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notiziario dei Volontari di Roma anno III – numero 5/6 - ottobre/dicembre 2018

Leggende e misteri

Dall’Appia al Centro Storico

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regina viarum

Inquietanti presenze si aggirano tra gli antichi resti in una linea ideale che unisce uno dei cosiddetti tumuli degli Orazi e Curiazi, Santa Maria Nova e la Villa dei Quintili

MISTERO,

SANGUE,

fantasmi

Al V miglio della via Appia una sottile linea rossa 2 unotiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018


LA VIA APPIA AL V MIGLIO, a destra uno dei tumuli c.d degli Orazi e Curiazi, a sinistra il casale di S. Maria Nova e dietro i grandi edifici termali della Villa dei Quintili; sul fondo del rettifilo stradale la vista dei Colli Albani. In primo piano a sx, Ustrino e a dx, Fossae Cluiliae (G.E. Chauffourier, fine ‘800-inizi ‘900, Fondo Becchetti-MAFoS). Sotto, ai nostri giorni: lo stesso tumulo degli Orazi e Curiazi con la leggera curvatura della via Appia

Qui sopra, 1. Uno dei c.d. Tumuli degli Orazi e Curiazi - 2. Ustrino - 3. Santa Maria Nova 4. Villa dei Quintili

DI MASSIMO MARZANO

Ancora oggi dalla Villa dei Quintili quel paesaggio, che nel 1909 lo studioso Thomas Ashby descrisse, appare davanti ai nostri occhi: “Dalla villa stessa poi si gode un panorama stupendo da tutte le parti, che avrà senza dubbio determinato la scelta del sito. Panorama che più si ammira più si dispera di poter descrivere: da una parte l’immensa città capitale del mondo antico, dall’altra opposta il bellissimo gruppo dei Colli Albani, ove nei

tempi romani biancheggiavano ville più numerose di quelle che si vedono ora...Panorama bello in ogni stagione dell’anno e in ogni ora del giorno; ma del quale chi lo sente sinceramente non parla, se non è poeta, perché non riesce mai a esprimere il fascino che da quella campagna si svolge e domina in breve tutte le facoltà dello spirito”. Siamo al V miglio dell’Appia Antica, dove nei secoli sono avvenuti vari episodi di sangue, dove i fantasmi ancora si aggirano per avere vendetta e dove un soffuso mistero avvolge tutto. Al V miglio il rettifi-

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lo della via Appia Antica, superato di poco il casale di S. Maria Nova, fa una curva in prossimità del monumento noto come il c.d. Tumulo degli Orazi e Curiazi, nel luogo riconosciuto dalle fonti antiche come Fossae Cluiliae, confine arcaico dell’Ager Romanus, legato ai riti della purificazione. Alcuni studiosi, tra cui il Canina, spiegarono questa deviazione con la necessità di rispettare un territorio ricco di antiche memorie e di monumenti sacri. Le Fossae Cluiliae (da cluere = purificare), segnavano il confine tra Roma e Alba Longa ed era il

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luogo, dove si combatté, regnante Tullio Ostilio, il famoso scontro tra gli Orazi e i Curiazi che vide, come sappiamo, il trionfo dei primi. In zona, nei resti di una costruzione piramidale, gli storici, sulla base delle affermazioni di Piranesi, identificano un luogo di purificazione, dove il terreno, ricco di acque minerali e calde ospitava probabilmente atti purificatori che precedevano i riti della cremazione. Infatti, a poca distanza del Casale di Santa Maria Nova si trova un ustrino, dove si bruciavano i corpi dei morti. Può anche capitare, però, che i morti ritornino. Così l’umanista fiorentino Bartolomeo della Fonte, scrive in una lettera ad un amico, come anche molti altri scrittori dell’epoca (1), che lunedì, 18 aprile 1485, alcuni operai, che cercavano marmi nel terreno di un casale circa al quinto/sesto miglio della via Appia, caddero in una tomba di epoca romana, in seguito ad una voragine apertasi all’improvviso sotto di loro e trovarono un sarcofago, che riservava un’incredibile sorpresa: un cadavere femminile perfettamente conservato. “Un corpo disposto bocconi, coperto d’una sostanza alta due dita, grassa e profumata. Rimossa la crosta odorosa, apparve un volto di così limpido pallore da far sembrare che la fanciulla fosse stata sepolta quel giorno. I lunghi capelli neri aderivano ancora al cranio, erano spartiti e annodati come si conviene a una giovane e raccolti in una reticella di seta e oro. Orecchie minuscole, fronte bassa, sopraccigli neri, infine occhi di forma singolare sotto le cui palpebre si scorgeva ancora la cornea. Persino le narici erano ancora intatte e sì morbide da vibrare al semplice contatto di un dito. Le labbra rosse, socchiuse, i denti piccoli e bianchi, la lingua scarlatta sin vicino al palato. Guance, mento, nuca e collo sembravan palpi-

Lo scontro fatale raccontato da Tito Livio, (“Ab Urbe condita”, libro I, paragrafo 25)

