Club di territorio
notiziario dei Volontari di Roma anno II – numero 1 - gennaio/febbraio 2017
Iniziata a gennaio la nuova avventura di Aperti per voi Gennaio/Febbraio 2017, notiziario 1 u1
collezionefarnesina In copertina, Roma, Palazzo della Farnesina, il salone dei Mappamondi. In queste due pagine, alcune foto scattate il 27 gennaio da Anna Di Paolo, Claudio Carlucci e Massimo Marzano e in basso al centro, il salone d’Onore
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Vi ricordiamo che la Collezione Farnesina è visitabile ogni ultimo venerdÏ del mese (esclusi luglio e agosto), su prenotazione, dalle 9 alle 16. Queste sono le date delle prossime visite: 24 febbraio 31 marzo 28 aprile 26 maggio 30 giugno 29 settembre 27 ottobre 24 novembre 29 dicembre Prenotazioni effettuabili sul sito del Ministero. Come raggiungere il Ministero Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Piazzale della Farnesina, 1 00135 Roma Metropolitana (linea A) fermata Ottaviano + autobus linea 32 direzione Stazione Saxa Rubra (fermata Ministero Affari Esteri) Metropolitana (linea A) fermata Lepanto + autobus 301 direzione Grottarossa Istituto Asisium (fermata Lgt. M.llo Diaz) Metropolitana (linea A) fermata Lepanto + autobus 280 direzione Mancini (fermata De Bosis / Stadio Tennis). Capolinea autobus linee 168 e 628. Linee con fermate nelle adiacenze: 200, 301, 226, 188, 280.
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romanel cinema
“Roma è una lupa”,
ovvero, la Capitale secondo Ettore Scola di Eugenia Napoleone
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“Roma è una polenta scodellata”. Fu Giulio Carlo Argan, in veste di sindaco della Città (1976-1979), a descrivere Roma con questa metafora.
Suo interlocutore era proprio Ettore Scola. Roma bella, informe e feroce. Quella Roma dai mille volti che il regista usò come sfondo silenzioso di tutti i suoi più celebri racconti su pellicola. Perché Roma non è solo quella iconica e monumentale che si ritrova sulle cartoline. Il regista, infatti, romano solo d’adozione, non mostra solo il lato più appariscente della città, ma favorisce spesso un altro aspetto della Roma bifronte. Nel 1970, con Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), Scola immerge i protagonisti della sua storia in un’ambientazione tutt’altro che eterna e, con scenari grigi e trascurati, una miserabile periferia si impone sulla scena. Le tenere effusioni d’amore tra Oreste e Adelaide si consumano su cumoli di immondizia; quando la pace della coppia viene turbata dall’arrivo di Nello, il confronto tra i tre si svolge sul monte Testaccio, sullo sfondo del Gazometro e dei fumi dell’aria della rumorosa periferia; il tragico finale ha come palcoscenico i mercati generali deserti e semiabbandonati. Forse solo la scena dell’improvviso innamoramento di Adelaide ha un’ambientazione diversa, ma premonitrice: la fioraia vede per la prima volta il povero muratore in una tiepida giornata di sole che bagna le monumentali mura del Verano e l’atmosfera in un attimo diventa leggera. Ma è il degrado della Roma di periferia a
trionfare, ad accompagnare, con la sua melanconia, la vicenda tragicomica del film. E forse è lo stesso regista a parlare, quando Oreste si rivolge alla telecamera giudice e, disintegrando violentemente la quarta parete, urla “sette colli, sette colli de monnezza!”. È quella la Roma che conta qui. Niente bellezza, ma una miseria che non manca di comunicare poesia. Il 1977 è l’anno di Una giornata particolare. La Roma che il regista immortala è quella del 6 maggio 1938, la Roma fascista di Mussolini e di Hitler che in quel giorno vi giungeva, la Roma dell’architettura razionalista e delle parate militari. Ma la visione proposta è intrisa di antifascismo: Scola ci fa affezionare ai due protagonisti del film, un omosessuale e una casalinga che della politica non sa che farsene. Mentre tutto il film è scandito e ritmato dagli inni del Partito Fascista, Scola racconta la fortuita conoscenza tra due “sovversivi” isolati dal rigore di una Roma che non si vede, ma che si lascia intendere trionfante e all’apice del suo splendore fascista. La scena clou del film è ambientata sulla terrazza del caseggiato in Viale XXI Aprile, all’interno del quale si svolge l’intera vicenda: una terrazza spazzata da un vento che sfiora i tetti dei palazzi tutt’intorno e agita i capelli di Antonietta e le lenzuola stese e che forse vuole rappresentare la Roma libera in opposizione a quella ufficiale del Duce. C’eravamo tanto amati, nel 1974, incornicia, al contrario, una Città ico-
nica e dalla forte presenza scenica. Il film è una passeggiata nella Roma bella, quella delle cartoline. Niente periferie degradate, ma i migliori salotti del centro della città, nell’atmosfera del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta. Quasi una dichiarazione d’amore del regista alla sua città adottiva: Scola stavolta ci fa ammirare il lato più dolce di questa Roma dai mille volti. Sfilano Piazza di Spagna, le vie dell’Aventino e Santa Maria della Consolazione fino a Fontana di Trevi, per l’omaggio al collega Fellini con la riproposizione nostalgica della scena più famosa de La dolce vita: una vera e propria lode alla Roma più classica e immortale, nonché a quella cinematografica. L’8 gennaio si è chiusa, al Museo Bilotti di Roma, la deliziosa mostra Piacere, Ettore Scola che, ripercorrendo la carriera del Maestro tra oggetti di scena, sceneggiature battute a macchina e riconoscimenti conquistati, ha evidenziato anche il rapporto tra Scola e la sua amata città, che egli ha decantato sia con versi di secco realismo che di luminosa epicità. Ma, qualunque sia stato il volto di Roma che il regista abbia deciso di mostrare nei suoi film, mai vi ha fatto mancare la poesia che da ogni angolo, sempiterno e caloroso del centro storico o melanconico della periferia, questa “polenta scodellata” trasuda. Perché, in fondo, lo confessò lo stesso Scola nel 2003, a proposito del suo Gente di Roma: “Roma è una lupa […] affascina i romani d’adozione come me [...] è sempre stata una scenografia”.
