei era favorevole a un ripristino del Mattarellum in caso di elezioni anticipate: l’Italicum, così come sta evolvendo (o involvendo) nelle Camere, è veramente la miglior legge elettorale possibile? Il doppio turno di lista inoltre sembra costituire un sistema Pd-centrico, senza competitori possibili: addio democrazia dell’alternanza? Come ho già ripetuto in altre occasioni, NUMERO 02
l’attuale Italicum non è la legge migliore possibile. Anche la riforma costituzionale non è quella che avrei desiderato, in quanto personalmente auspicavo l’abolizione tout court del Senato. A mio avviso la formula originaria dell’Italicum che prevedeva un simbolo con tre nomi sulla scheda, liste corte con tre candidati ben riconoscibili dagli elettori, sarebbe stata la soluzione migliore. L’attuale Italicum è il risultato di un compromesso conseguente dalle svariate e spesso contraddittorie richieste di modifica provenienti dalla minoranza (si pensi all’introduzione dell’abbassamento della soglia di sbarramento al 3%, all’innalzamento del premio di maggioranza al 40% e all’introduzione delle preferenze) e dall’opposizione. Detto ciò, la riforma elettorale e la riforma costituzionale rappresentano una concreta risposta alle attese degli elettori dopo anni di Porcellum e di inerzia sul tema riforme nel nostro Paese. Sulla giustizia è stato raggiunto un primo risultato attraverso la definizione della responsabilità civile della magistratura. Da ex radicale immagino che per lei sarà stata una soddisfazione particolare, forse una piccola vittoria da dedicare alla memoria di Enzo Tortora. A una lettura più attenta potremmo dire che aumenta la responsabilità dello Stato, non particolarmente quella del magistrato, il cui perimetro di responsabilità resta inferiore a quelli di altri funzionari pubblici. Cosa ne pensa? La legge sulla responsabilità civile dei magistrati rappresenta senza dubbio un passo in avanti dopo anni di battaglie per vedere riconosciuto un principio basilare della nostra comunità ovvero quello secondo cui chi sbaglia deve rispondere del proprio operato. Personalmente avrei voluto una legge sulla responsabilità delle toghe ancora più stringente di quella che è stata poi approvata. Come giustamente lei sottolinea, le modifiche alla legge Vassalli hanno mantenuto il principio della responsabilità indiretta del magistrato e collegato l’azione di rivalsa statuale unicamente a condotte soggettivamente qualificate in termini di dolo o negligenza inescusabile. Ma almeno, dopo anni di silenzio dal referendum del 1997 sono state apportate delle modifiche 63
SPECIALE POLITICA
alla legge Vassalli. Il Jobs Act, come tutte le riforme del lavoro, è terreno di scontro ideologico e politico piuttosto aspro. Semplifica sicuramente la giungla contrattuale degli ultimi decenni ma non colma il dualismo di fondo, le ipergaranzie di chi già lavora rispetto a chi sta cercando di entrare nel mercato del lavoro. Il sistema di incentivazione previsto per il solo 2015 renderà più conveniente la stipula del contratto a tempo indeterminato piuttosto che determinato. Di fatto però il cospicuo incentivo consentirà successivamente al datore di lavoro di finanziare il licenziamento per ingiustificato motivo. Rischiamo di essere in presenza di un “trucco contabile” con cui il governo possa millantare successi a brevissimo termine. Inoltre l’abolizione dei co.co.pro. più che portare ad assunzioni stabili potrebbe creare nuove partite Iva, le cui condizioni non sono migliorate attraverso gli ultimi provvedimenti (aumento tassazione e diminuzione del regime dei minimi). Ci dà una sua interpretazione? Parliamo innanzitutto di dati e non di interpretazioni. Il Jobs Act rappresenta un segnale positivo per le aziende e il mercato. Non lo dico io, ma l’Ocse e la Commissione Europea che hanno appoggiato il Jobs Act in quanto «può essere il vero motore di cambiamento» per l’Italia, nonché la Confindustria che ha previsto non solo una ripresa per l’economia italiana durante tutto il corso del 2015 ma anche una progressiva riduzione del tasso di disoccupazione nel 2016. Un riconoscimento positivo a questa riforma sul lavoro è stato espresso anche da Marchionne il quale ha dichiarato che il Jobs Act va sostenuto perché con esso finalmente l’Italia non è più un’anomalia nel panorama internazionale. Il Jobs Act non toglie tutele a chi già ne ha, ma consente ampie facilitazioni all’assunzione di coloro che sono alla ricerca di lavoro. La legge annuale sulla concorrenza sembra scalfire alcune rendite di posizione, Poste e notai in primis, ma la maggioranza è stata ancora una volta debole con tassisti e farmacie. La sensazione è che ci sia ancora molto da fare, soprattutto sul fronte delle GENIUS PEOPLE MAGAZINE
professioni. Da giornalista professionista, cosa pensa della regolamentazione della professione anche alla luce delle novità introdotte dalla rivoluzione digitale? La crisi ha messo a dura prova tutte le professioni, compresa quella dei giornalisti, ma credo che la rivoluzione digitale possa diventare un’occasione per favorire lo sviluppo occupazionale. Bisogna sfruttare le infinite potenzialità dei nuovi strumenti della comunicazione e della rete, diffondendo la cultura della qualità dell’informazione, condizione essenziale per creare occupazione nel settore giornalistico. Tra i provvedimenti nel mirino all’interno de “La buona scuola” c’è il bonus fiscale da 400 miliardi per le scuole private. Viste le cifre, però, pare un sostegno mascherato agli istituti in difficoltà economiche. Superare i diplomifici e rendere accessibile a tutti la scuola privata richiede altre risorse. Vedremo mai una posizione del PD a favore della libera competizione tra istituti statali e privati per garantire un’istruzione di qualità? Le iniziative del Governo Renzi sono a favore di una libera competizione tra istituti statali e privati. È stato previsto un bonus per le scuole private e al contempo sono previsti numerosi interventi anche per la scuola pubblica come ad esempio la riduzione dei precari, un piano di assunzione per 150 mila docenti, dei piani di co-investimento per portare a tutte le scuole la banda larga veloce e il wifi, nonché la stabilizzazione del Fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa (Mof), degli incentivi fiscali per attrarre risorse private, nonché maggiori semplificazioni burocratiche. I provvedimenti per le scuole pubbliche e private possono e devono differenziarsi in quanto rispondono ad esigenze diverse ma sono tutti finalizzati al sostegno e all’implementazione per una istruzione di qualità da garantire a tutti gli studenti del nostro Paese. L’Italia resta uno dei fanalini di coda all’interno dell’Unione Europea su temi etici e diritti civili. L’agenda di governo non ha ancora messo in cantiere la questione delle civil partnership e del riconoscimento delle 64
INTERVISTA A ROBERTO GIACHETTI
“L’Italia non ha bisogno di altri strappi e guerre nella politica ma di un Governo stabile, compatto e unito. Io nel Pd sono stato praticamente sempre in minoranza, ho fatto tante battaglie interne sulla legge elettorale, sulla giustizia, sul finanziamento pubblico, ma poi ho sempre rispettato le scelte della maggioranza condividendo spesso la responsabilità di decisioni che avevo contrastato”. coppie omosessuali, così come il fine vita e il testamento biologico, in cui i sei anni dal caso Englaro sembrano trascorsi invano. È credibile che in Parlamento si possa trovare una maggioranza su questi temi che porti, entro la legislatura, all’approvazione di leggi al riguardo? Si tratta di questioni molto delicate che non trovano il consenso immediato di tutti ma sono temi entrati fin da subito nell’agenda di Governo. Matteo Renzi ha riaffermato l’impegno del Governo con gli italiani sul punto, e infatti la legge sulle unioni civili è già in discussione in Parlamento. Ribadisco però la mia posizione circa l’ipotesi del Governo di una legge sulle unioni civili riservata alle sole coppie gay. Io sono a favore del matrimonio per tutti, etero e gay. Se facciamo le unioni civili, idem, penso debbano valere per tutti. Sarebbe assurdo che per eliminare una discriminazione se ne compisse un’altra. Culturalmente difendo anche la scelta di chi decide di non sposarsi e quindi combatterò perché ci si occupi anche dei diritti degli eterosessuali che non vogliono sposarsi. Ad ogni modo, spero che questi temi, che verranno discussi in Parlamento, non siano l’occasione all’interno del Pd per aprire qualche altra polemica o per fermare l’azione riformatrice del Governo. In una maggioranza si discute e ci si confronta e quando si decide, chi fa parte del partito, deve partecipare in modo leale e rispettare le decisioni prese, altrimenti la tenuta del partito viene meno. NUMERO 02
Alla sinistra del PD, dove si muovono oggi partitini post-comunisti, ambientalisti radicali, grandi sindacati, qualche intellettuale e un manipolo di ex magistrati giustizialisti, l’insofferenza verso la leadership di Renzi sembra farsi sempre più accentuata, incoraggiata dal successo di movimenti come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna, nati in discontinuità rispetto ai partiti storicamente di riferimento della sinistra. Nei confronti della nascita di una nuova cosa rossa la sinistra dem sembra avere un atteggiamento ambivalente: qualcuno crede alla prospettiva politica di uno strappo, qualcuno sembra solo utilizzare lo spauracchio di una scissione per un conflitto correntizio interno. Lei crede alla possibilità di uno strappo e all’esistenza di uno spazio politico alla sinistra del Pd? In quel caso si aprirebbe realmente per il Pd un futuro “centrista” e stabilmente governativo, favorito dalla formula dell’Italicum, che metterebbe in discussione le sue radici socialiste e socialdemocratiche? Guardi, io sono convinto che far parte di un gruppo dirigente che non ha saputo sfruttare le occasioni che ha avuto in passato cambiando, riformando, innovando, ma al contrario, contribuendo in parte al declino che attraversa l’Italia, piuttosto che mettersi di traverso, debba mettersi a disposizione del partito per realizzare il coraggioso disegno politico di chi oggi tenta di risollevare il Paese. L’Italia non ha bisogno di altri strappi e guerre nella politica ma di un Governo stabile, compatto e unito. Io nel Pd sono stato praticamente sempre in minoranza, ho fatto tante battaglie interne sulla legge elettorale, sulla giustizia, sul finanziamento pubblico, ma poi ho sempre rispettato le scelte della maggioranza condividendo spesso la responsabilità di decisioni che avevo contrastato. Le opinioni personali su un tema debbono indietreggiare quando si tratta di trovare una sintesi per il bene comune del Paese. La politica è una cosa seria. Non si può essere sempre contro al partito di appartenenza; coerenza e serietà nella politica pretendono chiarezza su finalità comuni e condotte consequenziarie altrimenti è meglio cambiare strada o andare al voto. (9’60’’) 65
SPECIALE POLITICA
Segretario Salvini, lei non solo è riuscito a riportare la Lega Nord, il più vecchio partito italiano, al centro della scena politica, ma è il leader di riferimento di un eventuale coalizione di destra, con indici di gradimento in costante crescita, al nord come al sud. Cos’ha capito lei che gli altri politici non hanno capito? Che occorre concretezza, idee chiare e proposte fattibili, senza troppe mediazioni o vie di mezzo e penso che sia questo che la gente apprezza.
Matteo Salvini: programma e identità della nuova Lega Nord In pochi anni è riuscito a riportare un partito vecchio e stanco come la Lega Nord, reduce dalla debacle elettorale del 2013, al centro del sistema politico italiano e a presentarsi come leader di una destra nazionale di stampo lepenista che vede nella lotta all’euro e all’immigrazione i suoi cardini programmatici e ideologici. La rivoluzione copernicana rispetto all’era-Bossi per il momento sta pagando. Ma basterà? Di FRANCESCO CHERT
GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Vent’anni fa la Lega faceva leva sul benessere del nord est, oggi sulla crisi. Ieri c’era il federalismo del nord che combatteva il parassitismo statalista e corrotto del sud, oggi c’è una Lega a vocazione nazionale o nazionalista, concentrata sulla lotta all’euro e all’immigrazione. La Lega sembra prendere la forma del nemico cui si oppone. È sufficiente questo per governare? Comunque la visione di vent’anni fa è la visione di oggi cui si sono aggiunti problemi, perché il problema della burocrazia, dello squilibrio nord-sud, dell’eccesso di tasse è stato aggravato dall’euro, dai vincoli europei e dall’immigrazione. Da un punto di vista delle proposte, la flat tax, la revisione di tutti i trattati europei, la cancellazione della Legge Fornero e il supplemento degli studi di settore, solo in tema economico. Si sono aggiunti problemi a problemi. Il federalismo continua ad rimanere la soluzione dei problemi italiani, però da fuori sono emersi problemi che prima non c’erano. La Lega sembra molto a suo agio all’opposizione. Come conciliare la Lega di lotta alla Lega di Governo? E al Governo con chi? Dove governiamo, penso alla Lombardia e penso al Veneto, gli indicatori economici, e penso alla sanità, sono i migliori d’Italia, quindi quando governiamo lo sap66
INTERVISTA A MATTEO SALVINI
piamo fare bene. Com’è cambiato, secondo lei, il nord Italia in questi anni? C’è stato effettivamente un livellamento al ribasso degli standard etici della classe dirigente del nord nella gestione della cosa pubblica, come sembrano rivelare le cronache giudiziarie? Purtroppo sì. Leggevo oggi i dati di Confesercenti, con quasi cinquecentomila lavoratori autonomi che si sono arresi negli ultimi anni e quindi, rispetto a dieci anni fa, siamo tornati indietro. La classe imprenditoriale che fu protagonista del boom dei primi anni Novanta di fronte alla crisi si è rivelata più debole del previsto. È solo colpa dell’euro, della tassazione, della burocrazia, dello scarso accesso al credito o gli imprenditori hanno delle colpe, per esempio quella di non avere investito in innovazione? Sicuramente qualcuno si è seduto, penso ad esempio al settore del turismo. Però in condizioni sicuramente svantaggiate rispetto al resto dell’Europa. È vero che qualcuno pensava di vivere di rendita ma l’accoppiata tassazione interna e vincoli esterni è stata mortifera. La Lega diventa nazionale proprio nella fase storica in cui forti pulsioni regionali stanno spingendo all’interno dei confini degli stati, come nei clamorosi casi di Scozia e Catalogna. Siete stati dei precursori, in qualche modo. Non temete di perdere paradossalmente il passo proprio su questo fenomeno che potrebbe rappresentare il futuro delle destre rispetto al classico partito nazionalista? Ma infatti io dico sempre che con la Le Pen abbiamo tanti punti in comune ma anche dei punti di distinzione. Io continuo, anche quando vado in Sicilia o in Calabria a parlare di autonomia, federalismo, autogoverno. Quindi è per questo
che non sono classificabile come destra tout court, perché per me l’autogoverno, a livello di comunità e non a livello di stato centrale è fondamentale. Che influenza ha avuto sull’evolu-
le stesse ricette della Lega dell’anno scorso, ossia aprire dei centri di accoglienza e riconoscimento in nord Africa e attuare una difesa delle acque territoriali per evitare partenze e sbarchi. Quindi condivido la posizione, seppur tardiva, dell’Onu.
