IN THE NAVY L’Icona del Marinaio nell’immaginario Camp
Gianluca Meis
Il saggio di Susan Sontag “Note on Camp” ha svolto per anni un ruolo fondamentale per quanti hanno cercato di raccontare e descrivere il camp. È stato un punto di partenza, un primo e originale tentativo di descrive qualcosa di cui si percepiva l’esistenza ma di cui ancora sfuggivano implicazioni e possibili evoluzioni. Il camp, di pari passo con la rivoluzione sessuale della seconda metà degli anni sessanta, è diventato uno strumento interpretativo della realtà, il cui consumo ha indicato per molto tempo una chiara riconoscibilità, un’identità di gruppo, fondante di molta sotto cultura, sia questa riconducibile a precise aree geografiche, di genere e con un proprio specifico “pubblico”. Camp è una manipolazione operata con i mezzi dell’ironia e, a volte della satira, che finisce col creare un gusto condiviso.
Secondo la scrittrice e critica canadese Linda Hutcheon, la parodia non è altro che una rielaborazione intertestuale e critica di diverse convinzioni. La parodia dipende dunque da un testo esistente, rispettando con ciò il citazionismo tipico delle correnti post moderne: le parodie si oppongono al discorso culturale dominante, ribaltando un testo pre esistente, formulandone una nuova visione. Prendiamo ad esempio il fenomeno delle Drag Queen: molte di loro, semplicemente esagerando aspetti tipici del divismo di alcune cantanti o attrici, ne propongono una imitazione (spesso in playback) parodistica, ridicola, volutamente volgare, scatenando in questo modo l’ilarità, ma è difficile che una Drag imiti qualcuno che in fondo non ami davvero o non ascolti abitualmente anche al di fuori dello spazio di una esibizione. Sempre utilizzando il lavoro della Hutcheon, ci si può spingere a definire la parodia, non solo come forma, ma anche come processo, come metodo progressivo, fino ad interpretarla in un’ottica di relazioni e rapporti di potere; la parodia non risiede solo nel testo ma è la sua fruizione che ne determina l’efficacia. La parodia finisce dunque con l’offrire un’“alternativa”, una visione in possesso di un determinato gruppo di fruitori, i quali, in opposizione alla gerarchia dominante, individuano un valore e creano una originalità. Il camp può benissimo collocarsi in questo discorso di relazione fra poteri: con l’elemento parodistico ed ironico che lo contraddistingue, esso è il mezzo, il processo con cui un gruppo di produttori e di fruitori riescono ad entrare nelle rappresentazioni culturali riconosciute e ufficiali, proprio perché ne costituiscono un rafforzamento, avendo come principale oggetto di rappresentazione gli stessi contenuti. Anche se scevro di ironia, se non per alcuni elementi della scenografia, esageratamente e spudoratamente fallici, per esemplificare ulteriormente quanto sopra affermato può tornarci utile il film Querelle de Brest, ultimo lavoro del regista tedesco Fassbinder, tratto dal romanzo di Jean Genet.
Brad Davis - Querelle de Brest (1982)
Due personalità importanti e spesso “ingombranti” della cultura del novecento si incontrano e si confrontano, per lasciarci un’opera cinematografica unica, spesso barocca, accusata di manierismo e pornografia, ma in grado di creare e cristallizzare nel tempo un’autentica icona dell’immaginario gay. Per una comprensione maggiore occorre partire con alcune note biografiche sia di Genet che di Fassbinder. Jean Genet, scrittore, drammaturgo e poeta francese, nasce a Parigi nel 1910; viene subito lasciato alle cure della pubblica assistenza. Affidato ad una nuova famiglia cresce riservato e taciturno; frequenta le scuole pubbliche, ricevendo un’educazione religiosa. A dieci anni compie un furto, evento fondante della mitologia di Genet il quale, punito per il gesto commesso, lo trasforma in modo del tutto esistenzialista in un gesto quasi mistico, simulacro del suo “vizio” e della sua profonda anti socialità. Vivendo di espedienti e vagabondo per l’Europa, conosce il carcere, la vita di strada, i bassifondi dei porti e delle stazioni, finendo col riempire i propri lavori di episodi difficilmente distinguibili da fatti autobiografici e che hanno per protagonisti, appunto, ladri, ragazzi di vita, assassini ambigui e corrotti. Ammirato da Jean Cocteau e Sartre, frequenta, pur vivendo costantemente senza un domicilio, personaggi come Simone de Beauvoir, Alberto Giacometti ed Henri Matisse.