Da sinistra, Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), 1970; Una giornata particolare, 1977; C’eravamo tanto amati, 1974
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© foto E. Bucci
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Continuiamo il “racconto” dei luoghi visitati nell’anno appena terminato
Ponte Sant’Angelo, fra storia e curiosità di Elisa Bucci Console Tci
Con i Volontari del Touring Club Italiano il 2016 ci ha visto passeggiare nella nostra città sulle orme dei pellegrini che giungevano a Roma negli Anni Giubilari. Abbiamo ammirato Palazzi con una lunga e complessa storia, sedi di Arciconfraternite che offrivano assistenza ed alloggio, splendide Chiese; abbiamo percorso importanti strade, vicoli poco conosciuti, attraversato piazze con fontane e monumenti. Ed ovunque la nostra città ci ha riservato storie, aneddoti e curiosità… Ci fa piacere “raccontare” uno dei tanti luoghi ove ci siamo soffermati: Ponte S. Angelo, uno dei luoghi più affascinanti che da quasi 2000 anni unisce le due sponde del Tevere. La sua prima denominazione fu
“ponte Elio” dal nome dell’imperatore Publio Elio Adriano che lo fece costruire, tra il 130 ed il 135 dall’architetto Demetriano, come via d’accesso al proprio Mausoleo. Durante il Medioevo il nome fu mutato in “ponte S. Pietro” in quanto rappresentava l’unico accesso diretto per giungere alla Basilica Vaticana. Il nome attuale si ricollega alla tradizione secondo la quale, nel 590, papa Gregorio Magno, mentre attraversava il ponte durante una processione penitenziale, ebbe la visione dell’arcangelo Michele che, sulla sommità della Mole Adriana, riponeva nel fodero la spada a significare la fine della pestilenza che affliggeva Roma. Da allora la denominazione “S. Angelo” si estese al ponte ed al Castello, sui cui spalti venne innalzato il famoso angelo a ricordo dell’avvenimento. Roma, considerata per i cristiani la città benedetta nella quale erano 6 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017
stati martirizzati gli Apostoli Pietro e Paolo, divenne sempre più importante quale meta di pellegrinaggio, soprattutto dopo che Gerusalemme venne conquistata dagli arabi. La principale via di accesso alla Basilica, che nel IV secolo Costantino aveva fatto costruire sul luogo del martirio di S. Pietro, era rappresentata da Ponte S. Angelo. In occasione del primo Giubileo della storia, indetto da Bonifacio VIII nel 1300, enorme fu l’afflusso dei Pellegrini. In un passo della Divina Commedia, opera che si svolge proprio durante la Settimana Santa del 1300, Dante racconta il grande avvenimento: nel canto XVIII dell’Inferno il poeta paragona il procedere in senso opposto delle due schiere di peccatori della prima bolgia (ruffiani) ai pellegrini che sul ponte Sant’Angelo si incrociavano gli uni, diretti a San Pietro, gli altri, di ritorno, diretti a Monte Giordano:
Pellegrini a Roma durante il Giubileo del 1300 (miniatura da Le Croniche di G. Sercambi). A dx, le due statue di San Pietro e San Paolo
«come i Roman per l’essercito molto, l’anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto, che da l’un lato tutti hanno la fronte verso ’l castello e vanno a Santo Pietro; da l’altra vanno verso il monte...». Ricordiamo infatti che, proprio in previsione del grande afflusso dei pellegrini, le autorità decretarono il doppio senso di circolazione su Ponte Sant’Angelo, cosa che nelle caotiche strade medioevali non s’era mai vista. Il ponte fu diviso nel mezzo da una specie di cordolo, probabilmente formato da bancarelle di legno, che sembra successivamente l’Antipapa Giovanni XXIII1 distrusse in maniera piuttosto drastica, dandole alle fiamme. Molti però riuscivano ad evitare la “trappola” del ponte utilizzando i “barcaroli”. Nel Medioevo il traghettamento avveniva con piccole imbarcazioni a remi chiamate “schifetti” e solo dal Cinquecento si passò ad utilizzare imbarcazioni più sicure, agganciate ad una corda tesa da una sponda 1 Eletto nel 1410 e deposto nel 1415; nel 1417 fu poi
eletto Martino V che mise fine allo Scisma d’Occidente. Papa Roncalli prese lo stesso nome non riconoscendo implicitamente l’antipapa.
