Alessandro Borghese - Il lusso della semplicità

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Issue 8 spring / summer

2017

Editoriali/

Editoriali, Moda, Food, Cinema, Fotografia, Architettura, Innovazione, Economia, Viaggi, Sport

Fabio de Visintini, Stefano Fontana Matteo Macuglia, Gianfranco Battisti, Giordano Riello

ALAJMO EATALY JAEGER-LeCOULTRE CORTINAMETRAGGIO OSCAR FARINETTI ALESSANDRO PREZIOSI MARIA GRAZIA CUCINOTTA VITTORIO SGARBI GALLERIA CONTINI MASERATI CARLA TOLOMEO MICHELE BRAGA VELVET MEDIA MASSIMO FASOLI Intervista

Il Lusso della semplicità

9 772420 888001

10,00€

Chef Alessandro Borghese: il talento che dà la regola all’Arte.





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Index

Made in Italy forever di FABIO DE VISINTINI

editoriali

p. 8/9

Platone amava i fichi secchi e le olive di STEFANO FONTANA

p. 10/11

I muri non se li è inventati Trump di MATTEO MACUGLIA

p. 12/13

La crisi della globalizzazione e la misticazione del proibizionismo di MATTEO MACUGLIA

p. 14/15

#Made in Italy detto in italiano Fatto in Italia di GIORDANO RIELLO

p. 16

La fine di un'illusione il risveglio del " Boss" di GIANFRANCO BATTISTI

moda

1

p. 17/18

Sartoria Fragomeni di REDAZIONE GENIUS p. 20/21 Griffe Concept Store di MATTEO ZANINI p. 22/25

food

Chapter two

Il populismo al tempo della sovranità post-nazionale di MATTEO MACUGLIA

Chapter one

p. 27

EATALY, la centralità dell'eccelenza italiana di MATTEO MACUGLIA

p. 28/35

Alessandro Borghese " La rivoluzione di Chef Borghese" di ANNA MIYKOVA

p. 36/37

CHEF Alessandro Borghese " Il lusso della semplicità" di ANNA MIYKOVA

p. 38/43

ALAJMO "Attenti a quel duo" di ISABELLA SCUDERI

p. 44/53

Ilario, un imprenditore in bretelle di CLAUDIO SARTOR

p. 54/58

PAVONI di REDAZIONE VELVET MEDIA

p. 60/63

2

Quando la passione parla, il resto tace. di REDAZIONE GENIUS p. 66/69

fotografia

3 Chapter four

cinema

Tripla intervista, stesso tema, diversi punti di vista di REDAZIONE GENIUS: Alessandro Preziosi p. 70/72

Chapter three

Maria Grazia Cucinotta p. 73/74 Michele Braga p. 75/76

"Chi sono? Un ragazzo fortunato" Marino Sterle di MATTEO ZANINI

p. 81/89

AFRICA di NOEMI COMMENDATORE

p. 90/93

"L'illusione del limite attraverso la fotografia" Giuseppe Ghedina di MATTEO MACUGLIA

p. 94/99

Genius People Magazine / Issue 8

4


VIII Intervista al Professor Vittorio Sgarbi di MARIAISABELLA MUSULIN p. 101/103 "Le stanze segrete di Vittorio Sgarbi" di PIETRO DI NATALE p. 104/106

architettura

7

economia

Chapter eight

innovazione

5 Chapter six

arte

focus

9

"Le Stanze Triestine di Vittorio Sgarbi e altre stanze da Nathan a Morandi" di VITTORIO SGARBI p. 107/111 "Quando entrare, quando uscire" di RINA CAVALLINI p. 112/115

Chapter five

CARLA TOLOMEO "Prego si accomodi!" di REDAZIONE VENEZIA p. 116/119 Francesco Bernardini di REDAZIONE VENEZIA p. 120/122

Intervista all'Architetto Giulio Paladini, socio-fondatore del Studio Metroarea di FRANCESCO LA BELLA

p. 124/135

6

Atmos 568 by Marc Newson "Purezza e semplicità del Tempo" di JAEGER-LeCOULTRE p 138/145

Il Ceta è legge. Costi e benefici dell'accordo agroalimentare di MICHELE ZACCARDI

p. 148/149

Sono quello che i giornali, con garbo, chiamano "EXPAT" di STEFANO CERGOL

p. 150/153

Chapter seven

8

Goriziana Caffè di GORIZIANA CAFFÉ p. 157/159 Intervista "Maserati" di REDAZIONE VENEZIA p. 160/163 Intervista a Massimo Fasoli (Gioielleria Fasoli) di REDAZIONE VENEZIA p. 164/168 Velvet Media - Intervista a Bassel Bakdounes di VELVET MEDIA p. 170/175

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Chapter nine


COLOPHON - Issue 8

Edito da

Fotografi

Velvet Media Italia srl ISSN 2420-8884 Aut. n. 1233 del 09/03/2011 del Trib. di Trieste

Noemi Commendatore, Luca Tedeschi, Nicholas Bracco, Marino Sterle, Giuseppe Ghedina

Traduzioni Direttore Artistico

Redazione Velvet Media

Nicholas Bracco

Fotografi 2015/2016/2017 Editorialisti Fabio de Visintini, Matteo Macuglia, Stefano Fontana, Giordano Riello, Gianfranco Battisti

Alice Noel Fabi, Marino Sterle, Noemi Commendatore, Luca Tedeschi, Nicholas Bracco, Marino Sterle, Giuseppe Ghedina, Alberto Buzzanca, Mario Pampel

Contributo

Direttore Artistico 2015/2016

Collaboratori grafici

Marco Gnesda

Alice Micol Moro, Piero Ongaro, Marco Pignat, Daniele Redivo, Fabio Santarossa, Nicholas Bracco

Direttore Responsabile Francesco La Bella

Direttore Artistico 2016/2017 Nicholas Bracco

Caporedattore Anna Miykova

Fondatore Francesco La Bella

Redazione Genius People Magazine

Stampa Sinegraf Doo Vrbjie 80 3310 Žalec - Slovenia

MARKETING & COMMUNICATION Mariaisabella Musulin Alessandra Pezzin

Sviluppo Web Velvet Media Italia

Le firme su GPM 2015/2016 / 2017 Francesco Chert, Vittorio Sgarbi, Valentina Bach Francesco Chert, Riccarda Grasselli Contini, Luca Delle Donne, Alice Noel Fabi, Oliver Fabi, Gabriele Gerometta, Sarah Gherbitz, Nicolò Giraldi, Renato Grome, Daniela Kraler, Franz Kraler, Enrico Denich, Biagio Liotti, Matteo Macuglia, Anna Miykova, Pier Emilio Salvadè, Bettina Todisco, Martina Vocci, Francesco Venier, Giuliano Urbani, Jonathan Turner, Gianfranco Battisti, Giordano Riello, Pietro Di Natale

Contatti Genius Sede centrale

Redazione Venezia

Velvet Media Via Delle Querce, 7 31033 Castelfranco Veneto TV - Italy tel.: 0423 722113 - 420318 C.F. e P.I. 04755200286 email: info@velvetmedia.it web: www.velvetmedia.it

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Web magazine www. genius-online.it n. 3151/14 VG del registro elettronico informatico

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editoriali 8

made in italy forever

di FABIO DE VISINTINI

stato un tempo in cui indossare abiti firmati da un sarto francese rendeva unici, come degustare un vino francese o la cucina dei grandi chef. Fuggire dal provincialismo era un segno distintivo, lasciava intendere che si aveva la possibilità di viaggiare e vedere il mondo con i suoi costumi e abitudini diverse. Il Sushi e il Kobe in Giappone, i Macarons a Parigi, il Caviale nel Mar Nero... Il tempo è trascorso e la possibilità di viaggiare low cost in aereo o addirittura gratis su internet, ha tolto l'esclusività, aprendo però ad orizzonti possibili per tutti. Le grandi catene, poi, hanno internazionalizzato ogni sorta di merceologia, compreso il cibo, offrendo sushi nei supermercati e pizza o kebab in ogni angolo della terra. Persino le aziende rampanti hanno considerato provinciale assumere personale in loco, preferendo le piazze milanesi, con i “cacciatori di teste” in grado di reperire le migliori risorse sul mercato globale. Era un passaggio che si doveva fare, un'integrazione di razze, lingue, religioni, accanto ad un'inevitabile omogeneizzazione di pensieri, usanze, cibi. Da questo fantastico mix qualcuno ha guadagnato e qualcuno avrà pur perso qualcosa: per esempio le aziende assumono spesso mercenari di passaggio, interessati a sé stessi più che all'azienda storica della loro città. Se invece ci riferissimo alla cucina, Paesi senza storia e tradizione, ma anche privi di gusto e piacere per la tavola, hanno assunto un rango in tempi rapidi, a discapito di altri. Così la geniale pizza, oggi, ha il suo regno in Brasile, che annovera la maggior concentrazione di pizzerie al mondo, mentre gli USA, con le grandi catene in stile Pizza Hut (tipo 12.000 punti vendita nel mondo), si vantano di aver portato la Pizza americana (?!) in cento Paesi! Forse in Italia ci siamo fatti sfuggire qualcosa... Però in cambio abbiamo importato da loro milioni di Hamburger scadenti, irrinunciabili ormai per i nostri figli, ancor

C'è

più legati dei padri al grande Sogno americano e all'influenza dei relativi costumi per mille aspetti della vita quotidiana, dall'abbigliamento alle bibite, dal linguaggio (slang) al modo di salutarsi per strada... Tutti americani, tutti esterofili! Affondiamo il colpo: sapete qual è l'automobile più conosciuta e amata al mondo, il sogno che accomuna la gran parte dello stesso? La Ferrari, è facile. Ma sapete qual è invece l'automobile-desiderio degli italiani? La Porsche, ovviamente, o comunque un'auto tedesca! Volendo potremmo fermarci qui: un problema serio dell'Italia e del suo declino sono gli italiani tutti, non la classe politica o dirigente soltanto! Siamo noi che non ci fidiamo di noi stessi, che non studiamo la nostra cultura e non l'apprezziamo, noi che a questo mondo abbiamo dato tutto tra arte, cultura e buongusto, quando ancora dal Nord scendevano barbari devastatori e oltre oceano erano ancora all'età della pietra. Accennare alla creatività, il gusto, la genialità degli italiani è oggi argomento riservato ai foresti, dato che noi mandiamo i figli all'estero a studiare grigia e tetra finanza anglosassone, nella speranza che non ritornino nel Bel Paese in rovina. E restano stupiti, gli stranieri stessi, della nostra mancanza d'orgoglio di appartenenza, dato che siamo spesso il motivo della loro invidia. Torniamo al cibo. Il Gastronauta Davide Paolini, attento analista dei consumi alimentari su Radio 24, osserva il boom della cucina spettacolarizzata in Tv a tutte le ore o su internet, con 25.000 blog, per un totale di 35 milioni di persone in contatto. Parallelamente riscontra una discrasia nel calo della spesa alimentare degli italiani e la chiusura di 10.000 ristoranti nell'ultimo anno. Un po' come se ci accontentassimo della “rappresentazione” del cibo, più che della sua sostanza, dell'esercizio di tutti i sensi, a cominciare da quelli che al monitor non si esercitano. Il cibo che suscita interesse, in sintesi, si concentra più sull'apparenza e la conseguente

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editoriali 9

necessità di stupire, che sulla sostanza. Eppure la cultura enogastronomica, per l'Italia, può essere un'opportunità economica primaria, qualora decidessimo di investire, un po' come per il turismo: entrambe risorse che diamo talmente per scontate da non prestarci attenzione. Primati assoluti che stiamo perdendo in favore di altri che vantano molto meno in risorse naturali e storiche, ma non certo in competenza, intraprendenza, capacità di fare mercato. Persino d'esser più furbi degli italiani. Trump, personaggio assurdo per molti aspetti, ha vinto le elezioni incitando gli americani a rifare grande l'America e basta: che il resto del mondo si arrangi. Messaggio in controtendenza con la globalizzazione, potrebbe pensare qualcuno, ma cosa stanno facendo da tempo i tedeschi o i francesi, europeisti quando va bene o gli inglesi? Forse il loro Presidente o la loro Polizia andrebbe mai in giro con automobili italiane, anche se fossero Maserati? Impossibile... Noi invece sì, che sia spirito europeista o sfiducia nel proprio Paese, come un nostro Presidente del Consiglio che (vantandosene e generando mille altri emuli) ha sempre viaggiato su auto tedesche e snobbato le italiche. Un grande esempio. Sarebbe bello avere l'orgoglio d'essere italiani e sostenere la produzione in Italia, anziché lamentarsi del lavoro che manca per i giovani e contemporaneamente sostenere i costi delle diffuse casse d'integrazione. Sarebbe bello imparare a scuola la cucina italiana, i vini e capire da subito il valore vero e non quello ricco di orpelli, ma privo di profumi e sapori, della Tv o della rete. Sarebbe bello conoscere le mille varietà di prodotti della natura e i mille modi di accoppiarli della tradizione italiana, tesoro che nessun altro possiede, tanto da essere un modello per chiunque oltre il nostro confine. Sarebbe bello avere l'orgoglio e la capacità di farne un brand con dei valori da raccontare e vendere... ma forse qualcuno ci ha già pensato e infatti Eataly è già un'icona mondiale ;-)

Foto "Torre di Pisa" (Web)

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platone amava i fichi secchi e le olive

di STEFANO FONTANA

Aristotele, il grande Stagirita, si dice che avesse una notevole quantità di pentole. Epicuro amava smodatamente il formaggio. Diogene era un naturista, come abitava in una botte, diceva che non serve un bicchiere per bere perché basta il palmo della mano e defecava ovunque si trovasse, così si cibava solo di frutti raccolti. A Zenone di Elea, quello di Achille e la Tartaruga, piacevano il miele, il vino e i fichi verdi. Il filosofo illuminista tedesco Immanuel Kant, usava molto la senape, voleva il pane di buona qualità e pretendeva che la carne fosse sempre tenera. Non era quel che si suol dire un mediterraneo: viveva nell'attuale Polonia, a ridosso del Mar Baltico. Egli soleva fare colazione alle cinque del mattino e poi faceva un solo lungo pasto giornaliero, conversando con altri e anche commentando i cibi che assumeva. Il filosofo francese Fourier era ghiotto di marmellate e Friedrich Nietzsche adorava il cioccolato, la cucina piemontese e in particolare le salsicce: ”Mangio da solo … ogni giorno una bella bistecca al sangue con spinaci e una grossa omelette (ripiena di marmellata di mele)… la sera qualche fettina di prosciutto, due tuorli d'uovo e due panini, e niente più”. E niente più… Il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein mangiava di frequente i fiocchi d'avena. Era austriaco, naturalizzato inglese. Jean Paul Sartre amava i salumi, odiava i crostacei e non voleva saperne dei pomodori. Il caposcuola del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, se la prendeva con la pastasciutta “assurda tradizione gastronomica italiana”. Bertrand Russel amava le pesche e le albicocche. Ludwig Feuerbach diceva che l'uomo è ciò che mangia, ma è piuttosto vero il contrario: l'uomo mangia in base a cosa e come è. La filosofia di un uomo – diceva il filosofo idealista tedesco Fichte - dipende da che uomo egli è. La cosa si può dire del cibo: il mangiare di un uomo dipende da che uomo egli è. L'uomo non mangia a caso, né mangia per nutrirsi. Nessuno mangia per sola necessità, per riempire lo stomaco, se non in situazione eccezionali e di emergenza. E' piuttosto il contrario: si nutre per mangiare e mangia per essere. Mangiare ha un fine che non è solo mangiare, l'uomo infatti, non fa niente che sia solo materiale. Tutto ciò che sembra materiale non è solo materiale. Tutto ciò che l'uomo fa è umano, egli fa tutto con tutto se stesso e non solo con il corpo. La gola e lo stomaco non sono solo strumenti e il gusto è, in fondo, una filosofia di vita. Karl Marx aveva scritto una cosa molto importante sul cibo: “La fame è la fame; tuttavia una fame che venga soddisfatta da carne cotta mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che vien placata da carne cruda mangiata servendosi di mani, unghie e denti. Mediante la produzione è non solo prodotta la materia del consumo, ma anche il modo del consumo; la produzione opera non solo sul piano oggettivo, ma anche su quello soggettivo. La produzione crea anche i consumatori”. Si mangia con gli occhi e non solo con la bocca: “Se mangio un dolce rosa, il suo sapore è rosa” diceva Sartre. Si mangia con la mente e non solo con la bocca. Ancora Sartre diceva che “Non vi è nulla, nemmeno nelle preferenze alimentari, che non abbia un senso” e che “Ogni cibo è un simbolo”. Nell'uomo la natura è sempre anche cultura. Marx sbaglia su un punto: anche quando mangiava con le mani, le unghie e i denti, l'uomo esprimeva già una cultura del cibo. La cultura non è un mero prodotto della produzione, è un fatto umano di cui anche la produzione poi si serve.I gusti vengono creati, le tendenze plasmate e quasi pianificate, le mode culinarie sono come quelle dei vestiti, le rassegne gastronomiche equivalgono alle grandi sfilate della moda

Di

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editoriali 11

parigina o milanese. La produzione produce non le cose da mangiare ma la loro simbologia. I ristoranti vendono immagini che non si possono mettere sotto i denti. A tavola ormai prevale l'estetica. Conta ciò che si vede, si tocca, si sente, si odora … più di quello che si mangia. Conta più dove si è piuttosto che cosa si fa. Con chi si è seduti al tavolo piuttosto che cosa c'è sul tavolo. L'essenza del mangiare è sempre il contemplare. Tutti i vini di eccellenza sono “da contemplazione”, ma anche un vino mediocre lo è in un determinato momento, in un certo contesto soggettivo e relazionale. E' vero, come diceva Marx, che la produzione dà anche le regole di atteggiamento, produce visioni e suscita attese simboliche: plasma non solo le cose da consumare, ma anche il consumo e soprattutto i consumatori. Ma lo può fare perché l'uomo è cultura, pensa sempre, anche quando mastica, si immagina sempre, si proietta e si progetta, in altre parole trascende sempre se stesso. L'uomo non è mai là dove lo vedi e lo trovi, è sempre più avanti. “Lo spirito tedesco – scriveva Nietzsche – è un'indigestione, non assimila nulla”. Giudizio spietato, a dire il vero, ma anche impossibile. Tra la cultura della nazione e il cibo c'è una stretta relazione: ogni popolo è il suo cibo, ogni cibo esprime il suo popolo. Ciò vale non solo per i sopravvalutati francesi o per i sottovalutati inglesi, o per gli ipervalutati italiani, ma anche per gli snobbati tedeschi. Anch'essi hanno la loro cultura in cucina: amano bere molto dopo mangiato, prendono la minestra prima del pranzo, rendono le verdure grasse e farinose e conducono i dolci alla degenerazione. E' la loro cultura. Essa è come essi sono, e sarebbe un guaio distruggerla solo perché la riteniamo inadeguata: “La cucina tedesca - continuava Nietzsche – cosa non ha sulla coscienza!”. E da Torino chiosava: “Sa Iddio come si chiamano in tedesco! Oggi ho mangiato gli ossibuchi”. Rousseau diceva che gli italiani, che mangiano molte verdure, sono effeminati; gli inglesi, che mangiano molta carne, sono barbari. Gli svizzeri sono freddi e pacifici quanto violenti e collerici e infatti amano sia il latte che il vino. Il francese è aperto a tutti i cibi e infatti è duttile e mutevole. L'uomo spiritualizza le cose e le cose sono lì apposta per essere spiritualizzate. Una cosa non è mai solo quella cosa, essa ci

dice sempre qualcosa in più di quello che è. Del resto la cosa conosciuta dall'uomo e vivente nella sua anima vale di più della cosa materiale stessa. L'uomo smaterializza le cose, ma per farlo non può che passare attraverso la loro materialità. Il cibo è fatto di cose materiali, gli “ingredienti” che si leggono nelle confezioni, ma l'uomo le smaterializza e, siccome mangia anche con l'anima, dona loro una nuova esistenza superiore. Certo: ci sono gradazioni. La cosa migliore è non essere né rozzi e laidi mangioni, né eterei speculativi. Nel primo caso si perderebbe il piacere dell'immateriale, nel secondo caso si fuggirebbe nell'immateriale perdendo i contatti con la corporeità di cui pure siamo fatti. L'uomo, diceva Platone, non è né bestia né angelo e questo si deve vedere anche quando mangia. Mangiare, quindi, è una battaglia per l'uomo, significa non prostrarsi davanti alla materia e far vincere lo spirito pur masticando e deglutendo – ossia facendo cose molto materiali e perfino meccaniche – ed anche ingurgitando brodi e minestre. Ma è anche non cedere completamente allo spirito che disprezzerebbe la materia. Scriveva Rousseau: “Un uomo cattivo che vivesse di solo brodo deperirebbe immediatamente”. Al contrario, i francesi rendono troppo sofisticati i loro cibi e non sanno essere semplici. Secondo Seneca, da quando il cibo non serve più a saziare la fame ma a suscitarla, qualcosa si è guastato. E' vero: bisogna mantenersi fedeli alla terra e nello stesso tempo salire in cielo. Mangiare non serve solo a nutrirsi, ma pensare di mangiare senza pensare anche a nutrirsi è una patologia. Mangiare solo per nutrirsi è pure una bassa patologia. Inseguire troppe sofisticherie con il piatto semi-vuoto è da snob senza più voglia di vivere. Ubriacarsi in una birreria ingurgitando senza posa salsicciotti imbevuti di maionese fino a stomacare è da animali. Tra le sofisticatezze chic e le sbornie grossolane c'è l'umanità del mangiare.

Foto "Platone" (Web)

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editoriali 12

di MATTEO MACUGLIA

i muri non se li è inventati

Trump barriere sono state una costante della storia dell'umanità. Nate come uno strumento di difesa, il loro motivo d'essere stava nel proteggere coloro che vi si rifugiavano dietro. Ancora oggi, nonostante l'estrema mobilità delle persone e delle merci garantita dalla globalizzazione, c'è chi pensa di costruire muri, rifacendosi a numerosi esempi del passato che però non sempre hanno avuto successo. Durante il periodo medioevale, le città-fortezza divennero dei punti di riferimento per la plebe delle campagne, unica ancora di salvezza quando la guerra infuriava devastando i villaggi e bruciando i campi. Tra gli esempi più riusciti del paradigma di muro difensivo ci sono sicuramente la Grande Muraglia cinese (215 a.C.) e il Vallo di Adriano (128 d.C.). Entrambi purtroppo non riuscirono nell'obiettivo che si ponevano, finendo per cadere sotto la pressione dei popoli aggressori. Questo probabilmente a causa della difficoltà da un lato logistica, legata alla realizzazione vera e propria di un'opera del genere e dall'altro organizzativa, in quanto dopo la costruzione del muro si rende necessario il suo presidio, inevitabilmente tanto più arduo quanto più lungo è il percorso. Una diversa fenomenologia è quella del celebre muro di Berlino, costruito in una sola notte, tra il 12 ed il 13 agosto 1961, al fine di prevenirne la fuga dei cittadini della filosovietica Repubblica Democratica Tedesca verso la più ricca Repubblica Federale Tedesca. Simbolo dell'era della Guerra Fredda, la sua caduta ben 28 anni dopo pose fine a quello che gli storici hanno soprannominato il Secolo Breve. Questo muro, anche grazie alle meraviglie della tecnica dell'epoca, fu piuttosto efficace, ed è possibile dire che riuscì sostanzialmente nel suo intento, bloccando con mine antiuomo, filo spinato e chilometri presidiati da mitragliatrici chiunque tentasse di attraversare. Merita di essere ricordato anche il muro nato nel 1953 tra le due Coree, all'altezza del parallelo numero 246, ancora oggi attivo e rappresentante la zona di demarcazione tra due paesi che de facto non hanno mai deposto le armi. Simbolo di un'altra tragedia moderna, tuttora in essere, sono le barriere che separano Israele dai territori palestinesi. Come nel caso coreano, anche questi muri sono costruiti con la speranza di contenere una minaccia esterna e, nonostante siano stati distrutti durante la seconda Intifada, hanno rivisto la luce nel 2002, per un totale di 800 km di acciaio e cemento armato che ogni giorno ricordano al mondo, e ai paesi occidentali in particolare, gli errori geopolitici commessi in Medio Oriente. Ultimo in ordine temporale ma certo non d'importanza è il muro del presidente statunitense Donald Trump. Arginare l'ondata migratoria che dal Messico si dirige verso il Nord America è stata una delle grandi battaglie della sua campagna elettorale e la soluzione che ha proposto al pubblico

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editoriali 13

entusiasta è stata appunto la costruzione di un'imponente barriera, con la quale porre fine alla questione una volta per tutte. La proposta ha creato parecchio scompiglio tra le fila repubblicane, dividendo tra chi crede fortemente nel progetto e chi invece non lo trova efficace in una logica di costi-benefici. Innanzitutto ci sono dei problemi pratici, legati alla realizzazione che, sebbene tecnicamente fattibile, dovrà riuscire a coprire efficacemente gli oltre 3.000 km di confine che dividono i due paesi. Quando Trump incita i suoi al grido “Build that Wall”, sa che un muro esiste già lungo circa 1.000 km di territorio, nelle zone ritenute più a rischio. Quello che non dice è che questa esperienza si è rivelata sostanzialmente fallimentare, anche per via del fatto che non si è riusciti a rendere la recinzione una linea continua, con diverse interruzioni che permettono a chiunque di passare liberamente. Il fallimento, in ogni caso, è stato causato dall'accorgimento più banale in assoluto che i migranti potessero adottare: le scale. La barriera oggi esistente è alta circa 6 metri; il giorno dopo la sua costruzione le scale erano alte 6 metri e mezzo. Oggi Trump promette un muro di 10-15-20 metri, la cui realizzazione avrebbe dei costi esorbitanti, con cifre che oscillano tra i 25 ed i 38 miliardi di dollari a seconda del progetto preso in considerazione. Ovviamente il Messico non sarà entusiasta di doverlo pagare di tasca sua, così l'amministrazione USA ha messo in conto di dover anticipare i denari per la costruzione, che saranno quindi restituiti da oltre confine, con un meccanismo non meglio specificato. Sebbene l'altezza di scale in legno come quelle usate dai migranti messicani abbia un limite, resta il problema di capire come i Border Patrol americani possano presidiare una lingua di territorio lunga oltre 3.000km. Rimarrà irrisolta la questione dei tunnel sotterranei per l'attraversamento, che già i narcos usano per importare nel paese droga e clandestini. La costruzione di questo muro lascerà inoltre priva della considerazione che meriterebbe anche la modalità attualmente più utilizzata dai migranti latini per arrivare negli USA: il visto turistico. Che la Casa Bianca lo ignori o meno, la gran parte delle persone che sbarcano sul suo territorio lo fanno legalmente. La maggioranza degli irregolari entra nel paese scendendo da un aereo di linea, senza alcun bisogno di scavalcare un muro. Spesso, alla scadenza del permesso il migrante decide di non tornare a casa, forse perché scoraggiato dall'altezza dei muri che troverebbe sulla via, o magari perché lo aveva deciso fin dall'inizio, chissà.

Foto "Muraglia Cinese" (Web)

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editoriali 14

di MATTEO MACUGLIA

la crisi della globalizzazione e la misticazione del proibizionismo

uove sfide si allineano all'orizzonte e i dati macroeconomici dipingono tutt'oggi scenari difficili da interpretare. Troppo spesso, le leadership emergenti a livello globale rispondono a queste novità invitando alla chiusura. Il protezionismo non è e non può essere la risposta alle nostre paure; la genesi e le cause del ritiro della globalizzazione possono chiarire il perché. L'era che stiamo vivendo è, come ben sappiamo, un momento della storia intriso di cambiamenti. I bambini non giocano più per strada e le ragazze non si conoscono più al bar ma nei meandri delle chat, all'ombra dell'allegra luce di smartphone e schermi del caso. Chi è nato tra gli anni '50 ed '80 ha vissuto il periodo d'oro del nostro Paese, un boom economico che aveva convinto tutti che il capitalismo, nonostante le mille storture, fosse il modello destinato a far sì che i nostri figli sarebbero sempre stati meglio di noi. Questa spirale virtuosa sembra purtroppo essersi interrotta dopo la crisi del 2008 e l'economia globale ne mostra i segni tanto quanto quella nazionale. A doversi mettere in discussione, stando alle ultime informazioni fornite dall'Economist, sono state anche le tanto bistrattate multinazionali. Il mondo non le vuole più e le accusa di investire pochissimo sul territorio, di essere avide e di voler solo riportare in patria i profitti generati all'estero. Volendo analizzare il fenomeno dell'ascesa e del declino delle multinazionali si può comprendere in che direzione stia andando l'economia mondiale, fino ad arrivare alle tendenze protezionistiche che da più parti vengono invocate dai leader di oggi. L'85% degli investimenti creati dalle multinazionali è stato effettuato dopo il 1990. Questo flusso di capitali aveva una natura straordinaria, in parte dopata dal periodo storico di apertura di nuovi mercati grazie alle dissoluzione dell'URSS e la distensione a livello europeo. Il boom, oltre a tendenze macro economiche, è stato riconducibile anche a tre categorie che avevano tutto da guadagnare e poco da perdere, dalla globalizzazione: gli investitori, che si aspettavano che le multinazionali potessero generare ricavi più rapidi delle normali aziende (e non avevano tutti i torti), i paesi origine delle multinazionali, che ricevevano maggiori entrate fiscali, ed infine i paese dove le multinazionali sceglievano di approdare, che vedevano aumentare i posti di lavoro e, conseguentemente, i consumi interni. Se i ricavi delle grandi imprese mondiali dell'area OCSE sono scesi del 17% negli ultimi cinque anni, questo significa che le suddette condizioni sono venute meno. Le retribuzioni nei paesi emergenti si stanno lentamente alzando, erodendo così il margine di profitto delle aziende che non possono nemmeno contare su ulteriori sconti fiscali nei paesi d'origine (nella maggior parte dei casi tutto quello che si poteva fare è già stato fatto). La complessa

N

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editoriali 15

organizzazione che caratterizza le imprese con ramificazione all'estero costituisce una zavorra della quale è impossibile fare a meno. La maggiore attenzione al pagamento delle tasse, la tutela dei posti di lavoro a livello locale ed in generale la rabbia che anche a tra i politici si sta generando contro questi giganti dell'economia globale sono tutti fattori che creano un ambiente poco favorevole all'ulteriore proliferare di questo fenomeno. Alla ritirata della globalizzazione che viviamo ai giorni nostri corrisponde il ritorno di una vecchia conoscenza, il protezionismo. In parte aiutati dalla rabbia dei ceti medio-bassi che sentono di averci rimesso a seguito della sempre maggiore integrazione dei mercati, diversi politici del Vecchio e del Nuovo Continente sembrano credere che la strada sia quella di tutelare le merci nazionali, a scapito di quelle straniere. È un peccato però che dall'ultima adozione di questo genere di politiche il mondo sia cambiato parecchio. Le singole nazioni si sono specializzate in nuove produzioni, perdendo alcuni settori che una volta accomunavano tutti i partecipanti al mercato. L'Italia ha visto precipitare i propri consumi interni a favore dell'export, che oggi rappresenta la vera opportunità per il nostro Paese. Si è infine compreso come sia necessario per le economie occidentali, specializzarsi in prodotti o lavorazioni dall'alto valore aggiunto, dove

appunto possiamo contare o su investimenti in ricerca e sviluppo che nei paesi emergenti sono difficilmente replicabili, oppure su caratteristiche peculiari dei nostri territori, vedi l'agroalimentare italiano. Su tutto il resto, che lo si comprenda o meno, ci battono quei paesi dove il costo del lavoro è minore. In secondo luogo è assolutamente necessario tener presente che oggi, in particolar modo in un paese privo di materie prime come l'Italia, le merci subiscono almeno due passaggi doganali prima di arrivare al consumatore finale. La logica protezionistica porterebbe quindi ad un rincaro dei prezzi senz'altro dannoso per un Paese come il nostro che è generalmente costretto ad importare materiali per lavorarli e rivenderli in giro per il mondo. La prima globalizzazione della storia dell'umanità si ebbe tra fine ‘800 ed inizio ‘900. Il suo percorso, facilitato dalla diffusione della rotaia e da invenzioni come quelle di Guglielmo Marconi, ebbe fine il 28 giugno 1914, quando Gavilo Princip sparò all'arciduca Francesco Ferdinando. Il protezionismo, ma più in generale la chiusura verso l'esterno, ha spesso coinciso con i nazionalismi, responsabili nel corso del 1900 dei periodi più bui della storia dell'umanità.

Foto "Porto Nuovo di Trieste" (Marino Sterle)

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editoriali 16

di GIANFRANCO BATTISTI

LA FINE DI UN'ILLUSIONE IL RISVEGLIO DEL "BOSS"

Foto "Donald Trump" (Web)

n politica è sempre valida la vecchia massima del sen. Andreotti: "Il potere logora chi non ce l'ha". Chi ce l'ha non lo condivide, al massimo lo perde dopo averlo conquistato. E per conquistarlo (o riconquistarlo) è d'uopo possedere dei mezzi che l'Europa oggi non ha e ragionevolmente non potrà avere quanto meno per il prossimo mezzo secolo. Sul piano pratico (che è poi quello che la storia documenta) contano assai poco elementi quali la volontà dei singoli leader o delle masse popolari, la loro cultura, il retaggio storico, financo la situazione geografica (che per altro spesso incide assai più della situazione storica). Ciò che conta veramente sono i rapporti di forza tra gli attori in gioco. Quando le cose vanno bene, tutti sono generosi di sorrisi e pacche sulle spalle, ma quando la congiuntura si fa cupa i margini si assottigliano e la benevolenza diviene una merce rara. Tra due persone affamate, sarebbe illusorio pensare che l'unica pagnotta disponibile vada divisa equamente, specie se una delle due ha in mano un nodoso bastone. Questo può urtare la nostra sensibilità di credenti, ma la sostanza delle cose non muta: non è un caso se Papa Francesco sta andando dappertutto per cercare di spegnere gli incendi che si accendono qua e là nel mondo. Un'occhiata alla situazione mondiale giustifica quste considerazioni apparentemente ciniche. Al di là delle cifre che la propaganda mediatica cerca di accreditare di tanto in tanto a beneficio dell'uno o dell'altro candidato, non c'è oggi un singolo paese dove l'economia vada bene. Si moltiplica altresì il numero delle crisi politiche che sfociano in conflitti armati. Le due cose sono strettamente collegate: quando mancano pane e lavoro la gente tende a innervosirsi, specie quando c'è chi soffia sul fuoco.