Querelle de Brest (1982)
Impegnato in molte lotte politiche, con posizioni estremiste legate ad ambienti di sinistra, si appassiona alle vicende dell’OLP di Arafat, alle Pantere Nere statunitensi, schierandosi sempre, secondo lui, dalla parte degli oppressi, dei deboli e dei poveri esclusi dalle ricchezze del mondo. Dopo la morte del compagno Abdallah, la dipendenza dai barbiturici accentua ulteriormente la sua vita vagabonda. Muore di cancro, nell’ennesima stanza d’albergo, il 15 aprile del 1986. Rispettando il suo volere fu sepolto in Marocco.
Rainer Werner Fassbinder, regista tedesco, nasce a Bad Wörishofen nel 1945. Figlio di un medico e di una traduttrice che divorziano quando lui era ancora piccolo, Fassbinder visse con la madre, la quale si servì del cinema come di un asilo in cui lasciarlo per poter lavorare indisturbata. Cresciuto nel mito di registi come Douglas Sirk e di attrici come la Bacall, quando diventa a sua volta regista, si fa coinvolgere in ogni fase del lavoro di creazione di un film: dalla sceneggiatura alla scenografia, dalla direzione degli attori fino ai costumi, trasferendo quello che era il metodo di gestione teatrale nella creazione di un’opera cinematografica. Commediografo, scrittore, attore, produttore e intellettuale prolifico, molti lo definirono il Pasolini tedesco: obeso, sofferente, tossicodipendente in continua lotta con le mille facce di se stesso. Pur considerando l’omosessualità una malattia inaccettabile, retaggio duro da estirpare in una società borghese come quella tedesca post bellica, arriva, comunque, a dichiararsi molto presto, sviluppando contemporaneamente una poetica personale in cui la sodomia viene vissuta come violenza e affetto, la morte come un rifugio silenzioso e il suicidio come un gesto estremo di amore verso se stessi. Capace di creare scandali, controversie e censure (come nel caso di La paura mangia l’anima, in cui racconta di una anziana donna delle pulizie, vedova, che si risposa con un immigrato marocchino), non scende a patti con la cultura dominante, fondando per la propria libertà di espressione una casa di produzione per le sue opere, la “Tango-film”. Fassbinder era attratto dall’universo femminile che descrisse in molte pellicole memorabili, come Attenzione alla puttana santa, Le lacrime amare di Petra Von Kant, Il matrimonio di Maria Braun, Lola e Veronica Voss, personale omaggio a Viale del Tramonto (altro caposaldo camp) di Billy Wilder.
Muore nel 1982 in seguito ad una overdose di cocaina, associata ad un uso eccessivo di sonniferi. In questi pur brevi cenni biografici, si possono ben vedere alcuni punti in comune alle due storie, che troveranno una sintesi perfetta nella trasposizione cinematografica di Querelle.