all’altra. Queste imbarcazioni erano dette “a canapo fisso” ed erano manovrate con un unico remo simile a quello dei gondolieri. Esistevano alcuni attraversamenti ufficiali (con assegnazione delle licenze a privati dalla Camera apostolica) ed una grande quantità di guadi abusivi ! Alcuni riportano che il costo del passaggio era irrisorio: mezzo bajocco, elevato in seguito ad uno. Da ciò nacque il detto popolare romanesco “vacce a passa’ in barchetta”, rivolto a chi offre una scarsa retribuzione o poco denaro per l’acquisto di un determinato bene. Durante il Giubileo del 1450, sotto il pontificato di Niccolò V, accadde una grave sciagura: il 19 Dicembre, in occasione dell’ostensione del “Velo della Veronica”, mentre una grande folla di pellegrini procedeva da San Pietro verso Ponte S. Angelo, imbizzarrì una mula con due ceste nelle quali sedevano due donne; notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017 u7
racconta l’umanista e cronista Stefano Infessura che “la gente per la calca granne cascava in terra, et fo nello ditto ponte sì granne pressura che lì vi morsero persone doicento, e tre cavalli affocati, et la ditta mula et molti ne cascaro in fiume”. A seguito di tale grave incidente il Papa diede avvio a tutta una serie di lavori che si protrassero fino al 1454. Si procedette alla riparazione del ponte, rinforzandone anche uno sperone e alla costruzione, sulla riva destra, di due grandi Torrioni uniti da una grande porta che serviva da passaggio (che però vennero a restringere l’alveo del Tevere favorendo così le inondazioni in caso di piena del fiume) poi sostituiti dal grande torrione circolare voluto da Alessandro VI Borgia negli anni 1492-1495, le cui fondamenta chiusero completamente due arcate. In ricordo delle vittime vennero costruite due cappelle ottagonali, poste al lato dell’imbocco sulla riva sinistra, mentre si realizzò l’apertura del cosiddetto “Canale di Ponte”, una piazza allo sbocco del Ponte per favorire il transito dei pellegrini. Le due cappelline, dedicate a “S. Maria Maddalena” ed ai “SS. Innocenti”, furono realizzate nel marzo 1451. Durante il Giubileo del 1500, il 27 uu
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maggio, i pellegrini diretti a S. Pietro ebbero la sorpresa di passare il Ponte S. Angelo fra due file d’impiccati, giustiziati sulla Piazza di Ponte, uno dei più importanti luoghi ove venivano eseguite le condanne a morte. Erano diciotto, nove per parte; si racconta che fra costoro vi fosse un medico dell’Ospedale di S. Giovanni, il quale era solito di prima mattina andare armato di balestra a caccia di “romei”, ammazzandone e derubandone quanti più poteva, ed un confessore dello stesso Ospedale, che indicava al medico i pellegrini infermi provvisti di danaro affinché li uccidesse col veleno per poi spartirsene fra loro il gruzzolo. Gli altri sedici erano “semplici” assassini di strada. Nello stesso luogo, alla vigilia di un altro Giubileo, l’11 settembre 1599, furono giustiziati Beatrice Cenci, la sorella Lucrezia e il fratello Giacomo. Fra il 1533 e il 1534, per volontà di Clemente VII, vennero demolite le cappelline, mal ridotte durante il Sacco di Roma, e sostitute con le attuali statue di “S. Paolo” e “S. Pietro” (opere rispettivamente di Paolo Taccone e del Lorenzetto); sui rispettivi piedistalli si legge: ”Hinc humilibus venia” (di qui il perdono per gli umili) e “Hinc retributio superbis” (di qui il castigo per i superbi). Fu ampliato lo spazio antistante la Piazza del Ponte, non più sufficiente per la quantità di pellegrini e mercanti che vi transitavano, facendo sgomberare anche tutte le botteghe dalla testata di Ponte Sant’Angelo. Nel 1536, in occasione della venuta a Roma dell’imperatore Carlo V di Spagna, Paolo III affidò a Raffaello da Montelupo l’incarico di ornare il ponte con otto statue di stucco (ben presto andate in rovina), raffiguranti i quattro evangelisti ed i quattro patriarchi. Nel corso degli anni si ebbero numerosi interventi di restauro ed in particolare dopo la più grave allu-
vione avvenuta a Roma, ricordata da ben 11 lapidi giunte fino a noi (fra cui quella apposta sul lato occidentale della Chiesa di S. Spirito in Sassia e un’altra sulla facciata della Chiesa della Minerva) quando, la vigilia di Natale del 1598, le acque del fiume in piena, che raggiunsero i 19,56 metri di altezza all’idrometrica di Ripetta, sormontarono il Ponte e abbatterono la balaustra: si trattò del più alto livello mai raggiunto dalle acque nel corso di una inondazione. Durante il pontificato di Urbano VIII Barberini (1623-1644) fu abbattuto il torrione circolare sul Ponte e riaperte le luci delle due arcate minori in prossimità di Castel S. Angelo, migliorando così il deflusso delle acque del Tevere nel tratto urbano. Negli anni 1668-1669 per volontà di Clemente IX fu affidato l’incarico di curarne nuovamente il restauro a Gian Lorenzo Bernini. I parapetti chiusi furono sostituiti
da balaustre di pietra e cancellate di ferro, mentre alle due statue già esistenti ne vennero affiancate altre dieci, rappresentanti angeli con i simboli della Passione. Due di essi, quelli con la “corona di spine” e “col cartiglio”, scolpiti in marmo dallo stesso Bernini, considerati troppo belli per essere esposti alle intemperie sul ponte, vennero sostituiti da copie di bottega, mentre gli originali restarono in proprietà degli eredi Bernini fino al 1729, quando vennero donati alla chiesa di S. Andrea delle Fratte, dove ancora oggi si possono ammirare (foto sotto). Durante i lavori del 1892 per la costruzione dei muraglioni fu necessario portare la larghezza del fiume fino a 100 metri, per cui il ponte subì una grande trasformazione per assumere l’aspetto attuale; alle tre arcate centrali si aggiunsero due archi simmetrici in sostituzione di quelli minori.