“Concluso il patto, i tre gemelli, come era stato convenuto, prendono le armi. Fra le esortazioni dei rispettivi popoli... essi, animosi già per natura e infiammati dalle grida di incitamento, s’avanzano in mezzo ai due eserciti. I soldati si erano schierati davanti ai rispettivi accampamenti...e dunque seguono tutti in piedi e con grande tensione quello spettacolo... Viene dato il segnale e con le armi in pugno...i tre giovani si lanciano all’attacco con l’ardore di due eserciti... Appena risuonarono le armi al primo scontro e corrusche balenarono le spade, una grande angoscia strinse il cuore degli spettatori... Nel vivo della mischia, quando ormai l’attenzione non si appuntava più soltanto ai movimenti del corpo o all’incerto incrociarsi della armi, ma anche alle ferite e al sangue, due Romani caddero l’uno sull’altro morti, mentre gli Albani erano tutti e tre soltanto feriti... quel solo Orazio era per avventura rimasto illeso e quindi, se pure non era in grado di far fronte dal solo a tutti e tre insieme, era però imbattibile contro ciascuno singolarmente preso. E quindi, per affrontarli separatamente, si diede alla fuga...Già aveva percorso un lungo tratto dal luogo del combattimento quando, voltandosi indietro, vede che gli inseguitori sono a gran distanza l’uno dall’altro e che il primo non è lontano. Si rivolge quindi contro di lui con gran violenza... l’Orazio, ucciso il nemico, si prepara ad affrontare da vincitore il secondo duello... Prima dunque che il terzo - non era lontano - potesse raggiungerlo, uccide anche il secondo Curiazo. Ormai si erano riequilibrate le sorti, poiché era rimasto un uomo per parte, sebbene in condizioni e con speranze ben diverse... Non ci fu lotta... L’Orazio, sovrastandolo, gli piantò la spada nella gola; quindi spogliò il suo cadavere. I Romani lo accolsero con un’ovazione di gratitudine e la gioia era tanto più grande quanto più avevano sfiorato la disperazione. I due eserciti si accingono alla sepoltura dei rispettivi morti con sentimenti molto diversi, in quanto gli uni avevano adesso la supremazia, gli altri la sottomissione a un potere esterno. Le tombe esistono ancora, esattamente dove ciascuno è caduto: le due romane nello stesso punto, più vicino ad Alba, e le tre albane in direzione di Roma e con gli stessi intervalli che ci furono nello scontro”. Il giuramento degli Orazi, JacquesLouis David, 1784, Museo del Louvre

tare. Le braccia scendevano intatte dalle spalle sì che, volendo, avresti potuto muoverle. Le unghie aderivano ancora alle splendide lunghe dita delle mani distese…”.Lo storico Gaspare Pontani aggiunge: “Martedì (19 aprile) fu portato lo detto corpo in casa delli conservatori (Palazzo dei Conservatori in Campidoglio), et andava tanta gente a 4 unotiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018

vederlo che pareva ce fusse la perdonanza (indulgenza plenaria), et fu messo in una cassa de legname e stava scoperto; era corpo giovanile, mostrava da 15 anni, non li mancava membro alcuno, haveva li capelli negri come si fusse morto poco prima, haveva una mistura la quale si diceva l’haveva conservato con li denti bianchi, la lengua, le ci-


A sx, dall’alto, disegno accluso alla lettera di Bartolomeo della Fonte, Oxford, Bodleian Libraries. Al centro, particolare del volto. In basso, il busto in cera di Lille

glia; non se sa certo se era maschio o femina, molti credono sia stato morto delli anni 700. In quel solo giorno le cronache riferiscono che più di 20.000 persone si recarono a vedere quel corpo misterioso, rimanendo affascinate sia dalla bellezza della ragazza, sia dal mistero che l’avvolgeva. Papa Innocenzo VIII, però, non gradì tanta ammirazione

nei confronti di una donna pagana, oltretutto nuda; così la notte dopo fece trafugare il cadavere ordinando che venisse, a seconda di cosa riportano le fonti, o seppellito in una località segreta a Muro Torto dove venivano inumati i non cristiani, o scaraventato nel Tevere. Chi fosse stata in vita quella fanciulla, nessuno riuscì a scoprirlo; il monumento funebre sopra la tomba era da tempo stato distrutto e il sarcofago non presentava iscrizioni. Qualcuno suppose potesse trattarsi di Tulliola, l’adorata figlia di Cicerone; ma di sicuro e preciso non si seppe mai nulla. Di lei rimasero soltanto un disegno di anonimo autore che la ritrasse quel 19 aprile del 1495 prima del “trafugamento”, e un fascinoso ricordo leggendario (2). Nel 1881 lo storico dell’arte, Henry Thode, durante un soggiorno a Lille, visitando il museo della città, rimane impressionato da un busto in cera e terracotta raffigurante una fanciulla. Si convince che l’opera sia un manufatto fiorentino eseguito alla fine del ‘400 nella cerchia del Verrocchio, sulla base di un calco in cera del cadavere della fanciulla romana della via Appia (1). Il mistero della “fanciulla romana” non termina qui. Il suo fantasma continua ad aleggiare nel Casale di Santa Maria Nova. Gli ultimi proprietari, i produttori cinematografici, Elena e Evan Ewan Kimble, riferiscono che nella casa si sentivano sempre voci, musiche, odori di fiori e la voce di una bambina che cantava filastrocche infantili e si sa che Brigitte Bardot ed il marito Roger Vadim, invitati nel Casale, dopo una notte di strani e misteriosi rumori, il mattino, di corsa, se ne andarono via. Alla fine dell’impalpabile linea rossa si arriva alla Villa dei Quintili con le sue imponenti rovine. Era

