Genius People Magazine Euro 5.00
Numero 03/04
Anno 2015
MICHAEL JORDAN, MUHAMMAD ALI, GIUSEPPE CRUCIANI, DAN PETERSON, VASCO VASCOTTO, ALDO MINUCCI, SPECIALE BIENNALE DI VENEZIA, VITTORIO SGARBI, CLAUDIO LIMARDI, BOGDAN TANJEVIC, FLAVIO TRANQUILLO, MONS. GIAMPAOLO CREPALDI, MITJA GIALUZ, VINCENZO SALEMME, GIULIA SERGAS, LUXURY EXPERIENCE A PORTOPICCOLO
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EDITORIALE
Il metodo del genio Di FRANCESCO LA BELLA
Il genio che a noi interessa è chiunque abbia il coraggio di uscire da schemi preconfezionati, dal quieto vivere tarato su un tacito concetto di mediocrità, dall’omologazione imposta da logiche di massa. Sembra facile, ma non lo è. Non è facile essere il genio alla Einstein, ma non lo è nemmeno essere in grado, con una visione differente e con il coraggio delle proprie scelte, di elevarsi dalla banalità di chi non vuole rischiare. Il filo che lega il genio della mitologia letteraria, scientifica, sportiva alla persona che vive una vita degna di essere raccontata è la capacità di andare oltre, di considerare i limiti una semplice illusione, un alibi consolatorio che serve a gestire la propria inerzia e l’arruolamento nei ranghi della banalità. Ed è il filo che attraversa Genius e, in particolar modo, questo numero, che già nella sua impostazione editoriale rompe gli schemi precedenti della lunghezza (180 pagine rispetto alle precedenti 116) e della cadenza (doppio numero estivo rispetto alla singola uscita); ma anche nella scelta dei contenuti: si passa da un’analisi fenomenologica della genialità alla storia di chi genio lo è stato, come Michael Joardan e Muhammad Ali, da chi li ha conosciuti e studiati a chi ha assorbito il riflesso del loro modo di influenzare la cultura mondiale, fino a chi ha saputo lui stesso, grazie all’istinto o all’esperienza, scardinare gli schemi e vincere, alla faccia di chi non credeva in loro. E, visto che la genialità non sta necessariamente o soltanto nel codice genetico ma si impara, come insegna l’esperienza della Silicon Valley, dove il “pensare differente” è diventato un metodo di lavoro e un approccio codificato, ci siamo fatti raccontare come si può andare oltre con successo da chi lo ha fatto, consapevoli che la condivisione e la trasmissione delle esperienze sono preziose per chi la comunica e per chi la ascolta. Socrate consigliava di mescolarsi ai migliori per imparare e ai migliori di insegnare, perché insegnando si impara.
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EDITORIALI
Portopiccolo per il rilancio di imprenditoria e turismo
stiche del Friuli Venezia Giulia possono rappresentare una nuova meta per il nuovo turista russo, soprattutto considerando i benefici economici che ne deriverebbero per il nostro turismo di lusso.
Di VITTORIO SGARBI
Nella logica di creare un angolo turistico raffinato, la progettazione e lo sviluppo di Portopiccolo a Sistiana rappresentano sicuramente una sfida interessante. Avevo avuto l’occasione di visitarlo quando era ancora un cantiere a cielo aperto e sono dunque estremamente curioso nonché fiducioso di vedere il progetto realizzato e finito, perché sono convinto che abbia tutte le potenzialità per rappresentare un modello d’eccellenza tutta italiana. Negli ultimi anni, il turista del Nordest italiano ha subito una forte attrazione per le coste croate, a scapito del Friuli Venezia Giulia e delle regioni vicine. La Croazia ha infatti saputo rilanciarsi in maniera intelligente e non vedo perché l’Italia non possa fare lo stesso. Anzi, le coste italiane potranno attirare un nutrito turismo balneare se il nostro Paese sarà in grado di essere competitivo nei confronti della vicina croata e, soprattutto, del litorale istriano. Ecco quindi che Portopiccolo potrà essere l’esempio perfetto per ridare slancio anche all’imprenditoria italiana e non solo a quella del nord est. Voglio usare un aggettivo semplice perché per descrivere l’estetica non serve essere complicati: il posto è molto bello e quando le premesse sono buone le prospettive non possono che essere positive. Abbiamo un impatto ambientale innovativo che non aggredisce l’ambiente naturale e a mio avviso, anche se non sono un esperto del settore, l’essenziale sarà proporre una buona operazione d’immagine e un’offerta competitiva che sposi richieste di livello elevato e raffinato. Per dirlo con un’immagine, per gli acquirenti delle Ferrari - che non compete certamente con le Fiat 500 - l’importante è che il marchio sia in grado di dare quello che promette. Auspico dunque che Portopiccolo diventi un polo d’attrazione per il nuovo turista: un punto a favore anche del Friuli Venezia Giulia che, in questa maniera, potrà rilanciare il suo ruolo di regione mitteleuropea e di competere con le bellezze della Croazia. Infine, se parliamo di turismo di livello sono convinto che anche i russi debbano assolutamente essere corteggiati e non ostacolati delle nostre scelte sbagliate. La Russia non deve essere guardata da noi come un Paese da tenere lontano: sarebbe un grave errore. Le località turi-
Lo sport come moltiplicatore emozionale Di FABIO DE VISINTINI
Lo sport, preso nella sua essenza, è spesso molto semplice: chi corre più veloce, chi getta la palla nel buco, chi abbatte l’avversario. La sua gestualità, solo apparentemente semplice, è il frutto del perfezionamento continuo e della forza d’animo. Non c’è da stupirsi, quindi, se dalla facile comprensione di gesti portati alla perfezione, escano valori simbolici, sociali, comportamentali, attraverso i personaggi che lo innalzano e nobilitano. Come conseguenza, al campione che corre più veloce, autentico mito, vogliamo chiedere cosa pensa, come vive, per integrare l’icona di cui abbiamo bisogno, la rappresentazione del personaggio che dobbiamo utilizzare come simbolo. Livio Berruti vinse le Olimpiadi di Roma nel 1960, nei 200 metri, davanti ai soliti potenti felini americani: sul podio apparve un ragazzo per bene, con gli occhiali, uno studente educato e mite, un antipersonaggio per noi, oggi, abituati a Bolt, statuario e sorridente mito che scaglia dardi alle nuvole. Al tempo lo sport aveva un valore legato essenzialmente a se stessi, alla propria crescita anche interiore, alla ricerca dei propri talenti e dei limiti, con abbinato il faticoso metodo per superarli: l’allenamento. Era un po’ un modo di vivere, dove essere campioni ed emergere in assoluto era quasi una casualità, mentre la salute psicofisica era lo stimolo necessario per crescere. Poi però la folla e l’interesse attorno agli eventi hanno offerto un assist, nell’era del marketing dominante, ai valori simbolici, che solo occasioni così numerosamente seguite avrebbero potuto determinare. Nasceva contemporaneamente la possibilità del moltiplicatore infinito delle immagini, la TV, che portava l’emozione della competizione in ogni dove.
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EDITORIALI
Fu lì che si rese palese per tutti il valore emozionale dello sport! Diciamoci la verità: quali eventi suscitano in noi gioia smisurata in grado di disinibirci, urlare e abbracciare il vicino? La prima comunione del figlio o l’auto nuova? No, basta vincere la partita, segnare un punto e non serve, si badi bene, parlare di serie A, succede anche nei campetti tra scapoli e ammogliati, panzoni e veterani. Lo sport evoca emozioni come forse nessun altro avvenimento, al di fuori di guerre e catastrofi ovviamente, è in grado di fare. A quel punto, scoperto il valore emotivo intrinseco, allo sport si cominciò ad affidare la trasmissione di valori estranei e sociali, dove un approccio emotivo colpisce molto più in profondità e lascia traccia. Per capirsi, una pubblicità di assorbenti si può scordare subito, una che coinvolge bambini, figli che tornano prodighi a casa, famiglie riunite davanti al fuoco, come usano fare le marche di pasta, pizzicano corde molto più profonde, tanto da chiedersi se le aziende non stiano superando un livello di rispetto dei sentimenti, anche per vendere cose qualunque. Emozionalità come chiave per colpire più a fondo il “consumatore” cioè la “persona” con i sentimenti, che recandosi al negozio cambia identità o semplicemente la confonde, nell’era del capitalismo dirompente. Lo sport, con i suoi personaggi diventano veicoli eccellenti per trasferire messaggi sociali prima, di business poi, perché sono testimonial apparentemente sani, famosi, ammirati modelli da seguire. Lo sport è sempre facile da capire e si sa sempre chi ha vinto, non occorre ascoltare o parlare, anche se gli inutili dibattiti televisivi tra pappagorge e occhiali riempiono la settimana tra un evento e l’altro. I grandi dittatori del secolo scorso, così come gli apprendisti occulti dell’epoca recente, hanno colto perfettamente il valore emozionale, quasi fideistico dello sport, attribuendogli attese primarie, soprattutto nel calcio, il più popolare, il più facile, il più quantitativo per i tifosi, quello giocato, si perdoni, soprattutto con i piedi. Franco, Hitler e Mussolini fecero carte false, barando, uccidendo, comprando arbitri per vincere Mondiali e Olimpiadi e persino l’Argentina di Videla, quella del Golpe militare e dei desaparecidos, riuscì a puntare sui mondiali di calcio, vincendoli, per ottenere pace sociale. Più di recente il mix calcio+Tv ha fatto il pieno nella salita al potere di un politico che ha scientemente raccolto fede ed emozioni con lo sport, per trasmetterli a tutti attraverso il video. Ancora una volta ha funzionato e gli italiani, come tifosi, ogni giorno si schierano su ogni problema come fosse un dibattito Milan o Inter.
Il futuro del lavoro Di FRANCESCO VENIER
Nel 1932, quando il mondo stava soffrendo di “un brutto attacco di pessimismo economico”, John Maynard Keynes scrisse un saggio molto ottimistico, “Possibilità economiche per i nostri nipoti”, dove in sostanza diceva, a ragione, che noi saremmo stati molto più ricchi ma che prima andavano superate alcune questioni. Una delle preoccupazioni che Keynes avanzava era una “nuova malattia”: «la disoccupazione tecnologica… Causata dalla scoperta di mezzi per economizzare l’uso del lavoro ad una velocità superiore a quella con cui è possibile trovare nuovi usi per il lavoro». Lo stesso sta accadendo oggi. Quattrocentomila sono i nuovi posti di lavoro manageriale creati negli USA nel periodo 2007-2012 (fonte Financial Times), due milioni sono i posti di lavoro impiegatizio persi nello stesso periodo. Non è un’esagerazione utilizzare la parola rivoluzione quando parliamo di come i modi di produrre, e di conseguenza le nostre vite, sono cambiati negli ultimi tre decenni. Oggi è normale fare affidamento sull’information and communication technology -ICT- per controllare e coordinare processi produttivi distribuiti su tutti i continenti come se fossero svolti in un’unica fabbrica. Le reti permettono alle imprese di allocare il lavoro intellettuale sfruttando i vantaggi comparati dei diversi mercati del lavoro. L’intelligenza artificiale (AI) sta prendendo sempre più decisioni al posto nostro in sempre più ambiti. Sono le ICT il vero motore della globalizzazione, gli strumenti che, rendendola tecnicamente possibile, l’hanno resa inevitabile. E la globalizzazione paga, producendo il più spettacolare processo di creazione di posti di lavoro e affrancamento dalla miseria della storia, facendo passare gli occupati da 2,3 miliardi del 1991 a 3,1 miliardi del 2011. Tuttavia tale sviluppo non è una mera crescita additiva di posti di lavoro, bensì una trasformazione profonda, sia del modo di lavorare, sia dei luoghi di produzione della ricchezza. Questa trasformazione che ha già avuto luogo negli ultimi decenni in settori quali l’editoria, i media, le telecomunicazioni, stravolgendo aziende e modelli di business, oggi sta travolgendo ogni settore, ogni mestiere, ogni impresa. Alcuni esempi: a San Francisco Uber produce già ora il triplo dei ricavi dell’intero settore dei taxi e delle
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limousine. Senza possedere una sola camera, AirBnB ha più camere in vendita del gruppo alberghiero Hilton, ma AirBnB ha 800 dipendenti, Hilton ne ha 152.000. Kickstarter, la piattaforma di crowdfunding, fornisce ai suoi maggiori utenti finanziamenti per decine di milioni di dollari, cifre che un tempo richiedevano fondi di investimento di primo livello. E la lista continua: upwork.com, freelancer.com, momcorps.com, helpling.com sono tutte piattaforme, di enorme successo negli USA, che stanno trasformando il lavoro professionale di vario genere in un servizio pagato a consumo. Addirittura, nel caso di Mechanical Turk (mturk.com), il lavoro di programmazione offerto è svolto da software engineers che lavorano in paesi in via di sviluppo. È un esempio di delocalizzazione del knowledge work, che abbatte il prezzo per quel servizio nei paesi ricchi e lo alza nei paesi in via di sviluppo. La stessa cosa la fa la padovana Centervue.com che, tramite le sue macchine avanzatissime, offre all’interno dei negozi Wal Mart, un servizio di diagnosi della retina low cost effettuato da medici indiani. Tutte queste piattaforme hanno successo perché offrono un notevole vantaggio economico e di accesso per gli utilizzatori. Ma allo stesso tempo riducono sicurezza ed entità dei redditi dei produttori, creando quella che il New York Times ha battezzato gig-economy, un economia basata su lavoretti spot. E cosa succederà quando questi lavoretti li faranno direttamente i computer che grazie all’esponenziale sviluppo dell’AI stanno imparando meglio di noi a tagliare l’erba, scrivere articoli di cronaca, comporre gingles per la pubblicità, effettuare diagnosi mediche, ottimizzare turni di lavoro e chiamare al momento giusto i lavoratori umani in azienda, prevedere l’andamento dei mercati guidare aerei, navi, treni, trattori, camion, automobili, a giocare in borsa… e molto altro? Questa è l’alba di un nuovo mondo del lavoro, nei paesi avanzati i posti di lavoro per persone “unskilled” o “semi-skilled” si riducono rimpiazzati da macchine sempre più abili e intelligenti e vengono pagati sempre peggio. Al contrario, i lavori ad alto contenuto di problem solving, capaci di capire e usare la tecnologia e di gestire le dinamiche sociali ed economiche che da essa sono innescate, aumentano di numero e sono pagati sempre meglio. È questa la digital transformation, la trasformazione digitale del luogo di lavoro. Ma per beneficiare della digital transformation, per partecipare pienamente e beneficiare della nostra società iper-connessa e di un’economia sempre più basata sulla conoscenza e sulla capacità di fare e gestire in rete tra persone e con le macchine, servono nuove competenze, capacità, saperi. Serve la comprensione di cosa le ICT possono fare per noi e per le nostre organizzazioni. Ma non
basta, serve soprattutto una nuova mentalità e prospettiva sul modo di comunicare e relazionarsi dentro e fuori dal contesto lavorativo, valorizzando se stessi e gli altri sfruttando la potenza delle social technologies per la creazione di nuovo capitale umano. Servono quelle che nel 2009 Jeff Butterfield chiamò digital soft skills. Credo che i cambiamenti più grandi debbano ancora venire e che ogni organizzazione, ogni professionalità, dovrà trasformarsi o scomparire. Qualunque lavoro facciamo è certo che saremo tutti misurati molto più di oggi e la nostra carriera, il nostro reddito, le nostre opportunità di crescita, dipenderanno sempre più da tali misure, e non dall’anzianità o dalle relazioni. Di certo tra vent’anni ben poche organizzazioni saranno disposte a dare uno stipendio fisso a qualcuno solo per il fatto che si presenta la mattina a timbrare un cartellino e torna a casa la sera dopo averlo ritimbrato. Il posto fisso era necessario e funzionale all’era industriale dominata dalle grandi burocrazie meccaniche, oggi non ha più senso. Per progredire e realizzarci in questo nuovo mondo, dovremo imparare a prendere rischi, a vedere opportunità al di là delle risorse che abbiamo a disposizione, a conquistarci le risorse per coglierle, a collaborare all’interno di team composti di persone e macchine sempre più intelligenti. In altri termini dovremo smetterla di pensarci come forza lavoro e ragionare come imprenditori di noi stessi, anche se lavoriamo dentro una grande impresa. Ne saremo capaci? Il sistema educativo dalla scuola primaria fino all’università, sta insegnando le cose giuste? Le sta insegnando nel modo giusto? A livello di sistema, dovremo anche chiederci se le fondamentali reti di sicurezza sociale del mondo sviluppato, anch’esse tarate su un sistema produttivo del passato, sopravviveranno o se dovremo sostituirle con qualcos’altro. C’è bisogno di un dibattito focalizzato e ad alto livello per rispondere a queste domande. È un dibattito già attivo, che coinvolge esperti e studiosi di tutto il mondo. Anche Genius potrebbe essere uno dei luoghi di questo dibattito.
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EDITORIALI
Ritorno al Collegio del Mondo Unito Di VALENTINA BACH
Trenta, venti, dieci anni dopo essersi diplomati al Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico sono tornati! Provengono da tutto il mondo e sono tutti nel prato della Foresteria del Castello di Duino, vista mozzafiato sul golfo di Trieste, da dove erano partiti poco più che adolescenti; si riabbracciano, presentano i propri figli ai loro amici, chiacchierano a gruppetti con la naturalezza di chi non si è mai stato veramente allontanato. Attendo ogni anno il momento della “Reunion degli ex studenti” per incontrare di persona alumni che ho visto solo in fotografia. Come Beata dalla Polonia, che ricordo in una foto dei nostri archivi del 1984: vestita con l’abito tradizionale del proprio Paese, stringe entrambe le mani di Papa Giovanni Paolo II che le sorride soddisfatto. Beata è tornata in Friuli Venezia Giulia insieme a suo marito, Alex, e alle loro quattro bellissime figlie. Quando si sono conosciuti, trentuno anni fa al Collegio del Mondo Unito, lui dalla Germania Ovest e lei dalla Polonia comunista, il loro amore era precursore di un muro che stava per cadere e della speranza di un’Europa più unita. Anche Muhammad e Susan, rispettivamente dalla Palestina e dagli Stati Uniti si sono conosciuti a Duino e rimangono oggi dei “Romeo e Giulietta” degli anni Ottanta, con una storia a lieto fine. Quest’anno è tornato al Collegio anche Darren, amministratore delegato di booking.com con suo figlio Owen. Ci ha raccontato che per lui, proveniente da una cittadina della provincia canadese, la vincita della borsa di studio per il Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico ha rappresentato il punto di svolta. Questa esperienza gli ha dato la capacità di vivere con persone completamente diverse e di comprenderle nel profondo; questo ha significato anche una grande apertura nel lavoro. Darren, ha iniziato la sua carriera come consulente del governo canadese, avendo già un ruolo attivo nella negoziazione dei primi accordi globali sul cambiamento climatico e la biodiversità, nel 1992 quando aveva solo 26 anni. Da lì una nuova svolta: lascia la pubblica amministrazione per intraprendere varie esperienze nel settore privato che lo portano ad assumere la carica di amministratore delegato di Microsoft Giappone. Dal Giappone, dove si era trasferito con tutta la famiglia, agli Stati Uniti per poi ritornare in Europa ad Amsterdam per booking.com. Darren ammette
che le straordinarie opportunità lavorative a cui ha avuto accesso, hanno trovato origine in quel primo viaggio, dalla provincia canadese all’Italia, dopo il quale il mondo è divenuto la sua casa. Armen, russo di origine armena, imprenditore, che grazie ai due anni in Italia parla un perfetto italiano, in Friuli Venezia Giulia torna spesso, per propri contatti commerciali. Armen, però, parla poco del suo lavoro: ciò che lo appassiona veramente è il nuovo Collegio del Mondo Unito di Dilijan in Armenia, aperto a settembre 2014 proprio grazie ai suoi contatti con un filantropo russo/armeno che voleva investire nell’istruzione. Eva, diciott’anni di Bari, è la prima studentessa italiana che ha vinto la prima borsa di studio in questo nuovo “Mondo Unito”, anch’esso popolato da studenti di tutte le nazionalità, tra cui armeni e turchi. Ora è in vacanza ed è venuta alla “Reunion degli ex studenti” per aiutarmi: tiene i loro bambini mentre i genitori dedicano tempo all’amicizia. Quando scopre che anche Armen è presente, è tutta emozionata: finalmente avrà l’occasione di ringraziarlo! C’è invece chi mi confida che dopo i due anni del Collegio del Mondo Unito, assorbito dalle eccezionali opportunità universitarie e poi lavorative a cui ha avuto accesso, non si è fermato a pensare al senso più profondo di questa esperienza, accontentandosi di coltivare alcune amicizie e bei ricordi. Con la nascita della prima figlia tutto è cambiato: è nata una nuova urgenza di mettere le proprie capacità al servizio di ideali e valori più grandi degli interessi della City. Mi offre quindi la propria disponibilità economica e di tempo per il reperimento di nuove borse di studio. Dopo un giorno e mezzo di incontri straordinari, mi siedo al porticciolo di Duino con Elia, genetista dalla carriera internazionale, che mappa il DNA umano con tecniche di bio-informatica per prevenire e curare le malattie rare. Mi interrogo con lui: quali sono i caratteri distintivi degli ex studenti del Collegio del Mondo Unito? Dopo dieci, venti, trent’anni, che impronta hanno lasciato i due anni trascorsi qui ? Elia mi aiuta a riconoscere un’impronta: quella della responsabilità sulle nostre vite. Dopo un dono come il Collegio del Mondo Unito, la vita va spesa per qualcosa di grande, in cui si crede, con passione. E quando la vita ci porta lontano da dove sentiamo di dover essere, ognuno di noi qui ha ricevuto il coraggio, la libertà, la forza per ricominciare, a volte cambiando tutto. Relazioni di amicizia forti e durature, in tutto il mondo, contribuiscono a rafforzare il nostro coraggio. Infine, l’aspra bellezza di questa terra meravigliosa che ci ha accolto è ormai parte distintiva del nostro essere: il mare, la vista del golfo di Trieste, la sagoma del castello di Duino visto dal sentiero Rilke al tramonto, nutrono il nostro essere, ci costringono a tornare, ogni volta, e poi a ripartire sempre con il sogno di un Mondo Unito.
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LA COPERTINA 16
Genio e sport.
05/08/2015 08.55.54
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Giuseppe Cruciani:
di Michele Casaccia (3’35”) 22
Elogio dei maestri che frenano il genio di Francesco Chert (4’20”)
Copertina e copertine interne: Federico Fumolo.
26
Black Power, la grande rivincita di Fabio de Visintini (3’20”) 28
E se Hitler fosse diventato un pittore? di Anna Miykova (5’10”)
icone dopo Jordan e Ali? Ne vedo poche di Matteo Zanini (4’00”) 62
Vasco Vascotto: l’onda lunga della vittoria di Serena Capetti (7’ 50”) 66
Giulia Sergas: la ricerca della prestazione perfetta di Francesco Chert (3’ 25”) 68
Yahyâ Pallavicini: tolleranza e dialogo interreligioso
30
come base della civiltà
Scatto fisso:
di Francesco Chert (6’ 30”)
un ritorno alle origini del pedalare
71
di Michele Colucci (2’ 25”)
Cecile Kyenge:
32
come difenderci dalle semplificazioni del razzismo
Sport e religione:
di Francesco Chert (8’ 15”)
paradigmi per comprendere il presente
76
di Matteo Macuglia (5’00”)
I giovani italiani e la fede oggi
34
di Pier Emilio Salvadè (3’ 35”)
Il carburante dell’atleta
78
di Alice Noel Fabi (3’30”)
Vincenzo Salemme:
36
Il mestiere del telecronista: parla Flavio Tranquillo di Matteo Zanini (8’10”) 42
Dan Peterson e Jordan: l’immagine al servizio del talento
la forza della risata di Bettina Todisco (2’10”) SPECIALE PORTOPICCOLO 82
Un grande Portopiccolo di Michele Casaccia (10’ 10”)
di Matteo Zanini (5’10”)
92
46
Shopping esclusivo tra la Piazzetta e le calli di Portopiccolo
Bogdan Tanjevic: Michael Jordan? Il mio candidato
97
ideale alla Casa Bianca
Aperitivo e cena tra informalità ed eleganza
di Matteo Zanini (10’ 45”)
La riproduzione delle immagini contenute è riservata.
di Matteo Zanini (5’00”)
di Gabriele Gerometta (8’10”)
I prescelti MICHAEL JORDAN, MUHAMMAD ALI, GIUSEPPE CRUCIANI, DAN PETERSON, VASCO VASCOTTO, ALDO MINUCCI, SPECIALE BIENNALE DI VENEZIA, VITTORIO SGARBI, CLAUDIO LIMARDI, BOGDAN TANJEVIC, FLAVIO TRANQUILLO, MONS. GIAMPAOLO CREPALDI, MITJA GIALUZ, VINCENZO SALEMME, GIULIA SERGAS, LUXURY EXPERIENCE A PORTOPICCOLO
55
Giulio Ciamillo e lo scatto… giusto
Da Ali a Jordan, alla ricerca di storie
20
03/04 — Illusione del limite/Luxury Experience
Grande Reverso Night & Day
o Astrada, Fuoriclasse del Polo, Vincitore della Triple Crown.
SOMMARIO
52
102
Claudio Limardi: vi racconto il mio Jordan
Portopiccolo: testimonianza di un’esperienza unica
di Matteo Zanini (6’05”)
di Oliver Fabi (4’ 55”)
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12
SOMMARIO
INTERVISTE
104
Portopiccolo: obiettivo eccellenza di Antonio Masoli (3’ 10’’)
130
Mitja Gialuz:
106
a “lezione” con il più giovane
Portopiccolo a 360°con
presidente nella storia della Barcolana
Matteo di Biagi
di Francesco La Bella (3’ 45”)
(5’ 30”) 108
133
Claudio Serli,
Marco Milocco
effetto globalizzazione,
l’esperienza al servizio del lusso
con la passione della moda
(5’ 25”)
di Redazione (2’ 30”)
112
134
Leonardo Marongiu
Aldo Minucci:
L’arte della cucina nella baia
l’esperienza al servizio del successo
di Portopiccolo
di Francesco Chert (8’00”)
(8’ 15”)
138
114
Paolo Privileggio:
Flavio Bertelle Comprare casa a Portopiccolo,
il futuro del petrolio di Francesco la bella (5’ 40”)
tanti motivi per farlo
140
(6’10”)
Tommaso Valta:
117
la terza generazione
Silvia Pasut
e il futuro della Pragotecna
Esportare Portopiccolo
di Michele Casaccia (4’ 20”)
all’estero, tra cuore e marketing
142
(4’ 45”)
Penso:
Interviste
la filosofia della pasticceria
di Matteo Macuglia LUXURY EXPERIENCE 120
L’impero dove non tramonta mai il sole
applicata per fare il gelato di Francesco La Bella, in redazione Matteo Zanini (2’55”) SPECIALE BIENNALE 144
di Redazione (2’ 50”)
La cinquantaseiesima Biennale di Venezia – La Marea Crescente
122
di Jonathan Turner (12’ 00”)
Il Polo, tra lusso, alta moda e location esclusive
152
di Matteo Macuglia (4’20”)
Renato Grome: l’oculus photographicus
124
di Martina Vocci (6’ 10”)
Villaverde resort: tra salute, natura e movimento
RUBRICA
di Francesco Chert (5’50”) 128
156
Frammenti sublimi di un tempo lontano
Da Griffe si vende intelligenza creativa
di Riccarda Grasselli Contini
di Redazione (3’ 15”)
e Martina Vocci (2’ 50”)
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LA COPERTINA
Illusione
del limite
LA COPERTINA
Genio e sport. Da Ali a Jordan, alla ricerca di storie Di GABRIELE GEROMETTA
Viviamo in un’epoca in cui ogni cosa dev’essere definita e quindi etichettata, ogni azione e oggetto per “esistere” devono avere uno scopo, un’utilità prima di tutto economica. Lo sport in particolare vive ormai da anni di eccessi e isterismi, ridotto a un semplice prodotto di marketing, un oggetto da vendere e comprare. I recenti scandali che hanno travolto il calcio, e prima il ciclismo, ma non solo, non hanno fatto che confermare questa tendenza. Per questi motivi diventa salutare e perfino necessario fare un passo indietro e riappropriarci della natura stessa del gioco, scavare la superficie e riportare alla luce ciò che ne ha da sempre costituito il motore e la magia: il talento, in altre parole il Genio. Ogni disciplina sportiva ha avuto i propri campioni e leggende, atleti che ne hanno scritto la storia e riscritto le regole, icone il cui nome ha trasceso il campo da gioco assumendo un proprio ruolo nella società, nel costume, nella Storia. Vogliamo per questo raccontare lo sport da un punto di vista diverso, recuperarne storie e personaggi, restituirne
quella componente mitica ormai sacrificata sull’altare del Dio denaro. Un argomento enorme e complesso, che abbiamo scelto di esemplificare concentrandoci su due sport in particolare, due sport profondamente diversi. Il primo è la boxe, la nobile arte, uno sport antico e fisico, fatto di sacrificio e dolore, di rispetto e sopraffazione. Uno sport antico quanto l’uomo, ancestrale, una sfida di capacità e personalità tra due individui che si mettono in gioco e a nudo, uno di fronte all’altro. E se accostiamo le parole pugilato e genio, il primo nome che ci viene in mente non può che essere quello della figura più conosciuta, controversa e universale di questo sport, quella di Muhammad Ali, già Cassius Clay. Ali ha declinato il concetto di talento in ogni sua sfaccettatura, dimostrando nella propria carriera le doti fisiche, di intelligenza, personalità e carisma, che ne fanno il più grande di tutti, con la sua personalità dirompente che gli permetteva di battere i suoi avversari prima ancora di mettere piede sul tappeto grazie ad una predisposizione
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istintiva alla vittoria; con la sua straordinaria agilità di gambe, ineguagliabile ed ineguagliata per un peso massimo, tale da evocare l’immagine della farfalla che punge come un’ape; con la sua irrefrenabile parlantina sul ring e fuori, che ne fecero il primo ‘trash talker’ moderno.
Dutch National Archives, The Hague, Fotocollectie Algemeen Nederlands Persbureau (ANEFO), 1945-1989 (CC BY-SA 3.0 nl)
Gesti caratteristici e momenti memorabili, come il “pugno fantasma” che stese Sonny Liston, immortalato in un celeberrimo scatto, o la “Rumble in the Jungle” di Kinshasha contro il favoritissimo Foreman, una macchina da pugni, sfiancato e sconfitto dalla tattica cerebrale di Ali e dal boato dei cori “Ali bomaye!” (Ali uccidilo) di un intera nazione, immortalato nell’epico documentario “Quando eravamo re”. Ali fu grande anche nella sconfitta, quando contro Frazier in quello che è stato soprannominato l’Incontro del secolo, cedette solo al 15° round di una maratona estenuante tra due leggende del quadrato. Si prese poi la rivincita nel Thrilla in Manila, quando l’allenatore di Frazier lanciò l’asciugamano all’ultima ripresa per salvare il proprio pugile, distrutto dal martellante jab del fu Clay.
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Ma la leggenda di Ali non si ferma tra le corde del ring: cresciuto in un’epoca burrascosa, marchiata nel sangue dalla lotta per i diritti civili e dalle tensioni razziali, usò la propria popolarità, anche a proprie spese, per lanciare un messaggio d’orgoglio e autodeterminazione della comunità nera attraverso conversione alla fede islamica e il cambio del nome, considerato un retaggio dell’epoca schiavista, fino al clamoroso rifiuto di combattere in Vietnam che di fatto lo allontanerà forzatamente dal ring negli anni migliori per la sua carriera di pugile. Rimangono leggendarie le sue battaglie contro una società come quella americana ancora legata a un atteggiamento razzista, rimane il lancio nel fiume Ohio della medaglia olimpica, vinta a Roma nel 1960, che lo porterà a un passo dalla prigione, rimane la dichiarazione «Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro». Un personaggio, come amano dire gli americani, “larger than life”, a cui nemmeno il tremendo destino del morbo di Parkinson, ha potuto strappare un orgoglio feroce e la voglia di vivere e vincere anche questa sfida che brillano anche ora nei suoi occhi. Il pugilato ha visto altri grandi personaggi e personalità calcare il ring nel corso degli anni, storie memorabili e incontri leggendari, ma nessuno ha saputo più di
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Ali coniugare il talento cristallino con il carisma magnetico che hanno trasportato di peso la sua imponente figura nella Storia, quella con la “S” maiuscola, al fianco di grandi pugili come Frazier e Sugar Ray Robinson, ma anche di grandi pionieri dei diritti civili come Martin Luther King o Malcolm X. L’altra disciplina di cui abbiano deciso di parlare è il basket, uno sport, specie negli Stati Uniti, ricco di mitologie, siano esse legate al mondo professionistico, che a quello di playground. Uno sport la cui storia prende le mosse da Springfield (Massachusetts) nel 1891, per mano di James Naismith, insegnante di educazione fisica canadese. Uno sport che nasce “bianco”, ma che diviene con gli anni patrimonio e parte integrante della cultura afroamericana e che nel corso della sua storia è stato anche usato come simbolo e arma, uno strumento per combattere razzismo e pregiudizi, affrontandoli letteralmente sul campo di gioco. Memorabile in questo senso è la vittoria del titolo NCAA della piccola università di Texas El Paso nel 1966: fu la prima squadra con
un quintetto interamente afroamericano a vincere il titolo, sconfiggendo in finale la superfavorita Kentucky, guidata dal leggendario (e dichiaratamente razzista), coach Adolph Rupp. Nel 2006 la Walt Disney trarrà dalla vicenda un evocativo film, dal titolo “Glory Road”. Ma non si può raccontare il basket senza parlare del più grande di tutti, ‘His Airness’, il giocatore più forte di ogni tempo, Michael Jeffrey Jordan. Dopo aver vinto un titolo NCAA da protagonista a North Carolina nel 1982, Jordan sbarca nell’NBA nel 1984, a Chicago, e per i primi anni viene visto solo come uno straordinario, spettacolare solista. È con l’arrivo del coach guru Phil Jackson, e del “secondo violino” Scottie Pippen, che Jordan troverà il modo di incanalare il proprio straripante talento in un contesto di squadra, vincendo 6 titoli tra il 1991 e il 1998, interrotti da un anno e mezzo di ritiro a causa della tragica morte del padre. Di lui si ricordano i 63 punti in un primo turno dei playoff (perso) nel 1986 contro i leggendari Boston Celtics, record ogni tempo per la post season, che fecero dire
“Jordan non è stato colui che ha vinto di più (Bill Russell), né quello che ha segnato più punti in carriera (Kareem Abdul Jabbar) o in una singola partita (Wilt Chamberlain, con 100 punti!), ma è stato il più fulgido esempio di vincente nella storia forse di ogni sport, un talento infinito supportato da un’abnegazione feroce e da un’innata capacità di alzare ulteriormente il proprio livello, quando la situazione lo richiedeva”.
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GENIO E SPORT. DA ALI A JORDAN, ALLA RICERCA DI STORIE
al grande Larry Bird “Quello era Dio travestito da Michael Jordan”, i canestri allo scadere, spesso decisivi per la vittoria in gare fondamentali per il campionato, il trionfo nella gara delle schiacciate dell’All Star Game del 1987 che mostrò al mondo le doti antigravitazionali di quella che per i distratti e i miopi era solo una giovane promessa, la stagione delle 72 vittorie in regular season (altro record ogni tempo), i 38 punti con la febbre a trentotto contro Utah nelle finali del 1998 e una sequenza infinita di highlights in cui sembra sfidare quelle leggi fisiche che valgono per noi esseri umani o del suo classico tiro in sospensione ‘fade away’, con la lingua a penzoloni, marchio di fabbrica di uno stile e di una fede incrollabile nella vittoria che, fino alla comparsa sulla Terra del prossimo prescelto, non verranno neanche lontanamente e pallidamente imitate. Ma per ogni aneddoto su Jordan che viene ricordato, ce ne sono centinaia che si rischia di tralasciare. La sua figura, così spettacolare e insieme pragmatica, ha costituito l’idolo supremo e l’inarrivabile modello per tutte le generazioni venute dopo di lui. Kobe e Iverson, e quindi Lebron e Durant, ma anche Belinelli e Gallinari, Yao Ming e Nowitzki, tutti i ragazzini del mondo sono cresciuti con il mito del 23 dei Bulls, provando a imitarne le movenze, sui campetti di periferia di Milano, i playground di New York o i campi NBA, tutti con la lingua di fuori, tutti con la voglia di volare verso la grandezza e la vittoria contro i propri limiti fisici e mentali. Jordan non è stato colui che ha vinto di più (Bill Russell), né quello che ha segnato più punti in carriera (Kareem Abdul Jabbar) o in una singola partita (Wilt Chamberlain,
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con 100 punti!), ma è stato il più fulgido esempio di vincente nella storia forse di ogni sport, un talento infinito supportato da un’abnegazione feroce e da un’innata capacità di alzare ulteriormente il proprio livello, quando la situazione lo richiedeva. Ma come per Ali, la leggenda di Jordan non si ferma sul campo. A metà anni Ottanta, quando fa la sua comparsa sui parquet dell’NBA, la lega sta vivendo un periodo di crisi economica, gli introiti sono in calo e i palazzetti non sono più pieni come un tempo. L’arrivo di Jordan è un crack: l’NBA capisce che il suo stile spettacolare è una miniera d’oro e ne fa il proprio ambasciatore, la Nike lo copre letteralmente di soldi, creando una linea di scarpe intitolata a suo nome, che diventerà “la scarpa” da basket per antonomasia.La lega americana entra in una nuova fase della propria storia, divenendo una multinazionale dell’intrattenimento che nel decennio successivo avrebbe colonizzato il mondo. Jordan diventa il riferimento per una categoria di atleti, non più solo superstar sul campo, ma uomini azienda che spostano gli equilibri economici. I vari Cristiano Ronaldo, Tiger Woods, Tom Brady e tutti gli altri, nascono in questo momento. Ali e Jordan. Boxe e Basket. Due uomini, due sport, un punto in comune: il genio, quel talento che rappresenta l’essenza stessa del concetto di competizione. Questo genio può avere mille volti e ognuno di quei volti ci racconta una storia. Mettetevi comodi e gustatevi il viaggio.
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I prescelti Le vite delle due icone dello sport più famose di ogni tempo fanno ancora parlare di sé. Ma perché? Di MICHELE CASACCIA
Perché mettere a confronto le due figure più emblematiche dello sport del Novecento, i più vincenti di sempre? Perché parlare ancora di Muhammad Ali e Michael Jordan, dopo tutti i film, i documentari, le biografie, i fiumi d’inchiostro? Due nomi che parlano da soli, che stanno in piedi senza stampelle e possono già diventare sostantivi comuni, a indicare la categoria tutta, l’essenza stessa di quello sport, del concetto di vittoria.
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I PRESCELTI
Che poi tutti lo sanno. Entrambi partirono con addosso i vistosi sintomi del predestinato: le loro incommensurabili capacità tecniche, la loro genialità fisica, la felicità psicologica, la velocità di pensiero e di azione. E quello che più li accomuna è la profonda consapevolezza di queste capacità, la profonda consapevolezza di se stessi e della loro contemporaneità. Così profonda appunto da poter riconoscere, con un tempismo e una visione di gioco tipici soltanto delle personalità irripetibili, la propria importanza storica, culturale e politica. Si potrebbe trovare qualche differenza nel risultato finale, certo. Dopotutto, ad Ali fu negato il privilegio dello studio, mentre Jordan ebbe la classica carriera che una famiglia della classe media americana poteva permettersi: era normale che ne venisse fuori qualcosa di diverso. Anche i tempi erano diversi. Muhammad riuscì a intuire quello che ancora non si chiamava impatto mediatico, quando capì che, se avesse battuto George Foreman a Kinshasa nel ‘74, la sua sarebbe stata un’importantissima vittoria, soprattutto politica. Erano gli anni in cui personaggi come Rosa Parks, Martin Luther King, Malcolm X si apprestavano a fare il grosso della lotta per i diritti dei neri. Ali divenne strumento consapevole di quella lotta; la boxe il suo mezzo per comunicarla al mondo intero. Michael visse solo in parte gli strascichi del razzismo sudista del North Carolina. Gradualmente si poté permettere di pensare ad altro, godersi i frutti di quelle lotte, girare qualche spot di culto con Spike Lee, vincere una gara di schiacciate con la più bella di sempre e farne un brand da milioni di dollari, occuparsi di tutte quelle cose di cui si deve occupare uno che vuole diventare l’icona indiscussa dello sport di tutti i tempi. Si potrebbe dire allora che, forse, senza Ali non ci sarebbe stato Jordan. Ma che importa tutto ciò? Insomma, erano dei prescelti. Non dovevano fare altro che qualcosa di assolutamente straordinario, ciascuno a modo suo. Il resto sarebbe venuto da sé. La storia la conosciamo tutti. Che importa, sul serio? Perché ciò che ancora oggi rende inevitabile parlare di loro è che si tratta di protagonisti che non si sono accontentati di essere i migliori di ogni tempo, magari per i record battuti, per i numeri. No. I numeri li avrebbero rimpiccioliti, li avrebbero messi su un piano di confronto umanamente concepibile, come un qualsiasi altro essere vivente. No. Il motivo è un altro. Il motivo è che Michael Jordan e Muhammad Ali si sono già consegnati all’immortalità. Hanno già firmato tutte le carte. E la cosa più incredibile è che sono ancora vivi! Perché la storia, ogni memoria, ogni futuro, questo articolo parlano da soli. Sono già questa coscienza, questo parlarne, questo muoversi nel sangue. Sono prima ancora di poter essere concepiti. Per il solo fatto di esistere sono la vana spiegazione di quello che davvero forse è fatica sprecata provare a dire. Che è questa presenza costante, come di un qualcosa avvenuto nel passato, ma perennemente vivo, in una puntualissima indeterminatezza, e quindi azione in sé e per sé, ancora una volta essenza, nella vita, nelle opere, nei miracoli, nei tentativi quotidiani di chiunque. Quel continuo paragonarsi, mettersi spalla a spalla, ispirarsi, sforzarsi, cercare e rivedere sempre le stesse immagini. Quelle di un ragazzone imbronciato e allegro saltellare con quel movimento di gambe, o inveire sull’avversario al tappeto. Quelle di uno skywalker urlante o concentrato, sempre con la lingua di fuori. Occhi e muscoli per dirti: sarà meglio che ti dia da fare, man, se vuoi essere come me. Il sorriso di chi la sa lunga, di chi ne ha visti tanti. Di chi sa che, spesso, sarà tutto inutile. Il sorriso di chi sa che saranno sempre lì, invisibili e presenti, inconsciamente dietro a ogni nostro pensiero.