“L’Europa così com’è strutturata è una gabbia, una gabbia in cui comandano le banche e non i cittadini. L’Euro è una moneta sbagliata e l’immigrazione di massa è voluta e agevolata”. zione della Lega la vicinanza con il Front National? Sui grandi temi del lavoro, dell’immigrazione e dell’Europa. L’Europa così com’è strutturata è una gabbia, una gabbia in cui comandano le banche e non i cittadini. L’Euro è una moneta sbagliata e l’immigrazione di massa è voluta e agevolata. E quindi su questi temi assolutamente penso che saremo da qui a poco maggioranza in Europa. Lei parla con chiunque sia disposto a condividere le battaglie della Lega, ma non pensa che l’alleanza con CasaPound potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio o comunque rappresentare un freno al richiamo nei confronti di un certo elettorato? Io faccio pochi calcoli. Nel senso che sulla Legge Fornero abbiamo lavorato con la Fiom-Cgil, sull’immigrazione si può ragionare con CasaPound, sull’anticorruzione con il Movimento 5 Stelle. Quindi lavoro sui progetti e non tanto sugli schieramenti. Non mi preoccupa un voto in più o in meno. Mare Nostrum ha fallito e Triton sta rivelando tutta la sua inadeguatezza nella gestione del fenomeno migratorio. A questo punto la domanda è: è davvero possibile arginare e controllare i flussi? E come? Ci è arrivata anche l’Onu adesso, con NUMERO 02
Esiste un islam buono? Se c’è è troppo silenzioso e costretto nell’angolino. Esistono islamici per bene, però l’islam in quanto tale, per come viene coniugato, interpretato e applicato non è compatibile con le nostre libertà. Lei, anche nella manifestazione di piazza del Popolo, ha difeso il benzinaio vicentino che ha ucciso il rapinatore in uno scontro a fuoco, rigettando il concetto di eccesso di legittima difesa. Con la Lega al governo, questo diritto di difendersi avrà ancora senso o lo Stato tornerà a proteggere i cittadini? Sicuramente, se fossi al posto di Alfano, avrei un approccio diverso all’ordine pubblico e al sostegno alle forze dell’ordine. In ogni caso, siccome non ci può essere un poliziotto ad ogni angolo, abbiamo depositato già il mese scorso un progetto di legge sul modello francese che stende il concetto di legittima difesa. Ci descrive con una manciata di aggettivi l’Italia che vorrebbe per i suoi figli? Onesta e che permetta di lavorare. Onesta e laboriosa. (5’10’’) Nella pagina precedente: Matteo Salvini. Foto: Archivio Segreteria Nazionale Lega Nord.
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SPECIALE POLITICA
In questa pagina: Debora Serracchiani. Foto: Andrea Lasorte.
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INTERVISTA A DEBORA SERRACCHIANI
Debora Serracchiani: L’Italia e l’Europa al tempo di Renzi Debora Serracchiani è la Governatrice del Friuli Venezia Giulia e da un po’ di tempo numero due del Pd. Di stretta osservanza Genziana, è diventata famosa dopo la sfuriata fatta nei confronti della dirigenza del suo partito durante l’assemblea dei circoli del 21 marzo 2009. L’abbiamo incontrata e abbiamo parliamo di crisi, di lavoro, di politica. Con una speranza per il futuro.
Di NICOLÒ GIRALDI
Il percorso di riforme intrapreso rappresenta anche indicazioni europee, oltre che una forma di dignità nazionale per il superamento della crisi. Quanto spazio di manovra ha questo governo per portare a termine questo cambiamento assolutamente necessario? Le riforme del Governo sono necessarie al nostro Paese a prescindere dalle richieste dell’Europa. Sono passi necessari per ridare all’Italia solidità economica e un sistema produttivo in grado di intercettare la ripresa. Le riforme contribuiscono a consolidare quella credibilità internazionale che ci ha consentito, nel semestre di presidenza dell’Unione, di modificare la linea di pura austerità della Commissione. Il Partito Democratico potrebbe essere la
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più grande forza politica riformista del paese, eppure, ogni tanto i meccanismi interni non sembrano rispondere alle buone intenzioni. È solo ed esclusivamente un fatto di apertura verso le critiche oppure i cosiddetti ribelli potrebbero causare una spaccatura? Il Partito Democratico contiene già nel suo nome elementi quali il confronto, il dibattito e anche il dissenso, sale della democrazia. La differenza con il passato è che, mentre si cerca la sintesi, non si abdica alla responsabilità di decidere. Governare, in fondo, è questo. La svolta del Pd con Matteo Renzi è innegabile. È tuttavia vero che state governando con larghe intese. Sareste capaci di governare da soli nel caso i vostri alleati
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SPECIALE POLITICA
“Le riforme del Governo sono necessarie al nostro Paese a prescindere dalle richieste dell’Europa. Sono passi necessari per ridare all’Italia solidità economica e un sistema produttivo in grado di intercettare la ripresa”. decidano di correre da soli? “Larghe intese” non mi sembra un’espressione adeguata, visto che c’è una robusta opposizione. Le elezioni europee hanno certificato la capacità attrattiva del Pd e la sua potenzialità di puntare alla vittoria elettorale rispettando la vocazione maggioritaria delle origini. La stessa struttura della nuova legge elettorale con il premio di maggioranza alla lista va in questa direzione. La sfida che abbiamo colto è quella di costruire un partito aperto e inclusivo in grado di rappresentare non fasce limitate di popolazione, magari classi, ma la società tutta con i suoi interessi complessi. Questione immigrazione: sappiamo che la maggior parte delle persone che arrivano in Italia come profughi attraverso Lampedusa non rimane nel nostro paese. È innegabile che ci sia un problema, dallo sfruttamento (come nel caso di Roma Capitale) fino alle tensioni sociali. Come si argina il feno-
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meno della strumentalizzazione e cosa sta facendo il Governo in materia? Con un apparente ossimoro possiamo dire che il fenomeno migratorio è un emergenza di medio/lungo periodo. Nel Sud del mondo instabilità politica, povertà e sviluppo demografico rendono evidente che l’immigrazione non è questione che si esaurirà nelle prossime settimane. Dobbiamo quindi essere in grado di strutturare un sistema coordinato di accoglienza diffusa che eviti l’insorgere di ingiustificate paure e di basse strumentalizzazioni politiche. In Friuli Venezia Giulia, dove si concentra la maggior parte degli arrivi via terra attraverso il confine orientale, lo stiamo già sperimentando. Non è facile perché è un approccio nuovo, ma l’esperimento pare funzionare. Siamo tra le dieci economie più importanti al mondo eppure continuiamo a fare fatica. È vero che i dati sembrano confermare un’inversione di tendenza, c’è tuttavia ancora molto da fare. Entro quale data questo governo pensa di essere in grado di uscire dalla crisi? I dati economici da alcune settimane danno segnali incoraggianti. L’occupazione ritrova il segno più, il quantitative easing e il nuovo cambio con il dollaro facilitano le esportazioni, la fiducia in consumatori e imprese sale come non avveniva da diversi anni. I 500 punti di spread in meno rispetto a un anno e mezzo fa ci consentono notevoli risparmi in termini di interessi sul debito. Le politiche del governo partendo da questi fatti puntano a dare corpo alla ripresa e i primi risultati già si intravedono, anche sul fronte del lavoro. Come si concretizzeranno le riunioni avute nel mese di dicembre con gli ambasciatori di Svezia, Danimarca e Finlandia in merito alla progettualità sulle infrastrutture dei trasporti di un possibile asse
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INTERVISTA A DEBORA SERRACCHIANI
Baltico–Adriatico? L’asse Adriatico–Baltico è un cardine della politica Ue per le infrastrutture e una priorità per l’Italia e il Friuli Venezia Giulia. Se a livello nazionale la riforma dei porti sta vedendo la luce con una riforma profonda dei meccanismi che regolano queste infrastrutture, a livello regionale la collaborazione avviata con il commissario dell’Apt D’Agostino è feconda. Il Porto di Trieste ha prospettive di sviluppo notevoli sia per le sue caratteristiche naturali che per la posizione politica e un nodo essenziale della rete delle Ten-T. Sono convinta che la sinergia fra enti locali, Governo e Autorità Portuale porterà nei prossimi anni uno sviluppo dei traffici notevole se saremo in grado di strutturare infrastrutture retroportuali e logistiche all’altezza della sfida. Aad Alessandro Trocino sul Corriere della Sera rispondeva, in merito al caso Campa-
“La sfida che abbiamo colto è quella di costruire un partito aperto e inclusivo in grado di rappresentare non fasce limitate di popolazione, magari classi, ma la società tutta con i suoi interessi complessi”. NUMERO 02
nia, che su alcune regole delle primarie va fatta un po’ di chiarezza. Tradotto? Il Pd nazionale sta facendo un grande lavoro per strutturare l’albo degli elettori delle primarie, uno strumento formidabile per dare nuova linfa e forza all’attività di un partito che si deve misurare con nuovi modi di fare politica. All’interno di quel percorso di riforma del nostro modo di esistere e di funzionare bisogna individuare regole più precise per le primarie, anche per tutelare credibilità ed efficacia di uno strumento democratico molto importante. La strada di un partito più strutturato va in questa direzione. In tanti Paesi europei non è più un problema mentre da noi sembra di sì. Perché facciamo così fatica a rendere legali i matrimoni gay? Una politica di sinistra dovrebbe porre il dibattito sui diritti civili in cima alla lista. Eppure i prefetti continuano ad annullare le nozze. Purtroppo resistono ancora molti pregiudizi e molte paure su questo tema mentre io credo che sia una partita di civiltà da giocare. In Parlamento esiste una proposta di legge firmata da molti esponenti del Partito Democratico (ddl Cirinnà) che dobbiamo sostenere e approvare per dare al nostro Paese un livello europeo di tutela dei diritti. È una questione di civiltà da affrontare in sede legislativa, non nei tribunali o nelle prefetture. C’è una cosa che la Presidente Serracchiani vorrebbe venisse realizzata nel suo paese e che ad oggi non c’è? Un sistema di ammortizzatori sociali che consenta di dare ai lavoratori del nostro Paese quelle garanzie che nel tempo hanno perso, non tanto e non solo per le modifiche legislative ma soprattutto per le mutate condizioni economiche. Il “Jobs act” è una riforma importante perché è il primo passo in questo senso. (5’35’’)
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INTERVISTE
Di SERENA CAPPETTI
In questa pagina: Monica Guerritore. Foto: Marinetta Saglio.
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INTERVISTA A MONICA GUERRITORE
Monica Guerritore: la dimensione visionaria, creativa e anarchica del teatro Monica Guerritore porta sul palcoscenico l’anima di Alda Merini e la sua forza vitale, la sua gioia ma anche la sua sofferenza e la sua passionalità estrema. Un viaggio multiforme e multisensoriale, dal grande coinvolgimento emotivo e dall’ottima risposta del pubblico.
Negli ultimi anni ha debuttato nel musical e nel teatro cantato. Come è stato? Cosa distingue a suo avviso, a livello di interpretazione, la recitazione dal canto? Ritengo che recitazione e canto siano due termini inappropriati; soprattutto recitazione ha in sé un’idea di falso, di ripetizione, che non mi appartiene. Non è quello che faccio io, cioè far emergere il senso dell’autore e del testo. Senso inteso come tessuto espressivo, artistico, anche visionario a volte, dove l’immagine e il suono accompagnano il testo, in un modo molto più anarchico di creare e fare lo spettacolo. Nello spettacolo incentrato su Judy Garland per esempio, al di là delle canzoni, emerge la sua vita, la sua drammaticità, la sua trasfigurazione, il suo cammino verso la fine. Ecco, portare in scena quel tessuto, quella forza della Garland, è lo stesso che faccio per la Merini. Da donna, come si rapporta al personaggio e alla poesia di Alda Merini? Ne vengo assolutamente avvolta dalle prime parole, anch’io sorpresa mentre rubavo la vita. In tutte noi
c’è una Merini che ritroviamo in noi stesse quando usciamo dai luoghi comuni. Faccio spazio alla Merini che sta dentro ognuna di noi. E da attrice, invece, come è stato portare a teatro e interpretarne i testi? Entriamo sul palco portando immagini, contrasti, le osterie e le follie del vino, gli amori sessuali, il manicomio, tutto grazie alla verità delle musiche di Nuti. Un inno alla vita di Merini, fatta di amori disperati, Dio, anima, sesso. Tutto è contraddittorio e caldo. Cerchiamo di esprimere il senso della vita di Merini, in un’ora e mezza di spettacolo dove non ci si ferma mai, e dove i numerosi miei cambi d’abito rappresentano uno spogliarsi di anime a rappresentare tante tipologie di donne diverse. Un disordine travolgente. Quanto è stato importante, per la costruzione e la riuscita della spettacolo, essere affiancata da Giovanni Nuti? Tantissimo. Alda Merini nasce proprio come musicista e ha trovato in lui l’anima gemella, un musica piena di suoni caldi ed affascinanti. NUMERO 02
Non si tratta di poesie musicate, ma di testi con una musica che trascina con sé le parole. Io mi faccio trascinare dai suoni e Nuti si fa trascinare dalla mia personale visione di Merini, che coglie la luminosità e il fascino della poetessa. Io vedo e comunico la mia percezione, a volte più reale dell’immagine della visione reale, chiaramente differente da quella di Nuti, data dalla condivisione quotidiana. Il teatro, come ogni vera e autentica forma d’arte, porta sempre con sé un bagaglio di emozioni, simboli, messaggi, sfumature, riflessioni. Nello sviluppo dello spettacolo, e a seguito di questa esperienza, che cosa porta di nuovo nel suo bagaglio personale? Una volta, nel periodo in cui interpretavo Giovanna d’Arco, vidi sul rosone di una chiesa la frase “Videor ut video” che significa “essere visti per vedere”. Viviamo in un’epoca piena di stereotipi, piatta, come dentro un album delle figurine. Il teatro ci dà quella che è la terza dimensione, dove le profondità emergono di nuovo. Poter vedere e avvicinarsi al mistero che siamo, alla nostra complessità, attraverso personaggi come la Merini. Avvicinandoci alla loro straordinarietà e allo spessore dei testi altrettanto straordinari, come direbbe Jung, “li celebriamo”, riscoprendo parte di noi stessi. C’è una poesia presentata nello spettacolo a cui si sente particolarmente legata o che l’ha maggiormente colpita e perché? Ce ne sono tante, come ad esempio “Quelle come me”, un inno alla bellezza delle donne. Oppure “Io come voi” da cui è proprio tratto il titolo dello spettacolo. I testi sono più forti di quelli di Vasco Rossi o Battiato, fanno rabbrividire per la loro forza che colpisce al cuore. È meraviglioso. (3’20’’) 73
INTERVISTE
Giovanni Nuti: quando la musica parla dell’anima Giovanni Nuti ci racconta il suo ultimo impegno teatrale, uno spettacolo dove interpretazione e frammenti di vita si mescolano indissolubilmente. Uno spettacolo nello spettacolo, dove a fare da cornice è l’aver completato un percorso esperenziale profondo e forte come la poesia e la musica riescono ad essere.
Di SERENA CAPPETTI
Ci racconta come è nato il progetto dello spettacolo “Mentre rubavo la vita”? Quella tra me e Alda Merini è stata una collaborazione molto lunga. Ha dettato per la mia musica, facevamo concerti con un’alternanza di Merini che recitava ed io che cantavo. Un sogno. Mi dettava interi passi al telefono e voleva li musicassi subito per lei, era molto esigente e cavillosa. Mi diceva «tu senti delle note che io avevo già dentro di me». È stata un’esperienza magica, irripetibile, insieme a una donna che non guardava in faccia nessuno, una donna libera. «Con la tua musica possiamo arrivare a persone che normalmente non entrerebbero mai in una libreria o in un teatro» diceva. Purtroppo poi Alda è mancata, e un’amica mi ha indicato Monica Guerritore come possibile presenza femminile che la incarnasse, ed ho pensato fosse la persona giusta. Una voce particolare che mi ha molto colpito e mi ha subito fatto pensare che fosse l’interprete perfetta.
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Secondo quali criteri sono state scelte le poesie da inserire nello spettacolo? Ci siamo lasciati andare alla bellezza dei brani. Lo spettacolo è stato pensato, studiato per far emergere il percorso di vita di Alda, nel quale ha toccato tutte le sfaccettature dell’animo umano: spiritualità e sesso non disgiunti, gioco, ironia, momenti di commozione e abbandono. Al giorno d’oggi, cosa vuol dire fare teatro? E che cosa avete voluto sottolineare e far emergere nel vostro spettacolo? Poesia e musica: un linguaggio diretto che arriva dritto al cuore. Lo spettacolo è pieno di emozioni, non solo di poesia di grande energia. Cerchiamo di emozionare, la televisione ormai non fa più cultura, non sensibilizza, ma le persone hanno bisogno di contenuti e tematiche non fini a sé stesse. Insieme a noi, sul palco, ci sono anche altri sei musicisti straordinari e, di questi tempi, non è affatto scontato, ma noi non ci risparmiamo. Crediamo in quello
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INTERVISTA A GIOVANNI NUTI
Una cosa rara. Come si crea l’arrangiamento per un testo, specialmente in questo caso, dove il ritmo musicale deve accordarsi con il ritmo poetico? Nel musicare le poesie di Alda Merini mi attengo alla parola, e il ritmo arriva direttamente da essa. Sono talmente tanti i colori dell’anima, che la musica deve essere chiaramente molto varia, deve presentare ritmi differenti. La poesia viene amplificata dalla musica e quindi deve rispecchiarla.
che portiamo a teatro. Stiamo facendo di tutto per la bellezza, perché pensiamo che il pubblico meriti la qualità. Noi siamo grazie al pubblico. Il teatro è duro da mantenere e in questo periodo, ci vuole coraggio a fare questo genere di cose. In una società dove tutto si disgrega e dove nessun valore sembra più così certo, la profondità aiuta le persone, è un pilastro, dà sostegno. Parlando di spiritualità con un linguaggio capibile, diamo la possibilità alle persone di trovare delle risposte. Lo spettacolo aiuta ad accettare delle cose di sé stessi, perché la poesia di Alda pone al centro l’uomo e il suo grande potere.