Querelle de Brest - Trama: la nave “Le Vengeur”, comandata dal tenente di vascello Seblon (Franco Nero), attracca a Brest, città portuale francese situata nel dipartimento del Finistère nella regione della Bretagna, sulla costa occidentale. Seblon è affascinato dal marinaio Querelle (Brad Davis), il quale però non sembra accorgersi di lui, attratto a sua volta da uomini violenti e dall’omicidio. A Brest Querelle contrabbanda della droga. Per passare la
dogana si fa aiutare da Vic, un amico marinaio che poi sgozza. Ne “La Feria”, il più celebre ed elegante bordello della città, Querelle incontra il fratello Robert (Hanno Pöschl), a cui è legato da un profondo e misterioso rapporto di amore/odio. Robert è l’amante di Lysianne (Jeanne Moreau), la moglie di Nono (Günther Kaufmann), il tenutario del bordello. Nono offre a Querelle una partita di oppio e questi, dopo aver finto di perdere ad una partita a dadi, si fa sodomizzare da lui e in seguito da Mario (Burkhard Driest), un ambiguo poliziotto con il quale entra in affari di ricettazione. In un bistrot Querelle rimane colpito dagli sguardi complici tra Roger (Laurent Malet) e Gil (ancora Hanno Pöschl), un giovane muratore che somiglia molto a Robert. Gil uccide un collega, Theo, che lo tormentava accusandolo di omosessualità. La polizia incolpa di tutti e due gli omicidi (anche di quello di cui è in realtà colpevole Querelle) Gil, il quale si nasconde, con l’aiuto di Roger, in un ex bagno penale. Querelle lo trova, fa l’amore con lui e prima lo esorta a rapinare Seblon in un bagno pubblico, poi lo aiuta a fuggire, consegnandolo infine alla polizia rivelando la sua partenza in treno per Bordeaux. Nel finale Querelle si ubriaca per il dolore, si concede finalmente a Seblon mentre Lysiane legge nei tarocchi che in realtà non è il fratello di Roger. “Le Vangeur” riparte. Fassbinder rilegge l’opera di Genet in una chiave religiosa, mistica: un cammino rituale di espiazione verso la purificazione, magistralmente raffigurato con una via crucis dagli accesi toni onirici di tanti santini cari alla devozione popolare. In tutto il film compaiono simboli religiosi, a contendersi il primato con altri simboli assai più blasfemi e carnali (la torre fallica ad esempio). La scelta cromatica delle luci predilige il rosso e l’arancione, a dar profondità ad ambienti volutamente teatrali e artefatti, in cui si muovono attori ieratici, dalla recitazione sincopata e spesso sopra le righe. Querelle resta un personaggio tipicamente genetiano, una sorta di angelo perverso, votato all’autodistruzione: ladro, bugiardo, contrabbandiere, attaccabrighe, ma soprattutto di una bellezza bruciante in grado di schiavizzare il desiderio altrui, a cominciare dal tenente Sablon, il quale sfoga le sue pulsioni inespresse sfogliando libri con nudi artistici, confidandosi con un registratore e cercando sesso in bagni pubblici. Nel film ritroviamo quel senso dell’artificio, della superficie e della simmetria che la Sontag attribuisce al camp; ma anche un gusto estetico sontuoso, filtrato da luci morbide e calde. C’è persino, a mio parere, anche “la vittoria dello stile sul contenuto, dell’estetica sulla morale, dell’ironia sulla tragedia”; il
testo di Genet è richiamato spesso alla lettera, con enfasi, con un effetto quasi estraniante nei confronti del contesto. Querelle, come ben evidenziato dal critico cinematografico Vincenzo Patanè, ci appare schiavo di quell’eccitazione e di quell’aura particolare che dà l’omicidio (vuole conoscere Gil perché affascinato da un altro colpevole), è “un allegro suicida morale”. Fassbinder riesce a rendere al meglio, in questo mondo artefatto e mitizzato, quel rapporto intricato e indissolubile che nel libro di Genet esiste tra il lirismo e la pornografia. Altri elementi camp nel film li ritroviamo nella scelta di vestire i frequentatori del bordello di Nono, come personaggi tipici dell’immaginario feticista omosessuale: leather, muratori, operai (non dissimili, per capirci, dai Village People), ma anche travestiti improponibili, cardinali e suore, che accompagnano una superlativa Jeanne Moreau ad intonare una canzone, il cui testo è “La ballata dal carcere di Reading” di Oscar Wilde. La divisa di Querelle, i suoi berretti, la sua canottiera bianca, le sue maglie a righe azzurre, hanno fondato, come già precedentemente affermato, il mito del marinaio come oggetto sessuale nell’immaginario camp.
Un immaginario che di quello specifico oggetto, si è nutrito spesso, fagocitando qualcosa del mondo reale per restituirci una parodia dai contorni sempre più definiti, codificati, quasi macchiettistici. Potremmo persino dire “di maniera”, ma sempre filtrati in un ottica di relazione con la cultura dominante, con il potere, al fine di creare elementi propri in cui riconoscersi e veicolare quella condivisione e identità a loro volta in grado di scatenare il sorriso e la sorpresa: sappiamo tutti come ci faccia più ridere ciò che parla di qualcosa che conosciamo bene.
Dove si può trovare il piacere, cercare il mondo dei tesori e imparare la scienza e la tecnologia? Dove è possibile rendere reali i vostri sogni? In the navy, cantavano i Village People.