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editoriali 17

In un mondo globalizzato, disordine economico e disordine politico si inseguono senza soste, rispondendo agli impulsi che provengono dai medesimi, sempre più rarefatti, centri di potere. Un esempio può chiarire la natura degli eventi. Quando la Francia dell'ancien régime finì in bolletta, scoppiò la rivoluzione. Il disordine politico aggravò inevitabilmente la crisi e la risposta fu, more solito, la guerra contro l'Europa intera. L'obiettivo delle ostilità? Non certamente esportare la democrazia, più prosaicamente saccheggiare gli altri paesi per riempire le esauste casse dello stato. Cosa che si è puntualmente realizzata, grazie soprattutto a Napoleone. Che la Francia di Macron o Le Pen, poco importa – continui a vantarsi dei pretesi ideali della Révolution dimostra solamente quanto alto sia il livello di ipocrisia di uno dei paesi che pretendono di costruire lo stato europeo. Si legga in proposito l'intervista a Gérard Depardieu pubblicata sul Corriere della Sera di giovedì 4 maggio. La Francia si era lanciata allora nell'avventura militare fidando sulle capacità dell'apparato militare costruito nel corso del secolo dalla monarchia. Allo stesso modo si comporterà l'Austria-Ungheria nel 1866, sperando di rimpinguare le esangui finanze pubbliche imponendo alla Prussia sconfitta una forte indennità di guerra. L'illusione, come sappiamo, si dissolverà ben presto a Sadowa. Di solito, chi scende in campo ha dei buoni motivi per confidare nelle proprie forze e difatti se si va a leggere la realtà nascosta dietro alle versioni ufficiali (anche quando siano convalidate dagli storici) ci si accorge che alla radice dei conflitti c'è il paese più forte; ovviamente, sotto il profilo militare. La questione sta infatti in questi termini: per controllare il gioco internazionale bisogna avere l'apparato militare più potente. Questo impone costi elevatissimi, che generalmente danneggiano l'apparato economico. Di conseguenza, bisogna che gli stati più deboli paghino le spese militari della potenza egemone. Si chiede qualcuno perché mai Trump insista con gli europei (ma non solo) perché aumentino le loro spese militari? Forse per ripartire più equamente l'onere della difesa? Se così fosse, significherebbe che il neo-presidente intende ridurre le dimensioni dell'apparato militare americano e far crescere quello degli alleati. D'altro canto lo stesso personaggio prospetta un cospicuo incremento nelle spese militari. Una apparente contraddizione dalla quale si esce soltanto ove ci si chieda quali industrie dovrebbero beneficiare dell'aumento della spesa militare europea. E poi c'è chi sostiene che Trump non sappia quello che sta facendo.

Foto "Donald Trump" (Web)

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editoriali 18

di GIORDANO RIELLO

#MADEINITALY, detto in italiano: Fatto in Italia

Imprenditore e Presidente di NPLUS Srl , nel CDA di @AermecChannel e RPM SpA Vicepresidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria (foto fornita)

ade in Italy è il terzo marchio al mondo per notorietà! Il mondo conta ben 196 Paesi riconosciuti sovrani e, di tutti i 196 che hanno il loro corrispettivo “Made In”, l'Italia sola vanta un posizionamento di questo livello! Un Made in Italy che ha radici lontane nella storia e nella nostra cultura, radici che oggi sono la sintesi della grande fortuna che la nostra nazione ha ereditato e sono il leitmotiv dell'operare delle nostre industrie. Aver avuto il privilegio di nascere nel Paese, che storicamente, è stato la culla del sapere, della conoscenza e delle invenzione ci ha permesso di assorbire l'arte della bellezza ed il sapore della qualità che oggi mettiamo a servizio del mondo con i nostri prodotti. Siamo i custodi della eternità! Dalla volta della Cappella Sistina al David di Michelangelo, ai particolari di Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini alle Ville Palladiane Venete fino ad affogare il nostro sguardo sulla Nascita di Venere di Botticelli; la più alta tra le icone del

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Rinascimento! Un piccolo frammento di quello che rappresenta il nostro Paese nel mondo e che ha guidato e guida le opere e l'operato degli uomini! “Il bello” che costantemente ci circonda è stato di ispirazione per uomini come Alessandro Cruto che nel 1880, cinque mesi prima di Edison, ha messo a punto la lampadina ad incandescenza. Guglielmo Marconi che nel 1895 fa squillare un campanello premendo un trasmettitore a distanza: nasce la radio! Nel 1924 si inaugura la Milano Varese: la prima autostrada del mondo e, nel 1930, Corradino d'Ascanio decolla e vola per 8 secondi con il primo elicottero. La lista è lunga, forse la più lunga lista di inventori e sognatori la può proprio vantare l'Italia! L'Italia che ancora oggi è lo strumento intellettuale migliore che abbiamo e che dobbiamo rispettare e amare perché, oggi più di ieri, ne ha bisogno Lei ed ancora di più di Lei ne abbiamo bisogno noi! Custodire la bellezza per essere noi, con le nostre aziende, i primi testimoni di speranza! #FattoinItalia

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Chapter one

Sartoria Fragomeni di REDAZIONE GENIUS p. 20/21 Griffe Concept Store di MATTEO ZANINI p. 22/25

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Cover Moda

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artoria Fragomeni, dal 1956 crea abiti e camicie su misura, vantando un'esperienza che si tramanda di padre in figlio. Oggi il signor Giovambattista Fragomeni, con il suo atelier a Vigonza, Padova, rappresenta la seconda generazione nel settore della sartoria da uomo e questa sua passione viene oggi portata avanti da lui e da suoi stretti collaboratori mantenendo viva la tradizione del vero abito su misura. La nostra clientela spazia dal professionista, che ha il piacere d'indossare l'abito tutti i giorni, a chi viaggia per lavoro o per diletto e vuole un'eleganza confortevole e diversa e non ultimo il protagonista di un'occasione del tutto unica e speciale, un evento formale o di gala.

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Chi sceglie un abito su misura è un uomo che, indipendentemente dall'età, ritiene importante sia la qualità di ciò che indossa, sia la qualità del servizio, un uomo raffinato e di forte personalità tale da consentirgli di scegliere il proprio stile senza dover seguire i dettami estremi della moda. Nel nostro atelier di Vigonza, si può scegliere il proprio abito tra i più prestigiosi tessuti italiani ed inglesi quali, Ermenegildo Zegna, Loro Piana, Holland & Sherry, Scabal, si decide il modello, la vestibilità classica oppure più affusolata, le fodere, i bottoni e tutta una serie di dettagli che fanno dell'abito su misura un capo unico e personale.

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SARTORIA Fragomeni 21

Ciò che teniamo a precisare sulla qualità dei nostri abiti non è solo la qualità dei tessuti ma la VERA ARTIGIANALITA' nella costruzione dell'abito, assolutamente privo di qualsiasi adesivo e sostenuto solo da canapi naturali, frutto di ore di lavorazione e cura quasi maniacale nel taglio e nella realizzazione dell'abito, ovviamente completamente made in Italy.

Questo è quanto offriamo ai nostri clienti, nell'atmosfera rilassante del nostro atelier. Chi viene a trovarci, si sente al centro del nostro interesse, lontano dalla frenesia e dai tempi ristretti del negozio classico. Ecco perché preferiamo che il nostro sia su appuntamento, perché un abito su misura merita di essere realizzato potendo contare su un servizio personalizzato a 360 gradi.

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www.sartoriafragomeni.it FB: Sartoria Fragomeni Instagram: Sartoria Fragomeni Sartoria Fragomeni Via Regia, 73 – 35010 Vigonza ( Pd ) 393/955 11 88 349/54 58 184


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di MATTEO ZANINI

GRIFFE /CONCEPT STORE

n punto d'eccellenza nel centro di Trieste, in una delle zone più celebri per quanto riguarda i negozi e le passeggiate: entrando da Griffe Concept Store si respira, fin da subito, quell'aria di ricercatezza e quel gusto che caratterizza da sempre anche il suo proprietario, Roberto Paganini. Personaggio dalle mille idee e dall'intelligenza vivace, da sempre propenso al basso profilo quando parla di se stesso ma al contempo abile conversatore, Roberto ci racconta della città di Trieste, degli sviluppi del capoluogo e della sua attività.

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Foto GRIFFE Interni (Luca Tedeschi)

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Griffe Concept Store 23

da sinistra Roberto Paganini, Rosanna Debrilli e Marco Buffa (Luca Tedeschi)

Roberto Paganini, il nuovo Griffe Concept Store si rinnova sia strutturalmente che nella vendita, ed è pronto per affrontare il 2017 in corso con molte novità. Ci racconti l'idea? “Rinnovarsi sempre, dare ed avere nuovi stimoli per la propria vita e per la propria attività è fondamentale per non arenarsi. Noi, per esempio, abbiamo riconvertito degli spazi all'interno del nostro negozio, con un ampliamento di circa trentacinque metri quadri”. La situazione economica in Italia non aiuta sicuramente i creativi, i designer, gli stilisti; eppure entrato nel vostro spazio si respira un area di ricerca e innovazione, ne sei consapevole? “Sono vent'anni che dedichiamo buona parte del nostro tempo alle fiere internazionali e alla ricerca di prodotti, accessori e quanto riteniamo interessante da proporre nelle nostre vetrine, spaziando dalla tecnologia, al design ed al concept”. La posizione geografica in cui si trova la città di Trieste, senza entroterra e con una provincia molto piccola, tende a non essere un'area strategica per gli investimenti dei grandi marchi: qual'è il vostro approccio verso l'esterno? “Abbiamo riscontrato negli ultimi anni un flusso crescente di turismo, maggiore in estate rispetto all'inverno. Ma, da sempre, oltre alla nostra clientela locale, abbiamo parecchi clienti dai paesi confinanti: Austria, Slovenia, Croazia e Serbia”. La nuova apertura di un marchio internazionale come Eataly fa pensare che forse la comunicazione offerta dalle istituzioni locali e regionali nel Friuli Venezia Giulia non è in grado di esporre bene le potenzialità di una città storica come Trieste, cosa ne pensi?

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“Portopiccolo ed Eataly sono due investimenti fatti sul nostro territorio da imprenditori che hanno creduto nelle potenzialità di Trieste, e questo va apprezzato. Sarebbe auspicabile che lo stesso interesse fosse esteso anche al Porto Vecchio, un'area oggi abbandonata ma ricca di interesse storico e commerciale”. Chiudono molte attività simili alle tue; ne vediamo tantissime altre aprire nel settore caffetteria e culinario. Ti preoccupa questa cosa oppure ti appaga sapere che sei quasi il “solo” a garantire una consulenza sartoriale sul territorio? “In realtà è con la concorrenza che ci si misura, anche se i concorrenti nel nostro caso sono sempre cari amici. Mi dispiace oltremodo che Trieste perda tasselli: la chiusura di ben otto punti vendita in un anno sono solamente un impoverimento di proposte, posti lavoro ed interesse per la città. Investire denaro e risorse per “sopravvivere” alla troppa offerta sul mercato e perché no, anche per un vezzo di consapevolezza di essere rimasti unici nel vostro genere, a tuo avviso è l'unico modo per agire sull'imprenditoria? Non sarebbe stato meno dispendioso usare la rete sul web per vendere? “Il web è un canale importantissimo, noi stessi siamo presenti con una piattaforma di vendita online. Questo aiuta a dare visibilità al proprio prodotto: allo stesso tempo, però, acquistare solo online e non spendere sul territorio, per sostenere l'economia ed i posti di lavoro, contribuisce alla chiusura di punti vendita che non riescono a competere con queste nuove realtà, ed ecco che ci troviamo con negozi chiusi ovunque. Ma questo è un meccanismo che va controllato”.

Foto GRIFFE Interni (Luca Tedeschi)

Potremmo intitolare quest'intervista con uno slogan: “I Magnifici TRE della vendita sartoriale”. Che ne pensi? Il tuo gruppo di lavoro è composto da un nucleo di tre persone, le stesse che rappresentano anche la tua famiglia: come fate a tenere separate le due cose? “Mia moglie Rosanna ed io siamo un'unica persona, anche sul lavoro. Marco è entrato in negozio con noi e grazie alla sua spontaneità ed onestà è entrato nella nostra famiglia, e viceversa è successo a noi con lui. Questo ci porta a pensare ed agire all'unisono”. Cosa ti sentiresti di consigliare ad un giovane che voglia aprire un'attività come la tua?

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“Certamente sarei disposto a dare dei consigli, ma il ciclo di nuove aperture di micro e piccole imprese registra un boom nella ristorazione. Negli anni Settanta e Ottanta chiudevano le panetterie ed i giornalai e si aprivano negozi di jeans: oggi si vira sul gastronomico. Sono scelte ammirevoli”. Senti ogni tanto di poter apportare la tua esperienza, il tuo sapere a servizio dei cittadini, in poche parole entrare nella politica locale? “No è l'ultimo dei miei pensieri”. Il dualismo, mente e corpo, quanto hanno influenzato il tuo percorso di crescita e formazione in famiglia e sul lavoro? “Mente e corpo sono concettualmente separati: direi che il mio modo di essere appartenga più al parallelismo. Sono un uomo di fede cristiana, condivido pienamente il concetto “fai del bene, raccogli del bene”. Oggi quanto sono importanti le relazioni con l'esterno: i social possono diventare, oppure lo sono già, il medium necessario per dialogare in esterno?

Foto GRIFFE Entrata (Luca Tedeschi)

“I social, oggi come oggi, sono estremamente presenti nelle nostre vite ed attività. Sono ottimi veicoli di vendita, ma non possono sostituire il servizio, l'attenzione e la cura data al cliente all'interno di un negozio. Nel mondo della moda, è opinione comune che i negozi “multibrand” a poco a poco chiuderanno a seguito dell'incremento delle vendite online, ma quelli che resteranno saranno più importanti e rappresenteranno l'unica alternativa agli store monomarca, dunque molta globalizzazione e perdita di personalizzazione”.

Hai conosciuto la nostra rivista Genius People Magazine da quando è stata partorita l'idea. Credi che ci sia una comparazione utile tra noi che dall'edizione on-line abbiamo deciso di passare alla carta stampata e la tua scelta strategica di investire nelle parti strutturali del negozio piuttosto che su un portale sul web per la vendita on-line dei prodotti? Tutto questo non trova logica secondo le nuove leve di professionisti del marketing usciti dal mondo universitario. Concordi? “Ricollegandomi alla domanda precedente, ribadisco il dualismo tra l'oggettivo ed il virtuale. Mi rattrista pensare che tutta la storia millenaria dell'uomo è stata tramandata attraverso i libri e domani, se non vi sarà la possibilità di aprire uno schermo o di far funzionare un hard disk non sarà possibile tramandare nulla”.

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Chapter two

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Il populismo al tempo della sovranità post-nazionale di MATTEO MACUGLIA

p. 27

EATALY, la centralità dell'eccelenza italiana di MATTEO MACUGLIA

p. 28/35

Alessandro Borghese " La rivoluzione di Chef Borghese" di ANNA MIYKOVA

p. 36/37

FOOD CHEF Alessandro Borghese " Il lusso della semplicità" di ANNA MIYKOVA

p. 38/43

ALAJMO "Attenti a quel duo" di ISABELLA SCUDERI

p. 44/53

Ilario, un imprenditore in bretelle di CLAUDIO SARTOR

p. 54/58

PAVONI di REDAZIONE VELVET MEDIA

p. 60/63

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food-speciale / Matteo Macuglia 27

Il populismo al tempo della sovranitA' post-nazionale a realtà che ci circonda diventa sempre più complessa e articolata. Gli Stati sono chiamati ad assolvere sempre più funzioni ma non riescono a rifornirsi dei mezzi per farlo con altrettanta velocità. Così spesso ci si rifugia in un immobilismo che genera rabbia, soprattutto quando le cose non vanno bene. Da qui nasce il così detto populismo, una manifestazione di esasperazione collettiva che può essere unicamente combattuta riscoprendo i valori e gli obiettivi che ci hanno portati dove siamo oggi. È questo un momento incredibilmente propizio per giornalisti e commentatori di ogni genere. Siamo sull'orlo di un cambiamento paradigmatico nell'approccio che la politica ha avuto rispetto a temi vissuti come lontani ma che, a ben vedere, ci riguardano molto da vicino. Politiche monetarie, questioni geopolitiche e assetti istituzionali sono solo alcuni esempi. Un paese dopo l'altro sembra cadere sotto il fascino del populismo, un'alternativa azzardata ma comprensibile all'establishment visto che, nell'ottica di molti, il continente che ha sempre guidato il mondo, si vede oggi svilito e con la mera sopravvivenza come unica prospettiva. È finito il tempo delle sinistre di stampo europeo e si fanno avanti al loro posto movimenti di destra il cui scopo principale è quello della tutela dei nativi dei singoli paesi. L'istanza è ovviamente legittima, in quanto qualsiasi gruppo è naturalmente portato al perseguimento della propria sussistenza e del proprio benessere. Ciò che non funziona nel ragionamento messo in campo da diversi tra questi movimenti è che il gioco proposto è a somma negativa. Un determinato gruppo può avere solo quanto viene negato agli altri. Questo sbandamento politico manca sostanzialmente di lungimiranza. È finito il tempo in cui chi aveva di più poteva attingere a piene mani dal forziere del benessere facendo affidamento sulla passività delle popolazioni più povere. Il motivo è che il mondo, globalizzandosi, ha ridotto le proprie distanze. Così, un qualsiasi abitante dell'Africa nera, delle Filippine o del Pakistan può intraprendere un viaggio che per i suoi genitori sarebbe stato probabilmente quasi impensabile o comunque molto pericoloso. Se si volesse

L

sviare il discorso dal tema delle migrazioni, resta l'estrema complessità dei problemi che i governi sono chiamati a risolvere. La compenetrazione di ambiti che una volta potevano essere considerati come separati rende ogni scelta politica estremamente tecnica mentre la possibilità di considerarne tutte le possibili ricadute risulta meramente utopica. In questo modo la razionalità del legislatore pubblico non può che attestarsi su un modello di miglioramenti progressivi, con avanzamenti che si basano sul processo di apprendimento dai propri errori e da quelli degli altri. Il modus operandi appena presentato sta tuttavia facendo lentamente degenerare le condizioni di vita degli abitanti dei Paesi occidentali mentre scemano ulteriormente le possibilità di influire realmente sui problemi, data la loro scala sempre più vasta e le leve sempre meno efficaci a disposizione dei governi. È un mix letale quello che sta lentamente uccidendo tutte le leadership moderate degli stati che hanno guidato e voluto la nascita della globalizzazione. Le istituzioni come l'UE, delle quali ci siamo serviti per ottenere il più lungo periodo di pace della storia moderna, così come del più veloce ampliamento della sfera dei diritti e del benessere mai conosciuti dall'umanità, sembrano oggi le catene che ci impediscono di spiccare nuovamente il volo. Questo a causa di una pervasività della burocrazia che ha finito per avvelenare delle istituzioni che erano nate come esempio al quale tendere. Il regolamento e la direttiva hanno soppiantato l'interesse dei molti, mentre le istituzioni chiave del sistema diventavano sempre più isolate ed auto-referenziali. Per uscire dalla trappola del populismo, e a cascata del nazionalismo, è necessario che il dibattito pubblico si riavvicini alle persone comuni, semplificandogli la vita e facendogli capire che le sue conquiste sono il frutto del lavoro di molti e non della fierezza di un singolo stato e della sua tradizione, qualunque essa sia. Se si riuscirà in questa inversione di tendenza, che passa anche per una svolta comunicativa, si potrà salvare l'Unione Europea, un progetto che per capacità ed aspirazione può tornare ad essere un punto di riferimento a livello mondiale.

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FOOD 28

Intervista a cura di MATTEO MACUGLIA

EATALY

, la centralitĂ dell'eccellenza italiana

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food / Eataly 29

Oscar Farinetti

ataly, lo store che raccoglie il maggior numero di eccellenze italiane, provenienti da tutte le regioni dello stivale, è approdato a Trieste. Assieme ai suoi 37 fratelli, sparsi nel mondo da New York a Dubai, si pone come alfiere della biodiversità, punta di diamante delle produzioni agricole del nostro Paese. A metà tra un supermercato e il negozio a kilometro zero, è la diretta espressione della visione, quasi marziana di Oscar Farinetti. Il patron di Eataly non vuole sentire scuse ed ha ben chiari in mente i suoi obiettivi: diffondere il buon cibo ed i posti di lavoro al maggior numero di persone possibili. Questa utopia non può e non deve conoscere limiti, venendo perseguita con perseveranza e fiducia nel futuro.

E

Oscar Farinetti (Ufficio Stampa "EATALY")

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food 30

uest'anno ricorre il 10° anniversario di Eataly. L'ultima apertura a Trieste. Il suo è un format che sta convincendo tantissimo sia in Italia che all'estero. Qual è, secondo lei, l'elemento vincente di questa formula?

Q

Ci sono senz'altro un motivo fisico ed uno metafisico. Il primo sta nell'integrazione tra mercato, ristorazione e didattica, che rappresenta lo spirito della cucina italiana. La nostra gastronomia è figlia della materia prima e prevede il minor numero di trasformazioni possibili. Viene poi il motivo metafisico, che è colto in modo talvolta inconsapevole dai nostri clienti e si rifà alla Teoria dei contrasti apparenti. Abbiamo cercato di creare un luogo informale ma autorevole, un ambiente che trasmette orgoglio ma con autoironia, onesto ma furbo. Abbiamo cercato di amalgamare dei valori che possono essere percepiti anche come contrastanti fra loro ma che fanno sentire il cliente a proprio agio.

La grande qualità del prodotto italiano deriva spesso dal suo rifarsi a una tradizione antica e spesso immutata. Come si fa a mantenere intatta la qualità quando uno store come Eataly comincia ad avere così tante filiali? I limiti non sono quelli che ci si potrebbe immaginare! Le do un numero: in Italia oggi ci sono 14 milioni di ettari coltivati e fino agli anni '80 ne avevamo 18. Questo vuol dire che abbiamo perso 4 milioni di superficie coltivata che potremmo riattivare. Il 70% dell'agricoltura italiana si concentra su specie povere come grano e mais mentre solo una piccola parte degli ettari coltivati sono dedicati a colture di altissimo livello come ad esempio gli asparagi di Bassano, il Nebbiolo delle Langhe o il peperone di Carmagnola. Credo fermamente che sia possibile incrementare questa produzione di altissimo livello. Sempre più giovani si dedicano all'agricoltura e sempre più aziende si stanno specializzando in colture di questo tipo. Pensi quanta strada che possiamo sul latte o con il grano. Questo è il tema che Eataly intende sollecitare. Foto "EATALY Exterior" (Nicholas Bracco)

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Eataly 31

Lei ha parlato in passato dello sforzo dell'imprenditore verso la propria utopia, nel senso di luogo bellissimo. Lei pensa di averla raggiunta con Eataly o c'è ancora qualche altro passo da fare?

Foto "EATALY Cantina" (Nicholas Bracco)

L'utopia è meravigliosa proprio perché non ci si può arrivare, pur avendo l'impressione di poterla raggiungere, è come l'orizzonte del mare. Seguendola è possibile giungere più lontano di quanto si potrebbe fare ponendosi dei limiti fisici e raggiungibili. È molto più bello lavorare per l'utopia. Il mio amico Gino Strada, capo di Emergency, si è posto l'obiettivo di eliminare la guerra nel mondo. È evidentemente un'utopia, ma lui crede che lavorando insieme si possa fare. Io ho diverse utopie. La prima è creare infiniti posti di lavoro di qualità. La seconda è restaurare immobili dimenticati. La terza è celebrare la meraviglia della biodiversità italiana in tutti gli angoli del pianeta. Infine la quarta è quella di dare a sempre più persone la possibilità di mangiare cibi di alta qualità. Ha impiegato diversi anni a costruire la sua analisi di mercato per Eataly, quali sono stati i problemi più difficili da risolvere e quali invece i capisaldi saldi che hanno tenuto duro dall'inizio alla fine della progettazione?

Foto "EATALY Packaging" (Nicholas Bracco)

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Il punto più difficile in assoluto è stato disfarsi dei preconcetti, noi italiani pensiamo sempre che non ce la faremo, che è impossibile, non capiranno, solo i ricchi possono permettersi certi prodotti, non reggerà il conto economico. Ho osservato la qualità dei nostri cibi cercando di liberarmi di questi preconcetti. Se un marziano ci guardasse dallo spazio si direbbe: “che strano, l'imprenditore più importante del pianeta, ovvero il contadino, colui che produce l'unico nutrimento del nostro corpo, è l'imprenditore più povero”. Da qui siamo partiti cercando di ridare importanza ai produttori, bypassando alcuni passaggi intermedi del mercato. L'altro caposaldo della mia analisi è stato il tentativo di capire il motivo della mancanza di una narrazione degna di prodotti così straordinari. Ho cercato di supplire a queste due lacune.


food 32

Eataly vuole educare i propri clienti al cibo che consumano. Ce n'è più bisogno in Italia o all'estero? Prima di tutto ne ha bisogno l'italiano. Siamo tutti un po' pressapochisti, è una caratteristica di questo periodo storico e della situazione che vive in questo momento il nostro Paese. C'è più attenzione per i titoli che per i contenuti degli articoli. La battuta e la storia del “dicono che”, la fanno da padrone. Abbiamo tutti a disposizione un grande oracolo, Google, che detiene la verità del mondo per chiunque ne faccia richiesta. In passato ho sostenuto che in Italia non c'è grano a sufficienza per la pasta che vogliamo produrre. La pronta risposta è stata: “Ecco, Farinetti usa il grano OGM”. Peccato che non esiste il grano, né duro né tenero, OGM nel mondo. Sono OGM solo quattro tipi di colture: il mais, il cotone, la soia e la colza. Così come non si sa che la produzione italiana di grano soddisfa a malapena il 75% del nostro fabbisogno nazionale. Poi ho scoperto che metà degli italiani non sa la differenza tra grano duro e tenero. In pochissimi sanno perché gli asparagi in alcuni luoghi diventano bianchi mentre in altri restano verdi. Se vogliamo fare bella figura nel mondo e far fruttare questa biodiversità dobbiamo informarci di più. Io mi ritengo un ignorante perché oltre alla vastità della materia si tratta oggettivamente di questioni complesse. Noto negli italiani (medi) un grande orgoglio per la nostra cucina al quale però fa da contrappeso uno scarso approfondimento della materia. Spesso dice che le cose si fanno meglio assieme, con degli amici. Una delle grandi critiche alla leadership di Renzi è che ha uno stile “poco inclusivo”. Lei è d'accordo? No. Io lo conosco molto bene e so che fa tutto in team. Ha un gruppo di persone straordinarie. Renzi è uno che ha convinto Diego Piacentini, il numero tre di Amazon nel mondo, a mollare tutto e venire in Italia a curare l'Agenda per lo sviluppo digitale del Paese. Accanto a lui ci sono delle personalità incredibili come Delrio, Poletti e la Boschi con le quali si consulta continuamente. Detto questo, lui applica un principio straordinario inaugurato da Berlinguer che si chiamava centralismo democratico: ascolto tutti, sono pronto a cambiare idea, ma alla fine decido io. Penso che non si possa gestire un paese come un'azienda, un giornale o una cascina. Ci vuole una leadership, ce lo insegna il mondo animale. L'importante è che la leadership sia quella di Mandela e non quella di Mussolini! In Italia purtroppo abbiamo l'abitudine di scaricare le nostre leadership dopo 3-4 anni. Prima ci piacciono da morire e poi li gettiamo via. È esattamente quello che sta succedendo alla Raggi a Roma. Foto "EATALY Kitchen" (Nicholas Bracco)

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La narrazione è un punto di forza sia di Eataly che del modello politico renziano. Le recenti sconfitte del nostro ex Presidente del Consiglio sono state dettate dall'incapacità di raccontare sufficientemente bene il progetto? Le persone per bene quando non vengono comprese tendono sempre a dire “mi sono spiegato male” e non “Non avete capito”. Quindi anche lui deve dire così. Pure io mi sono impegnato personalmente per portare a casa dei punti delle riforme che mi stavano molto a cuore come il superamento del bicameralismo perfetto, la revisione del Titolo V per far chiarezza sulle competenze dello stato e delle regioni e l'abolizione del CNEL. Credo che le cose perfette non esistano, visto che noi siamo esseri imperfetti. Molti incorrono nell'errore di pensare che il proprio pensiero sia un simulacro di perfezione ma questo referendum centrava gli obiettivi che si era dato. Detto questo, gli italiani hanno espresso il loro parere e se ne deve prendere atto. Raccontare bene non è sufficiente quando un sacco di persone, per motivi ed interessi diversi ti danno addosso. Renzi è stato in larga parte mandato a casa dalla generazione sulla quale puntava di più, i giovani. Effetto collaterale della disoccupazione o anche qua problemi di storytelling? Il problema di fondo è stato innanzitutto quello fisico. Nel nord del mondo sono riemerse delle disuguaglianze che si credeva fossero sparite per sempre. L'Italia purtroppo si trova tra questi paesi. Da noi si crede che il lavoro si crei per decreto mentre serve un imprenditore che metta quattrini, idee e rischi. In un clima del genere è inevitabile votare contro, se non altro per protestare contro lo status quo. Le sarà capitato di essere molto incazzato, a livelli estremi. Si comincia a dare pugni nell'aria, per sfogare la parte animale dell'uomo. Andava previsto che un referendum-match in un momento di questo tipo potesse portare a delle dinamiche simili.

Un momento dell'inaugurazione di Eataly a Trieste, da sinistra Antonio De Paolo, Debora Seracchiani (Presidente Regione FVG), Roberto Dipiazza (Sindaco di Trieste), Oscar Farinetti. (Ufficio Stampa "EATALY")

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Foto "EATALY Cantina" (Nicholas Bracco)

Come dice lei il lavoro lo creano gli imprenditori. Mi racconta una cosa che, secondo lei, dovrebbe fare il Governo per aiutare gli imprenditori a fare il proprio mestiere? Quello che deve fare la politica è creare scenari favorevoli all'intrapresa. Sia per gli imprenditori indigeni sia per i capitali stranieri. È necessario incoraggiare quelli che sono i settori vocazionali di un certo paese. La Germania va bene perché investe moltissimo sulle sue vocazione, come ad esempio fare automobili. Io credo che tra le nostre vocazioni ci sia innanzitutto il turismo. Siamo nati nel paese più bello del mondo. 51 patrimoni UNESCO, record mondiale, credo sia un dato che parla da solo. Bisogna fare molto di più nel turismo, in special modo dove ci sono delle grandi potenzialità inespresse come nel Sud Italia, che oggi raccoglie solo il 13% del turismo internazionale a fronte dell'87% del Centro e del Nord. La provincia italiana è straordinaria ma soffre per via delle “big” come Roma, Firenze e Venezia. Per questo abbiamo creato iniziative come FICO a Bologna, per ribadire la centralità e la bellezza inedita della provincia italiana. Quello che il governo Renzi ha fatto in materia ha dato

subito dei segnali incoraggianti, ma dobbiamo esagerare. Esagerare fino a pensare di creare un paradiso fiscale nel Sud Italia. Io non sono per la politica degli incentivi, sono per non far pagare le tasse alle imprese che fanno lavorare gli italiani servendo magari solo cibi Made in Italy, delle cose abbastanza pensanti insomma. Bisogna che misure del genere passino a livello europeo. Oltre al turismo le vocazioni del nostro Paese sono l'agroalimentare, la moda, il design, l'industria meccanica di precisione. Il Governo aveva intrapreso un processo che andava in questa direzione ma si trattava di un qualcosa in divenire, che probabilmente avrebbe visto la luce nei due anni tra il 2016 ed il 2018. Spostiamoci negli Stati Uniti d'America, la preoccupa l'America First di Donald Trump? Come cittadino del mondo o come imprenditore? Mi preoccupa moltissimo. Le mie preoccupazioni e infelicità sono sempre ed innanzitutto come cittadino. L'ambito imprenditoriale è importante ma non può essere paragonato alla questione dei diritti civili, l'accoglienza, ecc. Mi sembra pazzesco pensare a muri nell'era

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paese. Spero che questa consapevolezza in futuro lo porti verso più miti consigli. Restiamo nel Nuovo Continente, all'insediamento del nuovo presidente è saltato l'accordo commerciale del Nord America. A questo punto anche il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) farà fatica a vedere la luce. Lei pensa che sia un bene o un male?

Foto "EATALY Bevi Meglio, Vivi Meglio" (Nicholas Bracco)

di internet. I muri non esistono più per una questione de facto, perché viviamo in un'era globale. Dobbiamo accettare che non si torna indietro. Finito di parlare con lei io posso, dalla mia macchina, chiamare in Cina per sottoporre un progetto, rivedere l'offerta o registrare un ordine. Le barriere non esistono più. È normale che dei popoli che vivono delle situazioni negative tentino di spostarsi verso luoghi migliori. Queste persone si dimenticano che nessuno di noi può scegliere quando nascere, dove ed in quale famiglia. Non decidiamo il sesso né l'orientamento sessuale. È pazzesco che qualcuno se ne dimentichi e che venga pure eletto a leader politico di un paese. Il Governo Renzi valeva il prezzo del viaggio anche solo per la legge sulle unioni civili, era uno scandalo che un paese come il nostro non ce l'avesse. In un mondo dove circa il 10% della popolazione nasce omosessuale, non per scelta ma per decisione del caso, non si può far finta che i diritti di queste persone non esistano. Quindi certo, sono molto preoccupato ma spero e credo che, mano a mano che si andrà avanti, anche Trump, essendo un uomo senz'altro intelligente, si renderà conto che con certe posizioni estreme può creare dei problemi immensi anche al suo

È sempre un male. Io sono per negoziare, per cercare dei compromessi. L'obiettivo era abolire le dogane, i dazi, per ottenere la libera circolazione delle eccellenze del mondo. Era necessario che si sorvegliasse con cura la questione dei controlli sanitari sui prodotti, che in Europa sono più ferrei che negli USA ma l'obiettivo finale era raggiungibile. Il TTIP non aveva ancora visto la luce che già c'era chi protestava per paura che avremmo accettato tutte le schifezze del mondo. Ritengo che la libera circolazione delle merci e degli uomini siano un valore verso il quale tendere. Io, prima di andarmene, spero di andare a votare per il mondo, altro che per l'Europa.