In questa pagina: Giovanni Nuti. Foto: Giordano Benacci.
Come è stato lavorare e costruire lo spettacolo insieme a Monica Guerritore? Ogni qualvolta sono sul palcoscenico è come entrare in un’altra dimensione. Monica è una presenza molto carismatica ed energica, e il pubblico la percepisce e si emoziona, si commuove ma anche si diverte. Monica è un’artista straordinaria.
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Alda Merini ha spesso definito il vostro rapporto professionale e personale come un «matrimonio artistico», una collaborazione durata ben sedici anni. Cosa vuol dire aver avuto la possibilità di lavorare a stretto contatto con una delle più importanti rappresentanti della poesia al femminile e della cultura italiana, nonché candidata più volte al premio Nobel per la Letteratura? Ho avuto la fortuna di essere un tramite, come la stessa Alda a volte si definiva, «un tramite per le sue parole». Un dono incredibile, sono grato di averla incontrata lungo il mio percorso. «Il poeta bisogna viverlo nella sua quotidianità» diceva Alda. Ed io ho la fortuna di avere, nel mio passato, una moltitudine di momenti vissuti insieme che emerge dalla mia musica, e per cui sono estremamente grato. Qual è il testo-brano più significativo dello spettacolo, o quale ha scaturito in lei un coinvolgimento particolarmente intenso? O a cui si sente maggiormente legato e perché? “L’albatros”: quando l’ho musicato ho avuto grandi emozioni. «Era la musica che sentivo in manicomio» mi diceva Alda. Spesso mi chiedeva di suonarla quando ci incontravamo, era per lei quasi un momento terapeutico. Affermava «Ho passato attraverso l’inferno e me lo sono fatto piacere per superarlo». Rivivendo tramite questo brano momenti di grandi cadute e di difficili risalite, emergeva un messaggio per cui il dolore, alla fine, si vince. (4’05’’)
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INTERVISTE
Perché abbiamo ancora bisogno della filosofia Intervista al giovane filosofo sloveno Mirt Komel «C’è qualcosa di molto materiale nello spirituale. E le sigarette e il caffè aderiscono perfettamente allo spirito filosofico». Con queste parole finisce l’intervista con Mirt Komel, giovane filosofo, scrittore, saggista, pianista amatoriale e Geistarbeiter (così recita il suo profilo Twitter). Vi lascio quindi indovinare come si sia svolta e vi confesso che è stato davvero un grande lavoro scriverla. Perché sì, il pensiero non è qualcosa che si adatta bene alle abitudini della vita (post) moderna e pensare è faticoso. Ma possiamo davvero farne a meno? Di MARTINA VOCCI
Quest’anno hai insegnato filosofia alla Facoltà di Scienze Sociali di Lubiana come materia obbligatoria nel percorso di studi. Cosa vuol dire insegnare filosofia? La filosofia oggi è percepita come un lusso intellettuale per i pochi che ne condividono i complessi enigmi, ma anche il semplice piacere di pensare. Per quanto sia d’accordo che il pensare non sia un dato di fatto dell’essere un umano, ma qualcosa che si impara e si deve nutrire costatamene e per questo un affare riservato ai pochi. Dovrebbe essere non solo un diritto, ma anche una necessità di tutti. Insegnarla vuol dunque dire espandere gli orizzonti non solo delle persone che la studiano, ma anche della filosofia stessa. È quello che definirei un solipsismo altruistico: devo, come filosofo, essere capace di tradurre quello che mi passa per la testa in
qualcosa che sia comprensibile agli altri, così che contemporaneamente quel concetto diventi più chiaro anche per me. Insegnare in questo senso è un pensare insieme agli altri.
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Perché hai scelto la filosofia? Non ho scelto un bel niente. Non sono io che l’ho scelta. In qualche modo è stata lei a scegliere me. E se dovessi considerarla come gli antichi direi che è stato fatto, o per dirla in un modo più moderno, possiamo dirlo romanticamente: la filosofia è come l’amore – non sei tu che la scegli, ma ti capita. Su questo punto non credo nell’ideologia del libero arbitrio, la filosofia non si sceglie tra le altre cose mondane, come un abito o una macchina: sta lì, la prendi, la usi, la parcheggi. È una cosa che si vive oppure no. Per questo credo che la filosofia mi sia
INTERVISTA A MIRT KOMEL
forte aspetto estetico e letterario, sono filosofia in forma di poesia. In più se consideriamo che hanno sempre Socrate come protagonista e vicende a lui connesse, sono assimilabili a pièce teatrali. Ma la forma non è indifferente al contenuto, perché proprio attraverso la forma dialogica Platone cerca di essere fedele alla filosofia di Socrate, che la praticava discutendo insieme agli altri.
“La filosofia oggi è percepita come un lusso intellettuale per i pochi che ne condividono i complessi enigmi, ma anche il semplice piacere di pensare. Dovrebbe essere non solo un diritto, ma anche una necessità di tutti”. In questa pagina: Mirt Komel parla alla facoltà di Filosofia dell’Università di Lubiana in occasione delle celebrazioni della Libera Università il 2 aprile 2014. Fonte web.
Negli anni, infatti, ti sei dedicato anche alla letteratura e al teatro. Come mai questa necessità multidisciplinare? Il teatro negli ultimi anni è passato in secondo piano rispetto alla letteratura nel senso di poesia e prosa, ma se dovessi trovare un punto di convergenza tra i miei interessi sarebbe rappresentato da un cardine della filosofia europea e occidentale: i Dialoghi di Platone che sono filosofia, teatro e letteratura contemporaneamente. Sono filosofia, certamente, ma hanno anche un
D’altronde la divisione in generi diversi è piuttosto recente, anche nella letteratura italiana Galileo e il suo Dialogo sono considerati a tutti gli effetti produzione letteraria. Cosa ne pensi? Accade lo stesso per Omero: nelle sue grandi opere epiche l’Iliade e l’Odissea troviamo pura poesia, narrazione storica e filosofia e persino spunti tecnici sulla navigazione e come preparare una cena ai tempi della guerra di Troia. Se guardiamo ai classici greci fino a Platone la filosofia è stata sempre unita alla poesia: Parmenide ha scritto in forma di poema ed Eraclito in aforismi poetici. Platone continua questa tradizione con i suoi dialoghi drammatici che trattano temi vari. Ma da Aristotele in poi le discipline iniziano a essere separate: di solito Aristotele viene dipinto come il promotore della scienza ma questo progresso è stato compiuto a scapito della filosofia. La divisione delle competenze della filosofia secondo il tema che tratta – anima, fisica, cielo, logica, retorica – questa è l’eredità più pesante del pensiero aristotelico che ha dettato come fare filosofia anche nei secoli successivi.
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successa e ora è ciò che sono. Ma non credo di essere solo filosofo. Come Dr. Jekyll e Mr. Hyde in me ci sono il dottore, filosofo e docente universitario, e il mio alter ego letterario che è convinto che la letteratura ha la capacità di essere un’alterità di controllo sulla filosofia.
INTERVISTE
“La filosofia slovena? Žižek è sicuramente diventato il front man, ma non è sbagliato pensare a Žižek come Mick Jagger e Dolar come Keith Richards, c’è bisogno di un complesso per fare un buon suono”. A cosa serve la filosofia? Quando si chiede se la filosofia serve a qualcosa nella società (post) moderna si pensa troppo spesso che sia solo uno strumento della scienza, a essa sottomessa e il suo modo di esistere operativo e utile. Oggi si pensa che la filosofia sia una sottospecie della scienza, ma la relazione tra filosofia e scienza è ben altra: la scienza aristotelica e poi moderna è solo un sottogenere della filosofia, che ha man mano cominciato, attraverso i secoli e non senza l’influenza monoteistica cristiana, a dominare la nostra concezione di realtà, di cosa sia vero o falso in senso assoluto. Se dovessi rispondere in una sola frase direi sicuramente che la principale utilità della filosofia è il suo non essere utile. La filosofia non serve a niente e i filosofi devono avere il coraggio di affermarlo e riaffermarlo per sottrarsi alla legittimazione attraverso l’ideologia, un po’ vetusta, dell’utilitarismo. La filosofia non è un mezzo o uno strumento grazie al quale giungere a un determinato fine o realizzare uno scopo preciso, ma un fine in sé. La filosofia slovena contemporanea va davvero molto forte nel solco del filosofo superstar Slavoj Žižek. Hanno incontrato anche la tua forGENIUS PEOPLE MAGAZINE
mazione? Io ho studiato per il dottorato di ricerca con Mladen Dolar che è un membro del “partito lacaniano lubianese” insieme a Slavoj Žižek e Alenka Zupančič. La Scuola Lacaniana di Lubiana è nata nella seconda metà del secolo scorso attorno alla rivista Problemi e alla collana Analecta. Žižek è sicuramente diventato il loro front man, ma non è sbagliato pensare a Žižek come Mick Jagger e Dolar come Keith Richards, c’è bisogno di un complesso per fare un buon suono. Io considero Dolar il mio maestro e non ho paura di dirlo, a differenza di tanti studenti di filosofia che non dichiarano né scelgono una scuola in cui inserirsi, sforzandosi di essere autonomi e aperti e incappando ancora una volta nella trappola dell’illusione del libero arbitrio. Proprio per questa ragione non comprendono la prospettiva storica della filosofia e non riescono a interpretare il nostro tempo perché sono completamente immersi nell’ideologia della libera scelta. Già Hegel prima di Marx ha detto che l’esercizio della filosofia e il suo scopo più alto sono comprendere il proprio tempo, per questo il ritorno a questi due filosofi come moderni par excellence è importante. Devono essere pensati e ripensati ancora e ancora, ed è questo che fa la Scuola di Lubiana attraverso Lacan, che con la sua psicoanalisi ha fornito un altro punto di visto sulla filosofia. Non a caso un motivo ricorrente della Scuola dice con molto spirito che Hegel sia il miglior discepolo di Lacan. Qual è la situazione della filosofia in Slovenia? È interessante vedere cosa succede in filosofia rispetto alla contemporaneità storica slovena. Alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, quando la Slovenia diventa indipendente e ha un pro78
INTERVISTA A MIRT KOMEL
getto di emancipazione nazionale in una nuova repubblica, la casa intellettuale, e allo stesso tempo la legittimazione della politica nazionalistica, è la corrente fenomenologica. Una volta consolidato questo processo e mentre la Slovenia si avvicina al modo di pensare e di vivere Occidentale prevale, invece, la psicanalisi con la scuola lacaniana lubianese. Se la filosofia deve comprendere e riflettere la propria epoca allora la fenomenologia rispecchiava il nazionalismo, come la filosofia lacaniana di oggi interpreta la società postmoderna. È il modo più attuale di comprendere la nostra contemporaneità perché ne è il riflesso più fedele.
Uno dei limiti che più spesso viene imputato al postmoderno è la superficialità del gioco fine a se stesso. Cosa cambia nella tua prospettiva? È una metodologia completamente diversa in cui ritorna la dialettica e soprattutto al centro c’è il contenuto che è l’unico modo di accedere in tempi come i nostri. Il problema del postmoderno, secondo i suoi detrattori che lo analizzano e lo criticano, è infatti che non coglie e non è interessato all’universale in maniera frontale. Mentre il giro dialettico – inoltrarsi nel particolare per cogliere l’universale – non è un gioco o una deviazione non essenziale, ma un passo necessario per una riflessione vera.
Ed ecco che esce il postmodernismo che hai trattato attraverso l’analisi di una serie televisiva famosissima, Twin Peaks. Perché ti sei servito di David Lynch per raccontare il postmoderno? Twin Peaks è - e rimane - la mia serie televisiva preferita, un amore che dura oggi già da 25 anni. Ma ci sono anche ragioni più filosoficamente fondate delle mille sentenze estetiche che potrei dire facendo un elogio a Lynch e a Twin Peaks. Una specificità del postmoderno è inoltrarsi nelle particolarità, in questo senso è molto hegeliano, o, se lo leggiamo in senso opposto, Hegel è il primo postmodernista filosofico. La filosofia moderna e molte delle filosofie contemporanee sono noiose perché cercano di cogliere direttamente l’universale, astraendo dal particolare che è ciò che accade. Qui falliscono perché con le loro sentenze universali mostrano in realtà solo la loro parzialità. L’hegelianesimo, e mutatis mutandis il postmodernismo, si immerge nella particolarità per estrarne e produrre l’universale. Per questo Twin Peaks è il particolare che ho analizzato per cogliere il senso universale del postmodernismo come tale.