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veramente bella ed immensa la Villa di Sesto Quintilio Condiano Massimo e Sesto Quintilio Valeriano Massimo, la più vasta fra tutte quelle del suburbio romano dopo villa Adriana, tanto estesa che nei secoli scorsi si pensava che qui fosse esistita addirittura una città, alla quale si dava il nome di “Roma Vecchia”. Il complesso era poi stato chiamato fin dal quindicesimo secolo anche “Statuario”, a causa delle statue che tornavano alla luce in grande quantità, ma soltanto nel 1828, dopo il ritrovamento di fistule plumbee con scritto: “Quintilii Condianus et Maximus”, fu appurato che il complesso era stata la proprietà dei fratelli Quintilii, appartenenti ad una famiglia senatoria di antica tradizione e vissuti alla fine del II sec. d.C. I Quintili ricoprirono il consolato nel 151, sotto Antonino Pio, ed ebbero importanti incarichi in Grecia ed Asia sia al tempo di Antonino Pio che di Marco Aurelio (3). Poi si ritirarono a vivere in questa Villa, per dedicarsi alla lettura, all’arte, alle discussioni filosofiche e politiche, insomma ai piaceri dell’”otium”, dopo tanto “negotium” per lo Stato e per Roma. La scelta del luogo in cui fu costruita la villa non è forse casuale: sappiamo che i Quinctii (dai quali i Quintili probabilmente pretendevano di discendere) erano una delle famiglie di Alba Longa inserite nella cittadinanza romana dopo la sconfitta della città latina. Difficilmente può essere un caso che la dimora dei Quintili sia stata costruita esattamente all’altezza del luogo dove la tradizione collocava l’accampamento dei Curiazi. Si tratta forse di un esempio dell’uso politico e ideologico che una famiglia senatoria poteva fare delle proprie origini mitiche, e che si rifletteva anche nella scelta del luogo

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di una villa (4). Nel 182 d.C. tutti i buoni propositi vanno in fumo. Commodo, che da tempo aveva adocchiato la Villa e che la voleva per sé, dimentico di quello che i Quintili avevano fatto per Roma e per i precedenti imperatori, li accusò di aver congiurato contro di lui e li mandò a morte, confiscando così tutti i loro beni, compresa la Villa sull’Appia. Qui l’imperatore amò soggiornare a lungo e fece eseguire numerosi lavori di ampliamento, trasformando la villa in una vera reggia di campagna. Lo scrittore greco Olimpiodoro scrisse che “la villa conteneva tutto ciò che una città media può avere, compresi un ippodromo, fori, fontane e terme”. Per Commodo la villa dell’Appia dovette certamente rappresentare il concretizzarsi delle sue passioni, con il maestoso complesso termale e l’arena personale (3). Ecco il commovente racconto, che fa Cassio Dione (Storia romana, LXXII, 5) dell’uccisione dei due Quintili: ”Commodo uccise anche i due Quintilii, Condiano e Massimo, poiché gran fama avevano per il sapere e per l’arte militare, per la concordia e per le ricchezze, e dei beni che possedevano erano venuti in sospetto, e quantunque non pensassero a novità, si rattristavano per le cose contemporanee. E così questi, come sempre erano vissuti insieme, insieme morirono con un figlio…”. Su questa lunga scia rossa, di sangue, che ha attraversato nei secoli il V miglio dell’Appia nel tempo sono fiorite varie storie di fantasmi. Così, a quanto pare, dal giorno della loro morte, le ombre dei due Quintili, macchiate di sangue, apparirebbero dopo il tramonto del sole, secondo le tante testimonianze rese in tutti i tempi, silenziose ed inquiete, accompagnate soltanto dal sonoro fruscio delle vesti (5). La piccola fanciulla del Casale di Santa Maria Nova, invece, continua ad aggirar-

Luigi Rossini, “Veduta di Roma Vecchia” (Villa dei Quintili), dal “Viaggio pittoresco da Roma a Napoli” (1839)

si tra le sue mura e a molestare il sonno ed il riposo di coloro che si trovano nell’edificio, come i maldestri operai, che avevano disturbato il suo. Corre voce, ma non so quanto veritiera, che nelle notti di luna piena, i tre Orazi e Curiazi si incontrino sotto un vecchio pino e continuino a parlare del duello, mentre i due Quintili cercano disperatamente chi infranse i loro progetti e, per cercare di dimenticare, corrono dietro alla fanciulla, che, per divertirsi, canta filastrocche divertenti. Qualcuno giura, però, di aver visto vagare, aggirandosi tra le siepi che si trovano lungo l’Appia, una per6 unotiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018

sona robusta con una pelle di leone sul capo e la clava nella mano destra, sembrava Commodo, che, sospettoso, cercava di nascondersi e di scacciare gli incubi che da secoli lo tormentano. Non preoccupatevi, i custodi raccontano ai visitatori che il fruscio di vestiti che sfiorano di qua e di là le siepi e che il canto perfettamente udibile nel buio non siano altra cosa che il sibilo del vento che si insinua tra i ruderi del Casale e della Villa. In effetti c’è sempre molto vento sul poggio creato dalla colata lavica proveniente dalle antiche eruzioni del Vulcano Laziale!