Foto "EATALY Exterior Night" (Nicholas Bracco)

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di ANNA MIYKOVA

Alessandro Borghese Foto "Chef Borghese" (Ufficio Stampa)

“La rivoluzione di CHEF BORGHESE”

e qualcuno vi chiedesse di chiudere gli occhi e immaginare il vostro piatto preferito, quello che stimola ogni singola papilla gustativa della vostra lingua, che scatena una salivazione tanto irruenta da costringervi ad afferrare un fazzoletto per asciugarvi “l'acquolina”, che richiama alternativamente immagini goduriose o solletica metaforicamente le vostre narici con profumi stuzzichevoli…pensereste mai a una portata da nouvelle cuisine, per dirla alla maniera di Henri Gault e Christian Millau (i critici francesi che coniarono il termine a metà degli anni '70, ndr)? D'istinto, io risponderei “no”! Certo, spesso sono i ricordi d'infanzia a farla da padroni sui nostri gusti gastronomici e il motto del “brutto ma buono” sembra ancora avere la meglio nell'immaginario gastronomico dei più. Eppure l'amore per la cucina tradizionale o, se vogliamo, l'immagine tradizionale della cucina, non cozza per forza con l'evoluzione estetica di un piatto, l'accostamento esotico dei gusti o la disposizione artistica degli ingredienti, tanto curata da presentarsi come una piccola opera d'arte dai dettagli preziosi: un perfetto connubio tra sapori e bellezza. Tutto ciò per che l'Italia – regina indiscussa della cucina tradizionale – si conferma patria di cuochi eccelsi, capaci di unire la tradizione all'innovazione e alla “bella cucina”. Ne è la dimostrazione lo chef Alessandro Borghese, conosciuto per le straordinarie doti culinarie e amante della semplicità tradizionale. Nato a San Francisco dall'attrice ceca Barbara Bouchet e dal produttore partenopeo Luigi Borghese, da cui eredita più o meno consapevolmente l'amore per la cucina, Alessandro è infatti divenuto il protagonista indiscusso dei programmi culinari italiani dell'ultimo decennio.

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Foto "Chef Borghese" (Web)

Lo chef italiano Alessandro Borghese si racconta. Da veterano della cucina, che vanta rilevanti esperienze internazionali – tra le navi da crociera e le grandi metropoli come Londra, Parigi e San Francisco e nazionali, a travolgente conduttore televisivo che ha ammaliato il pubblico italiano con la semplicità della tradizione culinaria e di un carattere estroverso e alla mano.

al lontano 2004, quando apparve su Real Time in “Cortesie per gli Ospiti” – dove insieme a un architetto e a un esperto di galateo giudicava due concorrenti che a turno avrebbero ricevuto nella propria casa gli ospiti – lo chef Borghese è riuscito a guidare una vera e propria rivoluzione televisiva scardinando, come un “Cavallo di Troia”, le mura dell'alta cucina per farvi entrare il grande pubblico. Lo abbiamo visto girare i borghi e le città italiane in cerca della cuoca perfetta ne “L'Ost”, giudicare con pazienza i piccoli cuochi in erba in “Junior MasterChef Italia”, addirittura nei panni di cuoco-giornalista dell'ultima ora ne “Il cuoco gentiluomo”, in abile avversario nel suo “Ale contro tutti”…o ancora nei panni dello “chef da tutorial” in “Cucina con Ale” o “Alessandro Borghese Kitchen Sound” dove tra una spadellata e qualche melodia d'accompagnamento, guida passo per passo la preparazione dei suoi piatti. Il segreto del suo successo balza subito agli occhi perché Borghese riesce a mettere a proprio agio lo spettatore più ostico e criticone. Agguanta le simpatie delle casalinghe amanti della buona tavola, travolge con battute divertenti, accompagna le giornate dello studente “disperato” – che nel frattempo tenta una maldestra imitazione dei suoi piatti – e strappa l'apprezzamento degli intenditori, nicchia largamente nota come “la maestra dalla penna rossa”. Ma non è solo la sua simpatia a farla da padrona. Basta scorrere velocemente la home di “AB normal” (la società fondata dallo chef, ndr) per rendersi conto che Borghese è un personaggio eclettico e che anche fuori dai riflettori esprime il suo talento a tutto tondo con servizi di catering, formazione culinaria, consulenza e licensing, dimostrazioni di live cooking e, per gli appassionati dell'eccellenza italiana, anche una gamma di pasta artigianale nel suo pastificio milanese di Via Washington. Ciò detto, per molti di noi il capello mosso e un po' negligé, i grandi occhiali neri, il pizzetto alla D'Artagnan e quell'accento romano così musicale descrivono il cuoco, l'imprenditore, l'autore di ricchi ricettari e il conduttore, per altri semplicemente Alessandro, lo chef che ha fatto della semplicità l'ingrediente immancabile di una cucina che ama la tradizione, ma che non prescinde dalla creatività e dall'attenzione all'estetica. Perché è vero che i piatti “brutti ma buoni” della nonna sono un ricordo godereccio della nostra infanzia ma anche l'occhio vuole pur sempre la sua parte.

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CHEF ALESSANDRO BORGHESE: il Lusso della semplicità Lo chef italiano Alessandro Borghese si racconta. Da veterano della cucina, che vanta rilevanti esperienze internazionali tra le navi da crociera e le grandi metropoli come Londra, Parigi e San Francisco e nazionali, a travolgente conduttore televisivo che ha ammaliato il pubblico italiano con la semplicità della tradizione culinaria e di un carattere estroverso e alla mano.

Chef, se dovesse parlare di se stesso a una persona che non la conosce, come si descriverebbe? Chi è Alessandro Borghese? Alessandro Borghese è un cuoco che ha seguito la sua vocazione, già da bambino, di lavorare in una cucina. Sono sempre stato appassionato di fornelli e creazione di piatti, di motori, come mio padre e mio nonno. Amo il mio lavoro e ricordo benissimo quando si è accesa la passione per il cibo. Avevo cinque anni quando, ogni domenica mattina, mi svegliavo molto presto e andavo in cucina per osservare le mani di mio padre muoversi in assoluta sicurezza tra fornelli, piatti e coltelli. La cucina è un posto straordinario, perfetto per le invenzioni, il posto giusto dove usare l'ingegno per le proprie ricette. Il sorriso di mio padre concesso nel descrivermi una ricetta, i suoi consigli come un regalo speciale, hanno sviluppato gradualmente oggi il mio essere chef. Oggi la mia società

l'“AB Normal”, con sede a Milano, oltre a produrre alcuni dei miei programmi, si occupa di ristorazione con il brand “Alessandro Borghese il lusso della semplicità”: la mia cucina, inventiva e generosa, soddisfa con gusto i palati di chi ama le cose ricercate, ma non vuole rinunciare alla tradizione con un servizio completo in Italia e all'estero. Realizziamo allestimenti specializzati dalla scelta della location allo stile e ai menu, offrendo soluzioni adatte per ogni esigenza. Sempre a Milano, abbiamo aperto anche il primo pastificio artigianale di Pasta Fresca. Durante i miei banchetti la richiesta dei tonnarelli trafilati al bronzo o dei tortelli ripieni è sempre molto presente, nel mio pastificio di vendita al pubblico, le bravissime “sfogline” lavorano a mano e con professionalità il prodotto, senza additivi e coloranti e con attenta e scrupolosa valutazione degli ingredienti sempre freschi. Il risultato è un prodotto preparato nel rispetto della tradizione italiana, nella selezione

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degli alimenti attraverso l'eccellenza delle materie prime e nella scelta dei fornitori. Mantenere la propria identità lavorativa, allo stesso tempo modificarsi seguendo i cambiamenti, resta la mia filosofia professionale. Sono un curioso che ama conoscere e scoprire nuove evoluzioni. Cosa vuol dire per lei mangiare? Il cibo è comunicazione da quando l'uomo ha iniziato a condividerlo con gli altri, è un ponte tra le culture. L'evolversi della cucina nel corso dei tempi, ha dato un'impronta decisiva agli usi e costumi di ogni Paese. Nel Medioevo e nel Rinascimento i grandi banchetti erano un modo per esprimere il legame del pasto con l'attività venatoria e in generale con le gite all'aria aperta e in carrozza. Piaceri e usi sociali dell'Occidente in ogni epoca sono rappresentati in molte opere note. Inoltre, il banchetto, dal latino convivium e da cum vivere, esprime la voglia dello


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Foto "Chef Borghese" (Web)

stare insieme. Darwin ha espresso una grande verità “il cibo è il piacere dei sensi che si trasforma più rapidamente in un valore sociale”; oggi il rito della tavola ha una radice comune con il nostro senso di ciò che ci rende umani e di ciò che forma il cuore della nostra memoria. Cucinare è un atto d'amore. In Italia abbiamo una lunga tradizione gastronomica, ed è un dovere per chi fa il mio mestiere comunicarlo. Una volta, neanche tanto tempo fa, se volevi conoscere il cuoco dovevi recarti al suo ristorante e, se non eri esperto di cucina, diventava difficile replicare i suoi piatti. Oggi invece il cuoco puoi averlo nella tua cucina, che prepara una cena per te e i tuoi ospiti. Puoi seguire uno dei suoi corsi e imparare, aggiornarti, sperimentare. A me piace essere connesso con il mondo, mi piace ispirare, insegnare e intrattenere attraverso i miei programmi televisivi e canali web: dal mio sito alessandroborghese.com si può accedere direttamente ai miei social network e comunicare

liberamente con una community capace di condividere una passione comune, attraverso i miei piatti, il mio quotidiano e chiedere: “Ehi ragazzi, vi piace questo piatto?” “Questa canzone?” e ricevere partecipazione immediata del tipo: “Chef mandaci la ricetta del piatto” oppure “Ci mandi una playlist per la cena di questa sera”! In televisione ma soprattutto sui social network il suo pubblico (mi metto anch'io nel novero dei seguaci) apprezza particolarmente il suo atteggiamento giocherellone e scherzoso che traspare dalle decine di autoscatti buffi che pubblica sulle sue pagine. Cosa mette della sua personalità nei piatti che prepara? Il mio essere partenopeo da parte di padre, ha aiutato a farmi strada nel mondo, a saper sperimentare e reinventare piatti che oggi creo. Napoli insegna il valore delle tradizioni, a sorridere alla vita e a salutare con il

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“buongiorno”, anche se il cielo a volte è nuvoloso… il sole si porta dentro di me. Sulle mie pagine molte volte mi scrivono “Sei rimasto sempre te stesso”. Credo sia questa la formula del mio successo. Ho ancora la stessa voglia di imparare e sperimentare che avevo quando mi sono imbarcato, letteralmente, per seguire il mio sogno. Ho ancora l'orecchio teso e la mente aperta a carpire il segreto di un buon piatto. Tutti mi chiedono consigli, non solo culinari, ma io non ho smesso di ascoltare le opinioni e le critiche, quando costruttive, da chiunque. Dopo più di 20 anni nelle cucine di mezzo mondo guardare i miei ospiti estasiati nell'assaporare i miei piatti continua a rendermi felice ogni giorno. Il vero successo non è ciò che si realizza durante la propria vita, ma ciò che si ispira nella vita degli altri. A proposito di televisione, io ero decisamente una di quelle che, in pausa pranzo, cercava di non perdersi una


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puntata di “Cortesie per gli ospiti”…ma da allora ne è passata di “acqua sotto i ponti”. Qual è il programma che le è piaciuto particolarmente girare o quello che la rappresenta di più? Sicuramente programmi come “Cortesie per gli Ospiti” e “L'Ost” sono stati i primi a farmi conoscere al grande pubblico. Girare l'Italia e far conoscere la tradizione della cucina regionale con i suoi personaggi tipici è stato un grande successo. Oggi “Alessandro Borghese 4 Ristoranti” di cui sono anche autore, mi porta in viaggio nella nostra bellissima Italia, tra magnifici scorci e tra la gente, alla ricerca dei migliori ristoranti. Durante le registrazioni, in ogni città in cui ci troviamo, gli abitanti si trasformano in investigatori privati cercando di scoprire in anticipo quali sono i ristoranti che parteciperanno al programma. Sicuramente Twitter mi ha regalato molte soddisfazioni per l'interazione immediata con gli utenti che seguono il programma attraverso i Live-Tweet: durante la messa in onda della puntata #Ale4Ristoranti è arrivato più volte nei top trends della giornata! Quest'anno andrà in onda su Sky Uno la quarta stagione e sono sempre più le persone che aspettano di scoprire quale sarà il miglior ristorante d'Italia e non vedo l'ora di “parlarne” su @BorgheseAle. A breve uscirà anche il suo nuovo libro di “Alessandro Borghese Kitchen Sound”. Cosa dobbiamo aspettarci? “Alessandro Borghese Kitchen Sound” è un progetto crossmediale unico nel suo genere, abbiamo voluto coniugare editori multipiattaforma: Sky, radio Rds e La Stampa! Per la gioia delle aziende che hanno sposato l'idea: l'appuntamento quotidiano, su Sky Uno alle 13, dove preparo le mie ricette italiane, in un ritmo da videoclip con la mia playlist musicale scelta in colla-

borazione con la selezione 100% grandi successi di RDS. A ritmo di sound, si viaggia insieme in un'esperienza unica che abbina la percezione uditiva della musica a quella del gusto e olfattiva del cibo, che esalta i piatti e imprime il loro ricordo. Stiamo girando la terza stagione del programma. Insomma, lei è una persona estremamente eclettica: esce dalla cucina per intrattenere i suoi telespettatori e li strega con la simpatia, dispensa consigli culinari e svela piatti speciali nei suoi volumi, è imprenditore (fonda la società AB Normal Srl)…La cucina è un lavoro o un fortunato hobby? Cucinare è il mio modo di comunicare, il mio strumento di creatività, è tutto il mio essere ricco di spontaneità, il mescolare sapori incredibili con odori semplici ma a volte sorprendenti. Sulla mia pagina interagisco con una moltitudine di persone con differenti culture e gusti. Dalla signora che mi chiede una ricetta veloce da preparare al marito che sta tornando da lavoro ai futuri sposi che vogliono portare “il lusso della semplicità” in un loro evento. Oppure, lavoriamo con diverse aziende, che vogliono organizzare team building per i loro clienti e management, fino alle nonne che mi mandano baci e abbracci per essere riuscito a far sedere a tavola con interesse i loro nipoti. Io mi rivolgo a tutti loro. A chi si approccia per la prima volta sul meraviglioso mondo della cucina. A chi vuole conoscere nuovi sapori riscoprendo il gusto della tradizione. A chi cerca il gusto e la qualità per i propri eventi. A tutti coloro che, come me, credono che cucinare sia un atto d'amore. Un gesto quotidiano per molti e per me è un grande vantaggio: poter fare il lavoro che ho fortemente desiderato. Qual è il messaggio dello slogan della suo società “Il lusso della semplicità”?

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Navigare per il mondo da un emisfero all'altro dona estro e ispirazione, la mente si allarga e si aiuta la propria creatività, il talento. Viaggiare è stato fondamentale per la mia crescita umana e professionale. Una volta sulla terra ferma, sono iniziate le mie esperienze nelle cucine americane, europee e italiane, ho gestito più di un ristorante in Italia e all'estero. Ogni città a suo modo, vende, regala e insegna tante cose; sta a te, saper comprare, avere intuito e soprattutto talento. Il mestiere di cuoco mi porta ad avere un rapporto molto intimo e privilegiato con la materia prima; la mia cucina grazie alla vasta rete di fornitori di fiducia può esprimersi al meglio, i menu per i miei clienti cambiano frequentemente grazie a una programmazione stagionale. Si tratta di alimenti che hanno una storia centenaria, immutata negli anni, le cui peculiari caratteristiche qualitative dipendono essenzialmente dalla zona e dall'attività dei piccoli e grandi produttori. In Italia, ogni regione vanta produttori locali che lavorano da generazioni materie prime eccezionali con un'attenta selezione verso il consumo del cliente: dalle varietà dei formaggi e dei salumi che si differenziano nel processo di preparazione alle coltivazioni di vitigni autoctoni; dalle località di mare con il loro pescato fresco alle malghe ricche di erbe spontanee. Ogni Regione ha i suoi piatti tipici e anche tra città ci sono rivisitazioni di alcune ricette. Il cibo che “parla” italiano è ricco di storia, racconta la nostra cultura, semplicemente resta immutato nel tempo e diventa un patrimonio da salvaguardare. “Il lusso della semplicità” è la mia filosofia in cucina e il nome della mia azienda di banqueting&catering. Ripeto sempre ai miei ragazzi in brigata che: “Cucinare è un atto d'amore”, un gesto quotidiano che amo confermare anche in famiglia. Ho seguito la mia passione, per me è un


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grande vantaggio poter fare ciò che ho fortemente desiderato già da ragazzo, svegliarmi la mattina e potermi dedicare al mio lavoro anche attraverso i miei programmi televisivi. Sono molto fiero del mio team, siamo una squadra eterogenea, legata da una profonda fiducia, dalla passione per il buon cibo e dalla nostra “mission”. L'arte del cibo è un'avventura della mente; un ingrediente ti provoca, ti comunica, ti stimola attraverso i suoi colori, le sue forme e il suo sapore. Puoi respirarne il profumo, studiarlo e con un pizzico di talento e buona tecnica, puoi trasformarlo e renderlo un tuo piatto speciale, legato a un momento unico. Quando preparo i banqueting per i matrimoni incontro gli sposi più volte, creiamo insieme un menu personalizzato che abbia quel gusto particolare ed esclusivo capace di descrivere il loro amore. Sicuramente il must-have è la professionalità che non deve mai mancare nel capire le esigenze e l'emozione del cliente per il suo evento unico. Se lei fosse un giovane “cuoco in erba” e dovesse rappresentare l'Italia a una gara internazionale di cucina, quale piatto proporrebbe per stupire i giudici ma che, allo stesso tempo, ricordi subito l'italianità? Scegliere un piatto che ricordi l'italianità è come scegliere il brano musicale più bello di Battisti. Ogni regione, ogni città e addirittura ogni famiglia con le proprie ricette raccontano la loro storia. Un'impresa non facile, punterei sulla semplicità, sulla valorizzazione della materia prima italiana e su una perfetta esecuzione per ottenere un gusto che raccolga il bouquet di sapori e cultura del nostro magnifico Paese. È importante la gavetta, studiare e sperimentare tutti i giorni. Anche per preparare una pasta cacio e pepe, ci vuole testa. Devi conoscere i formaggi la loro stagio-

natura, sapere che un formaggio si lega meglio con un altro e trovare il giusto abbinamento con l'amido della pasta per avere, davvero, una buona cacio e pepe. Far da mangiare non è facile, è una grande responsabilità. Quando i miei compagni sognavano di segnare il gol fondamentale per la finale di coppa del mondo, di vincere un oscar come miglior attore, io mi vedevo in casacca a spadellare in cucina, con la mia brigata, per donare un'emozione unica ai miei ospiti. La cucina è un luogo impegnativo, ci vuole concentrazione, intuizione ed esercizio fisico ma mi ha sempre regalato quel tocco più emotivo e intenso che avessi mai sentito, mi fa stare bene. Tra i fornelli sei accaldato, adrenalinico, hai lo sporco sulla casacca, e i giorni rossi del calendario sono quelli in cui sei a lavoro! …ma alla fine hai grandi soddisfazioni. Una volta l'alta cucina era appannaggio di pochi rimasto in ombra rispetto all'attenzione del grande pubblico, una vera e propria nicchia. Crede che in qualche maniera sia divenuta un buon “prodotto” (direi finalmente, ndr) per il grande pubblico grazie alla mutevolezza della moda che periodicamente investe quasi ogni aspetto della nostra vita? Il food ha catturato l'attenzione dei network televisivi e di Internet, la cucina è l'anima del nostro Paese, le materie prime sono uniche ed eccezionali, era ora! Oggi abbiamo la fortuna di avere mezzi di comunicazione immediati e diffusivi, e chiunque attraverso la televisione, internet e la stampa, può seguire i procedimenti e i consigli dello Chef preferito. Mi piace essere connesso con il mondo, scoprire le nuove tendenze dell'universo culinario, prendere spunti per come migliorare i miei piatti. La mia attenzione è rivolta al mondo degli internauti quanto al consiglio che mi da chi mi ferma per chiedermi un autografo. Anni fa per conoscere i piatti

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come ad esempio l'universo musicale e l'arte. Prima era impensabile, raccontare di piatti con brani rock o parlare in un'intervista come questa, di eventuali abbinamenti tra le due realtà. Ho creduto fortemente al mio lavoro e al potenziale della cucina in Italia. Un comico una volta ha esordito con la frase “Se devi sposarti, sposa qualcuno che sappia cucinare. La bellezza svanisce, la fame no”. Anche lei ha conquistato sua moglie con la cucina?

Foto "Chef Borghese" (Ufficio Stampa)

dello chef e avere qualche ricetta e consiglio, dovevi recarti al suo ristorante. Sui miei social ricevo tantissime ricette, consigli e richieste di cucina e proprio per questo su facebook, tramite l'account del mio programma “Alessandro Borghese Kitchen Sound”, ho voluto dare maggiore spazio a tutti gli amanti della buona tavola: stiamo ricevendo molti video e tantissime foto di ricette invitanti e gustose. Le più originali e interessanti sono pubblicate sulla pagina facebook del mio programma! In Italia abbiamo creato un linguaggio universale sul cibo: pasta, cappuccino, spaghetti, parmigiano, espresso, pizza. Puoi trovarti in un qualsiasi posto all'estero, parlare in una lingua non tua, che la parola “pasta” resta per tutti il sinonimo per eccellenza del Bel Paese. E' fondamentale divulgare l'agroalimentare italiano a casa nostra e nel commercio mondiale, finalmente era ora che oltre all'arte, alla storia, al turismo, alla moda e pure al calcio, ci fosse molta attenzione alla nostra cultura gastronomica. È un grande biglietto da visita nel Mondo. Ovviamente sono lusingato di essere stato un precursore degli Chef in TV. Inoltre sono fiero di aver sdoganato la cucina e a impastarla con altri universi affini,

A volerla dire tutta e, citando il vecchio adagio “dietro ogni grande uomo si nasconde una grande donna”, io più che dietro la vedo sempre al mio fianco: mia moglie, un manager che non ama i riflettori e l'esposizione mediatica. L'ho incontrata anni fa nel suo precedente ufficio, presso la multinazionale per cui lavorava. E dopo aver avuto il classico colpo di fulmine, è bellissima, l'ho portata via dall'azienda per cui lavorava e abbiamo fondato l'AB Normal. La sua famiglia era già nel settore Food & Beverage, era naturale riportarla a lavorare nel cibo, oltre alla stima lavorativa e riconoscenza non solo le devo un matrimonio felice e due figlie meravigliose, ma anche una consulenza e competenza imprenditoriale che oggi permette a un'intera squadra di non fare passi falsi. Mi dica la verità, ma un grande cuoco mangia anche junk food? Alzi la mano chi dopo una giornata di lavoro non vorrebbe tornare a casa e trovare pronto un aperitivo con qualcosa da stuzzicare per scrollarsi di dosso tutto lo stress e le preoccupazioni! Il junk food non deve essere visto solo come un hamburger o qualcosa che gronda unto. Il junk food è un guilty pleasure, un'eccezione, il gusto di evadere, di soddisfare un piacere recondito dentro

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Foto "Chef Borghese" (Web)

di noi. È l'assolo di Page che esce dal tema del brano per esaltarne ancora più il ritmo. Ci si potrebbe scrivere un libro dal titolo “cinquanta sfumature di frigo” per quanti peccati inconfessabili ci sono dietro questo “colpevole” piacere. Sarò sincero: anche io mangio junk food, ma preferisco preparalo a casa da me. Il bambino che è dentro di me inizia a sorridere, quando tornando a casa dopo una giornata di lavoro, trovo in frigo la pasta avanzata a pranzo. La ripasso in padella fino a che non si creano quelle peccaminose crosticine. Un sapore unico. I ricordi del mio passato, della mia infanzia, si mescolano agli odori e al gusto del piatto per un'esperienza da ripetere due volte! Ha in vista progetti o collaborazioni significative per il prossimo futuro? Sì, lo scorso 7 marzo ha preso il via un'importante partnership con Obicà (il famoso Mozzarella Bar italiano che ha reso la bufala campana la regina dei piatti proposti, vanta ben 22 sedi in Italia e nel mondo tra le quali Milano, Firenze, Roma, Londra, New York, Los Angeles, Tokyo...ndr) che mi ha voluto come Chef creativo. Sposiamo la medesima filosofia del buon cibo italiano, del mangiare bene interpretandolo come un momento

di convivialità da condividere con gli altri, da qui il motto del Food to share. Dopo tutto, il vero lusso risiede proprio nella semplicità senza però prescindere da una selezione delle materie prime, sempre di altissima qualità. Per Obicà ho realizzato quelli che abbiamo voluto simpaticamente chiamare “Piattini”, nuove proposte da degustare in compagnia che presento personalmente a partire da marzo al Live Aperitivo Tour, una serie di eventi creati ad hoc presso i ristoranti di Milano, Roma, Firenze, Londra e New York… un connubio perfetto di musica con dj set dedicati, atmosfera informale e convivialità condita da ottimo cibo. Per il primo “Speciale del Mese” di Obicà (proposte fuori menù che il Mozzarella bar propone mensilmente per dare risalto a un prodotto specifico, ndr), per esempio, ho proposto la pasta alla Canapa con bufala affumicata, mantenendoci fedeli all'ingrediente principe di Obicà, la mozzarella di bufala, che oltre a essere salutare e simboleggiare il buon cibo italiano, è anche la metafora della semplicità. Da giovedì 1° giugno vanno in onda i nuovi episodi estivi di "Alessandro Borghese 4 Ristoranti".

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Intervista a cura di ISABELLA SCUDERI

Alajmo Attenti a quel duo

"Max&Raf" (Lido Vannucchi)

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Alajmo

Attenti a quel duo, la storia della gastronomia non è ricca certamente di coppie celebri, e accade raramente che i critici siano subito tutti d'accordo, con loro è successo, i fratelli Alajmo sono delle <<rockstars della ristorazione>>.

Massimiliano Alajmo è il capofila degli chef innovatori, un'inedita rivalutazione della cucina di qualità, a fianco di suo fratello Raffaele rappresentano quello stile dove la mente e il cuore li percepisci in un piatto, e te ne innamori.

a dietro c'è tutto un ecosistema, così per dire, fatto di concetti ed equilibri che vengono messi in atto nella lavorazione in cucina, la cucina italiana sembra cambiare passo quando a valorizzarla sono le mani e la mente di Alajmo, verso l'educazione che è il rispetto più simbolico per il cibo, l'acqua vitale elemento di vita, è la sua musa, si sofferma ragionandoci per trarne ancora il meglio. C'è una citazione di Paola Maugeri che recita: "Le ricette di cucina sono un bene universale estremamente democratico, un tesoro che appartiene a tutti e che come le sette note può essere combinato in migliaia e migliaia di modi e diventare personale, a volte unico." Alajmo è unico.

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Ed ecco che entriamo nel cuore delle loro parole. La famiglia Alajmo è un piccolo monumento della cucina Italiana, essere precisi, seducenti, riconoscibili, caratterizzati costantemente dalla ricerca è sempre un superamento, che cosa vedete nel futuro della cucina? Raf: E' in corso un cambio generazionale che porta l'arrivo di tantissimi e bravi chef che rinfrescheranno e daranno un vigore ancora più intenso a quello che già oggi rappresenta la

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cucina italiana nel mondo. Mi racconti la più grande emozione che ha trovato in un piatto fatto da lei, e fatto da altri. E per lei Raffaele, da suo fratello e da altri? Max: Partendo dal presupposto che per me ogni piatto ha pari dignità difficilmente posso raccontare di provare piacere per uno piuttosto che per un altro. Se invece devo pensare ad un piatto che ancora oggi mi suscita emozioni penso al riso e latte di mia mamma oppure ad un piatto che ho mangiato per la prima volta vent'anni fa da Paul Bocuse, la lievre à la royale. Raf: I piatti di Massimiliano che mi hanno suscitato emozioni sono innumerevoli e se devo citarne uno penso ad un dessert del 2015, la “mozzarella di mandorle “, un dessert straordinario, estremamente innovativo e molto leggero, senza latticini. Esteticamente assomiglia ad una mozzarella la cui forma viene data da una pasta di mandorlato soffiato con la tecnica di lavorazione dello zucchero, ripiena di una schiuma di mandorle condita con un goccio di olio di oliva, dei capperi caramellati, un po' di peperoncino e basilico; dessert geniale che rappresenta in pieno l'Italia e la cucina mediterranea. Per quanto riguarda il piatto di un altro chef concordo in pieno su la lievre à la


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royale di Bocuse perché quella sera l'abbiamo mangiato e goduto assieme. Cosa intende per “stile italiano”? Ritiene si possa trasmettere e insegnare l'italianità attraverso la cucina? E in altri settori? Max: L'Italia è probabilmente il paese più creativo della terra la cucina italiana infatti è una delle cucine più varie del mondo, non è questione di insegnare ma di valorizzare il nostro patrimonio che il mondo apprezza e chiede costantemente di voler conoscere più approfonditamente. Raf: Concordo con Massimiliano ed aggiungo che il marchio Made in Italy è il marchio più conosciuto al mondo. Parliamo di Amo, come si inserisce e si integra un ristorante/bistrot/bar gourmet dalle diverse declinazioni, in una struttura che fa del lusso il proprio cavallo di battaglia? Raf: Si integra proprio come ha detto lei, con la multiversatilità che parte dal semplice caffè o cappuccino preso al banco passando per l'aperitivo, il pranzo, il tè, la cena, il cocktail e la musica, ai macarons piuttosto che i gianduiotti, ai calici e piatti fatti a mano da regalare o da portarsi a casa.

"Tavolo Calandre" (Sergio Coimbra)

"Carote e porri all'arancia con gelato alla curcuma" (Lido Vannucchi)

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"Tavolo Rotondo" (Mario Reggiani)

"Carote e porri all'arancia con gelato alla curcuma" (Lido Vannucchi)

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Qual è il vostro punto di forza, insieme siete arrivati a creare nove capitoli enogastronomici, dunque ditemi cosa significa credere nella forza reciproca. Max: La nostra forza è che siamo due di cinque intanto, perché dietro a noi c'è una sorella, un papà ed una mamma, quindi una famiglia; alla nostra famiglia si sono poi affezionati numerosi eccellenti collaboratori con i quali abbiamo costruito quello che siamo oggi. Raf: Una nostra caratteristica molto importante è il modo di vedere le cose con due punti di vista completamente diversi e molte volte contrapposti. Le scelte più importanti sono sempre state una somma delle due visioni maturate con il resto della famiglia. Lo scenario professionale di uno chef si compone di cuochi, ristoranti, luoghi, tecniche, creazioni, una complessità di elementi che faranno parte del proprio bagaglio culturale. A volte si ha la fortuna di incontrare e imparare da veri maestri di cucina. Momenti fondamentali che identificano un passaggio, una consapevolezza, un salto di qualità. Quali sono stati i suoi maestri di cucina e quali tracce conserva del loro passaggio? Max: I miei primi maestri sono stati la mamma e suo fratello, lo zio, Giovanni, e la mia prima esperienza in una cucina fuori casa è invece stata da Alfredo Chiocchetti che all'epoca aveva il ristorante “ Ja Navalge” a Moena con una stella Michelin. Successivamente ho lavorato da Marc Veyrat a “L'Auberge de l'Eridan” ad Annecy che all'epoca aveva due stelle Michelin e per ultimo da Michel Guerard a “Les Prés d'Eugénie” a Eugénie Les bains che aveva tre stelle che ha conservato fino oggi e ne festeggia i quarant'anni: tutte queste esperienze le ho avute prima dei diciotto anni, durante la scuola alberghiera, nella vita poi ho incontrato e continuo a conoscere tanti maestri, ognuno "Amo" (Federico Nero)

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"Amo" (Federico Nero)

Oltre alle Calandre di Rubano, Padova (3 stelle Michelin dal 2003), oggi il gruppo Alajmo controlla La Montecchia e ABC Montecchia a Selvazzano (Padova), Il Calandrino a Sarmeola (Padova), Caffè Quadri (che è un locale 3 in uno: Abc Quadri, Gran Caffè e Ristorante Quadri) e bistrot Amo a Venezia e Caffè Stern a Parigi. "Amo" (Federico Nero)

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con una propria vocazione. Parlando di ricerca e anticipazioni dei nuovi trend nel settore enogastronomico qual è l'elemento che va sottolineato? Al momento, le tendenze e i gusti dei consumatori sono più sofisticati, voi operate a grandi linee nel settore del lusso, concetti come costoso diventano relativi, quali sono i giusti equilibri in un ristorante tristellato come le “Calandre”? Max: Io rispondo alla prima domanda dicendole la leggerezza e la verità degli ingredienti. Raf: E' difficile rispondere alla sua seconda domanda perché operiamo nel settore del lusso ma in molti dei nostri locali si può entrare e bere un caffè con 1,50 euro. Tutti i ristoranti importanti hanno un'elevato numero di dipendenti in rapporto al numero di clienti servito come negli alberghi di lusso, va da se che i prezzi da pagare da parte dei clienti siano elevati. La cosa più importante è sempre la soddisfazione del cliente e il riconoscimento da parte di quest'ultimo che il prezzo pagato sia adeguato alle soddisfazioni ricevute rapportato con altri ristoranti della stessa categoria. Ho seguito con attenzione la sua presentazione sul palco di Identità Golose, una nuova avventura quella della creazione della “pizza a vapore” un bello scatto avanti averla patentata, così da rendere la pizza una nuova serie, per chi non ha avuto la fortuna di ascoltarla vuole raccontarci di cosa si tratta, e come è nata l'idea.

"Raf" (Matteo Defina)

Max: Nei giornali ed in televisione si parla un pochino troppo di cibo che invece va gustato, vi invito a provarla da Amo, troverete quella che noi chiamiamo "pjzza" che è un nostro brevetto che ci permette di servire un prodotto gastronomico estremamente leggero.

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"Fontego Tedeschi" (Marta Buso)

"Gallustra" (Lido Vannucchi)

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"Verdure cotte a freddo" (Sergio Coimbra)

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Nove ristoranti da gestire: una bella responsabilità, mi dice qual è stato il più difficile da far decollare. Max: Sono come dei figli, sono tutti uguali, ognuno ha il proprio carattere e le proprie particolarità. Raf: Oltre i nove da lei citati ci sono il negozio di alimentari In.gredienti , la Alajmo Events ed è in corso di costruzione “Mamma Rita”, l'Alajmo Lab. La difficoltà oggi sta nel trasmettere ai nostri più diretti collaboratori il nostro pensiero in modo che tutte le attività funzionino esattamente come noi vorremmo. Qual è il suggerimento che i suoi genitori le hanno dato per sostenerla nella vita. Max: Di essere sempre noi stessi. Raf: Mi dicono sempre di mangiare meno ma come faccio con un fratello che cucina così bene?