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Elogio dei maestri che frenano il genio
Di FRANCESCO CHERT
Capita all’improvviso, senza apparente motivo, come il quadro che rimane appeso per anni al muro e un giorno all’improvviso cade a terra, che venga al mondo un ingegno capace di rivoluzionare una certa disciplina al punto che dopo di lui niente sarà più come prima. Capita ovviamente che il genio di turno non venga capito dagli ottusi suoi contemporanei, come nella migliore tradizione agiografica dei vari Einstein bocciato alle elementari, Jordan scartato dalla squadra del liceo, Van Gogh che vende i propri capolavori per un piatto di minestra. Il romantico e ineluttabile isolamento di chi ha la sola colpa di essere troppo avanti per la propria epoca, di rifiutare i paletti che vengono imposti per convenzione, di uscire dalla normalità, diventa così ingrediente principale della narrazione che ogni genio che sei rispetti merita. Ma la resistenza, di solito catalogata nella letteratura biografica come attributo dell’antagonista cattivo e ottuso, magari invidioso e risentito, andrebbe considerata, in un quadro più ampio, uno degli ingredienti stessi della genialità. Tanto la genialità non si fermerà di certo di fronte all’ostacolo rappresentato dai brutti voti di un insegnante dalla cattiveria dickensiana al futuro Premio Nobel o dal consiglio spassionato di dedicarsi ad altro. Certo, pensare a quanti potenziali geni sono stati condannati in vita alla normalità, causa il contesto ostile o le occasioni mancate, e a quanto tempo abbiamo perso sulla via del progresso per il fatto di non averli saputi capire, fa venire il sangue gelido, se uno ci pensa, ma, anche se
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ELOGIO DEI MAESTRI CHE FRENANO IL GENIO
“Tutto si gioca sui codici. Ed è proprio la presenza di codici condivisi, e della resistenza che questi impongono, che crea la condizione perché il genio trovi il terreno fertile per la sua azione, terreno che non a caso sta al di fuori di quel recinto codificato che rappresenta il confine tra lecito e illecito, tra accettato e non accettabile, tra normalità e follia, tra società e solitudine. Perché la genialità non è un lusso che si ottiene gratis”. affascinante, quello dell’immaginare «cosa sarebbe successo se» rimane comunque un esercizio di fantasia e come tale va inteso, e ci si può in ogni caso consolare pensando ai casi delle personalità eccezionali che conclusero sì la propria vita incomprese, povere e sole ma che alla fine ottennero la loro rivincita postuma attraverso quell’impatto rivoluzionario del loro lavoro sui codici del settore che a quel punto, come detto, non potrà più essere come prima.
e solitudine. Perché la genialità non è un lusso che si ottiene gratis. Può perfino rappresentare una condanna, per chi ne è portatore, una pena alla quale non si può sfuggire, perché quello che spinge oltre il recinto è un istinto di fronte al quale il primo ad essere impotente è il genio stesso. Solitudine e incomprensione quindi, quasi una vendetta della normalità sull’eccezione, del quieto vivere che espelle ciò da cui si sente minacciato, della moltitudine su ciò che è diverso.
Codici, sì. Tutto si gioca sui codici. Ed è proprio la presenza di codici condivisi, e della resistenza che questi impongono, che crea la condizione perché il genio trovi il terreno fertile per la sua azione, terreno che non a caso sta al di fuori di quel recinto codificato che rappresenta il confine tra lecito e illecito, tra accettato e non accettabile, tra normalità e follia, tra società
Niente antagonisti quindi, in questa storia. O almeno non sono quelli che ci si aspetterebbe. Non lo è il maestro che limita il potenziale dell’alunno dalle doti straordinarie, non lo è la società che guarda con sospetto chi esce da un seminato condiviso, non lo è la genialità stessa, metaforica, che spinge, attraverso al sua forza di ignota origine, la personalità che
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“Ed è qui che il maestro cattivo e ignorante diventa funzionale alla condizione di rottura del codice perché garantisce l’ordine da distruggere, lo fa conoscere e individua, anche attraverso una drammatica emarginazione, l’eccezionalità che ha di fronte. Alimentando il genio attraverso la difesa del codice egli crea le basi per il superamento dello stesso”.
ne è vittima verso un destino di sofferenza. Se la resistenza non ci fosse non ci sarebbe il codice che la determina e, in assenza di codici, mancherebbe quel sistema di riferimento da superare e senza il quale non esisterebbe l’al di fuori da esso e vivremmo in una condizione di relativismo individualistico tale da impedire al genio di esprimere la propria visione rivoluzionaria. Ma quello che sta all’interno, per essere superato, va conosciuto e controllato, per scardinare il codice occorre conoscere il codice e l’uscita da esso ha il dovere, se vuole far progredire la società, di definire, consapevolmente o istintivamente, nuovi codici e, come ogni rivoluzione che si rispetti, ricreare un ordine. Ed è qui che il maestro cattivo e ignorante diventa funzionale alla condizione di rottura del codice perché garantisce l’ordine da distruggere, lo fa conoscere e individua, anche attraverso una drammatica emarginazione, l’eccezionalità che ha di fronte. Alimentando il genio attraverso la difesa del codice egli crea le basi per il superamento dello stesso.
Ma forse un antagonista, in tutta questa storia, c’è: è l’idea che la genialità possa e debba svilupparsi in una situazione di totale anarchia, senza punti di riferimento, senza vincoli, senza maestri cattivi o solo esigenti e codici rigidi, in regime di libertà espressiva spinta al punto da disinnescare non solo qualsiasi potenziale rivoluzionario - perché la condizione di libertà assoluta renderebbe inutile la rivoluzione - ma la stessa possibilità di quel giudizio che consente di riconoscere il genio e l’organicità di pensiero che permette alla rivoluzione di ricreare un ordine. Una società atomizzata quindi fatta di sedicenti creativi isolati all’interno del proprio recinto personale il cui codice, non richiedendo condivisione, non necessita di un’elaborazione intellettuale, programmatica e poetica. Pura estemporaneità. Un mondo senza geni in cui tutti sono geni, appiattito sull’illusione ideologica della democraticità di un relativismo individualista e libertario che più che sviluppo di creatività e intelletto crea omologazione al ribasso e noia esistenziale.
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È bello e sorprendente passare in rivista squadre nazionali che, sotto l’amata divisa tradizionale, presentano personaggi di etnie diverse con nomi che spesso fatichiamo a pronunciare. Da Ibrahimović, che non incarna il cliché dello svedese biondo a Daniel Hackett che parla in pesarese (un po’ come Carlton Myers qualche anno prima), fino a Balotelli, il Mario meno convenzionale che puoi trovare in Italia. Nel bene e nel male.
Black Power, la grande rivincita Di FABIO DE VISINTINI
Ma accanto alla brillante conquista della cultura di internazionalità, non ci possiamo nascondere l’avanzata progressiva e inarrestabile degli atleti di colore in ogni specialità. Dagli sport più popolari a quelli inventati da bianchi per i bianchi, discipline d’élite nate all’interno di club esclusivi, stanno progressivamente mettendo in luce le possibilità che la struttura fisica più adatta può offrire in ognuno di essi, indipendentemente dalla provenienza etnica. Hitler preparò le Olimpiadi di Berlino per dimostrare al mondo quel che lui già sapeva, cioè che la razza ariana era dominante e che nessun altro, tanto meno un negro o un ebreo, avrebbe potuto superare i biondi e scultorei atleti tedeschi. Jesse Owens dell’Alabama, era una freccia nera e vinse quattro medaglie d’oro nell’atletica, senza lasciare dubbi sulla superiorità, facendo irritare Adolf Hitler che non gli strinse la mano. L’aggravante stupefacente, che
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BLACK POWER, LA GRANDE RIVINCITA
“Jesse Owens dell’Alabama, era una freccia nera e vinse quattro medaglie d’oro nell’atletica, senza lasciare dubbi sulla superiorità, facendo irritare Adolf Hitler che non gli strinse la mano. L’aggravante stupefacente, che certamente lo fece uscire di senno, fu che il secondo classificato nel salto, il biondo e nobile tedesco Luz Long, fece il giro d’onore a braccetto con l’amico Jesse! A dimostrare che lo sport e i suoi valori possono superare logiche politiche o di potere”.
certamente lo fece uscire di senno, fu che il secondo classificato nel salto, il biondo e nobile tedesco Luz Long, fece il giro d’onore a braccetto con l’amico Jesse! A dimostrare che lo sport e i suoi valori possono superare logiche politiche o di potere. Facciamo un salto negli anni e vediamo che il basket, nato negli States: era un sport per bianchi e i primi coloured fecero una gran fatica a entrare, spinti da allenatori illuminati e virtuosi nell’accettare gli insulti della mentalità razzista dell’epoca. Oggi sappiamo che l basket è decisamente uno sport per neri e ogni squadra dell’NBA, si sforza di avere nel roster almeno un giocatore bianco per sostenere un delicato equilibrio con il proprio pubblico. Con tutte le eccezioni del caso, come i pallidi Bird, Nash o Nowitzki, campioni assoluti. Ragioni diverse fanno sì che non si vedano ciclisti neri e pochi pallavolisti, ma per certo l’esclusività di alcune discipline, dispendiose o selettive, hanno sempre impedito agli atleti di colore l’accesso e la verifica delle possibilità a competere. Arthur Ashe fu eroico ad emergere nel tennis anni Sessanta della segregazione razziale e le sorelle Williams ci dimostrano che il colore della pelle non è un fattore, ma il tennis resta una piazza bianca. Hamilton dice di aver sofferto e lottato per arrivare al vertice della Formula 1 e gliene diamo atto: magari non avrà sofferto come Owens, ma è indubbio
che il percorso di emancipazione non si è concluso se lui, al pari di Tiger Woods, sono perle nere in un contesto completamente bianco. Bravi! Arriviamo al dunque, all’aspetto sociale. Quando scende in campo una nazionale francese di basket o calcio che sia, i suoi rappresentanti sono molto più di colore di quanto ci si aspetterebbe e i suoi assi sono indiscutibilmente neri. Oggi i rapporti di noi europei con l’Africa stanno venendo al pettine: abbiamo colonizzato ogni angolo di territorio e sfruttato ogni risorsa del terreno e non abbiamo ancora finito, visto che le compagnie petrolifere estraggono petrolio di continuo, lasciando in cambio quella miseria che ogni giorno la televisione ci mostra come cronaca. Quindi: i neri profughi non li vogliamo perché non sono un nostro problema e mostriamo d’esser ancora un po’ razzisti, ma nel contempo tifiamo per le nazionali europee multicolore. C’è di più ed è il colpo clamoroso: il calcio africano ha avuto un’ascesa verticale negli ultimi lustri e i suoi atleti stanno invadendo i campionati nazionali dell’Europa, cambiando progressivamente il colore della pelle di team nordici storicamente pallidi. Anche il calcio sembra fatto apposta per loro… di chi sarà, allora, il futuro sportivo? Ai bianchi resta la consolazione che il rapper più famoso sia Eminem!
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E se Hitler fosse diventato un pittore?
Di ANNA MIYKOVA
Il rifiuto dell’Accademia delle Belle Arti di Vienna di accogliere il pittore principiante Adolf Hitler è sempre stato visto dagli appassionati della storia come un esempio categorico della casualità dolorosa dei fatti storici. Ma davvero le ambizioni pericolose di Hitler si sarebbero potute imbrigliare e controllare se egli avesse realizzato il suo successo con un pennello in mano? O forse che la sua volontà malvagia si sarebbe volta verso altre direzioni? Come la storia ci rammenta ancora una volta e instancabilmente, la strada verso il male passa attraverso deviazioni piuttosto sorprendenti. Come ci rivelano questi esempi storici, il megalomane principiante può provare le carriere più disparate e inaspettate, prima di reincarnarsi nel “servitore del proprio popolo” e di assumere la sospetta aureola del despota o di colui che ordina stermini di massa. Di certo, un filo rosso percorre le vite di questi personaggi e li avvolge in una nube di mistero, o forse genio, sia esso nella sua accezione negativa: la facoltà creatrice dell’intelletto, la scintilla vivificatrice che si ricompone alla fantasia e alla passione, in questo caso negativa, per trasfonderla in altri, nelle sue forme più inimmaginabili. POL POT – STUDENTE A PARIGI Tre decenni prima che il regime di Pol Pot imponesse il socialismo agrario in Cambogia e provocasse la morte di oltre un milione di persone, l’ex dittatore dei Khmer rossi si dilettava nell’educazione universitaria della Ville Lumière. Nel 1949, il ventiquattrenne Pol Pot vinse una borsa di studio per studiare radioingegneria a Parigi dove, similmente a molti altri studenti attivisti, si godeva le danze e i comizi politici di fronte a un bicchiere di vino rosso nel Quartiere Latino. Per ironia della sorte, tuttavia, la sua carriera universitaria all’estero si concluse dopo che per tre anni di seguito fallì gli esami, vedendosi costretto a tornare in Cambogia nel 1953, proprio nell’anno in cui l’ex colonia francese dichiarava la propria indipendenza. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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E SE HITLER FOSSE DIVENTATO UN PITTORE?
JIM JONES – LOTTATORE PER I DIRITTI UMANI
AYATOLLAH KHOMEINI – FILOSOFO E POETA
Jim Jones, la carismatica guida spirituale americana e fondatore del Tempio del popolo, è noto soprattutto per l’omicidio-suicidio di massa di Jonestown nel 1978, dove insieme agli adulti furono avvelenati anche oltre trecento bambini. Eppure, prima di diventare un leader settario, Jones fu un prominente uomo pubblico e convinto integrazionista, tanto da ricoprire il ruolo di capo della Commissione per i diritti umani a Indianapolis nel 1961. Allora, Jones fu ricoverato in ospedale per un’ulcera allo stomaco, ma per errore venne accomodato nel reparto per uomini di colore. Al contrario di quanto successe dopo, Jones rifiutò di essere trasferito e portò avanti con successo una campagna per la desegregazione del settore sanitario.
Per gran parte della sua vita, ayatollah Ruhollah Kohomeini fu studioso e insegnante principalmente di misticismo islamico e filosofia. Prima di dedicarsi alla sua missione di trasformare l’Iran in una teocrazia islamica, Kohomeini, influenzato da Aristotele e dai mistici sufi, scrisse venticinque tra libri e trattati lasciando in eredità addirittura alcune poesie originali. Ecco, infatti, come iniziava una delle sue poesie, pubblicata in un giornale iraniano solo quattro mesi dopo che Khomeini ebbe pronunciato una fatwa contro lo scrittore Salman Rushdie nel 1989:
IDI AMIN DADA – CAMPIONE DI PUGILATO NELLA CATEGORIA DEI PESI MASSIMI Nelson Mandela non è stato l’unico leader africano ad aver trascorso gran parte della sua giovinezza sul ring. Idi Amin fu campione nazionale di pugilato nella categoria dei pesi massimi per oltre otto anni – solo pochi anni prima di organizzare il golpe del 1971, con cui prese il potere in Uganda e causò la morte di oltre mezzo milione di persone. L’ex ufficiale dell’Esercito coloniale britannico – alto 1.93 metri e con un peso di 122 Kg – mostrò anche invidiabili doti di rugbista ma non eccelse particolarmente come stratega. I suoi comandanti rimasero molto colpiti da lui: «È un uomo straordinario e un ottimo giocatore (di rugby) ma… è rigido e fatica a comprendere le cose, costringendoci a dovergli spiegare tutto lettera per lettera».
“Sono diventato prigioniero, o mia amata, del neo sulle tue labbra Ho visto i tuoi occhi malati e mi sono ammalato d’amore” Con molta probabilità, l’ayatollah aveva concepito la natura poetica per esprimere un amore più mistico nei confronti di Dio, ma le sue parole fiammeggianti sono qualcosa di totalmente inaspettato da una figura così lineare e allo stesso tempo rigida del mullah. TIMOTHY MCVEIGH – VETERANO PLURIPREMIATO Quattro anni prima della bomba di Oklahoma city, che uccise centosessantotto persone e ne ferì altre centinaia nel 1995, il terrorista Timothy McVeigh era una militare in uniforme dell’Esercito statunitense che aveva preso parte all’operazione “Desert Storm”. Nel secondo giorno di combattimenti, McVeigh aveva decapitato un militare colpendone un altro a una distanza di un chilometro e mezzo, fatto per cui fu insignito della Medaglia di bronzo. Nel 1997, quando McVeigh NUMERO 03/04
fu condannato a morte per i suoi crimini, Bill Clinton firmò una legge speciale che gli vietava i funerali di Stato con onori di guerra, come invece prevede la prassi militare per i veterani che si sono distinti nelle azioni belliche. Di fronte a questi esempi storici di genialità delirante esiste una nota positiva che secondo Steven Pinker dell’Università di Harvard, autore del testo “Angels of our better nature”, si esprime nell’abbassamento del livello di violenza tra le persone. E la causa di questa tendenza è da ricercare nell’incremento degli ostacoli sociali, morali e politici che, tuttavia, non impediscono la metamorfosi da artista, poeta e studioso a omicida o dittatore. Ed ecco che l’antico concetto di genio come forza o inclinazione naturale dello spirito trova conferma: non è dato conoscere a fondo la natura dell’uomo e l’espressione della genialità per ciò detta “incompresa”. Si declina nelle sfumature più vivide fino a toccare quelle più ombrose e torbide. A ogni buon conto, sarà bene tenere d’occhio un ex studente di oftalmologia – Bashar Assad – o un professore di ginnasio, istruito dai gesuiti – Robert Mugabe – insieme a molti altri nomi della storia contemporanea perché la genialità è incontrollata e incontrollabile, può trascendere il positivo e sprofondare nel buio più profondo, e non v’è modo di sapere cosa vorranno fare “da grandi”coloro che la possiedono.
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Scatto fisso: un ritorno alle origini del pedalare
Di MICHELE COLUCCI
“Se la bici si muove insomma, ti muovi anche tu. Sembra inizialmente una mezza follia, ma dopo pochi minuti la sensazione di essere un tutt’uno con il mezzo è incredibile. Un nuovo modo di andare in bicicletta. In realtà, un ritorno alle origini. Perché questa è la bici che pedalavano i tuoi nonni e bisnonni. Quella, per capirsi, dei primi e durissimi Tour de France di inizio novecento”.
Foto Silvia Galliani
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SCATTO FISSO: UN RITORNO ALLE ORIGINI DEL PEDALARE
Si vedono sempre più biciclette in città, e non è solamente un’impressione, sono i numeri delle vendite a dirlo: dal 2011 la bicicletta ha superato la macchina. A dispetto del bombardamento mediatico al quale siamo sottoposti: alla televisione di media 1 spot ogni 3 è dedicato all’automobile. Sarà stata la crisi, la benzina, il costo delle assicurazioni... i motivi per parcheggiare la macchina e montare in sella sono molti. All’interno di questo boom si inserisce la bicicletta a pignone fisso o “fixed gear”, quella dei messenger di New York e San Francisco per intendersi, o dei nerboruti “pistard” che vediamo sfrecciare nei velodromi. La differenza è appunto nel pignone, la ghiera dentata posteriore su cui si innesta la catena, che non è libera ma fissata alla ruota. Significa che se la ruota gira, gira anche il pedale e di conseguenza le gambe. Se la bici si muove insomma, ti muovi anche tu. Sembra inizialmente una mezza follia, ma dopo pochi
minuti la sensazione di essere un tutt’uno con il mezzo è incredibile. Un nuovo modo di andare in bicicletta. In realtà, un ritorno alle origini. Perché questa è la bici che pedalavano i tuoi nonni e bisnonni. Quella, per capirsi, dei primi e durissimi Tour de France di inizio novecento. Inizialmente una nicchia, le fixed gear sono poi esplose come fenomeno di costume. Esteticamente belle perché essenziali (niente cavi, né cambi, né freni), nate per essere personalizzate in ogni loro componente, hanno strizzato l’occhio ai modaioli da subito. In seguito hanno catturato l’attenzione di chi queste biciclette vuole portarle al limite delle loro possibilità. Inventando quella che a tutti gli effetti è una nuova disciplina del ciclismo, i criterium a scatto fisso, la cui massima espressione è probabilmente il campionato internazionale Red Hook Criterium nato a New York. Immaginate una gara di motogp su biciclette e non sarete lontani dalla verità. Ex-professionisti su strada, NUMERO 03/04
ciclocrossisti, messenger allenatissimi... il panorama dei “riders” di questa tipologia di corse è variegato ma soprattutto alternativo a quello del ciclismo su strada, stranamente meno votato al sorriso e allo stare bene insieme. Qui si respira un’atmosfera familiare, per poi scendere in pista ed essere pronti a sbranare l’avversario, viaggiando su circuiti chiusi cittadini, in notturna, a medie che superano i 40 orari. Roba da spostamento d’aria se sei a bordo pista. E sono nate squadre, sono arrivati gli sponsor. Tra i massimi interpreti c’è Paolo Bravini, atleta del Team CinelliChrome. Arrivato dal ciclocross, oggi viaggia per correre criterium dagli Stati Uniti all’Indonesia. «Bisogna essere molto tecnici ma soprattutto non avere paura di fare le curve, anche se la paura c’è sempre». Accanto a lui sua moglie, la fotografa Silvia Galliani che con le sue immagini sta raccontando questo spettacolare nuovo mondo. Partners in crime. Ce ne fossero di più... 31
LA COPERTINA
Sport e religione:
paradigmi per comprendere il presente Abbiamo incontrato sua Eccellenza Mons. Crepaldi, Vescovo della Diocesi di Trieste, per raccogliere la testimonianza di un uomo che vive in prima persona il rapporto con la gente, confrontandosi ogni giorno con alcuni temi caldi della cultura contemporanea, dal riscatto sociale fino al razzismo. Di MATTEO MACUGLIA
Mons. Giampaolo Crepaldi, Vescovo della Diocesi di Trieste. Foto FLB
Eccellenza, lo sport è stato per molti anni un catalizzatore di grandi valori umani come l’impegno, la forza di volontà e la costanza. Pensa che sia ancora così nonostante un mondo che anche nell’ambito sportivo si è decisamente capitalizzato e che è oggi capace di muovere milioni di dollari? C’è sport e sport. C’è indubbiamente quello che lei definisce come capitalizzato che ha indubbiamente perso non solo l’orizzonte dei grandi valori umani ma anche quello intrinseco dello sport stesso e c’è ancora una realtà fatta da milioni di persone che vivono lo sport al di fuori di cornici mercantili e affaristiche e che sperimentano, proprio attraverso lo sport, occasioni di crescita umana, di incontro leale e fraterno con il prossimo, di gioiosa e ricreativa festa nel rispetto di autentici valori umanistici e umanizzanti. Un apporto così massiccio del denaro all’interno del mondo dello sport rischia di snaturare la sua vocazione e la possibilità di rappresentare uno strumento di riscatto sociale, così come fu per Muhammad Ali o per il friulano Primo Carnera? Senza voler demonizzare il denaro mi pare di capire che in quello che lei chiama sport capitalizzato sia avvenuta una specie di inversione dei ruoli: se solitamente il denaro era considerato come un mezzo necessario al servizio dello sport, è avvenuto che sia lo sport ad essere diventato il mezzo al servizio del danaro. Tutto questo sconcerta se lo si colloca nel contesto dell’attuale crisi economico finanziaria con le tante vittime che produce in termini di povertà ed emarginazione a fronte di operazioni economiche in ambito sportivo dove attorno ad un solo calciatore girano milioni e milioni di euro. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA A SUA ECCELLENZA MONS. GIAMPAOLO CREPALDI
Quali crede che siano i valori migliori che lo sport riesce ancora a promuovere all’interno della nostra società? Lo sport capitalizzato ne esprime pochi. Ma c’è, come dicevo prima, un popolo affezionato allo sport amatoriale che è ancora in grado di esprimere dei grandi valori umani, come quelli della lealtà, dell’incontro, della solidarietà, della festa e altri ancora. È questo popolo che costituisce una singolare riserva valoriale per il bene di tutta la nostra società. Penso poi ai tanti bambini e ragazzi che, attraverso l’educazione sportiva, crescono sani nella mente e nel corpo.
“Milioni di persone vivono lo sport al di fuori di cornici mercantili e affaristiche e sperimentano, attraverso lo sport, occasioni di crescita umana, di incontro leale e fraterno con il prossimo, di gioiosa e ricreativa festa nel rispetto di autentici valori umanistici e umanizzanti”.
Uno sportivo che secondo lei ha dato un grande apporto al mondo con il suo sforzo nel sociale… La prego di non restare male per la risposta che le sto per dare a questa sua domanda. Lo sportivo che ricordo con riconoscenza per il suo grande apporto è un illustre sconosciuto, mai entrato nelle pagine patinate dei giornali, mai presente nei talk show televisivi… è l’allenatore della squadra di calcio dei pulcini di una delle parrocchie di Trieste. Sono questi anonimi protagonisti, con il loro impegno gratuito e il loro gran cuore, che fanno andare avanti il mondo…
Se in America la questione si pone molto fortemente, in particolare dopo la strage di Charleston, anche l’Europa si sta confrontando con un crescendo di movimenti xenofobi e razzisti in risposta al massiccio fenomeno dell’immigrazione di popolazioni africane verso nord. Manca una capacità politica di affrontare il problema o pensa che il rifiuto venga dal basso, cioè dalle popolazioni? Ci sono enormi responsabilità politiche, dovute a presupposti e ad approcci culturali molto differenziati. Tra la cultura della porta aperta per tutti e quella della porta chiusa per tutti, il ceto politico italiano non è stato in grado di improntare una credibile politica dell’immigrazione.
Nemmeno gli Stati Uniti, che hanno donato al mondo i più grandi sportivi di colore della storia, sono riusciti a sconfiggere la piaga del razzismo il quale anzi, ha ripreso vigore proprio durante la presidenza Obama. Cos’è andato storto secondo lei? Lei lega sport e razzismo nel contesto storico degli Stati Uniti. Personalmente non lo considero un elemento essenziale, perché il fenomeno del razzismo negli Stati Uniti ha connotati storici e culturali molto complessi che vanno ben oltre il protagonismo degli sportivi
di colore. Indubbiamente il razzismo è una cosa odiosa che gli Stati Uniti, pur avendo combattuto con grande determinazione, si trovano ad affrontare ancora forse a causa di una crisi generale di valori che anche l’America sta vivendo.
Il più grave errore che secondo lei stiamo commettendo sul tema immigrazione… Quello di offrire un’immagine di Paese poco serio, dove le regole si possono aggirare facilmente, senza una precisa identità nazionale, culturale e religiosa, dove i diritti valgono tutto e i doveri niente… Legato al tema dell’immigrazione vi è anche quello sulla religione NUMERO 03/04
musulmana. Come si può recuperare un rapporto, quanto mai necessario in un momento di forte tensione nel Mediterraneo, con un Islam che viene sempre più percepito come ostile? Il rapporto con l’Islam è importante, ma va fatto in termini di chiarezza e di reciprocità responsabile. Va anche considerato il dato nuovo e inedito di un Islam, quello che ispira all’Is, che sta perseguitando i cristiani e li sta martirizzando in un conteso internazionale di colpevole indifferenza. Con questo Islam è impossibile ogni forma di dialogo e va combattuto. Rischiamo di crescere una generazione di figli spaventati da chi è “diverso” e sempre più rinchiusa in se stessa, invece che aperta al mondo che la circonda. Quali valori dovremmo promuovere e sviluppare quali anticorpi per evitare che ciò accada? Sono i grandi valori della tradizione cristiana che sono in definitiva quelli del nostro Occidente: il valore assoluto della persona umana, il valore del rispetto, il valore della libertà anche della libertà religiosa, il valore della solidarietà, il rifiuto della violenza e della guerra, il valore dei diritti umani e dei corrispettivi doveri… Questi valori cristiani sono alla base della civiltà occidentale. Mi chiedo: l’Occidente ci crede ancora? Ho l’impressione che ci creda sempre meno, perdendo in questo modo identità e capacità propositiva. 33
LA COPERTINA
Il carburante dell’atleta Di ALICE NOEL FABI
A differenza delle piante, che in prevalenza si nutrono di luce, gli animali hanno bisogno di assumere composti chimici in forma di cibo. Gli alimenti che assumiamo non sono altro che molecole più o meno complesse suddivisibili in macro e micronutrienti essenziali. I macronutrienti sono sostanzialmente lipidi (grassi), carboidrati (zuccheri) e proteine. Li dobbiamo assumere in grandi quantità, visto che il corpo li immagazzina come fonte di energia per il nostro movimento. I micronutrienti invece sono vitamine e minerali, che assumiamo in quantità minori poiché il corpo è in grado di “stoccarli” per tempi più prolungati.
Non c’è bisogno di spiegare che chi pratica sport regolarmente consuma maggiori quantità di energia rispetto alla media. Un atleta deve capire come funziona il suo organismo, e in base alla propria tipologia di allenamento stabilire il tipo di alimentazione. Che deve sempre partire da una dieta bilanciata e corretta, composta da ingredienti il più possibile naturali e non trattati, necessari al fabbisogno giornaliero: in ordine decrescente, carboidrati provenienti da cereali, frutta e verdura, un consistente apporto di fibre vegetali, proteine e grassi. Uno sportivo non ha necessariamente bisogno di una dieta diversa, piuttosto deve assumere maggiori quantità di cibo e avere una conoscenza dettagliata del potere nutrizionale degli alimenti che assume a seconda dell’attività praticata. Negli sport di resistenza ad esempio, la principale fonte di energia proviene dai grassi. In un allenamento di forza, sono le proteine invece a essere consumate per prime. Ed è importante tenere sempre in considerazione i micronutrienti essenziali che vengono consumati attraverso la sudorazione, un fattore soggettivo da affrontare caso per caso, tenendo sotto controllo l’equilibrio idrico e salino. Spesso si ricorre all’aggiunta di integratori alimentari nella propria dieta per alzare l’apporto di sostanze nutritive. Quando l’allenamento - a livello agonistico ma anche amatoriale - è molto frequente e il dispendio di energie elevato, l’utilizzo di tali integratori può essere giustificato. Un’attività di grande sforzo fisico come una maratona, ad esempio, comporta consumi energetici estremamente importanti, e non controllare attentamente l’equilibrio dei propri nutrienti può significare incorrere in carenze potenzialmente dannose per l’organismo. Il maratoneta per
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IL CARBURANTE DELL’ATLETA
“Bisogna conoscere estremamente a fondo il proprio organismo e come questo reagisce agli alimenti ingeriti, ricordando che il migliore carburante per alimentarlo al 99% è già presente in natura”. recuperare in fretta tali sostanze durante la corsa deve assumere zuccheri a rapido assorbimento e immediatamente dopo la corsa bere liquidi ricchi di sodio, potassio e magnesio per recuperare gli elettroliti persi. Purtroppo però, l’assunzione di integratori, a vari livelli, è spesso esagerata e non controllata correttamente. Tristemente, le logiche sono soprattutto di marketing: il settore degli integratori alimentari solo in Italia genera cifre che sfiorano i 2 miliardi di euro (dato del 2012) e una larga fetta è occupata proprio dagli integratori sportivi, soprattutto i cosiddetti “energetici” a base di aminoacidi (proteine), vitamine e sali minerali. Tali prodotti sono spesso altamente trattati: contengono diversi ingredienti - a volte la lista è chilometrica e incomprensibile per chi non dispone di una laurea in chimica - che possono avere o non avere ripercussioni sulla salute, ma che soprattutto fanno parte di un sistema alimentare squilibrato e fondato su processi produttivi industriali. Rispetto agli integratori in commercio, i cibi naturali contengono fibre, antiossidanti e svariate
sostanze protettive che non possono essere replicate in laboratorio. Inoltre, diete iperproteiche non bilanciate, se utilizzate a lungo, possono stressare fegato e reni, e favoriscono l’eliminazione del calcio (dannosa negli adolescenti in via di sviluppo). Un caso estremamente interessante, che sfata il mito delle diete a base di integratori e petti di pollo, è quello del corridore americano pluripremiato, Scott Jurek. Totalmente vegano, attribuisce alla sua dieta le sue prestazioni e il suo ottimo stato di salute, promuovendo una vita sana basata su di una dieta studiata nei minimi particolari. E non stiamo parlando di un corridore qualsiasi: Jurek ha segnato un record negli Stati Uniti correndo 165,7 miglia in 24 ore. L’equivalente di 6,5 maratone in un giorno. Nel suo libro “Eat and Run” parla del cibo come di carburante, elencando elementi vegetali ultra ricchi in grado di fornire grandi risorse energetiche. È forse questo che lo sportivo medio spesso dimentica: bisogna conoscere estremamente a fondo il proprio organismo e come questo reagisce agli alimenti ingeriti, ricordando che il migliore carburante per alimentarlo al 99% è già presente in natura. Non all’interno di una bustina.
“Rispetto agli integratori in commercio, i cibi naturali contengono fibre, antiossidanti e svariate sostanze protettive che non possono essere replicate in laboratorio”.
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LA COPERTINA
Il mestiere del telecronista:
parla Flavio Tranquillo Due chiacchiere con la “voce” del basket di Sky Sport Di MATTEO ZANINI GABRIELE GEROMETTA
Il microfono per trasformare le immagini in poesia: se si parla della professione del telecronista sportivo, non si può non citare Flavio Tranquillo.
Flavio Tranquillo con Michael Jordan. Tutte le foto sono tratte da www.flaviotranquillo.com per concessione del gestore.
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INTERVISTA A FLAVIO TRANQUILLO
Giornalista e scrittore, oltre che telecronista, negli anni ha rappresentato il vero e proprio collegamento tra l’Italia e gli Stati Uniti, con i suoi commenti legati al campionato professionistico americano, quella NBA che nei primi anni era solamente “immaginata” e che, oggi, con lo sviluppo della comunicazione e l’avvento di internet, è sempre più vicina a noi. Milanese con una carriera oramai ultratrentennale che lo rende una vera e propria personalità nel mondo della pallacanestro, Flavio Tranquillo, dopo gli esordi in radio ha toccato le vette più alte della televisione, lavorando per Italia 1, Tele Capodistria, Tele+ fino all’odierna collaborazione con Sky Sport. Non solo basket professionistico nella sua vita, visto che si è occupato anche di telecronache della NCAA, il campionato universitario americano, e di football con la NFL, ma i più associano il suo nome a quello della mitica “accoppiata Buffa-Tranquillo” che ha reso indimenticabili tante partite.
Jordan è stato, a detta di tutti, il migliore di sempre: cosa l’ha elevato sopra tutti gli altri? Quale è l’elemento che lo differenzia dagli eccezionali giocatori che gli hanno conteso l’anello di campione in quegli anni? Jordan è stato diverso, ma non credo sia stato un elemento solo a renderlo diverso: direi che è stato un mix di qualità in campo, personalità fuori dal campo, ma anche il fatto che l’NBA di quegli anni stava cambiando, con la visione del commissioner David Stern. Michael Jordan è stato un afroamericano che non ha creato alcuna riserva nei bianchi e questa è la realtà dal punto di vista del personaggio. Parlando poi a livello tecnico, è stato un giocatore unico anche per la capacità di fare tutto e di migliorarsi negli anni, iniziando come uno che volava e tirava pochissimo per finire come il miglior giocatore di post basso della NBA, anche se non riusciva più a volare come nei primi anni. Direi che è stato il giocatore più NUMERO 03/04
trasversale in un momento in cui l’NBA si affacciava su un mercato anch’esso trasversale: per dirla in due parole, è stato come il cacio sui maccheroni. Facciamo finta che Jordan non sia mai esistito: pensi che l’NBA di oggi sarebbe differente? Penso che sarebbe differente, ma non di molto. L’idea di David Stern era, ed è, molto composita e avrebbe vissuto probabilmente anche senza la figura di Michael Jordan: certo, lui con le sue caratteristiche ha facilitato un certo processo, rendendo la lega ancor più celebre. Parliamo di Jordan in giacca e cravatta: come lo giudichi dal suo ritiro, come imprenditore di se stesso? Lo analizzo da due punti di vista: da una parte direi che è straordinario, perché ancora oggi il solo fatto di entrare in una stanza o 37
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mettersi davanti a un microfono provoca quasi le stesse reazioni di quando giocava, per cui direi che il valore della sua immagine è inalterato. Dall’altra parte, però, tutto quello che fa viene sempre e solo ricollegato a quello che ha fatto da giocatore: la sua carriera da general manager prima e proprietario poi, secondo me, ne è stata influenzata proprio per la difficoltà di mantenere gli stessi standard di quand’era giocatore. Nell’immaginario di tutti, infatti, Jordan è quello di Gara 6 a Salt Lake City, nella finale NBA del 1998, quando segna il canestro decisivo: per cui, o fa il canestro della vita o non serve a niente, questo è un po’ il concetto che passa. I suoi incredibili successi, che ancora oggi lo elevano a icona all’età di cinquant’anni, penalizzano il suo presente come dirigente, in un campo dove bisogna lavorare con pazienza e poggiare un mattone al giorno. Un tema spinoso: il vero erede di Jordan. Per palmares e carriera, il nome più ovvio da fare è quello di Kobe Bryant: tu sei d’accordo? Non saprei: sono d’accordissimo sul fatto che Kobe Bryant sia stato l’erede di Jordan in termini di ossessione per il lavoro e l’allenamento e per lo stile di gioco. Però, tutto sommato, nonostante Kobe abbia vinto dei titoli, l’idea percepita oggi è il fatto che ne abbia conquistati meno rispetto alle sue possibilità, ad esempio se non avesse avuto i celebri problemi con il suo compagno GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Shaquille O’Neal. Oltretutto, dobbiamo considerare anche un altro aspetto: Jordan viveva in un momento in cui non c’era tutto quello “scrutinio” cui sono sottoposti i giocatori oggi; se ci fosse stato, magari il suo modo di gestire le relazioni con i compagni e con il mondo esterno avrebbero avuto un’eco diversa. Basti pensare al famoso libro “Jordan Rules”, scritto da Sam Smith nel 1991, dove si guardavano anche ad altri aspetti di Jordan fuori dal campo: una volta, per far arrivare in Italia un libro del genere, ci volevano delle fortunate combinazioni. Uscisse oggi, con la velocità di comunicazione cui siamo abituati, in tre mesi tutto il mondo direbbe che Jordan è stato un despota. Parliamo di te: cosa fai quando non pensi al basket? Una volta, quando non pensavo al basket… pensavo al basket! Ora, giustamente e per fortuna, ci sono momenti e spazi diversi dalla pallacanestro, che peraltro mi fanno assaporare con più gusto il mio amato sport: mi interesso di altri territori, leggo, faccio il papà. Insomma, cose normalissime che trovano più spazio rispetto a una volta. Nel corso degli anni hai formato una delle coppie di telecronisti più affiatate, preparate e divertenti da ascoltare, insieme a Federico Buffa: che cosa rappresenta per te? Questa è una domanda per cui ci vorrebbe 38
INTERVISTA A FLAVIO TRANQUILLO
“Michael Jordan è stato un afroamericano che non ha creato alcuna riserva nei bianchi e questa è la realtà dal punto di vista del personaggio. Parlando poi a livello tecnico, è stato un giocatore unico anche per la capacità di fare tutto e di migliorarsi negli anni, iniziando come uno che volava e tirava pochissimo per finire come il miglior giocatore di post basso della NBA, anche se non riusciva più a volare come nei primi anni”.
un po’ di tempo. Diciamo che è stato l’incontro che ha cambiato tutto: da una parte materialmente, visto che è stato proprio lui a darmi la prima occasione perché aveva bisogno di un sostituto alla radio, ma direi che non è stato solo questo. Avere al proprio fianco un esempio del genere è difficile da far capire a chi magari non conosce o non si ricorda, per motivi anagrafici, com’era il mondo degli anni Ottanta e Novanta: un mondo nel quale l’NBA era solo immaginata; proprio per questo, avere vicino una persona unica in Europa perché quel mondo lo conosceva per davvero e lo indagava in continuazione, ha rappresentato un grandissimo stimolo per me.
di conoscenze più simili ad un vaniloquio: la telecronaca deve sempre rimanere tale, anche se non impedisce spesso di virare su altri mondi, ma con moderazione. Per quel che riguarda i social media, invece, direi che cambiano il giusto: quello che succede oggi è che, mentre prima non si percepiva immediatamente la reazione del pubblico, ora tutto ciò è vissuto in diretta e questo porta a preoccuparsi troppe volte di quello
A tuo avviso, com’è cambiato il modo di fare telecronaca nell’era dei social media e della comunicazione 2.0? Ci sono state evoluzioni all’interno della tua professione? Direi che il mio lavoro è cambiato in maniera poderosa con l’avvento di internet, per una questione di moltiplicazione delle fonti, con tutti gli aspetti positivi e negativi che questa tecnologia si porta dietro. Ovviamente, passare da una fonte a cento fonti è meglio, ma quando ci sono quaranta fonti “farlocche”, beh allora quello è un problema. Così come non bisogna sottovalutare il fatto che avere accesso a tutte queste informazioni rischia di trasformare una telecronaca in uno sfoggio
Un giovanissimo Flavio Tranquillo insieme a Mike D’Antoni.
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LA COPERTINA
Jaroslav Korolev, ala russa di 208 centimetri classe 1987, che è stato una prima scelta dei Los Angeles Clippers. L’ho visto una volta a Londra, a un allenamento della formazione juniores del CSKA Mosca: lo allenava Sergei Bazarevich, che giocò anche a Gorizia. Guardare Korolev era come vedere Magic Johnson, mi ricordo che rimasi davvero colpito: lo rividi poi a un torneo giovanile a Rho, in provincia di Milano, e anche lì mi fece impressione. Poi, dopo la scelta dei Clippers, si perse. Il giocatore che pagheresti per rivedere su un campo da basket. Direi che è troppo facile dire Drazen Petrovic, per ovvi e dovuti motivi di rispetto alla grandezza: a livello tecnico sono innamorato di altri grandi della pallacanestro, però l’ingiustizia che ha vissuto Petrovic, con la sua morte a seguito di un incidente stradale nel 1993, è stata davvero grande.
che diranno gli altri: una cosa che non bisogna assolutamente fare. Cosa ritieni che il modo di fare telecronaca italiano possa e debba rubare agli americani per migliorarsi? Per me la pallacanestro è una e la telecronaca è una: certamente il mio background culturale è diverso rispetto agli altri telecronisti, così come lo sono gli interessi o le persone che ci stanno attorno. Detto questo, non mi pongo nemmeno questo problema: io, come il telecronista tedesco o quello islandese, abbiamo un buon rendimento e facciamo un buon lavoro se riusciamo a raccontare quello che succede, se usiamo buoni collegamenti e se manteniamo un’armonia di flusso. Botta e risposta: qual è il più grande talento inespresso che ti è capitato di vedere?
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La partita che vorresti aver visto o commentato. Mi sarebbe piaciuto commuovermi ad Atene, e non a casa mia, di fronte alla vittoria dell’Italia contro la Lituania nel 2004 durante le Olimpiadi. C’è un giocatore che (cestisticamente) non sopporti? Ne cito due: Marc Jackson, un cicciotto che ha avuto molto fulgore nella NBA firmando diversi contratti e ancora non mi spiego perché, e Spencer Hawes. Prima della chiusura, dai un consiglio a un giovane che voglia affacciarsi alla tua affascinante professione. Un consiglio? Non chiedere consigli, perché è impossibile darne. Scherzi a parte, in questo momento a un giovane direi di avere sempre un “piano B” e poi di sfruttare tutte le nuove possibilità che la tecnologia offre per mettere assieme quel bagaglio necessario che poi si trasforma in esperienza.