Spesso ci illudiamo che la filosofia non serva. Non credo sia così, nel nostro cervello ci sono delle categorie che usiamo inconsciamente. Siamo davvero pervasi di filosofia? La riflessione su come il linguaggio ci prende e ci fa dire ciò che diciamo poiché sembra vero è perché siamo condizionati da un determinato tempo, da una determinata ideologia e da un determinato orizzonte. Questa riflessione è la base del pensiero della filosofia stessa. Marx, quello giovane che critica Hegel, dice che il pensiero è condizionato dalla realtà sociale, dell’economia e dai rapporti politici, e che tutto questo condiziona anche la filosofia. Ma il Marx maturo che ritorna a Hegel, se analizzato attentamente, procede in maniera completamente diversa e inizia anche la sua opera magna, il Capitale, con l’analisi della merce come concetto. Da questa prospettiva si capisce che il concetto e le relazioni concettuali determinano le relazioni sociali, economiche e politiche. Non viceversa. Non è una nuance ma il punto di partenza. Quello che un’analisi pone come base è che prima di tutto bisogna saper riflet-
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INTERVISTE
tere sui propri concetti. Qui entra Lacan che approfondisce il tema del linguaggio, come il nostro inconscio è strutturato come il linguaggio - non semplicemente italiano, francese e sloveno - ma quale tipo di discorso ci fa dire quello che diciamo. Per questo la linea HegelMarx-Lacan è altamente stimolante non solo per la comunità intellettuale ma anche per il grande pubblico. A proposito di Hegel hai recentemente fondato insieme ad altri due colleghi un’associazione. Quale? Insieme a Gregor Moder e Jure Simoniti abbiamo fondato l’Associazione Hegeliana Internazionale (International Hegelian Association), tramite la quale facciamo eventi filosofici invitando gli hegeliani più influenti. Il tempo era maturo per tornare a Hegel e fondare quest’associazione dopo il periodo molto marxista degli ultimi anni. In ex-Jugoslavia Marx era parte dell’ideologia dominante ma solo rari casi leggevano realmente Marx: come nella Chiesa per la Bibbia, leggere il Capitale era la cosa più blasfema che si potesse fare. Un dato di fatto, e anche molto interessante, è che, non in Yugoslavia, ma negli anni Novanta, più la Slovenia diventava capitalista, più si leggeva Marx. Ma lo si leggeva selettivamente, quasi sempre solo la sua produzione giovanile che criticava Hegel come un filosofo di destra e conservatore. Noi cerchiamo di recuperare un altro Hegel, quello di sinistra, cercando di guardare non solo come Marx sia stato il miglior studente di Hegel, ma anche come Hegel sia il miglior studente di Marx. In questo caso però Hegel è un po’ particolare. Cosa avete fatto per renderlo contemporaneo? Perché anche Hegel segua lo Spirito del tempo gli abbiamo creato un GENIUS PEOPLE MAGAZINE
profilo Facebook che a sua volta ha fondato il profilo-evento dell’Aufhebung, l’associazione hegeliana internazionale. Un modo di essere di Hegel contemporaneo. Se lo Spirito è un osso, come dice Hegel nella Fenomenologia, allora Facebook e i Social media sono davvero un osso duro da maneggiare e da pensare. Filosofi e social media. Facebook o Twitter? Io sono su Twitter ma non su Facebook. Credo che Facebook sia più focalizzato sulla visualizzazione dei pensieri, diciamo come un foto-album, mentre Twitter è più articolato e dà maggiore attenzione alla parola. In termini filosofici credo abbia rivitalizzato l’arte perduta dell’aforisma. Sono in contatto con molti filosofi che producono aforismi in formato Twitter, per esempio un filosofo tedesco che si chiama Nein. Io l’ho soprannominato in maniera hegeliana Our nihilism aufgehoben. Ma ce ne sono anche tanti altri. Ti piace la letteratura? La letteratura di per sé non proprio. Ma certi autori - da morire. Da un paio di anni sono innamorato di Nabokov. Capisco perché sia diventato celebre in America per le sue provocazioni letterarie a cominciare da Lolita fino alle ultime. Ma adoro soprattutto il suo stile letterario. Se esiste un postmoderno ad alto livello letterario questo è Nabokov, perché per primo usa citazioni moderne e le riarticola in modo contemporaneo e poi salta tra genere e genere con l’eleganza di un cigno. Il mio interesse per Nabokov sono i suoi giochi di parole, il suo ben dire, e l’uso della lingua inglese prima come lingua straniera dopo la lingua russa per poi diventare lo stilista inglese per eccellenza, padroneggiandolo alla perfezione. È piacere letterario puro. 80
INTERVISTA A MIRT KOMEL
“Se lo Spirito è un osso, come dice Hegel nella Fenomenologia, allora Facebook e i Social media sono davvero un osso duro da maneggiare e da pensare”. In che lingua leggi Nabokov? In inglese, anche se ultimamente l’ho letto anche il sloveno per cercare di capire come si potrebbe fare uno stile nabokoviano in sloveno. Mi è servito moltissimo per il mio stile letterario, perché sta per uscire il mio romanzo che deve moltissimo a Nabokov. Ecco, per dirla in filosofese, Nabokov è il mio maestro spirituale in fatto di letteratura. Tu parli e leggi in quattro lingue (sloveno, italiano, inglese e francese), più un po’ di greco antico e moderno. Cosa ne pensi della traduzione come tale? Benjamin ha detto che la traduzione dimostra che la lingua originale non esiste, se c’è un originale è la traduzione stessa. Il solo fatto che le lingue siano traducibili, pur ammettendo che si perde qualcosa di autentico, deve evidenziare il lato ottimistico, cioè che attraverso la traduzione si guadagna qualcosa che non c’era nell’originale, si produce un surplus che non esisteva nella lingua precedente. Questa traduzione del perduto nel surplus è il lato più interessante della traduzione e la posizione che ogni traduttore dovrebbe avere. Si producono cose nuove che non potevano essere né prodotte né concepite nell’originale, ma potevano essere inventate solo traducendo. Per esempio Lacan che traduce Freud dal tedesco al francese produce concetti completamente nuovi, non solo perché NUMERO 02
cambia lingua ma perché nei suoi seminari di anno in anno sviluppa le sue teorie alla luce di altri contesti. Un altro tema che hai trattato spesso è stato il tocco. Nel romanzo in uscita Pianistov dotik (Il tocco del pianista) e un saggio uscito da poco intitolato Sokratski dotiki (Il tocco socratico). Perché il tocco e il toccare? Il tocco è un tema che mi interessa moltissimo per la sua relazione con il linguaggio. Per parlare non si può o e non si deve toccare, ma quest’intangibilità è essenziale se si vuole toccare con la parola. Per esempio, le metafore ci toccano non solo perché sono belle, ma perché dimostrano la proprietà tattile dello linguaggio stesso. Il tocco non è stato, fino alla recente linea Lacan-Derrida-Nancy, di interesse filosofico. Ma guardando attentamente, rileggendo la storia della filosofia occidentale, c’è una corrente tattile che inizia da Platone e arriva fino ai nostri giorni. In Sokratski dotiki, per esempio, ho cercato di interpretare Socrate e la sua pedagogia erotica tramite il tocco. Nel Pianistov dotik sono andato a esplorare il rapporto tra tocco e musica in termini letterari. Quanto al tocco nel nostro quotidiano basta pensare agli ingegni del tocco - telefonini, tablet, etc. - che dichiaratamente ci fanno sentire più vicini, ma in realtà hanno mortificato il contatto umano nella stessa misura in cui hanno digitalizzato il tocco come tale. Ecco, se esiste un senso della mia filosofia del tocco è questa: come rivitalizzare il tocco in un’era nella quale il tocco non esiste più. (29’32’’)
(Se siete arrivati alla fine dell’intervista, avete capito perché ci sono stati più caffè e molte sigarette)
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INTERVISTE
Intervista a Giovanni Malagò: come ripulire lo sport italiano Appassionato da sempre di sport,dal calcio a cinque, al canottaggio, al nuoto, dal 2000 entra nella Giunta esecutiva del Coni, per diventarne poi a sorpresa presidente nel 2013. Cresciuto tra Ferrari e telefonate all’alba all’Avvocato Agnelli, appassionato romanista, con un’intelligenza mondana e mediatica innata rappresenta il volto ammiccante del nuovo potere romano.
Di MATTEO ZANINI e FRANCESCO CHERT
Presidente Malagò, in Italia lo sport sembra assorbire il peggio dei nostri tratti nazionali, tra corruzione, mancanza di visione, debolezza con i prepotenti, disprezzo per le regole, impunità e razzismo. Condivide questa visione? Come si supera? Non credo si possa generalizzare, lo sport è uno straordinario fenomeno sociale, sa offrire esempi virtuosi e storie eccezionali che sono un riferimento per i giovani. Il rovescio della medaglia presenta criticità, è vero, ma lo limiterei in particolare ad alcune situazioni specifiche. Il problema del Paese semmai è legato a una visione calcio-centrica che ha creato una sottocultura: non è accettabile che il contesto agonistico GENIUS PEOPLE MAGAZINE
diventi strumentale teatro di violenze gratuite, dominato da istinti repressi. Bisogna lavorare in profondità per cambiare la mentalità e, contestualmente, aumentare il peso specifico delle altre discipline. Com’è possibile che si verifichi un caso come quello del Parma? La vicenda è inverosimile perché somma un insieme di irresponsabilità che alla fine portano gli addetti ai lavori a dire «io non c’entravo nulla» e questo è totalmente inaccettabile. Dopo che c’erano state diverse avvisaglie l’anno scorso, con la vicenda relativa al Bari che ha avuto una fortunata conclusione nonostante la particolarità della situazione e la storia del Siena che è sparito, era doveroso che qualcuno verificasse che non si ripetessero episodi del genere. Anche se questa situazione ha battuto tutti i record anche per l’indebitamento creato in poco tempo. Come mai le società calcistiche, anche quelle medie o piccole, non trovano investitori, anche stranieri, che le comprino? È il segnale di qualcosa? Ci sono club che sono proprietà di imprenditori stranieri e altri che suscitano le attenzioni di investitori internazionali. Penso al Pavia, che milita in Lega Pro, che quest’estate è stato acquistato da un fondo riconducibile alla Cina. Un problema però esiste: il nostro campionato di serie A è considerato il quarto campionato in Europa e come numero di spettatori davanti ha anche il torneo messicano e secondo alcuni anche quello indiano. L’aspetto brutto è che prima eravamo i primi. Chi ha gestito le cose in passato dovrebbe farsi un esame di coscienza. Sul recente caso delle tifoseria olandese lei ha parlato di “tolleranza zero” sul modello inglese. È un discorso che sentiamo da anni. Cosa 82
INTERVISTA A GIOVANNI MALAGÒ
frena un cambio di passo concreto? E in che direzione questo passo dovrebbe andare? È entrata in vigore la nuova legge che ha inasprito i provvedimenti contro i fenomeni di violenza negli stadi, come l’allargamento della portata del Daspo, il blocco alle trasferte e l’arresto differito anche contro chi intona cori o innalza striscioni che incitano alla discriminazione razziale o etnica. Mi auguro si comprenda come attraverso questo ulteriore giro di vite non c’è più margine ormai per ripetere gli errori del passato. Mi sembra si stia procedendo nella direzione di tolleranza zero: è quello che tutti si auspicavano. Certi tristi episodi di cronaca mostrano come a volte i capi ultrà non solo mantengano un controllo sulle tifoserie ma come abbiano di fatto voce in capitolo sulla gestione delle tensioni che si possono creare e sull’effettivo svolgimento delle partire. Penso al caso di Genny a carogna. Perché le tifoserie sono così potenti? C’è qualche interesse dietro? Il calcio è popolare, offre visibilità, suscita e coagula interessi che vanno al di là dell’aspetto sportivo. Per questo spesso è oggetto di derive inaccettabili e fuori luogo, contrarie ai più elementari valori e princìpi su cui si fonda il nostro movimento. È un problema di cultura e di senso civico, bisogna lavorare in profondità per cambiare direzione e allontanare dagli stadi chi cerca di sfruttare il contesto agonistico per altre finalità. In che rapporto mette lo sfottò regionalistico, che da sempre trova espressione negli stadi, con il razzismo? Lo sfottò ci sta, è il sale dell’atmosfera degli stadi. Il problema riguarda ovviamente le esagerazioni. Il calcio esaspera le cose e perciò in questo sport si registrano anche episodi del genere. Per evitare che
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INTERVISTE
“È una problema di cultura e di senso civico, bisogna lavorare in profondità per cambiare direzione e allontanare dagli stadi chi cerca di sfruttare il contesto agonistico per altre finalità”.
livelli del passato, neanche di andare oltre ma – da oggi in poi – all’interno di uno schema che prevede analoghi parametri per tutti.
si verifichino ancora casi simili bisognerebbe iniziare a insegnare alla gente che non si tratta di privare qualcuno di qualcosa ma di rispettare tutti. È un discorso di educazione civica, di cultura.
Questo squilibrio, legato alla conseguente scarsità di occasioni per un giovane che pratica altri sport di fare carriera, può innescare un meccanismo per cui il doping diventa un rischio che vale la pena di essere corso? Il ricorso a mezzi o sistemi illeciti, finalizzato al miglioramento delle prestazioni, è antitetico rispetto ai valori dello sport. Chi entra nel nostro mondo deve perseguirne sistematicamente i princìpi, senza subire alcun tipo di condizionamento. Non ci sono alibi, né scorciatoie. Un vero sportivo incoraggia e sostiene la lotta al doping e alle sostanze vietate, condannando ogni altra abitudine contraria alle più elementari norme civiche e comportamentali.
In Italia il calcio la fa da padrone, rispetto alle altre discipline sportive, soprattutto per quanto riguarda la ripartizione delle risorse, con la conseguente penalizzazione di società e atleti. Come si può riequilibrare la situazione? Credo di aver dato un grande segnale, centrando uno degli obiettivi prefissati nel programma che mi ha portato alla Presidenza del Coni: stabilire, attraverso un processo oggettivo, una rivisitazione dei criteri per l’attribuzione delle risorse alle Federazioni, equiparando la Figc alle altre realtà. Ritenevo fosse necessario e sacrosanto mettere tutti sullo stesso piano, indipendentemente dai riscontri numerici, che hanno comportato per il mondo del calcio un taglio di risorse di oltre 20 milioni rispetto all’anno precedente. Questo non vuol dire che sarà sempre così. La Figc può e deve lavorare per recuperare terreno, non le è preclusa la possibilità di assurgere ai
Pare assodata l’importanza dello sport nella formazione sia comportamentale che fisica dell’individuo. Le sembra che i programmi scolastici ministeriali dimostrino di avere chiaro questo concetto o c’è ancora strada da fare perché lo sport riceva l’importanza che merita? Il Coni ha fatto squadra con il Miur, sotto la regìa del Governo, varando il progetto “Sport di Classe”, che introduce l’attività motoria nella scuola primaria e che mira a garantire l’introduzione di due ore di educazione fisica nell’ambito della programmazione scolastica. Questo progetto rappresenta un ponte rispetto all’attuazione delle linee guida de “La Buona Scuola”, che costituiscono un passo importante verso l’inserimento degli insegnanti di fisica nella scuola primaria. Si tratta di un processo ineludibile per radicare una nuova cultura e dare spinta al rilancio del Paese attraverso il nostro mondo. (5’40’’)
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INTERVISTE
Di NICOLÒ GIRALDI
Simone Perotti: lascio tutto e riparto dal mare «Trieste è un luogo dell’anima per me. Ho amato e lavorato a lungo a Trieste. Purtroppo una spedizione così complessa implica delle rinunce. Ma andremo via terra a Trieste e Venezia, per collegare idealmente queste due capitali del mare alla spedizione». Simone Perotti è un giornalista che qualche anno fa ha deciso di ripartire da zero. Appassionato velista, ha messo in piedi il progetto Mediterranea, un lungo viaggio sulle coste del «mare interno» per dare vita a una nuova era. «È a tutti gli effetti il primo esperimento mondiale di co-sailing e il viaggio è ancora lungo». In questa pagina: Simone Perotti. Riproduzione riservata.