"Tagliatelle Primavera" (Lido Vannucchi)

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di CLAUDIO SARTOR

Ilario, un imprenditore in bretelle.

a Vecia Osteria del Moro è situata in un antico convento del 1300, è una struttura di gemmeo pregio architettonico, ritmata da un sistema a volte a crociera in mattoni restaurate a gesso come volevano canoni dei primi anni 80' , quelli in cui è stata restaurata. Il profumo del noce italiano, la rugosità olfattiva della pietra, vengono gentilmente accarezzate dalle fragranze della cucina friulana. Si differenzia dal contesto culinario per il suo silenzio e la sua calma, con cui affronta la giornata, giorno dopo giorno, anno dopo anno, decennio dopo decennio. Si potrebbero stendere numerose lodi per quello che rappresenta come struttura, per come è rimasta immutata nell'arco del tempo, facendo della propria storia e tradizione il proprio cavallo di battaglia; fiumi di inchiostro si potrebbero riversare per elencare i premi vinti, le battaglie perse e le innumerevoli vicende nate e morte all'interno dell'Osteria, ma per me c'è solo una parola per definire quel luogo, ed è: Casa. Mi è stato chiesto di scrivere di Ilario Sartor: proprietario e gestore dell'Osteria, ma essendo mio padre, non voglio ridurre questa intervista ad un elogio alla persona, ma cogliere la possibilità di chiedergli “perché”, domandargli quali sono i suoi processi logici e quali interpretazioni personali lo hanno portato ad essere imprenditore coraggioso, ottimo mentore e padre speciale.

L

"Ilario Sartor" (fornita)

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Babbo, perché Pordenone? Hai vissuto in tutta Italia, hai impreso dal nord al sud, perché proprio Pordenone dove fermarti ed iniziare una nuova avventura? Ciao Sartor. Io e tua madre siamo arrivati a Pordenone nel '76, anno in cui è nato tuo fratello Andrea, il motivo è molto semplice: in quegli anni, il Friuli era appena nato. Fioriva. Un'opportunità costante. Nessuna regione nel resto d'Italia, tranne il Veneto, era così in fermento come la tua terra natia: era un momento d'oro, nascevano imprese ogni giorno, spuntavano palazzi ogni anno e il clima era fantastico. Pordenone all'epoca era la patria degli Zanussi e dei Savio: era ricchezza, come in poche zone d'Italia ho visto. Io provenivo dall'alta scuola degli Agnelli in Sardegna e Cortina e ho provato a portare quello che avevo imparato a casa, ho provato ad innestare un sistema lavorativo diverso, che in altre grandi città già esisteva e funzionava. In parole povere ho provato ad esser un profeta in patria. Gli anni che ho passato tra Venezia, Milano, Roma, Porto Rotondo e Cortina mi hanno permesso di apprendere dai migliori mentori per poi praticare l'arte della ristorazione a casa. Ho visto una porta aperta e ho provato ad entrare, anche se non sapevo come sarebbe andata a finire.

Vista interni del Ristorante "La Vecia Osteria del Moro" (fornita)

Vista interni del Ristorante "La Vecia Osteria del Moro" (fornita)

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Perché La Vecia Osteria del Moro? Un giorno di primavera mi chiamarono a vedere la struttura, l'avevano appena restaurata. Prima l'Osteria era un luogo buio e malconcio, la conoscevo, ma non l'avevo mai frequentata. Quando entrai fu amore a prima vista: la sentii casa e così fu. Sono passati 35 anni e continuo a sentirla tale. Il giorno che non mi trasmetterà più questa sensazione sarà il momento di dirle addio. Descrivi l'Osteria in poche parole. E' un ristorante che propone una cucina povera di stampo friulano con materie prima di altissima qualità, accompagnata da una cantina di nicchia. Sono cose che già conosci perché me le chiedi? Perché l'hai trasformata in ristorante e non l'hai lasciata Osteria? Bella domanda! E' molto semplice: vedi di cose che funzionano ne è pieno il mondo, di Osterie pure, ho sempre voluto evolverne il concetto. Ho sempre saputo fin dal primo giorno d'apertura quale fosse la mia missione: elevare il cibo territoriale, trasformare le ricette del nostro territorio da povere di gusto a ricche di sostanza. Ci ho messo anni, ad impormi sul mercato e alla fine il mercato mi ha dato ragione. Perché una cucina stagionale e territoriale? Perché trovo che l'alimento stagionale sia più genuino rispetto a quello coltivato in serra o di importazione, perché quello allevato nel rispetto del ciclo della vita ha più sapore rispetto a quello di provenienza di allevamenti massivi. Ognuno ha il suo codice personale e questo è il mio: usare e trasformare materie prime di altissima qualità per le nostre ricette. Vedila come una forma di rispetto verso il lavoro che faccio ogni giorno e ricordati sempre che fare la spesa è un'arte che si apprende nell'arco di una vita: molte ricette che usiamo quotidianamente sono della nostra famiglia e

Vista interni del Ristorante "La Vecia Osteria del Moro" (fornita)

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Ilario, imprenditore coraggioso, ottimo mentore e padre speciale.

Vista interni del Ristorante "La Vecia Osteria del Moro" (fornita)

devono essere rispettate, stravolgerle sarebbe come dimenticare da dove vieni e perchÊ sei al mondo. Territoriale perchÊ amo la mia terra e sono convinto che abbia molto da dare: molti trascurano la cucina friulana, sbagliando, per anni si sono dimenticati chi siamo, sia nel cibo che nel vino. Cantina esclusivamente friulana? Ovviamente. Collio, Collio orientale, Carso trestino e Grave, abbiamo abbandonato da tempo la cantina a stampo nazionale e non,  ci siamo concentrati sulle piccole cantine, abbiamo voluto espandere il verbo e far conoscere i piccoli produttori sotto le 40.000 bottiglie. Come ti relazioni con la nuova cucina? Sapevo sarebbe arrivato questo momento, l'eterno scontro tra me e te. Mi relaziono in maniera positiva: cerco di capirla e di essere aperto nei suoi confronti ma a volte la trovo di difficile comprensione. Ci sono degli equilibri incredibili nella nuova scuola, cose che io al tempo non potevo nemmeno sognarmi di provare, influenze dall'oriente, dal nord Europa, tecniche di preparazione davvero incredibili, metodi di conservazioni e cotture

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figlie della tecnologia odierna. La vera domanda che dovresti pormi è: trasformeresti mai le tue ricette preparandole in chiave moderna? La risposta è no ed il motivo è molto semplice: sono nate così e devono restare così. Visto che entrambi siamo appassionati di macchine d'epoca ti faccio un paragone: prenderesti mai una vecchia Porsche per trasformarla? Le cambieresti mai le linee dell'aria, gli interni, la trasmissione? Presumo di no, perché comprare una vecchia Porsche per renderla irriconoscibile, perché comprarla se non perché ti piace così com'è? C'è un tempo per innovare ed un tempo per preservare. Io faccio parte della vecchia scuola e ne vado fiero, sono contento che qualcuno ci provi e ci riesca, sono contento che qualcuno trasformi ciò che c'è dandogli nuova luce ma ci deve essere anche qualcuno che preservi la nostra memoria culinaria. Ultima domanda. Definisciti come ristoratore. Che domanda è? Definiscimi tu, io non sono bravo con le parole, ho sempre dimostrato tutto con i fatti. Sono bravo a scegliere le materie prime il resto lo fanno loro, dialogo con il mio staff come se fosse parte della mia famiglia, tengo all' Osteria come se fosse casa. Amo il mio lavoro. Ogni Persona può essere identificata con un luogo, un profumo, una canzone, io mio padre lo identifico con un luogo: lui e l'Osteria sono la stessa cosa, vigore e onestà, ricerca ed audacia.

Dettaglio "La Vecia Osteria del Moro" (fornita)

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Entrata "La Vecia Osteria del Moro" (fornita)


L U X U R Y M U LT I B R A N D S T O R E

DOBBIACO / CORTIN A D’AMPEZZO

DOBBIAcO Via Dolomiti 46, T 0474 972328 cORTINA corso Italia 107, T 0436 3197 cORTINA corso Italia 92, T 0436 860224 cORTINA corso Italia 111, T 0436 5191

FRANZ KRALER UOMO ALEXANDER McQUEEN ALDEN BALENcIAGA BALLANTYNE BALLY BALMAIN BARAcUTA BARBA BARBOUR BARK BLUNDSTONE BOB BOGLIOLI BORRIELLO BOTTEGA VENETA BULGARI BURBERRY cAR SHOE cHURcH´S cARREMENT BELLE PARFUMS DOLcE & GABBANA DOPPIAA DR. MARTENS DSQUARED DUVETIcA ERMANNO ScERVINO ETRO FAY FENDI FK1902 FREEDOMDAY FURLA GIVENcHY GOLDEN GOOSE GUccI

HERNO HYDROGEN HOGAN IL cAPPOTTINO INcOTEX JAcOB cOHEN JIMI ROOS FOR DUVETIcA JIMMY cHOO JOHN LOBB JOSHUA SANDERS KENZO KITON LEMPELIUS LOEWE LODENTAL LORO PIANA LOUIS LEEMAN MARcELO BURLON MAUNAKEA MONcLER MONcLER GAMME BLEU MOScHINO MR&MRS ITALY MYKITA NEIL BARRETT PALM ANGELS PALTO´ PARAJUMPERS PHILIPP PLEIN PIHAKAPI PRADA PRADA LINEA ROSSA SAINT LAURENT PARIS SALVATORE FERRAGAMO SANTONI SLOWEAR STONE ISLAND TABARRIFIcIO VENETO

THE GIGI THE LOVERS cLUB TOD´S TOM FORD TRIcKER´S UGG VALENTINO ZANELLATO WOOLRIcH

FRANZ KRALER DONNA ALEXANDER McQUEEN ALEXANDER WANG AMUSE ANYA HINDMARcH AQUAZZURRA AU SOLEIL DE ST. TROPEZ BALENcIAGA BALLY BALLANTYNE BALMAIN BEA YUK MUI BLANcHA BOGLIOLI BOTTEGA VENETA BULGARI BURBERRY cAR SHOE cATERINA ZANGRANDO cARREMENT BELLE PARFUMS cÉLINE cHIARA FERRAGNI cHLOÉ cHURcH´S cLASSY

cOAcH DAD MILANO DELFINA DELETTREZ DANIELA VEZZA DESIGN INVERSO DOLcE & GABBANA DR. MARTENS DROME DSQUARED DUVETIcA ELENA GHISELLINI ENFOLD ERMANNO ScERVINO ETRO FAUSTO PUGLISI FAY FENDI FERRAGAMO cREATIONS FK1902 FREEDOMDAY FREAK FURLA GEDEBE GIADA BENINcASA GIAMBA GIANNIcO GIVENcHY GOLDEN GOOSE GR1PS GUccI HERNO HISTORY REPEATS HOGAN IL cAPPOTTINO INcOTEX IPHORIA JIMMY cHOO JOSHUA SANDERS

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franzkraler

KARL LAGERFELD BAGS KENZO KITON LES PETIT JOUEURS LODENTAL LOEWE LORO PIANA MARcELO BURLON M.MAESTRELLI MARNI MATE MAUNAKEA MAVINA MIcHAEL KORS MIU MIU MONcLER MOScHINO MR&MRS ITALY MYKITA N 21 OFF PAULA cADEMARTORI PEPPER cHOcOLATE PHILIPP PLEIN PIERRE HARDY PRADA PRADA LINEA ROSSA PREMIATA REBEccA MINKOFF SEAFARER SAINT LAURENT PARIS SALVATORE FERRAGAMO SIMONETTA RAVIZZA SOPHIE HULME STELLA MccARTNEY STELLA JEAN TABARRIFIcIO VENETO TEMPTATION POSITANO

THE LOVERS cLUB TOD´S TORY BURcH TRIcKER´S UGG UNRAVEL VALENTINO VUE SUR MER V°73 WOOLRIcH ZANELLATO

FRANZ KRALER BAMBINO BABE & TESS BLUNDSTONE BLU SKY BURBERRY DOLcE & GABBANA DOU DOU FENDI GOLDEN GOOSE GUccI HERNO HYDROGEN HUNTER MARcELO BURLON MONcLER MSGM PHILIPP PLEIN SALVATORE FERRAGAMO SHOES SAVE THE DUcK STELLA MccARTNEY TOD´S SHOES UGG WOOLRIcH


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PAVONI #nuovipavoni si diventa

Ci racconti questa storia intitolata “Pavoni”? Certo! Il “c'era una volta” risale al 1980 quando l'acume imprenditoriale di mio marito si è trasformato in un progetto concreto. Il suo grande merito è stato quello di essere un imprenditore rampante, che ha individuato il potenziale della nicchia. Pavoni nasce dal coraggio dei leoni, che a volte incontra gli uomini. Dal 2001 dirigo l'azienda, dal 2001 cresce la mia passione. Tengo i piedi per terra, lo faccio davvero. Umiltà è un valore, poi vengono la passione e perché no, la soddisfazione. Che cosa rappresenta il food per l'Italia, oggi? L'essenza. Oggi e sempre. La tradizione.Esiste una vera e propria euforia per il settore del food, arrivata a una maturità, derivante dalla consapevolezza. Il nostro cibo parla per noi. Una pizza racconta dei paesi sperduti in cui si produce il grano, dei pomodori maturati al solleone. Se solo sapessimo valorizzare appieno tutta questa bellezza, l'intera economia italiana troverebbe nuovo respiro. L'italia è una fucina di leccornie e meraviglia. Mi raccontano di stranieri incantati davanti a una foto da Sal De Riso, che ritraeva i suoi

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La storia dell'eccellenza si tinge di “dolce” Intervista a Corinna Raineri Pavoni


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nonni con la pasta appesa ad asciugare al sole.

pg. 62 "Fasce microforate in acciaio inox per torte Moderne" (Progetto sviluppato con il Maestro Gianluca Fusto)

Che cos'è la pasticceria? pg. 63 "Stampi per praline ICONIC" (ideate da

Ė un'emozione. È un'emozione trasgressiva. Quando un dolce è di qualità allora è un gesto di cultura. La pasticceria è la più forte tra le coccole.

Fabrizio Forani)

pg. 64 "Stampo per torte TOP KE031" Linea " Le torte di Emmanuele" (Ideata con il Campione del Mondo Emmanuele Forcone)

Quali sono i segreti per rispondere alle esigenze del mercato a cui vi proponete? Direi che il segreto è la lungimiranza. Anticipare i bisogni. Chi fa dolci, per lavoro, per passione o per amore, ha bisogno di supporti pratici e belli. L'occhio accompagna la mano in un viaggio culinario che inizia dalle mani sporche, dalle uova che incontrano la farina. Supportiamo i nostri pasticceri fornendo loro la concretezza che permette l'espressione del genio. Penso a Cédric Grolet, miglior pasticcere di Francia nel 2016. Vedo realizzati i nostri sforzi quando Pavoni diventa parte del processo di creazione. È come concorrere alla realizzazione del bello, è così che si alimenta la nostra passione. Quanto conta l'arte nella pasticceria? La pasticceria è arte. Tutti i sensi che arrivano prima del gusto sono un indispensabile corollario. Uno straordinario susseguirsi di gratifiche che sfociano sul palato: questa è arte. Questa è pasticceria. Due mondi complementari. Trovi che la pasticceria sia un fenomeno sociale, oggi? Non solo. I pasticceri sono diventati estremamente colti. Sai, nutro sconfinata stima nei loro confronti. Si tratta di lavoratori indefessi che hanno cavalcato la congettura economica degli anni

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2000 trasformando crisi in opportunità. I pasticceri non erano bruchi, non era scritto nel loro destino di diventare farfalle. Eppure li vedo volare, hanno lasciato il bozzolo per regalarci arte. Penso ai giovani, alla Scuola dei Campioni di cui Pavoni Italia è socio fondatore. Mi inorgoglisce vedere il fiorire delle nuove generazioni, ci sono ragazzi estremamente meritevoli. Penso a Silvia Federica Boldetti e Davide Comaschi, sono i giovani che faranno ancora più grande questo settore. Mi piace l'associazione dell'aggettivo “colto” alla figura del pasticcere… Si tratta spesso di uomini e donne che hanno deciso di trasformarsi in professionisti. Acquisire una professione significa studiare. Lo studio però non basta. Serve saper “rubare con l'occhio”. Il mondo è una acquario straordinario. Va ammirato, e a volte ci si deve tuffare. Nei dolci si nascondono viaggi, profumi, colori e avventure. Il dolce svela la storia del suo pasticcere. Il legame è forte, l'influenza reciproca. Grazie ai pasticceri abbiamo visto risorgere il settore: la pasticceria è una vera e propria fenice gastronomica. Trovi che il settore si sia rinnovato? Mi interessano particolarmente le nuove declinazioni. Pensa al babbà, è l'emblema della tradizione partenopea. Alfonso Pepe l'ha messo sotto vetro. Le radici rimangono stabili nel terreno ma il raggio si ampia. Il classico fiorisce tingendosi di nuovo. A proposito di tradizione, qual è il baricentro geografico della pasticceria? La pasticceria è policentrica. Basti pensare che noi, una realtà profondamente italiana, arriviamo in tutto il mondo. Un concetto tradizionalmente mediterraneo è in realtà globale. I paesi emergenti hanno molto da dire e per i professionisti c'è grande margine di crescita.

Per arrivare così lontano avete usato anche il digital, corretto? Assolutamente, anche se ti confesso che vivo il digitale con un po' di fatica immersa in una sensazione di assoluta ineluttabilità, per questo mi sono affidata ad un team estremamente competente che mi supporta in questa attività. Occorre fiducia per assorbire un linguaggio tanto settoriale. Io non sono cresciuta in quest'ottica. Pavoni è un vero e proprio laboratorio digitale. Una volta capito che certi strumenti erano indispensabili, abbiamo iniziato a sperimentare. La ricetta può essere ancora perfezionata ma nell'aria c'è un gradevole profumo. I social? Un'opportunità. Li segue Gaia Gaudenzi, neofita della pasticceria, navigata nella comunicazione. È stato così bello vederla appassionarsi a questo mondo. Il nostro target è molto vasto, abbiamo due profili Facebook istituzionali: Pavoni Idea e Pavoni Italia Professional. Abbiamo aperto queste piattaforme per stimolare il dialogo, l'obiettivo era l'interazione con la community. Ad oggi siamo in grado di presidiare la conversazione in più lingue, il dialogo è vivace, siamo veloci nella risposte. La comunicazione è davvero orientata all'utente più che al prodotto. Utilizziamo anche Instagram, l'aspetto iconografico è fondamentale in un settore come il nostro. Pensa che le persone si inseriscono nel turn taking utilizzando hastag come #pavonidays o #nuovipavoni. Quest'ultimo l'ha coniato Gaia, lo utilizzano coloro che si approcciano all'azienda, una sorta di simpatico battesimo virtuale. Fioriscono i filoni di conversazioni, è incredibile come la rete brulichi. I social ci connettono agli ambassador, spesso sono loro a sceglierci e a mettersi in contatto con noi. Genius People Magazine / Issue 8


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E il video marketing? È l'ennesima delle vostre sfide? È il fulcro empatico della nostra comunicazione. Le conversazioni si amplificano attraverso l'enorme megafono dei video, immediati e divertenti. Abbiamo declinato l'attività su diverse direttrici a seconda del pubblico. Produciamo contenuti video sia per Pavoni Professional che per Pavoni Idea. Utilizziamo spesso i live video, coinvolgiamo i nostri partner e chi ci segue. Ci interessa il concetto di “proximity”. Cosa mi dici a proposito di Chef Talk e Chef in camicia?

faccia. Cerco di farlo con umiltà, rappresento la mia azienda, la mia grande passione per il mondo ci circonda. E ci nutre. Quale futuro vedi per Pavoni sui Social? Manterremo questo assetto: grande sperimentazione! Pavoni on-line è un vero e proprio laboratorio, come quelli dei miei tanto stimati pasticceri. L'evoluzione digitale è vertiginosa, quasi vorticosa. Rimaniamo molto aperti alla novità, con Gaia abbiamo scelto di rinnovarci ogni giorno. Come? Mettendoci in gioco. Non abbiamo paura del rischio oculato.

Impariamo dai maestri. Ci confrontiamo continuamente con realtà che fanno della divulgazione il loro mestiere. Progetti diversi rivolti a target diversi, ma l'essenza è la stessa: creare contenuti interessanti, ad altissima fruibilità. La pasticceria rappresenta un'estensione di queste iniziative gastronomiche dal sapore 4.0. E le parole: quanto contano? Parole e immagini. Non saprei cosa scegliere. Diciamo pure che le parole sono fondamentali. Lavoriamo con quaranta blogger, questo supporta l'importanza che diamo ai contenuti. Si parla di ricette, spingendosi spesso oltre. Si scrive di colori, di gusto, di lifestyle. Ancora una volta, la raffinatezza della pasticceria prende forme poliedriche, le parole sono una faccia interessante del tutto. Quanto conta “metterci la faccia”? L'interazione è fondamentale. Essere in una situazione significa coglierne il DNA. Partecipo attivamente alla vita social dell'azienda perché spero che la mia passione si concretizzi nei Timeline. Il live è la nuova frontiera delle relazioni virtuali. Per questo ci metto la Genius People Magazine / Issue 8



3

Chapter three

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Quando la passione parla, il resto tace. di REDAZIONE GENIUS p. 66/69

Cover Moda cinema Tripla intervista, stesso tema, diversi punti di vista di REDAZIONE GENIUS: Alessandro Preziosi p. 70/72 Maria Grazia Cucinotta p. 73/74 Michele Braga p. 75/76

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cinema 66

Quando la passione parla, il resto tace.

M

addalena Mayneri racconta “Cortinametraggio”, il più celebre festival del corto italiano.

Grinta, forza, passione e…tanto impegno. Queste le caratteristiche che elencherei per descrivere Maddalena Mayneri, se dovessero chiedermi quali siano i segreti per organizzare e fare crescere un festival di successo come quello di “Cortinametraggio”, giunto alla sua dodicesima edizione. Un biglietto da visita confezionato alla perfezione dalla Presidentessa che è al contempo ideatrice e anima di uno dei più celebri festival del cortometraggio dedicato, da anni ormai, esclusivamente al made in Italy. Perché lei nella creatività tutta italiana ci crede fortemente e la fama di “Cortinametraggio” le dà ragione.

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CORTINAMETRAGGIO 67

"Maddalena Mayneri Fondatrice e Presidente Cortinametraggio assieme a Maria Grazia Cucinotta" (Cortinametraggio.it)

Maddalena, quest'anno è particolarmente significativo per “Cortinametraggio” perché segna i vent'anni dalla nascita del festival. Quali sono le emozioni che hai provato e le soddisfazioni più grandi che hai ricevuto in tutti questi anni? Se guardiamo al fatto che “Cortinametraggio” è nato nel 1997, che i festival di allora erano pochissimi – circa 4 o 5 conosciuti in tutta l'Italia – e che siamo riusciti a resistere per tutti questi anni a discapito degli altri festival che, ahimè, non esistono da molto tempo ormai…posso ritenermi davvero soddisfatta! Certo, c'è stata una sosta che è durata dieci anni perché nel frattempo sono riuscita a portare a Trieste un altro festival. Ma essere riuscita nel mio obiettivo iniziale di continuare nello scouting, riprendendo da dove ci eravamo fermati nel 2010, e vedere il festival crescere in maniera spropositata sono indubbiamente le mie soddisfazioni più grandi. E poi è emozionante veder crescere questi registi che erano venuti al Festival nel '97 e '98, quasi come vedere crescere un bambino. Non ultimo, per esempio, Cosimo Alemà che adesso è il Direttore artistico della sezione Videoclip di Cortinametraggio e che era presente con un suo corto nel 1997. O ancora Paolo Genovesi, Luca Miniero, Massimo Cappelli, Max Croci…tutti registi che parteciparono nei primi anni e che continuano ad accompagnarci da molti anni. Lo stesso Alessandro Preziosi quando partecipò alla prima edizione era un giovane attore noto soprattutto a livello televisivo perché recitava nella soap ‘Vivere'. Oggi è diventato un attore di grande fama e sarà presente in veste di giurato della sezione ‘Corti'. In questi giorni, tra l'altro, si sta già impegnando molto per vederli tutti. Quindi i giudici visionano tutto in anticipo? Sì, le giurie di ogni sezione stanno già visionando i corti e si preparano in anticipo perché non tutti hanno la possibilità di vederli al cinema e di essere presenti i primi giorni. Poi solitamente il venerdì pomeriggio (ultimo giorno del festival, ndr) si riuniscono in conclave e decretano i vincitori. Che cos'è cambiato in “Cortinametraggio” dal 1997 ad oggi? Innanzitutto, è cambiato moltissimo il livello dei corti. Ma il più grande cambiamento l'ho apportato io. Infatti, quando nacque “Cortinametraggio” e, negli anni a venire, prolificavano a dismisura

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festival fatti sulla falsariga del nostro e, per di più, presentavano tutti cortometraggi inediti e per la maggioranza internazionali. Così, quando nel 2010 eravamo ritornati in pista avevo deciso che “Cortinametraggio” sarebbe stato un festival solo italiano, per aiutare il nostro cinema, in cui io credo fermamente! E mi sono accorta che di anno in anno i corti sono sempre più belli e di un livello sempre più alto. Ci sono, per esempio, molte scuole superiori. I ragazzi fanno la gavetta e non ci sono più solamente corti sperimentali. Hai in mente qualche evento particolare per festeggiare il ventesimo compleanno del festival? C'è “qualcosa che bolle in pentola” ma sarà una sorpresa…Sono previste, come sempre, serate conviviali ed eventi organizzati a latere del Festival presso il Grand Hotel Savoia e avere il prezioso contributo della Galleria Contini, che è uno degli sponsor principali, mi rende molto orgogliosa. Quali sono le novità di questa XII edizione? Da quest'anno la grande novità è rappresentata da una sezione esclusivamente dedicata ai videoclip e ce ne sono tanti davvero molto belli. Si tratta di videoclip già editi e ritengo che sia un'ottima opportunità per aprire una porta finora rimasta chiusa. Anche questa scelta nasce dalla volontà di aprirci quanto più possibile ai giovani e dar loro lo spazio che meritano. Comunicare e trasmettere delle emozioni non è facile in una manciata di minuti quindi prepariamoci perché ne vedremo delle belle. Pensando a “Cortinametraggio”, mi viene spontaneo fare un parallelismo tra Sanremo e il Festival della musica italiana e Cortina d'Ampezzo e il festival del corto italiano (e molto altro chiaramente…). Come mai hai scelto proprio Cortina? La scelta di Cortina è in parte legata alle mie origini perché io sono per metà ampezzana. Inizialmente, non è stato proprio semplice. Gli animi erano un po' ostici a tutto questo afflusso di personaggi del cinema. Ma quando nel 2010 decisi di riprendere “Cortinametraggio”, è stato, per così dire, un grande ritorno perché gli ampezzani mi hanno accolta con entusiasmo. Pensa che ho

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ricevuto uno splendido augurio di “Bentornata” da parte della cittadinanza e dal comune di Cortina che per un ulteriore anno ci sostiene e supporta anche nell'organizzazione. Lo stesso logo che scelsi a rappresentare il festival (ride, ndr) era stato accolto con simpatia e affetto perché parte proprio dall'idea di un'unione simbolica felice: un pesce rosso, dello stesso colore del simbolo della città – lo scoiattolo rosso – che stringe amicizia con lo scoiattolo! In una parola, il mare che incontra la montagna, l'affetto e il legame di queste due anime che convivono anche in me. E poi non è difficile immaginare alla scelta di Cortina che è un vero gioiello, non per altro viene definita la perla delle Dolomiti. Quanto conta per la futura carriera di un “nuovo volto” del cinema o di un giovane regista che vuole farsi conoscere essere presenti a “Cortinametraggio”? Innanzitutto ci tengo a sottolineare, come ho già detto prima, che il nostro intento è quello di fare scouting. Quindi per un regista poco conosciuto è importantissimo partecipare al festival! È proprio andando alla ricerca di nuovi talenti e creando l'opportunità di incontri tra i protagonisti del festival e coloro che stanno crescendo e vogliono farsi conoscere, o ancora tra i registi giovani e quelli già molto noti in Italia, a costituire una “occasione più unica che rara”: tutti i partecipanti sono a stretto contatto e hanno la possibilità di parlarsi, scambiare idee e cogliere opportunità di collaborazioni future.

interessati ai lavori proposti, possono dare la possibilità ai giovani di realizzare per loro spot pubblicitari o cortometraggi o, perché no, fare da sponsor per i loro progetti futuri. Qual è stato, secondo te, l'impatto che il festival ha prodotto in questi anni su Cortina d'Ampezzo in termini di visibilità o gli effetti sull'indotto economico? Cortina ha ricevuto molto dal festival e, a mio avviso, l'impatto sull'indotto turistico è stato assolutamente positivo. Basti pensare all'enorme flusso di personaggi famosi, registi, attori, partecipanti, appassionati di cinema, ai giornalisti, al “tutto esaurito” negli alberghi e ai diversi eventi organizzati nella cornice del festival per comprendere i benefici prodotti sull'economia ampezzana nella fase di chiusura della stagione invernale. Lo stesso vale per la visibilità. Il festival attira molta stampa di settore e non solo. Inoltre, la partecipazione stessa della RAI, che è il nostro Main Media Parter, o della Mediaset, permette a “Cortinametraggio” di avere una grande risonanza mediatica e, di conseguenza, di dare grande visibilità anche a Cortina d'Ampezzo, che già di per sé fa parlare per la sua bellezza.

È un po' come un incontro business to business tra le aziende… Esattamente, è un momento di relazioni pubbliche fondamentale. “Cortinametraggio” è una vetrina che contribuisce a dare quella visibilità necessaria a farsi conoscere e per noi è un'enorme soddisfazione vedere come un regista nasca, cresca e diventi famoso. Credo poi che sia emozionante per i registi giovani veder proiettato un proprio corto davanti a un pubblico di esperti come quello di “Cortinametraggio” e non solo. Infatti, tra i partecipanti ci sono spesso dirigenti di grandi aziende che, se

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Tripla intervista. Stesso tema, diversi punti di vista.

Abbiamo voluto chiedere a 2 grandi attori e a un musicista del cinema italiano di esprimere il proprio parere sullo stesso tema coinvolgendo al contempo “Cortinametraggio” e l'attuare realtà cinematografica fatta di giovani, talvolta poche risorse, molta creatività e voglia di emergere. Scopriamo insieme cosa ne pensano.

Alessandro Preziosi MARIA GRAZIA CUCINOTTA MICHELE BRAGA

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n Festival come Cortinametraggio che rappresenta una vetrina per i giovani artisti, quanto aiuta i filmmakers esordienti a farsi conoscere?

U

Farsi conoscere nel nostro lavoro è, a mio parere, il secondo passo più importante. Il primo è riuscire a far sì che le proprie idee finiscano su pellicola, oggi digitale ma pur sempre pellicola. La possibilità di essere già selezionati ed essere riusciti a mettere su 7 minuti di film, che sono un'esperienza molto più difficile rispetto al film, è fondamentale. Quindi è importante farsi conoscere ma ancor di più lo è creare il presupposto per farlo, realizzando un'opera che sia stata selezionata all'interno di una competizione: un bilancio tra il tuo lavoro e la visibilità. Cortinametraggio è indubbiamente una vetrina davvero importante e che negli anni è diventata molto prestigiosa. Come vedi il futuro delle produzioni cinematografiche e musicali a basso budget? Come diceva Alfred Hitchcock “per fare un buon film sono importanti tre cose: la sceneggiatura, la sceneggiatura e la sceneggiatura”. Quindi quando hai la storia, e una buona narrazione a volte avere un budget ridotto

permette di fare degli sforzi creativi che diversamente uno non farebbe. Per esempio, se una scena deve essere girata con la pioggia, ti accorgi che basta passare improvvisamente al piano di sotto quando qualcuno sta dando l'acqua alle piante, e che questa ti cada addosso, per avere la scena che drammaturgicamente deve essere girata sotto la pioggia. Anche io adesso sto lavorando in teatro con un regista che per raccontare il momento dell'uccisione e far vedere il sangue mette delle pompette piene di vernice, in mano all'attore che viene ucciso e quello spruzzo di colore diventa simbolicamente molto più efficace di un effetto molto più sofisticato ed economicamente più costoso. Hai prestato e presteresti la tua professionalità per aiutare i giovani lavorando a titolo gratuito in un corto/video? Sì, l'ho fatto all'inizio della mia carriera e lo rifarei sicuramente. Di solito, la mia partecipazione dipende sempre dalla bontà, dal prodotto e soprattutto dall'onestà intellettuale con cui il regista che mi propone il film o il produttore organizzano il proprio lavoro. In questo sono abbastanza radicale perché avendo già avuto esperienze non propriamente positive con persone che hanno un modo di lavorare

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Alessandro Preziosi

"Alessandro Preziosi" (Ufficio Stampa)


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già collaudato e un asset più preciso, mi sono accorto, alla fine, che la cosa che conta è innanzitutto condividere insieme un progetto e poterlo poi assistere, per così dire, gratuitamente. …parliamo di questo perché è indubbio che oggi ci siano molti giovani creativi che purtroppo hanno poca disponibilità economica e non sempre hanno la possibilità di esprimere appieno il proprio potenziale. Certo, i giovani talvolta sono formidabili! Basterebbe pensare al più giovane regista nella cerimonia degli Oscar, Damien Chazelle, che a soli 32 è stato premiato come miglior regista con il film “La La Land”, o al suo precedente lavoro “Whiplash” che è un altro film meraviglioso… per i giovani faremo tutto. Quindi sono le capacità che alla fine hanno un peso decisivo? Sono alla base del tuo lavoro. Conta quanto sei consapevole che un mestiere fa parte della tua vita, che lo subisci e che, allo stesso tempo, sei tu stesso ad attivarlo: si chiama passione! Quanto conta la tecnica imparata nelle scuole di recitazione e quanto, invece, il talento naturale? È un insieme di cose. Io personalmente ritengo che conti moltissimo l'esperienza stessa che si acquisisce facendo questo lavoro che ti permette di testare il tuo talento naturale – la capacità raccontarsi di un attore – che in un buon film si controbilancia; quando, al contrario, il film non è fatto bene se l'attore ha delle capacità naturali, in quel caso riescono a mostrarsi con maggiore evidenza. Questo a dimostrare che chi vuole fare bene il proprio lavoro lo deve fare mettendo in pratica le sue conoscenze tecniche ma anche lavorando il più possibile perché è solo attraverso l'esperienza e l'esercitarsi quanto più possibile nella recitazione che il nostro talento viene fuori. Le conoscenze tecniche non sono però solo legate a come usare il diaframma, come recitare o come immedesimarsi in un personaggio ma anche alla storia del teatro, alla storia del costume che vengono insegnate all'interno delle scuole d'arte, all'uso del corpo e all'origine della parola recitare, giocare, confrontarsi. Insomma, è un incrociarsi continuo di tutti questi elementi che non finisce mai. Una sorta di bilancia sempre in equilibrio tra la tecnica appresa e le inclinazioni naturali, Sì sempre. Anche perché del talento naturale bisogna avere coscienza e alimentarlo tutta la vita. Della tecnica, invece, te ne fai poco se non c'è sentimento. Quindi la vita, intesa come esperienza, diventa comune denominatore di entrambi gli elementi.