Dall’alto in senso orario: dalla pianta di M. Merian - copia della pianta di A. Tempesta del 1593; l’angelo del Bernini nella chiesa di S. Andrea delle Fratte a Roma; dalla pianta di H. Schedel, 1493 8 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017
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cannonate
A Roma, inaspettatamente, si trovano diverse palle di cannone, sparpagliate per la città nei luoghi più strani. Vi raccontiamo la storia di alcune di esse di Alessia De Fabiani
Siamo abituati a vederle nei musei, come a Castel Sant’Angelo, ma possiamo scovarle anche nelle chiese. Nelle chiese? Ebbene sì,
nella Chiesa di San Bartolomeo all’Isola Tiberina è presente la famosa “palla del miracolo” con un diametro di 14 cm ( foto 3), non male! Fu sparata dai Francesi nei bombardamenti effettuati sulla città nel tentativo di fiaccare la resistenza dei patrioti della Repubblica Romana del 1849. La traiettoria seguita da questo proiettile è interessante, perché, partito dalla via Aurelia è arrivato nella chiesa, ha attraversato il muro per
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finire la sua corsa sull’altare della Cappella della Vergine. Fortunatamente, nonostante vi fosse in corso una funzione, non ci furono vittime (ecco perché “palla del miracolo”). Tutt’ora è possibile vedere il proiettile murato nella parete sinistra della Cappella accompagnato da un’epigrafe commemorativa. Sempre legata alla memoria dei francesi, ed alla loro eccellente mira, è la targa commemorativa che si trova nel cortile di Palazzo De Carolis su Via Del Corso che recita: “Un colpo di cannone francese lanciò una palla in questo luogo il giorno 20 giugno 1849, alle ore 3 e 3/4 pomeridiane del calibro da 24”, notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017 u9
un bel colpo di cui rimane il solco, questa iscrizione e niente più… Errori di gittata li ritroviamo anche a Palazzo Colonna in Piazza Santi Apostoli, splendida residenza barocca alle pendici del Quirinale. Entrando siamo catapultati nel passato, si respira un’atmosfera di eleganza e raffinatezza, forse perché poco è cambiato nei secoli, infatti è possibile vedere l’allestimento originale dell’epoca sia dei mobili che dei quadri disposti ad incrostazione (pareti completamente ricoperte di dipinti). In questa moltitudine di oggetti meravigliosi non passa di certo inosservata la palla di cannone sui gradini della sala grande ( foto 1).
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Fu lanciata anche questa dai francesi del generale Oudinot, sempre nel 1849 con lo scopo di colpire il Quirinale, ma a quanto pare il colpo non andò a buon fine; nonostante ciò non vi furono feriti e da quel dì la palla è diventata parte dell’arredo. Un’altra testimonianza del particolare momento storico che vide soccombere la neonata Repubblica Romana alle preponderanti forze francesi, è visibile sul lato sinistro della chiesa di San Pietro in Montorio al Gianicolo. Una targa, sulla quale è incastonata una palla di cannone nella stessa posizione in cui fu ritrovata, ricorda l’avvenimento del giugno 1849 ( foto 4). La prossima testimonianza è di poco successiva, siamo nel 1870 nel bel mezzo della battaglia tra l’esercito
regio di Vittorio Emanuele II e quello pontificio di Pio IX conclusosi con la famosa Breccia di Porta Pia. Durante lo scontro parecchie cannonate furono sparate contro le Mura Aureliane e, ancora oggi su Corso Italia, davanti alla Torretta di Via Po, è possibile vedere l’ammaccatura provocata da una di esse ( foto 2), ma le possenti mura oltre ad una incavatura non ne hanno risentito, forse perché abituate a millenni di guerre… Sul Pincio, luogo di ritrovo di molti artisti che si cimentano in vedute romane, di ragazzi che giocano a pallone, di persone che vogliono rilassarsi, di ultimi romantici che ammirano il tramonto che rosseggia sulle cupole, proprio qui troviamo un cimelio bellico. Vista l’atmosfera descritta sembrerebbe fuori conte10 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017
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5 sto, ma in realtà non è legato né ai nostri amici francesi né al Risorgimento, bensì ad un modo di manifestare i propri sentimenti molto curioso… La leggenda vuole che la regina Cristina di Svezia, donna dal carattere molto difficile e capriccioso, abbia sparato perché infuriata per il ritardo che stava facendo un suo ospite residente in Villa Medici (amici ritardatari, meglio non fare aspettare una donna!); i cellulari non esistevano, quindi quale modo migliore per esprimere la propria collera! In realtà esistono diverse versioni: un’altra parla di un originale invito alla caccia, altre di un modo per avvisare del suo ritardo, la verità non la sapremo mai. Fatto sta che la palla è ancora visibile (ed anche l’ammaccatura sul portone) nella fontana di fronte la villa ( foto 5).
