Aperti per Voi_Notiziario n° 1/2021

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notiziario dei Volontari di Roma anno 6 - numero 1 - gennaio/febbraio 2021

nostalgia!

Gennaio/Febbraio 2021, notiziario 1 u1


Senza parole...

...un abbraccio a tutti i volontari!

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Ricostruzione fantastica dell’Isola Tiberina con il Tempio di Esculapio in età romana

ROMA ED IL TEVERE

NELL’ANTICHITà Capitolo ottavo

L’ISOLA TIBERINA E TRASTEVERE Gli antichi ritenevano che l’Isola Tiberina non fosse di origine remota, tanto che crearono la leggenda legata alla cacciata dei Tarquini avvenuta nel 509 a.C. quando i Romani gettarono nel fiume il grano dei loro terreni di Campo Marzio ed i covoni formarono l’isola. Oggi, invece, come abbiamo già detto, si è accertato che l’isola Tiberina ha un nucleo di roccia vulcanica su cui si è sovrapposta una massa alluvionale. A parte il mitico episodio del 509 a.C., però, di quest’isola nessuna fonte parla fino al 292 a.C., con l’arrivo del serpente di Esculapio. E dopo questa parentesi dovettero passare altri due secoli prima che le fonti citassero ancora l’isola. Come mai? Le ipotesi sono diverse, fra cui

Riprendiamo la storia del nostro fiume curata dal volontario Vittorio Gamba quella di Cesare D’Onofrio che pensa fosse un’isola privata, usata come magazzino per depositare il grano. L’utilizzazione dell’isola come luogo di culto risale, secondo una leggenda, al 292 a. C. quando i Romani, colpiti da una pestilenza, consultando i Libri Sibillini, seppero che bisognava inviare una delegazione al santuario di Epidauro. Gli ambasciatori, guidati da Quinto Ogulnio, recatisi sul posto, tornarono a Roma con un serpente, animale caro al dio. Questi, una volta giunto presso il porto Tiberino, scappò dalla nave e si rifugiò sull’isola. Ciò venne interpretato come una precisa volontà del dio Esculapio e quindi si diede inizio alla costruzione di un notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021 u3

santuario a lui dedicato, nella parte meridionale dell’isola, che ricalcherebbe esattamente la chiesa di San Bartolomeo, edificio che riutilizzerebbe, forse, le stesse colonne. Da quella data l’isola venne quindi destinata a zona ospedaliera ed accanto al tempio di Esculapio nacque una sorta di Asklepieion, come ad Epidauro, dove confluivano i malati della città. (Plutarco, 8). Probabilmente sull’isola esisteva già una fonte salutare (ancora oggi in funzione, forse una risorgiva del Tevere) ben prima dell’arrivo di Esculapio, la cui tradizione ci è pervenuta attraverso l’antichissima e singolare vera da pozzo (ricavata da rocchio di colonna romana) posta

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Ricostruzione fantastica della pianta dell’Isola Tiberina in età romana uu

sui gradini dell’altare di San Bartolomeo, elemento che manca nelle altre chiese cristiane, e che ci riporta alle origini pagane del luogo. In età imperiale qui confluivano gli schiavi malati inguaribili e l’imperatore Claudio decretò che i sopravvissuti potessero riacquistare la libertà. Ecco cosa ci dice Svetonio (Vita di Claudio, 25): “Alcuni cittadini esponevano nell’isola di Esculapio gli schiavi ammalati e infermi, per evitare di doverli curare, ed egli dichiarò che tutti coloro che fossero esposti in tal modo dovevano venire considerati liberti e quindi, in caso di guarigione, non sarebbero più stati sotto l’autorità del loro padrone; se qualcuno, poi, avesse ucciso il proprio schiavo invece di esporlo, sarebbe stato processato per omicidio”. Durante la costruzione dei muraglioni lungo il Tevere si rinvennero numerosi ex voto in terracotta policroma, spesso con rappresentazioni anatomiche, lasciati al dio della medicina in cambio di una guarigione. Si tratta di 480 pezzi, nonché molte basi in travertino, con scritte riferite ad Esculapio. Sono relativi al IV-II sec. a.C. ed erano deposti all’interno del santuario. Ogni volta che il loro numero diventava eccessivo, crean-

do intralcio alle attività religiose, si scavano fosse (favissae) per deporle. La topografia dell’isola, sicuramente delimitata da opere di contenimento in blocchi di tufo e travertino, e di cui restano oggi parziali resti del I sec. a.C. nel lato meridionale con la caratteristica prora di nave in travertino, non è mutata dall’antichità ad oggi. A forma di nave, bassa e allungata come un barcone da carico, è lunga 300 metri e larga 80. Ciò ha fatto nascere la leggenda che qui fosse rimasta sommersa una nave. In realtà fu costruita così a ricordo della nave di Ogulnio che portò il serpente, caro ad Esculapio, a Roma. Sul lato meridionale, dal lato di Ponte Fabricio, sono ben visibili i resti della copertura in travertino a forma di nave, che risalgono al I sec. a.C.: in particolare una testa di toro, che sulle navi serviva a fissare le gomene, ed il busto di Esculapio con bastone e serpente. Tale sistemazione fu forse contemporanea alla nascita dei ponti ma non è ancora ben acclarato se i resti visibili siano relativi alla prua od alla poppa della nave. L’isola è rappresentata con la scritta “Inter duos pontes” sulla Forma Urbis anche se solo dal 62 a.C. l’isola 4 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021

venne collegata con i ponti alla città. Un’unica strada, il Vicus Censorii, collegava i due ponti mentre secondo alcuni autori al centro vi era un piccolo obelisco egizio, proprio dove oggi c’è la guglia, a simboleggiare l‘albero della nave. L’obelisco sarebbe stato smontato nel ’500 ed i resti sono ora in parte a Napoli ed in parte in Germania, a Monaco. Altri studiosi, però, avanzano dubbi sulla presenza dell’obelisco. Nel giardino sono allineati alcuni reperti archeologici qui ritrovati, fra cui una base con dedica a Giove Dolicheno. All’estremità nord vi era una piccola isoletta che fino agli inizi dell’800 conservava resti delle banchine romane. Essa scomparve a fine ‘800, quando una parte venne ricongiunta alla riva sinistra verso l’estremità dell’attuale Ponte Garibaldi, mentre l’altra parte fu demolita per allargare il braccio sinistro del fiume. Nel tempo sull’isola sorsero, oltre al Tempio di Esculapio, altri edifici di culto: Il Tempio di Fauno fu innalzato sulla punta nord dell’isola nel 194 a.C. grazie alla pena pecuniaria comminata ad alcuni allevatori dagli edili

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Giacomo Lauro, Antiquate Urbis Splendor, 1610. Ricostruzione fantastica di una battaglia navale

della plebe. Era il dio dei campi ed un tempio posto in mezzo al fiume si spiegava perché: a) il fiume è sinonimo di fertilità dei campi; b) il fiume deve essere placato perché altrimenti durante le piene distrugge le messi; c) il fiume alimenta i mulini (già presenti all’epoca) per macinare il grano. Ovidio (Fasti II 193-4) ci ricorda che “alle Idi di febbraio [il 13] fuma l’altare dell’agreste Fauno là dove l’isola divide le acque tiberine”. Sotto la chiesa di San Giovanni Calabita, poi, vi era il Tempio di Iuppiter Iurarius che presiedeva alla sacralità ed indissolubilità dei giuramenti. Il rituale prevedeva che il giurante dovesse, pronunciando il giuramento, scagliare una pietra il cui tonfo simboleggiava il fragore della saetta scagliata da Giove a testimonianza e garanzia dell’atto. Nelle sue vicinanze doveva esserci anche il Tempio di Veiove (una sorta di Giove giovane), dedicato nel 194 a.C. Non sono, invece, localizzabili topograficamente i templi di Semo Sancus, divinità sabina, di Bellona Insulensis e di Tiberino. Sull’isola sono ambientate alcune vicende di martiri cristiani legate

ai templi ivi ospitati: S. Emidio, che gettò nel fiume la statua di Esculapio, e S. Eugenia, che con le sue preghiere provocò un terremoto causando la distruzione di un tempio di Diana non identificato. La riva di Trastevere era nota come ripa veiente e qui si accampò Porsenna, a capo delle truppe etrusche in quella guerra nota per le imprese di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia. Solo dopo la sconfitta di Veio i Romani cominciarono timidamente a occupare la zona di Trastevere, in particolare per l’esercizio di attività artigianali, commerciali e quelle legate alle esigenze portuali (scarico ed immagazzinamento delle merci). Per necessità sorsero così anche le relative povere abitazioni di questi operai. Successivamente, a Trastevere si stanziarono gli stranieri (principalmente siriani ed ebrei). L’area portuale si estendeva fra Ripa Grande e l’attuale Basilica di S. Cecilia. Più a nord ed a sud, invece, sorsero splendide ville con giardini che arrivavano fino al fiume. In età augustea Isola Tiberina e Trastevere fecero parte della stessa Regione. Anche in età imperiale Trastevere notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021 u5