Il busto di Commodo Il busto rappresenta uno dei capolavori più celebrati della ritrattistica romana e ritrae l’imperatore sotto le spoglie di Ercole, del quale ha adottato gli attributi: la pelle di leone sul capo, la clava nella mano destra, i pomi delle Esperidi nella sinistra a ricordo di alcune fatiche dell’eroe greco. Il busto, straordinariamente ben conservato, poggia su una complessa composizione allegorica: due Amazzoni inginocchiate (solo una è conservata) ai lati di un globo decorato con i simboli zodiacali, sorreggono cornucopie che si intrecciano intorno a una pelta, il caratteristico scudo delle Amazzoni. L’intento celebrativo che, con un linguaggio ricco di simboli, impone il culto divino dell’Imperatore è accentuato dalla presenza dei due Tritoni marini che fiancheggiano la figura centrale come segno di apoteosi. Il gruppo fu rinvenuto in una camera sotterranea del complesso degli Horti Lamiani segno, probabilmente, di un tentativo di occultamento.

Sale degli Horti Lamiani

Le Terme di rappresentanza. Sopra, panoramica del settore residenziale

Note

(1) - https://www.placidasignora.com/2011/09/28/la-misteriosa-fanciulla-della-via-appia-storia-di-unbellissimo-cadavere/ (2) - Silvia Matricardi, “In Aeternum”, “La saga di Ardit”, vol. III con numerosa bibliografia, curiosità ed ap-profondimenti del romanzo (3) - https://www.laboratorioroma.it/villa-quintili.html (4) - http://www.medioevo.roma.it/html/architettura/torri-ext/tex-quintili.htm (5) - www.magiadellamente.it/2018/07/04/i fantasmi-della-villa-dei-quintili/

Ulteriore documentazione

www.romanoimpero.com/2018/02/tomba-di-giulia-prisca-seconda.html www.istruzione.it/web/istruzione/esame-di-stato/commissione-web www.romeandart.eu/it/arte-fanciulla-cera.html www.anziospace.com/lintrigante-storia-damore-misteri-nerone-della-fanciulla-della-via-appia-vistasilvia-matricardi/ www.viaappiaantica.com Varie pubblicazioni del MIBACT, ad es. “La Via Appia - La Villa dei Quintili”, Electra, a cura di Rita Paris, Giuliana Galli, Riccardo Frontoni www.parcoarcheologicoappiaantica.it/luoghi/villa-dei-quintili-e-santa-maria-nova/ youtu.be/1Q4Ui2naG3A (Video sula Villa dei Quintili)

A dx, Musei Capitolini, Busto in marmo di Commodo (Imperatore dal 184 al 193 d.Cr.)

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Ubicati nella zona più alta dell’Esquilino, nell’area intorno all’attuale Piazza Vittorio Emanuele, gli Horti Lamiani furono fondati dal console Elio Lamia, amico di Tiberio, e passarono ben presto (già con Caligola) a far parte delle proprietà imperiali.


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A ROMA...

DONNE E FANTASMI… Il 14 ottobre, nell’ambito delle passeggiate sul tema “Roma Regina Aquarum”, ci siamo inoltrati nel cuore di Roma e ci siamo imbattuti in figure femminili, alcune famose, altre meno, che non possono lasciare indifferenti… DI ELENA CIPRIANI

Vittoria Accoramboni La prima è una sfortunata gentildonna della seconda metà del ‘500, la poetessa Vittoria Accoramboni (15571585); l’abbiamo incontrata nella piazza del Biscione, sotto le finestre di quello che fu il Palazzo Orsini. La sua storia viene raccontata dallo scrittore francese Stendhal nelle “Cronache italiane- Passioni e delitti nella Roma dei papi”, opera che l’ autore presentava come raccolta di semplici traduzioni documentali, riferite tutte a vicende e a personaggi del Rinascimento italiano, epoca che Stendhal sa rappresentare con grande suggestione. La raccolta figura nei quattordici

volumi di manoscritti italiani che l’ autore aveva messo insieme cercando nei tribunali, nelle biblioteche e negli archivi nei lunghi anni trascorsi in Italia; le cronache in argomento sarebbero, secondo la testimonianza dell’ autore, traduzioni fedeli agli originali, senza nessuna aggiunta romantica o letteraria. I critici, invece, ravvisano in questi scritti una sempre maggiore libertà che evidenzia lo stile tipico dell’autore e le tematiche care dei suoi romanzi. Solo per Vittoria Accorambroni si riconosce molta fedeltà all’originale. La storia, proveniente da un anonimo manoscritto italiano del Seicento, oggi conservato nella Bibliothéque Nationale di Parigi, narra 8 unotiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018