I Village People, gruppo musicale statunitense simbolo della disco music anni 70 e 80, si forma per iniziativa dei francesi Jacques Morali e Henry Belolo i quali, dopo aver venduto 10 milioni di dischi con i Richie Family, decidono di provare qualcosa di nuovo. L’idea originale sulla quale si sviluppò il progetto prevedeva di fondare un gruppo che si ispirasse ai miti maschili dell’America di allora: il cow boy, l’indiano, il motociclista in pelle, il soldato (anche nella variante marinara) e il poliziotto. Il nome si riferisce al Greenwich Village di New York, luogo frequentato da omosessuali, ed in effetti fin dal loro irrompere nella scena musicale, i Village People si impongono come autentiche icone gay, ruolo che non hanno mai rifiutato e con il quale hanno saputo giocare con ironia e divertimento, definendosi da soli una sorta di “simbolo stesso del carnevale a cui tutti aspirano”. Nei loro testi fanno spesso riferimento ad allusivi doppi sensi di natura sessuale, la cui comprensione, inizialmente anche in questo caso quasi da “iniziati”, è ormai di pubblico dominio. Si pensi solo all’inno dance YMCA, creduto da molti una sorta di celebrazione del Young Men’s Chistian Association (con tanto di balletto stile riunione festosa di boy scouts) ma che in realtà sottende ammiccamenti al sesso gay, assai diffuso in associazioni come quella. La canzone parla di un giovane (young man) che viene invitato alla YMCA all’interno del quale può “fare tutto quello che si sente” e può “andare in giro con tutti i ragazzi”. Nell’immaginario camp resterà indelebile una loro recente esibizione con Cher, in occasione della quale quale Jeff Olson (il cow boy del gruppo) ebbe a dichiarare: La conosciamo fin dagli anni 80. È un grande personaggio ed è mitica sul palco. Ci ha voluti perché abbiamo un pubblico simile e insieme scateniamo alchimie tutte speciali.
Steven Zeeland, ricercatore associato presso il Ceres, Centro per la Ricerca e l’educazione sessuale della San Francisco State University, ha pubblicato diversi libri che trattano il tema dell’attrazione che esercitano i soldati verso molti omosessuali. Uno di questi libri, Sailors and Sexual Identity, analizza nello specifico l’erotismo fra marinai. Zeeland precisa che non si tratta di qualcosa che ha a che fare con il fascino per le divise in sé, ma di un’irresistibile attrazione per la mascolinità, non fatta solo di muscoli e fisici più o meno possenti, ma anche di valori morali come l’eroismo, la capacità di sottostare ai rigori dell’addestramento e la solidarietà estrema fra compagni d’arma. Per molti “cacciatori di soldati e marinai” vi è un’attrazione per il senso di fratellanza e solidarietà che esiste fra militari; un cameratismo, anche estremo, che porta a condividere persino la sessualità, spingendosi ad accettare un ruolo passivo nel rapporto (come emerso nelle diverse indagini fatte dallo stesso Zeeland), ritenendo la sopportazione del dolore una prova di mascolinità. In un’intervista rilasciata ad Andrea Visconti per il mensile Babilonia, Zeeland afferma: Da molti decenni il marinaio è un simbolo della sessualità gay. Il marinaio solo e arrapato a bordo di una nave per molti mesi è un’immagine che è entrata a far parte della cultura omosessuale. Ma alcuni predatori di marinai mi hanno messo in risalto un altro aspetto curioso: i pantaloni dei marinai sono tagliati in modo tale che si sbottonano facilmente e questo particolare stimola la fantasia di chi è alla ricerca di una sveltina. L’immagine dell’uomo virile in divisa, esempio di moralità e onestà nella cultura dominante, si trasforma così, grazie anche a dei pantaloni che si sbottonano facilmente, nel prototipo di oggetto sessuale per una sveltina. La soddisfazione di desideri trattenuti a lungo nei periodi di isolamento su una nave, fanno del marinaio, sempre nella cultura dominante, l’esempio del libertino che ha una donna in ogni porto, mentre all’interno di una sotto cultura queer si sa bene che, molto spesso, quelle donne si chiamano Mario, Marco, Giuseppe!