venne scelto, fra i Romani, solo dai poveracci. I ricchi vi avevano ville ma non la residenza. I mercati delle merci maleodoranti (cuoio, pelli conciate, ecc.) si tenevano solo a Trastevere. Ce lo ricorda Giovenale (Satira - XIV) che sull’educazione dei figli da parte dei padri scrive: “Ma oggi, quando l’autunno è finito, il padre a gran voce sveglia, nel colmo della notte, il figlio supino: prendi le tavolette, scrivi, ragazzo, non dormire; studia cause, studia le leggi dei nostri avi, coi loro tioli rossi. Oppure chiedi con una lettera il distintivo della vite [dei centurioni] …Oppure, se ti rincresce di dover sopportare le lunghe fatiche del campo, e i corni e le trombe, col loro suono, ti sciolgono il ventre per lo spavento, procurati merci da rivendere con un buon cinquanta per cento di guadagno, e non sentir fastidio per quelle che si dovrebbero esporre solo al di là del Tevere: non far differenza fra i profumi e il cuoio, da qualunque cosa venga, l’odore del guadagno è sempre buono”. Naumachia. Con questo termine si indicavano sia i particolari edifici di spettacolo in cui si svolgevano battaglie navali, sia i combattimenti stessi. La più antica testimonianza attendibile risale a Svetonio in relazione a spettacoli offerti da Cesare in occasione del suo trionfo del 46 a.C. Per quanto ne sappiamo edifici atti ad ospitare tali spettacoli furono costruiti solo a Roma. Venivano scelte zone pianeggianti vicino al Tevere in cui si ricavava un profondo bacino che veniva riempito con l’acqua del fiume (dall’età imperiale anche con gli acquedotti). Un’apposita rete di cunicoli faceva affluire e defluire l’acqua. Le fonti ci tramandano che lo svuotamento di tali bacini era così perfetto ed avveniva così rapidamente che gli spettatori potevano aspettare per assistere, dopo i combattimenti navali, a spettacoli più terrestri, tipo venationes.

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Accessorio indispensabile era il grosso canale navigabile, con ponti mobili per evitare forme di ostacolo alla circolazione lungo le rive del Tevere, che doveva permettere l’accesso delle navi dal fiume (Plinio N.H. XVI 190, 200). Forse per ragioni economiche ed anche igieniche questo genere di edifici non ebbe la stessa fortuna di teatri ed anfiteatri e non esistono resti archeologici ma solo testimonianze letterarie. Di sicuro a Roma vi erano due naumachie, una al Vaticano e quella di Augusto a Trastevere. Di altre tre, poste in Campo Marzio, si hanno dei dubbi. Quella di Trastevere fu costruita da Augusto nel 2 a.C. per celebrare la dedica del tempio di Marte Ultore. Nell’inaugurazione si scontrarono 30 navi rostrate biremi e triremi e furono impegnati nei combattimenti, oltre ai rematori, tremila uomini. Il bacino, che aveva al centro un isolotto, era lungo 533 metri e largo 355. Funzionò almeno fino al III secolo. La religione romana usava costantemente il fiume quale sicuro mezzo purificatorio in virtù del quale attuare la rimozione di quanto era considerato nocivo all’equilibrio della comunità. Con la primavera si dava inizio ad una serie di giochi sul fiume che trovavano il loro momento più propizio nella calda estate. Vediamo le principali feste legate al Tevere: Il 15 marzo era dedicato alla Festa di Anna Perenna. In questa occasione il giubilo popolare rendeva omaggio al nuovo anno. Anna Perenna, infatti, era la prima dea del calendario e personificazione dell’anno nuovo che si perpetua perennemente. Non a caso la sua festa coincideva con l’arrivo della prima-

vera. In questa occasione si svolgeva una scampagnata sulla Flaminia al primo miglio da Roma, in riva al Tevere: la folla si sdraiava sui prati e passava la giornata fra canti, balli e bevute. E per chi voleva un po’ d’intimità si innalzavano tende. Ovidio ci racconta questi particolari: “Alle Idi ha luogo la gioiosa festa di Anna Perenna, non lontano dalle sue rive, Tevere forestiero. Il popolo vi giunge, si disperde sull’erba verde e beve; ciascuno si stende a fianco della sua compagna. Alcuni restano sotto il cielo aperto di Giove, altri montano tende, altri ancora provvedono a costruirsi con le fronde delle capanne verdi; e c’è chi pianta canne come fossero rigidi colonne, e vi distende sopra la toga. Ma ugualmente sole e vino li riscaldano; essi chiedono agli dèi di vivere ancora tanti anni quante sono le coppe che vuoteranno, e mentre bevono contano… Là si canta tutto ciò che si è appreso a teatro, e i gesti scandiscono con compiacenza le parole, attorno al cratere si intrecciano girotondi alla buona, e la giovane tutta agghindata balla con i capelli disciolti…” (Fasti III 522-540) Anche Marziale (Epigr. IV, 64) ricorda “… il bosco di Anna Perenna che inebriano, carichi di frutti, i sangui virginali”. Il Bosco Sacro era

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situato ai Parioli e resti della fonte a lei dedicata sono stati trovati sotto Piazza Euclide. Il 27 marzo si celebrava il rito della Lavatio Matris Deum (27 marzo): in questa occasione la pietra nera, simbolo aniconico della dea Cibele, veniva condotta in processione e lavata nel fiume, insieme ai coltelli sacrificali, nel punto in cui il fosso dell’Almone sfociava nel Tevere. Il 15 maggio era il giorno della solenne processione delle Vestali sul Ponte Sublicio, assistite dai Pontefici, con gli Argei, 27 fantocci di giunco (uno per ognuno dei Sacelli sparsi per la città e visitati in occasione della processione che si effettuava a marzo), con mani e piedi legati, e che venivano gettati nel Tevere. Gli antichi stessi in epoca storica, avendo dimenticato il significato originario del rito, e collegando il nome di Argei con Argivi (Greci più in genere), attribuirono la cerimonia a primitivi sacrifici umani di prigionieri, che si diceva Fauno avrebbe imposto agli Aborigeni in onore di Saturno e che poi Ercole avrebbe ingentilito, sostituendovi questo rito simbolico. L’immersione dei fantocci nell’acqua significava, inoltre, il rito di rianimazione e rinascita dello spirito vecchio (Argeo ha la stessa radice arg da cui deriva


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la parola arcaico) della vegetazione ed era eseguito anche per procurare la caduta della pioggia. Sarebbe quindi un rito espiatorio per celebrare la vegetazione dell’anno nuovo ed assieme la morte dello spirito vecchio delle piante. Per altri studiosi il rito, invece, era svolto per arginare le frequenti inondazioni. Oppure gli Argei simboleggiavano, a seconda delle versioni, gli ultrasessantenni, un tempo ritenuti ormai inutili e quindi sacrificabili, contribuendo, in tal modo, al rinnovamento del gruppo sociale; oppure i mitici compagni di Ercole morti ben prima della fondazione di Roma. In seguito il rito fu trasferito su Ponte Emilio, forse perché il Sublicio era diventato fatiscente. Il 7 giugno avevano luogo in Trastevere i Ludi Piscatorii ad opera dei pescatori locali, con gare di pesca alla lenza, presiedute dal pretore urbano, e che terminavano presso il Volcanal con una gigantesca frittura di pesce per tutti i partecipanti anche se, in teoria, si trattava di un sacrificio a Vulcano. Sembra poi che ci fossero anche gare di tuffi nel fiume. Il 24 giugno cadeva una delle quattro feste dedicate alla Fortuna. In particolare, questa era la “Fortuna di

ogni istante” ed era la più festeggiata perché coincideva con il solstizio estivo. In questa occasione i plebei (la festa era, in pratica, riservata alle classi meno ricche), con barche festanti facevano la “Tiberina Descensio” ed andavano presso il tempio della Fortuna situato a Trastevere negli Orti di Cesare; qui trascorrevano la giornata bevendo e mangiando sulle imbarcazioni piene di fiori che li avevano condotti lì. Il 23 luglio avevano luogo giochi in onore di Nettuno (Neptunalia); in questa occasione i romani si divertivano a costruire, con rami di lauro, legni e fiori, delle piccole casette lungo le rive del fiume. Il 17 agosto cadeva la festa del dio Giano Portumno, protettore dei porti - il cui Tempio a Roma era, come abbiamo visto, presso il Porto Tiberino - era chiamata Portunalia (o Tiberinalia). Non è chiaro se in tale occasione la festa si estendesse anche sull’Isola Tiberina. Il 23 agosto, infine, arrivavano i Volcanalia. In questa festività in onore del dio Vulcano si tenevano giochi al Circo Flaminio ma vi era l’usanza di vendere piccoli pesci da gettare poi vivi nel fuoco in onore del dio. Il ricavato serviva poi per finanziare i Ludi Piscatori del giugno successivo. La riva destra del Tevere di fronte a Campo Marzio era ricca di parchi e giardini, luoghi di convegno della buona società. Del resto, in quella zona le strade erano poche e per nulla trafficate (anche a Trastevere la vita si svolgeva tutta sul fiume e l’interno era molto tranquillo) PoiVolto di Vestale. Nella pagina accanto, Denario coniato da Gaio Annio nell’81 a.C., raffigurante Anna Perenna e la Vittoria su una quadriga (Wikipedia)