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GLI SCRAPBOOK RITAGLI DEL CUORE E DELLA MEMORIA Dopo i micro mosaici, album e raccoglitori, che stimolavano i loro ricordi ed il loro piacere: ecco i souvenir dei viaggiatori del Grand Tour di Massimo Marzano
Certo Roma era “quello che era”. Appena arrivavi a Roma, succedeva, come racconta-
va Tobias Smollett (1766), di essere “circondati da un certo numero di servitori di piazza, che ci hanno offerto i loro servizi, importunandoci sgradevolmente senza tregua”; Goethe(1786/1788) notava con una certa notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017 u11
apprensione che “ciò che fa colpo su tutti gli stranieri, e che attualmente è oggetto dei discorsi (ma solo dei discorsi) dell’intera città, è la frequenza con cui si commettono omicidi. In queste tre settimane già quattro persone sono state uccise nel nostro quartiere”; Thomas Jones, a sua volta, annotava nel suo Diario di essere stato derubato due volte nel suo soggiorno a Roma nel 1777, per cui uu
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Smollett concludeva che “... I nostri giovani signori (inglesi) che arrivano a Roma faranno bene a stare in guardia contro una serie di imbroglioni, (alcuni dei quali del nostro paese) che si occupano di immagini e oggetti d’antiquariato, e molto spesso impongono allo straniero disinformato, la vendita di spazzatura, come le riproduzioni di opere di artisti più celebri”. Non era da meno la violenza, che si manifestava in alcune occasioni pubbliche, come le esecuzioni ed il Carnevale Romano, tanto che il 20 febbraio 1787 Goethe scriveva “La mattana è ormai finita. Ancora iersera i moccoli innumerevoli furono un folle spettacolo. Bisogna aver veduto il Carnevale a Roma per togliersi completamente la voglia di rivederlo” e il 19 maggio 1817, a Piazza del Popolo, Byron confessava “questa esecuzione mi ha messo addosso un tal tremito che quasi non riuscivo a tenere il binocolo da teatro”. Tutti, però, aristocratici, borghesi benestanti, artisti, scrittori desideravano venire a Roma, sia per uno scopo semplice, come afferma Smollett, cioè per “vedere le rovine dell’antico impero per cui questa metropoli si distingue e per contemplare gli originali di molte statue e opere d’arte, che avevo ammirato in stampe e descrizioni”, sia per stimoli e motivazioni più elevate, come dichiara quasi stupito Goethe, “Tutti i sogni della mia gioventù, li vedo ora vivere; le prime incisioni di cui mi ricordo (mio padre aveva appeso ai muri d’un vestibolo le vedute di Roma) le vedo nella realtà, e tutto ciò che conoscevo già da lungo tempo, ritratto in quadri e disegni, inciso su rame o su legno, riprodotto in gesso o in sughero, tutto è ora davanti a me; ovunque vado, scopro in un mondo nuovo cose che mi sono note; tutto è come me l’ero figurato, e al tempo stesso tutto nuovo”. I nostri viaggiatori, così, iniziavano a visitare, a guardare, a scrivere, a comprare stampe, libri, mappe,
piante, manuali, copie delle opere dei massimi maestri, parte a carboncino, parte a seppia o ad acquarello (Goethe), calchi in gesso, oggetti in micro mosaico. Quando, poi, ritornavano nei loro paesi, come dice Goethe, “...a tanta distanza dagli originali, saranno più che mai preziosi e mi rievocheranno queste cose mirabili”. C’erano, però, molti viaggiatori, si pensa soprattutto donne, che, ritornati a casa, nelle cupe e piovigginose giornate, 12 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017
nelle loro belle ville, erano travolti da uno struggente ricordo del viaggio, dal melanconico rimpianto di quei paesaggi, da quel paese, così lontano, così dilaniato da tanti problemi, ma dove “non ci si accorge dell’inverno, i giardini sono pieni di alberi sempreverdi, il sole è luminoso e caldo... le piante di limone crescono lungo i muri degli orti... come gli aranci...già ora (a dicembre) buonissimi... Non si può immaginare nulla di più allegro
Volontari del TCI - Aperti per voi - Club di Territorio di Roma - Progetto “Grand Tour - Il viaggio a Roma” Sab. 25 febbraio 2017 ORATORIO DI SANTA CATERINA, via Giulia, 151 - ORE 15.30 Giorgio Levantesi, conferenza su “Storia e protagonisti del Grand Tour” Alessandro Picarelli, antiquario, mostra al pubblico degli scrapbook e degli album d’epoca di stampe e di disegni di monumenti, di personaggi in costume tipico, di maschere, di scene di vita di tutti i giorni, di gouaches.