la fosca vicenda di questa giovane e avvenente gentildonna romana vissuta nella seconda metà del XVI secolo. Vittoria era una donna tra le più note del suo tempo: poetessa, dotata di straordinaria bellezza e grande ingegno, tanto che l’anonimo cronista scriveva che “per non adorarla occorreva non averla vista mai”. Originaria di Gubbio, viveva col padre nel palazzo di famiglia (poi demolito) a piazza Rusticucci vicino a San Pietro. Corteggiata da tutti i cavalieri di Roma, alla fine fu data in sposa ad un giovane Peretti, nipote di Felice Peretti, cardinale di Montalto (il futuro papa Sisto V). Il personaggio di Vittoria appare ancora oggi ambiguo: non è chiaro se fu un’intrigante abile e senza


Pasquino e Marforio parlano di Donna Olimpia “PASQUINO: Dov’è la porta di Donna Olimpia? MARFORIO: Chi porta, vede la porta; chi non porta, non vede la porta” “PASQUINO: Per chi vuol qualche grazia dal sovrano aspra e lunga è la via del Vaticano; ma se la persona è accorta corre da Donna Olimpia a mani piene e ciò che vuole ottiene. È la strada più larga e la più corta”.

Alessandro Algardi, busto di Olimpia Pamphili, Ermitage. Nella pagina accanto, a sx, Scipione Pulzone, Vittoria Accoramboni; a dx, Stendhal ritratto da Södermark, 1840

scrupoli, oppure una debole vittima dei parenti che da quel matrimonio conseguirono molti vantaggi. Ma al centro della storia è la passione che per Vittoria nutrì Paolo Giordano Orsini, potente e ricchissimo duca di Bracciano, che presto ne divenne l’amante. Per sposarla, l’Orsini prima strangolò la moglie Isabella (per presunta infedeltà e con l’appoggio dei fratelli di lei), poi fece assassinare il marito di Vittoria con uno stratagemma: una sera, mentre stava per andare a letto, il marito di Vittoria ricevette una lettera firmata dal cognato Marcello Accoramboni, esiliato da Roma e molto caro al Peretti. Nella falsa lettera, Marcello chiedeva aiuto e pregava il cognato di raggiungerlo per un affare urgente presso il palazzo di Montecavallo al Quirinale. Vittoria, presagendo il pericolo e assalita dal rimorso, scongiurò il marito di non andare; ma il giovane non si lasciò convincere e uscì di casa. Fatto appena qualche passo su per la sa-

lita di Montecavallo, cadde colpito da tre colpi d’archibugio. Gli assassini non furono mai scoperti e tanto meno i mandanti, ma a Roma tutti sapevano della relazione di Vittoria con il duca; tanto che, celebrato nonostante tutto il matrimonio, il Papa Gregorio XIII lo annullò. Quando lo zio Peretti divenne papa nel 1585 con il nome di Sisto V, la sua vendetta non si fece attendere e la storia dei due amanti, che tanto affascinava i romani dell’epoca, si tramutò in tragedia: i due dovettero fuggire verso il nord dell’Italia e il duca Orsini morì, pare per avvelenamento, lo stesso anno. Vittoria si ritirò a Padova, dove uno dei cugini di Paolo, Lodovico Orsini (che si occupava della divisione dei beni di famiglia), la fece uccidere. Vittoria concluse così la sua vita a ventotto anni. Il manoscritto ha uno stile cronachistico e la traduzione di Stendhal sembra non discostarsene troppo. La vicenda interessa perché pre-

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senta il modo di vivere del tempo in cui si svolge, quando gli omicidi per vantaggi personali erano all’ordine del giorno; quando la violenza e la sopraffazione dei ricchi era questione di ordinaria amministrazione.

Donna Olimpia Maidalchini La nostra passeggiata si è poi inoltrata nella favolosa Piazza Navona, dove, dalle finestre di Palazzo Pamphilj si affacciava Donna Olimpia Maidalchini (1594-1657) che fu una delle protagoniste della storia di Roma nel XVII secolo, soprannominata “la Pimpaccia di piazza Navona”. Figlia del capitano viterbese Sforza Maidalchini e di Vittoria Gualterio, nobildonna di Orvieto, era destinata fin dall’infanzia al convento, ma riuscì con uno stratagemma a sottrarsi al suo destino accusando il suo confessore di molestie sessuali. Quell’accusa si rivelò poi infondata, tanto che il frate venne riabilitato, ma l’episodio bastò perché Olimpia

