notiziario dei Volontari di Roma anno 5 - numero 2 - marzo/aprile 2020
Marzo/Aprile 2020, notiziario 2 u1
“Insieme, ce la possiamo fare” di Massimo Marzano
Il 15 marzo 2020, a Roma, è accaduto un fatto inconsueto e sorprendente: nel pomeriggio Papa Francesco ha lasciato il Vaticano in forma privata e si è recato in visita alla Basilica di Santa Maria Maggiore, per rivolgere una preghiera
alla Vergine, Salus populi Romani, la cui icona è lì custodita e venerata e successivamente, facendo un tratto di Via del Corso a piedi, come in pellegrinaggio, ha raggiunto la chiesa di San Marcello al Corso, dove si trova il Crocifisso miracoloso. Senza dubbio questa persona, di una certa età, che nel suo abito bianco, ondeggiando con il suo corpo claudicante, a piccoli e cadenzati passi, avanzava come un pellegrino qualsiasi, solitario, in una quasi deserta via del Corso, rimane un’immagine potente di come la fede possa, ancora oggi, mettersi a fianco della scienza per dare conforto e speranza agli uomini. Solo per via del Corso, solo dentro la chiesa di S. Marcello, solo davanti al Crocifisso, ma con milioni di uomini e donne che stavano intorno a lui e con lui. Era andato nella chiesa di S. Marcello, perché lì si trova un crocifisso ligneo quattrocentesco, di scuola senese, al quale i romani attribuiscono vari miracoli. Il primo
risale al 1519 quando nella notte del 23 maggio un incendio distrusse la chiesa. Nella chiesa, ridotta in macerie, fra le rovine ancora fumanti, apparve integro il crocifisso dell’altare maggiore, ai piedi del quale ardeva ancora una piccola lampada ad olio. Un altro episodio miracoloso risale al 1522 quando una grave pestilenza colpì Roma. I romani, ricordandosi del miracolo del 1519, decisero di portare in processione il crocifisso dalla chiesa di San Marcello alla basilica di San Pietro. La processione durò ben 16 giorni: dal 4 al 20 Agosto del 1522. Man mano che si procedeva, la peste dava segni di netta regressione, e dunque ogni quartiere cercava di trattenere il crocifisso il più a lungo possibile. Al termine, quando rientrò in San Marcello, la peste era del tutto cessata: Roma, ancora una volta, era salva. Ora il Crocifisso ed il Papa si sono conosciuti, si sono amati ed hanno deciso di incontrarsi di nuovo. Il 27 marzo, sotto una pioggia insistente e continua, in una serata, carica di preoccupazioni e di angosce, tra le tenebre inquietanti della sera e le ombre delle statue degli apostoli e dei santi, che si allungavano sulla piazza, in un silenzio impressionante ed in un’atmosfera sospesa e tesa, si sono incontrati di nuovo sul sagrato della basilica di S. Pietro, per la preghiera comune per implorare la fine della pandemia. Dopo vent’anni, quando Giovanni Paolo II l’aveva voluto nella Basilica
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Vaticana per la Giornata del perdono il Crocifisso ritornava a S. Pietro. Papa Francesco, ben consapevole del momento, sussurra in modo accorato: “Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi”. Sul volto del Papa e sul corpo del Cristo in croce si vedono i profondi segni e le marcate lacerazioni, provocati dall’accavallarsi di notizie strazianti e drammatiche da tutto il mondo. Il Papa continua a fatica con voce spezzata:”…è arrivato il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è…rendersi conto di come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non
compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermieri e infermiere, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo”. L’Icona miracolosa Salus Populi Romani, della Madonna di S. Maria Maggiore, altra immagine molto venerata dai romani, è presente sulla piazza e sembra che ripeta agli apostoli, “Andate con gioia, perché io sarò con voi”. Anche Lei è sempre presente in queste cerimonie liturgiche della Settimana Santa. Ed ecco che tra il possente colonnato del Bernini si materializzano milioni di telespettatori, molte persone attonite e preoccupate, i medici, gli infermieri, i sacerdoti, i militari con i camion che trasportano le bare, le forze dell’ordine, i volontari, tutti i lavoratori impegnati a fornire sostegno alle necessità ed ai bisogni, i migranti che fuggono dalla guerra, dalla violenza, i reietti della società che trascinano a stento la loro vita, piena di disagi, di sofferenze, di vicissitudini drammatiche. Il Crocifisso ed il Papa con tutte le forze che riescono a tirar fuori chiedono per tutti e, soprattutto per i familiari e gli amici di quelli che non ce l’hanno fatta, consolazione e conforto. Allora è tutto chiaro. “Ce la faremo” non è più una speranza, ma è un traguardo che è possibile raggiungere, se ci ridestiamo di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, se ascoltiamo il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato, se non proseguiamo imperterriti, “avidi di guadagno”, “pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”. Dipende da noi.
Queste foto e quella della copertina sono tratte dal sito “Vatican News”
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nobiltàromana
Nella città di Roma, la nobiltà fu una classe sociale privilegiata, dall’epoca medievale sino alla fine dello Stato Pontificio. Venne poi ufficialmente integrata nel 1870 al Regno d’Italia, anche se una parte dell’aristocrazia romana (la cosiddetta “Nobiltà nera”) decise di continuare a rimanere fedele al Pontefice durante gli anni di opposizione tra il Papato e lo Stato Italiano
© MASSIMO ROMANO
Di Elena Cipriani
La saga delle grandi
famiglie
romane 4 unotiziario 2, Marzo/Aprile 2020
La nobiltà romana è suddivisibile in quattro macro-categorie: Famiglie papali, le famiglie che sono divenute nobili per aver avuto uno o più papi in famiglia; Famiglie principesche, le più alte ed influenti famiglie della nobiltà romana, tutte col rango di principe, molto spesso derivanti dalle antiche famiglie baronali romane che ebbero grande influenza nel medioevo; Famiglie nobili o feudatarie, le famiglie della nobiltà romana, appartenenti al patriziato dell’Urbe, che spesso ricoprivano la carica di conservatori ed avevano ruoli di dignitari nella Corte pontificia; Patrizi Sabini, le famiglie riconosciute nei territori del Lazio, spesso coincidenti con le stesse famiglie che avevano raggiunto nei rami primogeniti il rango principesco. La situazione della nobiltà romana rimane difficile da definire almeno sino al X secolo, quando iniziano a delinearsi alcune famiglie particolarmente rilevanti che si inseriscono nella lotta per l’elezione dei pontefici in periodo altomedievale, tra cui i Teofilatto, i Crescenzi ed i Conti di Tu-
scolo, con una notevole influenza anche di donne al comando, come la celebre Marozia, che è tra le prime ad ottenere notevoli titoli e possedimenti nell’ambito della storia dello Stato della Chiesa. In questi piccoli resoconti, cercherò di raccontare la storia e le curiosità delle più famose famiglie romane, delle quali sicuramente, girovagando per le vie di Roma, vediamo testimonianze che a volte non riconosciamo o di cui ci sfugge l’origine. Iniziamo il nostro racconto con le famiglie dei Conti e dei Savelli. Famiglia conti La famiglia Conti, o meglio, Conti di Segni, si inserisce nel nucleo delle famiglie nobili romane tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII. Insieme ai Colonna, agli Orsini, agli Annibaldi, ai Caetani, ai Savelli, costituiscono il vertice della società romana. I Conti di Segni provenivano da una delle famiglie dell’antica nobiltà feudale del contado e si insediano a Roma nel XII secolo; con la costruzione delle torri di famiglia, la Tor de’ Conti (odierno Largo Corrado Ricci) e la Torre delle Milizie, controllano il passaggio dall’area abitata dal Laterano alla campagna. Entrambe furono costruite alla fine del XII secolo su commissione del Papa Innocenzo III (11981215), al secolo Lotario de’ Conti, per consacrare la potenza familiare. La Torre de’ Conti fu eretta sopra la struttura quadrata di una delle quattro esedre del portico del Tempio della Pace. In seguito fu rivestita di lastre di travertino provenienti dai Fori, lastre successivamente asportate per essere utilizzate per la costruzione di Porta Pia.