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ché si lavorava sulla riva sinistra del fiume, la sponda opposta era praticamente riservata al bel mondo. Stazio, descrivendo le rive del Tevere, evoca il fiume “chiuso tra giardini di piacere” (Silvae IV, 4,5). A fine Repubblica i proprietari dei giardini di questa zona erano ormai tutti dei grandi nomi della città, tanto è vero che lo stesso Cicerone cercò a tutti i costi di acquistarne uno per non essere da meno. I giardini erano quindi tutti privati e solo con la morte di Cesare i romani ebbero un parco pubblico liberamente frequentabile (gli Horti di Cesare, arricchito da laghetti), ma era troppo periferico e lontano e quindi fu poco apprezzato, preferendo la gente i luoghi più centrali che si andavano creando in Campo Marzio. E ciò è dimostrato dal fatto che non ci sono state tramandate notizie su questo giardino salvo Orazio (Sat. I, 9), quando lo cita per scoraggiare un seccatore. Molti di questi giardini privati scendevano in declivio verso il Tevere ed erano divisi in ripiani, con terrazzamenti che offrivano una vista magnifica. Erano luogo ideale per appuntamenti amorosi, ma venivano anche usati come fonte di riflessione e d’ispirazione oppure incontri per conversazione. I Romani godevano del fascino del fiume, dei loro giardini e del paesaggio come ci ricorda Properzio (I, XIV): “Mollemente allungato sulla riva del Tevere presso l’acqua, tu puoi bere i vini di Lesbo in una coppa di Mentore, ed ammirare ora la corsa delle veloci barche, ora la sfilata dei grossi battelli, così lenti all’estremità del loro cavo…” Fra le famose proprietà private Properzio (Elegie I, 14,1) ci parla degli Horti Volcaci Tulli, di proprietà di Volcazio Tullo, ricchi di alberi di grosse dimensioni. Una famosa villa, poi, possedeva Manio Aquilio Regolo, celebre avvocato che Marziale loda come

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uomo ricco e liberale mentre Plinio il Giovane detesta perché avido e delatore. Costui aveva una villa magnifica con un parco immenso e una sfilza di statue proprio in riva al fiume (Plinio il Giovane IV, 2, 5). Nel 1879 durante i lavori per la costruzione dei muraglioni, nei giardini della Farnesina, furono scoperti i resti di una villa dì età romana con splendidi affreschi molto ben conservati, nonostante le inondazioni millenarie (gli ambienti furono allagati per ben 5 volte solo nei 5 mesi di scavo). Inizialmente si pensò all’abitazione di Clodia, ma molto più probabilmente era la villa di Agrippa, costruita in occasione delle sue nozze con Giulia, figlia di Augusto. La proprietà passò poi ad Agrippina Maggiore (madre di Caligola) e quindi ad Agrippina Minore, nonna di Nerone. Questa villa aveva giardini che scendevano al fiume, dove una esedra a forma di teatro offriva ai bagnanti un comodo riparo. Anche se la villa sotto la Farnesina non era l’abitazione di Clodia, bisogna ricordare questa proprietà, gli Horti Clodiae, punto di ritrovo della società brillante e spregiudicata, dove venivano organizzati ricevimenti, orge e feste sull’acqua la cui fama è giunta fino a noi grazie soprattutto a Cicerone ed alla sua orazione Pro Caelio. Qui i giovani bene venivano a farsi una nuotata nel fiume e Clodia poteva ammirarli e scegliere quello che preferiva. Sembra che fossero i più bei giardini della riva destra, dopo quelli di Cesare. Clodia apparteneva alla più alta aristocrazia, e la sua era una delle famiglie più importanti di Roma (i Claudi). Una sorella aveva sposato un console, un’altra il celebre Lucullo mentre i fratelli furono uno console, un altro pretore, ed il terzo il famigerato Clodio. Colta ed amante della vita, Clodia sposò Cecilio Metello (cognato di Pompeo),

ma fu un matrimonio incolore che la rese ben presto vedova. Allora lei decise di voler conservare la propria indipendenza e libertà, senza risposarsi, e per i Romani divenne così, vista la giovane età, una cortigiana, unico modo per una donna dell’epoca di restare autonoma. Ma Clodia è anche la Lesbia cantata ed amata da Catullo. Si conobbero a Verona, dove il marito di Clodia, all’epoca giovane sposina ventenne, era stato nominato governatore mentre il padre di Catullo era un notabile locale. Catullo, innamoratosi pur sapendo che non era libera e nonostante avesse 10 anni più di lei, la seguì poi a Roma con la scusa di dover studiare. E’ il momento della fugace passione: “…Baciami mille volte e ancora cento / poi nuovamente mille e ancora cento / e dopo ancora mille e dopo cento, / e poi confonderemo le migliaia / tutte insieme per non saperle mai, / perché nessun maligno porti male / sapendo quanti sono i nostri baci”.

Ma a Roma Clodia non aveva alcuna intenzione di creare legami seri e Catullo ne rimase fortemente scottato: “Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile. Non lo so, ma è proprio così e mi crocifiggo”. Ed una volta divenuta vedova Clodia, per sbarazzarsi del poeta, gli dice che ama un altro uomo ed allora Catullo, deluso, tenta di vendicarsi: “…Io la saluto coi suoi mille amanti / che abbraccia tutti insieme ma nessuno / ama davvero e a tutti uno per volta / rompe la schiena.” Ma anche Cicerone era innamorato di Clodia ed ecco che, respinto, si scaglia contro di lei, anche se non fece mai il suo nome: “Ammettiamo che una donna senza marito abbia aperto la sua casa alle voglie di chiunque e si sia messa a condurre una vita mondana, che si sia data a frequentare i bagordi di uomini assolutamente estranei a lei, in città, in villa, in mezzo al gran mondo che pratica una località come Baia; ammettiamo che una donna si faccia giudicare per quello che è, non solo per come si muove o si abbiglia, per il genere di persone di cui si circonda, per l’ardore che mette negli sguardi e per la licenziosità dei discorsi, ma anche per quel suo baciare e abbracciare la gente, per il contegno che tiene sulle spiagge, per le gite in barca e per i banchetti ai quali partecipa; ammettiamo che una donna si comporti in modo da sembrare non solo una cortigiana, ma addirittura una cortigiana sfrontata e petulante; in breve, un giovane che sia stato con lei lo chiameremmo un adultero o non piuttosto un cliente? Diremo che ha voluto insidiare la castità o non piuttosto soddisfare le smanie di una femmina?” [Cicerone. Pro Marco Cestio 49-50] Cleopatra, scultura romana, Antikensammlung Museum, Berlino (Ph. by Sailko). Nel suo soggiorno romano dimorò in una villa negli Horti di Cesare, alle pendici del Gianicolo

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In epoca repubblicana i giovani romani ritenevano lo sport, tanto onorato dai Greci, inutile e disprezzato, a meno che non fosse finalizzato all’addestramento militare. Per questo si limitavano a praticare la scherma, il lancio del giavellotto, l’equitazione e la traversata a nuoto del Tevere. Plutarco, nella sua Vita Parallela dedicata a Marco Catone ci ricorda come lo stesso, che voleva insegnare personalmente al figlio tutto quello che c’era da sapere: “…si trasformò in maestro di grammatica, di diritto, di ginnastica ed insegnò al figlio la scherma, l’equitazione, perfino il pugilato, a resistere al caldo e al freddo, ad attraversare a nuoto agevolmente le onde vorticose e impetuose del Tevere…”. E la traversata a nuoto del fiume avveniva in qualsiasi stagione, come ci ricorda Orazio (Ep. I,11): “Come t’è parsa Chio, o Bullazio e Lesbo famosa e l’elegante Samo e Sardi sede di Creso e Smirne e Colofone? Tu che le hai visitate puoi sapere se rispondono ai nomi decantati. Oppure tutte insieme sono un niente a confronto del Tevere e del Campo Marzio? … Per chi ha l’animo sano Mitilene o Rodi possono giovare come un mantello d’estate o una camicia quando spira sui monti aria di neve, o bagnarsi nel Tevere d’inverno o stare al caminetto in pieno agosto”. Il nuoto era uno sport molto diffuso e quasi tutti i romani sapevano nuotare anche perché poi, d’estate, le spiagge dei centri mondani (Baia in primo luogo) erano affollatissime. Come dicevano i Greci (ma ciò valeva anche a Roma) i buoni a nulla “non sapevano né scrivere né nuotare” (Platone). Stupiva così molto, ad esempio, che l’imperatore Caligola non sapesse nuotare, pur avendo molte abilità personali; era, infatti,