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MARIA GRAZIA CUCINOTTA

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n Festival come Cortinametraggio che rappresenta una vetrina per i giovani artisti, quanto aiuta i filmmakers esordienti a farsi conoscere? Tantissimo! Il festival è un'occasione di prestigio per farsi conoscere, soprattutto se guardiamo alla sua particolarità, cioè al fatto di accendere i riflettori proprio sui corti. Di solito è una rarità vederli al cinema o in televisione quindi dedicare un evento esclusivo dove dai loro la visibilità necessaria e la possibilità di presentarli al pubblico è importantissimo. E in qualunque caso, i festival rivestono sempre grande importanza per il cinema. Come vedi il futuro delle produzioni cinematografiche e musicali a basso budget? Credo che siano diventati in qualche maniera il futuro del cinema anche perché ormai le risorse sono piuttosto scarse quindi tutte le produzioni si sono un po' ridimensionate; fatta eccezione per i “grandi” del cinema che hanno la fortuna di avere ampi margini di budget, i giovani si devono arrangiare. In ogni caso, è dalla mancanza che scaturisce ed emerge la loro bravura e la loro creatività perché è facile fare un bel film quando hai tante opportunità ma non sempre è vero il contrario.

"Maria Grazia Cucinotta" (Ufficio Stampa)

Hai prestato e presteresti la tua professionalità per aiutare i giovani lavorando a titolo gratuito in un corto/video? L'ho fatto e lo faccio spessissimo. Trovo sia una cosa giusta da fare per aiutare i giovani

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faticherebbero magari a “confezionare” il prodotto che desiderano. È una questione che mi sta particolarmente a cuore e adesso mi sto impegnando per mettere in piedi una produzione proprio per ragazzi. Faremo dei casting per attori (teenagers) in tutte le scuole d'Italia per spronare i ragazzi. Quanto conta la tecnica imparata nelle scuole di recitazione e quanto, invece, il talento naturale? Il talento naturale è una qualità genetica: ce l'hai perché ci nasci. Però se non hai un buon regista resta come un prodotto non finito, ed è tutto inutile. La scuola infatti ti può dare lo sprono necessario per farti rompere il ghiaccio e prendere confidenza con la recitazione, insegnarti la tecnica…ma è comunque il regista, a mio avviso, che ti permette di esprimere appieno le tue doti naturali.

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"Maria Grazia Cucinotta" (Ufficio Stampa)


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"Michele Braga" (michelebraga.it)

MICHELE BRAGA

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n Festival come Cortinametraggio che rappresenta una vetrina per i giovani artisti, quanto aiuta i filmmakers esordienti a farsi conoscere?

Per i giovani registi i corti sono importantissimi, ed avere dei luoghi fisici dove poter concorrere con il proprio lavoro e dimostrare le proprie qualità artistiche è vitale. Il mio primo lavoro con Gabriele Mainetti ad esempio è stato proprio un corto, si chiama Basette, e sul web è diventato un vero e proprio “cult”. Come vedi il futuro delle produzioni cinematografiche e musicali a basso budget? Le produzioni musicali a basso budget in Italia sono diventate, ormai da tempo, l'unica via per provare ad emergere. Esistono delle ottime professionalità e dei grandi talenti, e la tecnologia permette di registrare e missare un disco con dei budget che un tempo sarebbero stati impensabili. Il vero problema sono la promozione ed i canali di distribuzione, che controllano l'ultimo anello di questa filiera completamente sbilanciata a danno dei creativi e degli autori. Per il cinema il discorso è simile ma un po' differente. Fare cinema con la C maiuscola con budget bassissimi è quasi impossibile, salvo alcuni rari casi. I corti (che per quanto basso hanno comunque bisogno di budget) restano un'ottima strada per i giovani filmmakers per dire la loro e cercare di emergere. Per questo è importante che Festival come Cortinametraggio continuino un'attenta attività di selezione e valutazione, per dare visibilità ad una forma di arte che altrimenti non avrebbe visibilità.

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"Michele Braga" (michelebraga.it)

Hai prestato e presteresti la tua professionalità per aiutare i giovani lavorando a titolo gratuito in un corto/video? Certo! Quando ho la possibilità e mi viene proposto un progetto interessante cerco sempre di dare il mio contributo artistico, compatibilmente con i miei impegni professionali. Quanto conta la tecnica imparata nelle scuole di recitazione e nelle accademie di musica e quanto il talento naturale? Domanda da un milione di Euro. Senz'altro contano la passione e l'amore per il nostro lavoro, senza i quali non vai da nessuna parte. Tarantino dice che se ami il cinema incondizionatamente, con tutto te stesso, puoi essere un regista. Non so se ha ragione, però esprime bene un concetto: alla base ci dev'essere la passione, la passione ti porterà poi a sviluppare il tuo talento, a studiare, ad approfondire ed a cercare, con tutto te stesso, di migliorarti.

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Chapter four

4 Cover Cover Fotografia Moda fotografia "Chi sono? Un ragazzo fortunato" Marino Sterle di MATTEO ZANINI

p. 81/89

AFRICA di NOEMI COMMENDATORE

p. 90/93

"L'illusione del limite attraverso la fotografia" Giuseppe Ghedina di MATTEO MACUGLIA p. 94/99

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di MATTEO ZANINI

MARINO STERLE “CHI SONO? UN RAGAZZO FORTUNATO”

Una chiacchierata con il celebre fotografo triestino, parlando di un mestiere che arricchisce l'animo ed il cuore.

‘odore del caffè, il suono della musica ad accompagnare, il golfo sullo sfondo: è una mattinata di marzo a Trieste, di quelle soleggiate ma con un pò di vento a far sentire gil ultimi scampoli d'inverno. Il Caffè degli Specchi è una cornice ideale per parlare di arte e cultura insieme a Marino Sterle: un nome e un cognome che, a Trieste, viene sempre associato all'eccellenza nel campo della fotografia. Tanto maestoso quando opera con l'obiettivo quanto umile quando parla di sè.

L

Partiamo dalle origini, chi è Marino Sterle? E' un ragazzo fortunato, prima perchè ha avuto una grande famiglia che mi ha dato dei valori che poi, nel corso degli anni, sono emersi. Ricordatevi, noi siamo per un terzo ambiente, per un terzo fortuna, per un terzo genoma e non dobbiamo mai dimenticarci la meraviglia del territorio che ha stimolato personaggi come Svevo, Saba, Joyce. Per quanto riguarda il genoma, e quindi la mia famiglia, uno dei miei nonni dipingeva, l'altro lavorava con i cavalli e mi ha trasmesso questa passione che, alla fine, è stata la mia grande fortuna.

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"Giordano Sterle" (Marino Sterle)

Ho fatto un mese di contabilità presso un'azienda di trasporti, la Trasporti Buratin che peraltro è ancora in attività. Devo anche dire che, durante le vacanze scolastiche, mio papà che lavorava come facchino per una cooperativa in Porto mi diceva spesso di venire ad aiutarlo: io andavo a scaricare sacchi insieme a lui. Devo dire che ho trovato un bell'ambiente, fatto di gente di valore e di parola: condividere la fatica quotidianamente e per sempre è una cosa molto forte. Sono fiero di quest'uomo che, vivendo un ambiente dove i valori sono veri, è riuscito a trasmettermeli sia a parole che con i fatti. C'è stato poi il discorso della pallacanestro, che mi ha dato grandi soddisfazioni: sono partito dalla Servolana, una società storica di Trieste, per poi passare alla prima squadra della città, targata Bic, dove ho giocato anche in prima squadra. L'ultima proposta cestistica è arrivata da Capri, in Serie B, dove mi avevano chiesto di sostituire un giocatore come Sergio Donadoni, persona che poi ha fatto parte della grande Juve Caserta. Sono stato anche in nazionale juniores, poi ho lasciato perchè mi era stata data la possibilità di imparare a fotografare e l'hobby poteva diventare una professione: da ragioniere che non ha mai fatto il ragioniere e che ha coltivato la passione per i cavalli, all'Ippodromo di Montebello ho conosciuto il marchese Carignani, che mi ha portato al “Piccolo” di Trieste, dove sono stato per più di vent'anni responsabile dei fotografi di Piccolo e Messaggero Veneto. Lavorare come fotografo per un quotidiano è la miglior palestra, perchè ti alleni a trattare tutti gli argomenti della fotografia; poi, io sono grato al giornale, è stata la mia seconda famiglia e mi ha introdotto in certi ambienti dove altrimenti non sarebbe stato facile entrare. Dopo il Piccolo, ho preso la decisione di vedere se ero capace di continuare a fare questa professione avendo clienti propri: volevo mettermi alla prova, perchè avrei avuto ancora il tempo, in caso, per trasformarmi nuovamente”.

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Come sei arrivato fino a questo punto? Un fotografo non è solo un mero esecutore: c'è molto di più dietro al tuo lavoro.

scenza, inventiva e ingegno. Parliamo della tecnologia: come incide sul tuo lavoro?

Lavorare con cuore, mani e fantasia: queste sono le tre caratteristiche che secondo me non devono mai mancare nel nostro lavoro. E' fondamentale conoscere bene il territorio, ma anche avere un'infarinatura generale. Io leggo molto; libri di filosofia, scienza, mi piace conoscere i personaggio e credo nel metodo. Se voglio assomigliare a un personaggio in particolare perchè lo apprezzo per quel che fa nel suo campo, cerco di capire qual'è il metodo che segue e lo studio. Ricordatevi che nessuno regala nulla e lo studio non finirà mai: mi domando spesso se morirò facendo l'ultima foto o leggendo l'ultimo libro.

E' una bella risorsa. Dobbiamo pensare che la fotografia è ancora valida per gli editori, ma io sto cercando altre applicazioni della foto come ad esempio la serigrafia su tessuti. L'idea è quella del raccontare il territorio con le foto che vengono applicate alle magliette: il turista acquista la maglietta e, in questa maniera, porta in giro il nome e la storia di Trieste sul proprio territorio. La fotografia è un documento che si può adattare su nuovi supporti, grazie alle nuove tecnologie, facendo sì che si crei un vero e proprio discorso di comunicazione umana.

Quindi formazione continua?

C'è qualche innovazione ulteriore?

Oggi, se non sai, non vai avanti. Io uso spesso l'esempio dell'aragosta: si rompe il guscio e se ne rifà un altro. Io non sono più giovanissimo, ma mi considero un giovane ancora e dobbiamo capire che bisogna imparare ed aggiornarsi, solo così uno può avere le idee. Il mio lavoro è immaginare, ma se non vado a prendermi quegli ingredienti che sono le nozioni, farò più fatica: oggi come oggi bisogna avere cono-

La fotografia può essere anche un modo di raccontare, trasferita sulla ceramica o sul vetro. Ora sto lavorando su felpe o maglie a maniche lunghe. Secondo me, se c'è contaminazione artistica, la fotografia diventa ancora più potente: ora abbiamo in piedi un progetto con il maestro Roberto Tigelli, dove faremo un intervento di decorazione urbana a quattro mani sulla parete del mercato coperto di Largo

"Star Clipper" (Marino Sterle)

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FOTOGRAFIA

"Papa Giovanni II" (Marino Sterle)

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Barriera. E' stata una soddisfazione, perchè Il Piccolo ha dedicato una pagina a quest'iniziativa e, il giorno dopo, ci sono arrivate due telefonate di aziende che hanno deciso di finanziare a scopo filantropico, senza nemmeno essere citate. Questo è un attestato di stima che fa comprendere al meglio la potenza e l'importanza della comunicazione. Tigelli ed io, essendo entrambi sostenitori del bello, cercheremo di fare qualcosa che abbracci il cittadino in primis e che offra un'immagine che possa infondere energia positiva. Prima hai detto che ti consideri fortunato: puoi spiegarci perchè? Noi, nella nostra città, siamo tutti fortunati. Trieste è una meraviglia, è un'opportunità per tutti: l'arrivo di imprenditori come De Eccher, Farinetti, l'ampliamento del porto industriale, lo sviluppo del Porto Vecchio, una compartecipata di Hilton che apre un albergo in centro, il Parco Del Mare; c'è molto interesse su Trieste, anche le 69 toccate delle navi da crociera presso il Porto confermano questo trend. Parliamo di Trieste come centro dell'Europa. Pensate solo alla Via della Seta, con una società cinese che investe su questo progetto ed individua Trieste come porto del Mediterraneo. Ma io aggiungo anche che siamo l'unica città in Europa che può vantare cinque capitali nel raggio di cinquecento chilometri: prendi un compasso, lo punti su Trieste e riesci a toccare Lubiana, Zagabria, Bratislava, Vienna e Budapest. Dobbiamo metterci al lavoro per sviluppare il turismo in tal senso. Io dico, promuoviamo la nostra città: individuiamo le vie principali delle cinque città summenzionate, realizziamo delle foto di Trieste da installare su pannelli sei metri per tre, magari associandoci un QR Code che rimandi a Trieste. La foto in grande formato vale molto più rispetto a un redazionale inserito in terza pagina: qui parliamo di pubblica comunicazione.

"Antoine Bernheim" (Marino Sterle)

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"Hong Kong dal Peak" (Marino Sterle)

Qual'è il tuo rapporto con i social media? Studio molto le nuove tecnologie per sviluppare il mio lavoro. Ho tre profili Facebook, più che altro perché non riesco a seguire altri social. Instagram lo trovo meraviglioso: oggigiorno, tutti quanti fanno foto e tutto questo patrimonio iconografico di cui si potrà godere fra cento o duecento anni è fantastico. La fotografia è vivissima, tutto gravita attorno all'immagine: essa è come la musica, provate ad immaginare un mondo senza musica o senza immagini. Parliamo di grandi personaggi: quanti ne hai incontrati? Ripeto, sono stato molto fortunato grazie al giornale che mi dava la possibilità di prendere contatto con capi di stato, il Papa, Vittorio Gassman, Margherita Buy e molti altri ancora. Non ho mai provato grandi emozioni quando dovevo fotogra-

fare questi personaggi, perchè non sono un classista e per me sono tutti uguali: queste persone, quando ti confidano qualcosa, ti danno una grossa iniezione di energia. Pensate che Gassman mi parlava dei suoi problemi di depressione, che gli creavano sbalzi d'umore: anche io ho sbalzi d'umore e sentire che uno come Gassman ha i tuoi stessi problemi, ti fa sentire che siamo tutti umani. Parliamo del mercato della fotografia: non temi il moltiplicarsi dei fotografi, al giorno d'oggi? Non ho paura della concorrenza, anzi; la concorrenza ti fa crescere; se non ci fosse stata, probabilmente non mi sarebbe venuto in mente di fare le maglie o i vestiti. Bisogna sempre avere delle novità: io ho l'attività di fotografo da 25 anni, ma ho iniziato il discorso delle maglie appena un anno fa.

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La fotografia è vivissima, tutto gravita attorno all'immagine: essa è come la musica, provate ad immaginare un mondo senza musica o senza immagini.

Chiudiamo con un'ultima domanda: il tuo scatto più bello? Ce ne sono due, fatti a distanza di tempo a due persone che stimo. Il primo è stato Vittorio Gassman, nel 1993: ho chiesto di fargli una foto e l'ho portato di fronte a Piazza Unità, chiedendogli un saluto a Trieste; lui ha saputo inter pretare al meglio la grandezza della città, allargando le braccia. E' uno scatto che oggi è al museo Alinari, a Firenze. A distanza di dieci anni, ho incontrato Lelio Luttazzi: parlando con la moglie, ho scoperto che lui e Gassman erano molto amici e lo stesso Vittorio veniva spesso a trovarlo in incognito. L'ho portato nello stesso posto dove scattai la foto a Gassman, chiedendo anche a lui un saluto a Trieste: lui ha fatto una posa a modo suo, con una mano che indicava il golfo. Sono le due foto che mi rimangono nel cuore: quando Alessandro Gassman, il figlio di Vittorio, è venuto a Trieste per recitare al Rossetti, gli ho fatto recapitare la foto di suo padre, facendolo commuovere. Quando tornerà a Trieste, chiederò anche a lui di fare la stessa foto.

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"Vittorio Gassman" e "Lelio Luttazzi" (Marino Sterle)

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Noemi Commendatore -

Africa a gente dell' Africa cammina di notte senza paura, come se in fondo non avesse nulla da perdere. La gente dell' Africa è fatta di donne e di tanti bambini, forse troppi, che nemmeno questa terra madre riesce a contenere... La gente dell' Africa non ha bisogno di parole, riesce a parlarti con gli occhi, quegl'occhi che ti squarciano il cuore... La gente dell' Africa ti corre incontro, ti sorride, anche se non ha nulla da darti, ti sorride... La gente dell'Africa corre a piedi nudi con qualche straccio indosso, perché oggi come ogni giorno, è l'unica cosa che potrà permettersi... La gente dell' Africa non ha mai visto altri mondi e forse non li vedrà mai.. E ancora tanta e tanta gente che nemmeno le mie Fotografie riusciranno a raccontare....

Photographer noemifotografia@hotmail.it www.noemicommendatore.it

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La gente dell' Africa cammina di notte senza paura, come se in fondo non avesse nulla da perdere...

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La gente dell' Africa ti corre incontro, ti sorride, anche se non ha nulla da darti, ti sorride...

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GIUSEPPE GHEDINA

di MATTEO MACUGLIA

L'illusione del limite attraverso la fotografia

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asci in una famiglia di fotografi che, da quello che si evince dalla tua biografia, ha sempre gravitato attorno a Cortina.

Come è cambiata la Stella delle Alpi negli anni? La stella non brilla più come una volta, questo è sotto gli occhi di tutti. Elencare le lacune di Cortina mi sembra banale, tanto sono evidenti. I Mondiali di Sci del 2021 rappresentano l'ultima possibilità per un cambio di direzione ma non credo che un evento sportivo possa risolvere i problemi. Negli ultimi anni Cortina è stata completamente ferma ad aspettare la candidatura, colmare il divario che si è creato con i nostri vicini sarà un lavoro molto lungo e impegnativo. Ma Cortina è Cortina… Nonostante tutto non ha perso il suo fascino, Cortina ha qualcosa di magico che va ben oltre a quell'immagine di mondanità che spesso e troppo le viene attribuita. La bellezza salverà il mondo, la bellezza della natura salverà Cortina. Tuo nonno è stato uno dei pionieri della fotografia a Cortina ma dici che è la montagna ad averti avvicinato al mestiere. Com'è successo? Le montagne di casa sono state la mia prima passione. Ho iniziato a esplorare le Dolomiti da giovane, spesso da solo. Portavo con me una piccola macchina fotografica. È iniziato tutto così. Ora quella piccola macchina fotografica è diventata uno zaino di 10 chili spesso ingombrante ma sempre presente. "Self Portrait" (Giuseppe Ghedina)

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"La via Lattea sopra il Passo Giau" (Giuseppe Ghedina)

Com'è cambiata la professione del fotografo con l'introduzione delle nuove tecnologie? Professionalmente la mia attività di fotografo è iniziata nel 2006, quindi già nell'era digitale. Le nuove tecnologie hanno reso la fotografia molto più semplice ed accessibile, il professionista per restare tale si deve distinguere puntando sempre sulla massima qualità e su settori dove la sola attrezzatura non è sufficiente ma dove contano le capacità e le conoscenze tecniche unite ad un costante aggiornamento e sperimentazione per poter gestire fin da subito le nuove tendenze. Sei cofondatore di TOPVIEW. Come è nata l'idea e quali sono i suoi punti di forza? Cosa differenzia il tuo progetto da Google Street View? Ho sempre creduto nella potenzialità della fotografia panoramica e ho seguito un programma di formazione di Google Business View, la versione commerciale di Street View. Con il mio

"Tre Cime di Lavarello" (Giuseppe Ghedina)

collega Toni Bornacin, Social Media Manager e Web Specialist, abbiamo pensato di portare la tecnologia di Street View sulle piste da sci ed è nato così il nostro primo prodotto TOPVIEW SKI, sviluppato e realizzato dapprima sulle piste di Cortina e ora adottato da tutto il comprensorio DOLOMITI SUPERSKI. Fatta eccezione per alcuni progetti specifici, come per esempio la scalata virtuale a El Capitan in Yosemite, Google Street View punta sulla quantità tramite procedure automatiche e prodotti standardizzati. TOPVIEW punta sulla qualità e sulla personalizzazione dei progetti per poter soddisfare le esigenze più diversificate. TOPVIEW è una tecnologia legata al mondo di Google, ci racconteresti come si crea un archivio come quello di Google Street View e quanto lavoro è necessario per realizzarlo? TOPVIEW e Street View utilizzano immagini sferiche, fotografie panoramiche che portano

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l'utente al centro della scena ripresa permettendo una visione totale della zona circostante. Per realizzare un'immagine sferica possono bastare pochi secondi e uno smartphone, naturalmente la procedura che segue Topview è ben diversa e comprende attrezzature fotografiche professionali e numerosi software. Oltre al tempo impiegato per lo shooting possono essere necessarie diverse ore di post produzione per una singola immagine. Sia Street View che TOPVIEW raccolgono immagini provenienti da luoghi talvolta impervi, in particolare in montagna. Quanto è difficile realizzare delle immagini del genere e soprattutto come fai? La grande passione per la montagna mi ha offerto grandi possibilità come la

partecipazione a spedizioni alpinstiche o la collaborazione come volontario del Soccorso Alpino. Cerco di sfruttare queste esperienze nell'ambito fotografico. Dopo le piste da sci abbiamo portato TOPVIEW sulle Vie Ferrate ottenendo immagini veramente spettacolari. Per realizzare immagini in parete cerco di ridurre al minimo indispensabile l'attrezzatura in base alle difficoltà del percorso. Nel sito online di TOPVIEW viene detto che le vostre tecnologie possono essere messe al servizio anche di attività commerciali. Ci spieghi come, con quali vantaggi e soprattutto chi sono, attualmente, i vostri clienti? Se aziende come Google e Facebook puntano e sviluppano prodotti basati sulle immagini sferiche e quindi sulla realtà virtuale, credo sia un buon

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"Panorama dalla Marmolada" Elaborazione da immagine Panoramica realizzata per Dolomiti Superski (Giuseppe Ghedina)

motivo per investire in questa tecnologia. Web e Social Network offrono una grandissima visibilità ma per sfruttare questa pontezialità è fondamentale conoscere gli strumenti adatti e realizzare dei contenuti di qualità da condividere, questa è la missione di TOPVIEW. I campi di applicazione della realtà virtuale sono infiniti, sicuramente in ambito turistico trova i più ampi consensi. I nostri maggiori clienti sono infatti aziende legate allo sviluppo del turismo e valorizzazione del territorio. Raccontaci la storia della tua fotografia preferita.

essa stessa il piacere, il bello della fotografia è soprattutto immaginare il prossimo scatto e riuscire a vedere la fotografia nella nostra mente ancor prima di realizzarla.

TOPVIEW è fotografia immersiva e virtual tour, fotografia panoramica e realtà virtuale, fotografia per turismo e settore ricettivo.

Non sono mai completamente soddisfatto, mi definiscono un perfezionista, credo che tutto si possa migliorare. Se l'attesa del piacere è

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"Panorama a 360° dal Rifugio Lagazuoi" immagine tratta da www.topviewski.com (Giuseppe Ghedina) "Ferrata Marino Bianchi sul Monte Cristallo" immagine tratta da www.topviewtrial.com (Giuseppe Ghedina)

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Giuseppe Ghedina 99

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Chapter five

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Intervista al Professor Vittorio Sgarbi di MARIAISABELLA MUSULIN p. 101/103

"Le stanze segrete di Vittorio Sgarbi" di PIETRO DI NATALE p. 104/106

"Le Stanze Triestine di Vittorio Sgarbi e altre stanze da Nathan a Morandi" di VITTORIO SGARBI p. 107/111

ArtE

Cover CoverFotografia Moda "Quando entrare, quando uscire" di RINA CAVALLINI p. 112/115 CARLA TOLOMEO "Prego si accomodi!" di REDAZIONE VENEZIA p. 116/119 Francesco Bernardini di REDAZIONE VENEZIA p. 120/122

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arte /Intervista al Professor Vittorio Sgarbi 101

di MARIAISABELLA MUSULIN.

Intervista al Professore

VITTORIO SGARBI Professor Sgarbi, di nuovo a Trieste, di nuovo a portare una ventata d'arte nella città della Bora, com'è l'esperienza del “ritorno” a Trieste? utta la vita è un ritorno, per cui dove si è nati si ha una radice che sembra forzata per un destino che rende un napoletano diverso da uno che è nato sul Po. E ognuno torna dove è nato, perché le prime cose che ha visto da bambino sono in qualche modo per lui come più legate all'affetto, ai sentimenti, al cuore e quindi c'è un ritorno inevitabile ai luoghi delle origini. Poi ci sono dei luoghi del cuore, che invece si assumono dall'adolescenza alla giovinezza alla maturità e per qualche ragione ti sono più consueti e cari di altri: così a me è toccato di avere città che non corrispondevano ai miei luoghi di origine, con Vicenza dove andai da ragazzo appena nominato ispettore delle Belle Arti, per vedere e controllare i beni artistici di quella città. Quindi Vicenza è un “luogo del cuore”. Trieste è arrivata un po' più tardi, ma è talmente forte il vento di Trieste che uno lo sente come un vento della sua anima, e quindi le esperienze qui fatte, i musei, gli incontri con le persone, quelle che sono vive e quelle che non lo sono più, le attività politiche, la città con questa forza di bellezza che sembra giocare con la natura. E poi Piazza Unità, che sembra fatta apposta per accogliere il vento e respingerlo. Trieste è stata per tante ragioni un luogo dove sono venuto con una frequenza particolare ed anche con una funzione politica positiva perché a un certo punto ho capito che la città, rispetto a tutte quelle che hanno, e anche Trieste a dire il vero ce l'ha, un'orrida periferia, aveva una parte “non attiva” che però era dentro la città: Porto Vecchio. Così ho proceduto ad un vincolo del Porto Vecchio, fatto come Sottosegretario ai Beni Culturali, che consente che quell'area rimanga come area archeologica, come è vincolato il sito di Pompei, con il grande vantaggio che però lì si può vivere, vi si può andare, si può

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riattivare. Uno dei magazzini riattivati è il magazzino 26, che è stato teatro di una mostra fatta nel 2011 dentro la biennale di Venezia come espansione del padiglione della biennale. Potremmo dire che quello è il luogo dove io avevo pensato di concentrare una serie di opere d'arte, un'ipotesi possibile per un museo che nasce con una collezione nuova. In realtà il padiglione più bello, per così dire, del Porto Vecchio è il Salone degli Incanti, che è una ex pescheria utilizzata da anni per iniziative culturali. Qui si è pensato, così come lo ha pensato anche Oscar Farinetti con il suo Eataly che ci fronteggia, di fare una esposizione di opere d'arte appartenenti alla Fondazione che io ho voluto legata a mia madre e alla mia famiglia in cui è confluita una collezione di opere d'arte particolarmente importante, che sono esposte al Salone degli Incanti. Questo spazio così grande, così luminoso, che ha una luce riservata di notte, quando sarà bene che la mostra sia almeno in estate aperta, in contrasto con il buio che viene dal mare e di giorno invece una luce moltiplicata nello specchio del mare da quella che viene dal cielo. Si può vedere una mostra che quindi ha due dimensioni: una dimensione diurna ed una notturna e i quadri sono gli stessi. Tra l'altro, sono quadri che io ho raccolto nel corso degli anni con una predilezione per i dipinti del ‘500 e del ‘600 che sono questi presenti al Salone e poi c'è una sezione importante, quasi 100 quadri di quello che io nel corso degli anni ho visto e ho riconosciuto come notevole del ‘900 italiano di cui conosciamo tutti De Chirico, Morandi, Gironi. Questa sezione è quindi dedicata ad una scuola triestina, che non è provinciale, non è locale, bensì mostra delle invenzioni tra la ragione ed il sogno in cui la componente onirica è molto forte, che sono qui rappresentati da opere di Leonor Fini, da opere di Pasturo e soprattutto da alcuni enormi disegni che sono stati concepiti da Carlo Sbisà. Sbisà è un pittore classico, di grande armonia per il Museo del Risorgimento e qui abbiamo i cartoni i disegni in cui lui ha rappresentato le città della Venezia Giulia e dell'Istria, da Pola a Gorizia e anche delle immagini più grandi con soldati della Prima Guerra Mondiale. Quindi c'è una presenza in questa raccolta di opere triestine che è singolare, tanto più per un italiano che tante cose vede e ha visto e per quanto affezionato a Trieste non avrebbe ragione di comprare soprattutto delle cose triestine. Tuttavia, acquistare opere triestine è stato per me segnare, anche sul piano dei rapporti personali ed emotivi, l'importanza assoluta della scuola dei pittori di Trieste del ‘900, al di là della loro identità locale sentirne un respiro universale che è quello che documentano due grandi scultori, Franco Asco e Attilio Selva. Sono scultori di rilievo, al pari Arturo Martini e Marino Marini, benché meno conosciuti. Il settore della scultura è certamente quindi una

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scoperta ed una sorpresa, così come anche le altre opere dei pittori triestini come Veruda e anche per affinità uno dei più bei dipinti della fine dell'800 italiano, che Trieste ospita al Museo Revoltella, che è il “Beethoven” di Balestrieri, che rappresenta il ricordo di una serata trascorsa in compagnia di alcuni amici bohémiens in una mansarda di Parigi, durante la quale il suo amico Giuseppe Vannicola, musicista e poeta, interpreta appunto al violino la Sonata di Kreutzer di Beethoven. E' un racconto di vita romantica nella bohème parigina, una bohème in senso stretto che rappresenta una dimensione musicale diventata pittorica come appunto la cosiddetta “Sonata Kreutzer”. Per cui insomma si intrecciano le opere che si vedono in queste “Stanze Segrete di Vittorio Sgarbi”, come ho chiamato la mostra, a cui si sono aggiunte per questa occasione come dicevo appunto, oltre ai dipinti che in parte hanno già girato per mostre in ogni parte del mondo che sono il nucleo delle opere storicamente determinate e più significative fra cui Guercino, Lorenzo Lotto, Morazzone, de Ribera, una quantità di autori che hanno fatto la storia dell'arte, e poi c'è un segmento di Stanze Triestine che è quello in cui appunto io ho accolto questi dipinti che per la prima volta sono esposti qui in questa mostra. E poi c'è la dedica a Caterina (Caterina Cavallini, la madre, ndr). Dunque, io ho cominciato a lavorare nel '72, mi sono laureato nel '74, e sono diventato ispettore delle Belle Arti nel '76 e quindi ho vissuto per così dire nella mia autonomia fin da ragazzo. Mia madre è sempre stata vicina a me, ma dopo il '68, che è stata una grande rivoluzione psicologica prima che politica, si sono avvicinate le generazioni, per cui i miei genitori sono stati come i miei fratelli, come i miei parenti. Parenti, non genitori che dominano e quindi c'è stato un rovesciamento delle parti per cui, in un certo momento, sono io che ho dato ai miei genitori alcune indicazioni che loro hanno colto. La mia migliore complice, allieva, il mio migliore uomo è stata mia madre, che si è appassionata all'arte pur essendo laureata in farmacia, insegnante di matematica. Era il momento in cui si poteva dialogare con i genitori, che ha determinato una diversa dimensione psicologica che adesso c'è fra genitori e figli, cosa che un tempo non c'era. C'era un'autorità lontana del padre, una madre che era sempre lì a dirti quello che dovevi fare e così via. Invece, diventando come fratelli dei propri genitori, nasce una relazione nuova che è quella che ha indotto mia madre a seguirmi in questa avventura di ricerca delle opere d'arte, la ricerca più aperta e la più lontana da un obiettivo. Io non ho comprato perché

avevo in mente di trovare quella cosa lì, ho comprato quello che ho trovato senza cercarlo e senza essere certo che avrei trovato quello che cercavo e mia madre mi ha seguito con ciò, facendo della sua vita, e credo fino alla sua morte due anni fa, una vita felice e una vita di complicità. Quindi la mostra sì, è dedicata a mia madre Rina Cavallini, che ha risposto ad ogni mia richiesta ed è qui in “Paradiso” tra queste Stanze del Salone degli Incanti: un richiamo ad una presenza forte, che ha determinato poi in mia sorella ed in me una volontà di portare queste opere in un Fondazione riconosciuta dallo Stato e voluta dal Ministero dei beni culturali. Per cui questo è un patrimonio che in qualche modo non ha più niente di privato né io ho mai pensato di tenerlo per me: ho pensato che il fatto che sia di proprietà mia, come sono di proprietà della famiglia Guggenheim le opere del museo Guggenheim, non vuol dire che non sono di tutti quelli che le possono vedere. La proprietà pertanto è un incidente: ci sono cose dei beni pubblici che sono non visibili e chiusi, quindi diventano per così dire privati, e beni privati che sono aperti a tutti. Adesso arriverà poi la Collezione Malabotta qui a Trieste e indica nuovamente l'obiettivo che queste opere siano di tutti: io le ho individuate, le ho messe insieme, le ho raccolte, ma non ho nessuna necessità di tenerle vicine. Sono cose che uno non può portare con sé nell'aldilà, sono nate perché siano di tutti e che possano inseguire in qualche modo il pensiero che me le ha fatte mettere l'una vicino all'altra. C'è stata anche una grande partecipazione, una grande collaborazione e unione di intenti da parte delle Istituzioni triestine, che hanno reso possibile la realizzazione di questa mostra al Salone degli Incanti. Il comune di Trieste, l'amministrazione attuale aveva rapporti con me da sempre, come appunto il Sindaco Dipiazza. La mostra, se vogliamo, poteva essere fatta con qualunque amministrazione, ma un'amministrazione che amministra davvero deve decidere che scelte fare e come rendere più attraente la sua città. Se questo poi si trova coincidere con il pensiero di uno studioso che ha particolarmente amato e ama la pittura triestina, questa collaborazione è ancora più logica. E' sempre logica, ma qui diventa come non se avessi io cercato loro, bensì loro cercato un collezionista italiano che fra i tanti aveva particolarmente guardato con attenzione alla pittura triestina, alla pittura e scultura triestina. Dopodiché ci siamo avvalsi di persone che hanno lavorato con noi in precedenti iniziative importanti, come quella all'Expo di Milano, lavorando però con un architetto triestino che è Barbara Fornasir, la quale è tenacemente triestina e goriziana.