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Partiamo da cos’è Mediterranea e da dove siete arrivati in questo momento. Siamo a Istanbul, a quasi 3000 miglia navigate dalla nostra partenza avvenuta il 17 maggio scorso a San Benedetto del Tronto. La nostra spedizione durerà cinque anni. Una spedizione a vela per tutto il Mediterraneo, il Mar Nero, il Mar Rosso settentrionale con tre obiettivi: nautico, culturale, scientifico. Intervistiamo intellettuali e artisti, filosofi e uomini di pensiero, alla ricerca delle migliori idee di questo mare. Collaboriamo con università e centri di ricerca nello svolgimento di esperimenti e studi applicati al mare, alla cui salvaguardia vogliamo contribuire concretamente. Mediterranea è una spedizione senza sponsor, sostenuta e realizzata da un gruppo di 45 persone che sostiene economicamente l’impresa e partecipa 86
INTERVISTA A SIMONE PEROTTI
attivamente alla sua realizzazione. Durante le numerose interviste rilasciate metti spesso l’accento sulla necessità di rendere il Mediterraneo non subalterno all’Europa. È in un certo senso un progetto anche politico? In qualche modo sì. Prima della nascita dell’Ue, l’idea di un’Europa unita è stata studiata, pensata e discussa. Chissà che in futuro non nascano gli “Stati Uniti del Mediterraneo”, un’area che dialoga per costruire le migliori condizioni di convivenza e integrazione tra popoli, terre, culture così connesse da sempre. Costituirebbe un soggetto in grado di fare massa critica, di dialogare alla pari con altri grandi sistemi economici e politici, di governare le principali e tragiche emergenze dei migranti, di spezzare i fronti finanziario, religioso e politico che vogliono quest’area divisa e depressa, sotto scacco di poteri transnazionali che non fanno nulla per farla crescere. Gli uomini e le donne del Mediterraneo possono emanciparsi da questo stato di cose lavorando su se stessi e tra loro. Come e perché si organizza una spedizione come Mediterranea? Prima di tutto non pensando «oddio, non ce la faremo mai!». Successivamente mettendosi lì a lavorare su una buona idea, spingendo sull’acceleratore della passione per il mare, la navigazione e la cultura. Soprattutto non pensando sempre e solo ai soldi, che è come morire prima di essere nati. Una delle prime cose che vengono in mente ad addentrarsi nel mondo di Mediterranea è il tempo. Il tempo è la grande cifra interpretativa del Mediterraneo. Navigando, ci muoviamo tra diverse, mutevoli e affascinanti
scansioni del tempo. Tutto il mondo ha tempi propri, spesso dettati da questioni globalizzate come la borsa o il mercato del lavoro. Il Mediterraneo è l’unica area così vasta, credo, dove il tempo segue logiche diverse. In un’intervista lo scrittore greco Vassilis Vassilikos afferma che «l’intellettuale moderno non esiste più». Cosa dobbiamo fare per recuperarli? Il buco lasciato dagli intellettuali si vede e si sente molto. Mancano le guide morali e intellettuali della nostra cultura. Noi giriamo il Mediterraneo anche per cercare queste guide, che in un’epoca come la nostra è poco importante che siano italiane o tunisine, spagnole o greche. Cosa deve portare con sé chi volesse salire a bordo di Mediterranea? Pazienza, voglia di conoscere, voglia di stare insieme agli altri, curiosità, non violenza. Voglia di vivere sul mare e di portare il proprio contributo. Infine il buon umore. L’itinerario prevede anche le coste sud. I fatti in Libia sembrano preoccupanti, dove è arrivata a sventolare la bandiera dell’Is. Pensate di modificare l’itinerario? Cerchiamo di evitarlo al massimo, ma ci atterremo alle indicazioni che riceveremo dalle autorità. Cercheremo di farlo per vincere la nostra voglia di navigare senza confini o barriere. Non abbiamo intenzione di metterci in pericolo. Tu dici che «salpare per il Mediterraneo per anni è il contrario di partire» dove partire per te è «abbandonare, e negare l’appartenenza all’identità mediterranea». Cos’è allora per te salpare? Salpare per il Mediterraneo è tornare a casa. Per questo il titolo NUMERO 02
del nostro primo anno di navigazione, a cui sarà ispirato il primo dei cinque docufilm che realizzeremo, è Il Ritorno. Salpando dall’Italia, o da qualunque altro Paese dell’area per navigare nel Mediterraneo, per noi, per tutti, è tornare a casa. Una casa abbandonata da troppo tempo. Avete anche occupato un’isola durante il vostro viaggio per protestare «contro i trafficanti di denaro che l’avevano messa in vendita». Meganissi è stata per un terzo venduta a Rotschild, che ne vuole fare un’isola per super ricchi. Io credo che quell’isola sia mia, tua, non solamente sua. Credo anche che il Mediterraneo non debba essere svenduto. È un patrimonio mondiale. L’abbiamo quindi occupata simbolicamente, e abbiamo issato uno striscione di 15 metri per 1,5 con una scritta: “This island is ours” Pper sollevare il tema. Abbiamo fatto la stessa cosa per denunciare anche la vendita della spiaggia di Elafonissos. Per quale motivo un ragazzo giovane dovrebbe idealmente accostarsi a progetti come Mediterranea? Perché condividere la realizzazione di obiettivi più ambiziosi di quelli che potrebbe mai realizzare una persona sola è uno schema che ha un presente e un futuro. Il sistema attuale è morente. È previsto un volume che racconterà l’esperienza? Direi più di uno. Mediterranea produrrà moltissimo nei prossimi anni. Un impegno enorme per noi che non abbiamo nessuno dietro, nessuna ricchezza, nessuna struttura. Ma siamo molto concreti e determinati, dunque direi che ce la possiamo fare. Tenteremo, perché tentare restituisce dignità. (4’45’’) 87
SPECIALE FEFF
Sabrina Baracetti: come nasce e cresce un festival internazionale
Di BETTINA TODISCO
Da sinistra: 6° Far East Cosplay Contest: esibizione di arti marziali; il Maestro Joe Hisaishi in concerto. Courtesy Archivio FEFF.
possiamo fare conto su relazioni con produzioni importantissime in Asia che guardano al Feff di Udine come una vetrina molto interessante sull’Europa. Questo è il frutto di anni di lavoro, di rapporti, di viaggi e di conoscenze.
Cosa significa organizzare un festival come il Far East Film Festival, che porta ampia visibilità a Udine e non solo, di questi tempi? E tra l’altro con un’apertura già segnata dal tutto esaurito grazie al concerto-evento di Joe Hisaishi, un autentico gigante della musica del nostro tempo, per la prima volta in Italia. Oggi è un’emozione e una soddisfazione! Riuscire a portare a Udine ospiti come Joe Hisaishi o Jakie Chan è emozionante. Il lavoro è sistematico comunque, nulla si improvvisa, parte dello staff del festival ci lavora tutto l’anno e oggi
Un grande traguardo essere giunti alla diciassettesima edizione. Ma come e da chi è nata l’idea di questo ambizioso festival? Chi ebbe l’intuizione che una rassegna di cinema asiatico di questo livello, a metà strada tra il settoriale e l’accessibile, potesse avere un successo del genere? L’idea nasce nel 1998 quando abbiamo proposto al pubblico udinese una rassegna di film prodotti a Hong Kong. La risposta è stata entusiastica, così lo abbiamo continuato nel 1999 aprendo ad altri paesi asiatici e iniziando a invitare i registi e gli attori più significativi. Non so cosa intendi con “settoriale” ma questi film asiatici hanno riscosso un grande successo nel pubblico, evidenziando da subito grandi maestri e spesso tecnologie anche avanzate nel caso di alcune di queste
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INTERVISTA A SABRINA BARACETTI
cinematografie. Abbiamo sempre cercato di mostrare i film che avevano grande successo in patria perché la missione del festival è stata subito quella di proporre i titoli che piacevano ai loro spettatori d’origine per mostrare le tendenze di quei Paesi, i prodotti a cui loro sono interessati. Veniamo ai film in programma e ai Paesi presenti a questa edizione del Feff. Il programma è vastissimo, circa 70 film, e i paesi sono 11. Oltre 10 dei 70 titoli sono premiere Internazionali, oltre 20 sono anteprime europee, 2 – cioè il Super action Helios da HK e il cult horror Parasyte: Part 2 dal Giappone – verranno presentati al pubblico di Udine nientemeno che in contemporanea con l’uscita nelle sale dei rispettivi Paesi. Una sorta di proiezione date-by-date, dove solo la differenza del fuso orario separa le visioni tra Oriente e Occidente. La selezione del Feff offre una overview assolutamente unica in Occidente, una sintesi di quanto accade – o è appena accaduto – negli ultimi mesi e nei
diversi mercati cinematografici, permettendo anche di apprezzarla e di fruirla in un’unica soluzione d’insieme. Ma questi film, oltre a farci vedere i loro connotati produttivi (la Cina che presto conquisterà il mondo, superando Hollywood e diventando il primo mercato cinematografico, i film giapponesi che battono al box office quelli stranieri, idem per la Corea, che ricorderà il 2014 come un anno memorabile), sono anche la cartina di tornasole della società.
che sono presentati in un unico cartellone con proposte bilanciate tra le varie nazioni di provenienza. Un cartellone accessibile in modo completo, senza sovrapposizioni (cosa assai rara negli altri Festival, che finiscono per costringere il pubblico a scegliere), strutturato in una schedule che fa corrispondere agli orari della mattina, del pomeriggio e della sera una proposta precisa, immaginata per audience diverse con esigenze diverse. Come fosse il palinsesto di una rete televisiva.
Quali le anteprime e come siete riusciti ad accaparrarvele? Come avviene la selezione delle opere da portare al festival? Abbiamo 70 titoli, dicevamo, che rappresentano la sintesi estrema di un lungo processo di selezione: a “vedere”, in questo caso, sono stati i 10 consulenti del Far East Film Festival che vivono e lavorano nelle capitali asiatiche (coadiuvati da 4 coordinatori orientali) e che, insieme al comitato udinese del Centro Espressioni Cinematografiche, nel corso di 11 mesi hanno visionato oltre 400 titoli di 15 cinematografie diverse. Più di 60 film
Qualche curiosità o aneddoto sui registi e gli attori che incontreremo a Udine? Gli aneddoti più divertenti sono quelli che succedono qui a Udine durante i nove giorni di festival, spesso l’incontro tra gli ospiti e il pubblico, le reazioni ai film, la gioia di registi e attori quando vedono platea e gallerie del teatro gremite di gente, o camminano per strade di Udine e qualche spettatore li ferma perché ha visto il film in sala il giorno prima… insomma sono questi i momenti più interessanti.
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(3’45’’)
SPECIALE FEFF
Max Mestroni: il Feff, un festival nel festival Di BETTINA TODISCO
Max, da giorni in città, ma anche in giro per la regione, si respira aria da Estremo Oriente. L’evento, in questi anni, ha assunto una dimensione quasi stagionale, che si aspetta in primavera assieme alle belle giornate. Come siete riusciti a creare questa atmosfera che va ben oltre ai film e agli ospiti? Per realizzare gli eventi extra del festival non abbiamo mail avuto un budget specifico. Gli eventi che fanno da contorno al Far East si strutturano come festival nel festival, in cui la cultura orientale la fa da padrona ma è anche messa in relazione con eccellenze friulane. La vera scommessa è soprattutto questa e ringraziamo tutte le associazioni culturali e i singoli individui che hanno dato la loro disponibilità a realizzare questo cartellone. Per preparare tutto ci vogliono quattro mesi di lavoro. Ci sono altri festival che si occupano di Estremo Oriente ma hanno meno eventi del nostro. Per quanto riguarda la capacità di creare un’atmosfera orientale in città, posso dire che si è creata da subito, fin dalle prime edizioni. La logica è stata quella di portare il clima del festival in centro città. Il Teatro Giovanni da Udine è un po’ fuori dal centro storico, per cui abbiamo subito intuìto la necessità di creare un collegamento con il centro e con gli abitanti di Udine attraverso una serie di eventi in cui il pubblico fosse chiamato a partecipare direttamente e in cui tutta la cittadinanza fosse coinvolta. Poi negli anni, la cosa si è allargata e ingrandita, andando a creare quell’affetto che gli udinesi dimostrano di avere per il Feff ogni anno di più. Al di là della densissima programmazione, delle anteprime e degli ospiti di livello mondiale, il Far East si sviluppa in tutta la città, con eventi culinari, concerti, dj set, danze e mercatini. Ci dai qualche consiglio su come muoverci nelle asian zone della città? Per far orientare le persone in un cartellone di oltre cento eventi, abbiamo diviso questi eventi in percorsi tematici. Il primo è quello delle arti marziali, che si ricollega a quanto succede sul grande schermo; il secondo è quello del food,
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INTERVISTA A MAX MESTRONI
Per entrambe le immagini: Zhou Xun in “Women Who Flirt” di Pang Ho-cheung, Cina 2015, courtesy Archivio FEFF.
novità di quest’anno anche in relazione all’Expo, in cui cerchiando di mescolare la cultura locale a quella asiatica con conferenze, degustazioni delle eccellenze friulane dal prosciutto alle Grappe Nonino e show cooking di cuochi orientali che cucineranno assieme ai cuochi più bravi della regione. Tra questi c’è anche il Panino Gourmet, contest tra i cuochi migliori che realizzeranno una ricetta per un panino che mescoli Friuli Venezia Giulia all’Oriente e che verrà venduto al Teatro Giovanni da Udine, allo spazio food di piazza XX settembre e al Cinema Visionario, e giudicato da pubblico con una scheda apposita. In collaborazione con Turismo del Vino FVG il panino verrà abbinato ad un bicchiere di vino bianco o rosso. Sempre tornando ai percorsi per orientarsi, abbiamo dei laboratori, in cui le persone possono toccare con mano l’Universo Oriente, dal bonsai al kimono al kokeshi. In questo settore abbiamo anche lo specifico laboratorio per bambini in cui gli adulati non possono entrare. Ancora tanti live show, indicati nella brochure NUMERO 02
che si troverà negli info point sparsi per la città, tutti quegli spettacoli di piazza, da quelli musicali a quelli della tradizione popolate asiatica. Al Cinema Visionario sarà organizzata una programmazione con film più cena etnica. Il percorso conclusivo è quello del wellness, per il benessere della mente e del corpo nella location molto tranquilla dei Giardini del Torso, in pieno centro. Il 30 aprile ci sarà la notte gialla con musica dal vivo e festa. Gli ospiti che arrivano dall’Estremo Oriente come vedono e cosa dicono di Udine e della regione? Gli ospiti, che nei Paesi d’origine sono star, arrivando a Udine possono ritrovare un po’ di pace e rilassarsi. In una città a misura d’uomo come Udine, tranquillamente percorribile a piedi, ritrovano una dimensione pacifica che permette loro di vivere l’esperienza come una breve vacanza nella quale possono apprezzare il cibo, il vino, la stagione primaverile e lo shopping. Gli ospiti si muovono autonomamente, cosa molto importante per chi vive da vip. (3’30’’) 91
SPECIALE CORTINAMETRAGGIO
Intervista alla presidente del sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani, Laura Delli Colli Presidente dal 2003 del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani (SNGCI) è a capo della direzione della manifestazione che assegna annualmente il Nastro d’argento a Taormina a film, attori, autori e operatori del cinema italiano. Giornalista e scrittrice, ha organizzato inoltre gli Incontri Internazionali del Cinema di Sorrento.
Di SERENA CAPPETTI
Nella pagina successiva: Laura Delli Colli. Riproduzione riservata.
dei colleghi precari, lavorando con loro e con chi fa o vuole fare questo mestiere. Un modo giusto per cercare di dialogare anche con il resto dell’associazionismo del cinema che abbiamo rappresentato e rappresentiamo spesso nelle situazioni istituzionali di dialogo con le forze politiche. Piccole e grandi battaglie con un forte principio anti-censura che da sempre ci accompagna.
Di cosa si occupa il Sindacato dei Giornalisti Cinematografici? Il Sindacato dei Giornalisti Cinematografici esiste dal 1946. Con questo direttivo e con i colleghi degli ultimi anni abbiamo raccolto una tradizione che compie 70 anni il prossimo anno. Siamo in prima linea in tutte le battaglie istituzionali, di qualità e di principi, ma anche politiche che riguardano il nostro mestiere e la difesa di un cinema di qualità. E quindi per promuovere il cinema italiano, una delle nostre mission, organizziamo i “Nastri d’argento” che dal 1946 premiano il meglio del cinema italiano. Al loro interno però diamo anche molto spazio a tutto quello che riguarda i giovani autori, anche quelli che cominciano dal web o da un cortometraggio. In queste sezioni dei Nastri che arrivano poi al gran finale di Taormina, che quest’anno si terrà il 27 giugno, cerchiamo di venire incontro anche a ragazzi che fanno tesi di laurea sul cinema, ma anche alle ragioni
Come si è evoluto il ruolo del sindacato, soprattutto negli ultimi anni, per quanto riguarda quel gruppo di giornalisti precari e sottopagati? Il sindacato si occupa di tutti i giornalisti, in particolare noi siamo l’associazione dei giornalisti che si occupano di cinema. Siamo anche un gruppo di specializzazione della Federazione della Stampa, non facciamo sportello sindacale ma stiamo, per esempio, sostenendo tutte le battaglie dei colleghi più giovani e deboli. Anche se, ormai, di categorie deboli bisogna parlare anche quando si parla di chi è contrattualizzato visto che con la legge 416 i prepensionamenti ci hanno insegnato a preoccuparci anche di chi esce molto presto dai giornali. Diciamo che è un precariato diverso ma comunque, in qualche modo, significa anche occuparsi di fare da link con le associazioni di stampa per garantire un po’ di tutela in più soprattutto appunto alle fasce più deboli. Nel caso dei giornalisti più giovani stiamo lavorando proprio per fare in modo che si riuniscano anche loro autonomamente in un gruppo e che scelgano una loro rappresentanza, per poterli introdurre agli sportelli sindacali veri e propri che possono aiutarli soprattutto ad avere maggiori tutele rispetto a quello che i contratti nazionali non riescono a fare ovviamente all’interno delle categorie. Un’altra cosa che il sindacato ha fatto in questo
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INTERVISTA A LAURA DELLI COLLI
un obbligo, un dovere e credo che sia anche un diritto dei giornalisti pretenderla dai propri editori. Purtroppo la rete ci ha insegnato a convivere con dei colleghi che sono spesso messi in una condizione di debolezza dai loro stessi editori. Questo crea delle differenze notevoli anche nella qualità del giornalismo e nell’indipendenza dei colleghi stessi, dato che un soggetto debole è più esposto a subire delle pressioni. E quindi credo che dare delle tutele ai colleghi voglia dire anche migliorare la qualità dell’informazione. Dato che quel sottile confine che non è poi tanto sottile, che c’è tra la promozione e l’informazione non deve far sì che il giornalismo scivoli nel marketing e che il marketing diventi giornalismo. ultimo anno è stata aiutare i colleghi nell’obbligo della formazione continua imposta dall’Ordine dei Giornalisti, o perlomeno imposta da una legge che chiede a tutti gli ordini di promuovere queste iniziative. Quanto si è modificato il giornalismo con la rete e quanto è difficile riuscire a definire e tutelare la professione giornalistica? È vero che stiamo cercando di stabilire un rapporto anche su questo tema specifico della rete e del web e anche dei blogger, che sono evidentemente non-giornalisti ma che fanno parte di questa grande community e che ormai non si possono ignorare. Il giornalismo tradizionale vive una crisi evidente, non parliamo più di carta stampata, di reti generaliste, di specializzazione vera e propria. Però va anche detto che forse il mondo dell’informazione non era al suo interno pronto ad accogliere anche queste novità. Quindi, per quanto ci riguarda, stiamo cercando di promuovere un’iniziativa anche con gli uffici stampa, quindi all’interno dei
soggetti della comunicazione, per fare una vera e propria anagrafe che ci consenta di capire quante sono le testate che lavorano autonomamente sul web e che si possono definire tali e quali siano invece le altre iniziative più spontanee. Questo non vuol dire tutelare solo chi ha una testata e magari emarginare il blog, però cercare di capire, per esempio, cosa accade quando, soprattutto all’interno dei festival, ci sono degli accrediti molto numerosi e viene attribuito alla stampa un giudizio che a volte ha a che fare più che altro con un pubblico specializzato, dato che i blog non sono esattamente la stampa. Quindi credo che i colleghi più giovani debbano imparare a convivere e a tutelarsi non solo con un’area della categoria più forte perché più sedimentata e contrattualizzata, ma anche con un’area della professione più spontanea ma che naturalmente fa opinione. È ancora possibile quindi applicare la deontologia classica del giornalismo in rete? La deontologia classica è per noi
Quali consigli si sente di dare ad un giovane intenzionato a intraprendere la carriera giornalistica? Il consiglio intanto è di provarci, se sente davvero di volerlo fare perché tutti noi siamo stati precari, per trovare poi dopo anni la nostra strada. Non ci chiamavamo stagisti, non ci chiamavamo precari come oggi, eravamo solo dei ragazzi che provavano a fare questo lavoro e che continuavano a insistere in condizioni in cui molto spesso non c’era nemmeno un rimborso spese. Certo, con una differenza di quadro generale notevole, perché noi rappresentiamo delle generazioni di giornalisti con delle prospettive reali di contrattualizzazione. Oggi invece i giornalisti spesso nascono e vanno avanti senza la prospettiva di una stabilità. Consiglio di cercare di capire che l’unione fa davvero la forza e quindi che, anche se la rete spinge ad essere molto individualisti, cercare di avere i legami con le associazioni di stampa o semplicemente con i colleghi, sia un elemento di partenza molto forte. (5’30’’)
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SPECIALE CORTINAMETRAGGIO
“Il segreto d’Italia”? Un dodicenne Pietro Maria Zanardo vincitore del Premio Regione Veneto Edizione Cortinametraggio 2015 Di SERENA CAPPETTI
In occasione dell’edizione 2015 di Cortinametraggio il Premio Regione Veneto, in riconoscimento di un talento emergente, verrà assegnato al giovanissimo (dodici anni appena) padovano Pietro Maria Zanardo, il quale ha partecipato come attore alla realizzazione del film.