Clodia da Promptuarium Iconum Insigniorum (Guillaume Rouillé 1553)

gladiatore, auriga, ballerino e schermidore (Svetonio Cal. 54). L’uso di fare bagni nel Tevere non andò perso neppure quando, in età imperiale, vennero costruite le grandiose Terme. In particolare la sfida più usuale era quella di attraversarlo nonostante le forti correnti, ed anche più volte di seguito, come raccomanda Orazio a chi soffre d’insonnia: “Tre volte attraversi il Tevere a nuoto, spalmato d’olio, chi vuol procurarsi un sonno profondo e alla sera imbeva il corpo di vino schietto”. (Orazio Sat. II) In realtà molti giovani, soprattutto quelli della buona società, lo facevano soprattutto per farsi notare: infatti, per nuotare sul Tevere, oltre a mostrare il proprio corpo, bisognava stare all’aperto e sotto il sole. E per i romani l’abbronzatura dava al volto un’austerità virile che piaceva molto all’aristocrazia ed agli ex combattenti. Il pallido, invece, denotava un uomo che passava la sua vita al chiuso, a banchettare e corteggiare le donne, e sapeva di effeminato. E notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021 u9

le donne sapevano bene tutto ciò, come ci ricorda Orazio (Carmi III, 7): “Bada, invece, tu che il vicino Enipeo non corra rischio di piacerti oltre il giusto, pur se un altro non può ammirarsi come lui capace di flettere cavalli a Campo Marzio e nessuno che sia di lui nel fiume Etrusco più veloce nuotatore”. E sul punto c’è anche Cicerone che, nello scagliarsi contro Clodia (Pro Caelio 15,36), come abbiamo già visto prima, ci racconta: “Tu hai adocchiato un giovinetto, tuo vicino di casa; il suo candore, la figura slanciata, il volto, gli occhi ti hanno colpita; l’hai voluto vedere più di frequente, ti sei talvolta trovata con lui nello stesso giardino; donna dell’alta società, ti sei proposta di avvincere a te, con le tue larghezze, questo figlio di famiglia dal padre avaro e spilorcio. Non ci riesci: egli recalcitra, non ne vuole sapere di te, ti rifiuta, non giudica che i tuoi doni valgano tanto. E cercatene un altro! Hai un giardino sul Tevere, e te lo sei adattato apposta in quel luogo perché tutta la gioventù di Roma ci venga col pretesto del nuoto. Eccoti dove tu puoi ogni giorno scegliere secondo il tuo gusto”. Non mancano, però, anche le prese in giro su chi si bagna al fiume. La famosa satira VI di Giovenale, sui difetti e le perversioni contro le donne ed in particolare le matrone romane, che eccedono in lusso e lussuria, ci ricorda le adepte di Iside che erano obbligate a riti assurdi: “In inverno, ella farà rompere il ghiaccio e si calerà nel fiume gelato; tre abluzioni farà di primo mattino nel Tevere, immergendo fin sopra ai capelli la testa tremante; poi, tremante, si trascinerà tutta nuda, sulle ginocchia insanguinate, per il campo, quant’è lungo, di Tarquinio il Superbo [Campo Marzio]”.


nobiltàromana

LA FAMIGLIA Palazzo Chigi…Largo Chigi…Villa Chigi… è un nome, Chigi, che torna spesso nei discorsi dei romani. Perciò, nel nostro girovagare tra le famiglie nobili romane, scopriamone le origini e la storia

DI ELENA CIPRIANI

I Chigi nascono, come altre famiglie che si trasferiranno a Roma, nella città di Siena, mercanti e poi banchieri che nel 1377 vengono già annoverati tra la nobiltà cittadina senese.

Alla fine del XV secolo li troviamo nel numero ristretto di banchieri che operano a Roma con la Curia Apostolica. E il più famoso ed importante tra di 10 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021

loro, tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500 fu senza dubbio Agostino Chigi (1466-1520), così in alto nella scala sociale del tempo da essere in grado di prestare grosse somme di denaro al pontefice Alessandro VI Borgia (finanziando le imprese del figlio Cesare), ai signori delle principali città italiane ed ai monarchi europei. Finanziò anche Giulio II della Rovere (1503-1513), che per riconoscenza permise alla famiglia Chigi di inserire nel loro stemma originario la quercia, simbolo della famiglia papale. Agostino riuscì a creare


un monopolio del commercio del sale nell’Italia centro-meridionale, prendendo in appalto le saline dello Stato Pontificio e del Regno di Napoli. Quando la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi

nel 1453 sottrasse alle industrie europee l’approvvigionamento dell’allume dell’Asia Minore, che serviva per l’industria tessile, creò un altro monopolio, appaltando le miniere di allume della Tolfa (scoperte nel 1462), di Agnano e di Ischia. Benché privo di una profonda cultura personale, fu tuttavia amante e sostenitore delle arti; nel 1513 aprì a Roma una tipografia da cui uscirono i primi testi greci stampati. Divenne uno dei maggiori mecenati del tempo e nel 1506 commissionò ad un giovane Baldassarre Peruzzi la costruzione di una villa sulla riva destra del fiume Tevere, che presto divenne uno dei luoghi più frequentati da artisti e uomini di potere dell’epoca. La villa, che all’epoca era detta semplicemente villa Chigi e che in seguito prese il nome di Farnesina, fu la prima villa nobiliare suburbana di Roma ed ebbe fin dall’inizio un grande risalto, venendo presto citata e imitata. Per la decorazione interna, effettuata a mamo a mano che i lavori della villa procedevano, Agostino Chigi chiamò i migliori artisti del tempo per eseguire cicli di affreschi secondo un programma iconografico interamente improntato alla classicità. A Raffaello venne commissionata la decorazione del pianterreno della villa; nella prima stanza ultimata,

oltre a dipinti di Baldassarre Peruzzi e di Sebastiano del Piombo, Raffaello raffigurerà “Il trionfo di Galatea”, mentre la loggia esterna verrà decorata con la favola di Amore e Psiche, a celebrazione della storia d’amore tra Agostino stesso e Francesca Ordeaschi, una bella e raffinata cortigiana veneziana, da cui ebbe cinque figli e che sposerà dopo anni di convivenza, con un matrimonio celebrato dal pontefice Leone X Medici (1513-1521), che ripetutamente aveva chiesto la regolarizzazione di questa unione. Quello tra Agostino Chigi e Francesca Ordeaschi rappresentò un matrimonio rivoluzionario: una donna dai trascorsi per l’epoca discutibili, era riuscita a sposare uno degli uomini più influenti del tempo, che, per amor suo, aveva persino mandato a monte le trattative di nozze con la nobile Margherita Gonzaga, il cui blasone avrebbe potuto portare ulteriore lustro alla famiglia Chigi. Agostino morì a Roma l’11 aprile 1520, pochi giorni dopo Raffaello, e venne sepolto nella chiesa di Santa Maria del Popolo, nella cappella di famiglia progettata da Raffaello stesso. Alla sua morte, il figlio Lorenzo dilapidò tutto il patrimonio paterno e nel 1579 il cardinale Alessandro

In apertura, da qualche mese la facciata di Palazzo Chigi è illuminata dal Tricolore. L’iniziativa, inaugurata in coincidenza con il 159° anniversario dell’Unità d’Italia, vuole rinsaldare i valori dell’unità, della responsabilità e della solidarietà, propri dell’intera comunità nazionale. L’impianto d’illuminazione artistica temporanea è stata realizzata da Enel (foto e testo tratti dal sito della Presidenza del Consiglio). Qui sopra, da sx, stemma originario dei Chigi. Stemma dei Chigi dopo l’unione con lo stemma dei Della Rovere. La villa vista dal fiume in una incisione di Giuseppe Vasi

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Qui sopra, da sx: tomba di Agostino Chigi a S. M. del Popolo. Giovan Battista Gaulli , ritratto di Alessandro VII Chigi, 1667 ca. Baltimora, Walters Art Museum.