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Intervista al Professor Vittorio Sgarbi 103

Quindi, quando qualcuno ha osservato che non erano troppo presenti le maestranze triestine, e può anche darsi che questi operai che stanno portando adesso le sculture (la mostra è in allestimento durante la nostra intervista ndr), siano persone che hanno già lavorato con noi e che non siano di Trieste, va sottolineato che l'ideazione generale nasce dall'amministrazione e da un'architetto triestino. Cosa che, forse, non abbiamo abbastanza evidenziato al culmine di alcune pur modeste polemiche sulle presenze di quelli che lavorano all'impresa, al di là di me che l'ho ideata, che sono persone che stanno collaborando e hanno portato la loro energia ed il loro pensiero anche nello spazio triestino come questo, con una visione triestina. Visione che consente di rendere accogliente e contenuto quello che invece è espanso in uno spazio che sembrerebbe contraddire questa possibilità di lettura intimistica di concentrazione dentro queste Stanze che sono appunto “stanze”, come dice la denominazione della mostra, in cui uno entra e si sente protetto davanti ai quadri. Poi, esce nella navata principale, ed è inondato da questa luce che è appunto un modo per rappresentare il rapporto con le opere d'arte diurno e notturno, intimo e aperto, e quindi questo è certamente un portato di una visione architettonica e di allestimenti, di messa in scena che si deve all'architetto Fornasir, un altro elemento triestino che ha portato a questo eccellente risultato assieme all'amministrazione.

Mariaisabella Musulin di Velvet Media e Project Manager della rivista Genius People Magazine intervista il prof.Vittorio Sgarbi ( Francesco La Bella )

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arte / LE STANZE SEGRETE DI VITTORIO SGARBI di Pietro Di Natale 104

di PIETRO DI NATALE (Storico dell'Arte) Foto report di FRANCESCO LA BELLA

LE STANZE SEGRETE DI VITTORIO SGARBI arte ha una funzione culturale, è autenticamente cultura animi, e per questo non è solo utile, ma anche necessaria nel percorso di ogni uomo. Una collezione d'arte privata è la fondazione di un sistema simbolico, la creazione di una palestra per l'anima, un luogo dove si materializzano scelte intime, meditate e, talvolta, sofferte. Sovente si dimentica che la sua più alta vocazione sia quella di accogliere il pubblico, di offrirsi agli sguardi, di raccontare la propria storia. Con quaranta dipinti antichi da Antonio e Bartolomeo Vivarini a Filippo Comerio la collezione Cavallini Sgarbi ha esordito nel biennio 2013-2014 prima in Spagna, a Burgos (Il giardino segreto, Casa del Cordón) e a Cáceres (Il furore della ricerca, Fundacion Mercedes Calles y Carlos Ballestero), poi a Città del Messico, nei prestigiosi spazi del Museo Nazionale di San Carlos (Teoría de la belleza); tre esposizioni acclamatissime e molto apprezzate, che hanno registrato quasi duecentomila visitatori. Nel marzo del 2016, finalmente, il debutto italiano, a Osimo, nelle sale di palazzo Campana, con una nuova e più ampia selezione di oltre cento opere, tra disegni, dipinti e sculture dalla metà del Quattrocento alla fine dell'Ottocento. La mostra, intitolata Lotto Artemisia Guercino. Le stanze segrete di Vittorio Sgarbi, dopo un passaggio invernale nelle sale della Casa delle Regole a Cortina d'Ampezzo, giunge ora a Trieste, a duecentocinquanta chilometri da casa Sgarbi a Ro Ferrarese, dove sono riunite le numerosissime opere rintracciate da Vittorio Sgarbi – in un affiatato tandem con la madre Rina Cavallini – in trent'anni di furibonda attività collezionistica. Dopo aver acquisito, dal 1976, 2800 titoli dei 3500 elencati da Julius von Schlosser nella sua Letteratura artistica, il critico d'arte capisce infatti “che quadri e sculture potevano essere più convenienti e divertenti del libro più raro”. Quest'illuminazione scaturisce dall'incontro con Mario Lanfranchi, collezionista maestro perfetto, il primo dei tanti da lui incontrati dopo aver abbandonato il dogma universitario che lo aveva portato a “guardare le opere d'arte come beni spiritualmente universali, ma materialmente indisponibili”. Così, dal 1983, incrociando il San Domenico di Niccolò dell'Arca, Sgarbi decide che non avrebbe “più acquistato ciò che era possibile trovare, di cui si poteva presumere l'esistenza, ma soltanto ciò di cui non si conosceva l'esistenza, per sua natura introvabile, anzi incercabile”. Come lui stesso afferma “la caccia ai quadri non ha regole, non ha obiettivi, non ha approdi, è imprevedibile. Non si trova quello che si cerca, si cerca quello che si trova. Talvolta molto oltre il desiderio e le aspettative”.

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Da questo irrefrenabile impulso, strettamente connesso all'impossibilità di rinunciare alla bellezza e al profondo amore per la propria terra, da questo collezionismo “rapsodico, originale, che ambisce a rapporti esclusivi con le opere come persone viventi”, è sorta, incontro dopo incontro, una vera e propria summa dell'arte italiana, tra pittura e scultura, dal XIII secolo ai giorni nostri: un coltivato assortimento (e accanimento) che riflette la cultura ampia e multiforme di chi ha rintracciato, acquisito, studiato e in ultimo protetto i preziosi tasselli che lo compongono. Dedicata a Rina Cavallini, scomparsa nel 2015, la mostra allestita nel Salone degli Incanti di Trieste intende dunque dar conto in primis della peculiare e complessa “geografia artistica” della nostra nazione. Sono rappresentate infatti le principali “scuole” italiane: lombarda (Giovanni Agostino da Lodi, Morazzone, Schivenoglia, Francesco Hayez), marchigiana (Johannes Hispanus, Cola dell'Amatrice, Battista Franco, Giovanni Francesco Guerrieri, Simone Cantarini, Andrea Lilio, Sebastiano Ceccarini, Giovan Battista Nini, Francesco Podesti), veneta (Pietro Liberi, Johann Carl Loth, Simone Brentana, Enrico Merengo), ferrarese (Nicolò Pisano, Garofalo, Ortolano, Bastianino), emiliana e romagnola (Niccolò dell'Arca, Francesco Marmitta, Ferraù Fenzoni, Guercino, Matteo Loves, Guido Cagnacci, Anna Morandi Manzolini, Giacomo Zampa, Mauro Gandolfi), toscana (Giovanni Martinelli, Giacinto Gimignani, Pietro Paolini, Simone Pignoni, Alessandro Rosi, Onorio Marinari, Giuseppe Moriani, Pietro Balestra, Giovanni Duprè), romana (Cavalier d'Arpino, Artemisia Gentileschi, Pseudo Caroselli, Bernardino Nocchi, Giuseppe Cades, Antonio Cavallucci, Innocenzo Spinazzi, Agostino Masucci). L'avvincente percorso offre al visitatore un'ampia panoramica sulla natura e sulla funzione di dipinti e sculture (pale d'altare, quadri “da stanza”, miniature, bozzetti e cartoni preparatori…), nonché sui soggetti affrontati dagli artisti, da quello sacro, alle raffigurazioni allegoriche e mitologiche (Ignaz Stern, Simone Pignoni, Filippo Comerio, Vincenzo Morani), dal ritratto (Lorenzo Lotto, Luciano Borzone, Philippe de Champaigne, Ferdinand Voet, Baciccio, Pier Leone Ghezzi, Giorgio Domenico Duprà, Giovanni Antonio Cybei, Giacomo de Maria, Lorenzo Bartolini, Raimondo Trentanove, Vincenzo Vela), al paesaggio e la veduta (Jan de Momper, Antonio Basoli), alla scena di genere (Monsù Bernardo, Matteo Ghidoni detto dei Pitocchi). Rispetto alle precedenti edizioni di Osimo e Cortina, Le stanze segrete proseguono con Le stanze triestine di Vittorio Sgarbi e altre stanze. Da Nathan a Morandi, con oltre ottanta opere di maestri triestini o attivi nella città giuliana, tra cui Giuseppe Bernardino Bison, Giuseppe Tominz, Umberto Veruda, Arturo Rietti, Oscar Hermann-Lamb, Franco Asco, Attilio Selva, Giovanni Zangrando, Arturo Nathan, Edmondo Passauro, Giannino Marchig, Argio Orell, Bruno Croatto, Ivan Mestrovic, Pietro Lucano, Leonor Fini, Carlo Sbisà, Mirella Schott Sbisà, Mario Ceconi di Montececon, Edgardo Sambo. Queste ultime stanze sono un prezioso omaggio alla città di Trieste, che “ha una scontrosa grazia".

"Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia.” (Umberto Saba)

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LE STANZE SEGRETE DI VITTORIO SGARBI di Pietro di Natale 106

Da sinistra Pietro di Natale, curatore della mostra, Sauro Moretti Coordinatore Generale e Vittorio Sgarbi

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di VITTORIO SGARBI Foto report di FRANCESCO LA BELLA

Le Stanze Triestine di Vittorio Sgarbi e altre stanze da nathan a morandi

o acquistato opere di artisti triestini con l'entusiasmo e la passione di un triestino. Ho amato sopra ogni altro Arturo Nathan, tanto da concepirne una tra le prime mostre di rilancio venticinque anni fa ad Aosta. Di questo grande e tragico romantico ho trovato soltanto due disegni intensi e solitari, come era la sua natura. Ma le sue angosciose esperienze del mare che sospinge relitti e restituisce sculture affondate, memoria di una storia remota e lontana dall'altra parte dell'Adriatico, sono indimenticabili, in una serie di vedute tra le più metafisiche e struggenti della pittura italiana, trasferendo de Chirico dalla vasta pianura padana al mare sconfinato, davanti al quale medita un uomo solitario e apparentemente imperturbato. Nel suo cuore risuonano i versi di Carlo Michelstaedter, goriziano: “Onda per onda batte sullo scoglio - passan le vele bianche all'orizzonte; monta rimonta, or dolce or tempestosa l'agitata marea senza riposo. Ma onda e sole e vento e vele e scogli, questa è la terra, quello l'orizzonte del mar lontano, il mar senza confini. Non è il libero mare senza sponde, il mare dove l'onda non arriva, il mare che da sé genera il vento, manda la luce e in seno la riprende, il mar che di sua vita mille vite suscita e cresce in una sola vita. Ahi, non c'è mare cui presso o lontano varia sponda non gravi, e vario vento non tolga dalla solitaria pace, mare non è "che non sia un dei mari".

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"LE STANZE TRIESTINE DI VITTORIO SGARBI E ALTRE STANZE DA NATHAN A MORANDI" di VIttorio Sgarbi 108

Il Prof. Vittorio Sgarbi, il Sottosegretario dei Beni e attività culturali e turismo Antimo Cesaro

Dettagli dell'allestimento della mostra al Salone degli Incanti

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"Anche il mare è un deserto senza vita, arido triste fermo affaticato. […] Al mio sole, al mio mar per queste strade della terra o del mar mi volgo invano, vana è la pena e vana la speranza, tutta è la vita arida e deserta […] ”. Questa emozione del mare di Trieste, sul molo Audace, trasmette la meditazione solitaria di Nathan, in una struggente sehnsucht. Di uomini, di eroi, di soldati, in amicizia cameratesca, si interessa, con slancio cordiale e sincero, il pittore più placido e sereno, non solo tra i triestini, interprete di una condizione emotiva calda e carica di umana dolcezza, di sentimenti puri, senza drammi e turbamenti, al limite di un non attinto realismo magico: Carlo Sbisà. Se rari sono stati gli incontri con Nathan, più frequenti e soddisfacenti quelli con Sbisà, altrettanto amato, e di cui ho trovato l'intero ciclo di cartoni per gli affreschi monumentali sulla Prima Guerra mondiale del museo del Risorgimento, che non avrei mai pensato di vedere esposti per le loro dimensioni, con la mirabile serie di città della Venezia Giulia e dell'Istria, personificate in donne bellissime e un po' ombrose, distanti. Ora, a Trieste, dominano lo spazio basilicale del Salone degli Incanti.

Vittorio Sgarbi appoggiato sulla spalla di Sauro Moretti

"Anche il mare è un deserto senza vita, arido triste fermo affaticato. […] Al mio sole, al mio mar per queste strade della terra o del mar mi volgo invano, vana è la pena e vana la speranza, tutta è la vita arida e deserta […] ”

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"LE STANZE TRIESTINE DI VITTORIO SGARBI E ALTRE STANZE DA NATHAN A MORANDI" di VIttorio Sgarbi 110

Da sinistra l'assessore alla Cultura Giorgio Rossi, Il sindaco Roberto Dipiazza, Vittorio Sgarbi e l'Arcivescovo Mons. Giampaolo Crepaldi

Da sinistra l'assessore alla Cultura Giorgio Rossi e Vittorio Sgarbi

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arte / "UNA RICERCA SENZA FINE" di VIttorio Sgarbi 111

Sottosegretario dei Beni e attività culturali e turismo Antimo Cesaro

Quelle stesse donne, nella dimensione domestica, le ritrovi in Edmondo Passauro, in Bruno Croatto, e anche nella essenza femminile di Leonor Fini quando dipinge l'anima di un principe arabo, con una travolgente distanza dalla carne e dal rumore del mondo, languido e femmineo. Ho incrociato la bellezza preraffaelita, a Trieste come mai altrove, in Oscar Hermann-Lamb. Ho sentito, prima di Munch, il grido strozzato in riso beffardo di Veruda. Ho visto il sole allontanarsi, nel vortice di un'alba tormentata, in Guido Marussig. E mi ha fatto sentire la tensione della forma che esce dalla materia l'esperienza michelangiolesca del dimenticato Asco, dalle origini simboliste negli anni Venti alla resistenza finale contro l'astrazione, nel 1949, l'anno del primo taglio di Fontana. E poi, ho sentito la vita nelle terrecotte e nei bronzi di Attilio Selva, lo scultore poeta, trepido e sensibile, davanti alla giovinezza di una mula fiera, o alla adolescenza di un ragazzo scamiciato… Proprio come Trieste nei versi di Umberto Saba: “Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia”. Così, oggi, finalmente, entro anch'io e mi muovo, come a casa, nelle mie stanze triestine.

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QUANDO ENTRARE, QUANDO USCIRE Rina Cavallini (1926-2015) 112

QUANDO ENTRARE, QUANDO USCIRE Rina Cavallini (1926-2015) sempre presente come esempio di entusiasmo e coraggio nell'affrontare tutte le sfide dell'arte

o iniziato a partecipare alle aste che non avevo ancora vent'anni. La guerra era appena finita. Allora, però, non battevo opere d'arte, ma un altro genere di opere: opere in... muratura perlopiù. Mio padre era costruttore e mi spediva in giro per l'Italia per le aste degli appalti. Mica facile, soprattutto per una ragazza. Allora non ce n'erano tante di donne che facessero quel genere di cose. Anzi: non ce n'era neanche una. Ero l'unica. Mio padre era bravo e ha fatto tante cose belle: case, palazzi, edifici pubblici, complessi industriali... Mi piace, girando in macchina, di sera, incrociare una bella costruzione e pensare:“Questa l'ha fatta mio padre!”. È bello sapere che qualcuno abita il suo lavoro; vedere che ci sono famiglie che vivono e persone che lavorano in spazi creati da lui. Era bravo, ma certo non poteva fare tutto da solo. Mio fratello, Bruno, era immerso nei suoi studi classici (sarebbe diventato preside al famoso liceo Beccaria di Milano) e mia sorella, Romana, era ancora troppo piccola. Toccava a me. Un bel giorno mio padre mi prese da parte, mi mise in mano una cartellina verde con l'intestazione Impresa Cavallini e un bel po' di documenti da studiare; mi spiegò brevemente le regole del gioco e mi disse:“Va'.Sei una ragazza in gamba: intelligente, veloce, sveglia. Andrà tutto bene, vedrai!”. Non mi aveva mai detto una bugia e, dunque, non avevo motivo di dubitare di lui. Feci come diceva: salii sul treno e partii. La mia carriera di “ammazza aste” (come mi avevano soprannominato a mia insaputa alcuni colleghi/rivali) cominciò così. Ero una testa dura, dicevano, ma secondo me era solo un modo per farsi una ragione del fatto che a vincere ero quasi sempre io. Allora come oggi, quando una donna era bella e non stupida, doveva essere per forza “cattiva”. La verità è che, se volevo farmi rispettare in un mondo di uomini – i quali certo non avevano alcuna intenzione di farsi battere da una ragazzina di provincia – dovevo tirare fuori la mia grinta. Il gioco – che, poi, gioco non era affatto – richiedeva occhio e grande tempismo. Dovevi capire chi avevi intorno, non dovevi lasciarti intimorire da chi accampava chissà quali diritti solo per il fatto che lui era uomo ed era più grande di te. E, soprattutto, dovevi sapere esattamente quando entrare e quando uscire. Un istante troppo presto o troppo tardi, infatti, avrebbe voluto dire perdere. Se offrivi troppo poco, ti soffiavano il lavoro; se offrivi troppo finiva che l'ottenevi, ma ci rimettevi.

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Mio fratello Bruno l'avrebbe chiamata “vittoria di Pirro”. Le aste erano una specie di poker nel quale, più delle carte che avevi in mano, l'intelligenza. Mio padre aveva ragione: andò tutto bene. Tanto che ci presi gusto e divenni la bestia nera dei colleghi maschi che affollavano le aste. “Oh, no! C'è anche la Cavallini!”, si sentiva mormorare quando mi vedevano arrivare. Andò avanti così fin quando mi fidanzai. “Nino”, il mio moroso (quello che poi sarebbe diventato mio marito e che, a distanza di più di sessant'anni malgrado lui sia veneto e io emiliana! – lo è ancora) era geloso e non amava che io me ne andassi in giro per l'Italia da sola. Non aveva tutti i torti, anche perché non ero il tipo che passasse inosservata e c'era sempre qualche bel giovanotto che cercava di farsi avanti. Ne ricordo uno in particolare, un ciclista abbastanza famoso all'epoca (un certo Bevilacqua del quale, però, non ricordo più il nome: Nino, invece, se lo ricorda eccome, anche se fa sempre finta di dimenticarlo!) che sbirciò il nome e l'indirizzo dell'Impresa Cavallini sulla mia cartellina e mi venne a cercare a Ferrara.A quel punto Nino si impuntò e convinse mia madre a non lasciarmi uscire. Il bel ciclista fu costretto a tornarsene a casa e qualche tempo dopo io e Nino ci sposammo e poi nacquero Vittorio ed Elisabetta... Il resto è storia. Molti anni più tardi, quando la passione di Vittorio per le opere d'arte cominciò a diventare qualcosa di più del semplice interesse di uno studioso, la Cavallini tornò a fare la sua parte. La partita era sempre la stessa, ma la posta in gioco era cambiata: non opere di edilizia, ma d'arte. Che la sua non fosse una mamma qualunque, del resto,Vittorio lo aveva capito la volta che (era poco più che un ragazzo) mi aveva accompagnata a Milano per un concorso indetto per assegnare alcune farmacie rimaste senza titolare. A un certo punto mi accorsi che nella formula d'esame c'era un errore e lo feci notare al professore. Lui replicò piccato: “Si sbaglia!”. “È lei che si sbaglia!”, insistetti, per nulla intimorita e anzi forte del fatto che, oltre alla laurea in farmacia, ne avevo una anche in matematica. “Ma lo sa che lei ha un bel coraggio?”, disse. “Controlli!”, feci io. Nella sala calò il gelo. Tutti pensavano che avessi un po' esagerato, ma io sapevo il fatto mio ed ero certa

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di non sbagliare. Alla fine, il professore mi fissò negli occhi: "Ha ragione lei" disse "la formula è sbagliata... Evidentemente sono io che sono un po' troppo stanco." “Lei ha vinto una farmacia!”, aggiunse. Il brusio divenne frastuono.Vittorio cominciò a esultare. Non stava più nella pelle e girava per la sala, continuando a esclamare:“Mia madre ha vinto una farmacia!”. Da quel giorno cominciò a guardarmi con occhi diversi: non ero più soltanto sua madre, ma una donna autonoma e all'altezza della sua intelligenza. Da allora, ho battuto io tutte le aste per le opere alle quali lui tiene ed è grazie a me se è riuscito a circondarsi di tutta quella bellezza. Di solito funziona così: mi porta i cataloghi, mi fa vedere le cose che lo appassionano di più e, a volte, mi dà qualche indicazione sulla cifra alla quale è possibile arrivare. Ma poi aggiunge: “Mi fido di te”, con quell'aria complice e sorniona, che mi riporta ventenne davanti allo sguardo fiero di mio padre che mi dice “Sei in gamba: andrà tutto bene, vedrai!”. E poi arriva l'ora x, il telefono squilla, mi mettono in contatto con il battitore e la partita ricomincia. E anche se sono felice di notare che, sebbene sia passato qualche anno, non ho ancora perso la grinta, non è esattamente un giuoco da ragazzi. C'è sempre chi prova a fare il furbo, chi cerca di tagliarti fuori e, a volte, per farsi rispettare mi tocca anche litigare. E anche se al telefono è tutto un po' più difficile, dal momento che non puoi vedere in faccia i tuoi avversari e non sai mai con chi hai a che fare, l'emozione di quei momenti è seconda solo alla soddisfazione di poter regalare al ragazzino che urlava:“Mia madre ha vinto una farmacia!”, una delle pochissime cose davvero in grado di renderlo felice. Grazie a mio padre che mi ha dato una bella testa, a Nino che mi ha aiutato a non perderla, e a Vittorio, che non ha mai smesso di riempirla di bellezza e che, anche grazie a queste aste, continua a farmi vivere con la stessa emozione di quando avevo vent'anni. Ro Ferrarese, gennaio 2014

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QUANDO ENTRARE, QUANDO USCIRE Rina Cavallini (1926-2015) 115

"Vittorio Sgarbi e Rina Cavallini" (ritratto Renato Balsamo)

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CARLA TOLOMEO “Prego si accomodi”! La sedia, quattro gambe per conquistare il mondo.

Con la mostra “Il Giardino delle Delizie di Carla Tolomeo” ospitata al Museo della Musica e del Teatro di San Pietroburgo dal 14 Marzo al 15 Maggio 2017, la Galleria d'Arte Contini in collaborazione con la Galleria Art Holding di Tatiana Nikiitina riporterà oltre i confini nazionali l'eclettico mondo artistico di Carla Tolomeo, esponendo alcune delle sue più sorprendenti sedie sculture, insieme a disegni, arazzi e acquerelli.

arla Tolomeo è una personalità artistica completa, la sua vicenda si svolge tra studi, ricerche e acute illuminazioni che le hanno permesso di esprimersi con pari agio nella pittura, scultura e scrittura, dimostrando come possa esistere una compenetrazione tra le diverse espressioni d'arte. Carla ha avuto già dagli esordi della sua carriera le carte in regola per imporsi come artista: giovanissima allieva di de Chirico, pittrice e scultrice, lavori esposti in Italia, Europa e Stati Uniti, prestigiosi riconoscimenti a livello nazionale e internazionale. Ma dopo la sua ultima mostra a Londra, “Omaggio a Leonardo” alle Leicester's Galleries, nel 1997, la svolta determinante del suo percorso. Deve assistere la madre malata, è costretta quindi a rinunciare ad un contratto con un'importante galleria londinese, non può dipingere e deve restare praticamente chiusa nella casa di Milano. Ma il suo spirito creativo non si fa imprigionare. È di quel periodo la creazione della prima sedia-scultura, una scommessa con se stessa sulla possibilità di trasformare un normale oggetto domestico del quotidiano in creazione artistica: la “Sedia”, appunto, quella che l'ha portata ovunque nel globo, il vero trampolino di lancio per la sua affermazione a livello mondiale.

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Galleria CONTINI Carla Tolomeo 117

“C'è il mondo e poi c'è quello che inventi, che costruisci a tua misura” dice Carla Tolomeo, e l'universo parallelo di Carla Tolomeo è un mondo magico, creato combinando tessuti preziosi, pazienza e genialità di una grande artista del nostro tempo con una sedia, antica, dismessa o dimenticata, reinventata e trasforma in opera d'arte unica nel suo genere. Carla Tolomeo è artista poliedrica che fedele al suo motto “never rest on my laurels” non smette di sperimentare e sperimentarsi su nuovi materiali e ispirazioni. Da un incontro con Borges e il suo “Manual de Zoològia fantastica” sono nati i disegni poi diventati sculture in ceramica, legno, resina, velluto e infine sedie. Fantasia pirotecnica unita a vulcanica creatività, ciascuna delle straordinarie sedie sculture di Carla è una sorpresa, la componente giocosa si intesse con quella onirica. Così come si fondono i tessuti preziosi, sulla spalliera di una sedia può inerpicarsi un gruppo di tartarughe, posarsi una farfalla, uno stormo di pappagalli, spuntare una palma o un cespuglio di ananas.

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Ecco come si crea la magia della “Signora delle sedie”, regina indiscussa della fantasia nell'accomodarsi, partendo da elementi semplici che diventano d'incanto più interessanti e preziosi, catalizzando l'interesse di persone che amano vivere in un ambiente originale. Le Sedie-scultura, da subito recensite dalle più importanti riviste d'arte e di arredo del mondo, diventano oggetto di attenzione, citazione e collezionismo; sono contese dai più prestigiosi musei del mondo da Dallas, all'Asian Museum di Seul, da New York al museo Puskin di Mosca a Londra oltre che dal gotha del collezionismo mondiale, richieste dalla Maison Hermès di Parigi, presenti nelle boutique Bluemarine di Anna Molinari in ogni angolo del mondo. Attualmente alcune sue meravigliose creazioni sono esposte a Mosca, Museo di arte popolare, in una esclusiva mostra curata dalla Maison Hermès “Il labirinto di seta”: una delle parti più preziose della mostra sono due opere di Carla Tolomeo, sedie-scultura di più di 2 m di altezza rivestite in velluto e sciarpe d'epoca prodotte dalla prestigiosa casa di mode francese.

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Galleria CONTINI Carla Tolomeo 119

Opere della Tolomeo sono presenti nelle collezioni del museo della casa di moda Hermès, Museo delle Arti Decorative (Berlino), Museo di Arte Contemporanea (Zagabria), famiglie reali d'Europa, importanti collezionisti privati, così come nelle case di Sophia Loren, Naomi Campbell, Sylvester Stallone e altri personaggi del mondo dell'arte e dello spettacolo. Quest'anno Carla Tolomeo, sarà anche protagonista dell'evento conclusivo di Cortinametraggio, Festival del cortometraggio giunto alla XII Edizione che si svolgerà a Cortina d'Ampezzo dal 20 al 26 marzo 2017. Per l'occasione ha realizzato un'opera dedicata a questa manifestazione, che verrà donata dalla Galleria Contini a conclusione del festival.

Legenda foto: pg.116 (a destra) - "PIGS" 2015, 10 sculture più una prova d'artista, struttura in resina elaborata dall'artista con Velluto, disegno esclusivo TOLOMEO, Passamanerie e Velluti di Seta, cm 20x42. pg.116 (a sinistra) - PISHES FAUTEUIL 2016, Velluti in Seta Pontoglio, Lisci e Operati, Paillettes, Passamanerie su struttura '900, cm 204x99x53, Seduta cm 40x65x63. pg.117(in alto) - TOLOMEO THE BLACK TREE part Two 2015, struttura in stile copia di autentica, Velluto in Seta Pontiglio, Passamanerie, cm 181x175, Seduta cm 36x63. pg.117(in basso) - MOTHER AND SONS 2015 Sedia '800, Elementi decorati in Damasco, Lampasso, Velluti in Seta Pontiglio, cm 180x80, Seduta cm 45x44x41. pg.118 - GRAPES AND LEAVES 2015 Chaise Lounge, Struttura '800, Velluto Blue Marine, Lampassi, Broccati, Paillettes, Passamane. pg.119(in alto) - THE BUTTER FLIES'S WAVE 2015, Elementi decorati in Velluto, Lampasso, Paillettes, Velluti Devoree, Velluti Pontoglio, Passamnerie in Seta, Oro Cotone, cm 157x128, Seduta cm 110x40x44. pg.119(in basso) - APANESE BLUE TOTEM MOON 2009, Struttura Legno Design TOLOMEO, Tessuto esclusivo "TOLOMEO Velluto di Seta Stampato in AR"

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Francesco Bernardini

"Francesco Bernardini" (Marco Bosa - C Maiuscola)

Il rock è ancora dentro le mie vene, lo ascolto in ogni momento. Ci sono parecchi brani dall'anima rockettara che piacciono anche al mio pubblico, con il quale ho un rapporto fantastico e che ritengo per me fondamentale. Penso che sia una caratteristica di ogni artista l'esprimere un sentimento, trasmettere energia emozionale e vedere questa energia negli occhi e nei movimenti di chi ti sta accanto.”

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a pianista a cantante, da chitarrista a Dj: un musicista dalle mille risorse ed eccelso, intrattenitore, capace di esaltare qualsiasi tipologia di pubblico e richiestissimo tra i locali in di tutto il mondo, come New York, Parigi, Milano, Monaco,…

Francesco, come sei arrivato fino a qui? Raccontaci un po' della tua carriera. In realtà ho sempre avuto la passione per la musica, fin da bambino: ho iniziato a studiare pianoforte classico all'età di 6 anni ed è stato amore a prima vista; da quel momento non ho più smesso di suonare e per 10 anni non c'erano altri, se non Mozart, Bach, Beethoven ed i più grandi per me: Liszt e Chopin, i miei preferiti. Ho passato l'infanzia con il mio amato pianoforte, accrescendo le mie potenzialità artistiche tra una nota e l'altra, fino al momento clou del mio percorso musicale, la mia prima esibizione. Dopo tanti anni di esercizio “dietro le quinte”, a 16 anni il destino mi ha messo davanti ad un bivio: la festa di compleanno di un'amica in centro a Padova. Fu una serata indimenticabile, ancora oggi ne ricordo ogni minimo dettaglio, dalla mia performance con pianoforte e voce, alle mie emozioni, allo stupore del mio primo pubblico … Da lì è partito tutto!

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Fin da giovanissimo hai iniziato ad intrattenere con la tua musica molti spettatori, ma quando è stato il tuo primo approccio con il pubblico? Come ha reagito durante la tua prima esibizione? Dopo la prima performance al compleanno della mia amica a Padova, ho avuto ben presto l'opportunità di fare una vera e propria esibizione pubblica in un locale nel 1986, doveva essere tra aprile e maggio … esisteva una famosa osteria che faceva musica, sempre a Padova, che si chiamava “Nane della Giulia”. Il gestore mi chiamò perché segnalato da un amico di mia madre che pranzava spesso in quel posto, così mi buttai: pianoforte, voce e via senza rete! Da quel momento iniziai ad andarci una volta alla settimana, suscitando sbigottimento tra gli ospiti che cenavano, non potevano credere che lì, in quel locale, il pianista cantante che vedevano suonare davanti ai loro occhi avesse solamente 16 anni!! Il repertorio comunque era tra i più classici: Baglioni, Dalla, De Gregori, ecc… La tua carriera è iniziata in Piazza dei Signori a Padova e oggi invece suoni nei più famosi locali del mondo. Che effetto ti fa? Cos'è cambiato durante il tuo percorso artistico? E' cambiato praticamente tutto, soprattutto perché è cambiato il pubblico e sono cambiato io. Fino alla fine degli anni '90 esistevano i pianobar, i club notturni, i privee, chiamateli come volete: gli ospiti arrivavano dopo cena per bere, stare in compagnia e ascoltare musica su richiesta. Oggi invece, ed aggiungerei purtroppo, quei locali si contano sulla punta delle dita, e ora è tutto diverso, devi saperti imporre e suonare quello che pensi possa piacere, lasciando poco spazio alle richieste. Fortunatamente io ho sempre avuto un bellissimo rapporto con il mio pubblico, quindi mi trovo ogni tanto a fermarmi a fine serata per fare quattro chiacchiere con gli ospiti per chiedere magari cosa vorrebbero ascoltare; la risposta più frequente è “non so, aspetta che guardo la mia playlist”. Spesso e volentieri sostieni che il tuo rapporto con il pubblico dal vivo ti dà sempre fortissime emozioni. Come si è evoluto nel corso della tua carriera? Per me, il rapporto che un musicista ha con il suo pubblico è fondamentale: io, ad esempio, ho sempre bisogno di avere e sentire gente intorno a me mentre suono, anche se credo che sia una caratteristica di ogni artista il voler esprimere un sentimento, trasmettere energia emozionale e vedere che questa energia si riflette negli occhi e nei movimenti di chi ti sta accanto. D'altro canto, sappiamo che per qualsiasi cosa c'è sempre il rovescio della medaglia e sono consapevole

che faccia parte integrante del lavoro del pianista di pianobar suonare anche per chi non si accorge di quello che stai facendo, e ci può stare, ma lo considero svilente e noioso. Parliamo un po' del tuo passato. Sappiamo che dentro di te c'è uno “spirito ribelle” e hai fatto anche parte di qualche rock band. Che differenze ci sono tra un pubblico rock e uno più “classico” (quello dei locali in cui suoni ora)? Lo ammetto, nonostante sia da anni richiestissimo come Mj, in cui mi ritrovo a suonare i grandi classici, il rock scorre ancora dentro le mie vene; lo ascolto in ogni momento, appena ne ho l'occasione, cercando anche novità nel mondo discografico che possano stupirmi e stimolare la mia creatività. In realtà, ci sono parecchi brani dall'anima rockettara molto apprezzati anche dal pubblico dei club o delle feste in cui mi esibisco, i più gettonati sono i Police, i Metallica, Oasis, The Killers, Guns n' Roses, ecc … Sono però difficili da inserire in una scaletta, bisogna avere molta esperienza nel capire come fare e soprattutto essere abili e furbi, suonandoli al momento opportuno per evitare la classica faccia del pubblico che dice “cos'è ‘sta roba??!!”. Da rockstar a Mj e Dj: cosa ti ha portato ad intraprendere questi cambiamenti? Quale pubblico rispecchia di più la tua indole artistica? Rockstar? Magari! Diciamo che c'è stato un lungo periodo dal 1995 al 2002, in cui suonare musica rock sembrava fosse la mia strada: insieme alla mia vecchia band, i “Pastrocchio”, abbiamo avuto l'opportunità di girare parecchio, arrivando persino a Sanremo Rock come prima band in Veneto! Abbiamo anche aperto i tour di vari artisti italiani, un sogno però che poi si è scontrato con la realtà delle case discografiche, senza più budget e con l'avvento della musica digitale. Ancora oggi però vado dal club importante, all'evento esclusivo, passando per un anonimo pub a suonare con le mie due band tributo dei Police o di Elio e le storie tese, davanti a 15 persone! E' la voglia di mettermi sempre in gioco e cercare emozioni diverse che mi spinge a frequentare palchi così differenti tra loro, e la cosa non mi pesa per nulla, anzi, devo dire con piacere che il pubblico che mi segue in ogni evento così diverso apprezza questi “cambi d'abito”.