Sopra, Tor de’ Conti. Sotto, Torre delle Milizie. In apertura, lo stemma dei Barberini in una targa sulle Mura Aureliane
Il Papa Innocenzo III fu colui che approvò la Regola Francescana, avendo capito che, per l’insoddisfazione e i problemi di tutti i giorni, i ceti più umili erano facile preda dei predicatori, i quali senza molte difficoltà potevano diffondere movimenti ereticali in ampie fette della popolanotiziario 2, Marzo/Aprile 2020 u5
zione. Innocenzo fu il primo a cambiare il tradizionale sospetto verso gli ordini popolari, iniziando una strategia di favore verso quelli che non mettevano in discussione l’autorità gerarchica ecclesiastica. Sempre nei primi decenni del XIII secolo molti esponenti della famiglia Conti vengono creati cardinali, e altri due vengono eletti Papi: Gregorio IX, al secolo Ugolino dei Conti di Segni (1227-1241) e Alessandro IV, al secolo Rinaldo (1254-1261). La famiglia si divide nel corso dei secoli in vari rami, Segni, Valmontone, Poli e Guadagnolo, ricoprendo però sempre alti gradi ecclesiastici nella Curia Romana e massime cariche nel Comune di Roma; sono uomini d’arme che aumentano il loro patrimonio con feudi e proventi di conquiste militari. Il ramo Poli arriva al titolo ducale, continuando a fornire condottieri, duchi, cardinali ed un altro Papa: Innocenzo XIII, al secolo Marcello dei Conti (1721-1724). E’ intorno a questi anni che la famiglia acquisisce il palazzo Poli, grazie al matrimonio tra Giuseppe Lotario, fratello del Papa, e Lucrezia Colonna, proprietaria del palazzo.Nel 1732 il palazzo diventa lo sfondo della mostra dell’acquedotto Vergine, cioè della Fontana di Trevi. La famiglia, con tutti i suoi rami derivati, si ritiene estinta nel 1808.
Famiglia Savelli Le origini della famiglia si perdono nella leggenda; i Sabelli erano una delle tribù laziali che contribuirono alla formazione di Roma e si narra fossero discendenti da Aventino, re degli Albani, alleato di re Latino contro Enea. Secondo alcuni genealogisti, erano della famiglia Sabelli o Savelli i papi San Benedetto II e San Grego-
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uu rio II, vissuti tra il VII e l’VIII secolo,
il martire sardo San Gavino, nonché il Papa Eugenio II (IX secolo). Con il declino dei conti di Tuscolo, dall’inizio del XIII secolo i territori dei Castelli Romani furono teatro di sanguinosi scontri tra potenti famiglie baronali come i Frangipane, gli Annibaldi, gli Orsini, i Colonna e i Savelli, per l’egemonia su un’area di grande interesse strategico per il controllo di Roma e del Lazio meridionale. I Savelli ne uscirono vincitori, insieme ai Colonna, e alla fine del XIII secolo vantavano un vasto dominio che si articolava principalmente a sud di Roma ma con roccaforti anche a settentrione e a oriente secondo un ambizioso progetto di espansione. Lungo la via Appia possedevano Castel Savello, Castel Gandolfo, Castel di Leva, Faiola, in Sabina i castra di Palombara, Monteverde e Castiglione e, sulla destra del Tevere, a nord di Roma, Turrita e Versano. Le grandi fortune della famiglia sono dovute principalmente al nipote di Onorio III, Luca Savelli (sec. XIII) che fu senatore di Roma. Alla
morte dello zio pontefice, Luca non esitò a parteggiare per Federico II contro il nuovo Papa Gregorio IX. La disinvolta scelta di campo operata da Luca Savelli fruttò alla famiglia diversi benefici materiali, fra cui alcuni feudi sabini. Fu il primo maresciallo di Santa Romana Chiesa a partire dal 1270 o dal 1274. Nel giro di una generazione un nuovo Savelli salì al soglio pontificio, Giacomo figlio di Luca e di Vanna Aldobrandeschi, che prese il nome di Onorio IV (1285-1287). Sotto il suo pontificato, Roma e lo Stato della Chiesa godettero di un periodo di tranquillità come non accadeva da diversi anni. Grazie ad alleanze matrimoniali, alla famiglia Savelli vengono concessi onori che diventeranno ereditari, come Maresciallo di Sacra Romana Chiesa e di Custode Permanente del Conclave. La loro presenza in città è fondamentale per i loro insediamenti: sull’Aventino, accanto a Santa Sabina, fino all’attuale via Marmorata e dal rione Ripa fino al rione Regola con l’attuale Teatro di Marcello (Monte Savello); in questo modo
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controllavano i passaggi sul Tevere attraverso il Ponte Santa Maria (attuale ponte rotto) e l’isola Tiberina. Inoltre , ai Savelli, per diritto ereditario, fino al tempo di Innocenzo X Pamphilj (1644-1655), spetta l’esercizio della giustizia urbana nel tribunale divenuto famoso come la Curia dei Savelli o Corte Savella, oggi scomparsa, che era situata nell’odierna via di Monserrato. Per molte generazioni gli eredi di Onorio IV continuarono a dare lustro alla famiglia e ad aumentarne i possedimenti a Roma e nel Lazio. Nel 1368 acquistarono dai Pierleoni la fortificazione costruita sul Teatro di Marcello, poi nota come Monte Savello che fecero ricostruire su progetto di Baldassarre Peruzzi all’inizio del XVI secolo. L’edificio fu poi riedificato di nuovo dai nuovi proprietari, gli Orsini, che lo acquistarono nel 1729. Un esponente della famiglia, Massimiliano Savelli (di) Palombara, marchese di Pietraforte (1614–1685), fu alchimista e poeta e fece costruire la famosa Porta Magica di Roma,
unica testimonianza di architettura alchemico-magica del mondo occidentale ancora oggi esistente. Gentiluomo ed amico della regina Cristina di Svezia sin dal suo primo soggiorno romano nel 1655-56, condivideva con la sovrana la grande passione per l’alchimia e la poesia, come documentato da una serie di
poesie manoscritte che il Palombara dedicò ed inviò alla regina di Svezia che poi questa, alla sua morte, lasciò alla Biblioteca Apostolica vaticana. La famiglia si estinse con Giulio Savelli di Palombara e di Albano, morto il 5 marzo 1712, a cui per via ereditaria erano confluiti la maggior parte dei titoli e beni degli altri rami
man mano estinti. Il patrimonio familiare, a seguito di matrimoni, confluisce in quello del Duca Cesarini Sforza, mentre la carica di Maresciallo di S.R.C. passerà alla famiglia Chigi. Nel 1898, la guardia palatina Lorenzo Savelli, discendente di un ramo cadetto, aprì un attività finalizzata al commercio di oggetti d’arte sacra nel cortile di Santa Marta, proprio all’interno del Vaticano. Il grande afflusso di pellegrini che solo due anni dopo richiamerà il Giubileo del 1900, il primo dopo la caduta dello Stato pontificio e l’avvento del Regno d’Italia, permetterà alla giovanissima azienda Savelli di consolidarsi e lanciarsi in una strategia di lenta ma progressiva espansione, che dura fino ai giorni nostri. Qui a fianco, Giovanni Battista Piranesi, Veduta del Teatro di Marcello, 1760 circa (da Views of Rome Series - Meister Druck. Sotto, da sinistra: Giotto, Assisi, La conferma della Regola di San Francesco. Giovanni Paolo Pannini, La fontana di Trevi, 1750. Monumento funebre di Luca Savelli in Santa Maria in Aracoeli (fine 1200). Lorenzo Savelli con la famiglia nel 1900 (foto tratta dal sito del Gruppo Savelli)
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tassea Roma
DI GIANNI RICCI
Anche nell’antica Roma i cittadini dovevano versare denaro o svolgere personalmente alcune attività (gratuitamente, ma senza nessun esborso di denaro);