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Farnese acquistò all’asta la Villa sul Tevere, che da allora fu chiamata Farnesina. Negli anni seguenti l’importanza della famiglia nella società romana diminuisce in poco tempo, fino alla seconda metà del XVII secolo, quando un altro Chigi, Fabio, viene creato cardinale e poi, nel 1655, eletto Papa con il nome di Alessandro VII. è uno dei Papi che più hanno lasciato il segno del loro passaggio, dando a Roma l’aspetto barocco che neanche Urbano VIII Barberini era riuscito ad imprimerle. Il primo infatti aveva puntato più sullo sfarzo privato, mentre il secondo su quello pubblico, servendosi degli artisti più in voga al tempo, come Gian Lorenzo Bernini, Pietro da Cortona, Carlo Maratta, Francesco Borromini, e altri. E le opere che arricchirono la città sono le meraviglie che ammiriamo ancora oggi: il colonnato di San Pietro, la Cattedra di San Pietro nella basilica, la Scala regia in Vaticano, Sant’Andrea al Quirinale, il restauro di S. Maria della Pace, la decorazione della galleria al piano nobile

del palazzo del Quirinale, la decorazione della cupola di San Carlo al Corso, la Biblioteca Alessandrina o Chigiana, le chiese gemelle di Piazza del Popolo. Durante la pestilenza del 1656, papa Alessandro VII agì con grande tempestività ed inflessibile vigore per arginare la diffusione del contagio a Roma e debellare l’epidemia che sarebbe giunta a mietere, in poco più di un anno, circa 160.000 vittime all’interno dei confini dello Stato pontificio, insediando la Congregazione di Sanità, deputata al controllo dello stato di salute della popolazione ed all’organizzazione dell’isolamento degli appestati e della repressione di disordini e abusi, che predispose una serie di misure particolarmente severe volte a prevenire l’espandersi incontrollato della pandemia, a cominciare dalla chiusura della maggior parte delle porte della città. “Tutti questi utili provvedimenti avevano per iscopo il fermo principio di Alessandro VII, onde vincere l’infezione, cioè la separazione de’ contaminati dai sani e risanare con buona cura gl’infetti.” 12 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021

(Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. LII, 1841). Fu proprio durante la pestilenza che Alessandro VII commissionò alla scuola di Pietro da Cortona la decorazione della galleria del piano nobile del palazzo del Quirinale, detta infatti Galleria di Alessandro VII. Alessandro VII fu il primo pontefice a soggiornare regolarmente, una volta in primavera e una volta in autunno, nel Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo. Con lui comincia a formarsi il grande patrimonio immobiliare che fece della famiglia Chigi una tra i maggiori proprietari terrieri dello stato Pontificio. Quando, nel 1661, i Savelli, che si trovavano in cattive condizioni economiche, furono costretti a vendere il feudo di Ariccia ai Chigi, Alessandro si impegnò in un importante intervento di restauro del borgo, avvalendosi della preziosa collaborazione del Bernini e del suo giovane assistente Carlo Fontana Il palazzo Chigi ad Ariccia è una fastosa residenza barocca, trasformata e riadattata dai due artisti; ha una ricca collezione di dipinti,


Palazzo Chigi ad Ariccia. Tomba di Alessandro VII in San Pietro. Palazzo Chigi, incisione di Giuseppe Vasi

sculture e arredi e nel 1962 Luchino Visconti vi ambientò gran parte del film “Il Gattopardo”. Nel 1988 è stato ceduto al Comune di Ariccia ed attualmente è museo e centro per svariate attività culturali. Alessandro VII morì a Roma il 22 maggio 1667. È sepolto nella Basilica di San Pietro, nella tomba realizzata dal suo artista prediletto, Gian Lorenzo Bernini. Nel 1659 un altro Agostino Chigi acquista dalla famiglia Aldobrandini un palazzo su piazza Colonna, risultato della unione di un gruppo di abitazioni, che sarà oggetto di varie ristrutturazioni ed ampliamenti, con lavori che proseguiranno nel settecento e nell’ottocento, diventando negli anni sede delle ambasciate del Belgio, del Regno di Sardegna, della Spagna, dell’Impero austro-ungarico, fino al 1916, quando fu venduto allo Stato Italiano. Divenne prima la sede del Ministero delle Colonie, poi del Ministero degli Esteri fino al 1961, quando venne trasferito al Palazzo della Farnesina e Palazzo Chigi diventò la sede del governo Italiano.

Nel 1763 il cardinale Flavio Chigi acquistò una serie di vigne non distanti dalla via Salaria, sulle colline che si affacciano sulla vallata dell’Aniene, una volta comprese nelle proprietà della famiglia degli Acilii Glabrioni (i cui sepolcri si trovano nelle catacombe di Santa Priscilla) fino al fosso di Sant’Agnese, nella località detta il Monte delle Gioie. Nel 1765 fece ristrutturare un casale rustico presente nella proprietà per adattarlo a residenza padronale e affidò i lavori all’architetto Tommaso Bianchi che realizzò un grazioso casino circondato da un giardino a pianta irregolare in parte coltivato all’inglese e in parte lasciato a viali e spiazzi liberi. La Villa rimase sostanzialmente inutilizzata per quasi tutto l’Ottocento. Nel secondo dopoguerra i Chigi vendettero tutta l’area agricola e il parco sottostante per realizzare costruzioni; il frazionamento della proprietà e il disinteresse dei proprietari per il palazzo avviarono il complesso a una veloce distruzione. Anche l’insieme degli arredi originari, dai mobili all’argenteria, conservatosi integro per quasi due secoli, venne venduto notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021 u13

dai Chigi e disperso. Alla fine degli anni ‘70 il Comune di Roma avviò un’azione espropriativa intesa ad assicurarsi almeno l’area del parco. L’edificio di Villa Chigi e l’annesso giardino all’italiana rimasero di proprietà privata, separati dalla parte pubblica del parco da una recinzione. Nel 2003 l’Amministrazione comunale ha realizzato i lavori di restauro del parco, con la riproposizione del disegno settecentesco. Oggi l’edificio della Villa è affidato in comodato alla comunità per il recupero dei tossicodipendenti. Vicino Roma, ai margini della pineta di Castel Fusano, ad Ostia, sorge un’altra Villa Chigi, meno conosciuta delle altre, perché fino a poco tempo fa inaccessibile al pubblico. Villa Chigi (detta anche Villa ChigiSacchetti) è una villa fortificata, costruita tra il 1624 e il 1629 per volere del cardinale Giulio Sacchetti (proprietario della tenuta di Castel Fusano) che affidò il progetto e la costruzione al pittore e architetto Pietro da Cortona (1596 - 1669). La decorazione interna, eseguita dal-

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la scuola di Pietro da Cortona, ha come soggetto principale il paesaggio naturale circostante. Nel 1755 la tenuta e il relativo castello vengono acquistati dalla Famiglia Chigi. Agli inizi del ‘900 Sigismondo Chigi fece estrarre i basoli antichi della via Severiana, la strada litoranea che congiungeva in epoca romana Ostia a Laurentum, (Tito Livio pone nel territorio di Laurentum il mitico luogo dove Enea sarebbe sbarcato con gli esuli troiani, vicino Lavinio) per essere utilizzati per lastricare il grande viale che dal Castello Chigi-Sacchetti conduce al mare, oggi denominato viale Mediterraneo. Agli inizi del Novecento, grazie anche all’opera dell’archeologo Rodolfo Lanciani, gran parte dei basoli vennero riposizionati sull’antico tracciato. Durante il Regno d’Italia, nel 1888, i Chigi, affittarono il castello a Re Umberto I. Nel 1932 il Governatorato di Roma espropriò mille ettari dei 2500 della tenuta per realizzare il quartiere dell’EUR. Altre porzioni della tenuta furono vendute per destinarle a coloni; su una parte di quei terreni sorgerà il quartiere dell’Infernetto, alle porte di Castelporziano. L’attuale proprietario del castello è il principe Flavio Chigi, nato nel 1975, che recentemente ha aperto le sale della villa per poche visite straordinarie. Nel ‘700 i Chigi diventarono famosi anche per l’allevamento dei cavalli “barberi” per le corse di Carnevale lungo via del Corso vincendo più volte tutte le gare. Il grande successo popolare costò migliaia di scudi di elargizione al popolo sotto forma di denaro, viveri e donazioni varie. Agli inizi dell’800 dovranno rinunciare alle giurisdizioni feudali, come tutte le grandi famiglie. Nel 1852 ereditano il cognome, lo stemma e i beni dell’estinta famiglia Albani e da allora il cognome diven-

terà Chigi Albani della Rovere. Tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 si aggrava la crisi finanziaria di tutta la nobiltà romana e quindi anche dei Chigi; nel 1917 lo Stato acquisterà il palazzo romano e la biblioteca Chigiana, che conteneva circa 26.000 opere a stampa di argomento storico, letterario e religioso, patrimonio del papa Alessandro VII.