Il segreto di Italia diretto da Antonio Bellucco e uscito nelle sale cinematografiche a fine novembre, ha suscitato non poche polemiche in questi ultimi mesi. Il film infatti si basa su eventi storici realmente accaduti, e in particolare sull’eccidio di Codevigo, avvenuto tra la fine di aprile e la metà di giugno del 1945, dove vennero brutalmente assassinati 136 tra militi della Guardia Nazionale Repubblicana, delle Brigate Nere e civili. Il film, proprio per il tema trattato, ha incontrato diversi ostacoli sia a livello di reperimento di contributi, sia di distribuzione e accesso alla programmazione delle sale cinematografiche. «La verità è che per andare nelle sale cinematografiche a dicembre ci vuole un portafoglio colmo di soldi da anticipare alle distribuzioni, soldi che Il Segreto di Italia non ha. Questa è l’Italia, un Paese dove dalla fine dell’ultima guerra si è nascosto un eccidio efferato di uomini e donne e se qualcuno ne parla, facendo un film, quell’opera è già una “schifezza”». E se più di 3000 persone che lo hanno già visto lo hanno giudicato eccellente? «Allora sono tutti di Forza Nuova e di Casa Pound» afferma il regista. «In questo paese registi del “sistema”, spendono, certo non di tasca propria, milioni e decine di milioni di euro per fare un film. Il Segreto di Italia ha avuto venticinquemila euro dalla Regione Veneto, il resto, per arrivare complessivamente a meno di duecentocinquantamila euro, è arrivato dalla generosità di contributi privati. Se i critici tacciono il pubblico apprezza». In questa pagina: Pietro Maria Zanardo, Foto: Enrico Cesaro.
GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Quale personaggio hai interpretato e come è stato vedere te stesso al cinema? Nel film ero Ninetto, fratello del protagonista, un ragazzino che va alla scuola elementare, ma che aiuta anche in casa e lavora nei campi insieme alla famiglia. Alla prima proiezione a Padova è stato emozionante vedermi sul grande schermo, e poi mi ha anche molto colpito vedere quanto fossi cambiato e cresciuto dal momento delle riprese (durate circa due anni) ad ora. Come è stato far parte di questo film e recitare davanti ad una macchina da presa? Il cinema è stata un’esperienza bellissima. Mi sono molto divertito durante le riprese. Ogni volta che mi trovavo davanti alla cinepresa però, cercavo di concentrarmi al massimo sul personaggio, fingendo che il regista e tutto lo staff non ci fossero. Avevi già recitato in passato o questa è stata la prima volta? È stata la mia prima volta nel mondo della recitazione. L’occasione è nata quasi per caso, aiutando nello studio del copione mio fratello Lorenzo, il quale ha 94
INTERVISTA A PIETRO MARIA ZANARDO
Le interviste di Genius per Cortinametraggio
partecipato insieme a me al film. Così mi sono presentato al provino e ho ottenuto la parte, e ho capito che, da grande, voglio proprio fare l’attore. In seguito, hai avuto altre esperienze di recitazione oltre alle riprese del film Il segreto di Italia? Dopo questa esperienza, io e la mia famiglia ci siamo trasferiti per circa un anno e mezzo a Trieste, e tramite la scuola ho potuto partecipare a un laboratorio di teatro organizzato dalla mia insegnante, rappresentando in teatro l’Iliade. Mi è piaciuto molto far parte di questo spettacolo, è davvero emozionante essere sul palco con tutte le persone del pubblico che ti guardano e ti ascoltano mentre reciti.
Tosca D’Aquino: il cinema ai tempi della crisi Partendo dalla sua esperienza professionale maturata tra teatro, cinema e televisione, Tosca D’Aquino ci spiega cosa significa fare l’attore oggi, in un’epoca di crisi economica ma vivace dal punto di vista creativo. Tuttavia occorre essere coscienti della fatica che sarà necessaria per farsi largo in un mondo come questo. http://www.genius-online.it/2015/04/07/tosca-daquino-il-cinema-ai-tempi-della-crisi/7
Enrico Ianniello: che cos’hanno in comune l’attore e lo scrittore Enrico Ianniello, casertano classe 1970, ha studiato presso l’accademia teatrale di Vittorio Gasamann. Molti i lavori per il teatro e per la televisione, tra cui la serie A un passo dal cielo e la miniserie Caruso, la voce dell’amore. Nel gennaio 2015 è all’esordio con il libro La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin edito da Feltrinelli. http://www.genius-online.it/?p=16946&preview=true
Quali sono i film che preferisci e chi è il tuo attore preferito? Mi piacciono i film divertenti e che mi fanno ridere; ma anche quelli di avventura e di azione. Il mio attore preferito è Johnny Deep, perché riesce ad interpretare personaggi molto diversi tra loro. Uno dei miei film preferiti infatti è “Edward mani di forbice”, dove interpreta il protagonista in modo fantastico e davvero emozionante. (3’15’’)
Il Gazzettino: http://www.ilgazzettino.it/ CULTURA/zanardo_attore_fratello/notizie/1253633.html Cinecittà News: http://news.cinecitta.com/ IT/it-it/news/53/63228/cortinametraggio-premia-il12enne-pietro-maria-zanardo.aspx
Marco Palvetti: il futuro del cinema italiano Conosciuto ai più per aver interpretato il personaggio di Salvatore Conte in “Gomorra – La serie”, è stato premiato al festival Cortinametraggio come artista rivelazione, grazie alla sua interpretazione in “Gran Finale – Il Film” cortometraggio scritto e diretto da Valerio Groppa e prodotto da Jacopo Niccolò e Giulio Capanna. http://www.genius-online.it/?p=16949&preview=true
Giorgia Würth: cinema, letteratura e impegno L’attrice ci racconta com’è nato il suo ultimo libro che tratta di un tema delicato: sessualità e disabili. http://www.genius-online.it/?p=16951&preview=true
Coming Soon: http://www.comingsoon.it/ news/?source=cinema&key=42319
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SPECIALE TURISMO CULTURALE
Giuseppe Faggiotto La nuova epoca d’oro dello storico Caffè degli Specchi di Trieste Con una miscela vincente di tecnica e creatività, di tradizione e innovazione, di eccellenza e accessibilità, Giuseppe Faggiotto ha saputo riportare lo storico Caffè degli Specchi di Trieste ai fasti del passato, restituendo ai triestini un’istituzione del consumo quotidiano di caffè e della convivialità che lo accompagna.
Di SERENA CAPPETTI
A destra: Giuseppe Faggiotto al Caffè degli Specchi di Trieste. Foto: Luca Tedeschi. A pagina 98: Il Caffè degli Specchi. Foto: Luca Tedeschi. A pagina 99: Foto: Marino Sterle.
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TRIESTE, CAFFÈ DEGLI SPECCHI RIVIVE CON PIAZZA UNITÀ
Una passione nata sin da giovanissimo e una professione iniziata 35 anni fa. Esperienze professionali che attraversano l’Italia intera e una ricerca continua volta al miglioramento e all’eccellenza. Giuseppe Faggiotto fa parte di quel gruppo di pasticceri che hanno saputo movimentare e reinventare il proprio mestiere. Nonostante la clientela abbia spesso una predilezione che potremmo definire esterofila, il nostro Paese rappresenta da sempre, infatti, uno dei più importanti punti di riferimento del settore. La strada parte dal Pordenone, con l’apertura della pasticceria Peratoner e giunge fino a Trieste, nello storico Caffè degli Specchi di Piazza Unità d’Italia, con il passaggio da pasticcere-cioccolatiere a imprenditore affiancato da una squadra di professionisti selezionati da esperienze ad alto livello nel settore e dalla formazione e ricerca che rappresenta un obiettivo quotidiano per il Caffè. Il tutto senza mai dimenticare quella che è la sfida vera di questa nuova epoca d’oro del locale, quella cioè di far tornare il Caffè degli Specchi un caffè dei triestini e che può essere vinta, come sta avvedendo, solo se si riesce nella difficile sintesi di innovazione e tradizione. L’avventura inizia un anno e mezzo fa non solo facendo rinascere uno dei più eleganti e storici locali di Trieste, ma riportando la meravigliosa piazza Piazza dell’Unità d’Italia, la più grande piazza affacciata al mare d’Europa, al centro della vita cittadina. «Un percorso
che di certo non si fa da soli, ma anche e soprattutto al supporto e all’aiuto di mia moglie Anna e di mio figlio Riccardo» tiene a precisare il Signor Faggiotto. «Grazie all’esperienza acquisita con la Pasticceria Peratoner di Pordenone, dove abbiamo trovato la nostra dimensione raggiungendo importanti successi e riconoscimenti nell’ambito della cioccolateria, il Gruppo Peratoner ha intrapreso un nuovo percorso con il Caffè degli Specchi di Trieste che, a mio avviso, rappresenta una delle città italiane con più alto potenziale di crescita». Imprenditoria, quindi, ma come fine, come missione, non come mezzo o strumento. Per Faggiotto l’impegno nell’attività lavorativa è la reale fonte di soddisfazione, non il successo economico che ne consegue. Seguire il prodotto dalla ricerca delle materie prime più adatte e di qualità fino al marketing e alla vendita è la vera realizzazione e soddisfazione di questa ricerca dell’eccellenza. L’imprenditore, per Faggiotto «deve essere camaleontico, deve riuscire ad adattarsi in maniera adeguata alla clientela con cui interagisce, costruendo in questo modo un rapporto basato sulla qualità del prodotto e del servizio. Tutto sta nell’intelligenza della gestione. Il caffè rappresenta un prodotto che avvicina le persone nella sua semplicità, un momento da condividere. L’elemento che ho voluto far emergere è quello di comunicare e far percepire il Caffè degli Specchi come un caffè di tutti i giorni, frequentato
da persone di tutti i tipi, accessibile a tutti». Costante è anche l’impegno nella ricerca e nell’innovazione, sia a livello di produzione, proponendo prodotti di cioccolateria e dolci da concorso, con tecniche nuove di realizzazione e decorazione, sia a livello di servizi alla clientela, imprescindibili per una gestione di alto livello. «Il Caffè degli Specchi è tra i due o tre locali dove si consuma più caffè in Italia e non sente la crisi. Siamo riusciti infatti a quantificare in una giornata il passaggio di 7500 persone. Numeri importanti che vanno gestiti adeguatamente, curando con attenzione servizio e qualità e organizzando il lavoro di venticinque persone impegnate nella gestione del locale. L’intento è quello di enfatizzare e portare il know-how di Peratoner a Trieste e viceversa, facendo incontrare due prodotti eccezionali come il caffè e il cioccolato con il maggior numero di sentori in natura: 500 per la cioccolata e 400 per il caffè, permettendo un numero di combinazioni e associazioni incredibile». L’esperienza e la passione di Giuseppe Faggiotto quindi sono al servizio di un caffè meraviglioso, con una storia e una identità personale e affascinante, riportato allo splendore originario grazie ad una prospettiva nuova e una volontà di sviluppo e miglioramento, con uno sguardo alla città e alle sue tradizioni che la contraddistinguono e che la rendono unica dal punto di vista storico e culturale. (3’30’’)
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SPECIALE TURISMO CULTURALE
“Seguire il prodotto dalla ricerca delle materie prime più adatte e di qualità fino al marketing e alla vendita è la vera realizzazione e soddisfazione di questa ricerca dell’eccellenza”.
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SPECIALE TURISMO CULTURALE
La nuova punta di diamante del turismo italiano si chiama Portopiccolo Nato da una cava di pietra, è oggi la grande scommessa del rilancio del Friuli Venezia Giulia. I punti di forza: natura, ospitalità e cultura dell’eccellenza.
Di MATTEO MACUGLIA
Nella pagina successiva: Portopiccolo Sistiana (TS). Archivio Fotografico Portopiccolo Sistana.