in entrambi i casi, queste imposizioni erano dette munera 1, oneri imposti ai cittadini dallo Stato e dalle comunità locali, che servivano a finanziare le istituzioni pubbliche o a far funzionare i servizi statali centrali o territoriali. Teniamo presente che quando parliamo dell’antica Roma facciamo riferimento a un periodo storico molto ampio, equivalente a circa un millennio: da Romolo a Costantino e oltre ci passano più di mille anni! Per questo motivo, le tasse nell’antica Roma sono state molto varie, diverse secondo l’epoca presa in considerazione: la Roma Repubblicana o quella Imperiale. Per trovare il periodo con una prima notizia sul sistema fiscale antico romano dobbiamo arrivare al 500 a.C. quando, per finanziare l’ennesima guerra contro la città etrusca di Veio, furono introdotte “tasse speciali” che presto però divennero “ordinarie”. Capita anche ai giorni nostri: vedi le imposte - o meglio, le cosiddette “accise” - sulla benzina che ancora oggi paghiamo al momento del rifornimento della nostra auto; una aliquota percentuale è tutt’oggi destinata al finanziamento della guerra d’Etiopia del 19351936, per nostra fortuna terminata 84 anni fa… ma, evidentemente, non per il fisco! Durante la citata guerra contro Veio c’era stato, infatti, un reclutamento in massa dei cittadini: fu così formato un esercito di “soldati” che doveva però essere mantenuto. Perciò, il Senato stabilì in loro favore la corresponsione del “soldo” militare, stipendium, e allo stesso tempo impose a ogni cittadino romano un’imposta eccezionale, chiamata tributum, proprio per po-
Vita, morte e … tasse
nell’antica Roma “Due cose siano certe nella tua vita: la morte e le tasse” diceva Beniamino Franklin. Niente di più vero anche per noi contribuenti d’oggi. Ma le tasse sono sempre state pagate e riscosse, fin dall’antichità più remota terlo pagare. Il tributum (che nasce dalla parola “tribù”, cioè la comunità cui era dovuta la tassa da pagare) fu presentato ai contribuenti come un prestito di guerra temporaneo ed eccezionale che lo Stato avrebbe in qualche modo rimborsato (ma si sa, che non c’è nulla di più stabile di un fatto provvisorio … specie nel campo delle tasse). Il tributum era la tassa personale che ogni cittadino romano libero doveva versare alla comunità, alla “tribù”: l’importo di 8 unotiziario 2, Marzo/Aprile 2020
ciascuno veniva fissato in base al patrimonio posseduto; esso rappresentava quindi la principale imposta diretta 2. A Roma le leggi fiscali distingueranno poi tra i cittadini romani “de Roma”, i cives, e i residenti dei territori conquistati, sia in Italia che nelle Province fuori d’Italia. I residenti in Italia (che con Cesare diventeranno però tutti cittadini romani) dal 167 a.C. ottennero l’esonero dall’imposta diretta, il tributum, e ciò
per due motivi. Il primo perché le casse dello Stato erano abbondantemente riempite con i bottini delle guerre d’Oriente; il secondo perché i cives - come “imposizione” personale - già combattevano nel nome di Roma nell’esercito legionario, che in epoca successiva divenne sempre più una struttura di volontari e professionisti. Ai cittadini romani residenti in Italia rimanevano quindi da pagare solo i vectigalia, cioè le imposte indirette 3, che andarono comunque aumentando col tempo; tra queste ricordiamo i portoria (i dazi sul commercio), la vicesima libertatis (la tassa sull’emancipazione degli schiavi, l’atto detto manumissio 4), la vicesima hereditatum (la tassa di successione), la tassa sul celibato 5, nonché alcune altre forme di tassazione, come la centesima rerum venalium (una specie di IVA ‘ante litteram’) sulle compravendite di oggetti, compresi gli schiavi (purtroppo, considerati al pari degli “oggetti”). Il panorama delle imposte indirette, i vectigalia, appare quindi ben più vasto rispetto a quanto detto a proposito delle imposte dirette, i tributa.
vità concesse in appalto, o realizzava le opere pubbliche appaltate per conto di Roma, chiedendo poi i tributi ai contribuenti per ripagarsi delle spese sostenute, oltre che per ricavarne il proprio profitto. I pubblicani erano riuniti in vere e proprie società (societates). La cattiva fama di cui hanno goduto i pubblicani è dovuta al fatto che le tasse nell’antica Roma non erano sempre determinate in modo specifico nel loro ammontare; pertanto, non poche volte i pubblicani approfittavano di questa indeterminatezza per riscuotere molto più del dovuto: in poche parole, spesso si com- uu Moneta di epoca repubblicana. Sotto, Caravaggio, Vocazione di San Matteo, particolare di un pubblicano. In apertura, il pagamento delle imposte (sarcofago, Belgrado, Museo nazionale)
Ma chi riscuoteva le tasse? Nell’antica Roma repubblicana non esistevano agenti del fisco incaricati dallo Stato a riscuotere le tasse. Coloro che se ne occupavano erano i “pubblicani” (oggi li diremmo gli antesignani dei Concessionari della riscossione): questi stipulavano con il Senato di Roma dei contratti pubblici di appalto per vari fini (gestione delle forniture militari all’esercito, controllo e finanziamento dei progetti di costruzione degli edifici pubblici, ecc.), tra i quali, appunto, la riscossione delle tasse 6. In quest’ultima attività, a carico dell’appaltatore delle imposte vi era anche l’obbligo di rispondere patrimonialmente di fronte allo stato per le mancate riscossioni. Quindi, il pubblicano svolgeva le attinotiziario 2, Marzo/Aprile 2020 u9
1. Munera Nel mondo romano, con questa parola furono designati, genericamente, gli oneri, i doveri, addossati al cittadino in base al principio che una parte della sua attività e del suo patrimonio era dovuta allo stato. 2. Le imposte dirette sono quelle che colpiscono direttamente la ricchezza, quella già esistente (il patrimonio) o nel momento in cui si produce (il reddito). Oggi le principali sono l’IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche), l’IRES (Imposta sul Reddito delle Società), l’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive). 3. Le imposte indirette sono quelle che colpiscono indirettamente la ricchezza, nel momento in cui viene spesa (es. l’Iva che colpisce i consumi) o trasferita (es. l’imposta di registro che grava sui passaggi di proprietà). Oltre che su tutta una serie di atti soggetti a registrazione (es. contratti di locazione, operazioni societarie, eredità, ecc.). Tra tutte la più importante e nota è l’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto). 4. Manumissio Era presso i Romani l’atto di liberazione, l’affrancamento di uno schiavo: il padrone metteva la sua mano sulla persona del servo, e pronunziando le parole “voglio che quest’uomo sia libero”, lo spingeva via, allontanandolo con la sua mano. 5. Tassa sul celibato Recuperata dal fascismo negli anni ‘20 del 1900 rifacendosi proprio all’antichità romana, l’imposta gravava sui celibi perché il regime voleva accrescere il numero dei matrimoni, e quindi incrementare le nascite. 6. Tra di essi è noto l’Apostolo Matteo. Nello stesso Vangelo di cui fu autore, si dichiara più volte come “pubblicano” e quindi come “esattore delle tasse”, ciò ovviamente prima della chiamata di Gesù. I pubblicani erano una delle categorie più odiate dal popolo ebraico, anche perché veneravano l’imperatore, operavano in suo nome e maneggiavano le sue monete (nel famoso dipinto di Caravaggio, la Vocazione di San Matteo, alcuni studiosi individuano Matteo nell’uomo sull’estrema sinistra, dall’espressione triste e pensierosa, che con la testa abbassata è immerso a contare le monete incassate nella giornata di lavo- uu
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Da sinistra, mappa del catasto su marmo, Orange (F). Latrina pubblica di epoca romana. Monete di epoca imperiale (sotto Vespasiano)