La collezione verrà donata nel 1923 da Mussolini al papa Pio XI, per ammorbidirne la posizione verso il proprio governo. Attualmente la famiglia Chigi Albani della Rovere è rappresentata dal principe Mario III (1929), che vive nella villa di Castel Fusano (ma risiede fiscalmente in Romania!) e dal figlio, il principe Flavio (1975).

Villa Chigi a Castel Fusano in un dipinto del XVII secolo (da Wikipedia)

Casino di Villa Chigi, quartiere Trieste, Roma 14 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021


attivitàsul territorio

Proseguendo i percorsi illustrativi legati al tema dell’espansione urbana di Roma Capitale, vi raccontiamo la passeggiata in tre zone urbanistiche edificate nella periferia nord-est romana

PASSEGGIATA DEL 6 OTTOBRE 2019

Da “Città giardino Aniene”, attraverso Monte Sacro, alle borgate Tufello e Val Melaina

di b u l C territorio a cura di Elisa bucci

Console TCI - Coordinatrice del Club di territorio

DI SIMONETTA MARIANI Ci hanno accompagnato alla loro scoperta i volontari Mauro Belati, Raffaele Focarelli, Simonetta Mariani e, con la sua chitarra, Claudio Carlucci. La nostra passeggiata inizia a Piazza Sempione, “centro direzionale” del quartiere “Città Giardino Aniene” progettato dall’architetto Gustavo Giovannoni nel 1920. Il progetto, del tutto innovativo in Italia, ricalca le teorie urbanistiche di E. Howard sulle “Città Giardino”, nate con l’obiettivo di decongestionare le grandi città decentrando la popolazione in città satelliti immerse nel verde e autosufficienti. Per questo quartiere Giovannoni disegna un complesso urbanistico fatto di villini circondati da ampi giardini e un centro funzionale. La piazza, secondo il progetto originario, raccoglieva i servizi per i cittadini come uffici comunali, scuola, chiesa, cinema-teatro, ufficio postale, farmacia con annesso ambulatorio e negozi. La “Chiesa degli Angeli Custodi”, progettata dallo stesso Giovannoni e costruita fra il 1922 e il 1925, è in asse con Corso Sempione, Ponte Tazio e via Nomentana, unica arteria che congiunge il quartiere con il centro storico di Roma. La piazza è delimitata, sul lato nord, da due “fabbricati semintensivi”, entrambi progettati dall’architetto Innocenzo Sabbatini e collegati tra di loro attraverso un arco. Il fabbricato con torretta era destinato a uffici pubblici. Cerchiamo tra gli stucchi posti sopra ogni finestra un volto maschile: è il volto uu

notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021 u15

Piazza Sempione, fabbricato semintensivo (foto Mauro Belati)


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di b u l C territorio uu dello

stesso progettista che ha voluto così firmare la sua opera. Sul lato sud, troviamo un complesso di case economiche realizzato da Alfredo Energici (1925) che si articola in 52 alloggi e 46 botteghe. Gli ingressi, uno per lato, immettono in due corti interne di cui la maggiore costituisce uno spazio comune di grande fascino, tutt’ora percepibile nonostante l’elevato stato di degrado. Perché un quartiere progettato come “città giardino” ha anche case economiche o popolari?

Particolari del complesso “Monte Sacro 1” (foto Elisa Bucci)

La nascita di “Città Giardino Aniene” si concretizza su iniziativa di un consorzio tra Comune, Unione Edilizia Nazionale e Istituto Case Popolari ed è destinata al ceto medio dei dipendenti pubblici e dei professionisti. Con l’avvento del governo fascista “Città Giardino Aniene” cambia nome diventando Monte Sacro e il Governatorato di Roma affida la gestione di tutte le aree all’Istituto Fascista Case Popolari. Ciò comporterà una modifica al progetto di Giovannoni. Non sarà più costituito da solo “villini” immersi nel verde dei loro giardini, ma avremo anche “case popolari” e “palazzine” con più alloggi (offerte in affitto a riscatto) per consentire al nuovo quartiere di accogliere un maggior numero di abitanti. La gestione dello I.F.C.P. consentì l’affidamento di molti progetti ai più qualificati architetti operanti in quegli anni (come ad esempio Alessandro Limongelli, Massimo Piacentini, Vincenzo Fasolo) che segnarono la transizione dell’architettura romana dallo stile umbertino, ispirato al classicismo rinascimentale, al razionalismo, passando per il cosiddetto barocchetto romano, stile che caratterizza molti edifici di Città Giardino Aniene e della Garbatella. Gli interventi edilizi, spesso devastanti, del secondo dopoguerra, hanno completamente stravolto il tessuto urbano omogeneo del quartiere che difficilmente si riesce ad apprezzare oggi in quella che era la sua originaria configurazione. Proseguiamo alla scoperta della zona dirigendoci verso nord per raggiungere la parte più alta della collina. Arriviamo a piazza Monte Baldo di fronte all’imponente complesso della scuola elementare “Don Bosco” (tuttora in funzione) realizzata dallo I.F.C.P. nel 1930, mentre di fronte, su viale Adriatico 2, si apre con un grande arco l’ingresso principale di un interessantissimo complesso realizzato nel 1930 dall’architetto Camillo Palmerini, caratterizzato da appartamenti molto grandi ed eleganti (quattro camere, servizi e terrazzo) destinati, all’epoca, ad una utenza di maggior censo. La nostra passeggiata a questo punto ha nell’immaginario una colonna sonora che ci accompagna: sono le note delle canzoni di Rino Gaetano che ha vissuto nel quartiere, e qui, in un bar di piazza Monte Baldo, scrisse molte delle sue famose canzoni e per anni è stato omaggiato con un concerto in piazza Sempione. Continuiamo a camminare verso la parte più alta della collina. Sul lato che riscende ripido verso est, è presente ancora integro, il grande complesso abitativo “Monte Sacro I”, realizzato tra il 1924 ed il 1926 dal noto architetto Massimo Piacentini; il complesso è caratterizzato da una distribuzione di edifici intorno a zone verdi e limitato da un muro basso di confine. Giunti a Piazzale Adriatico, di fronte a noi troviamo quello che è sicuramente l’edificio più importante, sotto il profilo storico ed architettonico: la “Casa della Gioventù Italiana del Littorio di Monte Sacro” realizzata negli anni ‘30 dall’architetto Gaetano Minnucci. Come guide eccezionali per la visita del fabbricato abbiamo avuto 16 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021


l’arch. Barbara Paroli e l’arch. Gianbattista Reale docente presso la locale scuola media. L’edificio, svettava imponente con il bianco dei suoi marmi. La casa offriva numerosi servizi: campi sportivi, un teatro, una palestra, una piscina coperta ed una scoperta dotata di un elegante trampolino olimpionico in cemento armato (ancora visibile). La casa della G.I.L. di Monte Sacro era una delle più grandi ed importanti di Roma, progettata in puro stile razionalista italiano, ricca di soluzioni costruttive e tecnologiche all’avanguardia, con una estrema cura dei dettagli, personalmente curati dal progettista nel corso della realizzazione. L’opera purtroppo oggi si presenta in uno stato di conservazione assai precario e pesantemente alterata in molte sue parti, con scarse possibilità di recupero e restauro. La passeggiata è proseguita lungo via Monte Meta e via Monti Lepini, ovvero nella zona alta del Colle del Tufello. Indicate come vie di confine del quartiere Monte Sacro, fanno parte del progetto “zona a palazzine” che il Governatorato aveva inserito nell’area destinata a Città Giardino Aniene: questa zona fu costruita dopo il 1924 su progetto dell’architetto Massimo Piacentini e, come riporta la dicitura del fascicolo conservato presso l’Archivio Storico Capitolino, questi lotti vennero costruiti “per ospitare gli sfrattati” ovvero famiglie allontanate dal centro storico a causa degli sventramenti. Scendiamo lungo il colle del Tufello e attraversiamo i cortili dei caseggiati della omonima borgata realizzati nel 1939, secondo quanto previsto dal piano regolatore del 1931. Il progetto dell’ing. Pietro Sforza prevedeva una ventina di edifici con un impianto di tipo razionalista. I fabbricati, riuniti in gruppi di quattro, sono posizionati a pettine rispetto agli assi stradali; sono congiunti da una struttura edile ad un piano, dove sono presenti i negozi, che delimita, dal lato viario, i cortili interni tra le palazzine. L’uguaglianza degli edifici nell’estetica, nei materiali e nei colori, sono componenti tipiche delle realizzazioni nelle borgate dove il contenimento dei costi è un valore imprescindibile. Allo scoppio della seconda Guerra Mondiale, al Tufello, era in corso di costruzione solo un primo lotto, quello detto dei Francesi poiché qui furono alloggiati gli sfollati italiani provenienti dai domini francesi. Gli altri lotti furono costruiti dopo la guerra mantenendo il progetto iniziale di Sforza. Ed è proprio passando vicino agli edifici dei “Francesi” che non possiamo fare a meno di ricordare un’intervista di Gigi Proietti (letta da Claudio) nella quale racconta che: “…è proprio tra queste strade che cominciai da fanciullo a capire lo spirito del romanesco... Al Tufello c’era gente che veniva da ogni parte. Non posso dire che si parlasse romanesco; ma si romanizzava qualsiasi cosa, dai testi delle canzoni ai termini stranieri…” La nostra passeggiata continua lungo la discesa del colle fino a raggiungere via di Valle Melaina e, nella storia dell’urbanizzazione, ritornare agli anni ’30 quando si decise che in questa zona “dell’Agro Romano”, lontano dal centro abitato della capitale, sarebbe sorta la “borgata Val Melaina”. uu notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021 u17