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Dan Peterson e Jordan: l’immagine al servizio del talento
Uno dei personaggi di spicco del basket italiano ci parla di come la stella dei Chicago Bulls è stato un precursore nello sfruttamento della propria immagine
Di MATTEO ZANINI FRANCESCO LA BELLA
Quasi ottant’anni e non sentirli: Daniel Lowell Peterson, meglio conosciuto come “Dan”, è un’icona e una memoria storica della pallacanestro italiana, pur essendo nato negli Stati Uniti. Sì, perché si tratta di una figura duttile e multidimensionale, che non si può inserire solamente in un campo: allenatore di pallacanestro, giornalista, telecronista sportivo. Sono solamente tre dei campi di azione di questo personaggio che da noi è diventato famoso anche per lo spot di Lipton Ice Tea, ma in precedenza aveva allenato la nazionale del Cile, la Virtus Bologna e l’Olimpia Milano. Incrocio ideale di rendimento sul campo e capacità di sfruttare l’immagine nel campo del marketing, è un po’ l’esempio di quello che ha fatto Michael Jordan come giocatore: immagine, carisma e personalità al servizio di capacità professionali comunque di grandissimo livello. Attualmente è direttore responsabile di Superbasket, storico magazine italiano fondato nel 1978 da Aldo Giordani e ritornato in auge dopo due anni di stop.
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INTERVISTA A DAN PETERSON
Michael Jordan più che un semplice campione è un’icona della cultura popolare, un giocatore che ha rivoluzionato il concetto stesso di basket. Qual è stato il vero elemento rivoluzionario nel suo modo di intendere questo sport? Possiamo dire che, a parte il fatto che si trattava del “numero uno” di sempre a livello di giocatore, è stato probabilmente anche il primo atleta a capire in maniera corretta come sfruttare l’immagine, la comunicazione, il marketing e lo show business. Lei ha vissuto l’epopea di Jordan anche attraverso le telecronache: qual è stato il momento più esaltante che ricorda, relativamente alla carriera del numero 23 dei Chicago Bulls? Per me è impossibile definire un momento più esaltante di una carriera del genere; se mi sforzo, mi ritorna in mente la serie di finale di playoff contro Portland, nel 1992. Jordan si trovava ad affrontare i Trail Blazers di Clyde Drexler, designato dai più come suo ipotetico rivale nel ruolo di guardia tiratrice, e rispose con una prestazione da 35 punti e 6/6 da tre nel solo primo tempo. All’ennesimo canestro, una scrollata di spalle verso Magic Johnson seduto in tribuna, come dire «che ci posso fare? Entrano tutte».
Come ho già avuto modo di dire, credo che sia un tema fondamentale. Basti pensare a una cosa: qualsiasi altro brand avrebbe potuto firmare e raggiungere un accordo con Michael Jordan, ma la Nike è stata più aggressiva e lui ovviamente non si è lasciato sfuggire l’occasione, riuscendo a capire il mondo del marketing con un buon anticipo. Proprio per questo, oggi le sue scarpe hanno tale valore; l’equazione Nike = Jordan è vera, come peraltro anche quella Jordan = Nike; due nomi che vengono associati quasi automaticamente.
atleta assoluto». Lo pensa ancora, a due anni di distanza? E, soprattutto, c’è qualche giocatore NBA che, in questo momento, può essereanche solo avvicinato a Jordan? Probabilmente Jordan rappresentava un qualcosa che andava oltre a quello che era Maradona nel calcio e lo penso ancora oggi. Nella pallacanestro odierna, forse solo LeBron James (fuoriclasse dei Cleveland Cavaliers) è paragonabile
Nel 2013, in occasione del cinquantesimo compleanno di Michael Jordan, lei rilasciò un’intervista nella quale dichiarava: «È il Maradona del basket, un
Parliamo proprio di televisione: lei è famoso non solo per la sua carriera come allenatore e telecronista, ma anche per la celebre pubblicità di Lipton Ice Tea. Da testimonial a testimonial, quanto pensa abbia influito il brand Jordan sul modo di porsi e di gestire la propria immagine che oggi hanno molti campioni di vari sport?
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LA COPERTINA
a Jordan, con una differenza importante però: Michael Jordan ha vinto sei titoli, LeBron James ne ha conquistati appena due. Certamente James è davvero un giocatore fuori dal comune e scegliere tra questi due atleti direi che è impossibile. Lei, nel 1985, ha avuto l’occasione di incontrare da vicino Michael Jordan in un’esibizione: che cosa si ricorda in particolare di lui? C’è qualche aspetto che lo differenziava già all’epoca dagli altri giocatori? Esatto: una partita di pre-campionato, in Valtellina; un’amichevole nella quale lui vestiva la maglia della Stefanel Trieste. Le sensazioni che mi ha trasmesso sono quelle di una persona molto affabile, gentile, sincera ed amichevole: un ragazzo assolutamente non montato, una persona come noi. Un sorriso sincero, grande come una casa. Si parla sempre di Jordan come un vincente, soprattutto a livello mentale. Secondo lei, quando ha influito il fattore psicologico sulla carriera di questo fuoriclasse? Michael Jordan, a parte i mezzi tecnici e fisici che possedeva, era un fuoriclasse soprattutto per quel che riguarda la parte psicologica: lui assolutamente rifiutava la sconfitta e riusciva a coinvolgere i compagni e a motivarli a dare sempre di più sul parquet. Anche giocatori come Luc Langley, Bill Cartwright e Bill Wennington, gente non facile da “scuotere”, sono migliorati sotto questo punto di vista grazie alla vicinanza di Michael Jordan. Lo definirei un maestro, in quest’aspetto.
“Michael Jordan, a parte i mezzi tecnici e fisici che possedeva, era un fuoriclasse soprattutto per quel che riguarda la parte psicologica: lui assolutamente rifiutava la sconfitta e riusciva a coinvolgere i compagni ed a motivarli a dare sempre di più sul parquet”. Dan Peterson, come coach, avrebbe voluto allenare Michael Jordan? E, secondo lei, in quale delle tante squadre che ha allenato si sarebbe inserito meglio? Per cercare di far rendere al meglio Jordan io avrei fatto esattamente come ha fatto Phil Jackson, il suo allenatore ai tempi dei Chicago Bulls. Una struttura che inquadrasse i giocatori, per avere un’organizzazione di base, ma con il “semaforo verde” in qualsiasi momento per Jordan, in maniera da poter scatenare i suoi istinti. Poi, direi che avrei cercato di sfruttare in maniera massiccia il contropiede. Parliamo di integrazione razziale: lei ha vissuto un’epoca in cui a basket giocavano prettamente i bianchi ed era malvisto chi faceva giocare atleti di colore. L’avvento di Michael Jordan in che maniera ha influito su questo modo di pensare? Direi che, nella quotidianità, il lavoro di integrazione è stato fatto molto prima: penso ad esempio al baseball, con Jackie Robinson, oppure a Bill Russell (storico centro dei Boston Celtics) nel campo della pallacanestro. Direi che Michael Jordan ha contribuito a diffondere un’immagine bellissima degli atleti di colore, un po’ come aveva fatto prima di lui “Doctor J” Julius Erving.
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LA COPERTINA
Bogdan Tanjevic: Michael Jordan? Il mio candidato ideale alla Casa Bianca Per lo storico allenatore montenegrino, “Air” ha tutte le caratteristiche di leader per poter guidare un Paese.
Di MATTEO ZANINI
Un sigaro fumante, un caffè ed un largo sorriso: è una calda mattina in un caffè di Trieste, sulle tanto amate Rive. Bogdan Tanjevic è a suo agio, in una città che lo ha accolto da Caserta e lo ha designato a idolo della panchina: ma Trieste è solo una delle tappe della carriera dell’allenatore montenegrino naturalizzato italiano, che è stato anche CT della nazionale azzurra oltre che capo allenatore di formazioni come Limoges, Olimpia Milano, Buducnost, Villeurbanne, Virtus Bologna e della nazionale della Turchia. Recentemente vittorioso alle Olimpiadi dei piccoli Paesi con la selezione del Montenegro, lo incontriamo insieme all’amico Paolo Zini, un’altra figura importante dello staff dirigenziale ai tempi della Stefanel Trieste, e i novanta minuti di intervista volano veloci tra un ricordo e l’altro. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA A BOGDAN TANJEVIC
In questo numero parliamo di due tra i più grandi sportivi di ogni epoca: Michael Jordan e Muhammad Ali. Qual è il suo ricordo personale a proposito di Jordan e quale sensazioni le trasmette? Il ricordo più grande risale certamente alla finale NCAA del 1982, quando un ragazzo che nemmeno era all’ultimo anno di università, a quarantacinque secondi dalla fine, decide la finale contro Georgetown. Un tiro dalla media distanza che Jordan segnò per North Carolina, allenata a quell’epoca da Dean Smith: una decisione inconsueta, dal momento che molti avrebbero preferito giocare lungo quel possesso, ma che dimostra tutta la personalità di quel giocatore fin da giovane. Non è comunque il primo flash di Jordan che ho avuto, dal momento che già nel 1981 lo avevamo incontrato proprio a Chapel Hill: forza e talento, due caratteristiche che sono sempre state proprie di Michael Jordan, gli hanno permesso di prendere quella decisione importante per il titolo dell’Università del North Carolina.
Un altro flash è senz’altro nel 1985, al Valtellina Basket Circuit: lo incontro quando lui è già il miglior giocatore del mondo. Siamo a fine agosto, arriva in Italia per un tour promozionale della Nike, per pubblicizzare una nuova linea di scarpe: si ricordava ancora di Dalipagic, di quando avevamo fatto un tour negli Stati Uniti giocando contro varie università e “Praja” (questo il soprannome di Dalipagic) segnò 44 punti contro la sua squadra. Non solo, in quei tre-quattro giorni che trascorremmo assieme in Valtellina, dimostrò tutto il suo charme e la sua personalità: gli misi accanto Mike Davis, per permettergli di allenarsi, poi dopo qualche giorno ci ritrovammo a Trieste, in un’amichevole tra Stefanel e Juve Caserta. Avrebbe dovuto giocare un tempo con una squadra e uno con l’altra: alla fine giocò solamente con i padroni di casa, mandando pure in frantumi un tabellone. Per dire delle sensazioni che mi trasmette Michael Jordan, prendo ad esempio un giocatore che ho avuto in Montenegro: Jerome
James, pivot di 216 centimetri e grandi potenzialità che ha giocato anche a Seattle in NBA, ma non ha avuto una carriera pari alle aspettative. Lui mi raccontò una storia relativa proprio a un suo incontro con Michael Jordan durante un camp: James incrociò Air, che lo avvicinò dicendogli «ragazzone, se ti innamori della pallacanestro, la pallacanestro ti restituirà quello che gli hai dato». Queste parole rendono bene l’idea della linea di pensiero di Jordan, un vero e proprio portatore sano di questi valori: una persona che avrei visto benissimo nel ruolo di futuro presidente degli Stati Uniti.
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Molti sostengono che esista un basket “prima” e un basket “dopo” Jordan: come succede con i geni e con le rivoluzioni, niente potrà essere più come prima. Qual è stato il vero aspetto rivoluzionario di Jordan? Il vero aspetto rivoluzionario di Michael Jordan? Ci sono due aspetti fondamentali da sottolineare: il primo è che, oltre ad essere il miglior attaccante al mondo, era capace di
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essere contemporaneamente anche il miglior giocatore difensivo, mantenendo la stessa intensità da una parte e dall’altra. Questo deriva dal suo desiderio di essere il migliore, ma non dimentico nemmeno la sua abilità nel rendere migliori i compagni: pensiamo ad esempio a due giocatori come John Paxson e Steve Kerr, autori di canestri determinanti in due diverse finali NBA su assist proprio di Jordan. Andando oltre l’aspetto puramente tecnico, penso alla sua capacità di essere leader a livello mentale, anche con gesti che andavano fuori dal parquet: al momento della scadenza del primo contratto firmato era già diventato un giocatore affermato. All’epoca guadagnava circa due milioni e novecentomila dollari a stagione, dunque una cifra ridotta per il valore del giocatore, che però nel frattempo aveva già iniziato a guadagnare di più a seguito degli accordi pubblicitari, del discorso Nike e di tutto quello che circolava attorno al suo personaggio. L’altra stella della squadra, Scottie Pippen, guadagnava anch’esso abbastanza poco ma a differenza di Jordan mugugnava parecchio; tutto questo rischiava di danneggiare l’atmosfera di squadra e allora proprio Jordan si prese la briga di fare un gesto significativo per Pippen. Gli regalò una Ferrari nuova fiammante, cosa che venne interpretata al meglio dall’altra stella di Chicago: un segno di grande
“Avrebbe tutte le capacità per guidare gli Stati Uniti: la sua leadership e la capacità che ha di unire tutti quanti grazie alla sua personalità sono due cose trascinanti, proprio per il carisma che trasmette.”
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generosità verso tutto il team, perché in questa maniera risolse una serie di problemi che poteva venirsi a creare. Proprio per questo dico che avrebbe tutte le capacità per guidare gli Stati Uniti: la sua leadership e la capacità che ha di unire tutti quanti grazie alla sua personalità sono due cose trascinanti, proprio per il carisma che trasmette. Lei è uno dei simboli del basket balcanico qui in Italia: qual è, a suo modo di vedere, il personaggio europeo che più si è avvicinato a Jordan in termini sportivi e quale invece può esservi accostato a livello mediatico? Direi che personaggi come Drazen Petrovic e Praja Dalipagic non hanno avuto lo stesso seguito mediatico che ha avuto Michael Jordan; Dalipagic aveva tutte le potenzialità per diventare il capocannoniere anche in NBA, ma purtroppo il suo talento non è stato compreso appieno dagli allenatori americani. Se devo spendere un nome, mi viene in mente quello di Kresimir Cosic (centro di 209 centimetri che ha studiato anche negli Stati Uniti a Brigham Young ed ha giocato a livello europeo con Zara, Lubiana, Virtus Bologna e Cibona Zagabria): pur giocando trent’anni prima di Michael Jordan, è stato un personaggio rivoluzionario proprio come lui, grazie al suo carisma. Lui era davvero un genio e riusciva a risolvere situazioni spinose con battute che avrebbe fatto un uomo di ottant’anni: quando ad esempio Carlo Caglieris si arrabbiava perché Cosic cercava di dirigere il gioco a modo suo, lui rispondeva con frasi del tipo «Charly, ma perché ti arrabbi? In ogni buona azienda di costruzioni servono i muratori e gli architetti. Tu sei il muratore,
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io sono l’architetto», lasciando senza parole l’interlocutore. Siamo cresciuti insieme e mi ricorderò sempre l’influenza che esercitava, con la sua personalità, sui compagni di squadra. La storia ci racconta di una pallacanestro che si è avvicinata sempre di più a quella americana negli ultimi anni. A livello di immagine, comunicazione e intrattenimento, però, siamo ancora molto lontani dal modello statunitense: cosa c’è ancora da fare, secondo lei? Ma, soprattutto, il basket europeo deve essere per forza così teso ad emulare il modo di giocare dei professionisti americani o dovrebbe invece difendere la propria tradizione di gioco? Parlando di America, direi che la NBA è proprio un diverso tipo di fare business: in Europa, per chi cerca di raggiungere un determinato tipo di risultato ad alto livello, si tratta di un salasso economico. Non si può sperare di guadagnarci, in questo mercato e in questo momento: qui da noi non si può arrivare a quel livello, anche perché negli Stati Uniti il basket ha grande seguito in televisione. La legge del mercato è che se non vai in televisione, non esisti: certamente anche in NBA si stanno creando dei trend sbagliati, come quello di sforare quasi abitualmente il “salary cap” (tetto salariale massimo di spesa che ogni club non deve superare: serve a mantenere l’equilibrio fra giocatori di un certo livello, ndr), cosa che ha portato una decina di club a essere in rosso. Da noi in Europa non bisognerebbe puntare a imitare in maniera precisa quel modello: la cosa principale sarebbe quella di calmierare certe scelte
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economiche; fin quando avremo sempre qualche “Paperone” che arriva e investe una certa somma di denaro in un progetto fine a sé stesso senza molti anni di durata, la genialità di alcune persone verrà costantemente fiaccata e sarà impossibile riuscire a esprimere certi talenti anche a livello dirigenziale. Una volta, con i cartellini, si poteva riuscire a costruire qualcosa: penso, ad esempio, al Bosna Sarajevo con cui siamo arrivati dalla Seconda Divisione alla conquista dell’Eurolega nel 1979, o alla Stefanel che portammo dalla terza serie italiana alla Serie A. Oggi il problema è legato agli agenti, che vanno dai giocatori di sedici anni e li bruciano, senza dargli modo di fare il loro percorso naturale: non è più possibile, come dicevo prima, perseguire un progetto. E comunque è molto difficile comparare il sistema degli USA con quello dell’Europa: negli Stati Uniti sono riusciti a fare delle scelte interessanti come il sistema del Draft (che assicura alle formazioni più deboli nella stagione passata la possibilità di scegliere per prime i giocatori più promettenti, ndr), cosa in cui noi siamo ancora lontani. Apro una parentesi sul basket americano: è bello, mi piace, ma personalmente diminuirei le partite di stagione regolare a una sessantina, non di più. Attualmente i giocatori giocano praticamente ogni giorno e passano la loro vita da un aereo all’altro: è impossibile riuscire a mantenere un alto livello di intensità e garantire sempre un certo rendimento se ci sono questi ritmi. Giocando di meno, probabilmente si aumenterebbe di gran lunga la qualità dello spettacolo, che già è buono.
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“Oggi il problema è legato agli agenti, che vanno dai giocatori di sedici anni e li bruciano, senza dargli modo di fare il loro percorso naturale: non è più possibile perseguire un progetto”
Una conclusione acrobatica di Kresimir Cosic (credits BYU Photo)
compagni che lo hanno poi seguito. Parlavamo di leadership? Ecco qua.
Italia, Jugoslavia, Francia, Turchia: lei ha visto molte realtà differenti. Può raccontarci che cosa ha tratto da ogni esperienza? Le mie esperienze? Da ognuna ho tratto qualcosa di buono, sicuramente. In Italia ho vissuto i tempi del non professionismo, arrivando a Caserta e portandola dalla Serie A2 alla Finale Scudetto, vivendo queste avventure con un gruppo di giocatori come Gentile, Dell’Agnello, Schmidt. Poi ci sono stati gli anni di Milano e devo dire che in Italia ho sempre avuto la fortuna di poter scegliere i giocatori, specialmente i giovani: si spendevano cifre “normali”, senza esagerare. Poi, quando ho aperto la parentesi della Nazionale Italiana, posso dire di aver vissuto un’esperienza bellissima con un gruppo di uomini straordinari. In Francia, a Villeurbanne, sono invece capitato in un ambiente professionista ma anche un po’ rilassato: abbiamo vinto lo scudetto ventuno anni dopo l’ultima affermazione, con un gruppo di giocatori capitanato da una persona come Yann Bonato. Di lui ho un ricordo molto particolare, nel senso che si tratta di un combattente che, nel momento del bisogno, non ti tradiva mai e anche determinate scelte da lui fatte sono emblematiche. Penso a quanto, in un momento di crisi economica del club, c’era la necessità di diminuire del 70% il compenso ai giocatori: Bonato è stato il primo a farlo, dando l’esempio ai propri
Chi è oggi, nella NBA, il vero erede di Michael Jordan? Direi che l’identikit ideale è quello di LeBron James: l’unica sua sfortuna, a differenza di Jordan, è quella di non avere una guida spirituale in panchina com’è stato Phil Jackson. Ha una forza fisica e una tecnica invidiabile, ma è anche generoso come Jordan: se lui riuscisse a fidarsi un po’ di più dei propri compagni, farebbe quel salto di qualità che lo accosterebbe a Jordan. Faccio un esempio che mi tocca da vicino: a Caserta avevamo un fuoriclasse come Oscar Schmidt, bomber brasiliano che faceva sempre canestro. Giocavamo contro la Berloni Torino e, nel solo primo tempo, aveva già segnato qualcosa come 24 punti senz’alcun errore al tiro; decido di toglierlo dal campo per dargli un po’ di respiro e permettere agli altri giocatori della squadra di mettersi in ritmo in attacco. Lui si innervosisce e allora decido di tenerlo più a lungo a riposo; la stessa cosa mi capita con un altro giocatore, Marco Ricci, e anche per lui c’è la panchina. Quando il mio vice Lamberti mi aggiorna sui nervosismi dei giocatori appena sostituiti, decido di finire la partita con cinque esterni in campo: vinciamo di dieci punti e il lunedì dopo faccio una “lavata di capo” alla coppia Schmidt - Ricci, che capiscono. Questo è il concetto: c’è qualcuno che deve riuscire a “cambiare” LeBron James, a convincerlo che non può vincere le partite sempre da solo; facendo questo passo in avanti, potrà sicuramente vincere altri titoli, pure se al momento non vedo un allenatore che abbia la personalità per poterlo persuadere, fatta eccezione per Gregg Popovich, l’allenatore dei San Antonio Spurs.
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Claudio Limardi: vi racconto il mio Jordan
Intervista al celebre giornalista livornese, già direttore responsabile di American Superbasket e Superbasket, autore del libro “Michael Jordan”.
Di MATTEO ZANINI FRANCESCO LA BELLA
Miti, leggende, icone dello sport: c’è chi è abituato a raccontare le storie di successo e a renderle ancora più appassionanti. Claudio Limardi è una di queste persone: un nome noto nell’ambiente della pallacanestro nazionale e internazionale, visti gli innumerevoli incarichi di rilievo che ha ricoperto nella sua carriera. Nativo di Livorno, vanta un curriculum giornalistico quasi trentennale (è giornalista dal 1989), ha avuto ruoli di responsabilità per riviste come Superbasket e American Superbasket, ha collaborato con il Corriere della Sera e il Corriere dello Sport/Stadio e attualmente è direttore Comunicazione e Marketing dell’Olimpia Milano. Il suo lavoro lo ha spesso portato a toccare lo sport ai massimi livelli come le quindici finali NBA, i dieci All Star Game NBA e ben quindici Final Four di Eurolega. È stato inoltre autore di quattro libri dedicati al basket americano: uno di questi, scritto a quattro mani con il collega Roberto Gotta, è dedicato proprio a His Airness, Michael Jordan. Un omaggio al campione, alla persona, al mito, al più grande di sempre. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA A CLAUDIO LIMARDI
Parliamo innanzitutto del libro che hai scritto insieme a Roberto Gotta: Michael Jordan. Non è l’unico libro di cui sei autore: in che cosa si differenzia, rispetto agli altri e perché ti ha affascinato a tal punto dal voler fare un’opera su di lui? Michael Jordan ha contrassegnato al tempo stesso la parte iniziale e anche quella successiva della mia carriera e ha proiettato la NBA in una nuova dimensione. In quegli anni avere la fortuna di vederlo giocare e parlare ai media, sentire parlare di lui, vederlo allenarsi è stata impagabile. A un certo punto – e lo stesso sentimento era condiviso dal mio amico Roberto Gotta – ho come avvertito la necessità di raccogliere quanto più possibile di quei ricordi in una sede speciale come quella di un libro. Mi piaceva l’idea di trasmettere certe sensazioni al pubblico, ma ammetto di averlo fatto in buon parte per motivi egoistici: non volevo disperdere nulla di quanto appreso. Michael Jordan è stato forse il primo grande atleta che ha portato una rivoluzione nella pallacanestro, fatta eccezione per campioni del passato come George Mikan o Bob Cousy. Quale pensi sia stata la sua più grande dote, sul campo? La forza mentale è ciò che ha reso Michael Jordan superiore. Era sottoposto a pressioni indicibili in campo e fuori e le aspettative, soprattutto nelle grandi partite, erano astronomiche. Per rispondere sempre sempre! - a queste aspettative serviva un livello di tenuta mentale non quantificabile: questo ha reso Jordan il migliore. Non dimentichiamo che non si trattava di un predestinato ma di un giocatore emerso tardi, che ha dovuto sconfiggere tanti pregiudizi prima di diventare Jordan. Quindi la capacità di maturare quel livello di fiducia nei propri mezzi è stupefacente. Un grande campione che ha avuto una caratteristica spiccata su tutte: il controllo mentale che aveva anche sui suoi compagni. Puoi parlarci di questo particolare aspetto di “sua altezza” Jordan? Quando il miglior giocatore di una squadra o in questo caso del mondo è anche il più grande lavoratore, il più disciplinato, agli
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“La forza mentale è ciò che ha reso Michael Jordan superiore. Era sottoposto a pressioni indicibili in campo e fuori e le aspettative, soprattutto nelle grandi partite, erano astronomiche. Per rispondere sempre - sempre! - a queste aspettative serviva un livello di tenuta mentale non quantificabile: questo ha reso Jordan il migliore”. altri non resta che seguire il suo esempio. Tutti direbbero di volerlo fare ma poi si tratta di farlo sul serio e Jordan testava quotidianamente la forza mentale dei suoi compagni. Chi non ce la faceva crollava com’è successo a tanti, gli altri sono emersi; chi aveva la sua fiducia ha avuto anche nelle mani i palloni di grandi vittorie, penso a Steve Kerr nel 1997 contro Utah in gara 6 e, prima ancora, a John Paxson in due dei primi tre titoli vinti dai Bulls. Analizziamo invece quello che ha rappresentato Jordan a livello di marketing: Nike ne ha fatto una vera e propria icona, tanto da lanciarne una linea personalizzata. Come hai vissuto questo aspetto? Sonny Vaccaro è stato l’inventore di Jordan come fenomeno pubblicitario. Nike è stata brava a seguirne l’istinto e fortunata a trovarsi per le mani un giocatore superiore a ogni aspettativa, anche la più rosea. Alla fine direi che Jordan è venuto fuori al momento giusto e ha usato il suo enorme carisma per essere proposto come atleta perfetto. Ricordo nel 1997 durante la finale di conference contro Miami: lui e Alonzo Mourning (granitico centro che ha giocato per anni fra Charlotte, Miami e New Jersey, oltre che nella nazionale USA) a metà campo per il meeting dei capitani. Jordan si rifiuta di stringergli la mano perché c’erano ruggini. I media erano incantati dalla competitività
di Jordan al punto da ignorare l’aspetto negativo di un gesto poco elegante, nessun altro se la sarebbe cavata. Ad un certo punto, specialmente dopo il primo ritiro ed il rientro, la statura di Jordan come personaggio lo rendeva inattaccabile. Michael Jordan come simbolo della rivincita razziale: si potrebbe delineare la sua parabola ascendente anche in questa maniera, pure se gli anni dei problemi e delle polemiche verso i giocatori di colore erano già passati? Nel senso che è stato forse il primo afroamericano nel quale il mondo della pubblicità e degli affari ha riconosciuto un simbolo capace di trascendere qualsiasi considerazione etnica. Jordan era Jordan e basta. Non dal punto di vista dell’impegno: sotto questo aspetto, Jordan ha sempre coltivato la sua immagine di personaggio vincente in campo e fuori, al di sopra delle dispute. La storia di vita di Jordan è ricca di successi e vittorie, ma anche di lati oscuri e di momenti difficili: qualcuno ha criticato la sua scelta di ritornare in campo a 40 anni, con la maglia dei Washington Wizards. Tu che ne pensi? Che i due anni di Jordan a Washington non c’entrassero niente con il resto della carriera, che per me è finita sul tiro di gara 6 a Salt Lake City, quello del sesto titolo; ma considerata età, acciacchi e compagni GENIUS PEOPLE MAGAZINE
i due anni di Washington tecnicamente hanno confermato quanto fosse strepitoso. Basta guardare le cifre che, riprodotte da un giocatore di 27-28 anni, ne farebbero comunque un All-Star e più. Credo gli fosse pesato aver dovuto smettere nel 1998, a 35 anni, da campione per una questione di principio. Se i Bulls avessero mantenuto intatta quella squadra, con Phil Jackson, Jordan avrebbe giocato senza interruzioni altri due anni almeno. Una citazione di Spike Lee, regista americano autore di molti documentari e film legati alla pallacanestro, è la seguente: “La sera prima di gara 5 della finale, Michael Jordan mangiò una pizza e si beccò una intossicazione alimentare. Volle scendere ugualmente in campo e segnò 40 punti. È questo il doping del campione vero: la voglia di giocare”. È solo questo il segreto di Michael Jordan o c’è anche altro? Un’insaziabile voglia di vincere, primeggiare, superare l’ostacolo. Sì, è questo il concetto. Ci sono giocatori che occasionalmente riescono a tradurre in pratica questa motivazione ma Jordan l’ha fatto per tutta la carriera. Fino alla fine, mai un calo di rendimento, determinazione e mai è stato appagato. Penso a cosa sarebbe stato Shaquille O’Neal se un certo tipo di motivazione ed etica lo avessero animato per tutta la carriera e non solo per qualche anno.
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INTERVISTA A GIULIO CIAMILLO
Giulio Ciamillo e lo scatto… giusto Il fondatore dell’agenzia Ciamillo/Castoria ci racconta la professione del fotografo e di come Michael Jordan lo ha ispirato. Di MATTEO ZANINI FRANCESCO LA BELLA
Una carriera quarantennale sui campi della pallacanestro, sempre con lo zaino in spalla. Giulio Ciamillo, un nome ben conosciuto quando si parla di basket: la sua agenzia fotografica Ciamillo/Castoria è il punto di riferimento per tutti coloro che vogliono ricordare i momenti migliori di una partita o di uno spunto cestistico in un’immagine. Premio Internazionale Oscar del Basket “Pietro Reverberi” - Sezione Giornalismo, insieme al collega storico Elio Castoria, ci parla dell’aspetto legato all’immagine di Michael Jordan, una figura che ha ispirato tante fotografie e attimi indimenticabili.
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Che cosa ha rappresentato e che cosa rappresenta per te Michael Jordan? Michael Jordan ha rappresentato un esempio unico di atleta per quanto riguarda lo sport che ho considerato unico nella mia vita, ovvero la pallacanestro; un esempio di giocatore “extraterrestre”, dal momento che è stato un esempio unico e inimitabile, viste le sue prestazioni atletiche unite alle sue straordinarie interpretazioni tecniche dei movimenti peculiari del gioco della pallacanestro. Hai mai avuto l’occasione di conoscere Michael Jordan? Ci racconti com’è andata? Sono stato fortunato: ho conosciuto Jordan durante il McDonald’s Open di Parigi, torneo di pallacanestro ideato dai manager della FIBA e della NBA nel 1986 per promuovere il basket nel mondo e consentire un avvicinamento tra i professionisti
americani e quelli europei. Correva l’anno 1997 e, più che conosciuto, posso dire di averlo visto molto da vicino, arrivando fino a sfiorarlo fisicamente nelle varie situazioni che abbiamo avuto a disposizione durante l’evento. Non vi racconto i bagni di folla oceanici quando i Chicago Bulls (e Jordan in particolare) entravano e uscivano dall’hotel per raggiungere il palazzo dello sport di Bercy, o erano impegnati in conferenze stampa. Non voglio fare similitudini improprie, ma direi che la folla era inebriata a tal punto da sembrare di essere in presenza di un capo spirituale, di una figura emblematica a livello mondiale; un personaggio che andava ben al di là dell’uomo sportivo, del grande atleta e del campione di pallacanestro che era Jordan. Quanto sei stato influenzato dalla figura di Michael Jordan nel percorso che ti ha
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INTERVISTA A GIULIO CIAMILLO
“La figura emblematica di Michael Jordan ha contribuito in maniera decisiva a cementare le mie convinzioni e la mia passione infinita per il gioco della pallacanestro. ‘Air’, per me, confermava il fatto che la pallacanestro fosse uno sport che poteva essere giocato in un modo sublime e parimenti meritava di essere fotografato”. portato a diventare uno dei più importanti fotografi sportivi? La figura emblematica di Michael Jordan ha contribuito in maniera decisiva a cementare le mie convinzioni e la mia passione infinita per il gioco della pallacanestro. “Air”, per me, confermava il fatto che la pallacanestro fosse uno sport che poteva essere giocato in un modo sublime e parimenti meritava di essere fotografato. Seguire Jordan era la “strada giusta”, così come seguire lo sport che interpretava era la strada giusta. La tua agenzia Ciamillo/Castoria ha un curriculum impressionante alle spalle: c’è uno scatto o un’immagine in particolare alla quale sei affezionato? Posso dire di essere molto, molto affezionato agli scatti di quel McDonald’s Open: attimi che sono stato in grado di immortalare in un momento così incredibile com’era quello in cui Jordan era approdato in Europa a giocare a poche centinaia di chilometri da casa mia. Le schiacciate e i gesti atletici di Jordan hanno fatto il giro del mondo: raccontaci la difficoltà di cogliere il momento giusto. Ci sono molteplici difficoltà, spesso sono determinate dalla posizione del fotografo: negli eventi
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internazionali, ad esempio, la posizione viene stabilita a caso oppure dagli organizzatori ed è quindi possibile che un fotografo non venga ad avere l’angolo migliore. Direi che però è difficile poter dire se esiste una “posizione migliore” in assoluto; altra difficoltà è quella di cogliere l’attimo giusto. Noi abbiamo realizzato moltissime immagini con l’ausilio dei flash elettronici, come ci hanno insegnato i nostri colleghi d’oltreoceano: utilizzare questo tipo di tecnologia vuol dire avere un solo scatto a disposizione, dunque devi decidere quale frazione di secondo tu voglia immortalare non è decisamente una situazione molto facile. Un esempio? Un momento in cui tu devi scegliere rapidamente e senza esitazione se fotografare il giocatore nel momento in cui si prepara per la schiacciata o mentre “entra” con le mani nel canestro, oppure una frazione di secondo dopo, mentre si rilassa attaccandosi al ferro con la palla che è già entrata: è il bello di questa professione, puoi interpretare come preferisci un gesto cestistico e, a seconda di come lo “fisserai”, sarai stato capace o meno di tradurre questo affascinante sport con una tua immagine. Tu sei abituato a «raccontare tramite la macchina fotografica»:
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ci vogliono però delle qualità particolari per riuscire a trasmettere determinate emozioni al proprio pubblico. Qual è il segreto? Ci vuole, prima di tutto, tanta passione e tanto feeling con il gioco della pallacanestro oltre alla qualità della macchina fotografica: caratteristiche che ti portano ad allenarti continuamente, a tentare realizzazioni differenti con varie attrezzature senza mai stancarsi e anzi moltiplicando gli sforzi e le risorse, tenendo a mente che quello che abbiamo immortalato oggi passerà in archivio e domani continueremo ugualmente a produrre altro materiale, magari migliore. Ci vuole tanta volontà per capire che, se c’è anche una minima possibilità per poter realizzare un’immagine diversa, si devono esperire tutti i tentativi possibile affinché l’immagine possa “nascere”: tutto quello che è possibile creare deve essere creato, altrimenti non è stato fatto nulla di buono.
“È il bello di questa professione, puoi interpretare come preferisci un gesto cestistico e, a seconda di come lo ‘fisserai’, sarai stato capace o meno di tradurre questo affascinante sport con una tua immagine”.
Da una tua idea è nato Il Fischio Giusto, un cortometraggio per promuovere valori come l’educazione, la correttezza e la sportività: quanto sono importanti icone come Jordan per far passare determinati messaggi di questo tipo? Personaggi come Michael Jordan sono fondamentali per poter trasmettere all’uomo della strada dei messaggi di educazione, correttezza e sportività. Nel mio piccolo, ho lavorato con un grande atleta che risponde al nome di Simone Pierich e con Letizia Giunchi, sua moglie: hanno ricoperto in modo magistrale i ruoli di personaggi principali de Il Fischio Giusto. Se potessi girare un altro corto su tematiche di questo tipo con un personaggio come Michael Jordan, credo che verrebbe giù il mondo intero e gli applausi e la commozione si percepirebbero anche nelle altre galassie.
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INTERVISTA A GIUSEPPE CRUCIANI
Giuseppe Cruciani: icone dopo Jordan e Ali?Ne vedo poche La “Zanzara” di Radio24 analizza la situazione dei personaggi che, a livello sportivo, hanno influenzato un’era.
Di FRANCESCO LA BELLA
Giuseppe Cruciani, un personaggio eclettico che è diventato con il tempo un amico sempre presente, per Genius People Magazine: proprio questa sua capacità di essere poliedrico e di avere mille sfaccettature gli permette di trattare anche un argomento com’è quello dello sport. Un campo che spesso incrocia diversi valori e che può influenzare anche altre tematiche, come quelle politiche o razziali: atleti come Jordan o Ali hanno ispirato tantissimi giornalisti durante i loro anni di carriera ed anche oltre, dopo il loro ritiro.
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In questo numero si parla di Michael Jordan e Muhammad Ali, due campioni assoluti e due icone della cultura popolare e della politica. C’è qualche sportivo oggi che abbia un impatto del genere sul costume o tutto si riduce alla crestina e ai vestiti alla moda? Sinceramente, faccio un po’ fatica a individuare una figura del genere: rimanendo nel campo della pallacanestro, probabilmente direi che oggi LeBron James ha un impatto simile, oppure Tom Brady che però è un giocatore di football americano. Nel calcio, invece, direi che l’ultimo grande sportivo che ha avuto un impatto simile è stato Maradona: a livello di personalità, dopo di lui, ce ne sono stati veramente pochi a livello di personalità.
Ali ha fatto della lotta per l’emancipazione dei neri americani una delle sue ragioni di vita, al punto da rendere il pugilato e la fama strumentali alle sue battaglie. Alla luce degli episodi come quelli di Ferguson e di Baltimora, avrebbero ancora senso battaglie del genere negli Stati Uniti? Certamente non avrebbero senso al giorno d’oggi; quelle erano altre epoche, si vivevano altre situazioni. Oggi, un Muhammad Ali non servirebbe, anche perché pensandoci bene il presidente degli Stati Uniti è una persona di colore. Da quel punto di vista, direi che il cerchio si è chiuso: non serve più una bandiera per questo tipo di discorsi. Se parliamo di cambiamenti, questi dovrebbero verificarsi a livello di
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cultura per alcune polizie locali americane. E in Europa sta emergendo una questione razziale legata all’immigrazione? Chi sono le parti in gioco in quesito caso? Non mi pare che, in questo momento, siamo in presenza di situazioni particolarmente allarmanti in Europa: certamente dove il tasso di immigrazione è molto alto, ci sono ovvi problemi di convivenza e movimenti anti-immigrazione, comunque non credo che in questo momento sia un qualche cosa di preoccupante. Ali ha dato una forte connotazione politica alla propria conversione alla fede islamica nel 1964. Com’è
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INTERVISTA A GIUSEPPE CRUCIANI
“Oggi, un Muhammad Ali non servirebbe, anche perché pensandoci bene il presidente degli Stati Uniti è una persona di colore. Da quel punto di vista, direi che il cerchio si è chiuso: non serve più una bandiera per questo tipo di discorsi. Se parliamo di cambiamenti, questi dovrebbero verificarsi a livello di cultura per alcune polizie locali americane”.
cambiato l’Islam in questi decenni e come sarebbe presa oggi una decisione del genere da parte, per esempio, di un campione italiano? Una decisione del genere che venisse presa da un campione italiano avrebbe un impatto decisamente molto forte, specialmente alla luce di quello che sta succedendo oggi nel mondo islamico. La conversione non passerebbe inosservata, verrebbe accolta come uno shock e sarebbe motivo di discussioni, polemiche e tutto quello che ne deriva. Esistono tanti italiani convertiti, ma quando una decisione del genere viene presa da una figura che ha un certo impatto mediatico, ovviamente fa molto rumore. L’Italia è un Paese razzista? Nel complesso direi di no: esistono degli episodi isolati, ma come in tutte le altre parti del mondo. Jordan è riuscito a fare del proprio corpo un brand, una macchina da soldi, inaugurando la figura del campione strapagato. Anche tu hai la sensazione che, rispetto a personaggi come lui, i campioni di oggi siano dei ragazzini viziati? Non saprei rispondere, anche perché probabilmente i calciatori vengono considerati più viziati per alcuni motivi: comunicano
di meno e parlano meno di politica; Jordan poteva certamente permettersi un certo tipo di rapporto con i media, è questione di personalità. Poi, ovviamente, il calcio è uno sport particolare, specialmente qui in Italia: ogni cosa viene enfatizzata in maniera maggiore rispetto agli altri sport, per cui è difficile valutare un personaggio come Jordan rispetto a un Messi o a un Cristiano Ronaldo. Parliamo del calcio italiano come fenomeno nazionalpopolare? È più metafora del peggio del nostro Paese o più occasione di sfogo legittimo e utile ad abbassare certi livelli di tensione sociale? Non ho considerazioni negative del calcio, è un grande spettacolo. Certo è che purtroppo attira ancora allo stadio dei settori di delinquenti che si nascondono dietro al tifo e trovano nel calcio l’impunità, perché si nascondono nel “mucchio”. Il calcio fa gruppo, le responsabilità si annacquano e dunque anche questo è un aspetto problematico, ma non bisogna mai dimenticare che rappresenta anche una grande passione per moltissime persone, che lo vivono come un modo di occupare parte della propria giornata. Certamente nel calcio si riversano odi, tensioni e campanilismi (ad esempio fra città vicine) che vengono sfogate allo stadio.
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Vasco Vascotto: l’onda lunga della vittoria Vasco Vascotto, classe 1969, è uno dei più famosi velisti italiani. Appassionatosi giovanissimo alla vela ha raggiunto il successo con traguardi importanti: numerosi i titoli italiani, diversi quelli europei, e ben ventiquattro mondiali. Ha conquistato cinque volte il Giro d’Italia di vela, l’Admiral’s Cup del 1999 e due bronzi ai Campionati Mondiali Isaf. La sua carriera conta inoltre otto medaglie al valore sportivo, una partecipazione all’America’s Cup, ed è stato due volte vincitore Medcup. I titoli mondiali conquistati sono stati conseguiti nelle classi J24 e Farr 40, Maxi, ORC 670. Ad oggi, Vasco Vascotto è il velista che ha vinto più titoli mondiali nel mondo della vela. Di SERENA CAPETTI
Come e quando nasce la tua passione per la vela? La mia passione per la vela nasce attorno ai dieci anni, mentre la mia prima volta in barca è stata a sei. Ho iniziato al circolo della vela di Muggia e da quel momento non ho più smesso. Anche se a volte ho tentennato infatti, alla fine ho deciso sempre di proseguire; d’altronde è una passione proprio per questo, perché resiste nonostante tutto. Quali sacrifici hai dovuto fare per arrivare al professionismo e al successo?
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Non parlerei di sacrifici, nel momento in cui riesci a fare una cosa che ti piace, parlare di sacrifici sembra un controsenso. I sacrifici li fanno quelli che si svegliano presto la mattina per andare a lavorare in fabbrica e rientrano tardi la sera senza magari riuscire a vedere i figli andare a dormire. Per quello che faccio io, tutto sommato, mi considero una persona fortunata. Sei appena rientrato dalla vittoria del mondiale a Barcellona. Qual è la dote realmente importante e imprescindibile per riuscire in questo sport? Innanzitutto lo sport della vela è uno sport un po’ particolare, nel senso che non ti permette di considerarti un invincibile, per il semplice motivo che hai a che fare con il vento, con condizioni atmosferiche che possono cambiare e che possono darti una bastonata in qualsiasi momento. Diciamo che a lungo andare si riconoscono i velisti che sono veramente più bravi, però, fondamentalmente, il segreto è non montarsi la testa, restare concentrato e aspettarsi in ogni momento un cambio di direzione del vento, e quindi la possibilità di un cattivo risultato. Un esempio banale: ho partecipato diversi anni fa a una regata, la duecento per due, dove partecipavano tutte barche uguali, quindi senza scuse di tipologia di imbarcazione, e dove c’erano tutti grandi professionisti. Per 190 miglia i professionisti sono stati davanti. Poi è finito il vento e un equipaggio, l’ultimo, composto da dilettanti
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INTERVISTA A VASCO VASCOTTO
non così conosciuti, ha preso un sacco di vento riuscendo a battere i professionisti. Quindi ecco, a conferma dopo un esempio del genere, l’umiltà è secondo me il segreto e la parola chiave di questo sport. In questo numero parliamo di Michael Jordan e Muhammad Ali, due campioni che hanno saputo avere un impatto rivoluzionario sulla loro disciplina. Chi è stato il vero rivoluzionario della vela moderna? Il vero rivoluzionario, a mio parere, è stato, prima nel bene e poi nel male, Russell Coutts. È stato mister
Coppa America, nel senso che ha vinto con più barche e più nazioni. Infatti, mentre prima la Coppa America era una competizione tra nazioni, Coutts è stato prima con i neozelandesi, poi con Alinghi, poi con Oracle e con gli americani. La cosa che a mio avviso ha sbagliato è stata dal punto di vista morale. Poteva essere additato come il più grande di tutti i tempi e invece ha trasformato la Coppa America in una manifestazione per fare soldi, ma che ha rivoluzionato in questo senso la sua immagine, divenendo da l’uomo più additato nel bene all’uomo più additato nel male.