della loro vista” (Goethe). Iniziavano a rivedere tutti quei disegni e stampe, che si erano portati a casa, a sfogliare gli album di monumenti, di personaggi in costume tipico, di maschere, di scene di vita di tutti i giorni. Anzi facevano ancora di più: creavano degli scrapbook, cioè degli album, rilegati anche in pelle, dove inserivano “i ritagli”, formati da stampe, acquarelli, gouaches, arricchendoli con brani di famosi scrittori e con loro
considerazioni o osservazioni. Così passavano le giornate e rivivevano il loro viaggio e facevano vedere e spiegavano ai loro amici questo “scrapbook”, questo raccoglitore di “ritagli”, accendendo in loro il desiderio di partire e la curiosità di vedere “dal vivo” quei monumenti, quelle opere d’arte, sublimi, impareggiabili. Presso biblioteche storiche e rinomate, come la Biblioteca Angelica e presso antiquari, seri e professionali e culnotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017 u13
tori anche dell’arte e del “bello”, che per anni hanno viaggiato in Europa alla loro ricerca, è possibile vedere questi album e questi raccoglitori “di ritagli del cuore, della memoria”. Allora attraverso questi oggetti, come anche i micro mosaici ed i gessi, si può prendere coscienza in modo tangibile e concreto di quel fenomeno del Grand Tour, che riguardò circa due secoli della vita sociale dei cittadini dell’Europa.
giornodella memoria
“L’isola delle scorie” 500 anni dall’istituzione del Ghetto di Venezia Per una volta usciamo dai confini geografici che ci siamo prefissati per gli argomenti del nostro notiziario e diamo un nostro contributo per il Giorno della memoria con questo interessante articolo di gianni ricci
Il 2016, appena terminato, è stato l’anno di anniversari, di centenari particolari ed importanti, nel campo della letteratura, della storia, della scienza e dell’arte: ricordo, i 400 anni dalla morte di Shakespeare, i 100 anni della battaglia di Verdun nella prima guerra mondiale, i 100 della teoria della relatività generale di Einstein, i 500 anni della nascita del pittore fiammingo Hjeronimus Bosch o i 100 anni dalla morte di Umberto Boccioni. Sono state tante occasioni per ricordare e riscoprire fatti e personaggi che hanno fatto la Storia. Ma proprio qui, in Italia, un anniversario
forse è passato un po’ sotto silenzio: quello della istituzione 500 anni fa del primo Ghetto al mondo, quello veneziano, il “Ghetto dei Ghetti” 1. Il 29 marzo 1516, “[…] che tutti li zudei […]debino andar immediate ad habitare unidi in la corte de case che sono in Geto […], siano facte do porte […] qual porte la matina se debino aprir a la marangona 2, et la sera siano serade ad hore XXIIII 3 per quattro custodi christiani […], essi custodi sian tenuti habitar in dicto loco zorni e notte […] deputar do barche, qual zorno e notte vadino a torno el prefato loco […]”, così deliberò il Senato della Repubblica di Venezia. Documenti veneziani hanno accertato l’esistenza già nel ‘400 di un “teren del Geto” (pronunciato in dia14 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017
letto veneziano, ghèto), all’interno del sestiere di Cannaregio, ad uso della fonderia pubblica del rame, un luogo dove venivano gettate le sue scorie, gli scarti metallurgici. Di fronte a questo spazio, con terre di riporto e scorie fu formata anche un’isoletta, denominata “Campo del Gheto novo”, con 25 case sul perimetro e 3 pozzi nel campo interno. Questa è l’isola assegnata nel 1516 agli Ebrei residenti a Venezia, dopo l’espulsione coatta degli altri abitanti dello stesso luogo. Nel tempo, il termine “Ghetto” da sito geografico localizzato ha assunto, in italiano, un significato mutevole ed ampio, ma sempre sostanzialmente legato all’idea di area urbana in cui gli abitanti vivono per coercizione po-
Campo del Gheto Novo, oggi
litica o culturale o sociale. Nelle città medievali e rinascimentali (come accadeva a Roma), tutti gli stranieri vivevano raccolti in case tra loro vicine o lungo una strada (ad es. Via Giulia a Roma, per i toscani) o in una area che essi stessi chiudevano. I quartieri o zone “nazionali” erano comuni in Europa, ma gli scambi economicosociali e culturali con i nativi venivano sempre avviati e consentiti. A Venezia, nel ‘500, però l’arrivo di tanti esuli ebrei italiani dalla terraferma, di tedeschi, di marrani dalla 1 Vedi, tra le lodevoli eccezioni, l’articolo “L’Epopea del Ghetto antico” nella Rivista “Touring” n. 04/2016. 2 Marangona. è il nome dato alla campana più grande del campanile di San Marco a Venezia, l’unica delle 5 campane ad essersi salvata dal crollo