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potesse evitare la tonaca e sposare un personaggio locale, Paolo Pini, ricco e facoltoso pur se anziano, che la lasciò vedova, ricca e libera dopo soli tre anni. Donna Olimpia, ambiziosa ed anche avida, scelse come secondo marito un nobile romano più vecchio di lei di oltre trent’anni, Pamphilio Pamphilj, conosciuto durante un pellegrinaggio a Roma, e che sposò nel 1612. Questi la introdusse nella società romana e, soprattutto, la imparentò con suo fratello Giovanni Battista, futuro papa Innocenzo X. La presenza di Olimpia accompagnò la carriera del cognato Giovanni Battista Pamphilj fino al conclave ed oltre, e non fu una presenza discreta: tutta Roma (a cominciare da Pasquino) parlava e sparlava di come Donna Olimpia apparisse molto più legata al cognato che al marito, di come chiunque volesse arrivare all’ecclesiastico Pamphilj dovesse passare attraverso la cognata, e di come costassero cari i suoi favori. Il popolo mormorava inoltre che fra i due non ci fosse solo quel rapporto spirituale e platonico ostentato in pubblico ma una vera e propria relazione intima. Rimasta vedova nel 1639 di Pamphilio, ricevette dal cognato papa il titolo di principessa di San Martino (di Viterbo) nel 1645. È certo che, così come era stata la principale artefice dell’elezione a Papa del cognato, quando questa si realizzò Olimpia divenne la dominatrice indiscussa della corte papale e di tutta Roma. Diventò, infatti, il consigliere più ascoltato dal Papa, quasi la sua ombra: il Papa si fidava praticamente solo di lei, e proprio per questo, nel giro di pochi anni, divenne la donna più temuta e più odiata di Roma. Olimpia animò con le sue gesta le cronache scandalistiche romane seicentesche: il soprannome di “Pimpaccia” deriva da una pasquinata, cioè uno scritto satirico lasciato sulla più celebre “statua

parlante” di Roma, Pasquino. In questo scritto Olimpia è definita “Olim-pia, nunc impia”. Si tratta di un gioco di parole: in latino olim = una volta e pia =religiosa; nunc = adesso e impia (empia, piena di peccati). Il popolo romano fece proprie le accuse di arroganza e avidità che le venivano mosse dalla corte papale e le volgarizzò chiamandola “la papessa”. Tra le pasquinate rimaste celebri sul suo conto: “Chi dice donna, dice danno” – “Chi dice femmina, dice malanno” – “Chi dice Olimpia Maidalchina, dice donna, danno e rovina.” Gli eccessi che le furono attribuiti erano soprattutto relativi ad un’ossessiva avidità di denaro e di potere: si diceva che la sua beneficenza fosse sempre interessata, come nel caso della protezione assicurata alle cortigiane che sembrava mascherasse una vera e propria organizzazione del traffico della prostituzione; si diceva che i comitati caritatevoli per l’assistenza ai pellegrini del Giubileo del 1650 fossero organizzati a scopo di lucro e che il Bernini, allora in disgrazia, avesse ottenuto la commessa per la fontana dei Fiumi di Piazza Navona solo per aver fatto omaggio alla Pimpaccia di un modello in argento alto un metro e mezzo del lavoro che voleva eseguire. Quando il 7 gennaio 1655 Innocenzo X morì, Donna Olimpia asportò dalla stanza di lui due casse piene d’oro e, a quanti le chiedevano di partecipare alle spese del funerale del papa rispondeva: “Che cosa può fare una povera vedova?” E così per l’avarizia dei parenti, il cadavere del pontefice rimase momentaneamente senza sepoltura, e solo grazie alla generosità del suo maggiordomo Scotti, che fece costruire una semplice cassa, e del canonico Segni, che intervenne finanziariamente per sostenere le spese, Innocenzo X poté essere sepolto nella chiesa di sant’Agnese in piazza Navona, peraltro da lui commissionata. 10 unotiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018

Allontanata da Roma, dopo la morte di Papa Innocenzo nel 1655, dal successore Alessandro VII, Donna Olimpia morì di peste nelle sue tenute viterbesi di San Martino al Cimino nel 1657. Secondo la tradizione popolare la Pimpaccia, continuò ad imperversare anche post mortem, animando Roma con le sue scorribande notturne. La leggenda vuole che il 7 aprile, anniversario della morte di Innocenzo X, la Pimpaccia attraversi ancora le strade del centro di Roma su una carrozza fiammeggiante, dal palazzo di Piazza Navona, passando il Tevere a Ponte Sisto, per recarsi a fare i bagni in un palazzo a Trastevere, terrorizzando i passanti e facendo dispetti a chi le capiti sotto mano. Alcuni toponimi di strade romane ancora oggi la ricordano, come via e piazza di Donna Olimpia; fino al 1914 esisteva, fuori Porta San Pancrazio nei pressi di villa Pamphilj, anche una Via Tiradiavoli, così denominata perché si diceva che lo stesso carro di fuoco la percorresse di gran carriera per portare la Pimpaccia alla villa papale, e che i diavoli vi avessero aperto una voragine per riportarsi all’inferno la Pimpaccia, il carro e tutti i tesori da lei accumulati in vita.