Arrivando a Portopiccolo si ha fin da subito l’impressione di trovarsi in un luogo diverso, studiato nel minimo dettaglio per soddisfare il cliente. L’ex cava di Sistiana si apre in un abbraccio di bellissime abitazioni in pietra, ricavate dal materiale presente in loco al fine ricordarne le origini e la storia. L’attenzione ed il rispetto verso il passato della location sono confermate da una costruzione all’avanguardia, eco-friendly e perfettamente integrata con il territorio circostante. Marco Milocco, amministratore unico nonché direttore generale del complesso residenziale di Portopiccolo, ci accompagna con una chiacchierata a scoprire questo fiore all’occhiello della regione. Tutto qui è pensato per far sentire la persona in mezzo alla natura, infatti «e case hanno un bassissimo impatto ecologico grazie ai sistemi di pompe di calore e di energia geotermica, la viabilità c’è ed è comodissima nonostante sia nascosta agli occhi, così come i 1.400 posti auto che ci sono ma non si vedono; si va quindi cercando una sorta di perfezione sensoriale», ci spiega il dott. Milocco. Tutto quanto è stato realizzato è accessibile e fruibile da chiunque, perché «la volontà è quella di creare qualcosa di esclusivo a livello di servizi di prodotti e di materiali ma ciò non è da confondere con limitato. Un lettino in spiaggia con un asciugamano personalizzato costa 15 euro, dunque un prezzo competitivo anche rispetto alle altre realtà della regione, poi il costo sale a seconda dei bisogni del visitatore». La convinzione è quella che, una volta messi GENIUS PEOPLE MAGAZINE
gli occhi su questa destinazione turistico alberghiera arroccata sul mare, la magia sia fatta, il resto verrà da sé grazie alla bellezza della location. Si sta per questo promuovendo Portopiccolo sia a livello locale e nazionale sia all’estero, con particolare riguardo ad un Centro Nord Europa, alla ricerca di esperienze di alto livello accompagnate da una grande professionalità dei servizi. L’ambizione ad ogni modo è quella di dare all’utenza un’esperienza che si sviluppi durante tutto il corso dell’anno, superando così una definizione di località balneare e il concetto di alta stagione. Le strutture infatti «saranno aperte anche d’inverno, con alberghi, negozi, ristoranti più la spa con mini-surgery e centro congressi dai primi mesi del 2016». La fortuna di Portopiccolo - che ha recentemente raggiunto un traguardo importante annunciando la partnership con Starwood Hotels & Resorts Worldwide, in vista dell’imminente apertura del Falisia, a Luxury Collection Resort & Spa - sta inoltre nella posizione strategica che ricopre all’interno del territorio della regione. La fortuna di Portopiccolo sta inoltre nella posizione strategica che ricopre all’interno del territorio della regione. I collegamenti non mancano grazie a due aeroporti (Ronchi dei Legionari e Lubiana) mentre l’entroterra friulano completa l’offerta turistica con le vicine montagne e colline per chi durante la stagione fredda vuole dedicarsi alle attività invernali. La riqualificazione di quest’area rappresenta quindi una scommessa non solo per chi, come Milocco, ha scelto di impegnarcisi in prima persona, ma anche per la regione, la quale vede uno sviluppo dell’occupazione di oltre «150 persone, con un indotto importante per le aziende locali che si occupano del mantenimento e funzionamento di questa vera e propria città, composta da 450 unità abitative alle quali si aggiungono negozi, bar e ristoranti. Portopiccolo punterà ora sui servizi che ruoteranno attorno ad un albergo di lusso dotato di tutte le prerogative del caso. Oltre a tutto ciò ci saranno delle offerte esclusive come quella del Maxi’s Beach Club, che sarà una delle zone più in dell’Adriatico con spettacoli, aperitivi sulla spiaggia e serate con artisti di spessore. 100
LA NUOVA PUNTA DI DIAMANTE DEL TURISMO ITALIANO SI CHIAMA PORTOPICCOLO
Si è puntato molto anche sulla parte culinaria con quattro livelli di ristorazione, dall’alta classe del cibo nazionale ed internazionale fino alla cucina salutista con qualche piatto molecolare. In questa esperienza si guarda al dettaglio anche nei piatti più semplici come la pizza, che sarà preparata con un livello di fanatismo sul prodotto che difficilmente si può trovare altrove». Per Marco Millocco questa è l’occasione di portare un livello d’eccellenza nuovo alla regione che gli ha dato i natali e nella quale finora, paradossalmente, non aveva mai lavorato. Per riportarlo in Friuli Venezia Giulia c’è voluto un progetto che «andasse oltre al solito villaggio turistico, l’ennesima Porto Cervo o Portofino». Per rapire il cuore di un manager che ha lavorato nelle realtà più eleganti e sfarzose del mondo è servita la vista mozzafiato di una cava a strapiombo sul mare, che oggi è stata restituita ai cittadini del mondo sotto il nome di una splendida Portopiccolo. (3’30’’)
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Hotel Savoia Excelsior Palace: l’arte dell’ospitalità Di MICHELE CASACCIA
Al numero 4 di Riva del Mandracchio a Trieste c’è un maestoso edificio austroungarico che da più di un secolo si affaccia sul mare del golfo: il Savoia Excelsior Palace, della Collezione Starhotels, punto di riferimento imprescindibile per il settore alberghiero del Nord Est e una delle ventiquattro stelle del firmamento Starhotels. Con il suo stile elegante dal fascino mitteleuropeo, le sue 144 camere e un ristorante di alta classe, il Savoia offre la possibilità di un soggiorno esclusivo e l’organizzazione di meeting, matrimoni ed altri eventi, grazie alla nove sale conferenze disponibili. L’albergo è dal suo nascere un luogo di eccellenza dell’ospitalità. È stato progettato come l’albergo ideale per volere dell’Imperatore d’Austria, di un lusso pacato, con ampi spazi per incontri ed eventi. Ancora oggi è scelto da un pubblico internazionale per far incontrare viaggiatori d’affari o di piacere. A capo dell’hotel c’è il giovane Riccardo Zanellotti. Parlando con lui di turismo e grandi catene, la parola «sinergia» è ritornata spesso. E in effetti, dietro il Savoia c’è una solida Catena Alberghiera che da oltre 35 anni è leader nell’ospitalità di marca italiana. Riccardo Zanellotti crede nella sinergia, intesa anche come espressione del sentire «Il senso dell’accoglienza che noi offriamo in albergo dovrebbe essere lo stesso che
poi si trova fuori, al negozio, al ristorante, nel taxi, nelle persone che fermi per strada per chiedere un’informazione». Chiunque, cioè, può e deve fare del suo meglio per favorire la conoscenza e la promozione della propria città. «Essere accoglienti, solari, empatici, appassionati, efficienti, conoscere il proprio territorio è fondamentale». Ma il ruolo ricoperto da Zanellotti lo ha reso sensibile anche a dinamiche più complesse o di maggior respiro. «Essere direttore di un albergo vuol dire avere un impegno che va al di là della mera gestione operativa della struttura. Significa essere impegnato a livello locale e internazionale a valorizzare al meglio la nostra destinazione. In poche parole essere ambasciatori del territorio e delle sue eccellenze». E quando gli chiediamo cosa migliorerebbe non ha dubbi. «Le infrastrutture in primis. Consentirebbero alla città di decollare. Quindi aumentare la disponibilità di voli, treni, con stazioni e aeroporti efficienti e ben serviti per poter sfruttare il trend positivo che sta interessando le
regioni ancora poco conosciute. I viaggiatori sono sempre più curiosi di scoprire altre destinazioni, per così dire di nicchia, e fare nuove esperienze». Soltanto un anno fa Zanellotti riceveva una certificazione molto importante, la Welcome Chinese, per premiare il costruttivo interesse verso il nascente mercato asiatico. «Tutti i mercati sono importanti per noi, che siamo presenti alle più importanti fiere del turismo mondiale. È essenziale non tralasciare nessuna delle nuove opportunità di comunicazione, ma continuiamo a credere nelle relazioni umane. Ecco perché viaggiamo molto all’estero: per creare nuove opportunità e per consolidare relazioni già esistenti». Viaggiare è dunque un’occasione preziosa per conoscere e farsi conoscere, e ogni albergo diventa perciò parte integrante di questo percorso conoscitivo che interessa un luogo, la cui anima può essere raccontata anche nel breve spazio di una vacanza. Che tanto più allora dovrà essere perfetta. (3’20’’)
In questa pagina: Hotel Savoia Excelsior Palace. Foto: Marino Sterle.
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Le nuove frontiere della trattoria Ai Fiori
Di MICHELE CASACCIA
In questa pagina: Trattoria ai Fiori. Foto: Luca Tedeschi.
Nonostante la trattoria sia da decenni un punto di riferimento del panorama gastronomico cittadino e resti saldamente inserita in un contesto “classico” della ristorazione a Trieste, una nuova gestione, da gennaio 2013, ha portato al locale una ventata di aria fresca. Avendo sempre presentato una cucina di mare, Alberto e Maria Giovanna hanno innanzitutto deciso di rispettare questa tradizione, mantenendo così le aspettative di una clientela consolidata. Ma non per questo non aggiungendo qualche novità, come ad esempio il rinnovamento del menù ogni tre mesi, in modo da seguire la stagionalità e garantire sempre un’alta qualità delle materie prime. Ai Fiori ha sempre fatto del territorio circostante un punto di partenza imprescindibile per il suo menu e, ieri come oggi, mette nel piatto tutti i profumi del Carso triestino, dell’entroterra goriziano, i sapori delle coste istriane e venete, avvalorandosi della preziosa collaborazione di tante piccole e grandi aziende dalle lunghe tradizioni familiari. L’offerta della trattoria comprende anche la possibilità di pranzi veloci per chi ha poco tempo e la creazione di piatti vegetariani fuori menu, con un occhio di riguardo per allergie e intolleranze alimentari, come la celiachia. Ma Ai Fiori è una trattoria moderna sotto diversi punti di vista, che guarda alla commistione di arti e di opportunità. È il caso ad esempio del workshop di cucina medievale e rinascimentale organizzato in collaborazione con il Festival WunderKammer, oppure del corso tenuto da l’Associazione Workevent “Il servizio a regola d’arte” rivolto ai giovani che vogliono intraprendere o migliorare la propria formazione di sala. È un posto quindi in cui organizzare eventi, degustazioni e mostre di quadri e fotografie nel nome dell’innovazione e della sinergia, qualità oggigiorno necessarie alla presentazione di un’offerta nuova, convincente e coinvolgente. La consapevolezza di dover guardare in modo competitivo e costruttivo a trend in rapidissimo movimento è certamente una caratteristica che rende la trattoria Ai Fiori un perfetto esempio di come dovrebbe essere il ristorante del futuro. Un ristorante che interpreta le tradizioni del passato in chiave moderna. (1’40’’) NUMERO 02
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SPECIALE TURISMO CULTURALE
La Cantina del Vescovo: aperitivi tra qualità e condivisione
Di FRANCESCO CHERT
In questa pagina: Francesco Minucci alla Cantina del Vescovo. Foto: Luca Tedeschi.
In una Trieste che ha riscoperto il suo cuore culturale e notturno nel quartiere di Cavana, tornato, dopo decenni di degrado e di marginalità, alla centralità che si merita, tra i bar, le enoteche, i ristoranti, le libreria aperte fino a sera tarda, troviamo la Cantina del Vescovo di Francesco Minucci, nello splendido edificio dove, fino al 1830, aveva sede la Curia della città. La formula tende a superare il classico concetto di enoteca. «L’idea nasce durante un viaggio in Spagna, durante il quale io e miei soci ci siamo resi conto non solo del valore poco conosciuto dei vini spagnoli e della qualità del settore della ristorazione, ma anche del tipo di fruizione che trova le sue direttrici nella condivisione e nell’accessibilità», ci spiega Francesco, infatti «in Spagna esiste una produzione vinicola che non ha nulla da invidiare alla nostra o a quella francese e una quantità di ristoranti stellati da farci impallidire. La crisi poi ha spinto enoteche e ristoranti a rivedere la loro offerta allargando il proprio target senza rinunciare alla qualità dei prodotti. Da qui nasce l’idea di un posto che sia un punto di riferimento per degustazioni di altissimo livello ma anche luogo di incontro quotidiano per chi vuole bere qualcosa a fine giornata». Un’idea chiara, quindi, che sembra decisamente confermata dalla quantità e dalla composizione della gente che affolla i tavolini all’esterno, affacciati sul passaggio pedonale della rinnovata via Torino, e all’interno dove un tronco di
tiglio plurisecolare crea uno spazio di condivisione che incoraggia, complice il buon vino, alla socializzazione e alle nuove conoscenze: adulti con bottiglie tenute in fresco, giovani in piedi con il bicchiere in mano, famiglie che cenano con i bambini che giocano sulla bellissima piazzetta pedonale antistante. Il progetto non si esaurisce qui, in cantiere infatti c’è l’idea di creare, nella sala sul retro dell’enoteca, uno speak easy, un club nel quale si respirerà la magia dell’epoca del proibizionismo, dei ruggenti anni venti, con una ricerca nella selezione musicale, nell’arredamento e nella proposta di cocktail preparati come all’epoca. Ma com’è aprire un’attività di questi tempi? Con la tua formazione giuridico economica di altissimo livello, chi te lo ha fatto fare? «Non è la mia prima esperienza come imprenditore. Sono uno dei fondatori di M-Stash, linea di abbigliamento che ora abbiamo dislocato in Asia e in mercati più floridi e competitivi. Oltre alla Cantina sono in fase di start up su un nuovo progetto che lavorerà con grossi gruppi internazionali del settore eno-gastronomico; permettterà di lavorare tra differenti paesi in un’ottica business to business. In Italia invece, al momento, non si può andare oltre il business to customer visto il persistente problema dei crediti incagliati. Certamente il momento non è dei migliori ma poi, quando vedo che siamo primi in città su Tripadvisor, capisco che siamo sulla strada giusta». Pare anche a noi. (2’25’’)
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Ambra Pop tra natura e cultura L’artista milanese Enzo Fiore propone una riflessione artistica sul rapporto tra vita e morte, attraverso materiali biologici che compongono le figure più importarti della nostra epoca. Di RICCARDA GRASSELLI CONTINI Con MARTINA VOCCI
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Natura e cultura. Materiale e immateriale. Vita e Morte. Binomi che fondano, oltre la storia della pensiero, anche la nostra civiltà. La dialettica tra essi contraddistingue anche le opere di Enzo Fiore, l’artista che trasforma la cultura in natura e conferisce alla prima una nuova vita. Nato a Milano nel 1968, città in cui attualmente vive e lavora, si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Brera, culla dell’arte italiana dell’epoca contemporanea classica, con il maestro Luciano Fabro, lo scultore che negli anni Sessanta aderì al gruppo dell’Arte Povera di Germano Celant. La tridimensionalità del maestro e l’uso di materiali poveri viene però rielaborata da Enzo Fiore in una soluzione del tutto originale e peculiare: fin dal suo debutto l’artista utilizza materiali di origine naturale, ma soprattutto biologici come lui stesso sottolinea. Muschio, foglie, radici, terra, pietre, resina e cemento sono le parole che permettono all’artista di combinare insieme frasi che rimangono sospese tra realtà
e fantasia, a cui si aggiungono nel 2008 anche varie forme di insetti.
Fin dal suo debutto l’artista utilizza materiali di origine naturale, ma soprattutto biologici come lui stesso sottolinea.
Nella pagina precedente: “Apocalisse a Londra”, 2014. Tecnica mista (resina, terra, foglie, radici, insetti...) su tela. 250x190 cm. In questa pagina: “Anatomy Lesson 1632”, 2007. Tecnica mista (terra, foglie, radici...) su tela. 220x170 cm. Nella pagina successiva: “Appropriazione la Gioconda”, 2012. Tecnica mista (resina, terra, foglie, radici...) su tela. 170x118 cm.
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GALLERIA CONTINI
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In questa pagina: “Papa Innocenzo X”, 2008. Tecnica mista (resina, terra, foglie...) su tela. 180x140 cm.
Avvicinandosi le tele prendono vita nel brulicare dei materiali che sotto la resina compongono la tela. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Se Aristotele sosteneva che l’arte doveva imitare la natura, nelle opere di Enzo Fiore questo assunto viene completamente sovvertito e rovesciato: attraverso i materiali della natura l’arte viene riportata a nuova vita. Nei suoi lavori recenti, attraverso una riappropriazione delle icone della cultura occidentale dalla Gioconda a Marilyn, l’artista crea un archivio della memoria visiva che fa parte di ciascuno di noi. Il tratto originale, però, è vivificazione a cui sottopone questo patrimonio collettivo attraverso la dinamica tra vicino e lontano che si consuma nell’occhio dello spettatore: mentre dalla distanza si riesce a cogliere esclusivamente una pulita grafica dei soggetti rappresentati, avvicinandosi le tele prendono vita nel brulicare dei materiali che sotto la resina compongono la tela. I quadri di Enzo Fiore sono delle ambre in cui è stata intrappolata e riprodotta in un’ottica altamente postmoderna la nostra cultura. Discorso a parte va fatto per le sculture, che celano un meticoloso lavoro di studio anatomico sui soggetti realizzati: ecco allora che un cavallo e un leone diventano groviglio di radici e rami che riproducono i loro sistemi arteriosi, o come accade per Ecce Homo, la scultura che rappresenta l’uomo nella sua interezza. Una potente similitudine tra le vene dell’uomo e le radici dell’albero, perché le opere di Enzo Fiore sono fatte della stessa materia del corpo umano, ne condividono l’elemento biologico. Enzo Fiore è rappresentato in esclusiva dalla galleria d’arte Contini, e le sue opere sono presenti in molte collezioni pubbliche e private. Tra le numerose mostre personali e collettive nazionali e internazionali, vanno ricordate la personale Genesi: I miti della storia, curata da Achille Bonito Oliva al Complesso del Vittoriano di Roma nel 2012 e Divine ed altri miti, a cura di di Anna Vergine e Gabriele Fallini al Palazzo Callas di Sirmione nel 2013. Il 18 aprile 2015 inaugurerà a Gambolò, in provincia di Pavia, la collettiva Uomo e Spiritualità in cui attraverso le sue opere, insieme a quelle di altri tre artisti, Enzo Fiore riesce a far emergere la spiritualità dell’uomo attraverso la materialità del corpo umano.