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Francesco Benardini 122

A prescindere da chi ti ascolta, tu hai sempre apprezzato il tuo pubblico, instaurando con esso un rapporto quasi viscerale. Quali sono le soddisfazioni più grandi che hai avuto da parte dei tuoi spettatori? Raccontaci qualche episodio che ti è rimasto impresso. Le soddisfazioni che mi dà il pubblico sono tante, per me questo rapporto è essenziale, un dare e ricevere che mai mi sarei aspettato dalla mia carriera. Di episodi in questi anni ce ne sono stati tanti, ma sono rimasto particolarmente colpito dalla solidarietà e dalla tempestività del pubblico di un evento a Peschiera: quella sera, prima della mia esibizione, mi furono rubati tutti gli strumenti dall'auto e prontamente gli ospiti del locale si fecero in quattro per recuperare chi una chitarra, chi un microfono, chi i testi delle canzoni della figlia o del figlio … e venni pagato anche di più per ripartire nell'acquisto di nuovi strumenti … Un ricordo straordinario!! Altro episodio che ci tengo a raccontarvi fu quando suonai a casa di Michael Schumacher la sera del suo compleanno: nonostante avesse un personale per la sua casa, ha voluto a tutti i costi aiutarmi a scaricare gli strumenti sotto la neve, a -25 gradi e rimontarli insieme a me in casa … rimasi senza parole dalla sua semplicità! Parlando della tua carriera emerge un musicista a tutto tondo, dalle multiple sfaccettature diverse e con un'ammirevole versatilità, ma oltre alla musica hai intrapreso altri progetti? Quali sono i tuoi programmi futuri? Grazie dei complimenti! Il mio segreto è fare sempre quello che mi piace scendendo a pochissimi compromessi; il problema è che amo la musica a 360° in ogni sua forma espressiva, per questo motivo è abbastanza difficile accontentare i miei “pruriti” musicali e accontentarli tutti. Oggi mi sto orientando su alcuni percorsi che avevo lasciato in sospeso: un progetto legato all'idea di “one man band” con l'ausilio di strumenti e hardware musicale come le loopstation, i vocoder o vecchi synth come i Moog, di cui sono un felice possessore, ed infine lo studio per il compimento della laurea in pianoforte classico, che purtroppo lasciai 30 anni fa, ma che ora ho deciso di riprendere in mano e portare a termine, nonostante mi occupi metà della mia giornata.

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Intervista all'Architetto Giulio Paladini, socio-fondatore del Studio Metroarea di FRANCESCO LA BELLA

p. 124/135

Cover Moda Architettura

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di FRANCESCO LA BELLA

Studio Pacorini (Studio Metroarea)

studio metroarea

intervista

In un ex-fienile a Bologna e in una v ecchi a fa bbr ica di liquor i ot tocentesca a Ba rcola , Tr ieste , si trova no le due sedi del giova ne studio Metroa r ea , che i tr e a rchitet ti, Ta zio di Pr etoro, Giulio Pa la dini e Antonio Ba roncelli, h a nno sa pientemente tr asfor m ato in studio di proget ta zione .

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i puoi spiegare il perché di queste scelte non convenzionali per il vostro ambiente di lavoro?

Ci piace l'idea di trasformare, di dare nuova vita a vecchi spazi abbandonati o inutilizzati. Esiste un patrimonio immenso di tesori edilizi che, se osservati con la giusta sensibilità, offrono possibilità uniche. In questi anni abbiamo convertito sottotetti in abitazioni di lusso, cantine in ristoranti, negozi in abitazioni e magazzini in uffici. Recentemente abbiamo trasformato un magazzino ottocentesco nel centro di Trieste in un ufficio per una startup dell'energia. Abbiamo voluto ricreare un'atmosfera informale da laboratorio, realizzando un grande open space diviso da pareti vetrate che permettono la continuità visiva e possono diventare lavagne su cui scrivere idee o formule fluttuanti nell'aria come liberi pensieri. Le strutture originali sono state lasciate a vista: le travi in cemento, le pareti in mattoni rossi ripulite dall'intonaco e le vecchie scale originale in legno scuro, riparate e ripristinate delle parti mancanti. In particolare, visto l'ambito di lavoro dei clienti nel campo energetico, abbiamo voluto rendere evidente questo legame decorando l'atrio d'ingresso con vecchi strumenti elettrici, come contatori o amperometri di recupero. Di conseguenza un tema fondamentale è stato giocato sull'illuminazione. Abbiamo recuperato delle vecchie lampade industriali in Olanda, per integrarle con gli elementi storici. I magazzini in genere hanno finestre piccole e questo, pur essendo al settimo piano, non faceva eccezione. Abbiamo quindi aperto un grande lucernaio nel tetto, per inondare lo spazio di lavoro di luce naturale.

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Studio Pacorini (Studio Metroarea)


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Nel 2007, i tre architetti decidono di unire le loro competenze formatesi attraverso lo Iuav di Venezia, il Politecnico di Milano, la Technische Universitaet di Berlino, il Master Internazionale “High Rise Building� alla Tu Delft in Olanda e la collaborazione con prestigiosi studi italiani e internazionali come OMA / Rem Koolhaas.

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Come hanno influito queste esperienze sulla vostra produzione? I nostri studi ci hanno permesso di vedere il mondo da punti di vista diversi e quindi con maggior lucidità. Il risultato è che cerchiamo di unire la qualità e il rigore nordico alla cultura e sensibilità mediterranea. Il progetto non è un processo lineare e l'analisi e l'esperienza sono fondamentali per approcciare e risolvere i problemi in modo brillante. I lavori di ristrutturazione di cui abbiamo parlato prima, ad esempio sono stati un'ottima scuola nel comprendere il valore del contesto, il “genius loci”. Anche quando si realizza qualcosa di nuovo c'è sempre un contesto con cui relazionarsi e in un certo senso è sempre un lavoro di “trasformazione”. Puoi fare un esempio di questo metodo progettuale? Prendiamo ad esempio il progetto per la Villa a Cedas sulla costiera triestina. Si tratta di una casa unifamiliare integrata con la natura e l'ambiente, con un linguaggio pulito ed essenziale ispirato ai tipici pastini con muri a secco utilizzati per contenere i terreni agricoli sulle colline costiere di Trieste. Si tratta di un edificio progettato dal contesto, un edificio in cui il contenuto prevale sulla forma. Quando abbiamo iniziato il lavoro, abbiamo ereditato uno schema fatto da altri, in cui una casa tradizionale a due piani era stata posta casualmente sul terreno. Garage interrato, zona giorno al primo livello, camere da letto nel sottotetto. Era un disastro completo. Non funzionava niente. Innanzitutto, non teneva in considerazione le caratteristiche del sito (il lotto si trova su un ripido pendio ed è accessibile dalla parte più alta). Posizionare il garage nel seminterrato significava occupare la maggior parte del giardino con una strada ripida, e poi il cliente sarebbe dovuto ogni volta risalire all'abitazione attraverso una scala buia. In secondo luogo, la forma rettangolare dell'edificio creava la necessità di ingenti scavi, ma con una strada di accesso al lotto molto stretta, era

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Villa Over -Rendering (Studio Metroarea)

impossibile portare via la terra: inoltre avevamo trovato una grande roccia sul sito che non era stata considerata. Infine, avevamo notato che la mansarda nel tetto a falde, avrebbe bloccato la vista sul mare da un'altra proprietà del cliente più in alto. C'erano poi molti altri problemi minori, come la mancanza di spazio esterno e la posizione della piscina di fronte al soggiorno, estremamente costosa e poco pratica. Abbiamo quindi deciso di iniziare da zero, raccogliendo il maggior numero possibile di richieste e desideri da parte del cliente e analizzando accuratamente il sito alla ricerca dei problemi e delle risorse. La sfida era quella di trovare un disegno che potesse risolvere tutto, e lo abbiamo fatto. Abbiamo immaginato una casa a due livelli, posizionando i volumi sulle aree pianeggianti del lotto, così non ci sarebbe stato alcun bisogno di scavare. La roccia è stata inserita nel disegno, come scenografia per un piccolo patio vetrato. Il garage e l'ingresso sono posti al livello principale, in modo da ridurre al minimo la distanza dalla macchina alla cucina. Il soggiorno è al livello superiore con la vista aperta verso il mare e il tramonto sopra uno spesso strato di vegetazione. Al livello inferiore si trovano le camere da letto vetrate sul bosco, e la lavanderia. Al livello della copertura, vi è un tetto giardino panoramico con la piscina e la spa. Questa soluzione è stata scelta in modo da poter condividere quest'area con la proprietà di famiglia sita posteriormente, e utilizzato da chiunque senza causare fastidio agli abitanti della casa. La poca terra di scavo è posta vicino al garage, sotto la terrazza del salotto, tra i muri di contenimento. Il risultato è una casa straordinaria con un aspetto ordinario, un edificio che non vuole apparire. Dall'ingresso, è quasi invisibile. E' mimetica, in uno stretto dialogo con la natura: le pareti sono costruite in pietra locale, e si confondono con i pastini. Il pavimento interno ed esterno e il soffitto sono in calcestruzzo. Questo è anche un edificio sostenibile e a consumo zero. Le pareti sono spesse e isolate mentre la forma utilizza il terreno per minimizzare la perdita di calore durante l'inverno mantenendo poi una temperatura fresca attraverso tutta l'estate. Il tetto è verde e ha una

Villa Over -Rendering (Studio Metroarea)

Villa Over -Rendering (Studio Metroarea)

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massa termica elevata, beneficiando anche di raffreddamento per evaporazione estiva. L'energia addizionale necessaria proviene da pannelli solari dei quali la produzione in eccesso va nel riscaldamento della piscina. Si nota un approccio molto scientifico al lavoro. Cosa pensi della tecnologia? Per me gli aspetti tecnici sono la base dell'architettura. Prima di essere bello, prima di essere originale, un edificio dev'essere funzionale. E' imbarazzante constatare quanti edifici contemporanei falliscano miseramente nel risolvere i più basici problemi dell'abitare, non solo nel gestire la luce, il calore, il vento, ma anche l'acqua, cancellando in un solo colpo millenni di evoluzione architettonica. La tecnologia dev'essere integrata nelle scelte architettoniche. Se le due cose dialogano il risultato è prodigioso. Stiamo quindi parlando di sostenibilità, di bioarchitettura? Esattamente. La sostenibilità riguarda sicuramente l'aspetto ambientale, ma anche l'aspetto economico e sociale. Un progetto è sostenibile quando tiene conto di tutti questi aspetti. Ad esempio non proponiamo mai ai nostri clienti degli elementi “scultorei” fini a se stessi, con ingiustificabili aumenti di costo. Nei nostri progetti tutte le scelte, tutti i dispositivi architettonici, sono fortemente motivati da scelte economiche, funzionali, ambientali e sociali, come la protezione dal sole e dalla pioggia, la vista mare, l'intimità e la privacy, la posizione del tramonto o ancora la ventilazione naturale estiva. La bioarchitettura è poi il risultato: ad esempio abbiamo realizzato delle villette sulla costiera triestina che mediante l'utilizzo di tecniche passive come l'isolamento murario, la facciata ventilata, il tetto verde, i brise-soleil e altre attive come i pannelli solari, consumano poche decine di euro di riscaldamento l'anno. Sono piaciute molto visto che sono state vendute tutte sulla carta quando questi dati erano solo stime.

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Studio Pacorini (Studio Metroarea)

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Studio Pacorini (Studio Metroarea)

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Villa Mediterranea Ibiza

Recentemente avete realizzato una grande villa a Ibiza. Quali sono le scelte che vi hanno portato a queste forme originali? Per la villa di Ibiza abbiamo voluto cimentarci con un concetto più ampio, la fusione della cultura mediterranea con l'ambiente naturale. Ispirata alla villa romana e all'eredità spagnola e araba, la casa prende forma attraverso il lessico naturale dell'espressionismo italiano (Moretti, Michelucci, ecc), che mantiene anche un forte ricordo di Rudolf Steiner. Oggi infatti, progettare in modo contemporaneo significa secondo noi stabilire un dialogo dedicato con la storia e con la natura. Così, ad esempio, la relazione continua tra interno ed esterno che si ottiene con le grandi vetrate, è filtrata da giardini pensili, tettoie e schermi di bambù realizzati su misura, che sono una reminiscenza delle persiane tradizionali e della Musciarabia araba. Il tipico patio centrale è il fulcro di una complessa rete di percorsi a più livelli e, allo stesso tempo, come l'impluvium romano veniva usato per raccogliere l'acqua piovana, è arricchito da una cascata e da un torrente che collega le due piscine. Il profilo della villa segue la naturale pendenza del terreno ed è adagiata perfettamente sulla collina, in una forma che ricorda un anfiteatro, immerso nella natura. L'utilizzo di materiali semplici come il cemento segnato dalle assi di armo in legno e i muri a secco, sottolinea il desiderio di evitare un'immagine popolare di lusso, mentre invece ricerca un collegamento

con l'isola, il terreno e la sua tradizione. Il risultato è quindi informale e ospitale, secondo le lezioni di Busiri Vici, Couelle e Vietti. Non a caso per questo lavoro ci siamo cimentati con tecniche molto tradizionali. Tutto è stato realizzato a mano sul sito, a partire dai muri in pietra e in cemento fino ad arrivare ai mobili, tutti realizzati artigianalmente su misura. La pianta è composta da tre diversi livelli, che sono organicamente collegati da percorsi curvi e scale, ma è fisicamente divisa in funzioni specifiche. Piano terra: nell'ala nord si trova la master suite (con ampio spazio living e guardaroba) nell'ala sud sei camere ospiti, esternamente la piscina principale. Primo Piano: soggiorno (con una vetrata scorrevole di 15m) sala da pranzo, cucina, palestra, centro benessere, piscina esterna secondaria. Secondo Piano: Belvedere soggiorno Cosa c'è all'orizzonte per Metroarea? Negli ultimi due anni abbiamo cominciato ad applicare il nostro metodo a progetti più ambiziosi. Ci siamo cimentati in concorsi e gare nazionali e internazionali e il risultato è stato inaspettato. Su 8 partecipazioni abbiamo ottenuto 7 primi premi

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e un secondo, una media incredibile. Alcuni di questi lavori stanno procedendo, uno addirittura in Oman che è un posto bellissimo. Di cosa si tratta? La Omana Tower è un edificio che ha due identità principali: da un lato si tratta di una torre uffici con esigenze di grande spazio di qualità per il lavoro, dall'altro lato si tratta di un basamento commerciale che richiede una facile identificazione dalla strada e un facile accesso. Quando abbiamo iniziato la fase di progettazione, abbiamo considerato questi elementi come prioritari, ma volevamo anche che il nostro edificio fosse sostenibile ed economico

da realizzare. Ricercando nella storia e nella tradizione, abbiamo scoperto che l'Oman ha una storia affascinante di commercio e di mercati. Alcuni dei suq dell'Oman sono i più antichi in tutto il mondo arabo. Abbiamo quindi voluto che il nostro centro commerciale fosse un souq contemporaneo. Allo stesso tempo l'Oman è anche una terra di modernità e di progresso. I suoi abitanti hanno viaggiato e conquistato mezzo Oceano Indiano. Ahmad Ibn Majid ha aiutato il navigatore portoghese Vasco da Gama nel completamento della prima rotta commerciale marittima tra Europa e India. L'Oman non esisterebbe senza il mare. Così abbiamo deciso che la torre uffici dovesse invece essere ispirata e animata dalle onde del mare

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e riflettere il grande balzo del popolo dell'Oman quando ha intrapreso la via dell'infinito. Come risultato il nostro edificio è una sovrapposizione di un souq contemporaneo e una torre moderna. Esso riflette l'anima dell'Oman, il rapporto tra tradizione e modernità, il rapporto tra il mare e le montagne. Per identificare l'ingresso, abbiamo inserito un taglio nella facciata, fornendo allo stesso tempo un vuoto verticale attraverso l'edificio, dal tetto alla lobby principale, una 'torre del vento' semplificata per offrire luce naturale e ventilazione all'interno. L'edificio è organizzato in modo molto semplice ed efficace secondo le richieste del cliente. La struttura è regolare e utilizza quasi l'intero lotto. Ci sono


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Omana Tower Oman

due nuclei centrali che forniscono l'accesso verticale a tutto l'edificio. Ospitano tutti gli ascensori e le scale di emergenza. C'è un parcheggio sotterraneo per 130 auto con grandi parcheggi adatti per i SUV. Vi è inclusa anche una zona per la manutenzione e il lavaggio dei veicoli. I lavoratori potranno accedere all'edificio direttamente da qui. Il piano terra e il primo piano ospitano l'area commerciale. C'è un atrio principale con una scala rotonda panoramica, accessibile direttamente dall'ingresso principale, che collega le varie attività. Sul lato nord c'è un ingresso VIP separato con accesso diretto al nucleo e alle funzioni speciali che si trovano all'ultimo piano, come il 'club' e l'auditorium che sono strettamente collegati. Il dispositivo tecnico più evidente della costruzione è il guscio esterno. È intagliato come una musciarabia tradizionale con un disegno geometrico che offre un filtro solare per l'intero edificio. Come si fa ad avere successo in un ambito così saturo e in un periodo di grossa crisi per l'edilizia? Purtroppo o per fortuna la crisi è cominciata quando abbiamo aperto lo studio, quindi abbiamo sempre lavorato in uno stato di emergenza che è divenuto per noi la normalità. In questo scenario è stata una nostra scelta fin dall'inizio quella di porre il cliente al centro del nostro lavoro, ed aiutarlo ad esaudire i suoi desideri e i suoi sogni nel modo migliore possibile. Lavoriamo accompagnandolo lungo tutte le fasi di un progetto, dall'idea alla realizzazione, tenendo sempre sotto controllo tutti gli aspetti del processo. Ci occupiamo in prima persona non solo di tutte le fasi del progetto ma anche di ottenere tutti i permessi

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e le autorizzazioni. In questi anni grazie ad un rapporto costante con le amministrazioni, abbiamo evitato ai clienti la brutta sorpresa di un diniego o di una falsa promessa, portando avanti con successo le operazioni piĂš diverse. Allo stesso tempo ci occupiamo anche della direzione lavori in fase di cantiere, in maniera da assicurarci che tutto venga realizzato secondo previsione. Gestiamo anche gli aspetti strutturali e tecnologici e non da ultimo quelli economici, con un costante controllo dei costi per tutta la durata del processo. Nel

2013 abbiamo ricevuto un prestigioso premio per l'innovazione. Nel nostro campo innovare significa ottimizzare. Conoscere il passato millenario della disciplina per migliorarlo. Come diceva Newton, è facile vedere lontano salendo sulle spalle dei giganti.

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Cover Moda innovazione Atmos 568 by Marc Newson "Purezza e semplicitĂ del Tempo" di JAEGER-LeCOULTRE p 138/145

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Atmos 568 by Marc Newson Purezza e semplicitĂ del tempo

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Marc Newson_Manufacture Jaeger-LeCoultre© (Johann Sauty)

uesta è la storia di una collaborazione affascinante e gratificante per entrambe le parti. Dal 2008, Jaeger-LeCoultre e il designer Marc Newson hanno unito le loro rispettive competenze, stimolando le reciproche energie creative per realizzare assieme una nuova ed esclusiva interpretazione dell'iconica pendola Atmos. Anche quest'anno il designer ha creato la pendola che vive dello scorrere del tempo in base alla sua immaginazione, rielaborandola in uno stile contemporaneo che rimane comunque fedele alla sua identità intrinseca. La sua collaborazione con la Grande Maison ha dato vita a un oggetto eccezionale e dalla purezza straordinaria, il cui respiro è racchiuso in una sfera di cristallo Baccarat.

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L'equilibrio perfetto fra design, virtuosismo tecnico e tradizione Prendete un designer di fama mondiale ma dallo stile sobrio, creatore di oggetti ambiti e associatelo a una pendola leggendaria. Una pendola totalmente silenziosa, che trae la sua energia dalle più impercettibili variazioni di temperatura, animata da un meccanismo che avrebbe affascinato anche grandi personalità del passato come Leonardo da Vinci, che sognava di realizzare la macchina del moto perpetuo. In seguito a questa nuova collaborazione creativa, il grande designer ha rielaborato la forma esterna dell'Atmos, assieme ad alcuni componenti, riducendola a una sfera di cristallo pura e trasparente per accentuarne l'essenza e lo status iconico. Marc Newson spiega la sua affinità con questa pendola:

Making of Atmos 568 by Marc Newson (Johann Sauty Jaeger-LeCoultre©)

Quando mi hanno chiesto di progettare una pendola Atmos ero entusiasta, perché è un segnatempo che amo dalla prima volta che l'ho visto, da ragazzino. Per me Atmos è un oggetto magico e complesso: sembra muoversi con un moto perpetuo e per funzionare necessita di un ambiente costante. È come un oggetto vivente: sembra quasi che possa percepire la tua presenza e la cosa mi fa stranamente piacere. La semplicità di un movimento ridotto all'essenziale Un connubio di leggerezza, trasparenza e semplicità. A prima vista, ciò che colpisce dell'Atmos 568 di Marc Newson è il meccanismo del segnatempo, che sembra fluttuare liberamente nell'aria, pur essendo in realtà fissato alla parte posteriore del movimento. Making of Atmos 568 by Marc Newson (Johann Sauty Jaeger-LeCoultre©)

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Il suo quadrante semplice è ottimizzato per la massima leggibilità. Anche se la luce penetra proprio attraverso il volto in vetro trasparente, la pendola risulta semplice da leggere grazie ai numeri arabi blu decalcati sempre rivolti verso l'esterno e sottolineati dal cerchio della minuteria. Per evitare di aggiungere ulteriori elementi, l'indice che segna il mese è stato ideato in modo tale da essere parte integrante del quadrante trasparente. I contrappesi sono progettati meticolosamente per essere quasi invisibili, pur bilanciando perfettamente le lancette, che riprendono il colore blu scelto da Marc Newson. Fatto unico per una pendola Atmos, il segnatempo mostra l'intero ciclo delle fasi lunari, con una luna bianca e un cielo blu rappresentati su un disco dalla finitura estremamente levigata, abbellito da striature concentriche. Nella parte posteriore del movimento, il meccanismo è visibilmente fissato a quattro punti, a differenza dei consueti tre presenti nelle pendole Atmos tradizionali, per creare simmetria. Il ponte della membrana, rielaborato a forma di croce e dalla finitura spazzolata, mostra lo straordinario spettacolo dei soffietti e reca il nome della pendola nella tonalità prescelta di blu, assieme alla firma discreta del designer nel caratteristico colore arancione.

Making of Atmos 568 by Marc Newson (Johann Sauty Jaeger-LeCoultre©)

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Osservando la pendola più da vicino, si nota un continuo gioco di luci sul movimento, creato dagli artigiani della Manifattura, nel quale alcuni componenti sono stati rielaborati da Marc Newson. Il movimento presenta una lavorazione con finitura opaca e satinata-spazzolata dal gusto contemporaneo, con alcune zone lucide illuminate sapientemente dalla luce che filtra attraverso il cristallo. Il bilanciere presenta un design completamente nuovo, con scanalature dalle superfici dentate opache e cavità lucide, che crea un motivo incredibilmente delicato e che riflette i raggi del sole


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mentre ruota avanti e indietro. Un capolavoro di maestria artigianale! Anche la membrana, altra parte mobile del movimento, è ornata dello stesso gioco di finiture a contrasto, con cavità lucide enfatizzate dalla parte esterna opaca. Luci a profusione Lo sguardo si sposta dal movimento per soffermarsi sulla sofisticata eleganza e sulla pura immaterialità della cassa che lo racchiude. Newson ha scelto il cristallo, materiale amato dal designer per le sue qualità estetiche e la finitura unica, per questa sfera simile a un cubo arrotondato. Solo una manifattura di cristalleria all'avanguardia come Baccarat poteva vantare la maestria tecnica necessaria a realizzare un lavoro simile. Inoltre sono state effettuate ricerche accurate al fine di ridurre lo spessore del cristallo al minimo, in alcuni punti fino a soli 13 mm. La cassa in cristallo permette alla luce di penetrare all'interno della pendola, creando anche un sottile gioco di riflessi che ammalia lo sguardo. Anche se non è un materiale facile da levigare e da uniformare, questo cristallo presenta una finitura straordinaria. I sottili contorni della sfera, assieme alla base più spessa, sono stati realizzati alla perfezione dagli artigiani di Baccarat per creare un effetto fluido e armonioso, come uno scrigno di luce. La base più spessa rende la pendola estremamente stabile e può sostenere la porta di vetro mobile che consente di accedere al movimento. All'interno della sua cassa di cristallo la pendola appare ingrandita, un po' come una nave dentro una bottiglia. Un viaggio alla scoperta dei misteri della pendola Atmos 568 by Marc Newson (Johann Sauty Jaeger-LeCoultre©)

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Affascinato dall'estrema trasparenza dell'Atmos, lo sguardo si sofferma curiosamente su un lato, attratto da una serie di complessi ingranaggi. Il mistero della pendola si mostra in tutta la sua bellezza. Inventata nel 1928, la pendola funziona senza alcun intervento umano, grazie a una miscela gassosa racchiusa in una capsula chiusa ermeticamente, che si dilata quando la tempe- ratura sale e si contrae quando scende. Solidale alla molla di azionamento della pendola, la capsula si deforma come il soffietto di una fisarmonica, ricaricando così il movimento interno. Basta una variazione di temperatura di un solo grado per garantire alla pendola un'autonomia di funzionamento di circa due giorni. Il treno degli ingranaggi è progettato in modo talmente perfetto da non richiedere l'uso di alcun lubrificante, che interferirebbe con il funzionamento ottimale della pendola. L'unione del talento di Marc Newson e degli artigiani di Jaeger-LeCoultre ha generato un design atemporale per una pendola che sembra sfidare il tempo. Con la sua limpida bellezza e la sua delicata semplicità, Atmos 568 by Marc Newson è un magico scrigno all'interno del quale il tempo scorre serenamente.

Marc Newson_Manufacture Jaeger-LeCoultre© (Johann Sauty)

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SPECIFICHE TECNICHE

Atmos 568 by Marc Newson

MOVIMENTO • meccanico, virtualmente perpetuo, Calibro 568 Jaeger-Le Coultre, realizzato e assemblato a mano • 211 componenti • bilanciere anulare, periodo di oscillazione di 60 secondi FUNZIONI • ore, minuti, mese • indicazione perpetua delle fasi lunari (1 giorno di scarto ogni 3.861 anni)

LA MANIFATTURA JAEGER-LECOULTRE Fin dalla fondazione, nel 1833, Jaeger-LeCoultre ha sempre affascinato gli appassionati di begli oggetti e di Alta Orologeria. I suoi artigiani, eredi dello spirito creativo del fondatore della Manifattura, Antoine LeCoultre, riuniscono il loro savoir-faire per creare collezioni sorprendenti e sofisticate: Reverso, Master, Rendez-Vous, Duomètre, Geophysic e Atmos. Il suo ricco patrimonio è un'ispirazione costante per la Grande Maison. Le collezioni Hybris Mechanica e Hybris Artistica testimoniano la passione creativa che anima gli uomini e le donne che lavorano presso la Manifattura.

QUADRANTE • vetro con numeri blu decalcati LANCETTE • lancette in due tonalità di blu (indicazione dell'ora) e acciaio inossidabile spazzolato (contrappeso) CASSA • monoblocco in vetro realizzato dal designer australiano Marc Newson

Il 2016, anno ricco di sorprese, offre l'occasione a Jaeger-LeCoultre di rivelare un lato inedito e di proporre una nuova visione dell'orologio Reverso, che festeggia i suoi 85 anni. Ognuno degli orologi Jaeger-LeCoultre ha una storia unica: nasce negli atelier della Vallée de Joux, in Svizzera, ma si anima realmente solo al polso di chi lo indossa e lo fa suo.

REFERENZA • Q5165107

www.jaeger-lecoultre.com Atmos 568 by Marc Newson

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Il Ceta è legge. Costi e benefici dell'accordo agroalimentare di MICHELE ZACCARDI p. 148/149 Sono quello che i giornali, con garbo, chiamano "EXPAT" di STEFANO CERGOL p. 150/153

Cover Moda ECONOMIA

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di MICHELE ZACCARDI

Il Ceta è legge. Costi e benefici dell'accordo sull'agroalimentare europeo

Il Canada riconoscerà i marchi d'origine di molti prodotti italiani, ma uno studio ne evidenzia i possibili effetti negativi

opo quasi cinque anni di negoziati e dopo aver superato l'ostacolo del parlamento regionale della Vallonnia, che nell'autunno 2016 ne aveva bloccato l'approvazione da parte del Belgio, il 15 febbraio è stato approvato dal Parlamento europeo il Ceta (acronimo per Comprehensive Economic and Trade Agreement), il più importante trattato commerciale stipulato dall'Unione europea. La controparte è il Canada, un grande mercato in espansione e importante partner di molti stati europei. L'accordo dovrà ora essere approvato dai parlamenti nazionali dei 27 paesi membri dell'Unione europea e superare il giudizio della Corte di Giustizia sulla sua compatibilità col diritto europeo. Proprio a causa delle lungaggini del percorso di convalida, nel testo è prevista una clausola di applicazione provvisoria (art 30.7) che renderà effettivo il 95% delle disposizioni dell'accordo già a partire dal mese di aprile. Il Ceta, la cui approvazione è stata accompagnata da scontri e manifestazioni di protesta, è un trattato per la liberalizzazione di una serie di settori tra il Canada e gli stati dell'Unione europea e prevede norme a tutela della proprietà intellettuale, l'apertura dei mercati pubblici canadesi alle imprese europee e una convergenza normativa per le certificazioni sanitarie e di qualità. La parte più sostanziosa del trattato riguarda però il settore agroalimentare. L'accordo, che persegue l'obiettivo di accrescere il commercio bilaterale e i flussi di investimenti tra le due controparti, ha al centro l'eliminazione delle tariffe doganali su una serie di prodotti, principalmente alimentari. Sono esclusi alcuni beni definiti sensibili, quali gli organismi geneticamente modificati. Il Canada eliminerà i dazi sul 90,9% dei prodotti agricoli, quota che salirà al 91,7% dopo sette anni. Ottawa consentirà l'ingresso di 18500 tonnellate di formaggio dai paesi europei, quota che permetterà di raddoppiare l'export europeo verso il Canada. Di contro l'Unione europea garantirà un accesso senza dazi per 45mila tonnellate di carne di manzo e 75mila di carni suine. Bruxelles eliminerà, a partire dall'entrata in vigore del Ceta, i dazi sul 92,2% di prodotti agricoli, raggiungendo il 93,8 % in sette anni. La Commissione europea calcola che verrà completamente

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liberalizzato il 95% dei 2,2 miliardi di export agroalimentare verso il Canada. Secondo i suoi sostenitori l'accordo permetterà di aumentare i volumi di scambio riducendo i costi delle esportazioni. Una serie di studi sull'impatto economico di un accordo tra UE e Canada prevedono un incremento strutturale del pil compreso tra lo 0,03 e lo 0,76% per il Canada, e tra lo 0,003 e lo 0,08% per l'Unione europea, su un arco temporale di dieci anni. Il Ceta contiene inoltre disposizioni a tutela delle denominazioni di origine, con il riconoscimento di 145 prodotti Igp e Dop europei, di cui 39 italiani (tra gli altri, Prosciutto di Parma, prosciutto di San Daniele, Gorgonzola e Asiago). Sono previste anche semplificazioni per l'export di vini e liquori, pasta, biscotti, dolciumi e preparazioni a base di frutta e verdura. L'accordo potrebbe aprire ampi orizzonti di crescita e di sviluppo di alcune eccellenze alimentari europee e italiane. Soprattutto italiane. Un Paese che fa della qualità del cibo un elemento di forza della propria economia. Secondo elaborazioni Nosima su dati Istat, le esportazioni di prodotti agroalimentari italiani in Canada ammontavano nel 2015 a 720 milioni di euro, a fronte di importazioni per 450 milioni. Inoltre l'Italia è in surplus con il Paese nord americano di 3,2 miliardi di euro e ne rappresenta il nono partner commerciale a livello globale. Un accordo di liberalizzazione del commercio tra questi due Paesi potrebbe perciò costituire un tassello fondamentale della politica economica italiana, soprattutto in una visione di lungo periodo. Allora cosa ha spinto numerosi politici italiani, non solo Salvini e Grillo e la sinistra no-global, ma anche alcuni esponenti del partito socialista europeo, a schierarsi contro il Ceta? Ci sono ragioni economiche, non solo di appartenenza politica o ideologica. A ben vedere, infatti, gli accordi di libero scambio presentano anche dei costi in termini di disoccupazione o quanto meno di modifica di alcuni comparti produttivi, che spesso non vengono evidenziati dagli studi promossi dai soggetti stipulanti.

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Stefano Cergol

Sono quello che i giornali, con garbo, chiamano

“expat ” (non un cervello in fuga, badate bene)...