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portavano da usurai. Il pubblico tesoro, l’“aerarium”, in epoca repubblicana 7, aveva una collocazione fisica ben precisa, presso il tempio di Saturno nel Foro Romano, per cui era chiamato “aerarium Saturni” o “aerarium populi Romani”. Nel periodo imperiale, Ottaviano Augusto (63 a.C.-14 d.C.), primo imperatore di Roma, pose mano, tra le tante sue imprese, a riordinare la cosa pubblica e prima tra le altre l’Amministrazione finanziaria dello Stato. Istituì il “fiscus”, il tesoro dell’imperatore, ovvero la cassa delle entrate dell’imperatore, alimentata da riscossioni demaniali e provinciali e distinta dal patrimonio privato dell’imperatore. Al “fiscus” rimase affiancato il già istituito aerarium (la cassa del popolo) ovvero la cassa principale affidata a due pretori. Il fisco rappresentava quindi la cassa delle entrate dell’imperatore, l’erario, invece, quella del popolo. Fu ancora Augusto a creare i “monopoli” sul sale, sullo zolfo e sul cinabro. Sempre ad Ottaviano Augusto si deve l’istituzione di un “aerarium militare”, destinato a pagare le spese dell’esercito. La cassa veniva alimentata da una tassa indiretta sulle vendite (gravante sul popolo) e una tassa sui beni trasmessi in eredità e sulle donazioni (che gravava sulle
classi abbienti). Questa “cassa militare” doveva servire a pagare le spese di un esercito divenuto permanente e a pagare il premio di congedo ai veterani di guerra. Tra le tasse più importanti nella Roma imperiale ricordiamo l’imposta diretta, personale e proporzionale (tributum capitis o “testatico”) e l’imposta fondiaria (tributum soli). La prima doveva essere pagata da tutti i residenti, sulla base dei censimenti periodici che venivano effettuati nell’intero territorio dell’impero: ogni famiglia doveva presentarsi al paese di origine e dichiarare i propri redditi sui quali poi pagare l’imposta 8. L’imposta fondiaria, ovviamente, riguardava i terreni e veniva pagata in proporzione alla produttività del suolo. Per l’applicazione di questa tassa serviva anche l’istituzione del “Catasto”, registro nel quale venivano catalogati tutti i fondi, distinti per estensione e qualità: in proposito i Romani avevano ottime mappe catastali su papiro, ma anche scolpite su bronzo o addirittura su lastre di marmo come quella trovata ad Orange, in Francia. Se ai cittadini residenti in Italia spettavano solo i vectigalia, cioè le imposte indirette, ai Romani delle Province dell’Impero venivano applicate anche le imposte dirette e cioè sia l’imposta sulle persone fisiche (tri10 unotiziario 2, Marzo/Aprile 2020
butum capitis), sia l’imposta sulle proprietà terriere (il tributum soli). I proventi finivano nell’aerarium populi Romani e, in epoca imperiale, in parte anche nel fiscus (controllato invece dall’imperatore). Il tributum poteva essere richiesto in denaro o in natura (grano, derrate, ecc.). Per la riscossione delle tasse, durante l’impero, si abbandonò il ricorso alla figura e alle attività dei pubblicani e la riscossione venne affidata a funzionari imperiali, come i censori, i questori e i procuratori. In questo modo, il sistema di riscossione delle tasse è vicino a quello che ben conosciamo anche noi oggi: le tasse possono essere riscosse solamente da chi è appositamente incaricato dallo Stato. I Romani sapevano comunque di non poter esagerare nella tassazione – pena il rischio di rivolte sanguinose – e quando all’imperatore Tiberio (42 a.C-37 d.C.) fu chiesto dai governatori delle province di aumentare le tasse locali, egli rispose: “boni pastoris esse tondere pecus, non deglubere” (“è proprio del buon pastore tosare le pecore, non scorticarle”, Svetonio, Vita di Tiberio, 32). Fu inventata anche una tassa molto insolita, che oggi ci fa alquanto sorridere: la vectigal urinae, la tassa sull’urina, voluta dall’imperatore Vespasiano (9 d.C.-79 d.C.) sull’uso della
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ro e sparse sul banco delle imposte).
7. La prima notizia sull’erario
pipì degli orinatoi pubblici (detti da allora, in suo ricordo, “vespasiani”): l’imperatore ordinò ai privati gestori delle latrine pubbliche di raccogliere l’urina nelle latrine ed impose loro una tassa sulla quantità raccolta. I gestori innanzitutto ribaltarono questa tassa aumentando il prezzo d’ingresso alle latrine stesse per gli utilizzatori, cioè il popolo minuto, la plebe (solo i ricchi patrizi possedevano un orinatoio in casa). Gli stessi gestori poi, per accrescere il proprio guadagno, vendevano l’urina raccolta a conciatori, agricoltori e perfino medici. Tutti costoro erano costretti a pagare il prezzo loro imposto per questo “oro giallo”, adoperato, rispettivamente, o per sbiancare i tessuti o, in quanto ricco di fosforo e azoto, per la coltivazione dei campi o addirittura per la preparazione di farmaci (oddio!). Con gli incassi da questa tassa (è famosa la frase “pecunia non olet” 9) l’imperatore poté dare avvio a grandi opere pubbliche (tra cui il Colosseo, iniziato nel 72 d.C.). A Vespasiano si deve inoltre anche un’altra particolare tassa, quella del ‘fiscus iudaicus’, imposta agli ebrei subito dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (avvenuta nel 70 d.C.) i cui proventi andavano alla ricostruzione del tempio di Giove, nell’allora Campidoglio; infatti l’imperatore aveva proibito l’invio (tra-
dizionale per gli ebrei) delle offerte al tempio di Gerusalemme, sostituendolo con l’obbligo di versarle al tempio di Giove Capitolino, a Roma: il pagamento di due dracme a testa (equivalenti a due giornate di salario di un bracciante) non era solo un esborso economico importante ma rappresentava un vero e proprio affronto al sentimento religioso del popolo ebraico sconfitto. Sono trascorsi oltre 2000 anni da allora ma non molto è cambiato. I Romani avevano già inventato tante imposte, che oggi hanno solo mutato nome: Irpef, Iva, tassa di successione, o previsto alcuni uffici fiscali particolari, come il Catasto. Non ho trovato invece informazioni sul fenomeno dell’evasione fiscale nell’antica Roma: possiamo senz’altro essere certi che dove ci sono stati (o ci sono) “contribuenti” del fisco, lì non possono mai mancare “evasori” o “elusori”. Fu invece prevista, nel periodo di fine Impero, l’esenzione (l’immunitas) dal pagamento dei tributi o dalle prestazioni di attività, come privilegio concesso alle persone più vicine al potere politico (ah, il potere della “casta” politica del tempo…!) e per alcune tipologie di beni come possedimenti imperiali, latifondi nobiliari, beni religiosi. Nella nostra Italia repubblicana, a fronte a quanto riscontrato nell’annotiziario 2, Marzo/Aprile 2020 u11
di Roma repubblicana ce la dà Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.). 8. Nell’antica Roma il censimento della popolazione maschile adulta, compiuto originariamente per scopi militari, ebbe in seguito anche scopi economici e fiscali. Anche nei Vangeli si narra del primo censimento generale, fatto dall’imperatore Cesare Augusto e che obbligò Giuseppe a recarsi presso il suo paese di origine, a Betlemme, con Maria sua sposa che era incinta, per farsi registrare. 9. L’espressione latina “pecunia non olet”, rivolta da Vespasiano al figlio Tito, vuole significare che il denaro non ha odore, i soldi non puzzano. Tito rimproverava il padre per aver imposto la tassa sull’urina raccolta dagli orinatoi pubblici e, per disprezzo, gettò alcune monete provenienti da questa tassa in una latrina. Vespasiano le recuperò e le avvicinò al naso, pronunciando la famosa frase.