Ex G.I.L., ieri (foto dal sito ArchiDiap)

Il trampolino oggi (foto Elisa Bucci)


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Tufello, cortile abitazioni a pettine (foto Elisa Bucci )

uu Cosa sono le borgate? A Roma, esisteva il grosso problema delle baraccopoli, costruite da quella popolazione che non si poteva permettere di pagare un affitto. Il governo fascista cercò allora di risolvere la situazione facendo progettare all’ I.F.C.P. degli insediamenti urbani alla estrema periferia della città, che verranno chiamati con il nome di “borgata” e adotteranno come soluzione urbanistica le proposte definite dal “III Congresso Internazionale di Architettura moderna di Bruxells” del 1930; in questa occasione i membri del congresso posero l’attenzione su una architettura di “case alte”, che avrebbe consentito di sfruttare i vantaggi economici offerti dalle nuove tecnologie e dai nuovi metodi costruttivi ed inoltre un considerevole risparmio relativamente a strade e servizi. Val Melaina è costituito da un primo vasto complesso di dieci fabbricati a sette piani congiunti e sviluppati intorno ad un grande cortile trapezoidale tenuto a giardino. A questo si è poi affiancato, qualche anno dopo intorno al 1938, un secondo complesso di otto palazzi più bassi posti a pettine. Questa diversa tipologia prelude alle realizzazioni delle costruzioni che abbiamo già visto al Tufello. E girando tra i lotti di Val Melaina è venuto spontaneo parlare del cinema italiano neorealista degli anni ‘50 che raccontò la situazione economica e morale degli Italiani proponendo come set cinematografici la realtà delle borgate; tra questi spicca “Ladri di biciclette” di Vittorio de Sica girato tra queste vie. La passeggiata è giunta al termine, siamo passati attraverso trent’anni di storia edilizia, abbiamo messo a confronto l’architettura pensata per un quartiere borghese e l’architettura economica e intensiva delle zone popolari e abbiamo potuto visitare il palazzo dell’ex GIL Monte Sacro accompagnati da due eccellenti esperti che tramite la loro approfondita conoscenza del luogo ci hanno permesso di immaginarlo in tutto il suo fascino architettonico. Ringraziamo tutti i nostri soci e amici che ci hanno accompagnato!

Val Melaina, cortile. A dx, il nostro gruppo (foto Elisa Bucci)

18 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021


Questa passeggiata, la seconda del ciclo sui Percorsi del gusto, ci ha portato attraverso due delle zone della città che maggiormente hanno influito nel creare e dare un carattere peculiare al cibo ed alla gastronomia di Roma

i del Percorsi Gusto

PASSEGGIATA DEL 20 OTTOBRE 2019

I percorsi del gusto. Trastevere e Ghetto DI VITTORIO GAMBA

Siamo andati, quindi, nel cuore dei luoghi dove è nata la cucina popolare romanesca e dove sono sorte le prime osterie che hanno fatto conoscere al mondo intero i tipici piatti della nostra cucina. Ma la passeggiata ha fornito lo spunto per parlare anche di storie di cibo ed aneddoti legati alla cultura alimentare della nostra città dall’epoca antica ad oggi. Così siamo partiti da Piazza Trilussa, che ci ricorda il celebre poeta romanesco legato ad uno dei grandi piatti della cucina popolare romana, il Lesso alla Picchiapò; per poi proseguire inoltrandoci nei vicoli di Trastevere, che ricordano l’ambiente ove prosperarono le celebri osterie romane. A metà ‘800 nella città vi erano, a fronte di meno di 180.000 abitanti (compresi religiosi, donne e bambini), oltre 700 osterie. La particolarità, rispetto alle altre città, era che qui i locali venivano tranquillamente frequentati dalle donne, come ci ricorda Antonio Bresciani nel suo “Edmondo o dei costumi del popolo romano” del 1866: “Voi vedrete in un’osteria seduti a desco talora vent’uomini e trenta donne, e le madri vi conducono le pulzellette e insino a’ bambini, che si staccano dalla poppa per dar loro un goccetto di vino”. Lungo il percorso abbiamo anche parlato delle trattorie più di moda ai tempi della Dolce Vita e frequentate dai divi di Hollywood: dall’Antica Pesa a Romolo a Porta Settimiana, da Checco er Carrettiere a Cencio la Parolaccia, da Carlone – una delle prime osterie di Trastevere dove in origine si veniva a bere portandosi, com’era uso, il cibo da casa – ar Pastarellaro presso San Crisogono. Particolarmente curiosi erano i nomi di alcuni di questi locali, legati a personaggi o fatti tipici: dall’Osteria degli uccelli in gabbia, guarda caso posta vicino al carcere di Regina Coeli, all’Osteria del Poverello, così chiamata perché gli avventori avevano scoperto che l’oste andava in giro per le strade di Roma a chiedere l’elemosina. E poi c’era l’Osteria del Pulciaro, il cui nome derivava dal fatto che il pavimento privo di mattonato era sporco e ciò favoriva il proliferare delle pulci; e la Locanda della Sciacquetta, dalla proprietaria che esercitava la prostituzione. Anche le chiese trasteverine sono spesso legate al cibo: a S. Dorotea da tempo immemore durante la sua festa si benedicono cesti ricolmi di frutta e adorni di fiori donati dal popolo trasteverino e da fiorai e fruttivendoli per vecchia consuetudine. Al termine della messa, poi, la frutta viene distribuita ai fedeli perché la mangino nelle avversità. Più o meno lo stesso avviene a Santa Maria dell’Orto, per secoli sede di corporazioni romane legate alla produzione e vendita di uu notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021 u19

I volontari alla partenza a piazza Trilussa

Lapide dell’Università dell’Ortolani del 1748 a Santa Maria dell’Orto


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L’Antico Caffè del Moro con l’antica insegna di fine ‘800. A dx, piazza Mastai con la fontana di Pio IX realizzata nel 1865 dall’architetto Andrea Busiri Vici

uu cibo (pollaroli, ortolani, fruttaroli, pizzicaroli, vignaroli). C’è poi

S. Maria di Trastevere e la sua fons olei o la sua antistante fontana, che versa l’Acqua Alsietina denigrata dalla nota pasquinata “Il miracolo è fatto, o Padre Santo / con l’acqua vostra che vi piace tanto / ma sarebbe il portento assai più lieto / se l’acqua la cangiaste in vin d’Orvieto”. Senza dimenticare San Pasquale di Baylon, che ricorda il santo che inventò lo zabaione. Ma la tipicità del rione si caratterizza anche per altri locali, sempre connessi al cibo ed alle bevande. Come non ricordare l’Antico Caffè del Moro con l’antica insegna di fine ‘800 che raffigura una scena della guerra d’Abissinia o la vicina Pasticceria Valzani, nata nel 1925 e celebre per la Sacher e per aver inventato la torta Nanà, in onore della famosa protagonista dello spogliarello che diede praticamente inizio al periodo della Dolce Vita. Tappa fondamentale della passeggiata è stata Via della Cisterna con l’omonima Osteria, forse il ristorante più antico di Trastevere, essendo citato già nel 1630. Qui si riuniva il gruppo de “I Romani della Cisterna” promossa da Ceccarius, al secolo Giuseppe Ceccarelli, ed al quale aderirono Jandolo, Munoz, Petrolini, Trilussa e tutti quelli che, a partire dagli anni ’30 del ‘900, con una sola parola si chiamarono “romanisti”, ad indicare un comune e appassionato amore per Roma al di sopra delle diversità culturali e politiche. Pare che proprio qui, davanti al pozzo che dà il nome al locale, Walt Disney immaginò la famosa scena del film Fantasia. Il vicolo in passato era anche il cuore dell’antica Festa de’ Noantri, nata ad opera di Mussolini nel 1927 sulle ceneri della seguitissima processione della Madonna del Carmine che se un tempo era celebre solo per le gigantesche bevute di vino che sfociavano spesso in risse collettive, col tempo si andò arricchendo di banchetti di porchetta, cocomero e dolciumi. Tanti sono i personaggi popolari che hanno reso celebre il rione. La friggitora Hortensia, con il suo banco in Piazza Mastai, accolta nell’Annuario diplomatico e statistico delle belle donne romane del 1874, e ricordata perché “frigge li polpi coll’Osservatore Romano e li calamaretti colla Voce della Verità, scoprendo due braccia che farebbero onore alle colonne d’Ercole, due spalle che servirebbero a Fidia e un petto degno di Prassitele. Non plus ultra. Ha nove figli misti ma suo 20 unotiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021