Il sottotesto camp all’immagine del marinaio, quasi fosse un percorso iniziatico, ha creato nel tempo il culto di questa figura, tanto da trovare divertenti ed ironiche le tante fotografie in bianco e nero a tema raccolte in molti siti di condivisione fotografica. In queste foto, gruppi di marinai si abbracciano, baciano, sorridono, mezzi svestiti all’interno delle loro navi; posano accanto a cannoni o a compagni intenti a tuffarsi in mare, mostrando pettorali e addominali torniti; si travestono da donna per rappresentazioni teatrali nel tempo libero, esagerando, come le drag queen, alcuni elementi di una supposta femminilità .
In altre foto ancora, passeggiano in gruppo, con la loro divisa d’ordinanza, richiamando alla mente alcune delle opere più famose di Tom of Finland – pseudonimo del grafico e disegnatore finlandese Touko Laaksonen – e del pittore Paul Cadmus.
Touko Laaksonen, cresciuto sulla costa meridionale del paese, fin da piccolo vede intorno a sé contadini, boscaioli e pescatori e di queste figure popola il suo universo, prima personale ed intimo e dopo artistico. Le sue prime esperienze sessuali le fa proprio con un vicino di casa, stereotipo, racconterà in seguito, del ragazzo di campagna, muscoloso ed aitante, uno di quelli che difficilmente viene schernito e offeso da coetanei poiché ritenuto effeminato. I suoi disegni iniziano a girare e a diventare famosi a metà degli anni cinquanta, dopo che lo stesso Touko li invia, su insistenza di un amico, ad una rivista americana dedicata alla cura del corpo e all’esaltazione della mascolinità, molto famosa al tempo, Physique Pictorial. Nelle sue pagine, con la scusa di mostrare esercizi ginnici o pose per body builder, si potevano trovare immagini di uomini nudi, nutrimento per la fantasia di molti, che di sicuro non la compravano per vedersi illustrare come eseguire flessioni o tonificare gli addominali. Alla storia di questa rivista e del suo produttore, Bob Mizer, è stato dedicato da Thom Fitzgerald un bel film nel 1999, a metà strada tra la fiction e il documentario, ed intitolato Beefcake. I disegni di Touko piacciono talmente tanto che, nel 57 esce un numero della rivista con in copertina una sua illustrazione: il nome però era ritenuto troppo difficile per gli americani, fu così coniato lo pseudonimo di Tom of Finland, il quale, con i suoi “disegni sporchi”, così come era solito chiamare le sue tavole, ha contribuito ha cambiare lo stereotipo del gay visto come un uomo effeminato, travestito, debole (e per questo forse poco “preoccupante” per i più), in un modo nuovo d’essere omosessuale, con uomini orgogliosi di esserlo, felici di fare sesso, felici di sentirsi maschi. Tra i suoi soggetti preferiti comparivano spesso marinai, possenti, muscolosi, solari e sorridenti, col fisico prorompente strizzato nelle proprie divise, ma allo stesso tempo appassionati e lascivi amanti di altri uomini, non raramente di qualche altro corpo militare.
Paul Cadmus nasce nel 1904 a New York, figlio di genitori amanti della pittura e che gli danno sin dai primi anni un’educazione artistica. Negli anni 30 compie un lungo viaggio in Europa, durante il quale resta affascinato dall’opera di pittori rinascimentali come Luca Signorelli, i cui affreschi nel duomo di Orvieto avevano già ispirato altri artisti del calibro di Michelangelo, il quale, proprio al Signorelli si richiama per la composizione del suo celeberrimo Giudizio Universale nella Cappella Sistina. Rientrato come impiegato in America, Cadmus realizza il dipinto The fleet’s in, destinato a creare scandalo ed ammirazione in egual misura. L’opera raffigura un gruppo di marinai, alcuni visibilmente ubriachi, intrattenersi con donne ed altri uomini, lungo un muretto di strada. La composizione mette in risalto le forme dei militari nelle loro divise di ordinanza: i colori saturi e sgargianti creano un effetto di vitalità in chiara contrapposizione con le vesti e le gramaglie di una anziana donna, presumibilmente passata da lì per caso ed intenta a strattonare il proprio scodinzolante cagnolino. Due marinai abbracciati si intrattengono con delle ragazze piuttosto ambigue (una non ha seno e dalla scollatura pare emergere un petto maschile) mentre altri due, sulla sinistra dell’opera dividono le loro attenzioni tra un distinto signore vagamente effeminato ed una donna che, pur tirando il braccio ad uno dei due marinai, pare non riesca ad attirarne l’interesse.