tichità romana, confortano le parole delle Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.» (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 53, 1947), parole che si collegano all’art. 23 che lo precede, secondo cui «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.». Quindi il periodo delle tasse di ogni anno diventi per noi momento importante, addirittura necessario (anche se non sempre gradito) del vivere sociale e democratico. Consoliamoci con questa frase finale dello scrittore M. Tondi: “Scopri di essere vivo – se ancora avevi qualche dubbio - quando trovi una comunicazione del fisco nella cassetta delle lettere”. Quindi per sentirci vivi, non ci resta che (necessariamente) pagare le tasse e aspettarci che gli avvisi dell’Agenzia delle Entrate ci arrivino sì, ma che siag no tutti amichevoli e benigni.
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Pubblichiamo altre due passeggiate effettuate sul tema “Roma dal 1870: sviluppo urbanistico e architettonico della città dopo l’unità d’Italia” a cura di Elisa bucci Console TCI - Coordinatrice del Club di territorio
PASSEGGIATA DEL 14 APRILE 2019
Il rione Prati
DI RAFFAELE FOCARELLI Prati è uno dei quartieri umbertini di Roma che più affascina, è stato così già dalla sua nascita subito dopo la presa di Roma. Parte del suo successo è certamente dovuto alla sua posizione: il Tevere lo divide dalla città vecchia rendendola visivamente vicina ma distante da raggiungere. Fino alla costruzione dei nuovi ponti post-unitari, a fine ottocento, per raggiungere Prati o ci si avventurava su piccole ed instabili barchette, che fungevano da traghetto, o si faceva un lungo percorso passando da Ponte di Castello (oggi ponte Sant’Angelo) ed attraversando Borgo. Cominciamo la passeggiata davanti al palazzo dell’Associazione Nazionale dei Mutilati e Invalidi di Guerra. Realizzato nel 1925 su progetto di Piacentini, è uno dei pochi manufatti costruiti nel quartiere sotto il regime fascista. Ci spostiamo sul Lungotevere, qui, percorrendo il lungo fiume, arriviamo alla via Vittoria Colonna, strada principale del primo nucleo del quartiere edificato a cominciare dal 1873 su iniziativa di un gruppo di imprenditori cappeggiati dal conte Cahen. Lungo il percorso parliamo della costruzione del Palazzaccio, della chiesetta del Sacro Cuore del Suffragio e dell’annesso Museo delle Anime del Purgatorio. Questa area a fine ottocento, e poi ad inizio novecento, era una specie di grande “terrazza” affacciata sul fiume con vista sulla città antica. Vedendola oggi, sempre congestionata dal traffico delle auto e con le “buche” dei sottopassaggi, sembra impossibile che qui si venisse a passeggiare, a sedersi ai caffè a fare i bagni sul Tevere, a godere degli spettacoli di teatro o di varietà che, sul gusto parigino della Belle Époque, venivano rappresentati nei due teatri sorti nelle vicinanze, uno dei quali, l’Alhambra, era proprio sul punto dove oggi è il palazzo Blumensthil, all’angolo tra la via Vittorio Colonna ed il Lungotevere dei Mellini. In vista dei ponti raccontiamo la loro storia. Furono realizzati a fine ottocento: il primo, il ponte Ripetta, oggi è scomparso perché sostituito dal ponte Cavour, fu costruito in ferro e fu il primo collegamento tra il nuovo quartiere e la città vecchia. Questo ponte era la continuazione della via Vittorio Colonna, che allora si chiamava 12 unotiziario 2, Marzo/Aprile 2020
via Reale, e congiungeva Prati con la città antica. Fu costruito dalla società di imprenditori, che stava realizzando il quartiere, ed inaugurato nel 1879. Era una connessione provvisoria in attesa della realizzazione del ponte Cavour previsto dal piano regolatore. Malgrado l’attraversamento fosse a pagamento, il costo era di 5 centesimi, era sempre molto affollato di persone e di carrozze che, spesso, facevano la fila per transitare; ne sono testimonianza le foto d’epoca, i filmati dei Fratelli Lumière e anche Zolà che, nel 1896, lo descrisse nel suo romanzo “Roma”. Tutto ciò contribuì ad avvalorare la fama del quartiere presso i contemporanei non solo nazionali. Prima del 1873 Prati era un’area agricola dove ci si recava per fare merende e bisbocce seduti sull’erba o sulle panche delle osterie rustiche; forse anche questa atavica associazione del luogo allo svago ha fatto sì che, già dalla sua nascita, il Rione diventasse subito sede di luoghi deputati al divertimento. Nel 1880 apre il teatro Alhambra, un grande capannone in legno con tetto ornato di cupolette alla moresca in cui oltre a balli e varietà si danno anche spettacoli lirici; nel 1881 apre il Ninfeo Egeria, stabilimento balneare sul fiume con comfort vari tra cui i capanni dove potersi immergere senza essere visti; nel 1890 si “accampa” in Piazza d’Armi il Buffalo Bill Wild West Show; nel 1891 nella zona dell’attuale caserma (allora ancora non costruita) di viale delle Milizie 5 apre l’Esposizione Egizia, un villaggio berbero con cammelli, ricostruzioni di rovine egizie, beduini che preparano il caffè alla turca e ballerine di danza del ventre; nel 1894 apre il primo teatro Adriano (costruito in legno nell’area della attuale chiesa valdese) e nel 1911 apre la Grande Esposizione Universale a Piazza d’Armi. Furono realizzati anche un anfiteatro ligneo per corride di bufali e un circo detto “reale”. Tutte queste attrazioni caratterizzarono Prati come il nucleo cittadino più “moderno” e di “tendenza” in grado di offrire una vita mondana paragonabile a quella dei quartieri alla moda delle grandi città europee. Continuando arriviamo alla piazza Cavour e qui ricordiamo la storia dei suoi monumenti: la statua di Cavour, il Palazzo di Giustizia (il Palazzaccio), il teatro Adriano, la chiesa Valdese. uu notiziario 2, Marzo/Aprile 2020 u13
Prati di Castello, fine ‘800, Archivio Primoli. Sopra, Ettore Roesler Franz, “Ai prati di Castello, S. Carlo al fondo”, 1889. In apertura, Castel S. Angelo e il Ponte di Castello (oggi ponte Sant’Angelo)
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© Foto di e. bucci
© Foto di g. morganti
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Sopra, da sinistra: il costruendo ponte Regina Margherita con la piazza della Libertà, il rettilineo di via Federico Cesi che arriva a piazza Cavour con il costruendo Palazzaccio; a metà foto il provvisorio Ponte di ferro di Ripetta che sarà sostituito dal ponte Cavour (foto dal sito di Roma Sparita). Fotogramma del filmato dei Fratelli Lumière, 1896. Il nostro Gruppo a Piazza Cavour, con il Palazzaccio e la statua di Cavour. Qui a fianco, da sinistra: Villino Cagiati, via Virginio Orsini, 25. Villino de Pirro, via A. Farnese, 3. Parte del gruppo a piazza Risorgimento con, in fondo, la Cupola della Basilica di S. Pietro. Il nostro gruppo