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Jordan e Ali sono stati due campioni ma anche due rivoluzionari nel campo della comunicazione. Quali sono i velisti mediaticamente più in vista al momento? Non sempre la comunicazione va di pari passo con le abilità. Sicuramente il primo, e che è stato il più bravo a “vendersi” è stato Paul Cayard, riuscendo a intuire, in maniera geniale, come entrare nella testa della gente. A livello di comunicazione Paul Cayard è emerso attraverso la Coppa America, il Moro di Venezia ed è stato il primo personaggio con la parlata americana che parlava italiano, è andato in Spagna e ha iniziato a parlare spagnolo. Ecco quindi la comunicazione significa anche sapersi adattare e integrare nell’ambiente in cui vivi, cercare di toccare i sentimenti delle persone che hanno il desiderio di interagire con questi grandi campioni. Paul Cayard è entrato un po’ nel cuore di tutti grazie a questa sua grande abilità di riuscire a dire ciò che la gente voleva sentirsi dire. Quanto conta nella vela e nello sport in generale, essere dei bravi comunicatori e riuscire a costruire una certa immagine di sé e a gestirla in modo adeguato? È fondamentale. Adesso nella vela un po’ di meno, anche se fino a un certo punto, nel senso che per anni abbiamo dovuto convivere con gli sponsor per cui, bene o male, nel momento in cui vesti con una maglietta sponsorizzata, (e in questo Valentino Rossi è stato forse maestro tanto quanto Jordan ed Ali), devi
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LA COPERTINA
“I sacrifici li fanno quelli che si svegliano presto la mattina per andare a lavorare in fabbrica e rientrano tardi la sera senza magari riuscire a vedere i figli andare a dormire. Per quello che faccio io, tutto sommato, mi considero una persona fortunata”. portare qualcosa di emotivo oltre al risultato sportivo in sé stesso. Bisogna saper comunicare e rendersi disponibili all’interazione, accettare le critiche come i grandi onori, ma anche condividerli con la gente, con la stampa, anche attraverso cose semplici come dare la mano alle persone che ci tengono e ti aspettano, in quanto rappresenti per loro un qualcosa di importante. In questo senso gli sponsor sono stati fondamentali in quanto hanno spinto molto nel dover comunicare. Poi chiaro, un comunicatore o lo sei o non lo sei; Cino Ricci, ad esempio, nel campo della vela, con la sua parlata romagnola, è stato fondamentale per l’Italia in questo senso. Trieste viene spesso riconosciuta come la città della Barcolana, la regata con maggiori partecipanti al mondo e dai livelli più disparati di imbarcazioni ed equipaggi. La vela quindi, un fenomeno d’élite o non più? La Barcolana è esattamente l’opposto rispetto ad un fenomeno d’élite, a mio parere la Barcolana non è una regata, forse è la regata. Una festa per la città, per il mare, per la vela. Tutti, partecipanti e non, vengono per passare quattro giorni di festa per Trieste. In questa città la passione per la vela è impressionante, non a caso Trieste, pur essendo una città piccola, sforna continuamente campioni. E questo nonostante
sia una città abbastanza in crisi, e quindi, il fatto che nascano comunque campioni della vela, credo sia proprio l’emblema di quanto la vela non sia uno sport d’élite ma di passione e di valori semplici, come il valore dell’emulazione. Per far nascere dei nuovi campioni sono necessari dei modelli, dei campioni da seguire ed emulare. Serve una storia sportiva e la vela a Trieste è una storia sportiva. Nel mondo dello sport e del giornalismo sportivo, a cosa viene lasciato troppo spazio e a cosa invece troppo poco? Viene lasciato un po’ troppo spazio al pettegolezzo, si guarda più al gesto extra-sportivo e poco al gesto sportivo. I casi Balotelli piuttosto che Cassano del calcio, sono emblematici, ma al di là di questo, siamo inevitabilmente un po’ troppo calcio-dipendenti e un po’ troppo poco sportminori-dipendenti. È inevitabile perché almeno fino a qualche anno fa il calcio era fondamentale per trainare gli altri sport, anche a livello economico. Ora che il sistema calcio è in crisi ecco che, tutto sommato, si potrebbe cominciare a scrivere anche di sport minori. Infatti, visto che non c’è più la necessità dato che i proventi del calcio sono qualsi finiti, sarebbe il caso di scrivere di quelli che sudano e faticano veramente.
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Vascotto, un muggesano, un triestino nel mondo: cosa porti con te di questa città da cui tutto ha avuto inizio? Diciamo che mi considero un giuliano, così non facciamo un torto a nessuno (ride, N.d.R.). In linea di massima credo in certi valori che rimandano al rimanere attaccati alla propria terra e alle proprie origini. Il fatto di essere nato velisticamente al circolo della vela di Muggia lo considero un vanto, molte volte ho avuto l’opportunità di correre per altri guidoni però, alla fine, il fatto di essere legati alle proprie radici resta fondamentale. Chi mi conosce sa che a Trieste torno volentieri, e quando vado in giro per il mondo porto Trieste come esempio di una città fantastica, dove si dovrebbe venire a vivere, data la convenienza anche del momento, e questo lo dico sempre. A Muggia ho vissuto tutta la mia infanzia, i miei inizi velici, quindi porto anche il circolo della vela di Muggia come esempio sano, dove sono nati tanti professionisti e dove ho avuto l’opportunità di emulare diversi campioni prima di me e valori che a mio parere non possono che essere positivi. Un aneddoto? L’aneddoto è che so a livello di numeri quello che ho vinto, perché me lo dicono gli altri, ma non me ne ricordo nemmeno una di regata! Questa è per certi versi la mia fortuna, nel senso che cado in una sorta di trance talmente agonistica e di concentrazione, che probabilmente rimuovo in qualche modo gli eventi. Ma questo è anche un limite, perché sinceramente mi piacerebbe ricordare una regata importante, un titolo. La realtà è che non ho proprio memoria. Devo dire che due cose ho di buono, la memoria è la prima, mentre la seconda non me la ricordo.
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“essere qui è bellissimo” Rainer Maria Rilke
La cultura dell’abitare Zinelli&Perizzi sbarca a Portopiccolo Incastonato fra le falesie dell’esclusivo villaggio Portopiccolo a Sistiana (TS), SPAZIOPICCOLO Zinelli&Perizzi è un luogo delle idee dove design, arte e cultura dell’abitare si fondono per esprimere un nuovo concetto del vivere la casa oggi. Un tempio dell’arredamento e delle grandi firme del design italiano ed internazionale, selezionato con eleganza, passione ed originalità, caratteristiche dell’inconfondibile firma Zinelli&Perizzi.
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Giulia Sergas: la ricerca della prestazione perfetta La campionessa di golf Giulia Sergas ci spiega quanto conta la concentrazione nella sua ricerca costante della prestazione perfetta, mistero e ossessione di ogni sportivo, ma anche il suo punto di vista su fama, media e carisma.
Di FRANCESCO CHERT
Partiamo dal tema di questo numero: le figure di Michael Jordan e Muhammad Ali. Basket e boxe, quindi. Due sport molto lontani dal pacato e raffinato golf. Ma sono davvero così lontani? Immagino tu ti riferisca al lato psicologico... comunque sì, sono molto diversi tra loro, anche se in tutti gli sport ci sono i fattori comuni; concentrazione, determinazione e voglia di vincere.
riusciva a vivere il momento presente (cosa molto difficile) e le sue abilità fisiche riuscivano a renderlo un superuomo agli occhi di quelli meno dotati. Io sono alla ricerca costante della peak performance, come ogni atleta. Alle volte capita spontaneamente e alle volte è una situazione che bisogna indurre consapevolmente... comunque rimane uno dei più bei misteri dello sport.
Una delle caratteristiche di Jordan è il pieno controllo della mente sul corpo - come quando ha vinto il titolo nel 1998 segnando 38 punti con 38 di febbre - e la gestione ai limiti dell’umano della tensione e delle pressioni derivanti dal fatto di essere il migliore. Che rapporto hai con la gestione della tensione e dell’autocontrollo? Usi delle tecniche o sfrutti delle doti che hai da sempre? Questa tua frase non credo sia corretta: il controllo della mente sul corpo... la mente non controlla il corpo come il corpo non agisce in modo autonomo e slegato alla mente. Nella peak performance mente e corpo non esistono come concetti separati tra loro. Jordan
A livello mediatico il golf ha avuto molta visibilità dalla figura di Tiger Woods e dalle sue vicende personali. Tu lo hai anche conosciuto. Dove finisce lo sportivo e inizia il personaggio mediatico e in che rapporti stanno queste due dimensioni? Il golf deve moltissimo a Tiger, perché lui ha portato questa disciplina a diventare uno sport rispettato da tutti e non solo da chi lo praticava. Tiger Woods è un atleta, e come ogni atleta, il suo ego si nutriva anche del personaggio mediatico che era agli inizi, ora credo ne soffra con la stessa facilità. Non è facile ritrovare se stessi dopo una carriera simile, ci vuole coraggio e intelligenza.
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INTERVISTA A GIULIA SERGAS
L’istinto mediatico e capacità di essere sotto le luci dei riflettori anche al di fuori del campo sono qualità necessariamente richieste a un campione o queste sono dimensioni che possono distrarre dalla concentrazione richiesta dalla propria disciplina? Dipende solo da che tipo di persona sei. Se ti piace, ti stimola e ti nutre, se invece ami la riservatezza sarai spesso giudicato come un personaggio antipatico e poco avvicinabile. In ogni modo verrai giudicato. In cosa si differenziano i campioni di oggi, spesso giovanissimi e ricoperti di denaro, da quelli di qualche decennio fa? Che prima di fare una famiglia si divertono parecchio.
stato il beniamino perché si reincarna nel campione, il tipico uomo americano.
Muhammad Ali viene ricordato tanto per gli incontri vinti quanto per le battaglie portate avanti fuori dal ring e per la capacità di comunicare e di interpretare lo spirito della società americana di quegli anni al punto da diventare il simbolo della sua epoca. Esistono sportivi del genere oggi? Nel golf Phil Mickelson è sempre
Di quali messaggi sociali forti secondo te lo sport dovrebbe farsi portavoce oggi? Lo sport è stile di vita sano; prendersi cura del proprio corpo e della propria mente. Seguire una dieta equilibrata. Oltre a questi valori molto importanti al giorno d’oggi lo sport rimane sinonimo di lavoro e dedizione spinto dalla passione.
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Tu vivi da anni in California, la terra che rappresenta da decenni la creatività e il pensiero differente. Si impara a rompere gli schemi in maniera costruttiva o geni si nasce? Ci dai qualche coniglio su qualche trucco che hai imparato? Noi siamo plasmati anche dall’ambiente in cui viviamo, ma in fondo ognuno di noi è un genio e per scoprirlo, in California, si è capito che uscire dagli schemi è essenziale.
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Yahyâ Pallavicini:
tolleranza e dialogo interreligioso come base della civiltà Di FRANCESCO CHERT
L’Imam Yahyâ Sergio Yahe Pallavicini, Vice Presidente della CO.RE.IS., la Comunità Religiosa Islamica in Italia, Presidente del Consiglio dell’ISESCO, l’Organizzazione Islamica per l’Istruzione, la Scienza e la Cultura e consigliere del Ministro italiano degli Interni nella Consulta per l’Islam Italiano è una figura di riferimento per la comunità islamica italiana. Da convinto sostenitore di un’interpretazione moderata del Corano e del fatto che il fondamentalismo sia «la parodia di una identità religiosa e politica che basa il suo potere sul fanatismo ideologico» ci ha presentato, in questa chiacchierata, il suo punto di vista sul clima da scontro di civiltà che si respira in Italia da qualche tempo, sull’aggravarsi delle tensioni a livello internazionale, sul ruolo dell’Islam all’interno del sistema valoriale occidentale e sulla compatibilità dei valori islamici con quelli europei.
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INTERVISTA A YAHYÂ PALLAVICINI
“Manca la visione intelligente, sostenibile e lungimirante dell’uomo e della società e si rischia di produrre una ‘società’ senza persone, senza uomini e donne che sappiano ancora servire il bene dell’intelletto e del buon gusto per le cose vere della vita”. Muhammad Ali è, assieme a personalità come Martin Luther King, Malcolm X, Rosa Parks, Tommie Smith e John Carlos, una delle icone delle battaglie degli anni Sessanta contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti. Pensando ai recenti fatti di cronaca di Ferguson, Baltimora e Charlerston sembra che di battaglie del genere ce ne sia ancora bisogno. In cosa si è sbagliato? Secondo la tradizione islamica, la persona umana è molto di più di un esponente di una “razza”. Finché si analizzerà solo un aspetto, demonizzandolo o esaltandolo, scollegando questa parte dell’uomo dalla ricchezza e dalla complessità del suo insieme e prescindendo dalle corrispondenze con la storia dell’umanità e con il ruolo di vicario della creazione, i risultati saranno sempre parziali e riduttivi. L’ignoranza della natura della persona e la miopia di voler creare degli “standard” di comportamento sociale generano confusione e errori di comunicazione e percezione della realtà. Le lotte per l’emancipazione razziale americane hanno prodotto una maturazione civile anche nelle società europee. L’Europa però, soprattutto a causa dell’incapacità politica di gestire un fenomeno storico come quello dei flussi
migratori dal Nord Africa e dal Medio Oriente, sembra essere ricaduta in un atteggiamento se non razzista, quantomeno xenofobo. È possibile, secondo lei, gestire questi flussi in modo da garantire a chi arriva un trattamento dignitoso ed da evitare così tensioni sociali? Nel recente passato persino un Governo d’Italia ha prodotto delle leggi razziali contro la comunità ebraica e nella regione dei Balcani i musulmani sono stati oggetto di una “pulizia etnica” con la complicità dei Governi d’Europa e dell’Occidente “civilizzato”. In altri periodi, la logica della conquista e del fabbisogno di risorse e di mano d’opera è stata giustificata con la colonizzazione dei “selvaggi popoli dell’Oriente”. Quando questa mentalità cambierà e si riconoscerà non solo il diritto ma anche il valore della civiltà in tutte le tradizioni culturali e comunità religiose senza emettere sentenze morali basate su pregiudizi superficiali, lotte di potere e senso di superiorità, allora il lavoro serio di gestione, accoglienza, cooperazione, fratellanza sarà vincente. Qual è il suo bilancio sulle politiche legate all’integrazione a livello europeo, penso per esempio alle banlieue parigine o a episodi come quello di Tor Sapienza a Roma?
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La secolarizzazione ha influenzato la politica stabilendo criteri di gestione dell’uomo basati sul regno della quantità e sui diritti umani come se bastasse distribuire le persone come merci o bestie da collocare in un “sistema”. Il problema è proprio l’artificio e la corruzione nella gestione di questo sistema che non prende in considerazione le sensibilità, le molteplici e dinamiche specificità della persona che non possono essere oggetto di un processo schematico: integrazione o disintegrazione, ghetti o omologazione. Manca la visione intelligente, sostenibile e lungimirante dell’uomo e della società e si rischia di produrre una “società” senza persone, senza uomini e donne che sappiano ancora servire il bene dell’intelletto e del buon gusto per le cose vere della vita. L’Europa si sta islamizzando? La comunità islamica è stata presente per secoli in Spagna e in Sicilia lasciando segni di civiltà e dialogo interculturale e interreligioso prima che forze oscurantiste abbiano costretto a una progressiva scomparsa coatta varie identità spirituali e culturali che erano “colpevoli” di una “diversità” con alcune “radici” dell’Europa. La storia, il diritto, la geografia, la cultura, la spiritualità, le “radici” dell’Europa sono costruite da persone, uomini e donne, credenti e intelligenti. Tra queste persone, intellettuali, maestri, scienziati e semplici cittadini anche di religione islamica hanno senz’altro contribuito a questo patrimonio comune senza pretendere di “islamizzare” uno spazio come una proprietà esclusiva su cui attaccare artificiosamente una etichetta. È opportuno chiarire un
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“Anche la confessione islamica e i credenti musulmani in Occidente hanno la stessa dignità e i medesimi diritti. Questa dignità e questi diritti verranno riconosciuti se sapranno essere rappresentati da persone giuste e affidabili che, a loro volta, sapranno trovare interlocutori delle Istituzioni, coscienziosi e coerenti nel lavoro di sintonizzazione giuridica e culturale”. dato numerico per evitare suggestioni sproporzionate: tra le decine di milioni di persone di fede islamica che vivono in modo sano e costruttivo attualmente in Europa, c’è al massimo qualche decina di migliaia di formalisti ignoranti che hanno una interpretazione fondamentalista dell’Islam. Se riuscissimo a costruire un coordinamento qualificato di politiche sociali e di educazione interculturale il numero di questi radicali, presenti in tutte le comunità nazionali con differenti colorazioni, intransigenti e puritane, anche iperlaiciste o ultracattoliche, diminuirebbe e le loro provocazioni rimarrebbero senza riscontro. A livello internazionale, che futuro prevede per il Medio Oriente? Un futuro difficile che ci spinge a lavorare per prevenire crisi peggiori e conflitti fratricidi. Dobbiamo costruire in Italia e in Europa un modello credibile e d’ispirazione per le future generazioni di dirigenti in grado di sviluppare una nuova società civile in Medio Oriente, interculturale e interreligiosa, dove nazionalismi e arroccamenti identitari non siano condizionati dal sospetto, dal rancore, dall’odio e, peggio ancora, dal boicottaggio o dal vittimismo e dall’ipocrisia.
La religione islamica è compatibile col sistema valoriale che sta alla base della cultura europea, penso alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, o sarà necessario sacrificare qualcosa da entrambe le parti? Un sistema laico prevede una relazione aperta con ogni cittadino e le varie comunità proprio per evitare il monopolio di un pensiero dominante o un governo tiranno. Un sistema confessionale si concentra sulla declinazione di alcuni principi della dottrina religiosa come ispirazione di responsabilità sociali e comportamenti civili. Vi sono interpreti onesti e disonesti in entrambi i sistemi, senza che si debba rivoluzionare la natura umana, la laicità o qualsiasi religione. Spetta ai rappresentanti autorevoli e onesti del potere temporale di uno Stato e ai rappresentanti qualificati e sensibili delle dottrine religiose instaurare un naturale processo di collaborazione per la armoniosa tutela delle esigenze di pratica della libertà religiosa dei cittadini nel contesto di una giurisdizione regolata dalla Costituzione della Repubblica. Anche la confessione islamica e i credenti musulmani in Occidente hanno la stessa dignità e i medesimi diritti. Questa dignità e questi diritti verranno riconosciuti se sapranno essere rappresentati da persone giuste e affidabili che, a loro volta, sapranno trovare interlocutori delle
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Istituzioni, coscienziosi e coerenti nel lavoro di sintonizzazione giuridica e culturale. Al di là delle motivazioni profonde e personali di Ali, la sua conversione nel 1964 aveva una forte componente politica. Quali differenze riscontra lei tra una scelta del genere, che fu anche per esempio di Malcolm X, e il richiamo che lo Stato Islamico rappresenta oggi per i giovani delle periferie europee? Sono contrario a questa confusione tra motivazioni pretestuose e il valore della conversione spirituale. Credo che il risveglio di una prospettiva religiosa sia un miracolo di apertura del cuore nel quale la coscienza della presenza di Dio e del sacro cambia la visione della vita e del mondo: questa è la realtà della conversione. Al contrario, assistiamo a conversioni di forma religiosa come a uno scambio commerciale di maggiore profitto o migliore potere che sono solo la volgarizzazione del significato religioso. Il presunto Stato Islamico è la parodia di una identità religiosa e politica che basa il suo potere sul fanatismo ideologico. Tornando ai personaggi come il pugile Muhammad Ali o Malcolm X mi sembra che la loro fama sia prevalentemente dovuta allo star system e non siano particolarmente rappresentativi di una saggezza e di un modello religioso utile ai nostri giovani.
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INTERVISTA A CECILE KYENGE
Cecile Kyenge: come difenderci dalle semplificazioni del razzismo Già Ministro per l’Integrazione del Governo Letta, passata alle cronache per le schermaglie con il leader della Lega Nord Matteo Salvini, Europarlamentare del Gruppo S&D, Cécile Kyenge ha fatto dell’impegno contro i fenomeni del populismo e del razzismo che stanno riaffiorando in Italia il motivo della sua azione politica. Abbiamo fotografato una situazione di campagna elettorale permanente in cui «politici, media o affaristi trovano conveniente aizzare l’odio tra le persone per ottenere consenso o per distrarre l’attenzione dai loro affari sporchi», ma anche una situazione in cui il tutti dentro diventa una sparata di forza uguale e contraria al tutti fuori, uno sfoggio di buone intenzioni inutile quanto dannosa è la terapia dei sospetti per curare la paura. Ma anche Islam, questione razziale americana e qualche idea per il futuro. Di FRANCESCO CHERT
Onorevole Kyenge, da qualche mese la società americana si è ritrovata faccia a faccia con una questione che sembrava solo un brutto ricordo: la questione razziale. Considerando che siamo al secondo mandato del primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti, come si spiegano casi come quelli di Ferguson e Baltimora? Qualcosa è andato storto? Il razzismo purtroppo non è un brutto ricordo né negli Stati Uniti, né altrove. L’elezione di Obama è stata certamente un segnale forte che ha riempito di orgoglio la NUMERO 03/04
popolazione nera americana e mondiale e ha infuso speranza in tutti coloro che hanno sempre creduto nell’uguaglianza. Tuttavia lo stesso Obama ha detto che la sua elezione non segnava la fine degli scontri interetnici. Sarebbe ingenuo e pericoloso pensare che il successo e l’emancipazione di uno corrispondano al riscatto di tutti. Il razzismo ha molte cause e molti aspetti. A volte prende la forma di una “guerra tra poveri”, i quali non comprendono che se fossero alleati sarebbero più forti. A volte si trasforma in una “guerra ai poveri”: quando politici, media o 71
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“È paradossale ma vi sono leggi che alimentano l’illegalità, rendendo le persone sempre più marginalizzate e fantasmi. È il sistema che non gli offre la possibilità di entrare e poi alla fine dichiara che sono dei delinquenti. Le statistiche dimostrano che dopo le sanatorie, i tassi di delinquenza scendono moltissimo, perché le persone sono state riammesse a vivere una vita alla luce del sole”.
affaristi trovano conveniente aizzare l’odio tra le persone per ottenere consenso o per distrarre l’attenzione dai loro affari sporchi. Finché non si eliminano le cause e non si comprende quanto sia controproducente oltre che ingiusto il razzismo, esso tornerà ancora e ancora. La comunità nera americana ha qualche parte di responsabilità nella mancata realizzazione di una sua vera e completa emancipazione? In parte sì e in parte no. Ma credo che la responsabilità principale sia del sistema che non fa abbastanza. Ad esempio molta gente dice: «Guardate quanto delinquono i clandestini». Ma se ci si riflette bene è colpa di certe leggi che tengono le persone in una condizione di irregolarità che costringe a vivere al di fuori delle regole. Oggi l’unica possibilità per entrare regolarmente in Italia per lavorare è sottoposta al fatto che qualcuno ti assuma nel tuo paese di origine. Ma è una grande ipocrisia. Chi assumerebbe, ad esempio, una persona che deve badare al proprio genitore malato reclutandola a migliaia di chilometri di distanza, senza conoscerla e dovendo aspettare mesi che venga formalizzata la sua possibilità di ingresso? Ovviamente nessuno. Chi arriva in Italia con l’intento di lavorare, normalmente arriva con
un visto turistico che poi scade e si trasforma in clandestino e poi aspetta una sanatoria per emergere dalla irregolarità. Ma quando sei irregolare non puoi avere un contratto di lavoro, non puoi affittare una casa, non puoi accedere a determinate cure, eccetera. È quindi il sistema che costruisce l’irregolarità e spinge le persone a usufruire dei servizi offerti dalla criminalità. È paradossale ma vi sono leggi che alimentano l’illegalità, rendendo le persone sempre più marginalizzate e fantasmi. È il sistema che non gli offre la possibilità di entrare e poi alla fine dichiara che sono dei delinquenti. Le statistiche dimostrano che dopo le sanatorie, i tassi di delinquenza scendono moltissimo, perché le persone sono state riammesse a vivere una vita alla luce del sole. Quindi penso che il sistema abbia la responsabilità di aver ostacolato la piena integrazione delle comunità nere nella società americana. La popolazione afroamericana rimaneva confinata ad Harlem o in altri ghetti urbani, i pochi che avevano i soldi sono riusciti a scalare posizioni sociali, ma ci sono delle aree dove tuttora i neri non sono ben visti, come il mondo della politica. Obama è un’eccezione. Da una parte ci sono le responsabilità del sistema americano che ti illude, ma che in realtà non dà la possibilità ai neri
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INTERVISTA A CECILE KYENGE
Ali e Jordan sono stati campioni dello sport e icone della cultura popolare e, nel caso di Ali, della politica. Esistono oggi, al di là dello sport, personalità capaci di influenzare culturalmente la nostra epoca? Chi sono? Nella cultura popolare, come nella cultura alta, nell’economia e nella politica ci sono ormai diverse personalità di spicco che provengono da gruppi storicamente discriminati, afrodiscendenti e non solo. A parte il già citato presidente americano, lo stesso Papa è il figlio di poveri migranti che andarono dall’altra parte del pianeta a cercar fortuna. Credo, però, che se vogliamo uscire dalla trappola della razza bisogna smettere di guardare alle persone comuni o famose in base all’appartenenza etnica, ma più per quello che provano e per quello che sono in grado di fare. I bambini che crescono in classi e ambienti multietnici, danno al colore della pelle la stessa importanza che si dà al colore dei capelli. Credo che dobbiamo imparare da loro.
Foto di Dante Farricella, Studioieffe Modena
di andare avanti, tranne che nei settori dove sono riconosciuti, come la musica o lo sport, ma altri settori sono ancora molto chiusi. Dall’altra parte la popolazione nera non ha saputo fare una lobby molto forte. Ad esempio l’elezione di Obama ha avuto il sostegno anche dagli ispanici che hanno dato un importante contributo. La colpa degli afroamericani è stata quella di non essere stati in grado di utilizzare la loro forza, di fare lobby e metterla al servizio di un Paese che deve andare verso una piena integrazione di tutte le diverse comunità.
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Al di là delle motivazioni personali, la conversione di Ali all’Islam ha avuto una forte implicazione politica. Oggi l’Islam torna a rappresentare una risposta nel vuoto valoriale della nostra società, soprattutto per ragazzi figli di migranti ma nati e cresciuti nelle nostre capitali. È un fallimento del modello di integrazione o un’opportunità che può arricchire la cultura europea? Non vedo il nesso con l’Islam. Non è una questione di religione. I giovani cercano qualcuno che li possa riconoscere per quello che sono, ma non è l’Islam che colma il vuoto perché, per esempio, molte persone che si sono convertite sono state portate sulla strada sbagliata. Il problema è diverso. Qui si parla di una crisi di giovani che hanno bisogno di affermare la loro identità. Non gli interessa se sia attraverso l’Islam o con altre proposte. Dobbiamo accompagnare i nostri giovani a riconoscere le buone idee a cui possono aderire.
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La convivenza di culture diverse potrebbe porre questioni paradossali, come quella della scelta tra il rispetto di certe usanze e il rispetto del ruolo della donna. Ci sono valori che la società europea non può e non deve essere disposta a sacrificare in nome dell’integrazione? Quali? Questa domanda presuppone che il problema del rispetto della donna sia una questione che riguarda solo le culture delle persone migranti. Non è così. Se pensiamo che una visione patriarcale, così come altri problemi, siano appannaggio solo degli “altri”, partiamo sconfitti. Purtroppo le diverse matrici della cultura europea sono intrise di maschilismo e questo produce ancora effetti drammatici. I dati sulla violenza di genere dimostrano che la tendenza degli uomini a umiliare, offendere, violare e uccidere le donne è pressoché la stessa indipendentemente dal paese di provenienza o dal ceto sociale. Dobbiamo comprendere che la difesa di certi valori come la parità tra i generi e l’inviolabilità della persona umana vanno difesi a prescindere che il potenziale offensore sia cristiano, musulmano, indù, taoista, buddista, ateo, ecc. Di chi è la responsabilità dell’avanzata delle destre xenofobe a livello europeo e come si può combattere? Il populismo cresce dove non ci sono delle risposte concrete. È basso il livello del populismo laddove la società è sana. Individuare un’unica responsabilità è riduttivo. Ci sono più cause insieme da considerare. È mancata finora una politica europea comune in molti settori, come per l’immigrazione, che fa aumentare il populismo perché non abbiamo una risposta comune e abbiamo delle posizioni molto diverse da un Paese all’altro. Si può combattere culturalmente.
“Il razzismo ha molte cause e molti aspetti. A volte prende la forma di una ‘guerra tra poveri’, i quali non comprendono che se fossero alleati sarebbero più forti. A volte si trasforma in una ‘guerra ai poveri’: quando politici, media o affaristi trovano conveniente aizzare l’odio tra le persone per ottenere consenso o per distrarre l’attenzione dai loro affari sporchi. Finché non si eliminano le cause e non si comprende quanto sia controproducente oltre che ingiusto il razzismo, esso tornerà ancora e ancora”. Secondo lei i social network hanno più la responsabilità di diffondere sentimenti xenofobi o il merito di assorbire le tensioni sociali che altrimenti potrebbero sfuggire di mano? I social network, purtroppo, sono spesso utilizzati male. Diventano a volte un luogo di sfogo e veicolano dei messaggi sbagliati, sentimenti xenofobi, sfruttando l’anonimato. Possono essere utilizzati in modo molto diverso e positivo andando oltre la diffusione dell’odio. A partire dalle scuole, attraverso una formazione, un’educazione degli studenti, i social network possono essere utilizzati in maniera intelligente e produttiva. Si può guardare agli esempi che arrivano dagli Stati Uniti, dove molti giovani imprenditori hanno saputo realizzarsi servendosi al meglio dei nuovi servizi in rete.
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L’Italia è un Paese razzista? L’Italia non è un Paese razzista. L’Italia è un Paese con dei valori molto belli, molto profondi, che la classe politica non riesce a fare suoi e strutturare nel sistema. Una delle cause è che viviamo in un’eterna campagna elettorale, bisogna conquistare il voto e non si riesce poi alla fine a far uscire fuori le cose belle del nostro Paese che ha ancora dei valori sani. Non è stato fatto abbastanza a livello di Stato, bisogna dare opportunità ai cittadini per abbracciare i principi dell’accoglienza. L’Italia è un Paese che oggi ha un forte bisogno di politiche di integrazione, ma anche di politiche di accompagnamento. C’è una minoranza in Italia di persone che effettivamente è razzista, da una parte per ignoranza dall’altra perché non ha punti di riferimento. Abbiamo bisogno di strumenti culturali che accompagnino questo processo di cambiamento epocale.
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I giovani italiani e la fede oggi
A proposito di una recente indagine di Nando Pagnoncelli
Di PIER EMILIO SALVADÈ
Lo scorso mese è uscito nelle librerie un volumetto molto interessante del sociologo di Ipsos Nando Pagnoncelli che consiglio come lettura estiva. Il testo si intitola: “Come siamo cambiati. Gli italiani ieri e oggi: metamorfosi antropologiche”. In un centinaio di pagine l’autore cerca di tracciare la fotografia dell’Italia di oggi sottolineando diversi fattori: l’indebolimento dello Stato-Nazione e l’affermarsi delle dimensioni locali; la qualità della vita come priorità; soggettivismo, familismo e società ristretta; frammentazione identitaria e multiappartenenza; la dieta mediatica… La cosa interessante è che riserva una parte anche alla riflessione sui cattolici e in particolare fa un focus sui giovani. È stata fatta la domanda a un campione significativo di giovani su quali fossero i valori più importanti per un giovane e tra i primi posti sono stati messi a salute (91,9%), la famiglia (86,5%). Il sociologo fa notare come questa attenzione al salutismo era del tutto estranea alla generazione precedente: erano gli anziani a mettere al primo posto la salute! Nello stesso tempo non è più l’epoca GENIUS PEOPLE MAGAZINE
di conflitti in famiglia: ora essa è il vero ammortizzatore sociale, in questo momento di crisi. I ragazzi fanno fatica a trovare lavoro. Per cui molti rimangono ancora in famiglia. E la religione? Che posto occupa nella scala dei valori dei giovani o italiani oggi? Sta nel gruppo dei valori meno importanti: solo il 21,7% ritiene la religione qualcosa di importante e questo ci dice qualcosa circa l’importanza della fede nei giovani oggi. Ci sono molte altre considerazioni interessanti che il sociologo fa e che lascio alla vostra lettura, però emerge dai dati come l’età media dei praticanti sia sempre più alta e ci sia stato, rispetto alle generazioni precedenti, l’abbandono della fede da parte delle giovani donne. È una Chiesa percepita come maschilista e clericale e dunque da fuggire per molte fasce della popolazione giovane. Questo ci fa riflettere sul tema della fede oggi. Al giovane oggi poco importa essere cristiano o di un’altra fede perché in generale il valore della religione non è molto importante nella vita. Questo ci fa domandare anche sul grado di coscienza che 76
I GIOVANI ITALIANI E LA FEDE OGGI
hanno i pochi giovani che vivono nei nostri ambienti: se la fede non è sentita come importante per la nostra vita cosa significa in ultima analisi averla scelta? È una delle tante “magliette” da indossare per l’occasione e finché serve? Ecco allora ho capito un po’ di più anche il fenomeno, per fortuna ancora minoritario, di certe conversioni a estremismi religiosi: ragazzi e giovani che partono per combattere in territori dove vige il fondamentalismo religioso… Ma la domanda che dovremmo porci oggi è: se non fossimo più liberi di professare la nostra fede e ci fosse una persecuzione, quanti dei giovani battezzati (e anche degli adulti) continuerebbero a professare la loro fede? Una fede all’acqua di rose non vince le tempeste della vita… Anzi diventa qualcosa che si può “buttare via” facilmente, come un vestito vecchio e inutile.
Mons. Pier Emilio Salvadè Vicario generale della Diocesi di Trieste.
Nello stesso tempo occorre domandarci: quale posto occupano i giovani nella Chiesa al di là dei “proclami” o dei documenti ufficiali e di poche occasioni sporadiche come la Giornata Mondiale della Gioventù? NUMERO 03/04
Quali luoghi ci sono nella nostra Chiesa per promuovere il protagonismo giovanile? Facendo una riflessione tutta interna: nel Sinodo della Chiesa di Trieste che stiamo concludendo, qual è stato il posto per l’ascolto dei giovani e il cammino con loro? Forse ci siamo limitati a “parlare di loro”, ma quanto abbiamo lasciato “parlare loro” lasciandoci provocare dalla loro testimonianza e dalle loro proposte e anche dalle loro critiche? Certamente è faticoso, perché un giovane fatica a sentirsi “Chiesa”, ma che Chiesa è quella che vuole camminare insieme (“Sinodale”) e poi si dimentica di “camminare insieme” ai giovani? Ecco che ci rendiamo conto che l’universo giovanile non solo è qualcosa che facciamo fatica a comprendere, ma nello stesso tempo per noi cristiani adulti diventa un mondo che facilmente trattiamo a distanza, con i nostri preconcetti e i nostri pregiudizi. Il testo di Pagnoncelli invece ce ne dà una lettura molto schietta e cordiale, aiutandoci a capire quali passi nuovi occorre che facciamo come Chiesa per non perdere il treno della storia. E dei nostri giovani. 77
Foto Federico Riva (c) 2015.
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INTERVISTA A VINCENZO SALEMME
Vincenzo Salemme: la forza della risata Genius People Magazine incontra Vincenzo Salemme, attore, commediografo, regista teatrale, regista e sceneggiatore italiano. Ma è di cinema che con Salemme dai molti mestieri vogliamo parlare.
Di BETTINA TODISCO
Come sta il cinema italiano oggi? Mi sembra in netta ripresa. Sento parlare di tantissime nuove produzioni e mi pare si stia riaffermando una varietà di generi diversi. È un cinema quello italiano che torna a crescere? Cannes ha visto in competizione tre film italiani di grande successo (anche se non premiati): Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, Mia madre di Nanni Moretti e Youth – La giovinezza di Paolo Sorrentino. Il fatto stesso che ben tre film italiani siano entrati in concorso nella stessa edizione del festival di Cannes è un successo. Non sono molti i paesi che possono vantare lo stesso primato. Lei Nanni Moretti lo conosce bene; ha debuttato con lui al cinema in Sogni d’oro del 1981. Sì, lo conoscevo molto bene, e in quegli anni ci siamo molto frequentati, anche nel privato. Adesso non ci vediamo più da tanti anni. Un cinema impegnato con Moretti e tanti i registi con i quali ha lavorato: da Mario Martone (Morte di un matematico napoletano) a Giuseppe Tornatore (Baarìa). E tante commedie. Perché “la gente vuole ridere”, riprendendo il titolo di alcuni suoi spettacoli teatrali?
Perché la risata è un’emozione forte, che ci dà la sensazione di poter superare ogni ostacolo. E, in fondo, le cose importanti della vita vanno sempre affrontate con una buona dose di leggerezza. E in questo voler ridere, quanto c’è delle sue origini partenopee? Io sono nato in un paese della provincia napoletana, a Bacoli, e nascere in provincia ti dà la possibilità di vivere le vicende cittadine con uno sguardo un po’ più distaccato. Quindi Napoli ho imparato a viverla e ho scelto di amarla. Con evidenti conseguenze sul mio modo di esprimermi. La teatralità della lingua, e l’enorme patrimonio artistico ricco di personaggi del calibro di Eduardo, Totò, Massimo Troisi, inevitabilmente incidono sul mio spirito e condizionano il mio modo di esprimermi. Vincenzo Salemme più attore o regista al cinema? Quali le preferenze? Del mio lavoro mi piacciono tutte le fasi: dalla nascita dell’idea (quindi la scrittura) alla realizzazione della stessa (regia) ed infine all’interpretazione del personaggio che ne rappresenta il motore (attore). Concludiamo con i progetti in cantiere per l’immediato futuro al cinema. A settembre girerò il mio prossimo film di cui vi parlerò nei prossimi mesi. E, a novembre, riprendo il tour teatrale con la mia commedia “Sogni e bisogni, incubi e risvegli”, toccando città come Palermo, Firenze, Bologna, Milano e Torino.
SPECIALE PORTOPICCOLO
The
Luxury
experience Supervisor Francesco La Bella Managing Editor Enrico Denich Testi Michele Casaccia Foto Noemi Comme datore Interviste Matteo Macuglia Segreteria di redazione Francesco Chert Contributors e immagini Area Comunicazione Portopiccolo
Un grande
Portopiccolo
Di MICHELE CASACCIA
Arriviamo a Portopiccolo una mattina di agosto. Una brezza leggera allontana la foschia mattutina, mentre il sole inizia a dipingere il cielo di un rosa pallido. Il borgo è ancora addormentato.
Ci aggiriamo per un po’ sulla darsena solitaria, guardando le barche silenziose dondolare appena, mentre, sopra di noi, una donna apre le persiane per affacciarsi al nuovo giorno, respirando a pieni polmoni l’aria salmastra. Poco dopo eccola uscire in terrazza, appoggiarsi al parapetto e fermarsi a cercare risposte nel mare, lasciando i pensieri perdersi nel silenzio di quel momento. La pace del mattino.
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UN GRANDE PORTOPICCOLO
Ci sediamo ai tavolini della piazzetta che inizia a profumarsi di pane e caffè, e veniamo accolti dalla contagiosa simpatia del panettiere. Scopriamo che solo pochi anni prima, al posto di questa piazzetta, di queste case, di quest’idea, c’era una cava abbandonata, un profondo squarcio nella costa che feriva dolorosamente la vista e il cuore. Sistiana era stata una delle località turistiche predilette dall’Impero austro-ungarico, e questa desolazione rischiava di rovinare per sempre i ricordi che ogni villeggiante si sarebbe riportato a casa. Oggi, la prima impressione è quella di un’ordinatissima cittadella di mare, di un razionale prodotto d’ingegneria che aspetta solo che il tempo passi per lasciare i suoi segni, quella patina di esperienze che appaga il turista occidentale che crede che le novità abbiano sempre qualche difficoltà a commisurarsi con la storia, quando in realtà è appunto soltanto questione di tempo. Un signore appare da dietro una viuzza con il giornale sottobraccio e fare mattiniero. Si siede al tavolino accanto al nostro, rivolgendoci un sorriso di saluto. Poco dopo arrivano le brioche e gli espressi. È proprio vero che il caffè, da queste parti, è tra i migliori al mondo.
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Mentre andiamo verso la spiaggia, anche i commercianti iniziano la loro giornata, aprendo le botteghe e i negozi. Il piccolo porto inizia la sua vita, i moli iniziano a ondeggiare sotto i passi allegri di qualche turista come noi. Una barca esce in mare aperto, scrollandosi di dosso il sopore di una notte tranquilla, lasciando dietro di sé il lavorio del paese di mare. Percorriamo la passeggiata per raggiungere la punta più orientale del paesello, quella che dalla piazzetta porta al beach club. Il cielo disegna i limpidi contorni delle ville e delle case tutt’attorno, dei muraglioni in pietra coperti dall’edera e delle panchine rosse che aspettano che qualcuno si sieda a far loro compagnia. Il vento marino porta nell’aria l’odore dei gelsomini in fiore e dei pitosfori. Ora tutto il paese è sveglio e brulicante di vita. Turisti con borse e asciugamani coloratissimi sbucano ogni tanto dalle viuzze laterali che si uniscono alla strada principale. Passiamo ancora davanti alle barche e ad altri negozi eleganti e boutique. Ci fermiamo a prendere un po’ d’acqua e dei sandali per il mare. Finalmente arriviamo al beach club. La spiaggia si allunga dolcemente dietro a un leggero cancello in ferro battuto che un ragazzo ci apre con gran cortesia. La cabina ci permette di preparare nell’intimità di una luce filtrata dalle imposte bianche della porta, e
così profumati di crema, proseguiamo verso la punta della spiaggia, che riappare e scompare negli archi del molo, dietro l’imbarazzo di dover scegliere dove fermarsi per la voglia, l’eccitazione crescente, la paura di non di vedere tutto l’orizzonte possibile. Altri bagnanti si stanno sistemando sotto gli ombrelloni. Il mare davanti a noi luccica e invita a tuffarci: l’acqua ha ancora la temperatura della notte. Dopo qualche bracciata, dal largo, voltandoci in dietro, ci appare lo spettacolo della roccia altissima, delle case arroccate come altre pietre nella costiera selvaggia, la falesia ora viva di una nuova vita. Poco più in là un castello che non sembra appartenere a questo mondo. Dopo aver sentito i racconti del panettiere la visione del progetto di Portopiccolo appare ancora più chiara, sebbene ancora più incredibile e quasi irrazionale. Ma tanto a noi, una volta tornati a riva, aspettano la stessa brezza fra i capelli, lo stesso sale sulla pelle asciugarsi e farci come d’oro. Perché riposandoci sotto l’ombrellone abbiamo come la sensazione che qui tutto sia perfettamente predisposto per poter passare giornate indimenticabili, nella purezza e nell’armonia delle vacanze più esclusive. Ma non facciamo in tempo a portare a termine questi pensieri, che già ci addormentiamo, cullati da un meraviglioso venticello.