Costanza Conti de Cupis All’angolo della Piazza con Via dei Lorenesi, dietro alla fontana del Nettuno, si trova Palazzo Tuccimei (già de Cupis Ornani) eretto nella seconda metà del XVI secolo, su un palazzetto e delle case limitrofe del secolo precedente. Tra il Settecento e l’Ottocento era sede di un famoso teatro dei burattini, il teatro Ornani, dove si facevano le rappresentazioni dei pupi siciliani. Il palazzo fu voluto da Giandomenico Cupis, storico cardinale capitolino, e della famiglia Cupis rimane ancora lo stemma, caratterizzato da un ariete rampante, sulla facciata del palazzo in via dell’Anima, scolpito a bassorilievo sul grande portale bugnato. Nel 1817 il palazzo fu poi acquistato dall’avvocato Tuccimei. Questo palazzo è strettamente legato alla presenza di uno dei più noti fantasmi romani, quello di Costanza De Cupis o meglio della sua mano. Ma chi era Costanza? Visse nei primi anni del Seicento, apparteneva alla famiglia dei Conti e andò sposa al nipote del Cardinale Giandomenico De Cupis. A quanto pare, era bellissima ma l’oggetto dell’ammirazione della donna erano soprattutto le sue

mani. Bisogna considerare il fatto che al tempo, ai primi del Seicento, le dame erano solite esporre in pubblico soltanto minute porzioni del proprio corpo: il viso, quasi sempre incorniciato dal velo, e le mani, ma solo d’estate, quando non c’era bisogno di ricoprirle con i guanti. Le mani di Costanza, dunque, colpirono l’attenzione di parecchie persone, e in particolare dei trovatori che si occupavano di rallegrare le serate delle nobili corti romane. L’elogio delle mani di Costanza arrivò dunque fin nelle botteghe dei molti artisti che prolificavano per le vie del centro. Uno di questi scultori, passato alle cronache con il suo soprannome, Bastiano alli Serpenti , si incaricò dunque di realizzare un calco in gesso della preziosa mano della nobildonna. Calco che, successivamente, fu esposto nella vetrina della bottega stessa, protetto da una teca e adagiato su di uno sfarzoso cuscino di velluto. Il pezzo d’arte divenne in breve tempo tra i più ammirati di Roma intera: tra tanti commenti, colpì però quello di un frate domenicano, predicatore in San Pietro in Vincoli, il quale, forse per farsi bello, forse per scandalizzare gli astanti, escla-

mò che quella mano scolpita era così bella, che se fosse appartenuta ad una persona reale, avrebbe corso il rischio di essere tagliata da qualcuno. Il commento arrivò alle orecchie della stessa Costanza. La quale, essendo molto religiosa, si impressionò moltissimo, anche per la qualifica di colui che aveva pronunciato quella frase, e per il timore di aver peccato di vanità, lasciandosi convincere a prestare la sua mano per l’opera di un artista. Chiese che il calco fosse distrutto. Il frutto della suggestione (o della maledizione) fu così forte, che nonostante Costanza avesse deciso di chiudersi in casa per paura che si potessero realizzare i foschi presagi del frate o che ci fosse qualche pazzo in giro munito di ascia, accadde qualcosa di irreparabile: mentre stava ricamando, si punse un dito. Una strana ferita, profonda, che cominciò ad infettarsi. A dispetto di tutte le cure adoperate, racconta la storia, la ferita continuò a peggiorare fino a procurare la cancrena della mano, che dovette essere amputata. Non basta: Costanza non riuscì a salvarsi, morì per aver contratto la setticemia a seguito dell’intervento di amputazione. Si dice che da allora, quando la luna illumina le finestre del palazzo, la luce che si riflette sui vetri riveli una pallida forma con cinque dita, visibile dalla strada sottostante. Il fantasma della donna, invece, sembra che faccia fugaci apparizioni lungo i muri della strada: secondo alcuni tenta invano di ricongiungersi alla sua mano, mentre per altri cerca semplicemente di vivere la vita che, dopo la segregazione in casa, non ha mai vissuto.

Calco di mano femminile (Museo Napoleonico). Nella pagina accanto, Costanza Conti De Cupis (XVII secolo)

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cosemai viste

Aggiungiamo altre due sorprendenti curiosità al nostro contenitore di “Cose mai viste”

PICCOLE PER LE GRANDI STRADE STORIE DI ROMA DI RINALDO GENNARI

Un volto inquietante a Piazza Navona

Il poeta Gioacchino Belli scriveva di Piazza Navona in modo ineffabile “ Se po’ fregà piazza navona mia e de San Pietro e de piazza de Spagna, questa nun è una piazza è una campagna, un treato, una fiera, un’allegria” versi fotografici direi, verificabili sul posto, come ci sarà accaduto più e più volte e in ogni stagione,

rapiti dalla scenografia circondante apparecchiata sulle tre fontane, di cui l’ultima, quella del Nettuno, sul lato dei calderai, in opposizione a quella del moro, accostata invece al lato più nobile della piazza e dirimpetto al palazzo Pamphili, ha una storia insospettabilmente recente. La vasca di raccolta delle acque era stata realizzata da Giacomo Della Porta nell’ultimo quarto del secolo sedicesimo, ma era rimasta priva di una statua sversante, come si poteva 12 u notiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018

ben immaginare per essere in consonanza con l’altra già definita sul lato sud. In effetti, fu completata solo dopo il 1870, dopo l’arrivo a Roma dei piemontesi, che si risolsero a trovare il vertice centrale a quella che era rimasta solo una gran vasca utilizzata in modo profano dai fruttivendoli del mercato che si teneva nella piazza, attraverso un concorso con premio al progettista di lire 5.000. Vinse il premio lo scultore Antonio Della Bitta, di cui però ab-