Spagna e Portogallo e poi di Levantini dal vicino Oriente, fuggiti dai Musulmani, indusse il Senato a scegliere per loro quella scomoda e malsana “isola delle scorie”, perché situata in estrema periferia e soprattutto controllabile. L’isola, poi, si prestava a nascondere usi e costumi “diversi”, oltre all’imbarazzante commercio di denaro che i veneziani non rinunciavano a fare con gli ebrei. La Repubblica veneta mette in atto sì una strategia urbana di accoglienza, offerta di garanzie e protezione, ma, contemporaneamente, di sorveglianza
del 1902. è quella che segnava l’inizio e la fine della giornata lavorativa dei carpentieri dell’Arsenale chiamati marangoni ( falegnami). 3 Hore XXIIII: al tramonto del sole, secondo l’ora italica. 4 Sotto i portici del Campo, cioè la
più o meno rigida nei confronti non solo degli Ebrei ma anche di altre comunità nazionali, etniche e religiose, importanti per le proprie attività commerciali e finanziarie (tedeschi, greci ortodossi, turchi, persiani, ecc.), tutte minoranze economicamente “preziose” per la Serenissima. Alla istituzione e localizzazione del primo nucleo del Ghetto (il Gheto Novo, il più antico, 1516), segue poi la crescita e la disposizione urbana e architettonica delle successive espansioni (il Gheto Vechio, 1541, e il Novis- uu
piazza del Ghetto Nuovo, è visitabile uno dei 3 banchi di prestito su pegno autorizzati agli ebrei cioè il “Banco Rosso”, il più antico del mondo; le sue ricevute erano di colore rosso (per distinguerle da quelle del Banco “Nero” e quello “Verde”, che rilasciavano ri-
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cevute dai colori omonimi) e sembra che l’espressione “andare in rosso” abbia origine proprio dal colore delle ricevute rilasciate dal Banco Rosso di Venezia. La città, al contrario di tante altre, all’epoca era priva di “Monte di Pietà” cattolici.
giornodella memoria
Il primo nucleo del Ghetto di Venezia (disegno). Sotto, veduta aerea del Ghetto Nuovo
A sx in alto, i tre nuclei del Ghetto di Venezia, oggi evidenziati a colori nella mappa di Venezia di Jacopo de’ Barbari (dell’anno 1500). A sx in basso, la locandina della Mostra
uu simo,
1633); le relazioni con il resto della città rimangono sempre forti (le botteghe autorizzate agli ebrei di abiti usati - ma anche di arredamento, tappezzerie, arazzi e tappeti - al mercato di Rialto, in cambio di prestiti straordinari allo Stato; il cimitero al Lido; lo scavo del Canale degli Ebrei). Si impongono regole (ad es. il contrassegno di una “O”, una rotella gialla di stoffa cucita sul petto, poi la berretta gialla, poi il cappello rosso, ecc.), obblighi, divieti, permessi (di prestare denaro 4, di fare “la strazzarìa”, cioè raccogliere stracci e cose usate, l’esercizio solo della medicina e di alcune attività artigianali, ecc.), conflitti e scambi. Agli ebrei era comunque vietato possedere terreni e beni immobili. La comunità del Ghetto – che raggiungerà quasi le 5.000 persone - si andrà componendo con diverse mi-
cro-comunità (la tedesca, l’italiana, la levantina, la ponentina), differenti tra loro per rito religioso, lingua parlata, abitudini alimentari; diversa sarà anche la loro produzione culturale (letteratura, arte, musica). L’isolamento avvenne quindi con la concentrazione delle persone in una sola area urbana, l’eliminazione di passaggi e finestre verso l’esterno, con ponti e portoni controllati e chiusi la notte, con due barche di ronda nel canale di cinta, con l’obbligo di contrassegni umilianti, con spostamenti esterni al ghetto solo con specifici permessi. All’interno furono comunque allestite sinagoghe (ben 5, tutte con l’aspetto esterno dissimulato, come di normali case), scuole, servizi primari per la collettività, luoghi associativi. Il sovraffollamento costrinse le case a svilupparsi 16 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017
in altezza, produsse da subito edificitorri a più piani (fino a 8, molti per una città come Venezia), alzati fino ai limiti statici, soffitti interni alti anche solo un metro e 75 centimetri, alloggi minimi con cucine comuni, condizioni igieniche del tutto precarie. Queste furono le condizioni ultime del Ghetto che Napoleone riaprì alle città solo nel 1797, alla caduta della Repubblica, con l’eliminazione delle porte del Ghetto ed il falò delle stesse all’interno del Campo di Ghetto Nuovo. Dopo la riapertura, veloce fu il processo di assimilazione ed integrazione degli Ebrei e il loro accesso a tutte le professioni, alle cariche politiche, alla proprietà della casa - accessi da sempre negati -, di pari passo con il processo di modernizzazione della città tra ‘800 e ‘900. Oggi, la comunità ebraica veneziana conta
Ebreo e Nobile al Banco. Storia della presenza ebrea in città e costumi da Giovanni Grevembroch, “Gli abiti de veneziani, …”, seconda metà del ‘700