marito promette che farà concorrenza agli apostoli. E Pippo è uomo di parola”. Poi c’è un altro Pippo, Pippo Burone, con la sua storica osteria di Via della Gensola e celebre – ma in cucina c’era la moglie, la sora Vittoria - per il trionfo di gnocchi alla romana, le minestre col battuto, la coda di bue alla vaccinara, la trippa al sugo, lo stufatino ai carciofoli al tegame, il pasticcio di maccheroni e, per finire, la visciolata. “Volto largo e colorito, vestito molto sommario, maglia scollata e camicia sempre sbottonata e senza colletto, e sul capo la scoppoletta di Serge nero propria degli osti o dei carrettieri a vino. Era, e giustamente ci teneva, uno dei più grandi conoscitori di vini dei Castelli che siano mai esistiti. Prima di tutto per Pippo non esisteva altro vino che quello dei Castelli e nemmeno di tutti i Castelli: Grottaferrata, doveva essere, o Frascati, o Marino, basta; Albano, Montecomparti, Castello, Genzano, “Sì, nun c’è male, ma nun è quello che volemo noi”!...Ogni tanto armava er carettino e se n’andava in giro di investigazione, per le vigne, di tinello in tinello; assaggiava coscienziosamente centinaia di botti e ne sceglieva qualche decina, nelle varie sorti bianco, rosso, asciutto amaro, nocchioso, sulla vena, cannellino combinava il prezzo e dava la caparra. Allora il vignarolo scriveva sul piano della botte, col gesso, BURONE, e quella botte era sua in eterno, da caricarsi a sua volontà, quando ne avesse dato ordine al produttore con una cartolina.” E non dimentichiamo, per finire, la Sora Mirella e la sua Grattachecca sul Lungotevere degli Anguillara. Siamo così arrivati all’Isola Tiberina, che divide Trastevere dall’altro nucleo storico della cucina romana, il Ghetto. Ma anche sull’sola c’è da parlare di cibo, a partire dalla festa di San Bartolomeo con il suo trionfo dei cocomeri. Sempre Antonio Bresciani nel 1866 ci ricorda che “tutta la piazza e le vecchie spallette dei due ponti sono adobbate di cocomeri affettati, i quali brillano d’un rosso che vince il vermiglio de’ damaschi e la porpora tinta in grana. Gli scaffali delle fette costeggiano il convento de’ Frati Minori, e lungo le prode sono le mucchia de’ cocomeri interi, che sembrano i monticelli di bombe sullo spianato d’una piazza forte. Chi li picchia per udire se son pieni; chi li fa tagliare per vedere se sono infocati; chi ne gusta un trincetto per sentire se son saporosi, e poi seggono alle uu notiziario 1, Gennaio/Febbraio 2021 u21

Sopra, a sx, il vice-console Massimo Marzano illustra come doveva essere l’Isola Tiberina in epoca romana, mostrando una ricostruzione fantastica con il Tempio di Esculapio. A dx, il Portico d’Ottavia


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Il nostro gruppo

e di’, bocca mia, che delizia! Anche costì, già s’intende, girano i fiaschi, e dee esser del buono, altrimenti rischiasi una indigestione. Purtroppo fino a metà 800 la festa si accompagnava a giochi molto rischiosi. La gente acquistava cocomeri interi e li gettava nel fiume di modo che frotte di ragazzi si gettassero in acqua tuffandosi dai ponti per recuperarli. E non erano rari i casi di incidenti, anche mortali, per la bassa profondità delle acque o per i continui mulinelli. Per questo venne poi proibita. Anche parlando dell’Ospedale Fatebenefratelli c’è da dire sul cibo: dalla medicinale zuppa di vino, che i medici dovevano sempre assaggiare per verificare che i cantinieri che la preparavano non l’annacquassero; al fagotto che i parenti portavano ai malati, con cibi non certo adatti a convalescenti, quali pollo arrosto, lonzetta d’agnello, quarto di gallinaccio, e perciò subito sequestrati dalle suore. Il sottostante Tevere invita poi a parlare del pesce, a partire dal preferito dai romani, la ciriola o anguilla. Ma, fatti pochi passi, eccoci a S. Angelo in Pescheria, che prende nome dal fatto che qui per sette secoli, dalla fine del XII alla fine del XIX secolo ci fu il più importante mercato del pesce della città. La storia ed il consumo del pesce a Roma, dall’epoca romana, quando il pesce più buono era pescato proprio allo sbocco della Cloaca Massima (sic!) alla prima metà del ‘900, con il celebre cottìo che richiamava la notte prima della vigilia di Natale anche tutti i turisti, nobili o borghesi, presenti in città, è molto complessa e varia e necessiterà di un articolo a parte. Ma il circostante Ghetto ci rimanda subito al mondo ebraico ed alle sue contaminazioni che portarono alla nascita della cosiddetta cucina ebraico-romanesca così caratteristica ed ancora oggi presente in città.

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Melanzane e spinaci, carne d’oca, alici e sardine, erano fra gli alimenti preferiti dalla comunità ebraica, che è riuscita ad introdurre nella tradizione romana raffinati piatti come i fritti (come i fiori di zucchina farciti con mozzarella e alici, ed i filetti di baccalà), indivia con alici, risotto di Shabbat (con uvetta, mirtilli, mandorle, pistacchi e spezie varie), il pane a forma di treccia, le coppiette di carne secca. I suoi emblemi sono però, senza dubbio, il carciofo, soprattutto quello alla giudìa, e la crostata di ricotta e visciole. Quest’ultima secondo la leggenda sarebbe nata nel corso del Settecento in seguito agli editti papali che vietavano il commercio dei latticini agli ebrei, i quali pensarono così di nascondere la ricotta tra due strati di pasta frolla e coprire il tutto con la confettura. Il carciofo, invece, veniva mangiato in particolar modo nel periodo della ricorrenza di Kippur. Dopo avere passato 24 ore di digiuno totale, gli Ebrei solitamente mangiavano i carciofi, che per questo motivo furono chiamati “alla giudìa”. A Roma si instaurò sin dal Rinascimento il culto per i carciofi, e quando a marzo cominciava la stagione in cui arrivavano in abbondanza - non a caso erano il prodotto più pregiato della campagna romana - si svolgeva a Roma la carciofolata, una sagra caratterizzata da grande allegria e spensieratezza grazie alle abbondanti libagioni che ne seguivano. Ma forse a Roma questa verdura prese piede anche perché aveva fama di afrodisiaco, come dimostrano vari autori: “La polpa dei carciofi cotta nel brodo di carne si mangia con pepe nella fine delle mense e con galanga per aumentare i venerei appetiti” (Mattioli - Discorsi – 1568); “Servono alla gola e volentieri a quelli che dilettano da servire a madonna Venere” (Costanzo Felici - Dell’insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo dell’homo - seconda metà del ‘500). E così la passeggiata termina a Via Monte de’ Cenci, dove sorge Piperno, forse il più caratteristico e antico luogo di ristorazione nel Ghetto, nato intorno al 1860 come modesta osteria romana, arredata alla buona con panche e tavole, dove si poteva bere vino genuino e gustare un piatto di spaghetti nonché quei filetti di baccalà e carciofi che son tuttora il vanto di questo locale.

Questa pubblicazione on-line, riservata ai volontari del Touring Club Italiano, è nata e vive esclusivamente con il contributo dei volontari stessi che, liberamente e a titolo gratuito, condividono con la redazione il frutto delle loro conoscenze. Volontari sono anche coloro che svolgendo tutte quelle attività “tecniche” come il coordinamento redazionale e l’impaginazione decidono la stesura finale del Notiziario.

In Redazione: Elisa Bucci, Alberto Castagnoli, Massimo Marzano, Massimo Romano Coordinamento editoriale: Massimo Romano Progetto grafico e impaginazione: Gianluca Rivolta Hanno collaborato a questo numero: Vittorio Gamba, Elena Cipriani, Elisa Bucci, Simonetta Mariani

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SEGRETERIA ORGANIZZATIVA APERTI PER VOI ROMA: Piazza Santi Apostoli, 62/65 Apertura dedicata ai volontari dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 13.00. Tel. 06.36005281-3” apertipervoi.roma@volontaritouring.it


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