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Il sole è ormai alto. Le nostre ombre cercano riparo sotto i piedi, mentre ripercorriamo la punta della spiaggia per tornare al club. Torniamo alle cabine per mettere qualcosa di fresco per il pranzo. All’entrata del ristorante, ci accorgiamo che i capelli ci hanno bagnato le spalle della camicia, ma nessuna preoccupazione sembra solcare la fronte del maître, che ci fa accomodare su un tavolo accanto a una vetrata luminosissima, che riversa nella sala tutta la luce dei giorni più tersi. Tutto qui è bianco e delicato. Una musica leggera fa da sottofondo ai nostri tiepidi pensieri vacanzieri. Ci facciamo portare un po’ di bollicine fresche e un piatto di frutti di mare che sprigiona un caleidoscopio di sapori del golfo. Niente sarebbe andato meglio, per una giornata come questa. Pochi tavoli più in là, un uomo elegante ci sorride, come se approvasse ogni nostra scelta, come se si compiacesse anch’egli del nostro piacere, che evidentemente non riusciamo in nessun modo a nascondere. E così al momento di tornare in spiaggia, ci salutiamo con un lieve cenno, con quella complicità dei posti di mare. NUMERO 03/04
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Un ritmo lento si impone di nuovo nella vita di Portopiccolo, durante la siesta, nelle ore più calde. I pochi bagnanti rimasti a lottare con la canicola riposano sparsi qua e là. Qualcuno si lascia portare dai rari sospiri di vento, immerso nell’acqua fresca della piscina a sfioro del club. Un altro ha chiuso tutto il mondo fuori dalle tende del proprio gazebo. Soltanto pochi grilli continuano a frinire in lontananza. Nessun altro rumore rompe la quiete del nostro pomeriggio. Il tempo non sembra trascorrere quando si fa tutti parte degli stessi piaceri. Non dà l’impressione di far parte delle istituzioni di un borgo che, ormai si sta cristallizzando nelle nostre convinzioni, è nato per la volontà di far dimenticare il presente, il passato e il futuro, per abbandonare i suoi ospiti in un sogno d’estate, in una dimensione onirica che già evapora, sospesa nei ricordi.
Passeggiando senza fretta per la via del centro, ripassiamo davanti ai negozi della mattina. C’è chi riconoscendoci ci saluta. Incontriamo di nuovo il signore elegante del ristorante, intento questa volta a scegliere nuovi complementi per lo studio della casa poco più sopra, e che, forte di questo nuovo incontro, insiste perché vediamo al più presto, per un caffè che è sinceramente lieto di offrirci. Dopo mille scuse e mille riserve, ci ritroviamo a salire per le viuzze e le scalinate tortuose del borgo alto. L’uomo ci accoglie in un ambiente luminoso e ordinato, in cui non c’è traccia del caldo dell’esterno. Sotto i pavimenti scorrono le fresche acque delle risorgive e l’aria è ferma e pulita. La vista dalla terrazza abbraccia tutto il porticciolo, il golfo. In lontananza Trieste e la Croazia da una parte, dall’altra s’intuisce Venezia. Nel raffinato giardino pensile, l’uomo esce con
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il caffè e sedutosi con noi, inizia a raccontarci della sua nuova vita a Portopiccolo, delle sue giornate scandite soltanto dal sorgere e dal tramontare del sole, nelle quali tutto è a portata, tutto è raccolto e protetto dai muraglioni dell’anfiteatro. Intanto, più sotto, la vita del borgo ha ricominciato a fluire in tutta la sua allegra spensieratezza, riempiendo le strade dei suoni e dei profumi dell’estate. Ora che l’aria è più fresca, scendiamo per l’aperitivo al lounge bar, dove una musica soffusa si mescola al rumore dei bicchieri pieni di ghiaccio e menta, al delicato chiacchierio delle persone, all’infrangersi del mare sulle rocce. Una deliziosa cesta piena di frutta sprigiona un esotico senso di freschezza, mentre il cielo rosso e viola pennella nuove ombre sull’acqua, sugli sguardi sognanti delle persone distese sui divani assorte a guardare il mare restituire l’arancione di un sole sempre più stanco, sempre più vicino al primo taglio dell’orizzonte, che presto lo inghiottirà nell’estasi iridescente di pochi lunghi attimi. Portopiccolo saluta il suo tramonto.
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Sullo sfondo di questo incredibile cielo cangiante, con ancora in bocca il sapore balsamico dell’aperitivo, torniamo a passeggiare per raggiungere l’altra parte del porto. Lentamente la sera prende il posto del giorno, cambiando ancora faccia ai nostri desideri. Qualche luce inizia ad accendersi, sopra di noi. Vediamo qualcuno affrettarsi verso l’ultima bottega, un padre mostrare alla propria figlia Venere, accanto a una debole luna in cielo. Un’altra coppia entrare in una pizzeria del borgo alto, dopo aver fissato a lungo le barche ormeggiate. Raggiungiamo il ristorante prenotato per la cena, dove veniamo accolti con lo charme e le maniere delle grandi occasioni e fatti accomodare nel tavolo più vicino al mare, nella splendida terrazza che dà sulla marina. Il menu è un trionfo di percezioni e sembra raccogliere il meglio della tradizione mitteleuropea e locale. Scegliamo un piatto di crudi di pesce e un astice con spugnole che abbiniamo ad uno splendido vino bianco della zona.
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Mentre mangiamo, un mare nero e silenzioso ci illumina con i suoi bianchi raggi lunari. Verso la fine della cena, lo chef viene a salutarci per sapere se tutto quello che abbiamo vissuto può finire tra i nostri ricordi più belli. Gli assicuriamo che non poteva esserci conclusione migliore per la nostra giornata e lui ci racconta del perché ha scelto Portopiccolo per le sue creazioni, per il suo presente, ma anche per il suo futuro. Poi ci racconta delle sue lunghe passeggiate solitarie alla ricerca delle erbe e dei profumi che poi porterà in tavola, del finocchietto selvatico, della salvia. Di come viva alla continua ricerca di equilibrio tra filosofia ed estetica, tra cuore e mente, tra ricordi e ambizioni. E così, all’improvviso, nella fresca notte calata su Portopiccolo, ci rendiamo conto di cosa può essere passare tutta la vita in un posto così. Per un attimo immaginiamo il susseguirsi delle stagioni, i colori dell’autunno, il riflettersi delle sfumature dell’oro sulle verande delle case. Il borgo battuto dalla bora invernale, il mare in tempesta con grossi cavalloni bianchi infrangersi sugli scogli, noi dietro una finestra con una tazza di caffè fumante tra le mani, o nei vapori della sauna del centro benessere. I profumi della lavanda e il rifiorire della primavera e poi di nuovo l’estate, di nuovo nella terrazza in cui adesso salutiamo con una nuova consapevolezza, una nuova prospettiva. NUMERO 03/04
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Portopiccolo non è soltanto un posto dove passare la giornata al mare, dove fare shopping o dove scendere per fare aperitivo, per mangiare in ottimi ristoranti e provare l’esperienza unica di un soggiorno indimenticabile. Portopiccolo è tutte queste e molte altre cose. Ma soprattutto Portopiccolo è un posto in cui poter vivere, poter crescere la propria famiglia o venire a passare gli ultimi anni. È un posto in cui si può scegliere se vivere isolati o conoscere continuamente gente nuova. Un posto lontano e vicino allo stesso tempo, in cui investire o essere investiti dalla sua magia, dalla sua unicità, dalle sue molteplici facce, dal suo animo gentile, capace di assicurare ad ognuno il proprio sogno più perfetto. Con questi occhi nuovi scendiamo ancora una volta nelle vie del borgo, ora brulicanti di vita notturna che l’estate prolunga con distesa complicità. Passiamo
davanti a gallerie d’arte, a gioiellerie e vetrerie che sembra abbiano aspettato la notte per mostrarsi adesso come solitari incastonati tra le falesie. Il gelato al melone, prima di arrivare all’albergo, è l’ultimo fresco sorso della nostra lunga giornata al mare. L’ultimo battito prima di avere il tempo per provare a capire fino in fondo, dopo una notte che forse ci riporterà al domani diversi, le potenzialità di un’idea che solo poco tempo fa sembrava follemente lontana ed oggi è vera come non mai, oggi è una realtà impossibile da dimenticare. La camera del nostro albergo è fresca e asciutta. Dalla porta del terrazzo lasciata aperta le tende vibrano alla luce della luna. Un ultimo sguardo fuori, per vedere le mille luci del borgo e sopra di noi il firmamento, che ci ricorda ancora una volta di aver fatto parte di tutto questo.
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SPECIALE PORTOPICCOLO
Shopping esclusivo tra la Piazzetta e le calli di Portopiccolo
AL DUCA D’AOSTA La storica boutique veneziana arriva a Portopiccolo per offrire, come sempre, il meglio della qualità e dello stile nazionale e internazionale. Grazie alla ricerca costante che da più di un secolo contraddistingue la passione della famiglia Ceccato, anche in questa cornice si possono trovare le grandi marche della moda: Bottega Veneta, Saint Laurent, Fendi, Belstaff, Gucci, Chloé, Moncler, Burberry, Balenciaga, Givenchy, Valentino. Oltre ai grandi classici, il personale altamente qualificato e disponibile de Al Duca d’Aosta vi accompagnerà nella scelta dei look da sfilata più esclusivi, le It Bag del momento e gli accessori iconici della stagione, nel segno della modernità e del tempo libero, per uomo e donna. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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I NEGOZI DI PORTOPICCOLO
CRUCIANI
GIÒ PIÙ - MODA DONNA
KARTELL
Il bello di Cruciani è che tutto ciò che produce è assolutamente made in Italy e rappresenta il meglio di un’eredità culturale che rende la sua eleganza, fatta di regole estrose, la sua attitudine più cosmopolita. Il bello di Cruciani a Portopiccolo è che anche qui è riuscito a portare la fantasiosa essenzialità che l’ha fatto diventare un punto di riferimento negli ultimi vent’anni, un marchio trasversale, un prodotto giovane, disinvolto e sofisticato. Non è un caso che dopo Forte dei Marmi arrivi proprio a Portopiccolo con il suo Quadrifoglio, il braccialetto in pizzo che dal 2011 è un must-have e che oggi è disponibile in moltissime varianti, con le sue shopping bag in tulle e con il suo cashmere da sogno.
La donna a Portopiccolo veste Giò Più: abbigliamento, accessori, gioielli, cose sfiziose e alternative selezionate per rendere ancora più glamour la vostra estate. La boutique è un elegante contenitore dove indugiare assaporando tessuti e tendenze che risvegliano la femminilità. Il prezioso aiuto di una personal stylist è a garanzia di un look perfetto, per incontrare i vostri gusti, proporvi i capi più chic per uno stile sempre attuale, accattivante e mai banale. Perché da sempre l’intenzione della casa padovana è la volontà di privilegiare sia brand che supportano il “superbamente italiano” come Class Cavalli, Scervino Street, Versace e molti altri, insieme all’apertura verso nuovi designer e prodotti “no logo”.
Se pensate di conoscere tutto di Kartell, entrate nel nuovo spazio di Portopiccolo. Troverete un’ampia scelta di prodotti freschi e vivaci, dai Modular System di Componibili che dagli anni ‘60 continuano a scrivere la storia del design internazionale, alle indimenticabili sedie Victoria Ghost e alle nuove soluzioni per l’illuminazione di Ferruccio Laviani. Prodotti ideali per l’interno e l’esterno della vostra casa, seppur capaci di slegarsi dalla loro funzionalità, perché vere e proprie opere d’arte che hanno portato l’Italia sul tetto del mondo, imponendo a tutti il nostro lifestyle. E chissà che l’ultimo trittico di gnomi da giardino firmato Starck non vi faccia cambiare idea sul kitsch.
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SPECIALE PORTOPICCOLO
MAURO GUERRESCO
DOBNER
#TOP
Il lampadario in corna di cervo e daino sbiancate non riuscirà a passare inosservato. Direttamente dalla perla delle Dolomiti, Cortina d’Ampezzo, apre a Portopiccolo con tutta la sua travolgente creatività questo eclettico concept store in grado di poter soddisfare le più svariate esigenze sia nell’abbigliamento, grazie alla sua storica esperienza in fatto di calzature, che nell’arredamento, potendosi avvalere di laboratori artigianali e brocanterie internazionali con i quali ha intessuto un filo diretto. Mauro Guerresco è sempre in evoluzione, con un turn over di arredi, mobili industriali o vintage come le poltrone club in cuoio anni ‘30 e ‘40, i fari da cinema convertiti in lampade d’arredo, ventilatori d’epoca e molto altro.
La leggendaria Orologeria Dobner, fondata nel 1836, è leader indiscussa nel settore con due secoli di esperienza alle spalle e una solida presenza nel centro storico di Trieste e di Gorizia. Ogni punto vendita offre alla clientela un ampio assortimento di gioielli e di orologi delle marche più prestigiose (Patek Pihilippe, Audemar Piguet, Rolex, Tudor, Crivelli, Pomellato e molti altri) e un laboratorio con un servizio assistenza qualitativamente ineccepibile. I materiali dalle nuances calde e naturali rendono l’ambiente soft e accogliente, tale da regalare al cliente una nuova esperienza di acquisto autentica e piacevole ispirata ai valori Dobner.
Non poteva mancare un negozio così, per accontentare tutti quelli che a Portopiccolo arrivano con l’anima dello sportivo. Con tutti i colori e le sensazioni dell’estate nelle Havaianas più pop del momento, e tutto il lusso nella doppia versione con Swarovski, le Slim Crystal, #TOP propone anche una vasta collezione di sneaker, espadrillas, flip-flops e abbigliamento per tutte le stagioni dei marchi Converse e Saucony Originals, per rispondere alle esigenze più diverse ed aiutare il cliente a trovare la sua vera personalità: urbana, sportiva, beach. Perché Portopiccolo è la location ideale per una giornata di shopping ideale.
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SPAZIOPICCOLO ZINELLI & PERIZZI La classe e l’originalità inconfondibili di Zinelli & Perizzi per progettare e arredare la vostra casa a Portopiccolo e renderla perfetta in ogni stagione. L’elegante selezione di Spaziopiccolo è in grado di offrire assieme alle firme più importanti del panorama internazionale come Cassina, Flou, Azucena, Arclinea, anche la precisione di un personale qualificato per la progettazione e la realizzazione di interni. Per quanto riguarda giardini e terrazze, Spaziopiccolo si affida a preziose collaborazioni esterne come quella con lo studio Arbolé, mentre con la sezione MarineDivision mette a disposizione la sua storica esperienza nell’arredo nautico, sia per venire incontro alle esigenze di grandi committenti che per le imbarcazioni da diporto.
GALLERIA TORBANDENA
ASSOCIAZIONE WOLAND
Da più di mezzo secolo di storia, la Galleria si occupa di avanguardia storica europea e americana e di arte contemporanea internazionale. Dal 1977 è diretta da Andy e Alessandro Rosada, che hanno voluto riservare particolare cura a figure chiave della poetica visiva del NordEst, come Afro, Mascherini o Music. Ma è stato dato altrettanto rilievo anche alla tradizione figurativa della pittura e della scultura italiana (Morandi, Sironi, Nathan), mentre, in campo internazionale, hanno voluto dare importanza all’opera su carta e al disegno spaziando da Picasso a Chagall, da Klee a Modigliani. Negli ultimi anni si è allargata l’apertura sulla scena dell’arte contemporanea, con la proposta di artisti seguiti con grande interesse da musei e fondazioni di tutto il mondo.
Per la precisa e dichiarata volontà della proprietà di Portopiccolo, Woland l’Associazione nata dalle menti di Edward Lucie-Smith, Sergei Reviakine e Claudio Crismani apre qui il suo primo spazio espositivo dedicato all’arte internazionale. In collaborazione con Luxart Gallery e il London Collectors Club, Woland Art Space, la galleria elegantemente arredata da Driade, presenterà opere espressivamente collegate al visionario “The Prometheus Project”, un progetto che, dalla sinergia tra arti visive, musica e ricerca, vuole offrire una nuova concezione artistica e culturale, promuovendo allo stesso tempo un dialogo con i livelli istituzionali locali, attraverso il pluralismo culturale identitario di iniziative ad ampio respiro internazionale, grazie ad artisti del calibro di Genia Chef e Joe Machine.
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MURANO INN
OTTICA GIORNALFOTO
BIOLIFE JUICE BAR
Persino il Museo Ermitage di San Pietroburgo ha voluto sette magnifici chandelier per arredare le sue sale, perché questi oggetti sono i degni eredi della tradizione della scuola del vetro di Murano e perché una delle loro virtù è quella di sapersi integrare perfettamente in arredamenti classici e moderni. Dalla collaborazione fra Signoretto Lampadari e Schiavon Art Team nasce Murano Inn: due maestri del vetro portano a Portopiccolo tutta la creatività e l’esperienza sviluppata nelle storiche fornaci dell’isola della laguna di Venezia, offrendo dalla produzione di lampadari in stile, alla realizzazione di opere dalle linee più moderne e audaci, riproponendo oggi un’arte che da secoli abbellisce i più raffinati ambienti del mondo.
Solo per veri intenditori di occhiali, e solo per lo spazio allestito a Portopiccolo, lo storico negozio triestino mette a disposizione il meglio della selezione dei suoi punti vendita, in un favoloso ensemble di oggetti preziosi e introvabili, marchi esclusivi come Cartier, Chanel, Dolce&Gabbana, Miu Miu, Persol, Balenciaga, Cavalli, Swarovski, Prada Linea Rossa, Celine, Dior, Gucci, Tom Ford, Emilio Pucci, Marc Jacobs, Polo Ralph Lauren, oltre ai classici Ray-Ban e Persol ed altri emergenti come Pugnale&Nyleve con le sue creazioni in materiali preziosi quali l’oro 24K e le perle di fiume. Il negozio grazie al personale cortese e altamente qualificato, offre anche preziosi consigli per la manutenzione di occhiali da sole e propone costantemente tutte le novità del settore per essere sempre in linea con le richieste del mercato di riferimento.
Biolife Juice bar nasce nel 1997 con l’intenzione di promuovere e diffondere la cultura del biologico e della sana alimentazione. L’attenzione alla salute e all’ambiente rappresentano i cardini della politica aziendale che vuole proporre, oltre che dei prodotti che si possono tranquillamente integrare con le diete tradizionali, un vero e proprio stile di vita. Con la sua ampia scelta, Biolife Juice bar è il luogo giusto anche per chi ha scelto di prendersi cura del proprio corpo e della propria casa rispettando l’ambiente e utilizzando prodotti selezionati.
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APERITIVO E CENA TRA INFORMALITÀ ED ELEGANZA
Aperitivo e cena tra informalità ed eleganza BRIS Il Bris è il ristorante di punta di Portopiccolo, con grandi ambizioni per il futuro che lo vedono alzare lo sguardo al cielo alla ricerca delle sue, personali, stelle all’interno di una galassia di ristoranti che già le possiedono. Guidato dalla sapiente mano di Leonardo Marongiu, per sei anni chef executive di Gualtiero Marchesi in Alma, il Bris si sta facendo conoscere tra i clienti grazie alla grande qualità della cucina, la quale punta innanzitutto alla freschezza del prodotto, alla stagionalità e ad un legame stretto tra il territorio e le pietanze che vengono preparate. Il design del luogo è ricercato, abbagliante e sorprendente con la sua terrazza protesa per tre quarti sul mare. La cucina poi si lega fortemente al territorio, fino ai dettagli rappresentati dai petali dei fiori che si possono ritrovare nei
piatti e che vengono raccolti dallo stesso Marongiu durante le sue camminate per i dintorni di Portopiccolo. Il prodotto di questo sforzo verso la qualità e l’eccellenza è qualcosa che potremmo definire una “cucina d’autore”, una gastronomia raffinata, che cerca di infondere cultura in coloro che ne fruiscono. Ogni piatto qui risponde ad una filosofia, ad uno standard di qualità che rappresenta ciò che i cuochi hanno voluto comunicare con un determinato piatto. Per questo si è partiti cercando anche di educare la clientela a nuovi gusti e, visto che la risposta è stata assolutamente positiva, si sta procedendo alzando la ricercatezza dei preparati in un modello tipico della start-up, in continua ricerca del perfetto file tuning. Per permettere questa continuità tra le intenzioni della cucina ed il recepimento del
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messaggio in sala si è provveduto a trovare un personale di altissimo livello che sia in grado non solo di servire i piatti, ma anche di raccontarli al cliente, cosa fondamentale in una realtà di alto livello come questa. Il Bris è poi un luogo di sperimentazione dove la cucina si mette in gioco e sfida il cliente con le sue idee più innovative ed audaci ma anche con delle composizioni spiazzanti. La presentazione riveste un ruolo importante sia nella componente visiva che sensoriale. Per questo ogni volta che si ordina un piatto in questo locale si riceverà difficilmente ciò che si era prefigurati, tanta è la capacità di scomporre e ricomporre i piatti, lasciandoli mutati nelle forme ma comunque riconoscibili. Le sfide poi stanno anche nei sapori, che gli chef cercano sempre di reinventare e sperimentare. Una delle ultime trovate
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I LOCALI DI PORTOPICCOLO SPECIALE PORTOPICCOLO
in cucina è stato l’abbinamento cacio e cren, stravolgimento del classico cacio e pepe. Visto il successo in sala si è pensato di estendere questa accoppiata vincente ad altri piatti che purtroppo per ora, rimangono segreti ma che presto troveremo nella carta del ristorante. Anche nei piatti più semplici in ogni caso ci sarà difficilmente ciò che potremmo immaginarci, tanta è l’attenzione alle materie prime che costituiscono le basi della pietanza, andando così a ripensare, magari solo nei dettagli, anche il cibo più semplice. Nonostante quanto detto finora il menù del Bris è fruibile da più o meno tutte le tasche, perché lo sforzo a Portopiccolo è stato senz’altro quello di costruire una location esclusiva ma anche e soprattutto renderla accessibile a chiunque, con un’idea di turismo molto inclusiva ed aperta a tutti. MAXI’S Se si arriva a Portopiccolo e si vuole cenare guardando il tramonto mozzafiato dalla baia di Sistiana, il Maxi’s è decisamente il ristorante perfetto. La location è davvero incantevole sia per la sua posizione di fronte al mare che per la modernità dell’arredamento, curato nel minimo dettaglio. Il Maxi’s si pone come la diretta alternativa al Bris, pur essendo il primo per sua natura più vivace e di facile fruizione. La cucina si concentra sul pesce e su delle elaborazioni sul tema anche molto vivaci come le fritture affiancate al gusto deciso del wasabi ed altri abbinamenti a volte inaspettati. In ogni portata i piatti sono molto diversificati in termini di gusti ed ispirazioni così da soddisfare una platea di palati piuttosto ampia. Il pesce che viene servito è sempre freschissimo e proviene in particolare dal territorio limitrofo, anche grazie alla sua plurisecolare tradizione ittica, perfetta per raggiungere
quell’attenzione per la materia prima che a Portopiccolo costituisce la parola d’ordine. Il Maxi’s si contraddistingue quindi per la sua cucina di tradizione mediterranea e mittleuropea, rivista e rivisitata per renderla ancora più godibile. La fascia di prezzo è quella classica dei ristoranti di pesce e risulta una contropartita più che accettabile rispetto alla qualità del locale in tutte le sue componenti. Ad ogni modo si parla del ristorante di Portopiccolo che sta riscuotendo il maggior successo in assoluto e questo anche grazie alla sua grande spendibilità lungo tutto il corso dell’anno, fatto che lo ha reso GENIUS PEOPLE MAGAZINE
protagonista della stagione invernale della baia di Sistiana. Ancora più accattivante è il Maxi’s Beach Bar, un’elegantissima terrazza in stile minimal servita da un ottimo lounge bar che permette agli ospiti di godersi un aperitivo assolutamente di classe di fronte alla vista del mare. I cocktail che potete assaggiare qui sono quelli classici ed internazionali, nonché una vasta scelta di vini sia di livello nazionale, come il Ferrari, sia locali vista la grande presenza del territorio FVG in quanto a vinificazione ed infine il meglio di tra quanto disponibile all’estero.
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I NEGOZI DI PORTOPICCOLO
L’ORO DI NAPOLI
PEK – FORNO DEL PANE
LA BOTTEGA – ALIMENTARI
La pizzeria di Portopiccolo è stata per tutti una piacevole sorpresa. Pensata per dare un’ulteriore opportunità ad un’utenza che poteva già spaziare tra generi culinari molto differenti si è poi rivelata una scelta azzeccatissima, che sta regalando grandi soddisfazioni in termini di profitti e di riscontro tra la clientela. A tal proposito Leonardo Marongiu, responsabile del settore Food and Beverage, dice che “questo è innanzitutto dovuto ad una cultura tutta italiana che ci porta naturalmente verso le pizzerie, anche quando non indicate nei cartelli stradali, seguendo una sorta di radar che solo i cittadini del Bel Paese possiedono”. Il resto lo fa la qualità ed il bellissimo design del locale, d’ispirazione chiaramente partenopea.
In ogni paese che si rispetti c’è una panetteria che vende uno degli alimenti basilari dell’alimentazione di qualsiasi paese del mondo. Portopiccolo ovviamente non poteva essere da meno e così nasce “Pek”, la panetteria del borgo, la panetteria per i residenti e per chiunque apprezzi il buon pane. Nonostante sia un esercizio commerciale di tipo basic, colpisce subito il cliente per il suo design. Il negozio è stato realizzato, così come La Bottega e L’oro di Napoli, da Costa Group, il designer ufficiale di Eataly. Ha per questo motivo un’identità ed una personalità molto spiccate; il Pek in particolare ha un gioco di piastrelle e materiali grezzi e raffinati davvero notevoli. Non si parla però solo di pane, la mattina si possono trovare anche le brioches ed i tipici dolci da colazione ma anche torte, kranz all’uva sultanina e tartelle a base di confettura. Ci sono poi torte classiche come l’apprezzatissima Sacher, i dolci tipici del territorio giuliano come pinze e presniz alla frutta secca e miele. Il tutto si inserisce perfettamente all’interno di un contesto che come viene spesso sottolineato dedica una cura maniacale alla scelta delle materie prime, cercando al contempo una sinergia con ogni singola stagione per dare al cliente ciò che di meglio il territorio circostante ha da offrire.
La Bottega vuole essere negli intenti la classica gastronomia di paese, cercando quindi di intercettare sia dei gusti più rustici che quelli più raffinati. In questo contesto si è puntato molto alla tipicità dei prodotti locali, alcuni anche di difficile reperibilità in qualsiasi altro negozio della regione, come ad esempio i formaggi invecchiati nelle grotte del Carso, lo yogurt di Zidaric, che potete trovare nello stabilimento di produzione o presso La Bottega, grazie al rapporto di esclusività che è stato costruito con questa e altre realtà imprenditoriali di grande successo e molti altri. Anche in questo caso il design del negozio racconta una storia d’intimità, fiducia e di aromi che accompagnano il cliente nella scelta di prodotti selezionati appositamente per coniugare bontà e territorio, il tutto rigorosamente a kilometro zero.
Il pizzaiolo dal canto suo fa un gran bel lavoro, facendo ogni giorno la pasta per la pizza con una quantità minima di lievito madre che porta l’impasto ad una lievitazione molto lenta, si parla di circa 36 ore. Il risultato che si ottiene è una pizza leggerissima e dalla grandissima digeribilità, anche grazie alle farine biologiche selezionate ottenute da dei mulini che macinano ancora a pietra. Un ulteriore dettaglio è l’utilizzo di un forno a legna, sempre meno di moda nelle pizzerie italiane a causa dell’abilità che serve per gestirlo al meglio; ma a Portopiccolo c’è anche quello.
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SPECIALE PORTOPICCOLO
FIORDILATTE - GELATERIA
BABAR
BAR LA PIAZZETTA
Per la gelateria si è scelto di puntare su di una vasta scelta di coppe oltre che di gelati. Si è optato per il sistema a “pozzetto”, quindi con un prodotto che si va a raccogliere con la spatola e non con il classico pallottoliere. Tutti i gusti sono prodotti artigianalmente in casa e le paste sono di prima qualità. In questo negozio l’attenzione alla qualità è davvero maniacale, dai procedimenti per la creazione dei cristalli d’acqua nel gelato, alla conservazione fino alla ricetta di base. Queste ultime sono oggetto delle cure dello staff più di qualsiasi altra cosa acquistabile in questo esercizio commerciale visto che si è deciso di aggiornarle e rivederle piuttosto spesso facendo spazio ai nuovi gusti che si impongono con il cambiare delle stagioni e mantenendo una certa attenzione anche per i gusti più stabili all’interno dell’offerta, così che mantengano intatta la loro qualità nel tempo. Ogni quindici giorni o ogni mese si può trovare un “gusto del mese” con una ricetta ad hoc per dare ancora più varietà a disposizione dei clienti. Per quanto riguarda invece le coppe si è deciso di permettere ad ogni visitatore che decida di gustarsi un gelato a Portopiccolo di personalizzare i propri gusti preferiti con creme e cioccolate liquide, cereali e dolcetti che si possono aggiungere così da creare infinite varianti dello stesso prodotto.
Il Babar è pensato per tutte quelle persone che vogliono fare un break veloce per poi scappare. Cappuccio, brioche e chiacchiere da bar, l’iconica colazione italiana in piazzetta e la pausa caffè quando pare e piace. Posizionato davanti alla darsena è il luogo ideale dove incontrarsi, godersi uno snack insieme all’odore del buon caffè.
La Piazzetta sarà il bar che nascerà assieme al Falisia, a Luxury Collection Resort & Spa Portopiccolo e avrà come riferimento il panorama internazionale. Al suo interno sarà possibile gustare tutti i cocktail più famosi al mondo accompagnati da una piccola carta di snack tra cui gli immancabili club sandwich preparati con la stessa attenzione che a Portopiccolo si dedica ogni piatto. Vista la partnership con Starwood si potrà richiedere un cocktail firmato Italia che imparerete a conoscere sotto il nome di “Dolce vita” più un nuovo cocktail personalizzato che esprima l’anima di Portopiccolo in un drink che verrà preparato pensando al territorio nelle sue declinazioni autoctone ed etniche.
RISTORANTE CLIFF AND SLIM Falisia, a Luxury Collection Resort & Spa Portopiccolo propone due ristoranti aperti anche al pubblico esterno dotati di una suggestiva terrazza che elegantemente sovrasta la Piazzetta. Cliff, il ristorante gourmet serve piatti della tradizione così come gli ultimi trend culinari accompagnati da un’immancabile ricca carta di vini. Il secondo ristorante, Slim, propone un’attenta selezione di cibi ipocalorici in combinazione con gli effetti benefici dell’adiacente Medical Spa di prossima apertura. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Pagina a destra: foto FLB.
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Ci puoi trovare in questi punti TRIESTE Portopiccolo - Sistiana Caffè degli Specchi - Piazza Unità d’Italia Griffe Concept Store - Via San Nicolò Cantina del Vescovo - Via Torino CORTINA Contini Galleria d’Arte - Via Roma Hotel Cortina - Corso Italia GORIZIA Società Agricola Castelvecchio - Via Castelnuovo PORDENONE Peratoner - Corso Vittorio Emanuele II RAVENNA Gioielleria Ancarani - Via Matteotti ROMA Pio Monti Arte Contemporanea - Piazza Mattei VENEZIA Tokatzian - Piazza San Marco Contini Galleria d’Arte - Calle dello Spezier MOLDAVIA Chisinau - Via Sfatul Tarii, 17 SERBIA Belgrado - Alphons De Lamartin - Djordja Vajferta EMIRATI ARABI - DUBAI Ufficio P.R. e marketing Medio Oriente - 502, Blue Bay Towers, Business Bay
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SPECIALE PORTOPICCOLO
Portopiccolo: testimonianza di un’esperienza unica Di OLIVER FABI
La baia di Portopiccolo è situata in un contesto unico nel suo genere. Affacciata sull’alto Adriatico, la vista mozzafiato è percepibile da tutto l’anfiteatro residenziale che sorge direttamente dalla roccia. Il costruito domina il mare trovando un rapporto inscindibile con l’acqua e a monte si inserisce gradualmente nel verde dell’altipiano carsico. L’architettura di questo luogo si confronta con la contemporaneità per mezzo di innovative tecnologie dell’abitare per offrire il massimo comfort con il minimo impatto ambientale servendosi delle fonti rinnovabili reperibili nel sito: il sole, l’acqua di mare e la geotermia, evitando l’uso di gas combustibili. A un anno dall’apertura al pubblico si rimane sempre affascinati ripensando all’entità dell’opera realizzata con l’utilizzo delle più sofisticate tecniche ingegneristiche. Vale la pena ricordare i momenti salienti del cantiere, che, grazie alle tecniche del project management, è stato realizzato in tempi record con la programmazione e produzione edile che ha coinvolto migliaia di maestranze. Un’opera all’avanguardia tecnica e tecnologica per i nostri tempi, faraonica nelle sue dimensioni che trova l’inizio dei lavori nei primi mesi del 2011. È stata un’esperienza unica vedere le 25 gru dominare il cielo durante il corso del cantiere e le forze messe in campo dall’impresa per ottenere gli obiettivi produttivi e temporali per il raggiungimento delle tempistiche promesse al pubblico. Spettacolare
l’evento organizzato al momento dell’ingresso dell’acqua all’interno del bacino della darsena. In un momento storico difficile per l’economia globale ed in particolare per l’edilizia, l’ottimismo, l’ambizione e la volontà hanno permesso la realizzazione di questa visione la cui gestazione nella fase progettuale e autorizzativa è stata lunghissima e si è poi concretizzata con la fase di cantiere che ha avuto una durata di circa 3 anni e mezzo. L’intervento è caratterizzato da un’ambivalenza formale riconoscibile negli edifici: il borgo nella parte a mare e le case a terrazza nella parte a monte, incastonate nella roccia. Le due tipologie residenziali propongono diverse caratteristiche dell’abitare e del rapporto spazio interno e spazio esterno. Queste tipologie generano diversità anche negli spazi pubblici sia coperti che scoperti. È interessantissimo il masterplan insediativo. Nel cuore del borgo, la piazzetta sulla darsena è circondata da edifici che parlano il linguaggio formale dell’architettura tradizionale del luogo; le lavorazioni della pietra, in pietra locale di Aurisina o delle vicine cave di pietra Arenaria, usate per incorniciare le aperture in modo caratterizzante, i dettagli in pietra sulle facciate e le pavimentazioni esprimono l’attenzione che c’è stata sia nella fase di progettazione che nella costruzione di questo luogo. La morfologia stessa degli edifici dà origine a tutti quei percorsi pedonali che si GENIUS PEOPLE MAGAZINE
inseriscono labirinticamente nel costruito conducendoci sempre a scoperte: i giardini nascosti, i belvedere con le sorprendenti prospettive e viste del complesso e del paesaggio marino e le promenade immerse nell’architettura. La parte alta dell’intervento, dove troviamo le case a terrazza, esprime un’estetica che porta i tratti del gusto contemporaneo ed essenziale. Le ampie vetrate delle case alte si affacciano su terrazze private che trovano la loro privacy tramite schermi naturali, siepi, pergolati e muri realizzati ad opus incertum. I giardini pensili ricoprono le coperture di queste case. La promenade che interrompe longitudinalmente il sistema di case terrazzate si affaccia sul giardino pensile e conduce ad una spettacolare piscina inserita nella roccia a strapiombo sul mare. La forma dell’ex cava di pietra ha portato a questa soluzione tipologica residenziale a terrazzamento che trova perfetta collocazione in questo sito. Gli ascensori che uniscono i diversi livelli degli edifici terrazzati sono inclinati e gli shuttle inclinati arrivano, attraversando tutti i fabbricati fino alla piazzetta. I flussi della viabilità sono suddivisi: le strade carrabili all’interno degli edifici attraversano le diverse autorimesse raggiungendo tutte le parti del complesso, mentre i pedoni si muovono senza interferenze con i mezzi. 102
Portopiccolo è un intervento che ha voluto porre una forte attenzione sulla sostenibilità, sia dal punto di vista progettuale che nelle scelte realizzative. Si è voluto dare una profonda attenzione e significato alle risorse specifiche del contesto in cui il complesso è realizzato. Il posizionamento del sito ha portato progettisti e l’impresa a riflettere su come queste caratteristiche intrinseche del luogo potessero essere valorizzate per ottimizzare al meglio le risorse, sia sul piano energetico che dal punto di vista dei materiali da costruzione reperibili direttamente dal sito a chilometro zero.
come rapportarsi al contesto in modo sostenibile e contemporaneo, anche sulla grande scala d’intervento. La tecnologia costruttiva ed impiantistica spazia su tutti i piani e fin dalle prime fasi costruttive il cantiere è stato impostato per ottimizzarne al massimo le potenzialità. Le strutture portanti di tutti gli edifici sono realizzati in calcestruzzo prodotto in sito utilizzando l’inerte presente nella cava. I rivestimenti in pietra posati ad opus incertum su gran parte delle facciate, sono ottenuti dalla cava stessa ed in particolare sono ricavati dagli scavi eseguiti per realizzare il bacino della darsena.
Al momento della fase dei lavori, Portopiccolo era uno dei cantieri residenziali in corso di costruzione più grandi nelle dimensioni e significativi, sul territorio italiano. Rappresenta oggi un esempio di
L’utilizzo dell’acqua marina trova nella geotermia il modo per rinfrescare le centrali termiche di tutto il complesso. Il verde pensile diventa l’isolamento naturale ed ecologico per contribuire al contenimento dei NUMERO 03/04
consumi energetici. Tutte le case sono in classe A ed A+ e offrono l’altissimo confort dato dagli impianti di ventilazione meccanica controllata, impianti di climatizzazione a pavimento e ad aria di ultima generazione, dall’involucro e dai serramenti ad altissime prestazioni energetiche ed acustiche. Il ritrovamento sotterraneo di pozzi d’acqua dolce ha portato alla scelta di predisporre l’acqua di falda per l’utilizzo dell’irrigazione del verde pensile e per l’implementazione degli impianti geotermici per il rinfrescamento delle centrali impiantistiche. Tutta questa tecnologia, la cultura del progetto e il sapiente controllo delle tecniche costruttive hanno portato ad un eccellente esempio di edilizia contemporanea. 103
SPECIALE PORTOPICCOLO
Portopiccolo: obiettivo eccellenza Di ANTONIO MASOLI
La sfida che mi hanno lanciato era di quelle impegnative; bastava guardare il plastico dell’intervento e le simulazioni grafiche del risultato finale: un intervento di altissimo livello. Non potevo quindi pensare che un’iniziativa di questo tipo, che ricercava il meglio nel design, nei materiali e nelle soluzioni abitative, non avesse “sotto pelle” una parte tecnologica all’altezza o ancora migliore in termini di prestazioni rispetto ad iniziative analoghe… L’obiettivo era quindi l’eccellenza. L’eccellenza però si scontra subito con un grande ostacolo: il budget; avrei sbagliato pensando che si potessero prevedere soluzioni tecnologiche d’avanguardia senza un controllo dei relativi costi o, sogno di ogni progettista, senza limiti di spesa. Per fare un paragone con il corpo umano, ci voleva un sistema cardio circolatorio e polmonare da atleta olimpionico e non da impiegato sedentario, ma in grado di funzionare perfettamente consumando pochissima energia. Per raggiungere l’obiettivo quindi ho identificato i seguenti elementi chiave intorno ai quali sviluppare
tutta l’attività progettuale: • Riduzione dei consumi e ricerca del massimo efficientamento energetico • Utilizzo di tecnologie già collaudate ed affidabili • Identificazione delle soluzioni che minimizzassero i costi gestionali e manutentivi • Assenza di emissioni in ambiente • Assenza di rumorosità all’esterno dei locali tecnici La sfida era inoltre resa ancora più impegnativa dal fatto che tutto l’intervento doveva esser realizzato in soli tre anni… La soluzione è stata trovata e sviluppata con il mio team dopo vari incontri con i tecnici di settore e con la proprietà e si è basata su una soluzione adottata in impianti già da me progettati, realizzati e collaudati: l’uso dell’acqua di mare. Uno degli elementi caratterizzanti l’intero intervento era infatti la realizzazione di una grande darsena, dove realizzare il porto con oltre 120 ormeggi per le imbarcazioni, nell’area dove originariamente era presente il piazzale della cava; si presentava quindi la grande
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opportunità di realizzare le opere di presa e rilascio a mare in una zona a stretto contatto con le abitazioni, minimizzando quindi i costi di realizzazione di tali opere, normalmente molto impattanti. La soluzione dello scambio con l’acqua di mare infatti consente di climatizzare tutti gli edifici e di fornire loro acqua calda sanitaria durante tutto l’anno con un’efficienza energetica molto superiore alle soluzioni tradizionali, occupando uno spazio per i vani tecnici molto ridotto e, elemento non da poco, senza dover realizzare opere impiantistiche di forte impatto visivo dall’esterno (griglie, torri evaporative, ventilatori, ecc…). E inoltre, ciliegina sulla torta, la soluzione identificata costava meno di quella inizialmente prevista; quindi: obiettivo centrato. Il passaggio successivo era quello autorizzativo; l’utilizzo di acqua di mare, anche solo per lo scambio termico come in questo caso, richiede alcune autorizzazioni di tipo ambientale; è infatti logico e corretto pensare che il mare e l’ambiente circostante, patrimonio di tutti, debba esser preservato e protetto contro eventuali inquinamenti.
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PORTOPICCOLO: OBIETTIVO ECCELLENZA
Pertanto, confrontandosi con i tecnici degli organi competenti, ho trovato la soluzione tecnica che consentiva di controllare non solo le temperature di rilascio dell’acqua di mare, ma anche di annullare completamente il rilascio in mare dei prodotti chimici anticorrosivi, necessari a preservare gli impianti dall’aggressione dell’acqua di mare e quindi per rendere duraturo ed economico l’impianto; la conferma che tutto quanto era stato fatto a regola d’arte e che vi fosse inquinamento zero è venuta dalle analisi di laboratorio fatte dopo la messa in funzione degli impianti.
Portopiccolo quindi oggi può vantarsi di avere un impianto di climatizzazione e di produzione dell’acqua calda sanitaria di assoluto pregio, molto performante, molto efficiente, senza alcuna emissione, silenzioso e senza alcun impatto sull’ambiente circostante, con costi di gestione e manutenzione molto bassi e, non da ultimo, consentire alle unità immobiliari il raggiungimento delle classi energetiche A e A+.