Paul Cadmus - The fleet’s in
Il dipinto fu rifiutato dal PWAP - Public Works of art Project - programma di sviluppo delle attività artistiche voluto dall’amministrazione Roosvelt, con lo scopo di alleviare gli effetti della crisi economica e finanziaria del Paese dopo il 1929, ed un ammiraglio dell’esercito in pensione arrivò a definirlo “una rappresentazione disgraziata, sordida e disonorevole, una zuffa di ubriachi con un numero di uomini arruolati in associazione con dei tipi da strada”. Dal clamore arrivò il successo e arrivarono le commissioni da parte di musei e collezionisti privati. Le opere di Cadmus divennero una collezione di critiche alla società americana della “Grande Depressione”, una raffigurazione delle tante contraddizioni di una società che cercava di uscire da una crisi profonda, lasciandosi alle spalle non solo i problemi economici ma anche le tante persone che in quella rincorsa al benessere avevano perso tutto. Le figure dei suoi quadri erano ubriachi allo sbando, donnine ammiccanti, militari oggetto di sguardi lussuriosi, personaggi di un sottobosco a volte squallido ma ritratti sempre in uno splendore visivo, in paesaggi di fantasia carichi a loro volta di sontuose allegorie. I corpi dei suoi dipinti ci offrono l’opportunità di considerare come, spesso, la bellezza, per quanto offensiva o provocatoria, nasce anche in contesti apparentemente crudeli, squallidi e si possa dedurre da quella che il critico americano Jerkins definisce “una trappola di sguardi”. Anche per Cadmus può valere quanto già riferito in merito al concetto di parodia (vedi l’articolo Querelle de Brest e l’icona del marinaio nell’immaginario camp): nei gesti dei personaggi dei suoi quadri troviamo, tramite l’artificio dell’esagerazione e degli ammiccamenti sessuali, una critica alla società alienante e crudele; un capovolgimento di valori che arriva a far dire allo stesso Cadmus che la bellezza si trova là dove i genitori hanno sempre indicato ai loro bambini il “brutto” o il “cattivo”. In una sua opera, carica di riferimenti omoerotici piuttosto evidenti, vediamo un giovane dalla carnagione molto chiara, fermo con la sua bicicletta e una baguette portata alla francese, in una strada che intuiamo essere portuale. Di fronte a lui un altro ragazzo, stavolta dalla carnagione scusa, è appoggiato in modo provocante lungo un muretto. Considerato il succinto abbigliamento dei due siamo portati ad ambientare la scena in piena estate. Escludendo queste due figure in primo piano, che ad un occhio “sensibile” richiamano immediatamente la scena di un approccio sessuale, ci sono altri personaggi nel dipinto che creano un effetto di estraneamento assai intrigante: cosa ci fa
una ragazzina, che pare a sua volta rubato ad un quadro di Balthus, seduta al porto vicino ad un poliziotto romanticamente rapito da orizzonti romantici? E ancora, cosa ci fa una rubiconda massaia, vestita come nelle tele di Bruegel, in compagnia di aitanti portuali? Qualche risposta la possiamo intuire dalle parole di Cadmus stesso: Si dirĂ che sono un antisemita, un antibianchi, un antineri, un antimilitari, un antitutto. Non lo sono. Sono contro una societĂ che divide le persone in categorie, che rende umanoidi gli uomini.
Il marinaio ed il suo mondo torna spesso anche nelle opere di Pierre & Gilles, artisti dallo stile inconfondibile e personale, creatori di mondi fantastici, colorati e pop, in cui religione, erotismo, mitologia, sesso e candore convivono perfettamente.
Pierre et Gilles
Pierre è fotografo, Gilles pittore; insieme lavorano e vivono fin dagli anni 70, riuscendo ad imporre uno stile sofisticato e complesso, ma nello stesso tempo assai popolare, mescolando elementi grafici mutuati dalla cultura orientale, dallo stile di molte città marinare, così come dall’iconografia classica con cui vengono presentati santi e Dei della mitologia. Il marinaio, pronto all’avventura e all’esplorazione di terre lontane (reali o immaginarie, sensuali o carnalmente concrete) richiama lo stesso atteggiamento dello spettatore di fronte alle opere di Pierre & Gilles: smarriti nella perfezione, finta ed ipnotica, di corpi nudi e sfrontati (senza per altro essere mai volgari), disposti a perdersi nella nostalgia e nella rassegnazione tipica di chi sta per iniziare un viaggio di cui non conosce la destinazione, ma di cui sembra essere allo stesso tempo un’immagine da souvenirs.