circa 450 membri, di cui appena 20 risiedono nel Ghetto. In quella che era allora la “città più cosmopolita d’Europa”, anzi “la prima città globale del mondo moderno”, la comunità del Ghetto seppe comunque sviluppare importanti forme di “rappresentanza collettiva” e di “solidarietà reciproca”: l’Università degli Ebrei si preoccupava della autogestione del quartiere (rifornimenti di derrate, acqua, rifiuti, illuminazione, servizi sociali, ecc.); nel ‘700 nel Ghetto sono attivi l’Ospedale dei poveri, la Scuola da Putti (per i bambini), la Fraterna (corrispondente alla confraternita cattolica) della Misericordia, quella dei Poveri e quella di Maritar Donzelle. Una vicenda di isolamento durata 300 anni, ma fatta anche di permeabilità, di relazioni e di scambi cul-
turali; una osmosi e commistione di conoscenze, saperi, abitudini che costituiscono ancora oggi un importante patrimonio sociale e culturale della Città e non solo. Dopo il caso veneziano, in altre città italiane gli Ebrei furono confinati in aree obbligate, spesso circondate da mura, chiamati “ghetti”, alcuni dei quali del resto adottarono il primo veneziano come modello fisico per la propria realizzazione. Nel 1555 Paolo IV Carafa ordinò la istituzione del Ghetto a Roma e nel 1570 papa Pio V Ghislieri chiese la creazione di ghetti per gli ebrei in tutti i centri della cristianità. Il termine oggi non può non ricordare le violenze delle leggi razziali, i rastrellamenti, la distruzione dei quartieri ebraici durante la Seconda Guerra Mondiale, la istituzione di notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017 u17
nuovi e più crudeli ghetti (quello di Varsavia - istituito dagli occupanti tedeschi nel periodo 1940-1943 - è stato il più grande ghetto d’Europa e della sua storia, arrivando a contenere fino a 500.000 persone): il campo del “ghetto” è giunto a diventare l’anticamera fisica e morale del campo di ”concentramento e sterminio”. L’Europa ha sicuramente oggi di fronte a sé una importante scelta: quella di evitare una nuova stagione di muri di cemento e barriere, di campi di filo spinato, quella di evitare il pericolo di un mondo costituito da “una costellazione di ghetti”. L’occasione per scrivere queste brevi notizie e considerazioni è scaturita dalla visita alla interessante mostra a Palazzo Ducale su “Venezia, gli Ebrei e l’Europa”, mostra che si è chiusa nel novembre scorso.
attivitàsul territorio
Programmazione iniziative dei Volontari di Roma
Pubblichiamo una nuova tabella aggiornata delle iniziative dei Volontari sul Territorio, che sostituisce quella già pubblicata nel numero precedente N.B. Le singole iniziative sono soggette a prenotazione; per ogni evento ogni Volontario riceverà un’email con l’indicazione dell’orario e delle modalità di prenotazione
Progetto “Grand Tour - Il viaggio a Roma” Febbraio - Maggio 2017
17 Febbraio ore 16
Conferenza “In viaggio verso Roma all’epoca del Grand Tour: esperienze, emozioni e imprevisti”
19 Febbraio ore 10
Passeggiata “Da Piazza del Popolo a Piazza Barberini: luoghi frequentati dai viaggiatori del Grand Tour”
25 Febbraio ore 16
Conferenza “Il Grand Tour e i suoi protagonisti” - Esposizione dei “taccuini di ricordi” della collezione “Antichità Grand Tour”
8 marzo ore 17
Conferenza “La modernità delle donne del Grand Tour”
19 marzo ore 10
Passeggiata “Dal Campidoglio al Colosseo: luoghi raccontati dai viaggiatori del Grand Tour”
2 aprile ore 10
Passeggiata “Dal Parco della Caffarella all’Appia Antica: luoghi raccontati dai viaggiatori del Grand Tour”
9 aprile ore 10
Passeggiata “Dal Velabro all’Isola Tiberina: luoghi raccontati dai viaggiatori del Grand Tour”
28 maggio ore 10
Passeggiata “Da Porta S. Paolo al Cimitero Acattolico (con visita): luoghi raccontati dai viaggiatori del Grand Tour”
Visite Esclusive
Febbraio - Maggio 2017 22 febbraio
Visita esclusiva riservata ai soci: Palazzo del Quirinale
12 marzo
Visita esclusiva riservata ai soci: Casa-museo dello scultore norvegese-americano Hendrik Christian Andersen
12 aprile
Visita esclusiva riservata ai soci: Palazzo del Quirinale
21 maggio
Visita esclusiva riservata ai soci: Museo Boncompagni Ludovisi per le Arti Decorative, il Costume e la Moda dei secoli XIX e XX
In Redazione: Alessia De Fabiani e Massimo Romano Grafica e impaginazione: Gianluca Rivolta Hanno collaborato a questo numero: Eugenia Napoleone, Elisa Bucci, Alessia De Fabiani, Massimo Marzano, Gianni Ricci SEGRETERIA ORGANIZZATIVA APERTI PER VOI ROMA: Via Spallanzani, 1 - Villa Torlonia - Roma Apertura: dal martedì al venerdì, dalle 9,30 alle 12,30 e dalle 14,30 alle 17,30 Tel.: 06 45548000 apertipervoi.roma@volontaritouring.it 18 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2017