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Posso quindi sicuramente dire che la sfida è stata vinta.
SPECIALE PORTOPICCOLO
Portopiccolo a 360° con Matteo di Biagi Abbiamo parlato con il top manager di Portopiccolo per capire la Vision che sta dietro il borgo ed i suoi servizi. Grande attenzione al dettaglio, fruibilità e lusso sono tre parole chiave per capire questa nuova frontiera del lusso italiano.
Di MATTEO MACUGLIA
Portopiccolo viene spesso affiancata alle mete più esclusive della Costa Smeralda come Porto Cervo e Porto Rotondo. Cosa crede che vi contraddistingua da queste realtà? Mi è stato chiesto molto spesso a cosa paragono Portopiccolo. Io non la paragono a nulla nonostante in molti la chiamino “la Piccola Montecarlo” o “la Piccola Porto Cervo”. È qualcosa di unico che non ha un confronto. In uno spazio relativamente ristretto abbiamo racchiuso tutta una serie di servizi di alto livello che vanno dalla ristorazione, al beach club, alla marina, alla via dei negozi, all’hotel cinque stelle lusso Starwood ad una parte Wellness SPA, pizzerie, gelateria e molto altro. È una raccolta esclusiva che pensiamo non abbia eguali. Andando a Porto Cervo tutto questo magari c’è ma è spalmato sul territorio e non concentrato in un’unica, stupenda, location. Portopiccolo riassume un’emozione, un piacere di vivere il luogo. Molti acquirenti dicono che quando passano la sbarra di Portopiccolo gli pare di essersi lasciati alle spalle i problemi quotidiani e di entrare in un’isola felice. Cosa vi ha portato a credere nelle potenzialità del territorio del FVG? Un fattore di sicuro interesse è stata l’assenza di progetti simili in questa zona d’Italia. Inoltre il territorio nel quale ci siamo inseriti rappresenta una cerniera tra l’Italia, l’Europa e l’Est Europa che può senz’altro rivolgersi ad un ampio bacino di utenza mitteleuropeo. Infatti per quanto riguarda le vendite all’estero noi puntiamo a paesi vicini GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA A MATTEO DI BIAGI
come Austria, Svizzera e Germania, per poi arrivare ai paesi più a Nord ed al mercato russo. Quello che crediamo in ogni caso è che Portopiccolo possa essere un motore per promuovere il turismo in tutta l’area del Friuli Venezia Giulia, portando nuovi accessi che permetteranno di ampliare l’offerta e determinare ricadute positive per il territorio sia in termini di immagine che occupazionali. Crediamo di poter portare in regione tutta una fetta di visitatori che solitamente non considererebbero di soggiornare in FVG, preferendo mete come Capri, Porto Cervo, ecc. Qual è, secondo lei, l’archetipo del visitatore di Portopiccolo? Portopiccolo si caratterizza per un’offerta molto diversificata. Il visitatore può venire qui a farsi una passeggiata la sera, visitare i negozi mangiandosi un gelato ed infine cenare con un budget del tutto simile a quello che si avrebbe nelle altre realtà turistiche del territorio friulano. Per una giornata di mare invece può usufruire del nostro Beach Club per prendere il sole, anche qui con un’offerta in termini di prezzi molto diversificata. Se invece desidera il pacchetto completo può alloggiare nell’hotel con la possibilità di godere un’esperienza che racchiuda l’interezza dei servizi offerti dalla nostra location. Per quanto riguarda la vendita degli appartamenti il modello di riferimento è senz’altro quello internazionale mentre per il visitatore più fugace può essere chiunque nel raggio di un’ora di automobile da qui, quindi si parla di Veneto, Friuli Venezia Giulia, Austria, Slovenia e Croazia. Per il turismo che possiamo definire local, anche se in realtà riguarda un’intera regione geografica come abbiamo appena detto, aiuta molto anche la presenza di infrastrutture, le autostrade in particolare che consentono quindi
al turista di giungere qui senza lo spettro continuo di lunghi intasamenti durante l’attraversamento delle autovie. Ci sono poi i collegamenti aerei con addirittura tre scali aeroportuali nelle nostre vicinanze: Venezia, Rochi dei Legionari e Lubiana, tutti ad un’ora massimo da qui. Ora che la stagione è partita, il borgo è sempre più affollato di turisti, a dimostrazione del fatto che questa realtà incuriosisce molti, sia vicini che lontani. Per questo inverno invece che programmi avete in mente? L’offerta di Portopiccolo si estende per 365 giorni l’anno, questo nonostante il fatto l’apertura dell’area Wellness e Medical Spa sia prevista per il prossimo anno. I 3.000 metri quadri che metteremo a disposizione garantiranno la continuità stagionale durante lo svilupparsi della stagione fredda. Ad ogni modo la location è tale che dal punto di vista paesaggistico l’abbassarsi della colonnina di mercurio non influisce minimamente sull’esperienza visiva e sensoriale della quale si può godere da qui. L’offerta in termini di servizi e negozi disponibili non subirà alcuna alterazione e sarà quindi possibile godersi una giornata o un week end esattamente come si fa ora con la bella stagione. Anche l’apertura di questo mese dell’hotel 5 stelle lusso in partnership con Starwood ci garantirà un maggiore afflusso ed una continuità di presenze nel corso dell’inverno. Oltre al wellness poi, il prossimo anno aprirà lo spazio dedicato agli eventi ed ai congressi, con la possibilità di attirare quindi anche un turismo culturale o business nel quale crediamo fortemente.
alle ambientazioni di Saint-Tropez, al ristorante Bris è può gustare la cucina dell’allievo del famosissimo chef spagnolo Ferran Adrià. Chiude la fila, tra i tanti esempi che potremmo citare, la cultura dell’accoglienza italiana. Quanto è stato difficile mettere assieme una squadra così variegata e completa? Abbiamo cercato di puntare al massimo in ogni campo. L’eccellenza viene ricercata al livello della ristorazione così come negli altri ambiti. Anche una semplice pizza a Portopiccolo riesce ad emergere dalla massa utilizzando ad esempio una farina ottenuta da macinatura a pietra la quale viene sottoposta ad una lievitazione di almeno 48 ore. Si cerca la particolarità anche attraverso i dettagli, riuscendo comunque ad offrire un prodotto che, come nel caso appena citato, non risulta più esoso che altrove. Abbiamo un’offerta nell’ambito della ristorazione che abbraccia stili diversissimi e che è destinata ad ampliarsi ulteriormente nei prossimi mesi.
Portopiccolo è un vero mix di stili ed ispirazioni in una continua contaminazione tra generi alla ricerca dell’esperienza migliore per il visitatore. Il Beach Club si rifà
Nel futuro di Portopiccolo cosa vedete? Con l’area wellness si dovrebbe concludere l’operazione di sviluppo di Portopiccolo. A quel punto questa location avrà un livello d’offerta in termini di servizi che la renderà una perla all’interno dell’Adriatico. Faremo quindi leva sugli eventi. A questo proposito stiamo pensando di organizzare qualcosa legato al mondo della vela e delle regate, con la nostra marina e Yacht Club. Ci concentreremo quindi sul riempire Portopiccolo di contenuti visto che il contenitore si appresta ad essere ultimato. Grazie all’area in apertura il prossimo anno potremo ospitare matrimoni (il che è già possibile ndr), congressi ed eventi di ogni tipo, come i corsi che già stiamo tenendo con importanti aziende del territorio.
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Marco Milocco, l’esperienza al servizio del lusso Di MATTEO MACUGLIA
È la seconda volta di Genius People Magazine con l’amministratore Unico di Falesia e General Manager di Falisia, a Luxury Collection Resort & Spa Portopiccolo. Questa volta vi racconteremo come sta andando la stagione estiva e cosa è successo dal nostro ultimo incontro ad aprile.
L’ultima volta che ci siamo visti ad aprile stava finendo e già i primi turisti cominciavano a mostrarsi nella splendida cornice di Portopiccolo. Ora che la stagione è cominciata com’è l’affluenza? Direi molto buona. C’è ancora un po’ di reticenza ad approcciarsi a noi perché molte persone pensano ancora che questa sia una realtà per pochi. Il caffè che prendete a Portopiccolo ad esempio costa come nei bar di Sistiana con un’attenzione particolare al servizio. Ad ogni modo l’affluenza c’è e la curiosità tra la gente per il nostro progetto sta aumentando. Il Beach Club comincia ad essere frequentato con una certa regolarità anche da persone che vengono qui da fuori ogni giorno. Stando alla situazione attuale possiamo dirci soddisfatti. Il 10 luglio, Portopiccolo ha ospitato la sua personalissima “Notte Bianca”, con la quale è stata inaugurata tra l’altro la “Via dello Shopping”. Ci parli del lavoro svolto, dei marchi e delle iniziative che orbiteranno attorno a questa realtà. La Notte Bianca è stato un momento di socializzazione che abbiamo GENIUS PEOPLE MAGAZINE
pensato per far conoscere i marchi ed i negozi che si trovano all’interno di Portopiccolo. Abbiamo boutique rinomate Dobner, Al Duca d’Aosta, Cruciani, Giò Più, Kartell, Mauro Guerresco, #Top, Giornalfoto, Zinelli & Perizzi, Murano Inn. Questo è un tributo che abbiamo pensato per mostrare Portopiccolo in tutte le sue possibili declinazioni, in questo caso con lo shopping notturno, le sfilate di moda e l’esposizione di automobili e, altre volte, concerti. Vogliamo fare in modo di portare visibilità a Portopiccolo dando al contempo un assist a tutte quelle persone che hanno creduto in noi investendo nel nostro progetto. Al nostro ultimo incontro ci raccontava di come Portopiccolo, nonostante sembri portata all’esclusività, guardi anche ad una clientela meno facoltosa, dando di fatto a chiunque la possibilità di usufruire della bellezza che avete messo a disposizione con questo progetto. Ci ricordi qualche declinazione di questo concetto. Vi porto l’esempio del Bris, per il quale ho un debole nonostante cerchi sempre di guardare agli esercizi commerciali di Portopiccolo 108
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come un padre farebbe con i suoi figli, in modo imparziale. Il Bris è un ristorante eccezionale con uno chef di altissimo livello che produce una cucina ottima ma che riesce comunque ad essere interpretabile da ogni palato. In una realtà come quella del Friuli Venezia Giulia che presenta diversi ristoranti stellati riponiamo in lui le nostre speranze per regalare, forse un giorno, un ristorante stellato alla provincia di Trieste. Nonostante appunto la cucina di alto livello i prezzi del Bris, menù alla mano, risultano assolutamente abbordabili, per una cucina davvero ottima. Ad aprile annunciavate ai lettori di Genius People Magazine la nuova partnership con Starwood Hotel and Resorts per il vostro Falisia, a Luxury Collection Resort & Spa Portopiccolo. Cosa significherà per Portopiccolo avere al suo interno una realtà come quella della Luxury Collection? Innanzitutto si tratta del primo hotel cinque stelle lusso che apre in Friuli Venezia Giulia, all’interno di una delle sette catene più importanti al mondo. Parliamo di una tradizione del lusso che affonda le proprie radici in un glorioso passato di eccellenza nel settore alberghiero che in tutto il mondo ha regalato hotel notevolissimi e che in Italia hanno la possibilità di essere coniugati con la tradizione nostrana per l’ospitalità. Per il Falisia, a Luxury Collection Resort & Spa Portopiccolo, essere sullo stesso piano di altre realtà del lusso internazionale come il Cala di Volpe a Porto Cervo,
il Danieli di Venezia o di un Saint Regis di New York fa sentire davvero fieri di questa partnership. Tutto questo significherà che il nord-est italiano non terminerà più a Venezia per quanto riguarda la frontiera del lusso, con ricadute positive per tutto il territorio in termini di affluenza nel corso dell’anno. Con la Sky Pool, la piscina a sfioro a 60 metri di altezza sul livello del mare, si dà un nuovo incentivo alla clientela per acquistare un’abitazione nel borgo dell’ex Cava di Sistiana, aggiungendo di nuovo qualcosa che nel territorio FVG non esisteva. Quali iniziative avete in mente invece per permettere anche ai non residenti di usufruirne? Come diceva giustamente, la fruizione della Sky Pool è stata pensata per i residenti, così da regalare loro un angolo tranquillo e lontano dal movimento che può esserci in spiaggia nelle giornate più affollate. Per quanto riguarda l’accessibilità al resto del pubblico, certamente, abbiamo pensato a delle iniziative in accordo con i condomini dei residenti come ad esempio presentazioni di libri o concerti di pianoforte così da offrire un’esperienza visiva mozzafiato.
Club per dare ancora più possibilità di scelta ai nostri clienti. Ci parli più approfonditamente del Green Beach… Il Green Beach è uno spazio che abbiamo allestito come un’oasi di verde con annessa piscina e piazzole per ospitare eventi. È una zona pensata per i residenti ma che può essere fruibile anche da una clientela più vasta, che nasce come polmone verde di 4.000 metri quadri. C’è ancora una parte per la quale non abbiamo deciso la destinazione ma che potrebbe diventare un eliporto, dei campi da tennis o altro. È qualcosa della quale si sentiva la mancanza a mio parere, in particolare per le famiglie con figli piccoli che hanno bisogno di maggior possibilità di svago rispetto a quelle che offrivamo in spiaggia e si trovano ora ad avere a disposizione un parco giochi con piscina a misura di bambino.
Cosa vi aspettate da questa stagione estiva? È senz’altro un banco di prova per testare la nostra capacità d’attrazione. Stiamo ormai ultimando il parco di servizi che offriamo ai nostri visitatori; qualche giorno fa abbiamo inaugurato la Green Beach, pensata in contrapposizione al Beach
Per un turista che viene a Portopiccolo per la prima volta da dove consiglia di cominciare? Secondo me il modo migliore per approcciarsi a questa realtà è venire a farsi una passeggiata e mangiarsi un gelato fatto in casa e mantecato al momento di servirlo, credetemi è ottimo, sicuramente questo può dare un ottimo impatto al visitatore come qualità dell’esperienza. Poi può guardarsi intorno e vedere se c’è qualche ristorante che attira la sua attenzione. Consiglio a chiunque di vivere Portopiccolo con semplicità, dando la possibilità di lasciarsi rapire dalla bellezza di questa baia.
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INTERVISTA A MARCO MILOCCO
Una vista di Portopiccolo dall’alto.
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SPECIALE PORTOPICCOLO
L’arte della cucina nella baia di Portopiccolo Con l’executive chef di Portopiccolo ci avventuriamo in una lunga chiacchierata per scoprire cosa rende uniche le pietanze che si possono gustare in questa location. Il suo nome è Leonardo Marongiu e la sua missione è creare dei piatti per farci sognare.
Di MATTEO MACUGLIA
Decidiamo di fare una gita a Portopiccolo, quali sono i locali che non ci si può far sfuggire? Fondamentalmente direi tutti ma capisco che non si possa pensare di mangiare tutto il giorno… A parte gli scherzi, con una bella giornata di sole consiglierei senz’altro di fare un salto al Maxi’s per godersi la vista della baia e del mare che si apre di fronte al ristorante. Altrimenti se ci si vuole godere la spiaggia senza perdere tempo si può mangiare un panino al volo al Babar e poi con più calma nel pomeriggio gustarsi un gelato passeggiando per le strade di Portopiccolo. Se invece fossi un residente quali locali diventeranno la mia seconda casa? Penso che sarebbe il Bris. Essendo un po’ meno commerciale segue in maniera più marcata alcune tendenze date dalla stagione con delle sperimentazioni anche interessanti. Il menù è molto legato al territorio GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA A LEONARDO MARONGIU
ed ha una base che definirei mediterraneo-mittleuropea, il tutto rivisto in maniera stravagante e provocatoria. Tantissimi piatti sono semplici ma rielaborati, con una grande attenzione al dettaglio. Ci facciamo da soli il pane (normale, a base di alghe, di semola e di segale a lievitazione naturale) ed il burro, il tutto unito alla mia idea di cucina che prevede l’acquisto di materie prime che vanno poi lavorate al momento, quindi nulla di già preparato. La cosa che molti apprezzano della cucina del Bris è il fatto che quanto ordini un piatto hai un’immagine precostituita di quello che hai appena ordinato; quando poi arriva te lo trovi completamente scomposto, anche se sei ancora in grado di identificarlo. La presentazione quindi è tenuta in grandissima considerazione. Per quanto riguarda il Falisia Luxury Collection Resort & Spa, l’hotel 5 stelle lusso che ha aperto pochissimi giorni fa, che servizio avete pensato? Visto che parliamo del mondo Starwood, simbolo di lusso in tutto il mondo, la classe internazionale e la cucina regionale ed italiana saranno senz’altro il focus del ristorante che troveremo all’interno. Si potrà trovare una cucina di stampo internazionale rivista sotto un punto di vista prettamente italico, resa anche più comprensibile per un pubblico che proviene da esperienze sensoriali in quanto a cucina anche molto diversificate. Come nella gran parte dei locali qui a Portopiccolo la stagionalità degli ingredienti sarà d’obbligo, con una particolare attenzione al territorio che ci circonda. La particolarità del ristorante del Falisia, a Luxury Collection Resort & Spa Portopiccolo sarà senz’altro la sua doppia declinazione legata alla nascente SPA. Il nome del locale sarà infatti “Cliff and Slim”: la prima parte del ristorante, quella dal nome Cliff tratterà la cucina internazionale
Uno dei punti clou per il ristoro durante la stagione estiva sarà senz’altro il Beach Club, che tipo di servizio avete predisposto per la zona più esclusiva dell’alto Adriatico? Al Beach Club c’è senz’altro un’ampissima fetta legata al settore beverage ma l’ora dell’aperitivo sarà sempre accompagnata da dei piatti rivisitati del Maxi’s. La particolarità sta nel servizio che segna una continuità tra il ristorante e lo stabilimento balneare. C’è quindi la possibilità di ordinare direttamente dal proprio lettino, mentre si prende il sole, i piatti del ristorante in versione “beach”, diciamo più snella. Il contenuto dei piatti seguirà la linea del Maxi’s ristorante e del Maxi’s Beach Club ma la particolarità risiederà nel modo in cui sarà servito: direttamente sullo sdraio ed all’interno di cestini in stile pic-nic. In aggiunta a questo il Beach Club offre tutti i giorni ai suoi ospiti un delizioso omaggio pomeridiano coccolandoli con una macedonia fresca o un gustoso gelato.
Ci parli della sua storia professionale nel mondo della cucina… La mia storia personale comincia con la strada della ristorazione intrapresa a 15 anni, con il primo lavoro in Svizzera. Da quel momento in poi ho sempre cercato di mantenere un livello dignitoso in cucina, seguendo una via che non guardasse solo al ritorno economico ma anche alla qualità effettivamente erogata ai miei clienti, cosa non sempre semplice in Italia. Nell’ambiente dell’alta cucina diventa a volte difficile esprimere il proprio tocco nei piatti, anche per uno come me che ha lavorato in questo settore per 25 anni. La persona che più ha influenzato il mio modo di vedere le cose in cucina è stato Gualtiero Marchesi. Prima di lavorarci assieme non riuscivo bene a realizzare qual è stato effettivamente il suo contributo nella realtà gastronomica italiana. È grazie a lui che si è stato possibile de-regionalizzare la cucina italiana, dando una filosofia ai piatti, dandogli la possibilità di trasmettere una cultura del cibo oltre al fattore prettamente nutritivo. Grazie a quella che forse era una mia predisposizione in tal senso, ovvero nel pensare il piatto oltre che realizzarlo, al mio arrivo alla scuola di Gualtiero Marchesi, Alma, mi è stato chiesto dopo quattro mesi di diventare chef executive, nonostante non avessimo mai lavorato assieme. In seguito ho lavorato con diversi chef piuttosto conosciuti ma non credo che sia questo il modo giusto per presentarmi. Ad ogni modo ho lavorato per un periodo in Svizzera nella realtà del cinque stelle lusso, poi a 16 anni mi sono spostato a Milano e questo è stato il periodo in cui mi sono fatto le ossa. Ho aperto un ristorante tutto mio a Parma che ho tenuto per 10 anni approdando infine in Alma, dove sono stato chef executive per 6 anni. Nel frattempo ho girato un po’ il mondo per scoprire le altre cucine seguendo la mia passione per la gastronomia.
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della quale parlavo sopra, mentre la parte Slim sarà un ristorante di tipo dietetico e rigenerativo, una cura per la mente ed il corpo attraverso il cibo in continuità con i servizi della SPA per la ricerca di un benessere a 360°. Pensiamo infatti che i trattamenti che avverranno all’interno della Medical SPA sotto forma di percorsi estetico-medicali non possano prescindere dal benessere alimentare. C’è poi un discorso a parte che abbiamo pensato per quanto riguarda la colazione in camera con un menù apposito che abbiamo finito di approntare di recente. Presso l’hotel cinque stelle lusso il primo pasto della giornata sarà davvero sostanzioso, dalla frutta fino ai dolci fatti al momento, il tutto corredato da delle acque profumate che aiutino il cliente a predisporsi verso la colazione dopo il risveglio.
Comprare casa a Portopiccolo, tanti motivi per farlo Abbiamo incontrato Flavio Bertelle, responsabile del settore Real Estate per il progetto Portopiccolo. Con lui ci avventureremo in un breve viaggio alla scoperta delle particolarità costruttive ed infrastrutturali che rendono le case dell’ex cava di Sistiana così interessanti per tutti gli amanti del mare e della bellezza.
Di MATTEO MACUGLIA
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Ci parli della particolarissima tecnica che avete usato per fa nascere Portopiccolo dalla ex cava di Sistiana. È un intervento che parte da una riqualificazione ambientale a 360°. Questo sito era una cava dismessa sessanta anni fa e tale è rimasta fino alla nascita di Portopiccolo. Ci sono voluti tre anni per costruire questa realtà e dotarla di tutte le strutture che avevamo pensato. L’intervento è stato realizzato guardando alla tutela dell’ambiente prima che allo sviluppo immobiliare in senso stretto e questo ci ha permesso di costruire qualcosa di veramente esclusivo, con impianti di climatizzazione e riscaldamento che sfruttano l’energia geotermica, 114
INTERVISTA A FLAVIO BERTELLE
dunque ad emissioni zero. Tutto questo è inserito nel verde, con uno sforzo in questo senso che ci ha visti piantare più di 13.000 piante prima dell’inizio delle attività di costruzione. Dovunque sia stato possibile abbiamo posizionato dei tetti a verde, con una tecnica che aumenta il grado di isolamento delle abitazioni e contribuisce a migliorare l’ambiente, anche dal punto di vista visivo. Particolarissimi sono pure il sistema di circolazione delle auto e di posteggio, i quali sono prevalentemente nascosti alla vista con più piani di parcheggi interrati, anche questi provvisti di impianti per canalizzare i gas di scarico, con un insieme, quindi, che ha un bassissimo impatto atmosferico ed acustico. Le abitazioni sono costruite ricercando i massimi standard di efficienza energetica, che garantiscono la certificazione energetica in classe A o A+, con i migliori isolamenti termico ed acustico. Chi compra casa a Portopiccolo che tipo di alloggio deve aspettarsi? Quando il cliente compra a Portopiccolo fa un acquisto che sicuramente vede il cuore giocare un ruolo essenziale. Quando si accantona il lato emozionale e si va ad analizzare l’aspetto tecnico delle abitazioni, il posizionamento geografico delle stesse ed il contesto generale in cui Portopiccolo è inserito permette di mettere in pace cuore e mente! Per quanto riguarda i servizi correlati invece? Oltre al sistema di parcheggi, totalmente nascosto ma ugualmente comodo per l’utenza, posso citare la possibilità, in poco più di un minuto, di uscire da casa propria e trovarsi in mezzo alla via dei negozi e degli esercizi commerciali, per andare a fare shopping o per una semplice scappatella fuori casa alla ricerca del pane per il pranzo. Ristoranti, negozi, alimentari, gelateria, bar e qualsiasi servizio presente a NUMERO 03/04
Portopiccolo è raggiungibile in poco più di un minuto grazie al sistema di ascensori che abbiamo predisposto all’interno del borgo. Non ci sono barriere architettoniche e ogni luogo è perfettamente accessibile a piedi. Gli stranieri che vogliono comprare casa a Portopiccolo li convincete puntando al cuore oppure alla testa? La clientela straniera va suddivisa a seconda del paese di provenienza. Abbiamo una prima clientela, che potremmo definire “di casa”, che è quella austriaca; questa vede Trieste e le baie nei dintorni come i propri porti e le proprie spiagge, sono quindi perfettamente abituati ad interfacciarsi con il nostro territorio, che non ha perciò bisogno di essere presentato o esaltato nelle sue virtù. Quando si tratta con la clientela straniera “fuori porta” invece, questa si trova davanti ad una perla inserita in un’oasi naturale che non ha eguali in Italia e soprattutto di nuova costruzione creata utilizzando le tecniche più avanzate. Ad arricchire un’offerta già esclusiva vi è uno stabilimento balneare, definito agli addetti ai lavori uno dei più belli d’Italia ed un Hotel che è stato inserito nella Luxury Collection by Starwood. Tra le abitazioni vendute ad oggi il 30% è stato acquistato da clientela straniera Credo perciò che per convincere lo straniero sia necessario affrontare tutti i passaggi dallo stomaco alla mente, cosa che ci ha visto vincenti grazie all’impegno, alla dedizione ed alla trasparenza che ci hanno contraddistinti. Si dice soddisfatto del livello d’integrazione tra il settore del Real Estate, la sua area di responsabilità, ed il resto dei servizi offerti da Portopiccolo? Assolutamente sì. Nonostante non si intraveda, è stato svolto un lavoro enorme per costruire un rapporto di fiducia ed intimità tra la rete dei negozianti ed i possibili compratori. 115
SPECIALE PORTOPICCOLO
Volevamo che i residenti recandosi al panificio o all’alimentari, si sentissero di fare un gesto naturale, che li facesse sentire come a casa propria, quasi come a trovarsi ad acquistare nel proprio panificio. Oltre ai “nostri” abbiamo pensato anche a un’integrazione con il territorio nell’ipotesi che qualcuno potesse preferire il nostro alimentari, il nostro panificio o la gelateria a quelli che avrebbe sotto casa. Mettere insieme tutte queste esigenze è stato difficile ma possiamo dire che, dopo un grande lavoro di progettazione e di fine tuning dei servizi messi a disposizione, siamo sulla strada giusta. Come sarà Portopiccolo d’inverno? Per quanto riguarda il mio punto di vista una località di mare come Portopiccolo è particolarmente godibile d’inverno, forse anche più che d’estate. Una location di questo tipo d’estate è bella per natura, quindi lo sforzo da sostenere per farla funzionare è minore e forse anche più semplice da organizzare. Per quanto riguarda la stagione invernale invece, ritengo che per una questione di posizione all’interno del territorio (con la vicinanza ad una
città culturalmente e socialmente dinamica come Trieste) e delle sue caratteristiche climatiche, nonché per la dinamicità del territorio FVG, si possano ottenere grandissimi risultati in termini di relax, condivisione e rapporti sociali in particolare in quel periodo dell’anno in cui la frequentazione dei turisti risulti essere meno intensa. Dall’inverno a venire tutte queste possibilità verranno rese ancora più concrete dall’apertura della SPA nell’ottica di destagionalizzare ulteriormente la nostra utenza tipica. Non vanno dimenticate infine le piste da sci, bellissime in regione, a soli quaranta minuti di automobile e la vicinanza di Venezia e Trieste che pongono quindi Portopiccolo al centro di un’area dal forte valore culturale oltre che turistico. Il territorio friulano poi ha tantissime potenzialità che sono ancora oggi inespresse e che forse anche grazie al nostro impegno potranno essere sviluppate nel corso degli anni. Qual è l’indotto che il progetto di Portopiccolo ha portato al territorio della regione? Il dato più sbalorditivo riguarda senz’altro il numero di posti di
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lavoro fissi che il nostro progetto ha creato in un momento di forte depressione economica, che nel territorio friulano ha portato alla scomparsa di diverse realtà produttive di una certa rilevanza. Portopiccolo ha portato in dote al territorio tra i 300 ed i 350 nuovi posti di lavoro fissi, più quelli che possono rendersi necessari durante la stagione estiva. Vorrei poi sottolineare poi che il nostro intervento oltre a cambiare le carte geografiche, sanando una ferita paesaggistica che ormai da sessant’anni sfregiava la costa giuliana, ha modificato anche quelle nautiche, donando al mare dello spazio che prima non gli apparteneva. Inoltre abbiamo dato la possibilità al Friuli Venezia Giulia di intercettare tutta una fetta di utenza che solitamente attraversava questo territorio per dirigersi in Slovenia oppure in Croazia, con un volano per l’economia che avrà ricadute positive su diversi fronti. Non dimentichiamo che a caratterizzare l’offerta di Portopiccolo sono stati creati uno stabilimento balneare di eleganza sopraffina, una Spa che caratterizzerà l’intera area e l’unico Hotel 5*L della Regione.
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INTERVISTA A SILVIA PASUT
Esportare Portopiccolo all’estero, tra cuore e marketing Di MATTEO MACUGLIA
Abbiamo strappato un’intervista a Silvia Pasut, responsabile dell’International Sales di Portopiccolo. Con lei capiremo come si affronta una sfida come quella di proporre una nuova realtà turistica ed immobiliare di altissimo livello all’interno di un panorama come quello italiano che a prima vista potrebbe sembrare già saturo di proposte. Leggere per credere. NUMERO 03/04
Cosa cerca un potenziale acquirente estero in una casa di Portopiccolo? Portopiccolo risponde perfettamente ad un idea di bellezza che all’estero viene facilmente associata all’immagine del nostro paese. Questo concetto risulta ancora più enfatizzato per i popoli mittleuropei, che il sole ed una certa qualità della vita sono impossibilitati ad averli per questioni geografiche, logistiche o per fattori legati al lifestile 117
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tipicamente italiano. È soprattutto questo che un acquirente internazionale cerca in Italia ed è esattamente il messaggio che noi stiamo cercando di trasmettere quando parliamo di Portopiccolo. Se in altri luoghi, come Venezia o Roma, l’informazione arriva senza bisogno di essere promossa attivamente, anche grazie alla storia plurisecolare di queste città, per quanto riguarda la realtà di Portopiccolo, i concetti devono essere comunicati. Tutta l’attività di sales va quindi di pari passo ad uno sforzo di marketing volto ad evidenziare l’attrattività di questa location, la quale ha di certo i requisiti per divenire un gate sull’Adriatico, grazie allo sbocco sul mare ed alla presenza di una marina, ed in cui ciò che si acquista è ben più di un’abitazione: si acquista un modo di vivere, si acquistano dei servizi che, in particolare per gli stranieri, facilitano la possibilità di conoscere il resto d’Italia vivendo in un luogo che preserva un contatto unico con la natura. Sulla base di questi elementi strutturiamo la nostra campagna pubblicitaria all’estero che si concentra per ora su alcuni mercati salienti come la Germania e l’Austria, per via della loro vicinanza e la possibilità di collegamenti facili, offerti dall’aeroporto di Monaco o Lubiana su Trieste. Guardiamo con molta attenzione anche all’Est Europa ed all’emergere di nuove classi facoltose alla ricerca di un riscatto sociale anche attraverso l’acquisto di un immobile prestigioso nel Bel Paese. Partendo dagli ambiti dove la connessione è più facile, ci siamo addentrati poi in mercati più difficili come ad esempio l’Inghilterra e la Svizzera per via del loro potere d’acquisto molto forte. Il target di riferimento si ricollega spesso anche al mondo della nautica, fatto che ci ha portato ad esempio a voler essere presenti su riviste di
settore come “Boat International”, nel tentativo di spiegare Portopiccolo non solo nella sua componente immobiliare ma anche sotto il fronte del Marina e dello Yacht Club. Lavoriamo quindi anche su canali non puramente immobiliari per esaltare tutti quei prodotti che fanno da contorno all’offerta di Portopiccolo e che finiscono per dare un assist decisivo alla componente legata all’housing. Portopiccolo vista d’inverno resta attrattiva all’estero? Partirei dalla considerazione del fatto che un inverno italiano è in ogni caso più felice del suo equivalente tedesco. In Germania si ha una media di 45 giorni di sole annui. E tale dato diminuisce arrivando in Olanda o Danimarca. Partendo da questo dato è immediatamente comprensibile come anche i mesi che in Italia fanno da contorno all’alta stagione, penso al periodo da marzo a maggio e poi da settembre ad ottobre, restano comunque molto interessanti, in particolare per il Nord Europa. L’Italia quindi all’estero presenta una stagionalità molto più allargata di quella che si percepisce dall’interno. Ad ogni modo stiamo organizzando dei servizi che possano de-stagionalizzare la location come la SPA e gli eventi di natura sportiva come quelli legati al mondo della vela, dello sport o, ancora, del food and beverage. Per questi motivi abbiamo dotato i nostri ristoranti di chef di prim’ordine che possano garantire un servizio di top gamma tutto l’anno.
tema di turismo stanno favorendo in questi anni una progressiva ascesa della realtà FVG a livello nazionale. Si sta assistendo in questo ultimo periodo in un serio sforzo per potenziare la rete infrastrutturale della regione per migliorare i collegamenti con Venezia prima e con il resto d’Italia poi. Ci si sta muovendo verso una logica di sistema e di gioco di squadra sulla quale contiamo molto. Portopiccolo d’altronde si pone come l’unica location di livello che la regione può offrire e diventa così nell’interesse della regione valorizzarla. Quanto funziona la narrazione della Mittleuropa all’estero? Il contesto mitteleuropeo funziona molto in questa zona d’Italia visti i natali asburgici di Trieste che, oltretutto, la baia di Sistiana esalta con lo splendido albergo austriaco e per le radici culturali e multietniche che la caratterizzano. I popoli delle zone limitrofe sono quindi culturalmente e storicamente molto attratti da questa zona d’Italia. Portopiccolo può offrire da parte sua la tutela di tutti i beni sotto la sua area d’influenza che provengono da un passato ben definito e che abbiamo tutta l’intenzione di conservare e tramandare.
Il territorio friulano si è rivelato in grado di fornire un assist a Portopiccolo in termini di offerta? Sicuramente si deve migliorare sempre di più. Rispetto a molte altre regioni ha avuto qualche difficoltà in passato a mettere a sistema le molte risorse disponibili ma l’avvento di nuove figure in posizioni chiave in
I vostri clienti li colpite al cuore oppure alla testa? Sicuramente l’aspetto emozionale è fondamentale nella vendita di prodotti di livello come quello che offriamo noi. Si deve per questo uscire dalle logiche euro su metro quadro, cercando di far considerare al cliente il prodotto nella sua interezza e non solo nell’ambito commerciale. Per superare la rigidità dovute alla contropartita economica che si richiede per l’acquisto di un immobile a Portopiccolo puntiamo senz’altro all’aspetto esperienziale ed emozionale, quindi direi al cuore.
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SPECIALE PORTOPICCOLO
Un grande Portopiccolo epilogo Un sole estraneo inizia a inondare di luce bianca la stanza, gettando sulle pareti ombre allungate e calde. Prende forma un tenue brusio lontano. La mente cerca di rimettere in ordine le suggestioni della notte e i nuovi respiri del giorno, mentre un’aria salmastra riempie i polmoni. Una musica costante e leggera, come di sartie ciondolanti, di barche a vela, prova a cantare la vita di un luogo. C’era stata una piccola piazza, con le sue botteghe, dei portici che portavano a una spiaggia. Avevamo fatto una nuotata, visto case confondersi con le rocce, una tavola imbandita, un uomo con una camicia di lino, un aperitivo in riva al mare, sentito i sapori di questa terra. Un suono annunciare una partenza, un arrivo, una novità, una sveglia in un posto che non riconosciamo, nel dolce intrico di pensieri che giocano a rincorrersi e a confondersi con una realtà non ancora in grado di perdersi nei suoi confini, nei contorni in cui l’uomo cerca di comprenderla. «Non avrà forse l’universo in cui ci
dissolviamo, sapore di noi?» Bussano ancora alla porta, questa volta lo sentiamo. Tutta la realtà si concentra nel legno, in quei tre colpi. È il servizio in camera. Un meraviglioso vassoio di biscotti e fiori, di caffè e frutta porta nella stanza come il canto di una sirena le sensazioni di un sogno ad occhi aperti, un sogno che ritorna. Ci alziamo per aprire le tende e non avere più dubbi. Lo spettacolo del borgo ci appare di nuovo, in tutto il suo vibrante appartenere al tempo. Non è stato un sogno, allora. Portopiccolo ci dà il buongiorno. «Il suo sorgere è esistere».
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L’impero dove non tramonta mai il sole Di REDAZIONE
Prima che l’idea visionaria dell’imam Karim Aga Khan IV, il principe-imprenditore, trasformasse quest’angolo di Costa Smeralda in quello che oggi conosciamo, il paesaggio di questo tratto di Sardegna era il tipico paesaggio brullo e inospitale della Gallura più remota, una terra rocciosa, arsa dal sole e levigata dal vento e dal mare. Innamoratosi di questi luoghi, il principe prese un architetto italiano e uno scenografo francese e disse loro cosa aveva in mente. Il resto è storia. A partire dagli anni Sessanta, il gigantesco cantiere di Porto Cervo iniziò a scolpire il granito sardo per dare forma ad un’architettura che avrebbe fatto scuola e che deve il suo successo alla precisa volontà di richiamarsi ai gusti locali, ai tipi galluresi, usando materiali galluresi, per inserirsi senza strappi nel paesaggio costiero e cercando con esso un’intesa vincente e sostenibile. Vennero poi la costituzione dello Yacht Club e, negli anni Ottanta, l’ampliamento del porto. Grazie a quella genialità e a quella lungimiranza, che, assieme ad altre imprese, valsero all’imam i titoli di cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana e, più tardi, quello di Cavaliere del lavoro (e fu il primo mussulmano nella storia italiana a ricevere tali onorificenze), Porto Cervo diventò una delle mete più esclusive del Mediterraneo e punto di riferimento assoluto per il turismo di lusso di tutto il mondo.
Tuttavia è innegabile che, a dare nuovo smalto alla vita notturna della Costa Smeralda di fine millennio, sia stata l’apertura del Billionaire di Flavio Briatore, perché il suo club esclusivo diventò (ed è tuttora) il maggior punto di ritrovo del jet set internazionale. Oggi come allora, infatti, d’estate, la vita della capitale della Costa Smeralda si riempie di turisti, feste, avvenimenti sportivi ed enogastronomici. Così, può capitare di ritrovarsi a fare shopping per le viuzze che dalla celebre Piazzetta delle Chiacchiere portano al Sottopiazza assieme a vip internazionali e personaggi dello spettacolo, o di far parte di serate con divi del cinema e cantanti e dj da tutto il mondo. Ma quel paesaggio di mirti e rocce non è un solo un lontano ricordo. Porto Cervo non ha offuscato le bellezze paesaggistiche della zona e, anzi, deve il suo successo anche alla vicinanza con spiagge uniche al mondo, come quella di Portisco, di Liscia Ruia (conosciuta dalla movida smeraldina come Long Beach) o quella di Petra Manna. Oppure, più vicine alla Marina, le spiagge del piccolo e grande Pevero o di Cala Granu.E il bello di questi luoghi è che spesso si possono scoprire piccole baie e calette solitarie e sconosciute, dove stare lontani dalla vita più festaiola. È questo doppio spirito, questa doppia faccia di Porto Cervo a renderlo così unico, da offrire allo stesso tempo mondanità e riservatezza, divertimento e relax, nell’esclusività di una vacanza che, in ogni modo passerete, resterà per sempre indimenticabile.
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LUXURY EXPERIENCE
Il Polo, tra lusso, alta moda e location esclusive Alvise Zuliani ci ha accompagnato in un breve viaggio per raccontarci il magico mondo del Polo, visto dagli occhi di una persona che spende tantissime energie per organizzare degli eventi che sappiano coniugare la grinta tipica degli sport con la classica eleganza di questa disciplina.
Di MATTEO MACUGLIA
Lei e sua sorella siete rispettivamente organizzatore di grandi eventi nel mondo del Polo ed amante dell’ippica. Ci racconti com’è nata la vostra passione per questo sport. Purtroppo non ho mai imparato a montare a cavallo. Il circuito Polo che organizziamo nasce dalla passione di mia sorella Erica per i cavalli. Lei ha praticato per anni equitazione, tanto che mio padre ha iniziato a metà degli anni ’90 a collaborare con la F.I.S.E (Federazione Italiana Sport Equestri). Da lì, nel 2001 ha ripreso in mano il Torneo di Polo di Cortina che si svolgeva sin dal 1989 ed era stato interrotto. Dopo i primi anni abbiamo deciso di “ampliare gli orizzonti” e creare un vero e proprio circuito che ha toccato diverse località tra cui la Costa Smeralda, Forte dei Marmi, Roma, Milano e ovviamente Cortina. Il mondo equestre in genere è sempre affiancato al mondo del lusso, una realtà in qualche modo
elitaria che forse tiene lontana una fetta di utenza che vi trovate quindi a dover convincere con una forte azione di marketing. Quanto c’è di vero in questa equazione e quali sono invece dei miti da sfatare? Se si parla di mondo equestre in generale questo non corrisponde alla realtà delle cose in quanto per esempio la disciplina del salto ostacoli è molto sentita in Italia sia come numero di partecipanti che come indotto, il quale produce un moltiplicatore 3 su circa 2000 circoli ippici aggregati alla federazione ognuno dei quali vanta un numero di soci diverso.Per quanto concerne il Polo è una disciplina che effettivamente non ha ancora raggiunto in Italia quegli apici di audience di cui gode in altri paesi (Argentina, UK, ecc.) e questo è in gran parte dovuto al fatto che gli impianti di Polo necessitano di aree molto estese e che per il momento nel nostro Paese non si sono ancora sufficientemente sviluppate. Ciò non di meno, dal 2002 si nota
un notevole sviluppo derivante dall’organizzazione del nostro Circuito e di altri tornei individuali nel nostro Paese. È comunque vero che il Polo è una disciplina destinata ad un target socio-economico elevato che è quello che gli sponsor si aspettano venga coinvolto e pertanto non c’è una necessità specifica di allargare questa platea, anche se è auspicabile che ciò avvenga.
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In Italia il Polo si lega tradizionalmente alle perle del turismo nazionale come Cortina d’Ampezzo, Porto Cervo, Roma e da qualche tempo anche Milano. Quali di queste preferisce e perché? Roma e Milano in quanto grandi città dispongono di impianti adeguati a sviluppare questo sport; Cortina d’Ampezzo e Porto Cervo pur costituendo una sfida sotto diversi punti di vista organizzativi, suscitano un fascino derivante sia dall’emozione di assistere ad una partita giocata sulla neve, nel
primo caso, che la suggestione dei panorami e dell’atmosfera della Costa Smeralda a Porto Cervo. Per quanto riguarda l’estero invece? C’è qualche luogo dove ha gareggiato o lavorato che le è rimasto particolarmente impresso? Nel tempo abbiamo organizzato un Torneo a Saint Tropez, località altrettanto affascinante della Costa Smeralda, che dispone di due Polo Club molto esclusivi. I cavalli sono animali dall’eleganza difficilmente raggiungibile ma rischiano di essere anche molto pericolosi in uno sport come il Polo. Come ha vissuto questa dicotomia nella sua esperienza personale e nel suo rapporto con l’animale? Non è l’animale che è pericoloso ma, come in tutto, è l’uomo che lo gestisce. Il Polo è un insieme variegato di tendenze che racchiude al suo
interno anche la moda ed il lusso in genere. Ci spieghi come se e come vive questo aspetto… Lo vivo attivamente in quanto essendo organizzatore di tornei di Polo, gli sponsor preferenziali di questo sport vanno ricercati nel contesto del mondo del lusso a 360 gradi. In Italia generalmente si parla poco di tutti gli sport che non siano il calcio. Come riuscite a emergere ugualmente nonostante il gigante nazionale? All’estero è più semplice farsi notare? Nel nostro circuito attraverso ottime partnership con le testate dell’etere e della carta stampata abbiamo ricavato la giusta visibilità necessaria. All’estero, contrariamente all’Italia che è “monomaniaca” nel calcio, ci sono nazioni come gli stati anglosassoni dove il Polo non è ritenuto una disciplina inferiore rispetto ad altre.