Pierre et Gilles
Con la stessa colorata anima pop, il marinaio è stato spesso usato in pubblicità, con immagini che ricordano sia l’opera di Pierre & Gilles che l’iconografia di Querelle: basti pensare alla campagna pubblicitaria della Diesel, Jeans and workwear, in cui, sulla banchina di un porto, in festa per l’approdo di una nave carica di marinai, due aitanti giovanotti si baciano appassionatamente. L’ambientazione, anni quaranta, richiama la fine della seconda guerra mondiale, tra cartelli inneggianti alla vittoria, coriandoli e tanto di slogan: God shad his grace.
Diesel adv.
Altri due marinai si guardano intensamente negli occhi, sfidandosi a braccio di ferro, e tenendo stretta, nella mano non impegnata nel virile confronto, il profumo Le male di Jean Paul Gaultier: anche in questo caso il gioco di contrasti tra simboli “macho”, come i vistosi tatuaggi o i muscoli esibiti, e gli ammiccamenti omoerotici creano un’immagine camp dai chiari riferimenti all’opera degli artisti francesi.
Le male -Jean Paul Gaultier
Altri esempi ancora di questo utilizzo del mito marinaro in pubblicità li ritroviamo nelle campagne per l’underweare della Ginch & Gonch, ma la casistica di sicuro non manca. A sottolineare questa passione per la marina e la figura del marinaio ci ha pensato di recente anche una mostra organizzata nell’estate del 2007 a Londra, presso il Marittime Museum di Greenwich, ed intitolata Sailor Chic: fashion’s love with the Sea. Un’indagine dell’influenza delle uniformi marinare sull’immaginario della moda: luogo per eccellenza dell’artificiale, dell’eccesso e della “superficie”; nella mostra, partendo da un ritratto del figlio della regina Vittoria in abito da marinaretto, si passa dalle bluse a righe azzurre di Coco Chanel agli eccessi di Vivienne Westwood, dai pantaloni bianchi di Gaultier ai Corsari di John Galliano, senza dimenticare il Tadzio (vestito dal costumista Tosi) della riduzione cinematografica che Visconti ha tratto da Morte a Venezia di Thomas Mann: oggetto del desiderio dell’anziano Gustav von Aschenbach, Tadzio rappresenta una sorta di ideale e irraggiungibile bellezza, capace di annientare così come di stupire.
Tadzio in Morte a Venezia, 1973
Stesso tipo di attrazione viene celebrata in un caposaldo della cinematografia underground, Fireworks di Kenneth Anger, autore per altro di due libri, ormai leggendari, per gli amanti del cinema, ma soprattutto delle illusioni che questo crea: Hollywood Babilonia. In Fireworks, Anger racconta del sogno di un giovane intento ad abbordare alcuni marinai, dai quali viene tuttavia malmenato e seviziato, anche se alla fine del sogno stesso, un marinaio si materializza magicamente nel suo letto. Un marinaio compare anche al posto di Gesù tra le braccia della Vergine, di chiara ispirazione michelangiolesca, mentre l’immagine del suo fallo viene, in un altro passaggio del film, evocata da un candelotto di dinamite acceso e che spunta dalla cerniera dei pantaloni. Come sottolinea il critico cinematografico Mereghetti, Anger rovescia in chiave iconoclasta i valori tradizionali americani (la marina, i fuochi d’artificio del 4 luglio, l’albero di Natale), ma resta evidente il suo amore per il cinema hollywoodiano, con tanto di omaggio a Il mago di Oz di Victor Fleming, interpretato da Judy Garland.
Fireworks, 1947
P.S. Nel luglio del 2006, per la prima volta nella storia dei cortei gay del vecchio continente, la Royal Navy britannica ha acconsentito che una quarantina di suoi uomini sfilassero nel corteo dell’Euro Pride in divisa e con tanto di decorazioni al petto. Una volta tanto a quelle sfilate si sono viste delle vere divise, tra leather men, sailors moon varie e drag queen.
Gianluca Meis gianlucameis@gmail.com