uu Andando alla scoperta dei villini percorriamo la via Federico Cesi: questa area urbana è ricca di palazzi moderni costruiti negli anni ’60 del Novecento quando le norme urbanistiche, emanate allora dal Comune, permisero la demolizione dei vecchi villini o palazzine, a vantaggio delle nuove costruzioni e con probabile aumento delle cubature. Arrivati alla zona dei villini, focalizziamo il nostro interesse su quelli di stile liberty. Questo stile, nel periodo della Belle Époque, fu salutato come grandemente innovativo perché improntato a caratteri di modernità in antitesi con l’eclettismo degli stili imitativi che lo avevano preceduto (in Italia l’Umbertino). Fu espressione di una cultura modernista che trovò particolare applicazione nell’uso di “nuovi” materiali come l’acciaio o il cemento armato o altri. Abbiamo potuto ammirare tra gli altri il Villino Cagiati (1902), il Villino de Pirro, il Villino Macchi di Cèllere (1904).
Costeggiate le Caserme di via Giulio Cesare, realizzate alla fine dell’’800, e quindi passando per piazza dei Quiriti, con la sua bella fontana, abbiamo ammirato le architetture di alcune chiese ed istituti religiosi. Questa parte del Rione è una delle più 14 unotiziario 2, Marzo/Aprile 2020
© Foto di g. morganti
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integre ed omogenee; qui è stato possibile cogliere in pieno l’atmosfera di un quartiere umbertino : decorosi palazzi squadrati, generalmente a cinque piani, uniformi e monotoni, allineati a schiera su lunghe vie rettilinee che si incrociano ad angolo retto e, nel caso di Prati, orientati in modo da non permettere la visione della cupola michelangiolesca di San Pietro, per precisa volontà derivante dalle idee anticlericali degli amministratori dell’epoca. Lungo il percorso abbiamo ricordato le botteghe storiche del Rione e le tradizioni culinarie della nostra città. La passeggiata si conclude sulla piazza Risorgimento, accesso al Rione dalla zona di Borgo e dal Vaticano, in vista del Cupolone che, malgrado fosse così vicino, non si è mai riusciti a scorgere durante l’intera camminata. Ora ci appare in tutta la sua bellezza. Hanno guidato questa passeggiata i Volontari Raffaele Focarelli, Mauro Belati, Vittorio Gamba e Laura Argento. Ringraziamo i tanti Soci che hanno partecipato alla nostra iniziativa. uu notiziario 2, Marzo/Aprile 2020 u15
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PASSEGGIATA DEL 5 MAGGIO 2019
Alla scoperta del Rione Testaccio DI PATRIZIA COPPOLA E SIMONETTA MARIANI Un rione che nonostante sia nel centro storico, non si è mai sentito completamente tale e fu definito periferia storica dallo stesso Comune di Roma. Il 5 maggio 2019 proseguendo i percorsi illustrativi legati al tema dell’espansione urbana di Roma Capitale d’Italia, si è svolta la passeggiata in uno dei rioni più caratteristici nati dopo l’Unità d’Italia ovvero il rione Testaccio. Ci hanno accompagnato alla sua scoperta i volontari Patrizia Coppola, Massimo Romano, Simonetta Mariani, Claudio Carlucci e la sua chitarra; Vittorio Gamba ci ha intrattenuto con gli aspetti più rilevanti della cultura alimentare che hanno caratterizzato e caratterizzano questo rione. Anche se molti romani e turisti conoscono il Rione Testaccio soprattutto come meta di serate da trascorrere nei rinomati locali di ristorazione e intrattenimento, pochi conoscono le sue origini e la sua storia, iniziata più di 2000 anni fa, che ne fa ancora oggi un rione con un’anima “popolare”. Il suo nome deriva dal “Mons Testaceus” dal latino testae (cocci), perciò soprannominato “Monte dei cocci”, ma di questo ne riparleremo … La nostra passeggiata inizia da via Caio Cestio, dove si incontra l’ingresso del “Cimitero Acattolico” creato nel Settecento, in seguito al permesso concesso da papa Clemente XI, per accogliere i membri della Corte Stuart in esilio dall’Inghilterra. Il permesso, successivamente, fu esteso ad altre persone non cattoliche; molte di loro erano giovani deceduti durante il loro viaggio a Roma, nel compimento del “Grand Tour”. Oggi accoglie sia stranieri sia italiani di tutte le religioni, tranne quella cattolica, ed è considerato una meta culturalmente importante da salvaguardare, anche per le magnifiche sculture presenti in molti sepolcri. Al termine di via Caio Cestio, su via Zabaglia, quasi a proseguire l’atmosfera di pace e silenzio del “Cimitero Acattolico”, nel 1947 fu realizzato il Cimitero militare di Roma “Rome War Cemetery” dedicato ai militari cittadini del Commonwe16 unotiziario 2, Marzo/Aprile 2020
Ricostruzione del Porticus Emilia da www.beniculturali.it. In apertura, il nostro gruppo nell’ampio cortile di un isolato del rione
alth morti a Roma durante la Seconda guerra mondiale. Uno sguardo alla bella fontana del “Boccale”, realizzata nel 1931, dall’architetto Raffaele de Vico, ed eccoci di fronte allo storico “Campo Testaccio” ormai non più che un prato recintato e incolto ma che nel 1927, in questo Rione popolare, vide nascere la squadra calcistica della “Roma” e che dal 1929 ospitò per molti anni le partite del campionato di calcio della squadra romana. Sulla sinistra si innalza il “Monte dei cocci”: la sua formazione è molto antica, parte dal II sec. a.C. quando la zona venne utilizzata per accogliere il più grande porto fluviale della città. Il monte, infatti, è formato da 35 metri di cocci, accumulatisi nei secoli come residuo dei trasporti di anfore olearie che giungevano all’Emporium; queste dopo lo svuotamento venivano ridotte in frammenti non potendo essere riutilizzate a causa della rapida alterazione dei residui di olio e per rispetto delle norme igieniche; i frammenti venivano tenuti insieme con la sola deposizione di calce. L’Emporium che andava a sostituire il vecchio porto fluviale del Foro Boario, presentava una lunga banchina pavimentata di 500 m. di lunghezza e profonda 90; alcuni manufatti, oggetto di lunghi lavori di restauro, sono ancora visibili al di sotto di Lungotevere Testaccio, lungo la riva sinistra del Tevere poco prima del Ponte Sublicio. Alle sue spalle venne edificato il Porticus Aemilia, un portico che si estendeva dall’attuale via Marmorata a via Franklin, ritenuta la costruzione più vasta ai fini commerciali mai realizzata dai Romani prima di allora. Oggi i resti di una delle 50 navate che costituivano il Porticus sono stati recuperati fra gli edifici del Rione in via Vespucci e valorizzati all’interno di un piccolo giardino. uu notiziario 2, Marzo/Aprile 2020 u17
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di b u l C territorio A partire dal IV sec. il porto cominciò progressivamente ad essere abbandonato fino ad essere quasi completamente interrato. Ma per il nostro “Monte dei cocci” la storia continua… infatti la vasta pianura che si sviluppava fino alle Mura divenne, dal Medioevo alla nascita del rione, campo di giochi, feste e scampagnate, tanto che la zona assunse il nome di “Prati del Popolo Romano”, grazie prima alle grotte per la conservazione del vino e poi anche alle tante cantine nate alle sue pendici e frequentate soprattutto nelle “ottobrate romane”. è qui che si svolgeva, anche, la festa del Carnevale, prima del suo spostamento voluto da Paolo II a Via del Corso: giochi, sfilate, corse e le lotte con i tori e i maiali che venivano spinti lungo le pendici del Monte fino alla piana sottostante in mezzo ad una folla festante!