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Ci racconti come si è avvicinato a questo sport e perché ne ha fatto la sua passione prima ed il suo lavoro oggi. Da un punto di vista lavorativo alla fine degli anni ’90 è emersa una potenzialità notevole di sviluppo di una disciplina quale il Polo che potesse supplire alle necessità degli sponsor del settore lusso in un momento in cui il golf si era eccessivamente generalizzato e pertanto non garantiva più alle aziende una visibilità esclusiva. Un consiglio per chi non conosce il Polo ma vuole avvicinarsi a questo mondo… Gli consiglierei vivamente di venire a vedere uno dei nostri tornei, i quali ormai hanno raggiunto davvero tantissime location di grande interesse turistico oltre che sportivo.
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LUXURY EXPERIENCE
Villaverde resort: tra salute, natura e movimento Di FRANCESCO CHERT
Ci sono persone che, vuoi grazie alla propria esperienza, vuoi per un capacità innata, vedono in certi momenti, in certi luoghi, ciò che le altre persone non vedono. Colgono opportunità dove gli altri vedono solo difficoltà, intuiscono un potenziale dove sembra non ci sia nulla di buono, sognano quando tutti gli altri dormono. Eppure certe volte le cose sono lì, sotto gli occhi di chi le sa vedere, in attesa che qualcuno si accorga del loro valore, che le apprezzi, che le rimetta al centro del disegno ambizioso che meriterebbero. Occorre coraggio, certo. Occorre rimettere in discussione i rapporti di spazio e di forza. Occorre sfidare la legge di gravità, come il proverbiale calabrone che vola, nonostante per la fisica non possa. Ma soprattutto occorre crederci perché la visione diventi realtà e si riveli più vera delle certezze prese passivamente per buone per osmosi e quieto vivere. Un po’ come il Friuli Venezia Giulia. Considerato da sempre, da chi stenta a collocare la Regione sulla cartina ma anche dalla stessa gente del luogo, periferico. Vuoi per un’antica attitudine alla riservatezza, vuoi per il mito del “fare da soli”, orgoglio sacrosanto e allo stesso tempo limite prospettico dell’approccio friulano ai problemi e alle difficoltà, vuoi per la convinzione di essere ai confini di un centro che non è più centro. Ma inconsciamente in attesa di qualcuno che sappia ridisegnare centro e periferia e che restituisca alla Regione il ruolo di punta di compasso dell’unico orizzonte all’interno del quale le proporzioni possono avere senso oggi: l’Europa.
Ed è quello che ha saputo fare Gabriele Lualdi, imprenditore di successo che ha avuto il coraggio di mettersi in discussione e di cogliere la sfida di un’offerta turistica, sportiva e sanitaria diversa e la capacità di uscire dagli schemi mentali che stanno alla base del marketing e dell’idea stessa di Friuli Venezia Giulia. E così è nato il Villaverde Resort di Fagagna, a pochi chilometri da Udine, in una delle più belle zone del Friuli collinare. «L’idea è semplice - afferma Luadi - e nasce dalla consapevolezza della mancanza di una struttura che unisca il concetto di resort, di centro wellness e uno dei più bei campi da golf d’Europa. Un luogo nel quale trovare servizi di qualità e personale medico altamente qualificato e nel quale il benessere psicofisico della persona è al centro di tutto». Benessere psicofisico, ci tiene a sottolineare Lualdi. «La salute del corpo non può prescindere dalla salute della mente. E in questo senso il verde e il silenzio del luogo creano la cornice perfetta per ossigenarsi dalla vita quotidiana fatta di stress e preoccupazioni. Inoltre l’assistenza sanitaria per i soci, e messa a disposizione per i nostri ospiti business, mira alla prevenzione costante. I nostri medici infatti costruiscono un archivio sulla base del quale garantiscono alla persona un monitoraggio costante sullo stato di salute con consigli su analisi da fare, visite e controlli. Prevenzione è la nostra parola d’ordine: se ci si deve curare significa che si è arrivati tardi».
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VILLAVERDE RESORT: TRA SALUTE, NATURA E MOVIMENTO
Ma non solo corpo, si diceva. «La mente richiede la stessa attenzione. Una delle malattie più diffuse oggi è la depressione. Ci sono molti motivi che la determinano. Alcuni sono seri, altri possono sembrare banali ma non vanno giudicati e non posso essere sottovalutati».
Resort, quindi, con attività sportive, «tra cui percorso podistici, tennis, gite in bicicletta, barca a vela o a motore nel golfo di Trieste, sale per conferenze, ristoranti e lounge bar, sale per massaggi, saune, la piscina, la palestra e tanto, tanto verde».
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LUXURY EXPERIENCE
“Il movimento è fondamentale. Sia come sport e come attività fisica che come stimolo per la curiosità e per la mente. E da noi il movimento e le occasioni non mancano. In fondo ci troviamo nel posto più bello del mondo”. E qui entrano in scena il golf, la natura, il silenzio che sono il contorno perfetto per ritrovare un equilibrio interiore che la vita quotidiana tende a usurare. «Certo. Il golf è lo sport ideale per staccare il cervello dalle preoccupazioni, soprattutto il un contesto come questo», e lo sguardo non può non andare alla grande finestra che guarda a nord, sulle colline della strada che da Fagagna porta a San Daniele, «una delle più belle del Friuli». Ma guai a considerare questo sport un’attività d’élite. «Esistono golf club esclusivi, in cui i soci pagano cifre altissime per stare in mezzo ai propri simili. Noi abbiamo voluto smentire questa convinzione. Da noi arriva il professionista come il principiante che ha voglia di divertirsi e che vuole vivere una giornata diversa». Ma non solo tranquillità e relax, perché l’altra parola d’ordine è movimento. «Il movimento è fondamentale. Sia come sport e come attività fisica che come stimolo per la curiosità e per la mente. E da noi il movimento e le occasioni non mancano. In fondo ci troviamo nel posto più bello del mondo. Ha capito bene. Noi in Friuli Venezia Giulia siamo nel posto più bello del mondo e non ce ne rendiamo conto. Le spiego. Io ho viaggiato molto nella mia vita, conosco il mondo. E le posso garantire che nessun luogo ha un concentrato naturalistico e storico, in così poco spazio, come la nostra Regione. Ci pensi: in un’ora di macchina o venti minuti di aereo o elicottero, che vengono messi a disposizione da noi, possiamo atterrare a Venezia o sulle più belle montagne del mondo, le Dolomiti; abbiamo una storia che parte dal 90 avanti Cristo ad Aquileia, passa per il periodo longobardo di Cividale del Friuli e per la testimonianza bizantina della splendida Grado,
affacciata su una delle più belle lagune dell’adriatico, fino al gioiello di Trieste che getta un ponte dal periodo romano fino all’Impero austro-ungarico, di cui era il porto più grande e attivo e uno dei centri principali. Non le basta? Siamo all’incrocio tra tre nazioni e tre culture: quella italiana, quella slovena e quella austriaca che con le loro tradizioni e la loro gastronomia offrono uno spettro vastissimo di sapori e suggestioni. La posso portare a visitare molti castelli magnificamente conservati dall’anno 1000 in poi. Le posso mostrare la splendida Sauris, enclave tedesca rimasta culturalmente intatta sulle Alpi Giulie e farle assaggiare i prodotti tipici di fronte a un panorama mozzafiato. La posso portare a Bled, in Slovenia, e farla giocare nel campo da golf voluto dal re di Jugoslavia. La posso far volare a Lubiana, gioiello di architettura austriaca o sul Collio ad assaggiare tra i migliori vini al mondo». È vero. Ed è anche vero che una frase del genere, come quella secondo la quale in Friuli ci troviamo «nel posto più bello del mondo» richiede coraggio, visione e una gestione intelligente della sottile linea che corre tra provocazione e stimolo positivo, tra paradosso e realtà dei fatti. E qui, a pochi chilometri da Udine, in un territorio improvvisamente diventato il centro una nuova mappa, grazie allo spirito visionario di chi ha saputo cambiare prospettiva e ridefinire la scala valoriale del turismo di massa, non possiamo che augurarci che nasca una nuova generazione di imprenditori sull’esempio di chi l’imprenditore lo fa da una vita, con impegno e passione, come Gabriele Lualdi, e che lo spirito della Mitteleuropa torni a rappresentare il cuore di un nuovo slancio europeo.
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Da Griffe si vende intelligenza creativa
Di REDAZIONE
«L’obiettivo di un concept store come Griffe» ha scritto recentemente la Confcommercio di Trieste «è quello di allestire un’esperienza di esplorazione e di scoperta da parte del cliente attraverso una pluralità di suggestioni, provenienti sia dalla varietà di prodotti esposti, sia all’architettura stessa dell’ambiente». Ecco il perché del tavolo da biliardo, in bella vista, in mezzo alla sala. Ecco il perché degli articoli di coltelleria italiana, delle vetrerie di Empoli, delle ceramiche di artisti inglesi o dei prodotti dell’artigianato italiano insieme a maglieria, cravatte e calzature. Ecco come dar vita a un negozio diverso, capace di affascinare clienti sempre più esigenti, perché, sorride Rosanna con quell’eleganza che, come diceva Armani, non si nota ma si ricorda, così vicina ai precetti di Re Giorgio: «Oggi tutti hanno tutto, devi emozionare il cliente e noi siamo i primi a essere emozionati da ciò che facciamo. Il business deve essere emozione e curiosità di vedere cose nuove. Per questo volevamo uscire dalla monotonia della vendita ed entrare in un ambito più vasto». Roberto, GENIUS PEOPLE MAGAZINE
suo marito, personalità più eccentrica e gran cultore di tutto ciò che è vintage, le dà ragione: «Grazie alla liberalizzazione delle licenze, ora non vendiamo soltanto vestiti, ma tecnologia, suoni, biciclette di design; sempre alla continua ricerca di eccellenze e col solo fine di valorizzare l’individualità delle persone». Ed ecco allora come uscire di diritto, ma definitivamente da ogni connessione con il “normale”, creando un evento unico nel suo genere, e destinato ad essere ricordato e a fare tendenza. In occasione della Quarantasettesima Barcolana, per un “fuori regata” d’eccezione, i due proprietari invitano l’artista Serse Roma a esporre qualche sua opera. Il negozio diventa un atelier, «uno spazio», come lo stesso Serse dice «dove le intelligenze della creatività si possono coniugare con l’intelligenza dell’esporre la città nei suoi prodotti migliori. L’idea è quella di far conoscere alla città quel nucleo sostanziale che potrebbe far sì che questa città diventi grande. E quel nucleo si chiama creatività». 128
Roberto e Rosanna oggi hanno la tranquillità, derivata dalla certezza di avere tra le mani uno dei negozi più originali e brillanti della città. E oggi, sulla scia di quell’entusiasmo e con ironia graffiante e degna del nome che portano, continuano a riproporre eventi che abbracciano qualsiasi campo culturale (una delle ultime trovate, ad esempio, l’esposizione di piani da cucina firmati Jokodomus), ma puntualizzano: «Oggi vogliamo che Griffe sia innanzitutto un salotto, un’appendice della propria casa, dove regni l’accoglienza e dove poter venire per fare regali non convenzionali». E poi Roberto continua: «In trent’anni di attività, siamo sopravvissuti agli eventi, ma, un po’ come i ragazzi di Un mercoledì da leoni, stiamo aspettando la grande onda, l’onda perfetta. Perché purtroppo l’amore per il nostro lavoro deve convivere con una burocrazia che penalizza lo sviluppo del mercato del lavoro, le assunzioni, insomma tutte cose di pubblico dominio». In effetti non è né il primo né l’ultimo commerciante a pensarla così. Così, per tornare rapidamente in quella dimensione di straordinarietà,
racconta un aneddoto: «Ricordo un cliente abbastanza maturo che, dopo vent’anni in cui non si faceva vedere, apre la porta del negozio ed esclama: “Eccomi di nuovo qua”, come se fosse passato il giorno prima!» e in effetti, è questo il sentirsi a casa da Griffe, questa l’accoglienza che è in grado di offrire. Ma è anche esempio di una città esuberante, che, dice Roberto, «è migliorata sì, ma avrebbe bisogno di un’iniezione di novità. Sto pensando a Portopiccolo, con cui finalmente la nostra regione ha fatto un salto di qualità: un’idea che andrebbe riproposta qua in città, e sto pensando ovviamente a spazi come quelli del Porto Vecchio, che potrebbero diventare come i Docks di Londra». È abbastanza chiaro che quando si vende intelligenza creativa, come ha affermato Serse, è normale che ci si abitui a maneggiarla ogni giorno. L’importante è che poi quell’intelligenza e quella creatività vengano messe al servizio della concretezza. Ma questo, Griffe lo ha capito benissimo. NUMERO 03/04
Da sinistra Marco Buffa, Roberto Paganini e Rosanna Debrilli. Foto Luca Tedeschi
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Di FRANCESCO LA BELLA
Parliamo del prossimo futuro, ovvero la Barcolana 2015: come vi siete mossi e che cosa state studiando per migliorare ancora? La Barcolana è una manifestazione che, negli anni, è cresciuta molto: nel 2014, addirittura, abbiamo avuto un incremento del 14% di iscrizioni, un numero che non si era mai verificato da un anno all’altro. Sono cifre davvero importanti, specialmente se pensiamo che queste incidono anche sotto il profilo turistico: in quest’anno abbiamo lavorato e stiamo lavorando per
promuovere la Barcolana specialmente in Estonia e nei paesi del nord, visto che per loro ottobre è un mese autunnale, mentre nel Mar Mediterraneo il clima è ancora bello. Ci siamo mossi in Croazia per muovere il mercato attorno a noi a Spalato, Fiume, Zara; poi, avremo delle regate che porteranno armatori croati e sloveni; insomma, la promozione è tanta e l’impegno è certamente grande.
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Proprio per parlare della nostra città, che ospita questa
INTERVISTA A MITJA GIALUZ
Mitja Gialuz: a “lezione” con il più giovane presidente nella storia della Barcolana
Intervista al Presidente della Società Velica Barcola e Grignano, che ha rilanciato la manifestazione nautica
Febbraio 2014: un mese importante per la Barcolana, una data importante per Mitja Gialuz. Se ripercorriamo all’indietro i mesi che ci separano da quel momento, sono state tante le innovazioni che sono coincise con la nomina di Gialuz alla presidenza della Società Velica Barcola e Grignano: ricercatore e professore aggregato di Procedura Penale all’Università degli Studi di Trieste, un passato da velista e un presente da più giovane presidente nella storia della società che organizza la Barcolana, l’evento di maggiore prestigio internazionale che si svolge a Trieste.
manifestazione: qual è il suo pensiero legato al momento storico di Trieste? A livello di situazione economica, a Trieste, credo che ci troviamo in un momento di possibile svolta per la città: abbiamo vissuto un dopoguerra dove i sussidi statali ci davano una grossa mano, poi dopo Maastricht la “mano pubblica” si è ritirata con la città che doveva quindi ripensare alla propria identità. Abbiamo avuto importanti investimenti da parte di privati, ma è ora importante “fare squadra”
insieme alle istituzioni: tre aspetti su cui la nostra città ha un grosso potenziale sono sicuramente il turismo, ma anche l’università e l’economia del mare. Quale la possibile soluzione per migliorare determinati aspetti? La classe dirigente allargata, insieme alle istituzioni, deve mettersi attorno a un tavolo e iniziare a lavorare per valorizzare tutte queste ricchezze; certamente il Porto Vecchio è compreso all’interno di questi discorsi, ma su questo aspetto NUMERO 03/04
bisogna muoversi con grande cautela ed attenzione, perché le dimensioni di quest’area sono impressionanti ed è necessario gestirla al meglio. Siamo in una fase in cui la città ha un momento positivo: si potrebbe invertire una rotta che è orientata verso il declino demografico e di peso politico, bisogna dare una svolta e presentare un progetto di rilancio dell’economia della città. Abbiamo visto come la Barcolana metta Trieste in evidenza sulla carta geografica: ma dobbiamo 131
INTERVISTE
“Voglio far crescere questa splendida manifestazione con una forte base di innovazione, ma senza mai dimenticare le radici da cui ha avuto origine. La Barcolana deve essere una festa della vela e della cultura, ma anche del mare”.
prendere a riferimento l’Italia o, piuttosto, l’Europa vista la sua posizione? La Barcolana come evento internazionale che pone Trieste al centro dell’Europa? Si tratta di una riflessione condivisibile, con l’idea di un mare che diventa spazio di divertimento e condivisione. La Barcolana deve riuscire a fare questo, tenendo sempre come riferimento i tre “asset” prima citati, ovvero il turismo, la cultura e l’economia del mare. Ricordiamoci che Trieste è la città con il più alto tasso di ricercatori sul totale della popolazione, in Europa, e oltretutto è una città che ha un alto numero di velisti: noi stiamo cercando di “invertire una rotta” che è quella tipica di chi abita questa città, ovvero del criticare tutto quello che viene organizzato. La Barcolana è una delle poche manifestazioni non contestate dai cittadini, anche perché ogni anno riallaccia il rapporto più profondo che i triestini hanno con il mare, ma non dimentichiamoci questo concetto: si parte dal mare per guardare al territorio nel suo complesso. Come lavora il team Barcolana a livello di operatività? Quante persone sono occupate nell’organizzazione dell’evento? Abbiamo una squadra di trenta persone sulla plancia di comando, che lavorando durante tutto l’anno a tempo pieno; poi, allargando il campo, la squadra diventa
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di circa centoventi persone per gestire un evento di grande complessità. Lo scorso anno sono state tante le aziende del territorio che hanno supportato la manifestazione e condiviso il progetto di rilancio della Barcolana: è stato questo il segreto dei numeri che citavo all’inizio. La valenza economica è stata sentita da tante attività ed è ovviamente un motivo di vanto il fatto che anche aziende come Generali e Illy, oltre a Regione e Turismo Fvg, abbiano recepito che la Barcolana è una bella occasione per veicolare determinati messaggi e lavorare bene a livello di marketing. Le foto della scorsa edizione hanno fatto il giro del mondo e, addirittura, stiamo lavorando sulle traduzioni in lingua cinese per diffondere il “verbo” della Barcolana. Chiudiamo con gli obiettivi: quale deve essere il prossimo passo, per la Barcolana? Voglio far crescere questa splendida manifestazione con una forte base di innovazione, ma senza mai dimenticare le radici da cui ha avuto origine. La Barcolana deve essere una festa della vela e della cultura, ma anche del mare, nella quale i triestini devono essere sempre più coinvolti: al centro di tutto ci deve essere quella fonte di benessere che è il mare, che è un mare accessibile e che il cittadino vive quotidianamente.
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INTERVISTA A CLAUDIO SERLI
Claudio Serli,
effetto globalizzazione, con la passione della moda
aggiunge, «il prodotto sovrasta la personalità del cliente. Io voglio che il cliente impari i nomi delle cose, ma che esca come è entrato: se stesso». Serli è l’unico ad avere la fortuna e il privilegio di stare qui, nel nuovo centro della vita triestina, in Cavana. La sua boutique è un luogo concepito per accogliere il cliente in una realtà «ideale ma materica, in cui si sentono i muri, c’è il legno del pavimento, in cui abbiamo creato immagini attraverso un nostro specifico linguaggio. Abbiamo scelto un design in grado di attraversare il tempo e che ci permettesse di stare bene noi che lavoriamo e il cliente che deve entrare e sentirsi a casa».
Di REDAZIONE
Non è strano incontrare un commerciante che ti confessi divertito di aver fatto un po’ di tutto in vita sua, e di aver fatto, di questo suo continuo cambiare, la sua virtù. È più strano incontrare un uomo di successo che esordisca dicendo con autentica modestia che «la peggior cosa che si possa fare è parlare di se stessi». Infatti, quasi timidamente, o forse un po’ a malincuore, Claudio Serli inizia a raccontare il suo passato.
veniva qua. Era una città dei sogni, c’erano gioiellerie, boutique, trovavi tutto. Ed erano anche gli anni in cui la globalizzazione aveva fatto la fortuna dei monomarca e anch’io distribuivo marchi importanti, Gucci, Dior, Prada. Poi ho chiuso il ciclo. Volevo altro, ma soprattutto non volevo fare moda. Volevo fare costume, attraverso un abbigliamento contemporaneo. In poche parole proporre un modo di comportarsi».
Dopo appunto i vari mestieri cambiati, negli anni Ottanta apre il suo primo negozio a Trieste, città nel cui sviluppo crede molto; per la sua storia, la sua collocazione geografica, la sua fisionomia. «Prometteva prospettive di un certo tipo, Trieste era un miraggio per l’est, per chi
E tuttora, nel suo nuovo negozio in Cavana, una zona della città che dopo uno strepitoso processo di riqualificazione è diventato a tutti gli effetti il centro più chic, vuole vedere uscire i propri clienti vestiti con qualcosa che sia loro, che venga da loro stessi. «Molto spesso»
Ma alla fine è più forte di lui. Ritorna ancora su Trieste, croce e delizia dei suoi pensieri: «Trieste è una colonia dimenticata. Non è mai stata vissuta dallo stato come città italiana, ma come città di confine e di transito. Questa città non ha bisogno di politici e buoni amministratori, o meglio, non soltanto di loro. Ha bisogno di qualcuno che la aiuti ad avere prospettive più grandi, ambizioni da grande città. Per questo rimpiango Illy. È stato l’unico momento in cui ci aveva dato speranza. Oggi le opportunità non ci mancano, ma non abbiamo un desiderio abbastanza forte». Sarà perché lui, un desiderio forte, l’ha sempre avuto. Sarà per questa consapevolezza, quest’attenzione e sensibilità nei confronti della vita, questa umanità, che Serli continua a meritare il successo ottenuto. Dopotutto, conoscere i propri desideri è il modo migliore per indovinare i desideri degli altri.
Foto FLB.
INTERVISTE
Aldo Minucci: l’esperienza al servizio del successo
Di FRANCESCO CHERT
Abbiamo incontrato il dott. Aldo Minucci, attualmente presidente di Ania, di Fondazione Ania per la Sicurezza Stradale e di Genertel Spa, che nel corso della sua lunga attività professionale ha ricoperto molti incarichi di consigliere di amministrazione in numerose società assicurative, bancarie e in Telecom. Ripercorrendo attraverso le sue parole la strada che lo ha portato a svolgere un ruolo significativo in importanti società italiane, abbiamo cercato di cogliere qualche spunto da dare ai giovani che vorrebbero provare a seguire le sue orme. Con l’occasione abbiamo chiesto anche di avere il suo punto di vista sulla difficile fase economica e sociale che sta attraversando il nostro Paese. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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INTERVISTA AD ALDO MINUCCI
Gentile dott. Minucci, lei costituisce un modello di riferimento del manager moderno. Ci può raccontare come è riuscito a raggiungere questo obiettivo e cosa ha significato per lei? Non so dire se io possa costituire un modello di riferimento del manager moderno. Quello che posso confermare è che non esiste una formula magica per diventare un manager e posso raccontare quello che è stato il mio percorso. Tutto è partito da un colpo di fortuna alla fine degli studi universitari svolti a Trieste, ovvero un soggiorno di tre gironi a Roma per partecipare ad un concorso indetto dalle Generali riservato ai neolaureati. Allora non c’era l’ansia del posto di lavoro, ci si approcciava serenamente alle opportunità che ci capitavano. E io, di fronte a queste occasioni, ho sempre messo un tratto tipico del mio carattere e che descrive meglio di altri la mia storia: la capacità di dire le cose in modo molto diretto e trasparente, senza farsi mai influenzare da ragionamenti opportunistici. Un aspetto che si è unito ad altre caratteristiche personali e a fattori che vanno appresi nel tempo, come la creatività, la curiosità intellettuale, una struttura mentale molto aperta e una grande disponibilità all’impegno e al lavoro. Molto conta anche la voglia di non fermarsi mai alle soluzioni più semplici e imparare a trattare tutti i collaboratori, dal livello più alto a quello più basso, con rispetto del ruolo e della professionalità altrui. Accanto a tutto questo, però, ci deve essere una competenza tecnica. Se non c’è quella, il resto serve a poco. Ma mi rendo conto che oggi è più difficile, rispetto a quando ero giovane io, che la competenza emerga e riceva il giusto riconoscimento. Aveva già in mente questa carriera, quando studiava giurisprudenza all’università? Ho sempre avuto la forte consapevolezza di non voler essere un numero e, allo stesso modo, non ho mai voluto essere un impiegato che chiude la sua giornata alle 17. Per questo mi sono sempre immerso nel lavoro senza tenere conto degli orari. Se non avessi avuto l’opportunità che mi è stata data dalle
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Generali, la mia passione per le norme e gli studi di legge mi avrebbe portato a fare il magistrato o l’avvocato. Grazie alla Compagnia, mi sono occupato per tanti anni di fiscalità. Quest’esperienza mi ha formato e mi ha dato la possibilità di allargare le mie competenze anche ad altre aree aziendali, consentendomi successivamente di seguire attività diverse, in particolare quelle di Merger and acquisition, controllo, operazioni di ristrutturazione aziendale e molto altro. In questa esperienza è stato importante mettere al servizio degli obiettivi aziendali la capacità di comprendere le posizioni delle controparti allo scopo di arrivare a soluzioni positive ed equilibrate. Come giudica il livello di insegnamento in Italia? È tra coloro che consigliano di andare a studiare all’estero? Quando mi è capitato di svolgere il ruolo di selezionatore del personale, non ho mai dato eccessiva importanza alla partecipazione ai corsi di formazione post universitaria fatti da importanti istituti. Nei candidati ho sempre cercato di capire la presenza di quelle caratteristiche personali citate in precedenza, senza puntare solo alla competenza tecnica. L’esperienza all’estero è comunque un ottimo strumento perché, oltre a farci conoscere le lingue, ci permette di apprendere approcci culturali diversi rispetto a quelli derivanti dal proprio ambiente. Nelle trattative è importantissimo conoscere la cultura di provenienza dell’interlocutore per saper leggere nel modo giusto le sue reazioni. Si scopre, così, che anche certi luoghi comuni sono abbastanza veri. In ogni caso andare all’estero è consigliabile, non fosse altro perché in Italia le occasioni di lavoro mancano. Certo è che il livello dell’insegnamento in Italia, in particolare quello universitario, nel corso degli ultimi decenni a mio avviso è diminuito sotto il punto di vista del livello della preparazione manageriale, di cui paghiamo il prezzo sotto il profilo della competitività del nostro Paese. Ania ha come scopo quello di «sviluppare e diffondere nel nostro Paese la cultura della sicurezza e della prevenzione». In
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INTERVISTA AD ALDO MINUCCI
“Il vero problema dell’Italia è l’enorme dimensione del debito pubblico, su cui serve un intervento con un processo che ne porti la diminuzione. In compenso in Italia c’è una importante presenza di risparmi privati che garantiscono migliori condizioni rispetto ad altri paesi”.
cosa noi italiani siamo ancora immaturi e incoscienti? Premesso che in Italia manca una vera cultura del rispetto delle regole, uno dei tratti del carattere degli italiani che più mi colpisce è la presunzione e l’idea che le cose negative capitino sempre agli altri. Questo accade perché spesso si pensa di essere troppo bravi per commettere certi errori. Noi vogliamo far capire agli italiani quanto sia sbagliato questo approccio: basta un attimo di distrazione, di incoscienza o di arroganza perché una vita o un’intera famiglia sia distrutta per sempre. Per questo è importante un processo di informazione continua sui rischi della strada, sulle regole e sulla prevenzione. Accanto a questo, dobbiamo stimolare le istituzioni affinché rendano più sicure le infrastrutture con interventi di manutenzione costante. La campagna di Ania alla quale sono più affezionato è quella ispirata ai Comandamenti. Negli spot l’intento è quello di ottenere un’attivazione emozionale ottimale per fare passare, in modo efficace, il messaggio sotteso, il tutto nella cornice dei Comandamenti, richiamo particolarmente significativo alle norme come regole di vita. Gli spot sono tutti fondati sulla forza evocativa dei Comandamenti nella logica di principi senza tempo applicata alla circolazione stradale e sono rivolti soprattutto ai giovani. Attraverso le emozioni, attraverso il cuore, vogliamo arrivare alle loro teste, al loro modo di pensare, in maniera tale che il
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messaggio resti impresso e contribuisca alla diffusione di una nuova cultura del rispetto delle regole della strada. Come avviene l’ideazione delle campagne di Ania, sempre molto efficaci e d’impatto? Vista la scarsità di risorse dell’ANIA e della Fondazione ANIA, il segreto è avere le idee chiare fin dall’inizio e dare una definizione immediata dell’indirizzo della campagna. Concetti che vanno trasferiti in modo chiaro ai creativi che poi sottopongono alla nostra valutazione le loro proposte. Per quanto mi riguarda ho sempre avuto una certa attitudine alla comunicazione pubblicitaria, grazie anche ai lavori svolti in passato con un maestro come Oliviero Toscani. Guardando alla nostra ultima campagna, lo spot al quale sono più legato è “Onora il padre e la madre” nel quale, reinterpretando il comandamento in chiave moderna, abbiamo cercato di far arrivare ai giovani il messaggio che il modo migliore per onorare i genitori è evitare comportamenti che possano distruggere una vita ed originare quindi una vera e propria tragedia. Qual è la sua ricetta per uscire dalla crisi? Purtroppo non c’è una ricetta. La crisi sta andando avanti da troppo tempo e difficilmente ne usciremo quest’anno. Esistono però tre elementi positivi in questa fase della crisi: l’iniezione di liquidità della Bce per rilanciare il credito, far scendere il costo del debito e abbassare i tassi di interesse;
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la riduzione del peso della moneta europea sul dollaro; l’abbassamento del costo del petrolio. Questi sono però elementi esterni i cui aspetti positivi vanno colti velocemente. Accanto a questo è necessaria una decisione seria di interventi governativi: la riduzione dell’Irap alle aziende; la semplificazione della pubblica amministrazione; un processo di deburocratizzazione che porti ad uno snellimento del codice civile italiano; un cambiamento nel rapporto del fisco nei confronti del cittadino, che ricostruisca una fiducia che si è persa; una riduzione delle tasse che vada al traino di un ripensamento degli sprechi e della spesa pubblica, mettendo in piedi una potente strategia contro l’evasione e la corruzione; la ripresa della capacità di spesa e di consumo da parte della gente; la dismissione del patrimonio pubblico e delle municipalizzate; il rilancio degli investimenti. Per tutto questo occorre coraggio. Invece pare di vedere che le riforme trovano come sempre forti freni da parte di gruppi di pressione piccoli o grandi, le strade sono dissestate, le scuole crollano, si aprono costantemente nuovi bacini di corruzione e di evasione. Nel settore delle assicurazioni, per esempio, occorre creare un sistema misto pubblico-privato. Occorre aprire il settore assicurativo, dalla previdenza alle catastrofi naturali, lo Stato non può più fare fronte da solo a comparti come questo o come quello della sanità. Escluse le fasce deboli della popolazione, bisogna rendere
obbligatoria un’assicurazione in questi ambiti. So bene che non sono decisioni facili da prendere. La ricetta è complessa, richiede coraggio e capacità di prescindere dal consenso immediato. Rimpiange la lira? Non è un problema di euro. Certo la costruzione di un’Europa unica soltanto sulla base della moneta non basta. Occorre una condivisione della fiscalità. Occorre un’unità politica attraverso la riduzione delle sovranità nazionali con il ruolo dell’unità politica dell’Unione europea. Il vero problema dell’Italia è l’enorme dimensione del debito pubblico, su cui serve un intervento con un processo che ne porti la diminuzione. In compenso in Italia c’è una importante presenza di risparmi privati che garantiscono migliori condizioni rispetto ad altri paesi. Cosa consiglia a un giovane che voglia provare a intraprendere la sua carriera? Occorre puntare sulla preparazione tecnica, sulla conoscenza delle lingue straniere, sulla disponibilità a spostarsi, ma soprattutto sulla capacità a non restare bloccati dalle convenzioni mentali che non ci permettono di reagire positivamente alle dinamiche di cambiamento che caratterizzano il nostro periodo storico. Infine è necessario avere maggior coraggio nell’esprimere le proprie idee.
“Certo è che il livello dell’insegnamento in Italia, in particolare quello universitario, nel corso degli ultimi decenni a mio avviso è diminuito sotto il punto di vista del livello della preparazione manageriale, di cui paghiamo il prezzo sotto il profilo della competitività del nostro Paese”.
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Paolo Privileggio:
il futuro del petrolio
L’energia è uno dei fattori fondamentali per assicurare la crescita dell’economia. Il petrolio continua a confermarsi la principale fonte di energia a livello mondiale, ma le sue riserve saranno in grado di soddisfare la domanda nel medio lungo periodo? Quale futuro per il petrolio? Lo abbiamo chiesto a un interlocutore autorevole e conoscitore del settore petrolifero, il dott. Paolo Privileggio, CFO del Gruppo TAL. Il Gruppo TAL svolge un ruolo strategico in ambito energetico in quanto gestisce da 50 anni l’Oleodotto Transalpino, il più importante oleodotto europeo, un’infrastruttura energetica di primaria importanza che collega il porto di Trieste con il centro Europa, trasportando il petrolio greggio alle raffinerie di Austria, Germania e Repubblica Ceca. L’approvvigionamento di greggio è un elemento centrale per la politica energetica europea: il petrolio trasportato da TAL copre il 100% del fabbisogno energetico della Germania meridionale (Baviera e Baden Württemberg), il 90% dell’Austria e il 50% della Repubblica Ceca. I suoi azionisti sono alcune delle majors del settore petrolifero a livello mondiale: OMV, Shell, Ruhr Oel, ENI, C-Blue Limited (GUNVOR), BP, Exxon Mobil, Mero, Phillips 66/Jet Tankstellen e Total. I risultati economici e di performance attestano la qualità del lavoro svolto dal Gruppo TAL: nel 2014 sono stati incrementati i volumi di greggio trasportato, sbarcando 41,5 milioni di tonnellate da 521 navi, il che ha confermato Trieste come primo porto petrolifero del Mediterraneo. Tale crescita è dovuta ad una maggiore domanda di approvvigionamento energetico delle raffinerie collegate al sistema TAL, che il gruppo ha potuto soddisfare grazie alla sua efficienza e affidabilità. Il Gruppo TAL, e il suo braccio operativo SIOT in Italia, mantengono un’elevata qualità del servizio svolto investendo costantemente nell’innovazione e nelle tecnologie più avanzate per garantire la massima sicurezza degli impianti. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
Di FRANCESCO LA BELLA
Lo sviluppo delle energie rinnovabili e l’introduzione di nuove tecnologie che ne facilitano l’utilizzo sembrano mettere in discussione il ruolo predominante del petrolio nel panorama energetico mondiale. Arriveremo ad un futuro senza petrolio? Il petrolio, pur perdendo incidenza sul totale dei consumi globali di energia per il quindicesimo anno consecutivo, rimane saldamente la principale fonte energetica e oggi soddisfa un terzo della domanda mondiale di energia. In futuro, aI miglioramento dell’efficienza energetica che modererà la crescita dei consumi petroliferi, si contrapporrà l’incremento della domanda petrolifera alimentata dall’aumento della popolazione che raggiungerà quasi 9 miliardi di persone nel 2040 e del prodotto interno lordo che in tale data 138
INTERVISTA A PAOLO PRIVILEGGIO:
dovrebbe praticamente raddoppiare, portando complessivamente ad un aumento della domanda di prodotti petroliferi. Nel 2040 il petrolio continuerà ad essere la principale fonte di energia a livello mondiale e seppur in diminuzione rispetto alle percentuali attuali rappresenterà pur sempre il 28% del fabbisogno energetico globale. Il grande salto delle fonti di energia rinnovabili, da tutti auspicato, che nel 2010 coprivano l’11% della domanda di energia, si tramuterà nel 2040 in quota del 15% del fabbisogno mondiale nonostante gli ingenti investimenti nel settore e le politiche di incentivi attuate in molti paesi. Il declino energetico del petrolio è ancora lontano. Alla fine degli anni ‘70 vari esperti davano per imminente l’esaurimento dei giacimenti petroliferi collocandolo nel primo decennio del nuovo secolo e invece oggi, con la domanda di petrolio ancora inferiore all’offerta, lo scenario sembra cambiato Sono molteplici e complessi i parametri che determinano la quantità e la durata delle riserve di petrolio ma una cosa è certa, oggi tutte le stime sono state riviste al rialzo. C’è più petrolio di quanto si fosse ipotizzato, pertanto i giacimenti petroliferi sono sufficienti, sulla base del previsto trend dei consumi globali, a soddisfare la domanda per ancora qualche decennio. Le conclusioni di vari studi su questo tema non sono univoche ma tutte concordano che il petrolio per un bel po’ non mancherà e questo grazie alle recenti scoperte di nuovi giacimenti in nuove aree geografiche (Brasile, Indocina, Africa subsahariana, area artica) e al boom del petrolio “non convenzionale”. Negli ultimi anni tecnologie all’avanguardia stanno sviluppando
nuove opportunità nel settore, come ad esempio l’estrazione di greggi “unconventionals”, come il fracking, o fratturazione idraulica tecnica, che sfruttando la pressione di un fluido per creare e poi propagare una frattura in uno strato roccioso permette l’estrazione di petrolio da formazioni rocciose, o lo shale oil, un greggio ottenuto da olio di scisti bituminosi mediante riscaldamento e distillazione e il tight oil, presente a grandi profondità allo stato liquido e “intrappolato” in rocce impermeabili che ne impediscono la fuoriuscita con una normale estrazione. Contrariamente a molte previsioni secondo le quali la produzione mondiale di petrolio avrebbe già raggiunto il suo picco massimo, questa crescerà dagli attuali 90 milioni di barili al giorno fino a 110 milioni di barili al giorno entro il 2020: un aumento di circa il 20%, un salto che dagli anni ’80 non si era mai registrato. Alla luce di tutte queste considerazioni come si muoverà il prezzo del petrolio? I segnali attuali indicano che i prezzi del petrolio a breve termine non si discosteranno molto dai livelli attuali, oscillando tra i 40 e i 70 dollari al barile. C’è oggi un eccesso di produzione e una domanda che sicuramente non è in condizione di assorbire tutta la produzione a causa del rallentamento economico della Cina e della riduzione della dipendenza energetica degli Usa dalle importazioni. I paesi che aderiscono all’Opec hanno poi privilegiato il mantenimento delle loro quote di mercato piuttosto che ridurre la produzione e pertanto questo eccesso di produzione è destinato a perdurare. È evidente che c’è anche un interesse dei paesi Opec a mantenere un prezzo del barile NUMERO 03/04
calmierato per mettere in sofferenza la produzione statunitense di “unconventional oil”. Tuttavia il quadro nel medio termine potrebbe cambiare: con l’attuale andamento del prezzo del petrolio si sta già registrando un sensibile rallentamento degli investimenti nel settore, soprattutto nella ricerca e nella produzione, e con il tempo questo fenomeno potrebbe portare ad una riduzione dell’offerta e al conseguente aumento del prezzo del barile. Un prezzo basso del petrolio rappresenta però oggi un fattore positivo e auspicabile per i consumi e per il rilancio dell’economia mondiale, che si trova ancora in una fase di perdurante debolezza. È ben noto che il prezzo del petrolio influenza pesantemente l’economia di molti i paesi e conseguentemente le loro scelte nello scenario geopolitico. La Russia è sicuramente uno dei paesi che oggi soffre maggiormente di questa situazione. Prima dell’attuale crisi i tre quarti delle entrate provenienti dall’export energetico proveniva dal petrolio. Dal dimezzamento del prezzo del petrolio si stima per la Russia una perdita economica intorno ai 100-150 miliardi di dollari l’anno, con un impatto notevole sulla crescita del paese e indirettamente sulla sua politica estera. Il crollo del prezzo del petrolio impone una pressione considerevole anche su paesi come l’Iran ed il Venezuela, le cui economie sono direttamente legate alle esportazioni del petrolio.
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INTERVISTE
Tommaso Valta: la terza generazione e il futuro della Pragotecna
Di MICHELE CASACCIA
Pragotecna Spa è un’azienda che da quasi settant’anni si occupa della ricerca e della distribuzione di nuovi materiali e di soluzioni in ambito architettonico, collaborando con il mondo dell’impresa e dell’industria e occupandosi soprattutto di prodotti speciali. Fondata a Trieste nel 1947 dall’ingegner Fischer e dai fratelli Paolo e Franco Walter, che italianizzò il cognome in Valta, l’azienda iniziò con l’importazione e la lavorazione della ceramica e del vetro, insieme al commercio di articoli sanitari, prodotti che durante la ricostruzione post bellica erano molto richiesti. Oggi Pragotecna è un’azienda leader del settore con alle spalle un grande patrimonio di conoscenze e una lunga esperienza in grado di offrire un servizio qualificato sia alla piccola che alla grande impresa, in Italia e all’estero, grazie alla professionalità dei propri tecnici e alla qualità dei propri prodotti. A tirare le redini del gruppo assieme al padre Roberto, presidente dell’azienda, nel 2004 è arrivata la terza generazione, con Tommaso, oggi AD del gruppo, e suo cugino Marco figlio del fratello di Roberto, Michele, prematuramente scomparso.
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INTERVISTA A TOMMASO VALTA
Tommaso, cosa vuol dire ricevere tra le mani un impero come questo, un patrimonio di esperienze maturate in più di sessant’anni di attività? Significa impegnarsi al 100% per cercare di migliorare l’azienda, guardando positivamente al futuro ma senza mai dimenticare il passato, fatto di molti sacrifici e importanti investimenti. Come cambia lo sguardo di un imprenditore in archi di tempo così lunghi e in momenti storici così diversi? I settori d’interesse della nostra azienda si sono modificati ed evoluti nel corso degli anni, prima con il nonno, poi con il papà e lo zio e oggi con la terza generazione, in azienda ormai da oltre undici anni. Il nostro core business è rimasto il medesimo da più di sessant’anni, ma la bravura è stata la lungimiranza delle due generazioni precedenti che, oltre alla continua ricerca di partner primari e prodotti all’avanguardia, ci hanno permesso di rimanere saldamente tra i leader nel nostro mercato. Nel 2015 qual è la vostra filosofia? La nostra filosofia è creare e offrire il massimo valore ai nostri clienti attraverso i nostri servizi, nel massimo rispetto della qualità, delle tempistiche e delle metodologie di lavoro. Da tempo intrecciate rapporti esclusivi con importantissime aziende in tutta Europa, dalla Repubblica Ceca alla Germania, dall’Austria alla Russia e alla Spagna. Che ruolo ha avuto l’Unione Europea in questi anni e come vedete il vostro futuro in vista di cambiamenti potenzialmente epocali?