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che detta così suona chirurgico, asettico come se dietro quella parola non ci fosse una persona ma che fino a qualche decennio fa, con più onestà, chiamavamo emigrante. Insomma, uno che ha fatto le valigie e se n'è andato dall'Italia in cerca di fortuna. E purtroppo non sono un animale raro. Il popolo di quelli che hanno deciso di lasciare l'Italia per ricominciare da un'altra parte è un mare che cresce giorno dopo giorno. Non lo dico io ma le Questure, gli uffici delle anagrafe, l'Istat. Noi expat siamo quelli a cui la politica guarda con interesse solo quando ci viene recapitata per posta la cartella elettorale o i santini del re di turno perché contiamo parecchio e riusciamo a muovere i sottili equilibri del Transatlantico. Ma stiamo ai fatti. Sono ormai tre anni che vivo, viviamo (io e la mia famiglia) lontano dall'Italia, a Curacao, nelle ex Antille Olandesi, un tempo paradiso fiscale e rifugio di molti capitali, oggi un'isola quieta, votata al turismo e con una ferita grossa così proprio in mezzo alla città, che qui chiamano Isla, l'ex raffineria della Shell ora gestita dal governo venezuelano. Un po' come Trieste e i miasmi della ferriera, che tutti dicono di voler chiudere ma nessuno ci prova veramente. Le analogie con la mia città però finiscono qui. A parte il mare. Anche se il mare di Curacao non è quello che contemplavo da bambino dal terrazzo di casa mia a Servola; fermo, immobile anche nelle giornate di boriana; come quando da piccolo nella vasca da bagno sbatti piedi e mani ma alla fine tutto si riduce a qualche pozzanghera sul pavimento. A Curacao, signori, c'è l'oceano e, lasciatemelo dire, ha un altro sapore. I colori innanzitutto, che vanno dal verde al turchese all'azzurro al blu profondo e denso come l'inchiostro. Un mare pescoso che i locali non amano pescare perché, parliamoci chiaro, il mestiere del pescatore è duro, fatto per mani grosse e callose e qui a Curacao la gente non ama troppo far fatica. Strana gente i curasoleñi, aspri come gli olandesi eppure capaci di ampi sorrisi e slanci di generosità

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che ti illuminano la giornata se cerchi di ragionare con la loro testa o se solo capiscono che non sei un “makamba”, come loro chiamano i bianchi olandesi figli di quei conquistatori che per qualche centinaia d'anni fecero di quest'isola il centro per lo smistamento degli schiavi provenienti dall'Africa. Ma "perché Curacao?" chiede solitamente la gente quando racconto loro la mia storia. In realtà io e Franca (la mia compagna da ormai diciotto anni nonché madre dei mie due figli, Tommaso e Caterina) era da un po' che accarezzavamo l'idea di andarcene dall'Italia, ben prima che la crisi dei mutui subprime sparigliasse le carte dell'economia globale mandando gambe all'aria tante imprese e gettando nella disperazione migliaia famiglie. All'inizio fu un gioco, di ritorno da una vacanza a Malindi, tanti anni fa. Guidavamo verso casa dall'aeroporto di Bergamo e provammo a immaginare dove avremmo voluto essere di lì a dieci anni. Al caldo, ovviamente, ma non il caldo umido e vigliacco del SudEst asiatico, troppo distante da noi col cuore latino. No, quello ti si attacca sulla pelle e non ti molla più. Noi volevamo il sole, le onde, l'odore di lime. Per anni quel gioco continuò a rallegrare le nostre fredde serate invernali, sferzati dal vento rabbioso di Trieste che sembra uscire da una turbina e ti costringe a camminare assumendo pose innaturali. E proprio quel vento (che chiamiamo Bora e alla maggior parte dei triestini piace al punto da scriverne sopra delle canzoni) è stato il primo mattone sul quale abbiamo costruito il nostro sogno di fuga. Intendiamoci, non è per colpa della Bora che ce ne siamo andati, i motivi sono molto più seri, profondi. Il lavoro che non gira più, la politica che non ascolta i bisogni della gente, l'insoddisfazione ma soprattutto la consapevolezza di svegliarsi al mattino e accorgersi che sotto la doccia non si canta più ma si bestemmia e si maledice l'oggi consapevoli che il domani sera ancor peggio. Così, un bel giorno di quattro anni fa, con una azienda da

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gestire ormai al collasso nonostante gli sforzi sovrumani per tenere la barra e una professionalità calpestata nel quotidiano da clienti che ti guardano negli occhi e ti dicono che o "cali le braghe" o quel lavoro che a te serve per pagare gli stipendi lo daranno a uno nuovo che fa dei prezzi migliori, abbiamo deciso di fare le cose seriamente. Sul tavolo una cartina geografica e un computer. Nella testa tanta confusione: Colombia? No, ci sono i narcos. Costarica? Anche, ma sarà poi così sicura come dicono? Panama? Honduras? Venezuela? Infine, improvvisamente, un libro (Il problema Spinoza di Irvin Yalom) e un nome stampato tra le fittissime righe del racconto: Curacao. Suonava caldo e protettivo come il grembo di una madre. Qualche ricerca in internet ci confortò sul fatto che quel paese lontano 9.000 chilometri da casa poteva essere una nuova madre per noi. Una buona sanità, sistema scolastico e welfare efficienti, sicurezza e ampio spazio per chi aveva voglia di rimboccarsi le maniche. Detto fatto, mia moglie consumò tutte le ferie e staccò un biglietto per le Antille, destinazione Willemstad, capitale nonché unica città di Curacao, piccola isola dei Caraibi meridionali che in tutto fa 70 chilometri da punta a punta e da cui nelle giornate terse si scorgono le coste del Venezuela. Quaranta giorni durante i quali ci aggiornavamo la sera via Skype (“Allora, come andata oggi? Si può fare?”) provati dalla lontananza ma consapevoli che il grande passo era lì, a portata di mano. Oggi, a riguardare indietro quei giorni, sembra una pazzia eppure, a distanza di nemmeno sei mesi da quel fatidico viaggio, le nostre cose erano già belle che impacchettate nel mezzo del salotto e i biglietti aerei di sola andata per Curacao nelle nostre tasche. Nel portafoglio una liquidazione (quella di mia moglie, perché io nel frattempo avevo dovuto chiudere malamente la mia agenzia di pubbli- cità) di certo non faraonica ma con la quale sognavamo di poter far grandi cose: un negozio, un'agenzia turistica

e soprattutto tante nuove esperienze con mestieri che non erano i nostri. Non voglio esagerare dicendo che è stata durissima ma ancora ricordo la sera prima di inaugurare il negozio, con il conto corrente letteralmente prosciugato e quella vocina là in fondo che malignamente erodeva il nostro entusiasmo e le nostre certezzee e mi diceva “…e se domani non entra nessuno?”. Per fortuna non è stata così. Il negozio è andato subito bene. L'agenzia turistica Sabbiebianche ci ha messo un po' a ingranare ma ora siamo piuttosto conosciuti e riceviamo richieste da tutta Italia e anche dall'estero, tant'è che siamo al lavoro su una nuova piattaforma multilingue che ci permetterà di espandere l'attività anche in NordAmerica e in NordEuropa. E siccome Franca ed io siamo e rimarremo per sempre dei cavalli scalpitanti, dopo la positiva esperienza del primo negozio, abbiamo pensato bene di aprirne un altro, dedicato alla moda e al design italiano che qui a Curacao sono tenute in altissima considerazione, come la cucina d'altronde. Un po' per differenziare il rischio, un po' perché le avventure ci piacciono e stare fermi ci annoia. Lo abbiamo chiamato Capri perché è un nome semplice, facile da pronunciare e perché buona parte degli abiti che vendiamo arrivano da quelle parti. Io per canto mio continuo anche a lavorare come grafico per clienti olandesi che riconoscono la mia professionalità e pagano puntualmente e il giusto. E i nostri figli? Felici come non li ho visti mai. Vivono in mutande (certo che no, è un modo di dire dato che qui a Curacao la temperatura non scende mai sotto i 28 gradi, estate e inverno) e hanno un sacco di amici, di tutti i colori, religione e lingue. Parlano l'inglese e studiano, malavoglia, il papiamento, la lingua locale. Per l'olandese direi invece che non c'è speranza. A loro abbiamo regalato una vita diversa, spero migliore, e un futuro che in Italia sarebbe stato sicuramente diverso. Non so se peggiore ma sicuramente non migliore.

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A tutti quelli che in questi mesi ci hanno scritto (e sono centinaia, vi assicuro) continuo a dire che qui stiamo davvero bene, che abbiamo ritrovato un sorriso che in Italia avevamo smarrito e che il mare cristallino e il sole aiutano a ricaricare le batterie. Ma dico anche che non cedano al luogo comune della fuga e della voglia di evasione. Che i Caraibi sono altro dalle copertine delle riviste di viaggio. Che non conto le volte che abbiamo sbattuto il muso trovandoci la sera a chiederci dove stavamo andando, facendoci forza a vicenda. Che casa tua è dove sei tu, i tuoi affetti, la tua famiglia. Che gli affetti non si barattano con un mojito e che la vita non è solo fatta di spiagge e tramonti infuocati. La vita, quella vera, si vive a piccoli passi, giorno dopo giorno, con fatica e determinazione, lavorando sodo, spesso sette giorni su sette (perchÊ il turista non ammette di trovare i negozi chiusi quando sbarca dalla sua gigantesca nave bianca) ma non rinunciando mai a sognare e circondandosi di persone che ti vogliono bene e ti apprezzano per quello che sei e per i valori che con loro condividi. E' la sola e unica lezione che mi sento di dare a tutti quelli che vorrebbero fare il grande passo come noi...

...Per cui, buona vita a tutti e cercate di viverla al meglio ogni giorno.

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Chapter nine

Michele Ciampi

Goriziana Caffè di GORIZIANA CAFFÉ

p. 157/159

Intervista "Maserati" di REDAZIONE VENEZIA

p. 160/163

Focus

Cover Moda

Intervista a Massimo Fasoli (Gioielleria Fasoli) di REDAZIONE VENEZIA

p. 164/168

Velvet Media - Intervista a Bassel Bakdounes di VELVET MEDIA

p. 170/175

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A BITA R E A P O RT O P I C C O L O.

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IL P IA C E R E DI U N A V I STA S E N ZA L I M I T I IN U N A DIME N S ION E I D E A L E E S O ST E N I B I L E .

P O RT O P I C CO L O L A TUA CAS A SUL MARE

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focus / Goriziana Caffè 157

L

a vostra filosofia aziendale trova le basi attraverso uno studio specifico nel settore del caffè oppure vi sono degli elementi “storici” sui quali vi appog-

giate?

Nata in un piccolo laboratorio di Gorizia nel 1967, Torrefazione Goriziana ha consolidato durante gli anni il suo nobile obiettivo: creare il prodotto italiano per eccellenza, il caffè Espresso. Grazie all'impegno profuso durante i 50 anni di attività, la torrefazione gestita da Mitja Rogelja, assieme al socio Antonio Crobe, è oramai diventata una delle più importanti del Nord Est.

Di sicuro l'esperienza maturata nell'attività di torrefazione, che quest'anno compie 50 anni, è fondamentale per il consolidamento del business. Ricerchiamo costantemente le più pregiate qualità di caffè per creare le nostre miscele selezionate e le singole origini premium in diversi formati, in grani e macinato, per i diversi settori in cui i prodotti Goriziana vengono commercializzati: Bar, Famiglia e Vending. Anche se continuiamo a sperimentare ed innovare sempre, avendo lanciato per esempio la nuova miscela Go Caffè Bio, 100% Arabica e 100% biologica. Ma la cosa più importante è che non perdiamo mai di vista il nostro principale obiettivo: la qualità del prodotto e del servizio offerto. Ricerca e innovazione sono delle parole chiave in ogni azienda che vuole stare sul mercato della globalizzazione; il vostro Gruppo come sta affrontando il marketing strategico? Il nostro focus è sempre rimasto sul prodotto. In questi anni abbiamo integrato la nostra gamma di prodotti anche con i più innovativi sistemi di monoporzionato, dopo aver puntato inzialmente sulle cialde e le capsule FAP system. Abbiamo creato infatti la linea di capsule compatibili Nespresso®, Go Espresso, e la Linea Gusto, invece, compatibili con le macchine ad uso domestico Nescafè® DolceGusto®.

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focus 158

Abbiamo voluto mantenere anche in questi formati un prodotto di alta qualità per continuare a soddisfare le esigenze e i gusti del cliente con diverse miscele. Inoltre abbiamo voluto aprire, assieme al trainer Ivo Filigi, la nostra scuola del caffè IBL, Italian Barista Lab. per accompagnare il cliente nel processo di qualità e trasmettergli la nostra esperienza per preparare l'Espresso italiano per eccellenza. Con Ivo stiamo sviluppando anche le nuove tendenze del caffè, ovvero caffè speciali estratti con nuovi metodi a filtro come Chemex, Aeropress e V60, molto interessanti da degustare e tutti da scorprire. Tra i vari centri operativi, Gorizia è la città dove siete presenti con la sede centrale. Ci volete spiegare le origini di questa attività e perché la scelta di restare in una piccola città nel Friuli Venezia Giulia. Pur essendo una piccola città, Gorizia si trova a pochi km da Trieste, uno dei più importanti porti del caffè nonché capitale italiana dell'Espresso. Inoltre geograficamente è uno snodo importante per i paesi dell'Europa Centro-Orientale, mercati fondamentali per la nostra attività che esporta ben il 75% della merce prodotta. Per questo motivo siamo stati tra i primi ad esportare il nostro caffè nei paesi della ex-Jugoslavia e a credere nello sviluppo di questi mercati, nei quali abbiamo messo basi solide per la diffusione dei nostri prodotti. Nel mondo, oggi Goriziana è presente in più di 28 paesi, tra i quali anche Sud Africa, Israele, per cui siamo certificati Kosher, e Mauritius, dove a Maggio, avremo modo di formare professionalmente i clienti del nostro distributore e prepararli anche per la finale della Mauritius Barista Championship.

Identificare nel marchio la Città e di conseguenza la sua ubicazione geografica è una scelta voluta oppure dettata da qualche situazione commerciale? Il brand Goriziana è stato volutamente identificato con il territorio circostante perché la nostra azienda ha sempre avuto una forte connotazione territoriale ed è sempre stata legata molto alla città di Gorizia. Abbiamo utilizzato questo criterio anche per Go Caffè, linea gourmet creata per i palati più esigenti, e S.Giusto Caffè, linea di miscele risalenti all'antica torrefazione goriziana rilevata nel 2000. Tutto ciò è stato ed è ancora oggi molto importante anche per la riconoscibilità della torrefazione all'Estero. Tra i vari mercati su cui operate, ci volete parlare di quello Russo? Ovvero ci sono opportunità per le aziende italiane di sviluppare nei paesi dell'est Europa? Il mercato russo è davvero importante per noi ed è uno dei più longevi visto che siamo presenti da ben 14 anni. Dopo un'approfondita analisi del mercato iniziale e un lavoro intenso, svolto grazie ad una giovane e brillante gestione ed a una visione di ampie vedute verso le nuove tendenze, la nostra partnership si è rafforzata di anno in anno anche con la nostra costante presenza alla fiera più importante del settore, il PIR Expo a Mosca. A proposito della connotazione geografica è interessante raccontare che l'azienda dei nostri distributori si chiami GORIZIA.CO LTD anche per far capire quanto sia forte la nostra collaborazione.

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Goriziana Caffè 159

Nonostante la grande concorrenza e competizione del mercato, ritengo che vi siano assolutamente molte opportunità per le aziende italiane di esportare il proprio prodotto all'Estero. Il Made in Italy è innegabilmente un valore aggiunto, soprattutto nel settore Food & Beverage. Secondo lei, in Italia ci sono dei margini di miglioramento per sviluppare all'interno del territorio oppure la situazione economica. dovuta alla tassazione, porterà sempre più eccellenze italiane ad investire all'estero? Negli ultimi 5 anni la nostra azienda è cresciuta del 40% e abbiamo deciso di continuare a investire nella struttura, dopo esserci focalizzati negli anni passati sul marketing, e non arrestare la nostra ascesa, nonostante la tassazione diretta e indiretta sia diventata davvero pesante. Sicuramente una pressione fiscale differente ci aiuterebbe ad aver meno difficoltà nella scelta degli investimenti e incentivare così meno aziende italiane a spostare il business fuori dal nostro paese. La sua famiglia che ruolo ha nell'azienda? Crede che i suoi figli seguiranno il suo percorso oppure lascerà a loro la scelta lavorativa? L'azienda viene gestita attualmente da me e dal mio socio, Antonio Crobe, dopo che i nostri padri la hanno fondata. C'è stato già un ricambio generazionale quindi non vedo perché non ce ne possa essere un altro in futuro anche se non costringerò mai mio figlio a fare il mio lavoro e la stessa cosa farà Antonio con il suo. Non nascondo però che ci farebbe molto piacere che i progetti e gli sforzi fatti in tutto questo tempo siano serviti per costruire un futuro radioso per loro e per almeno altri 50 anni di Goriziana Caffè.

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focus 160

vete presentato alcuni modelli in edizione limitata durante i saloni internazionali destinate al mercato estero: ci riferiamo al modello Ghibli “nerissimo” presentata a New York e la n.100.000 prodotta in AGAP. Prevedete di lanciare nel corso del 2017 un modello business per il mercato italiano?

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Noi abbiamo già sui nostri prodotti un pachetto business, definito così, dove diamo la possibilità di usufruire ai nostri clienti, del navigatore, dei sensori di parcheggio al fine di dare un comfort maggiore per uno che utilizza una Maserati a scopi lavorativi. Con le novità dei modelli Maserati 2017 abbiamo introdotto i sistemi ADAS solution, TTA drive, avvisatore angolo cieco, mantenimento della velocità e distanza, tutti quei sistemi di assistenza alla guida che oggi sono necessari per chi utilizza una vettura.

Fin dalle origini, Maserati incarna una sintesi perfetta di lusso e sportività. Con il restyling dell'ammiraglia Quattroporte, la Casa del Tridente lancia ora una nuova strategia di gamma, mirata a offrire una scelta più ampia e precisa ad una clientela estremamente esigente, con due versioni esclusive che enfatizzano le due componenti fondamentali del DNA del marchio: GranLusso e GranSport

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Maserati 161

Quali sono i mercati che hanno creduto più di tutti al nuovo corso Maserati? Noi sino al 2012 nel mondo vendevamo all'incirca 6,300 unità, l'anno scorso ne abbiamo vendute 42,500. I paesi dove una volta eravamo forti, USA, il mercato Europeo, una volta erano i mercati principali, e rimangono tali tuttora, con un incremento significativo di mercati nuovi, come per esempio quello Cinese, che rispetto ad un passato lontano non era un nostro buon mercato, ad oggi loro credono nel nostro prodotto e a sviluppare numeri importanti, ricordando che all'interno di questi mercati il più significativo rimane di gran lunga il mercato Italiano. Sta crescendo anche la richiesta di sistemi d'infotainment? Maserati sta ampliando la sua ricerca in questo ambiente dedicato alla connessione 2.0? Abbiamo lavorato allo sviluppo di un sistema d'infotainment presentato l'anno scorso, molto evoluto, con varie possibilità d'integrazione, dall' Apple carplay, all'Android auto, quindi la possibilità di connettere il proprio dispositivo e trasferire quelle che sono le informazioni dello smartphone direttamente in vettura, anche semplicemente la scelta di ascoltare Spotify, o anche leggere delle e-mail che si sono memorizzate lo si fa direttamente dal nostro sistema infotainment, questo per noi è integrazione. Ricerca e innovazione sono le parole chiave nel settore automobilistico. Elettriche e ibride, il futuro prossimo: state lavorando in questa direzione? Ci stiamo lavorando, arrivando con un prodotto ibrido e anche con un elettrico, non abbiamo oggi delle tempistiche certe, l'innovazione crea un'attenzione crescente verso il combustibile alternativo, certamente stiamo portando avanti il nostro progetto dedicato alla categoria.

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Ci può dettagliare, in breve, alcuni numeri registrati nelle vendite del modello Maserati Quattroporte? A vostro parere l'ingresso del SUV ha determinato un calo d'interesse nel cliente finale? Assolutamente no, con l'arrivo del SUV abbiamo incrementato anche proporzionalmente i volumi nei reparti della berlina, perché i visitatori e gli utilizzatori che erano venuti a conoscere il nuovo SV Maserati hanno potuto ammirare gli altri prodotti esistenti, approcciandosi così ad una Berlina, alla Ghibli, o la Quattroporte. In questo senso il SUV ha portato della popolazione nuova che fino ad ora non aveva considerato all'interno del suo paniere. Come definireste lo stile di guida dei clienti Maserati? Noi abbiamo delle vetture che amo definire polifunzionali, sono delle vetture che si possono utilizzare con il massimo del comfort in autostrada, piuttosto che come cosi chiamata gita in campagna, in maniera molto semplice, comoda, che utilizza anche l'opzione dei consumi al fine di ottimizzare il carburante quando non è indispensabile avere il massimo della potenza sprigionato dai nostri motori, allo stesso tempo se ci si vuole divertire si può azionare il pulsante sport, che sono disponibili su tutti i nostri modelli, per andare incontro alla molteplice necessità di esigenze che ci sono oggi in un utilizzatore finale. Siete presenti in numerosi eventi mediatici, molti opinion leader, nel mondo dello spettacolo e non solo, sono protagonisti delle vostre rassegne stampa. Quanto è importante associare la “persona giusta” all'identità dell'autovettura? Oggi queste figure sono importanti nel trasmettere alcuni messaggi, a chi relativamente utilizza le nostre autovetture, per noi rimane fondamentale in primis il concetto dell'autovettura, l'opinion leader rimane un contorno coretto, ma il centro, il focus rimane sempre la vettura, anche perché parliamo di un'azienda che quest'anno compie 103 anni di storia, giustamente avendo una sua cultura una sua icona si abbina a qualche personaggio importante, ma fermo restando che il nome Maserati nel mondo è vastamente conosciuto. Siete contrariati alla “customizzazione” dell' Ammiraglia Maserati Quattroporte? Si vedono molte personalizzazioni, tra queste circolano molte foto della Maserati rivestita in velluto. In realtà la customizzazione è uno dei temi che abbiamo sviluppato noi, dando la possibilità al cliente di personalizzarsi la vettura a tutto tondo, abbiamo fatto una patnership con

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Ermenegildo Zegna, quindi avere una selleria interna fatta da pelle e seta, chiaramente pregiata, fatta apposta per non avere una facile usura chiaramente caratterizza un po' la vettura, questo ci permette di comunicare quanto noi ci teniamo ad avere una nostra esclusività, e l'esclusività del cliente che compra il nostro prodotto. A vostro avviso la tassa obbligatoria definita “superbollo” su autovetture di lusso ha compromesso le vendite in Italia di autovetture come Maserati? Assolutamente si, ma questo non solo per Maserati ma per tutti i grandi costruttori che hanno vetture superiori a 250 cavalli, molti clienti sono stati trattenuti, diciamo così, oltre a pagare un bollo normale pagare addirittura un super bollo. Noi per venire incontro ai nostri clienti abbiamo fatto delle motorizzazioni diesel che sono da 250 cavalli. Anticipazioni nel breve periodo, eventi, partnership? Siamo stati presenti al Salone del mobile ad aprile, a maggio siamo stati presenti a Compare Car Driver un evento molto importante per noi all' autodromo di Monza, saremo presenti alle Biennale innovazione a giugno a Venezia. Siamo presenti molto spesso in maniera abbastanza costante in quelli che possono essere eventi che uniscono quella che è l'esigenza personale ed aziendale, un mondo che unisce quella che è la passione per una vettura a quelle che sono l'esigenza del cliente.

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di REDAZIONE GENIUS VENEZIA Foto report di DANIELE NALESSO

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Gioiello tra i Gioielli: Fasoli sbarca a Venezia. Ma le eccellenze non fanno paura.

ENIUS ha incontrato a Venezia Massimo Fasoli, Amministratore della storica Gioielleria Fasoli, nel giorno dell'apertura del nuovo punto vendita in Laguna. L'evento rappresenta una tappa importante nel percorso di crescita del marchio familiare che, come ricorda Massimo, conta ben 164 anni storia. Per festeggiare il traguardo è stato scelto un luogo speciale, simbolo del lusso e della manifattura artigianale: Piazza San Marco. La nuova boutique, che per la cura dei dettagli e la preziosità dei gioielli ricorda una galleria d'arte, si trova, infatti, a pochi passi dall'ingresso di Museo Correr o “in bocca di Piazza”, come si usa dire tra i veneziani. La scelta di approdare anche a Venezia, però, non risponde solo al desiderio di inserirsi nel mercato della città, ma anche alla volontà di completare un bacino geografico di influenza che Massimo Fasoli e la sua famiglia stanno configurando da molti anni: nel 1999 è stato inaugurato il punto vendita di Verona, mentre nel 2014 Fasoli ha fatto il suo ingresso a Innsbruck, in Austria. Quest'ultimo tassello è dunque l'elemento che espande e porta a compimento il versante orientale del progetto. L'arrivo a Venezia del marchio bresciano, nato nel 1853 per volontà di Ernesto Fasoli e giunto oggi alla quinta generazione, coincide anche con un importante ritorno. Al fianco delle creazioni artigianali del brand è presente, infatti, anche una preziosa selezione di orologi Patek Philippe. Massimo Fasoli spiega così questa combinazione: “siamo loro partner da anni, concessionari già a Brescia da oltre sessant'anni e a Verona da circa sei. Quando si è prospettata la possibilità di riaprire un punto vendita Patek Philippe a Venezia, dopo un'assenza durata due anni, ci siamo offerti di collaborare.

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Abbiamo individuato insieme questo spazio e rinnovato la nostra partnership per la terza volta”. Le due realtà condividono molti aspetti, non da ultimo una conduzione familiare delle attività: se la storia di Fasoli è di “soli” 164 anni, quella di Patek Philippe, alla terza generazione della famiglia Stern, affonda le sue radici nel lontano 1839. La posizione scelta per l'apertura della nuova boutique la mette a diretto contatto con la concorrenza: un mercato di eccellenze che gravita nella zona di Piazza San Marco, il “salotto buono” d'Italia. Questo però non spaventa Massimo Fasoli che, al contrario, afferma come “avere più realtà che lavorano lungo lo stesso filone, quello del lusso, non può che rafforzare la reciproca influenza, creando un'offerta più completa per i clienti”. Il suo augurio rispetto a Venezia e ai veneziani è di poterli incontrare presto e di raccontare loro la storia di una famiglia, di una passione per l'artigianato e per la cura dei dettagli, elementi che trovano espressione tangibile in ogni pietra della città.

Intervista a : Massimo Fasoli di ELEONORA TOSO

Buonasera, GENIUS oggi è a Venezia e incontra per voi Massimo Fasoli, Amministratore della storica Gioielleria Fasoli che apre oggi proprio vicino a San Marco. Ora ci racconterà qualcosa di questa meravigliosa azienda familiare. Buonasera e grazie per essere venuti a trovarmi. Oggi effettivamente è un grande giorno per la nostra famiglia perché apriamo questa nuova boutique nel centro del mondo del lusso veneziano, appena dietro Piazza San Marco. Quindi una posizione geografica strategica. C'è una qualche ragione per cui avete scelto Venezia? Strategicamente è da qualche anno che sto lavorando a completare un bacino geografico di influenza. Abbiamo cominciato ancora nel 1999 con l'apertura di Verona, continuato nel 2014 con il nostro negozio in Austria a Innsbruck e oggi completiamo il lato Est di questa geografia con l'apertura su Venezia.

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Quindi in questa bellissima sala espositiva, perché effettivamente sembra quasi una mostra, abbiamo oltre al vostro marchio un'importante eccellenza che si combina bene a voi, anche per delle scelte che si sono susseguite in anni: la Patek Philippe. Questo tipo di incontro, questa partnership, quando nasce, perché si è creata e perché continua a esistere? La mia famiglia è un partner storico della manifattura Patek Philippe. Siamo concessionari nel negozio di Brescia da circa 60 anni, a Verona da 5/6 anni e quando si è prospettata la possibilità di riaprire un punto vendita Patek Philippe a Venezia, che mancava da circa due anni, ci siamo offerti di collaborare con Patek: abbiamo individuato uno spazio che a loro è subito piaciuto, e quindi si è rinnovata la partnership per la terza volta. E c'è qualche elemento che unisce un po' la vostra realtà con quella di Patek Philippe? Ambedue sono realtà familiari con una grande storia: la nostra “solo” di 164 anni, mentre quella di Patek Philippe lunga 178 anni, hanno cominciato nel 1839. E tutte e due le aziende sono portate avanti di generazione in generazione.

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Quindi la vostra è la quinta, corretto? Esatto, mentre quella di Patek Philippe è la terza perché la famiglia Stern ha preso possesso della Patek Philippe all'inizio del secolo scorso e ancora oggi viene tramandata dai successori della famiglia. Oggi siete praticamente in uno dei gioiellini d'Italia. Non avete paura di un mercato saturo di eccellenze? No, anzi. Io trovo che la presenza di più realtà che lavorano lungo lo stesso filone, cioè il mondo del lusso, può solo rafforzare, la presenza dell'una rispetto all'altra, creando un'offerta più completa nel nostro mondo. E per finire un'ultima domanda. Cosa si aspetta da Venezia, dai veneziani e qual è l'augurio che si sente di fare? Voglio invitare tutti i veneziani a venirci a trovare, vi do l'indirizzo preciso. A due passi da Piazza san Marco, in bocca di piazza, vicino a museo correr.

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Intervista a Bassel Bakdounes


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PEOPLE FIRST

Velvet Media racconta il “Genio che crea l’impresa”

Intervista a Bassel Bakdounes “Mi sono innamorato di Genius fin dal primo istante. Di primo acchito furono il tratto grafico, la carta pregiata, le foto, i font, l’utilizzo degli spazi tra avanguardia e retrò. In seconda battuta la redazione, i temi, i contributi, gli articoli fuori dagli schemi. Un modo nuovo di interpretare il mondo del business, partendo dalle persone che lo hanno creato. Emozioni, parole, vita. Un connubio di esperienze che crea uno stile inconfondibile, dettagli unici, che mi han fatto provare da subito la sensazione che quello che tenevo tra le mani non fosse un mero magazine ma qualcosa che andava oltre il classico concetto di rivista. E’ per questo motivo che abbiamo creduto nel progetto Genius a tal punto da volerlo fare nostro, per dargli la visibilità ed il peso mediatico che merita di avere, mantenendo intatte sua natura, il suo stile, la sua redazione, il suo spirito. Genius è un veicolo importante, un mezzo di comunicazione che trascende la mera carta, che grazie Genius People Magazine / Issue 8


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La cultura danza assieme al mainstream, in un ballo di opposti e contrari, di mondi apparentemente così diversi, che solo il vero Genio avrebbe potuto unire sotto un’egida comune: l’eccellenza.

ad una distribuzione incredibilmente selezionata ed unica nel suo genere, e supportato da una peculiare attività web, diventa un unicum mediatico. Un canale diverso, raffinato, per certi versi futuristico. Come se la dicotomia tra carta stampata e new media trovasse il suo punto di contatto in un progetto, Genius, che riesce ad essere innovativo e, allo stesso momento, senza tempo. La cultura danza assieme al mainstream, in un ballo di opposti e contrari, di mondi apparentemente così diversi, che solo il vero Genio avrebbe potuto unire sotto un’egida comune: l’eccellenza. Essere in Genius è un privilegio. E Noi faremo il massimo per dare ai nostri lettori, inserzionisti e partner, il massimo dell’esperienza emozionale possibile. Com’è nato l’incontro tra Genius e Velvet? Ne avevo sentito parlare. Mi aveva incuriosito la sua versione online. Poi vidi il cartaceo e, come ho detto, fu amore a prima vista. Chiesi informazioni. Avremmo voluto collaborare. Poco dopo ci siamo trovati a rilanciare il magazine e crearne un progetto internazionale. Vi hanno definiti la “Google italiana”, effettivamente entrando nei vostri uffici si capisce subito che si sta entrando nel cuore pulsante ed operativo di un progetto che “va oltre”, ci sbagliamo? Ai giornali piacciono i titoloni. Ma devo ammettere che quella definizione per certi versi è azzeccata. Velvet vuole andare oltre il classico concetto di marketing. E quando sviluppiamo un progetto, come Genius ad esempio, l’ambizione ci Genius People Magazine / Issue 8


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I n Ve l v e t a b b i a m o u n m o t t o che racchiude il nostro modo di vedere il business: “People First�. Prima vengono le persone.

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“Il genio” è una chiave per comprendere la realtà e il progetto Genius nasce proprio per dare spazio alla creatività e all’approfondimento. porta sempre a guardare lontano e a disegnare scenari che, inizialmente, possono sembrare difficilmente realizzabili. Ritengo che Passione e Professionalità siano due “P” che mancano alle blasonate 4 del marketing mix. Quando ci sono è facile “andare oltre”. Oltre la carta stampata, oltre le barriere imposte dalla geolocalizzazione, oltre… Che risvolti in termini di visibilità e diffusione porta il connubio tra un approccio editoriale classico e un modo di comunicare 4.0? Anzitutto risvolti sul piano della visibilità. L’aumento di diffusione in primis ma unito ad un aspetto fondamentale, la targetizzazione. La gestione del target è un asset fondamentale del progetto Genius. Lo era su carta, e lo sarà con il nuovo corso ancora di più. Il web ci offre la possibilità di sublimare questo concetto ed esasperarlo per rendere Genius fruibile al target che ci siamo

posti come obiettivo principale. Hai definito Genius “un nuovo modo di interpretare il mondo del business”, focalizzato sulla persona. Cosa intendi? In Velvet abbiamo un motto che racchiude il nostro modo di vedere il business: “People First”. Prima vengono le persone. E il motivo è semplice. Sono le persone che inventano, creano, sviluppano incredibili storie di eccellenza. Il business, quello vero, né una semplice conseguenza. Per

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questo poniamo al centro dei nostri interventi la componente personale. Il payoff di Genius non a caso è “People Magazine”. Sono le persone il centro nevralgico della nostra attenzione. Sono le persone che muovono il mondo. Sono gli esempi, quelli che vogliamo raccontare. Ecco perché Genius è un modo nuovo di porsi di fronte al mondo del business… un modo forse un po’ atipico, meno legato ai meri numeri, e più legato al nome e cognome. “Il genio” è una chiave per comprendere la realtà e il progetto Genius nasce proprio per dare spazio alla creatività e all’approfondimento.

Illimitato. Di tutti. L’informazione e la conoscenza sono armi che ci rendono liberi, consapevoli. Non pensiamo di essere portatori di verità o certezze, ci piace piuttosto insinuare il dubbio. Lo faremo surfando tra i temi più disparati, l’arte, lo sport, l’economia, la politica. Un solo filo conduttore: le persone. Con solo faro appunto: la cultura

Possiamo dire che la cultura sia in un certo senso il “faro” che illumina il percorso editoriale del magazine? Sicuramente. Oggi si fa un gran parlare di cultura, ma il rischio è che dietro a tanto discorrerne in realtà tutto si riduca nell’eroismo di qualche mensola. Sono convinto al contrario che la cultura sia qualcosa che va ben oltre lo sfoggio di una grande libreria, ma sia uno tra i beni più preziosi dell’umanità. Infinito.

L’ambizione ci porta sempre a guardare lontano e a disegnare scenari che, inizialmente, possono sembrare difficilmente realizzabili.

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Non pensiamo di essere portatori di verità o certezze, ci piace piuttosto insinuare il dubbio. Lo faremo surfando tra i temi più disparati, l’arte, lo sport, l’economia, la politica. Un solo filo conduttore: le persone. Con solo faro appunto: la cultura

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