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© foto di m. marzano
Da sinistra, la Chiesa di Santa Maria Liberatrice. Claudio canta una canzone di Gabriella Ferri. Il lavatoio all’interno di uno degli stabili
Superato il Monte, su via Galbani, incontriamo il “Nuovo Mercato” inaugurato nel 2012, progettato dall’architetto Marco Rietti, che sostituì il vecchio mercato storico del Rione che si trovava in Piazza di Testaccio. Gli scavi per la sua costruzione hanno consentito di recuperare grandi quantità di materiali dell’età imperiale, in particolare anfore e laterizi, consentendo di identificare in questa zona ambienti e edifici legati all’intensa attività del porto, ed anche tracce di attività agricole delle epoche successive, che testimoniano le caratteristiche rurali che aveva assunto la zona prima della realizzazione del Rione, avvenuta per le esigenze di sviluppo di Roma Capitale, dopo il 1870. Troviamo alla nostra sinistra il vecchio “Mattatoio” progettato dell’architetto Gioacchino Ersoch, costruito fra il 1888 e il 1891, che veniva a sostituire il precedente Mattatoio, collocato fra Piazza del Popolo e il Tevere, non più adatto per una città ormai in piena espansione. Già il primo Piano regolatore della Capitale del 1873, poi confermato da quello del 1883, destinava l’area di Testaccio alla costruzione di magazzini, opifici e abitazioni
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delle relative maestranze operaie, e la prima importante opera realizzata fu proprio lo stabilimento di Mattazione e l’annesso Mercato del bestiame (Campo Boario). L’impianto venne realizzato tenendo presente una razionale e, per quei tempi, moderna distribuzione dei diversi spazi in maniera da garantire la sorveglianza e la pubblica igiene per le diverse attività. Dopo la dismissione degli impianti, nel luglio 1975, inizia il degrado, ma sul finire degli anni ’90 il complesso viene riqualificato dall’amministrazione capitolina per realizzare la Città delle Arti e assegna degli spazi all’Università degli Studi Roma Tre. Lo sviluppo edilizio abitativo di Testaccio si svolse in diverse fasi: dalle cosiddette “case alveare”, edificate da privati tra il 1883 e il 1905, ai progetti realizzati tra il 1909 e il 1917 dagli architetti Giulio Magni, Quadrio Pirani e Giovanni Bellucci, per volontà dell’Istituto romano per le case popolari (istituito nel 1903) con la collaborazione del Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio e dell’Istituto Romano per i Beni Stabili, fino agli stabili di piazza dell’Emporio e via Marmorata, progettati da Luigi Broggi, Innocenzo Sabbatini e Innocenzo Costantini dal 1924 al 1930, e destinati ai gerarchi fascisti; in seguito vedremo le caratteristiche di queste fasi e la trasformazione del Rione da “operaio” a “borghese”. Nello stesso slargo del Mercato la parete dell’edificio sulla destra ci richiama l’attenzione: si tratta di una delle più significative opere di Street art del Rione “Jumping wolf” realizzato nel 2014 dall’artista “Roa” con l’intento di celebrare il simbolo di Roma con una lupa contemporanea pronta a saltare per liberarsi dal disagio nello spazio che la costringe. Un murales straordinario, all’inizio non subito compreso, mai poi accettato dai condomini dell’edificio che lo ospita. Alle spalle del “Nuovo mercato”, tra via Ghiberti e il lungotevere, l’Istituto di Case Popolari affida all’architetto Magni nel 1909 la realizzazione di più edifici con abitazioni a “costo accessibile” e “alloggi decorosi”. Veniva così migliorata la uu
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di b u l C territorio ventilazione e l’illuminazione degli alloggi, previsto un ambiente cucina dotato di lavello in cemento, pareti maiolicate e acqua corrente, ma non c’erano né impianti per luce e gas né bagni, collocati in locali comuni, al piano terreno. Poco più avanti su Piazza S. Maria Liberatrice, si staglia imponente la Chiesa di Santa Maria Liberatrice. uu
La costruzione della chiesa viene iniziata nel 1906, il titolo ricorda una antica chiesa al Foro Romano demolita nel 1900. Nella sua facciata sono disposte su due piani delle figure musive che riproducono gli affreschi ritrovati nell’antica basilica di S. Maria Antiqua venuti alla luce con la demolizione della suddetta chiesa. Ci racconta, il Presidente dell’Associazione Ex–allievi di Don Bosco che ci ha accompagnato per queste vie, che la chiesa, progettata da Mario Ceradini, era assolutamente necessaria e voluta dagli abitanti del rione in quanto il sovraffollamento abitativo e l’assenza di strutture sociali come scuola, ambulatorio ecc. era all’origine di: analfabetismo, atti di vandalismo, violenza, prostituzione, e di malattie contagiose e vere e proprie epidemie. Fu così che la Commissione Cardinalizia per la Preservazione della Fede espresse il desiderio di assegnare l’impresa dapprima ai Benedettini e successivamente ai Salesiani; la chiesa fu ultimata e consacrata nel 1908 con affianco oratorio festivo, scuole diurne, scuole serali, circolo giovanile e simili. Davanti alla chiesa un giardino pubblico alberato intrattiene i testaccini mentre un monumento ai caduti ricorda le vittime del rione della I guerra mondiale. E’ sempre in questa piazza che nei primi anni del XX secolo nasce il teatro Vittoria, un teatro di avanspettacolo che vede esibirsi sul palco attori e attrici che poi avrebbero scritto la storia del teatro e del cinema italiano: Aldo Fabrizi, Totò, Anna Magnani, Claudio Villa, Renato Rascel. Prima di lasciare la piazza ricor-