Il nostro lavoro è sempre stato quello di importare e distribuire sul mercato Italiano prodotti d’avanguardia. Negli anni, i forti legami con i nostri partner esteri ci hanno permesso di esportare le eccellenze del nostro paese in alcuni mercati internazionali. L’evoluzione della nostra struttura aziendale, attraverso anche l’inserimento di collaboratori di massimo livello, ci ha reso indipendenti e competitivi su qualunque mercato, europeo e non, dandoci la possibilità di acquisire e portare a termine con successo lavori con committenti molto prestigiosi, nel civile, nell’industriale, nel navale senza contare le nostre realizzazioni di piscine pubbliche e private e spa di alberghi. Per concludere, la nostra azienda ringrazia l’Europa per la semplificazione dei procedimenti, che già da decenni giornalmente mettiamo in atto con successo. Si lavora meglio all’estero o in Italia? L’Italia rimane il nostro maggiore mercato, ma le quote dell’estero stanno aumentando di anno in anno e sono convinto che il trend dei prossimi anni verrà confermato dai numeri. Oltre alle piscine, alle spa e alle cose che ci hai già raccontato, tra le ultime realizzazioni contate pure l’importante catena di ristoranti Maxim di Hong Kong, il prestigioso complesso residenziale Verdemare realizzato a Trieste dall’impresa CMC, con più di 180 appartamenti, nonché ville da mille e una notte realizzate a Monaco di Baviera e sui laghi di Ammersee e Stanbergersee, già pubblicate su importanti riviste del settore. Quanto si può essere orgogliosi?
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L’orgoglio più grande per noi è consegnare i nostri lavori con la massima soddisfazione dei clienti sia per i materiali forniti che per le maestranze utilizzate per le esecuzioni. Credo fermamente che, in un periodo di totale incertezza del nostro comparto, presentare ai propri clienti l’immagine di un azienda organizzata sia l’arma vincente per crescere e portare ancora più in alto il nostro nome, sia in Italia che all’estero. Oggi si parla molto di ecosostenibilità. Come pensate di aver cercato di soddisfare queste nuove tendenze di mercato? Tutti i nostri partner sono molto attenti a questo argomento e noi, di riflesso, abbiamo voluto stare al passo con loro, cercando in tutte le nostre proposte di favorire i prodotti ecosostenibili e muniti di crediti Leed e quindi di sostenibilità ambientale. A dimostrare questo nostro interesse, un paio d’anni fa abbiamo rivestito gran parte della superficie della nostra sede con un impianto fotovoltaico di ultima generazione. Ci puoi anticipare qualcosa su nuove importanti collaborazione future? La Pragotecna Spa ha appena aperto una filiale a Monaco di Baviera dove già da un paio d’anni sta operando con successo e continuando ad acquisire committenti di altissimo livello, creando una clientela fidelizzata ed entusiasta dei nostri lavori. Da quest’anno i nostri materiali e i nostri servizi sono stati utilizzati da un importante gruppo automobilistico e ci auguriamo che questa collaborazione possa incrementare.
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INTERVISTE
Penso:
la filosofia della pasticceria applicata per fare il gelato Lorenzo Stoppar, un nome che si porta dietro una tradizione: è quella della Pasticceria Penso, marchio storico per quanto riguarda i dolci triestini e mitteleuropei. Di FRANCESCO LA BELLA In redazione MATTEO ZANINI
Pasticceria Penso, fondata nel 1918: ci racconti qualche cosa in più della vostra azienda? Noi nasciamo fin da subito come pasticceria di alto livello, con il fondatore Narciso Penso, che ha proseguito questa attività fino alla sua morte nel 1970. Mio padre, nel frattempo, era entrato in azienda nel 1963 e nove anni dopo ha rilevato l’attività: quello che è da sottolineare è il fatto di come si siano rispettati sempre i canoni di un’alta qualità e della tradizione mitteleuropea tipica di Trieste. Anche quando siamo subentrati io e mio fratello Antonello abbiamo proseguito questo filone e le ricette non sono cambiate: la nostra è una pasticceria tradizionale e vogliamo continuare ad esserlo. Hai parlato di tradizione da padre a figlio: perché Penso continua ad essere un punto di riferimento? Dici bene: io e mio fratello lavoriamo assieme da sempre, e abbiamo seguito le orme della pasticceria tradizionale come ti dicevo prima, siamo molto affiatati e, in più, siamo molto uniti. Il segreto? Credo sia quello di diversificare l’offerta: oramai non è più sufficiente fare solamente pasticceria, ed ecco il
motivo per il quale abbiamo iniziato a dedicarci anche alla caffetteria ed alla gelateria, specialmente nei mesi estivi; poi, abbiamo anche introdotto gli aperitivi e, nel periodo invernale, punteremo molto sulle cioccolate. Voi siete degli imprenditori e, per il vostro ruolo, Trieste non sempre è una città facile. Investire a Trieste: tu ci credi? Direi che, rispetto al passato, la situazione a Trieste è un po’ migliorata: per il nostro tipo di lavoro, la pedonalizzazione di gran parte del centro storico è stata importante e sicuramente ha portato un beneficio alla nostra attività. Mi sento triestino doc e credo fermamente in questa città: credo che riuscirà a trovare i suoi sbocchi e vedo che sta già lavorando per questo. Il vostro dolce più famoso? Sicuramente la sachertorte, torta con il cioccolato e confettura di albicocche: fa parte della pasticceria triestina, direi che è un “must” e la nostra è sempre molto apprezzata. Dalla pasticceria alla gelateria: avete aperto un nuovo punto vendita proprio in mezzo alla movida cittadina. Esattamente, abbiamo creato questo posto già un po’ di tempo fa, quando ancora non c’era molto movimento. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
La nostra scelta è caduta sulla zona vicina a Via Torino, proprio perché siamo nelle vicinanze delle Rive Triestine e, oltre a questo, c’è la pedonalizzazione e la presenza del Museo Revoltella, aspetti che richiamano persone e visitatori. Parliamo del design del vostro nuovo locale, la gelateria. Il design è stato curato dall’architetto Roberto D’Ambrosi, che è riuscito a massimizzare nella maniera migliore i risultati all’interno di un posto piccolo ma che si sviluppa su due livelli: direi che ha sfruttato lo spazio in maniera perfetta. Con il contributo di Vud, celebre laboratorio di design e falegnameria, che ha dato un tocco in più alla nostra gelateria e ha messo a disposizione due lavoratori del legno della famiglia Floreano. Il pavimento del locale è in marmo, lo stesso marmo che compone il pavimento del Museo Revoltella: abbiamo usato elementi interamente naturali e, in mezzo, abbiamo messo lo splendido lampadario di fine Ottocento, a dominare l’ambiente. In questa maniera, il cliente può gustarsi un gelato all’interno di una cornice che richiama l’arte. Pasticceria, gelateria, bar: come bisogna definirvi, quindi? Ho uno slogan in mente: Penso, la filosofia della pasticceria nel gelato. 142
SPECIALE BIENNALE
La cinquantaseiesima Biennale di Venezia – La Marea Crescente Di JONATHAN TURNER Fotografia esclusiva per Genius People Magazine di RENATO GROME
La Biennale di Venezia è sempre stata un luogo dove gli opposti si incontrano. Fino agli ultimi giorni di novembre, per la 56esima edizione intitolata “All The World’s Futures” da Okwui Enwezor, il suo primo direttore di colore, l’arte contemporanea invade la città bizantina. Questa è una Biennale di dissensi e di gente che dissente, una Biennale contro il fondamentalismo, la censura e soprattutto il colonialismo. Segue gli argomenti della migrazione culturale e della “diaspora nera”. Paradossalmente, data la sua natura di evento nel quale i vari paesi presentano i loro più grandi talenti in padiglioni separati, è una Biennale contraria alla diffusione del nazionalismo. La lettura specifica della responsabilità sociale dell’arte da parte di Enwezor (che ha studiato scienze politiche alla New Jersey City University), fornisce una valida piattaforma per nuovi ed emergenti artisti periferici, che vogliono farsi largo tra quelli della vecchia guardia. Non devono per forza essere arrabbiati o apertamente ambiziosi, e dato l’attuale clima geopolitico, questa Biennale sembra arrivare giusto in tempo. È ora di dare alcuni numeri. Oltre all’esibizione centrale curata da Enwezor che conta 136 artisti da 53 paesi, ci sono 87 padiglioni nazionali, 44 mostre ufficiali aggiunte e dozzine di altre mostre in palazzi e musei in tutta Venezia. Per la prima volta, sono presenti padiglioni nazionali dalle isole Grenada e Maurizio, Mongolia, Mozambico e Seychelles, oltre a un ritorno dopo decenni di assenza dell’Ecuador, delle Filippine e del Guatemala. La “Global Myopia” di oggi, come espressa da Marco Maggi nel padiglione uruguaiano (che all’inizio sembra una stanza vuota finché non ci si accorge che tutti i muri sono ricoperti da una miriade di piccoli collage geometrici di bianco su bianco), non è stata estesa al Kenya e alla Costa Rica. All’ultimo minuto, i paesi sono stati squalificati e i loro padiglioni cancellati tra le accuse di corruzione. Con la FIFA che stava implodendo in Svizzera, e con l’EXPO 2015 a Milano, solo trecento chilometri a ovest, la 56esima Biennale di Venezia offre un panorama alternativo del futuro e del passato. Molto del presente è opportunamente nascosto sotto il tappeto.
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One after the other, 2014 dell’artista pachistano Khalil Chishtee, fa parte dell’esibizione Vita Vitale a Ca’ Garzoni, riguardo il delicato equilibrio dell’ecosistema del nostro pianeta. Chishtee usa uno dei più ordinari e diffusi materiali della nostra epoca, la borsa di plastica, per esplorare i pericoli dei suoi effetti sul genere umano.
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SPECIALE BIENNALE
Una visione surreale di Madre Natura appare al padiglione francese. Celeste BoursierMougenot presenta la sua Revolutions, tre pini in giganti zolle di terra, che si muovono impercettibilmente grazie alle ruote nascoste e al sottostante motore. Siamo abituati a vedere uccelli e cervi migrare, meno a vedere panorami che cambiano, con alberi che vagano come robot erbivori. Un tema ricorrente è quello degli animali e l’atteggiamento dell’uomo verso di loro.
La 56esima Biennale di Venezia parte da un’esposizione centrale sia nel palazzo principale nei Giardini, sia nelle Corderie, lo spazio lungo un chilometro della fabbrica di corde abbandonata dell’Arsenale. È curata dal newyorchese originario della Nigeria Okwui Enwezor, che è anche direttore del Haus der Kunst di Monaco di Baviera. Al centro di questa Biennale ci sono una serie di performance, dibattiti e letture giornaliere de “Il Capitale” di Karl Marx, documentato dal film dell’artista britannico Isaac Julien. Sottolinea il lavoro di alcuni rilevanti artisti di colore o provenienti dall’Africa – John Akomfrah, Charles Gaines, Glenn Ligon, Steve McQueen, Chris Ofili, Lorna Simpson, Kara Walker e Wangechi Mutu (che presenterà un’odissea epica animata che parla di una donna africana che porta il peso del mondo sulle sue spalle, fino a venire assorbita da un vulcano). Questo dà una chiara e risanante idea di quella che Enwezor chiama «la bigotteria autoreferenziale» del mondo dell’arte.
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Sparsi nella 56esima Biennale di Venezia, molti artisti sono stati ispirati dalle azioni degli antichi regimi, vedendoli sia come falsi simboli dei “giorni gloriosi”, sia come rappresentanti di brutti periodi di abietta oppressione. Nel padiglione belga troviamo un impianto computerizzato di James Beckett, un artista dello Zimbawe che ora vive ad Amsterdam. Una macchina costruisce e poi demolisce modellini di architettura Modernista. Un braccio robotico sposta dei blocchi numerati da un ripiano ordinato a una piattaforma, in sequenze che seguono varie configurazioni. Questo “modello prefabbricato” sulla costituzione di un’identità nazionale del Congo e di altre ex colonie africane è in totale conflitto con i gesti e l’astuto romanzo di Never say Goodbye, uno spettacolo di Wu Tien-chang del padiglione del Taiwan nel Palazzo delle Prigioni. L’artista dà uno sguardo all’epoca in cui il suo Paese era una colonia giapponese, e un punto di sosta per i soldati americani durante la Guerra Fredda.
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La mostra di Wu Tien-chang, fatta di video digitali e di spettacolari tavoli luminosi, è il luogo dei desideri proibiti, con immagini di ciò che lui chiama “Il salone della gioventù contraffatta” (Salon of Counterfeit Youth). Si tratta di ricordi emotivi che sfociano nella nostalgia, accompagnati da canzoni d’amore della sua infanzia, cantate nel dialetto taiwanese, che parlano di marinai che lasciano la loro casa per sempre. Con il cambio di scenario, attrezzi fatti a mano e maschere di lattice, entra in campo come personaggio principale un giovane attore, vestito a seconda delle situazioni da marinaio, o da dandy, o da piangente dama della notte. Le lacrime sono di glicerina, i fiori di plastica, e il paesaggio è dipinto a mano. L’effetto complessivo è ipnotizzante. L’attore fa il gioco dei mimi. È un artista che si trasforma rapidamente, facendo da “souvenir” vivente. «Il Taiwan non aveva un’identità nazionale» dice Wu Tien-chang. “Volevo esprimere lo stato di falsità spirituale. Dà forma a un modo di fare le cose che è quasi scadente, da fast food, volgare, sensazionalista, una specie di esperienza estetica di cattivo gusto. Nella cultura popolare, c’è un forte carattere ‘surrogato’ o ‘contraffatto’.” «La magia è qualcosa che la gente sa essere falso, ma che, secondo quanto percepito dai loro occhi, non può essere negata psicologicamente. Senza attrezzi scenici, non c’è magia. Le acrobazie sono l’esatto opposto. Sono autentiche, ma la stranezza di ciò che si vede e di ciò che la mente sente rende difficile credere che sia vero. Quello che voglio fare è sovvertire sia il vero che il falso, creando qualcosa che non può essere inscritto in queste categorie». Visto attraverso gli occhi di Almagul Menlibayeva e Rashad Alabarov, due artisti dell’Azerbaigian, L’unione di fuoco e acqua (The Union of Fire and Water) presenta un’altra sovrapposizione storica e culturale di Venezia. Si trova nel Palazzo Barbaro sul Canal Grande, l’ex residenza di Giosafat Barbara, un ambasciatore veneziano che scrisse molto sulle città dell’Azerbaigian e sulla corte di Shah Uzun Hassan nel tardo 1400. Menlibayeva presta particolare attenzione al ruolo della donna nelle culture
pre-sovietiche e pre-islamiche. Si ispira ad un imponente edificio costruito in stile gotico veneziano a Baku nel 1912, realizzato da uno dei primi magnati del petrolio, Murutza Mukhtarov, come casa per la sua amata moglie. Più avanti si è suicidato. Attualmente ospita il principale ufficio dell’anagrafe dei matrimoni di Baku, ed è paradossalmente noto come “Palazzo della Felicità”. La videoinstallazione di Menlibayeva sostituisce i panorami pittoreschi delle finestre di Palazzo Barbaro. Lo spettatore “guarda fuori” e vede gru, paesaggi di miniere abbandonate, città che bruciano e, ancora più strano, trivelle che operano in mari agitati. È completamente disorientante e porta a un senso nausea simile al mal di mare. Nel frattempo Rashad Alabarov costruisce labirinti con una serie di oggetti tra cui coltelli, specchi e metallo saldato. Visti da un punto preciso, gli oggetti assemblati rivelano improvvisamente una figura geometrica precisa, che crea un’ombra di parole sulle mura del palazzo. A Palazzo Fortuny, la sublime mostra Proportio si basa sulla collezione della fondazione Axel & May Vervoordt di Anversa. Opere di Michael Borremans, Elsworth Kelly, Bill Viola, Anish Kapoor, Berlinde de Bruyckere e persino Sandro Botticelli, si concentrano sulla ricerca di proporzioni universali nell’arte e nell’architettura. Rappresentata nella mostra Proportio da un NUMERO 03/04
L’enorme testa di pilota da combattimento di Irina Nakhova accoglie il visitatore nel padiglione russo. Dietro agli occhiali da aviatore, un video degli occhi dell’artista segue il visitatore nella stanza, come una paranoica versione ad alta tecnologia della Gioconda. “Conosci il pilota in questo viaggio”, dice Nakhova. “È colui che ti fa navigare in uno spazio di acuta osservazione, accompagnandoti dietro la cabina, verso una più alta consapevolezza di ciò che ti circonda”. È un buon riassunto dell’intera 56esima Biennale di Venezia.
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SPECIALE BIENNALE
Sopra In una superba reazione a scoppio ritardato, Raio 2014, di un altro artista belga Michael Borremans, è un ritratto in scala reale di un cavallo da corsa le cui gambe nere cominciano a sparire come apparizioni spettrali. A Palazzo Fortuny, questo surreale dipinto equestre è appeso vicino a una piccola tela color pelle di Josef Albers e Public Observatory (2000 – 2015), una scultura dell’artista veneziano Cristiano Bianchin.
video di 30 minuti della sua faccia ricoperta di foglia d’oro, l’artista serba Marina Abramovic ha fatto una conferenza all’ultimo piano di Palazzo Fortuny. Ha parlato di come abbia imparato a dipingere il giorno del suo dodicesimo compleanno con materiali dati a lei da suo padre, un generale dell’esercito. Abramovic capì subito l’importanza del procedimento. «Mio padre ricoprì il mio primo dipinto a colori con la gasolina, poi vi lanciò contro un fiammifero acceso e lo bruciò. ‘Questo è il tuo primo tramonto’, mi disse. E quella fu la mia prima lezione di pittura». I dipinti nella mostra centrale della 56esima Biennale di Venezia, oltre che rari, sono di qualità straordinariamente alta.
Le minacciose tele in colore di smeraldo e rubino di Chris Ofili, i ritmati dipinti (dot) dell’australiano Daniel Boyd, e quattro oscure, surreali tele rappresentanti figure isolate di Lorna Simpsons emergono di più. Le questioni di morale non sono mai state così evidenti come nel lavoro di Marlene Dumas, considerata da Okwui Enwezor una delle protagoniste principali della sua Biennale. In una sala a parte, si trova Skulls (2013-2015), una serie di 36 piccoli dipinti a olio su tela, dove ognuno dei “ritratti” di teschio rispecchia le sfumature della personalità di Dumas, passando dall’allegro al macabro, dall’arrabbiato all’indeciso, dal fumettistico al gotico. Soprendentemente, Enwezor ha concluso l’esposizione alle Corderie con otto grandi autoritratti di nudo del 2014 dell’espressionista tedesco George Baselitz. Alcune delle capovolte fattezze dell’artista sono state ispirate dal Papa. «Con occhi scavati e arti rossi e pulsanti, l’artista settantasettenne dimostra di voler ancora combattere contro un mondo capovolto e ingiusto», ha commentato Jackie Wullschlager del Financial Times. L’unica cosa più volgare dei dipinti di Baselitz alla Biennale di quest’anno sono le sculture di Sarah Lucas nel padiglione inglese. Come “ragazza cattiva” dell’arte inglese, Lucas ha dipinto i muri del suo padiglione nazionale color crème inglese. La
La principale installazione dell’artista pachistano Rashid Rana a Palazzo Benzon fa parte dello spettacolo My East is Your West. La sua opera riguarda un abitante dalla città di frontiera di Phulia, che durante la Biennale traccia delle sottili linee su 3394 metri di tessuto intrecciato sul confine tra India e Bangladesh, per commentare i 3394 chilometri di recinto eretto tra le due nazioni.
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sua scultura oscena e esplicita chiamata Gold Cup Maradona, color giallo zolfo e che rappresenta un’informe figura maschile con uno scroto oscillante, è sfacciata e animalesca. In altri luoghi di Venezia, i dipinti sono più facili da trovare. A Ca Pesaro, Paradise del defunto Cy Twombly cerca di enfatizzare il “lato selvaggio” dell’artista, con molti lavori esposti per la prima volta. «Ho sentito le ali del vento della follia», ha scarabocchiato su un quadro senza titolo del 1992. Nello stesso museo, una mostra del realista magico italiano Cagnaccio di San Pietro (1897-1946) dà il dovuto riconoscimento a questo pittore modesto ma appassionato. Altre mostre monografiche comprendono la maestria nascosta di Martial Raysse a Palazzo Grassi, le tele materiali, a mattoni e minimali di Sean Scully a Palazzo Falier e una retrospettiva dei dipinti astratti di Charles Pollock (il fratello maggiore di Jackson) della collezione Peggy Guggenheim. A Palazzo Tito, le narrative interrotte dipinte dallo scozzese Peter Doig rivelano
il suo ricorrente uso del triplice motivo “cielo-barca-mare”. Come il suo amico Chris Olfili, Doig ora vive a Trinidad. Si è parlato molto del fatto che durante la stessa settimana nella quale la mostra personale di Doig è stata inaugurata a Venezia, “Swamped”, il suo dipinto del 1990 di una canoa, è stato venduto all’asta a New York per 26 milioni di dollari, il che significa che come valutazione dei quadri Peter Doig ha ora il dubbio onore di essere più costoso rispetto a Damien Hirst. Chiaramente, il pittore di successo del 2015 è Adrian Ghenie (classe 1977). Nel padiglione della Romania, “Darwin’s Room” si inserisce nella sua serie di funerei autoritratti e di ritratti dell’artista nelle vesti del naturalista inglese Charles Darwin, ma anche nell’esplorazione squisitamente personale di Ghenie della storia del ventesimo secolo. È quello che l’artista chiama un “laboratorio dell’evoluzione” espanso (“laboratory of evolution”). Questo include corposi ritratti ispirati da Duchamp, Lenin e Hitler, ma anche dipinti di lupi in una foresta
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All’esposizione Proportio, opere d’arte antica e contemporanea si inseriscono magicamente nell’ex laboratorio dell’aristocratico veneziano Mariano Fortuny, con veli trasparenti dell’artista norvegiese Anne-Karin Furunes.
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Universalmente elogiato come uno dei punti forti della Biennale, Chiharu Shiota ha trasformato il padiglione giapponese in un mare di metafore con la sua installazione mozzafiato The Key in the Hand. Vecchie barche di legno sono avvolte di nuvole di fili rossi sospesi dal cielo, ognuno dei quali legato a una chiave. Sono chiavi per i ricordi, per la felicità o per aprire il cuore?
invernale, e grosse piante carnivore. John Akomfrah del Ghana ruba la scena al padiglione centrale nei Giardini con Vertigo Sea (1915), una videoinstallazione a tre canali che si confrontano con un suono esplosivo. L’artista crea un’accattivante narrativa affiancando scene orribili e bellezza terribile: test nucleari nel Pacifico a fianco alla scintillante Aurora Boreale, rifugiati vietnamiti su navi che affondano vicino a un film sull’aerodinamica perfezione di un lucente squalo. Il lavoro di Akomfrah parla della disumanità dell’uomo, dell’intensa bellezza della natura, e del potere della suggestione. Ma in qualche modo, attraverso tutta la politica e le scienze sociali, sembra essere la sana ecologia il tema dominante di questa Biennale. L’albero è un motivo ricorrente, appare come un’icona isolata nei padiglioni di Francia (tre pini motorizzati di Celeste Boursier-Mougenot) e Finlandia (un’animazione climaticamente controllata, molto oscura del duo artistico IC-98). Diventa parte GENIUS PEOPLE MAGAZINE
di un più grande e più complesso studio delle strutture fugaci e intricate “cucite” negli alberi dei giardini dell’Arsenale da parte dell’americana Sarah Sze. In una delle sue estrose video-vignette nella mostra principale di Enwezor, Samson Kambalu (nato a Malawi, vive a Londra) fa finta comicamente di portare un albero come dimostrazione di una forza sovrumana in una foresta altrimenti poco interessante. Nel frattempo, a galla nel Canal Grande in un’ode all’ecologia surreale, un albero di ulivo vecchio 2000 anni riprodotti in alluminio bianco dall’artista svizzero Ugo Rondinone introduce lo spettatore all’opera Vita vitale. Questa mostra collettiva si rivolge direttamente alle preoccupazioni ambientali come parte del padiglione dell’Azerbaigian alla Ca’ Garzoni. Per questo spettacolo basato sulle specie a rischio e sull’inquinamento, l’artista olandese Bas Princen (1975) ha fotografato “Garbage City” all’estremità orientale del Cairo, una zona periferica degradata dove si ricicla la plastica 150
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in quella che una volta era una cava di arenaria, dalla quale erano scavate alcune delle pietre per costruire le piramidi. L’acqua, una preoccupazione costante a Venezia, sembra essere il logico argomento per concludere. La repubblica siriana è rappresentata dall’artista albanese Helidon Xhixha, che ha costruito un finto ghiacciaio sull’Isola San Sevolo, poi ha rimorchiato una chiatta con un iceberg dall’aspetto realistico fatto di acciaio attraverso i canali della città. Il brasiliano Vik Muniz ha usato materiali bizzarri e scale alterate per produrre Lampedusa, una barca della grandezza di un tradizionale vaporetto veneziano, ma fatta di carta dei quotidiani. È un intenso ricordo della tragica vicenda dei profughi nel Mediterraneo, in un impianto che galleggia con leggerezza non lontano da Piazza San Marco. L’importanza dei confini etici e naturali è forse analizzata al meglio nel
padiglione della piccola nazione equatoriale di Tuvalu. Sospesi sopra una piscina di nebbia, dei ponti di legno sono stati costruiti dall’artista Taiwanese Vincent J.F. Huang a pelo d’acqua. Gli squarci nei passaggi fanno sì che l’acqua filtri attraverso ogni volta che un visitatore attraversa il ponte , simulando la marea che si alza. Come valutazione della relazione di arti e artisti allo stato attuale, è un commento sintetico al tema generale “All The World’s Futures” (tutti i futuri del mondo). Mentre Tuvalu affronta gli incerti effetti del cambiamento climatico globale, la massima sofferenza per i visitatori della Biennale consiste in un paio di scarpe fradice.
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Inverso Mundus del gruppo russo AES + F al Magazzino del Sale include una performance di un gruppo di attori vestiti da pigri poliziotti che si sdraiano come in un harem su un letto arabo. Nel frattempo, una videoinstallazione multicanale proietta su uno schermo grande come una piscina olimpica scene di potere, sessismo, corruzione e disorientamento, con vecchi pugili che picchiano ragazzine, donne che legano modelli a tapis roulant, e saccheggiatori che combattono poliziotte.
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SPECIALE BIENNALE
Renato Grome: l’oculus photographicus
La ricerca artistica nell’ambiguità delle certezze
Di MARTINA VOCCI
Piegare il mezzo fotografico alla propria visione, inventando e interpretando di volta in volta le tecniche dello strumento per antonomasia più fedele alla realtà, distorcendo e, con un’espressione cara allo scrittore Italo Calvino, sfogliando il “carciofo della realtà” di tutte le sue foglie per giungere al cuore della percezione e della sua ambiguità: il confine tra verità e menzogna, tra bellezza e brutalità non esiste - e se c’è è molto più sfumato di quanto crediamo. Così si potrebbe riassumere sommariamente l’arte di Renato Grome, il fotografo e artista nato a Roma, di cultura inglese e formatosi tra la capitale e Londra. Da più di quindici anni espone in musei e gallerie sparse per tutto il globo, dopo una vita sempre con la valigia in mano alla scoperta di nuovi mondi e nuove ispirazioni. GENIUS PEOPLE MAGAZINE
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Renato come sei arrivato alla fotografia? Ho iniziato a fotografare a 11 anni. Possiedo ancora i miei primi due rullini e le relative stampe e trovo che siano ancora valide. Da quel momento in poi non ho mai lasciato la fotografia. Il mio percorso è iniziato crescendo circondato da bravi artisti, autori e registi. La fotografia è sempre stata il migliore sbocco per la mia creatività. Quali sono i tuoi maestri? Ho tratto ispirazione da diversi tipi di artisti, alcuni dei quali mi hanno colpito per la loro originalità e il loro coraggio, come il fotografo Erwin Blumenfeld, l’artista Rene Magritte e il genio camaleontico David Bowie. Ma tutto è iniziato - la mia visione se vogliamo chiamarla così - da giovane con l’immagine di Santa Lucia martire, ritrattata con gli occhi che ti osservano da un piatto. Ai tempi di questo fertile periodo lavoravo come fotografo d’arte con l’immagine di Santa Lucia e più avanti come restauratore in uno famoso studio di Roma, dove ho avuto anche la fortuna di lavorare su un quadro di Caravaggio.
Dall’iperrealismo del gruppo di statue di marmo, bronzo e granito di Vanessa Beecroft (in basso) allo stilizzato simbolismo di una figura solitaria di Mimmo Paladino (pagina a fianco) entrambi nel padiglione italiano, la difficoltà dell’uomo è presentata in tre dimensioni.
La serie fotografica che ti ha consacrato nel mondo artistico è stata Seduce in cui hai immortalato un soggetto reso classico da Robert Mapplethorpe con la tecnica all’inverso (è giusto, vero?). Cos’è questa tecnica fotografica? Forse l’ispirazione è venuta dalla stessa fonte da cui l’ha presa Mapplethorpe, quindi
non proprio Mapplethorpe ma il fotografo Karl Blossfeldt. Nelle serie Seduce la scelta dei fiori inizia dall’immaginare cosa potrebbero interpretare una volta sviluppati nel mio processo negativo/positivo. Per quanto riguarda la tecnica fotografica è la tradizionale analogica con pellicola diapositiva su un’amata Hasselblad. Non c’è alcuna postproduzione digitale. I fiori vengono sospesi in una grande scatola nera costruita su misura: il primo passaggio è il fiore fotografato sullo sfondo nero, poi viene sviluppato e la fotografia stampata a mano. Considerato che sviluppo in analagico - la tradizionale stampa da negativo - a quel punto interviene l’inversione da negativo, con valori tonali invertiti. Faccio un negativo sulla pellicola in positivo e poi stampo a mano come se fosse una pellicola normale. L’inversione positivo/negativo inizia nella mente, nel modo di vedere e comprendere il soggetto. Il messaggio è «È la foto di un fiore, ma non lo è». Qual è stata la tua ispirazione? Da sempre nella vita cerchiamo certezza e definizione. Io uso lo strumento della fotografia per investigare e guardare alle multiple percezioni della verità, utilizzando il massimo “strumento di verità” per creare e riprodurre il reale e il non reale. Il vero e il non vero, confondendo e sfumando le linee di demarcazione. Cerchiamo di essere sicuri, ma nulla è mai certo. I fiori ritornano anche nel recente lavoro Hypernature, in cui però si sono materializzati anche gli insetti in dei meravigliosi still-life, che catturano e fissano l’attimo. Che cos’è per te la fotografia? La serie Hypernature è ispirata dalla cosiddetta “bio-filosofia” del grande biologo Jonas Salk che racconta la natura distruttiva dell’uomo e la lotta dell’umanità contro la natura. Dal punto di vista iconografico il riferimento è alle nature morte classiche fiamminghe, con gli accostamenti di still-life impossibili, e dietro c’è la volontà di creare immagini con un’attualissima visione moderna usando un linguaggio antico. Gli specchi invece rappresentano il tempo e l’eternità. È un binomio di bellezza e distruzione, di vita e morte. In tutta la
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RENATO GROME
serie vita e morte coesistono: da una parte tutte le immagini della serie Hypernature sono popolate anche da scheletri, alcuni sono più discreti, altri invece dominano rendendo l’opera più inquietante e intimidatoria; dall’altra ci sono sia insetti vivi che morti, quelli amati dalla tassidermia. Lo stesso vale per i fiori, sia veri che finti, di plastica o di seta. Questa coesistenza aggiunge una sfumatura di ambiguità alla bellezza apparente della natura morta. Una delle fonti di inspirazione sono righe della “bio-filosofia” di Jonas Salk, l’eroe che inventò il vaccino contro la poliomielite e che poi scelse di non brevettarlo per poter curare più gente possibile. Jonas Salk disse: «Se tutti gli insetti scomparissero, in soli 50 anni morirebbe tutta la natura. Se invece fosse l’essere umano a svanire, in solo 50 anni tutta la natura prospererebbe». Quindi Hypernature è una messa in scena del post apocalittico, con la natura che fiorisce sopra l’essere umano. Always forever invece ha come soggetto la città, distorta dalle lenti e il cui effetto finale è una gigantesca bolla in cui fluttuano elementi del paesaggio scomposto. Tu hai vissuto in molte città, adesso vivi a Roma, la città eterna. Qual è il tuo rapporto con la città, anzi con la metropoli? Amo e odio le città. Le migliori sono quelle con la giusta dinamicità. Roma è come l’amore: uno dei più belli, ma anche un duro lavoro. Un’altra costante del tuo lavoro è il tema del riflesso e della scomposizione, che ben si combinano con un altro tema fondamentale della (post)modernità: l’identità. Tu sei nato a Roma, ma sei di cultura inglese, devi il tuo nome al celebre artista italiano Renato Guttuso, tuo padrino, che ha lungamente vissuto in giro per il mondo. Secondo te, che cos’è l’identità? Non è una domanda facile. La risposta più semplice è che l’identità si trova guardandosi dentro, a fondo, il più onestamente possibile, senza paura. Considerando il bene e il male. Spesso tu dici che il tuo lavoro artistico nasce dalla ricerca di te stesso. Puoi
spiegarmelo? Io la definirei una ricerca personale, non una ricerca di me stesso. La mia intenzione è cercare e raccontare storie su come vedere e comprendere attraverso la mia prospettiva. Una prospettiva inventata perché quello che cerchiamo tutti, la certezza, in fondo non esiste. E io amo usare un potenziamento della certezza, della verità/realtà - la fotografia - per raccontare che esiste ma solo come illusione. Se il tuo lavoro artistico parte dal bianco e nero, poi sei approdato a un colore pieno, saturo, quasi meravigliosamente vivo. Ma com’è stato il tuo incontro con il colore? Il mio lavoro è costruito sulla stratificazione e sull’ambiguità. Il primo livello è il fascino della bellezza, poi studiando da più vicino ci sono il mistero e l’oscurità. Come nella vita ci sono il bene e il male: uno non può esistere senza l’altro. Dei giornalisti si dice «una volta giornalista, sempre giornalista». Vale anche per i fotografi? Questo dipende di più dalla personalità che non dalla strada che si sceglie. In chiusura, posso chiederti quale consiglio daresti a un giovane fotografo? Segui il tuo cuore. Sii coraggioso. Vai a fondo. Niente è originale. Quando cerchi la ispirazione vai a fondo e guarda alla fonte da cui deriva.
RUBRICA
Frammenti sublimi di un tempo lontano Igor Mitoraj e la tradizione classica Di RICCARDA GRASSELLI CONTINI MARTINA VOCCI
Quanti si sono trovati a provare emozioni contrastanti davanti a una grande opera del passato classico? Se da una parte, infatti, la nobile semplicità e la quieta grandezza dell’antico - parafrasando al celebre affermazione di Winkelmann, edle Einfalt und stille Größe - esercitano allo stesso tempo nello spettatore una sensazione di estrema armonia e sontuosa bellezza, dall’altra essi si uniscono alla malinconia suscitata dai secoli che sono passati tra la loro realizzazione e la contemporaneità a cui tali opere appartengono. Lo scorrere del tempo rende incolmabile la distanza tra noi e il mondo a cui i levigati marmi sono appartenuti. L’insieme di attrazione e timore appartiene al mondo del sublime, un mondo che ci dischiude, nella sua vastità, anche nell’opera dello sculture Igor Mitoraj in una profonda riflessione sul rapporto tra il (post)moderno e la classicità.
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Questa la poetica più profonda ed eloquente delle opere dell’artista di origine polacca, cresciuto tra Cracovia e Parigi e trasferitosi alla fine degli anni Novanta in Toscana. La parabola di un uomo dalle origini miste e di una squisita sensibilità artistica, onorata con il duro impegno e il rigore del grande genio tra le Accademie di Belle Arti di Cracovia e la Scuola superiore nazionale di Belle arti di Parigi. La sua prima personale si svolse a Parigi nel 1976, momento in cui dopo una formazione poliedrica decise di dedicarsi esclusivamente al suo maggior talento: la scultura. Poi alla fine degli anni Ottanta, Mitoraj scopre l’Italia e si trasferisce a Pietrasanta sulla costa toscana ai piedi delle Alpi Apuane, un luogo di approdo naturale per uno scultore che da sempre fa dei materiali e della loro sapiente rielaborazione il perno fondante della sua riflessione artistica. L’interpretazione del frammento, la malinconia della distanza irriducibile di tutto ciò che è andato perduto nei secoli della tradizione, eroi indecifrabili che hanno letteralmente perso pezzi lungo i sentieri della civiltà e sono giunti a noi bendati, senza bulbi oculari, fasciati e ricomposti in una sorta di immaginario surrealista che stimola continui interrogativi. L’eroe del mondo antico giunto mutilo sino ai nostri giorni rappresenta l’archetipo dell’antichità ed è testimone dell’inesorabile scorrere del tempo e di quella decadenza dei costumi e
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Nella pagina a fianco da sinistra: “Ikaro Blu”, 2013, bronzo, foto di Giovanni Ricci-Novara; “Sulla Riva II”, bronzo, 74 x 56 x 58 cm
della moralità che lo porta ad essere spesso un eroe bendato. Per rendere omaggio al grande artista, recentemente scomparso, e in contemporanea con la Biennale di Venezia, la galleria Contini nella sua sede di Calle XXII marzo a Venezia ha allestito un Omaggio a Mitoraj per ripercorrere le tappe del suo lungo percorso artistico che rimarrà aperta fino al 30 novembre. Mentre nel paese in cui l’artista ha scoperto nel 1979 quel marmo che caratterizzò tutta la sua produzione, Pietrasanta, fino al 30 agosto sarà visitabile la mostra Mito e Musica, in cui oltre alle opere di grande dimensioni sono esposti i bozzetti per le scenografie di Manon Lescaut e della Tosca realizzate da Mitoraj nell’ultimo periodo della sua vita.
In questa pagina dall’alto: “Bocca bianca”, 2005, marmo di Carrara, 78,5 x 138 x 61 cm; “Testa di Ikaro bendata”, bronzo, 78 x 45 x 43 cm.
In anteprima assoluta per i lettori di Genius People Magazine inoltre, vi annunciamo che il 29 aprile 2016 verrà inaugurata a Pompei l’importantissima mostra di Igor Mitoraj, in cui le sue sculture verranno esposte nel sito archeologico riprendendo così quei frammenti di dialogo spezzati tra il passato congelato ai piedi del Vesuvio e le vive opere dell’artista, che, prima di scomparire lo scorso 6 ottobre, aveva iniziato a lavorare al progetto insieme al Ministro della Cultura Dario Franceschini. NUMERO 03/04
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COLOPHON
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Biozoom Genius Editorialisti e autori
Valentina Bach Ligure, ex studentessa del Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico 1989-91, è laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Gorizia (Università di Trieste), ha lavorato dal 1996 per la Scuola di Pubblica Amministrazione (LU), dal 1997 al 2002 per Consiel S.p.a., Management Consulting e Formazione come responsabile dei progetti per la Pubblica Amministrazione. Ritornata al Collegio del Mondo Unito (UWC Adriatic) nel 2002, è stata Direttore Progetti Europei, e poi Direttore Development & Communications, con il compito di sviluppare la raccolta fondi dal settore privato. Dal 2013 ha anche l’incarico di Segretario Generale.
Vittorio Sgarbi È nato a Ferrara. Laureato in filosofia con specializzazione in storia dell’arte presso l’Università di Bologna. Ha insegnato storia delle tecniche artistiche presso l’Università di Udine (1984-1988) e storia della fotografia presso l’Università di Bologna (1974-1978). Critico e storico dell’arte, ha curato numerose mostre in Italia e all’estero ed è autore di saggi e articoli. Collabora con “Bell’Italia”, “Il Giornale”, “L’Espresso”, “Panorama”, “Restauro & Conservazione”, “Oggi”, “Arte e Documento”. È funzionario – storico dell’arte direttore coordinatore – assegnato alla Soprintendenza ai beni artistici e storici di Venezia. Saggista e conduttore televisivo.
Fabio de Visintini Figura eclettica in un’epoca di transizione, dove si parla di innovazione ma, troppo spesso, le cose cambiano solo nelle apparenze. Consulente e docente di Comunicazione, Marketing e Innovazione, in precedenza manager in ambito pubblico e privato, giornalista, fotografo e pittore, oggi si dedica, da imprenditore, a un suo progetto d’innovazione che recupera la cultura degli inizi, quella di farmacista prima e aromatiere poi: creme di cioccolato eccellente emulsionate in acqua, senza conservanti, olio di palma e tutti gli altri orridi ingredienti del junk food.
Jonathan Turner Ha collaborato con Genius dall’inizio e ora è esperto d’arte del magazine e corrispondente indipendente. Di origine australiana, vive a Roma. Curatore d’arte, critico e consulente culturale, ha organizzato più di 400 mostre in musei e gallerie di tutto il mondo, con artisti come Pierpaolo Calzolari, Marlene Dumas, Pierre et Gilles, Robert Mapplethorpe, Francesca Martì, Tracey Moffatt, Erwin Olaf, Cristiano Pintaldi, Fred Sandback e molti altri. Dal 1993, ha collaborato con la Biennale di Venezia per i padiglioni di Australia, Italia, Belgio, Malta e Paesi Bassi ed è parte del comitato esecutivo di Aperto.
Oliver Fabi Architetto e project manager, lavora nel campo dell’architettura e dell’edilizia. Nato a Trieste si laurea in architettura e in architettura per la città all’Università IUAV di Venezia dopo esperienze universitarie e professionali in Inghilterra. Consegue poi un master in Project Management all’Università di Trieste. Appassionato di architettura, costruzioni, design d'interni e del mondo del cibo. Nel suo curriculum ci sono progetti e realizzazioni di interni, progetti residenziali e progetti commerciali sia in Italia che all'estero e collaborazioni
Francesco Venier Francesco Venier è Direttore della divisione Executive Education di MIB School of Management dove dirige anche l’Executive MBA e disegna le attività di formazione su misura della Scuola. Professore universitario di organizzazione aziendale presso l’Università di Trieste. Research fellow presso la Warwick Business School lavorando con Andrew Pettigrew. I suoi interessi di ricerca spaziano dall’imprenditorialità, l’innovazione e il rapporto tra tecnologia e management, temi sui quali ha pubblicato i suoi ultimi lavori a livello internazionale per Management e IGI global e a livello nazionale con Franco Angeli.
Antonio Masoli Dopo la laurea in ingegneria meccanica con il massimo dei voti, vince il premio per il secondo classificato nel concorso ANIMP per la tesi sulla modellazione di inquinanti. Acquisisce una notevole esperienza nella progettazione e nella direzione lavori di impianti complessi, con particolare riguardo a quelli che utilizzano fonti rinnovabili, ottenendo diverse abilitazioni. Fonda con altri la Società d’Ingegneria Masoli Messi, di cui è amministratore e direttore tecnico. Delegato AICARR per la regione Friuli Venezia Giulia e componente della Commissione Energia e Impianti dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Trieste. Docente in materia di energia ed impianti e autore di alcune pubblicazioni in materia. È appassionato di vela e di cucina.
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