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RUBRICA
#progetto I perché del fare, giorno dopo giorno, un progetto. #1
Per il primo numero della rubrica #progetto abbiamo scelto di intervistare Lorenzo Taucer, socio fondatore e Art Director dello studio multidisciplinare Acrobatik di Trieste. Fra i tanti professionisti che abbiamo incontrato nel nostro percorso crediamo che pochi siano così profondi, attenti e diretti come Lorenzo; capace di sdoppiarsi su diversi lavori mantenendo sempre lucida la visione d’insieme del progetto, Lorenzo è un personaggio esplosivo che emana cultura, conoscenza e passione nel fare il suo mestiere.
Di STUDIO-A29
La rubrica #progetto è stata concepita come cinque interviste con una ferrea griglia progettuale in cui i cinque interlocutori progettisti avranno modo di snocciolare e raccontare ciò che progettano; cose, case, video, aziende, futuro e sogni. Ci siamo dati delle regole precise: ogni domanda avrà un massimo di 140 caratteri, un tweet. Ogni risposta, a sua volta, avrà un massimo di 140 caratteri, un tweet. Un botta e risposta senza giri di parole, tutto è ridotto all’osso, completa sincerità nell’esternare i perché del proprio operato e del proprio progetto. Tutti gli intervistati da #progetto sono persone da noi selezionate per cui nutriamo una profonda stima e rispetto; professionisti che ci mettono il cuore, gran lavoratori dediti ai più svariati tipi di progetto, professionisti che, anche nel loro piccolo, vogliono fare la differenza (e ci riescono!).
Ciao, qual è il tuo nome, cognome e professione… non quella descritta nella carta d’identità, ma quello che senti di professare ogni giorno. Mi chiamo Lorenzo Taucer, sono socio fondatore di Acrobatik, piccola società di consulenza strategica e operativa con sede a Trieste.
negare. Una direzione artistica flessibile.
Come si chiama la tua azienda? Perché esistete? Da cosa siete nati? Acrobatik unisce diversi percorsi e competenze professionali per tradurre in opportunità i veloci cambiamenti della società e del mercato.
Ti provoco… molti dei vostri lavori possono essere riconducibili a grafiche commerciali; quando vedremo un progetto per un teatro? Non vedo differenze tra teatro e impresa, ma solo una semplice questione di contesti di riferimento. Il resto sono inutili categorizzazioni.
Solitamente come sviluppate i progetti che gestite all’interno del vostro studio? Ogni progetto rappresenta una complessità che prima di poter essere sviluppata va compresa e ordinata. Diamo ampio spazio alla discussione. Perché dovrei affidarmi a voi se fossi certo di avere un valido prodotto da lanciare? Siamo focalizzati sul concetto di sistemaprodotto. Un prodotto valido, senza un adeguato sistema valoriale alle spalle, non serve a molto. Qual è il tuo ruolo all’interno della tua azienda? Cosa ti porta ogni giorno ad alzarti e dare il massimo? Credo nel connubio tra estetica e funzionalismo, e alla possibilità, quando necessario, di poterlo
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Cosa significa per te e per i tuoi collaboratori la parola #progetto? Design is a state of mind. È una definizione che non saprei esprimere meglio. Per gli altri non posso rispondere, ma c’è sicuramente sintonia.
Quali metodi, mezzi o strumenti utilizzi per riuscire a comunicare il tuo approccio progettuale? Sei certo che i vostri clienti se ne accorgono a ogni lavoro? Assolutamente. Con i clienti instauriamo rapporti di fiducia basati sempre sul rispetto dei ruoli. Il vantaggio è la multidisciplinarità. Sei certo che i vostri clienti si accorgano che ci sia un progetto anche solo dietro ad una semplice immagine? Si. Il progetto, a differenza del gesto artistico, ha sempre un fine. Condiviso questo, è possibile guardare le cose da diverse prospettive. www.acrobatik.it
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TEAM
Il nostro Team FRANCESCO LA BELLA
FRANCESCO CHERT
Direttore responsabile
Segreteria di Redazione
Mail: redazione@genius-online.it
Twitter: @FrancescoChert
Giornalista professionista, nasce a Vibo Valentia e cresce a Trieste, la città che ama e alla quale deve la sua formazione professionale e umana. Fin da ragazzo è orientato al giornalismo e all’editoria e ancora studente ottiene importanti incarichi presso emittenti televisive, con trasmissioni proprie, e collaborazioni con svariate società Spa. Oggi è ufficio stampa della Diocesi di Trieste ed è il fondatore e direttore di genius-online.it e di Genius People Magazine. Crede fermamente che uscire dagli schemi sia il solo modo per trovare il genio.
Laurea in comunicazione, master in scienze politiche, unisce da sempre la passione per politica e scrittura attraverso un approccio polemico ed eretico, attitudinalmente minoritario e non allineato. Appassionato da sempre di cinema, musica, storia e letteratura. Ha lavorato presso vari uffici stampa, ha tenuto lezioni universitarie, si è occupato dell’organizzazione di eventi, oltre ad aver svolto molti lavori precari e sottopagati, tra cui il commesso, il facchino e il coltivatore diretto. Ritiene che il senso dell’esistenza stia nella consapevolezza.
MITJA VESNAVER
MATTEO ZANINI
GIADA LUISE
Art Director
Financial Director
P.R. Eventi
Twitter: @studioa29
Twitter: @ZannaIlCobra
Twitter: @giada_luise
Trieste, 1984. Designer. Si occupa di identità visiva aziendale, comunicazione di eventi culturali e grafica editoriale. Nel 2009, con Marco Barbariol, Albi Enesi e Claudio Sartor, fonda lo studio di strategia e progettazione Studio-a29 e vince, assieme a Stefania Quaini e Riccardo Sabatini, il premio speciale StartCup FVG. Nel 2010 è co-fondatore di Manifetso2020, associazione culturale per la rigenerazione urbana. Appassionato di 45 giri di fine anni ‘60 - inizio ‘70, conduce una trasmissione musicale per una radio locale.
Nasce e vive a Trieste: giornalista pubblicista dal 2003, ha collaborato e collabora con varie testate nazionali sia a livello cartaceo che televisivo. Grande appassionato di pallacanestro e di comunicazione digitale e via web, si è laureato all’Università di Trieste in Cooperazione allo Sviluppo e nel suo curriculum ha all’attivo l’organizzazione di diversi eventi sportivi e convegni di vario genere.
GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Giada Luise si laurea in Relazioni Pubbliche della Promozione e della Comunicazione Pubblicitaria presso l’Università degli Studi di Udine. Dopo aver conseguito un master in Business Communication lavora nel mondo della pubblicità e della comunicazione. Sviluppa ulteriori competenze nel campo delle relazioni istituzionali e politiche, lavorando presso il Consiglio Regionale del FVG. Collabora con il teatro La Piccola Fenice di Trieste all’organizzazione di eventi musicali e letterari. 110
SHORT BIO
RICCARDA GRASSELLI CONTINI
RICCARDO D’ESTE
ILIE ZABICA
Redattore arte e cultura
Account Executive
Responsabile ufficio estero
Twitter: @RiccardoDEste
Twitter: @iliezabica
Nasce nella splendida Cortina d’Ampezzo, culla di natura e cultura. Dopo studi classici e di interior design tra Venezia e Roma, collabora da vent’anni con il marito nella Galleria d’Arte Contini, punto di riferimento per il mercato dei nomi più prestigiosi della pittura e della scultura moderna e contemporanea.
Nato a Udine il 7 Luglio 1983 da padre friulano e madre lombarda, all’età di 18 anni decide di continuare la sua educazione universitaria in Svizzera, ottenendo un Bachelor of Science in International Hospitality Management all’Ecole Hoteliere de Lausanne; completati gli studi si trasferisce a Londra, dove lavora con la Banca d’affari americana JP Morgan. Attualmente in Italia per motivi romantici, è trader indipendente su strumenti derivati e collabora con Genius su sviluppo e negoziazioni.
Nato a Florești, RSSM (ex Urss), cresciuto in una tipica famiglia sovietica, deve tutto ai genitori e ai fratelli. Dopo il ginnasio si trasferisce per studiare all’Università Tecnica di Chişinău. Nel 2007 ottiene il Master in Diritto Amministrativo e Costituzionale presso L’Università degli Studi Europei della città. Ancora studente è direttore esecutivo delle filiali della Fondazione Regina Pacis nella Repubblica Moldova (dal 2001 ad oggi) e in Transnistria (dal 2003 ad oggi). Realizzare progetti di ordine sociale e imprenditoriale.
MARCO GNESDA
MICHELE COLUCCI
ALICE NOEL FABI
Coordinamento
Videomaker
Photoreporter
Nato e cresciuto a Trieste, laureato in Lingue e Letterature Straniere, da 11 anni è nel team di EVE, l’agenzia responsabile della creazione di ITS International Talent Support, la piattaforma di supporto a giovani talenti creativi in tutto il mondo. Copywriter, assistente di direzione, memoria storica... Con trascorsi sportivi di vario tipo, negli ultimi anni dedica il suo tempo libero al ciclismo su bici da pista. Che declina attraverso l’altra passione - il videomaking - in brevi storie rigorosamente a due ruote.
Due forti passioni: il mondo del cibo e il viaggio. Laureata in International Hospitality Management presso la University of Brighton in Inghilterra, dopo importanti esperienze lavorative tra Londra e Sydney nell’alta ristorazione, consegue il Master in Food Culture and Comunication presso l’Università di Scienze Gastronomiche fondata da Slow Food a Pollenzo. Oggi è consulente di una start up ad Atlanta negli USA, continuando a viaggiare e gustando le infinite sfaccettature del mondo enogastronomico.
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Twitter: @marcognesda
Ingegnere libero professionista per l’architettura e l’edilizia dal 2006. Redattore e curatore grafico di Juliet Art Magazine dal 2010. Tra i fondatori nel 2010 dell’Associazione Culturale Mimexity per la diffusione della cultura contemporanea. Ha scritto per la rivista d’architettura IlProgetto. Dal 2014 membro di Impact Hub Trieste.
CONTRIBUTORS
Hanno contribuito a questo numero
ALESSIO BRIGANTI
ALICE CAMARDA
Twitter: @ale_briga
Twitter: @alice_camarda
Triestino per caso, polemico quanto basta. Da giovane frequenta l’associazionismo cattolico diventando laico e si avvicina alla politica sviluppando insofferenza verso i partiti. Successivamente inizia la pratica giornalistica divenendo fiero avversario dell’Ordine, passa poi al pubblico impiego dove rafforza le sue convinzioni liberiste. Si laurea in Lettere a Trieste e scappa a Roma per conseguire un master in Comunicazione alla LUISS. Si interessa di comunicazione istituzionale e politica, con particolare attenzione per le strategie digitali.
Nasce a Udine ma vive a Trieste da quando frequenta la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi. Apprendista giornalista e aspirante fotografa. Nel 2007 vince il premio giovani del premio di poesia “Giulietta e Romeo di Savorgnan di Brazzà”. Il suo “Erano solo bambini” è pubblicato nel 2011 dall’Associazione Nazionale Ex Deportati nel libro “I viaggi della memoria”. Volontaria per l’ALT (Associazione di cittadini e familiari di Trieste per la prevenzione e il contrasto alle dipendenze). Scrive, studia l’arabo e viaggia da sola, per essere pienamente a contatto con nuove culture e con le bellezze della natura.
NICOLÒ GIRALDI
MATTEO MACUGLIA
Twitter: @NicoloGiraldi
Twitter: @matteomacuglia
Nasce per un errore della Storia a Trieste nel 1984. Giornalista dal 2009, pubblica con La Voce del Popolo, quotidiano italiano di Slovenia e Croazia dal 2005 fino a quest’anno, occupandosi di corrispondenza dall’Italia e da Londra dove completa un master alla London School of Journalism nel 2013. Laureato in Storia Moderna e viandante, ha fondato il progetto GiroNellaStoria.com, un viaggio a piedi lungo il presente della Grande Guerra.
Il “ragazzino” della redazione: ventuno anni, laureando in Scienze Politiche e dell’Amministrazione all’Università degli Studi di Trieste. Ha una grande passione per la fotografia, il cinema e le arti visive in genere e nutre un grande interesse per l’attualità politica. Il suo sogno nel cassetto? Diventare, un giorno, giornalista.
SHORT BIO
SERENA CAPPETTI
MICHELE CASACCIA
GABRIELE GEROMETTA
Twitter: @serena_cappetti
Twitter: @MicheleCasaccia
Twitter: @IoSonoZero
Di origine pordenonese, un po’ friulana e un po’ veneta, adottata da Trieste ormai da diversi anni. Laureata in Comunicazione e Pubblicità, scrive per genius-online e per il settimanale Vita Nuova. Appassionata di cinema e arte ma assolutamente curiosa senza riserve, ama sperimentare, specialmente in cucina. All’attività di giornalista associa, con entusiasmo, quella di copywriter e Pr.
Classe 1986: consegue la maturità classica al Liceo Dante Alighieri di Trieste; attualmente iscritto alla facoltà di Lettere di Trieste, nel suo curriculum giornalistico ha all’attivo una collaborazione con il sito Panorama.it, ed ha pubblicato il libro autobiografico “PPP”, edito da Narcissus, sul delicato argomento del gaming on-line.
34 anni, si è laureato nel 2006 in Scienze della Comunicazione, con una tesi sul digitale: da allora ha fatto qualsiasi tipo di lavoro. Giornalista pubblicista dal 2006, è copywriter freelance dal 2012; appassionato di nuove tecnologie, cinema ed arti visive, scrive “di tutto e su tutto”. Parla soprattutto di tecnologie digitali e delle loro ricadute sulla nostra vita di tutti i giorni.
ANNA MIYKOVA
BETTINA TODISCO
MARTINA VOCCI
Twitter: @AnnaMiykova
Twitter: @BettinaTodisco
Twitter: @MartinaVocci
Bulgara di nascita, piemontese di adozione. Si laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia, dove per tre anni è vice-coordinatrice del Club Atlantico Giovanile del FVG. È consigliere giuridico per il diritto internazionale umanitario e si occupa di politica internazionale, geostrategia e sicurezza coniugando l’amore per la scrittura e per le relazioni internazionali. Vive a Roma, dove ha conseguito un master in Peacekeeping and Security Studies. Nel 2013 è stata embedded con l’Ei in Libano.
È nata a Udine e vive a Trieste. Laureata in Matematica e specializzata in informatica, ha lavorato come progettista di sistemi informativi presso un’azienda del settore ICT, nella quale oggi ricopre il ruolo di social media manager. Giornalista pubblicista, ha approfondito le tematiche della comunicazione, conseguendo un master in Analisi e gestione della comunicazione ed ha collaborato alle pagine culturali di quotidiani e periodici locali. Ama la letteratura, la scrittura, il giornalismo, il cinema, il teatro, i viaggi e la fotografia, oltre alla matematica.
Si è laureata in Teoria della Letteratura alla Sapienza di Roma. Ha vissuto tra Parigi e Roma, da quattro anni è tornata a Trieste dove si occupa di comunicazione, redazione ed è social media manager. Dopo un’esperienza nell’arte contemporanea con LipanjePuntin artecomporanea e Roma e a Trieste, da anni è attiva in campo culturale con l’organizzazione di diverse iniziative atte a sviluppare la cultura cittadina. Da quattro anni cura e co-conduce per TV Capodistria la rubrica La Barca dei Sapori.
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