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diamo anche che, al civico 18, nacque e trascorse parte della sua adolescenza la cantante Gabriella Ferri, come indicato da una targa in sua memoria apposta nel 2010 e che ricorda i versi di una sua famosissima canzone SEMPRE: “anche tu così presente/così solo nella mia mente/ tu che sempre mi amerai”. Si continua per via Rubattino, Lungo Tevere Testaccio, via Gessi, via Vespucci; in questa zona dal 1914 al 1917 l’ICP commissiona a Pirani e a Bellucci la realizzazione di diversi lotti, e alle cooperative edili romane la costruzione di queste abitazioni. E’ il periodo in cui si afferma l’idea che un giusto impiego di materiali durevoli, quali i laterizi e le maioliche, porta ad una diminuzione nel tempo delle spese di manutenzione degli edifici, soprattutto quando si tratti di edifici a più piani riuniti in un isolato o in un quartiere urbano. Infatti notiamo che gli edifici sono stati realizzati in laterizi rossi e ogni abitazione ha il bagno in casa, ogni lotto prevede grandi cortili destinati a luoghi di aggregazione per i condomini nonché concentrazione di servizi sociali comuni come il lavatoio (chiamato “bucataio”), lo stenditoio; in alcuni cortili si trovano piccoli edifici destinati a “casa dei bimbi”, voluti dal direttore dell’Istituto Romano Beni Stabili, Edoardo Talamo, per risolvere il problema dei figli dei lavoratori; tali scuole usavano il metodo Montessori. E’ in uno di questi alloggi, in via Amerigo Vespucci 41, che Elsa Morante visse i suoi primi 10 anni di vita, ed è in queste vie che la scrittrice ambienta una parte del suo famoso libro “La Storia”. Via Amerigo Vespucci termina in via Marmorata proprio all’altezza degli edifici fatti costruire tra il 1924 e il 1930. Alla sinistra c’è il palazzo in stile barocchetto che fu chiamato negli anni Cinquanta “Cremlino” perché ospitava la più grande sezione del Pci: e pensare che faceva parte delle abitazioni costruite per l’insediamento, in questa zona popolare, dei gerarchi fascisti! A destra si incontrano due edifici progettati da Sabatini nel 1930, quello al n. 149 ha conservati nel cortile i resti di un edificio di età romana, probabilmente una “schola”, rinvenuta durante gli scavi di fondazione. All’attico era collocato l’atelier di Giacomo Balla, artista e pittore futurista. Si ritorna nelle vie interne e si raggiunge Piazza Testaccio; ora la piazza si presenta elegante e confortevole ma come era quando si chiamava piazza Mastro Giorgio? Nacque su pressante richiesta degli abitanti, intorno al 1900, perché venisse lasciato uno spazio comune al fine di limitare l’intensa urbanizzazione che qui si stava sviluppando proprio in quegli anni; le abitazioni che circondano la piazza sono state costruite nel 1883 e risultano essere le prime lottizzazioni della zona. Le costruzioni furono realizzate dall’impresa privata Marotti; la tipologia adottata era quella del mega blocco chiuso, già a quell’epoca definito “caserma” o “alveare umano”. Gli edifici presentavano un piano terra destinato ai negozi, un cortile centrale molto ridotto con dei ballatoi dai quali si accedeva agli appartamenti di due/tre stanze comunicanti tra di loro. Le case erano sfornite di gas e di acqua, le strade intorno non erano selciate, niente scuola, né ambulatorio, né lavatoi e niente raccolta immondizia per cui gli spazi vuoti diventarono depositi. Gli affitti troppo alti avevano portato ad un sovraffollamento abitativo registrando una media di 6,7 abitanti per stanza con punte estreme di 16 abitanti in una stanza e 21 in 2 stanze; Nel 1907, con il subentro dell’ICP, tutta la zona venne migliorata mentre fu creata la piazza che ben presto divenne la sede di uno degli storici mercati rionali della capitale e rimase tale fino al 2012. Infatti, a seguito della riqualificazione della piazza, avvenuta fra il 2012 e il 2015, il mercato è stato trasferito nella nuova sede che abbiamo incontrato, mentre è stata ricollocata al centro uu notiziario 2, Marzo/Aprile 2020 u21
Il murales Jumping Wolf dell’artista Roa. Nella pagina accanto, il palazzo delle Poste
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di b u l C territorio la splendida “Fontana delle Anfore”, realizzata dall’architetto Pietro Lombardi nel 1927 proprio per questo spazio pubblico ma che nel 1936, per problemi di cedimento del terreno, era stata spostata a Piazza dell’Emporio. Proseguendo la passeggiata si incontra in via Galvani la scuola “Edmondo de Amicis”, prima scuola del rione inaugurata nel 1908 come scuola Elementare, poi all’angolo con via Marmorata, incontriamo la caserma dei vigili del fuoco, opera dell’architetto Fasolo, inaugurata nel 1929. La caserma presenta alcune innovazioni per quell’epoca: l’autorimessa ha un caratteristico andamento semicircolare con sette grandi porte dalle quali potevano uscire i mezzi d’intervento in qualsiasi direzione; l’alta torre, nuova sperimentazione architettonica, era destinata alle manovre di scala e all’asciugatura dei tubi per una migliore manutenzione delle dotazioni. Inoltre, vi erano una cabina telefonica interna con più linee e complessi circuiti di illuminazione, ordinario, di gala e straordinario. Il seminterrato dell’edificio oggi ospita il Museo “Roma città del Fuoco”, con ricostruzioni ed oggetti d’epoca che illustrano l’attività dei Vigili del Fuoco dall’epoca antica a quella contemporanea. Più avanti, possiamo ammirare un’opera architettonica razionalista, l’Ufficio Postale realizzato nel 1933 dagli architetti Adalberto Libera e Mario De Renzi. Il fabbricato ha un’ampia cordonata che collega l’edificio a via Marmorata dando importanza alla costruzione. L’edificio si articola in tre volumi ospitanti funzioni distinte: il corpo di fabbrica conformato a C con tre piani per uffici; il salone per il pubblico con la copertura in vetro-cemento nel volume più basso e il portico prolungato che lega i corpi di fabbrica. Un’altra presenza molto caratteristica situata di fronte all’Ufficio Postale è l’edificio color ocra all’angolo con via Caio Cestio, unico fabbricato, sopravvissuto nella zona, anteriore al 1870: si tratta dell’antico deposito delle polveri della Compagnia dei Bombardieri di Castel S. Angelo, che avevano il loro poligono sul Monte Testaccio. Siamo arrivati alla fine del nostro percorso in questo rione che è riuscito a mantenere, nel corso del tempo, il suo originario spirito popolare, ad accogliere spazi di cultura, per la musica, prosa, poesia teatro e cinema, e a mantenere alta l’antica tradizione della cucina romana nei suoi moltissimi locali. Concludiamo con i versi qui a sinistra della poesia “Testaccio” di Giuliano Malizia che riassume l’anima di questo straordinario rione di Roma. uu
La fontana delle Anfore
è un pizzico de Roma che nasconne, tra er Fiume e l’Aventino, un core generoso e fumantino e li sorisi de le belle donne. Perfino a lo straniero je piace stà a Testaccio e nun cià torto: defatti ce s’è fatto er cimitero pe rimanecce puro doppo morto.
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In Redazione: Elisa Bucci, Alberto Castagnoli, Massimo Marzano, Massimo Romano Coordinamento editoriale: Massimo Romano Progetto grafico e impaginazione: Gianluca Rivolta Hanno collaborato a questo numero: Massimo Marzano, Elena Cipriani, Gianni Ricci, Elisa Bucci, Raffaele Focarelli, Patrizia Coppola, Simonetta Mariani 22 unotiziario 2, Marzo/Aprile 2020
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