Roma, Piazza Navona, facciata del palazzo con la testa d’uomo (foto M. Romano). In apertura, Piazza Navona

biamo perso ogni altra traccia, uscito poi dai radar senza aver demeritato. Ma non è questo che deve finire nel nostro contenitore di “Cose mai viste”, bensì una presenza marmorea ben più modesta, quasi invisibile, e in qualche misura inquietante. Occorre un po’ di buona volontà per ritrovarla, e come prima indicazione, diciamo che occorre voltarsi al lato ovest della piazza, dopo la Chiesa del Borromini di S. Agnese in Agone. Oltrepassata la Via omonima della Chiesa, l’edificio che segue ospita il noto ristorante dei Tre Scalini, mentre nell’edificio successivo di appoggio, all’altezza del secondo piano, tra la prima e la seconda finestra, su un muro intonacato e senza pregi di sorta, appare una testa d’uomo, in marmo, muta, sola, priva di riferimenti e possibili suggestioni. Chiederci di chi si tratta è d’obbligo, e nulla possiamo dire con certezza, se

non storie tra la leggenda e la favola, che doverosamente riportiamo. La zona, anche un tempo era luogo di elezione per osti e trattorie, cantine per la somministrazione di un bicchiere di vino, più o meno annacquato. Si dice che papa Sisto V, con tutto il portato del suo carattere decisionista ed intrigante, avesse preso l’abitudine di frequentare in incognito il popolino per conoscerne i sentimenti verso il papa, e quindi privilegiasse certe bettole per sentire direttamente gli umori del popolo. Una sera incappò in un oste che per sua sfortuna si trovò a commentare certe gabelle del papa, senza sapere che stava servendogli del vino. Dopo aver pagato e preso nota del posto, il giorno successivo fece arrestare il pover’uomo, cui fu tagliata la testa. Tempo dopo, terminato quel pontificato, sembra che la congregazione degli osti, abbia voluto ricordare e

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rendere omaggio allo sprovveduto e improvvisato comiziante, che si diceva essere stato davvero un brav’uomo, con una testimonianza quale è quella che ora ci occupa. Non sappiamo se le cose siano andate davvero così o se quella testa altro non è che un modo consueto di costruire con elementi di spoglio causalmente rinvenuti negli scavi delle fondamenta delle personali dimore dei nobili, come è probabile, essendo che la piazza insiste con precisione sull’antico circo agonale. Il palazzo che ospita l’insolita presenza è palazzo Tuccimei, ex de Cupis Ornani, che già è stato protagonista della vicenda della “mano fantasma” di cui la volontaria Elena Cipriani parla proprio in questo numero. Da annotare che, per quei casi strani della storia, la famiglia dei Tuccimei, fu tra quelle che si schierarono in modo fermo

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cosemai viste

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e irresoluto insieme a tutta la nobiltà “nera” proprio dalla parte del papa all’arrivo dei piemontesi nel 1870!

Buche delle lettere

Uscendo dalla Piazza Navona dal lato sud, abbiamo di fronte il Palazzo Torres Lancellotti, oggi sede dell’ASPEN Institute Italia, la prestigiosa associazione privata, indipendente e internazionale, apartitica e senza fini di lucro che persegue l’internazionalizzazione della leadership imprenditoriale, politica e culturale del Paese attraverso il libero confronto tra le idee per identificare e promuovere valori, conoscenze e interessi comuni. La storia di questo palazzo risale ai primi anni del 1500 e sembra doversi attribuire all’architetto napoletano Pirro Ligorio, che ricevette la commessa da una ricca famiglia conversa proveniente dalla Spagna, da Malaga, i de Torres, che erano giunti in Italia al seguito di Carlo V. Furono interpreti di Colombo nei viaggi verso l’America ed erano noti per essere detentori di un grande compendio di carte geografiche. Ma di questo Palazzo, che poi passò per eredità nelle mani della famiglia Lancellotti, vogliamo inserire nel nostro contenitore di cose mai viste solo piccoli frammenti di storia e, allora, ne troviamo due proprio nel lato a sinistra del palazzo in questione guardando la facciata, nella piccola Via della Posta Vecchia che poi si piega in vicolo della Cuccagna, toponimo a memoria che sulla piazza del vicino Palazzo Braschi veniva innalzato l’albero della cuccagna. Ad altezza d’uomo, troviamo due buche per le lettere, buche storiche, ravvicinate fra loro, un tempo usate per raccogliere la corrispondenza in spedizione proprio dalla “posta” che era ospitata inizialmente appunto in quel palazzo, tanto da far denominare la via laterale come della Posta Vecchia, e la cosa che incuriosisce

Le buche delle lettere in via della Posta Vecchia e, sopra, poco distante, la fontana (foto M. Romano)

è la diversa dimensione delle due “buche”, la grande per l’interno, più piccola quella per l’estero, tanto per provare ad immaginare meglio i livelli dei flussi di una corrispondenza insospettabile. E proprio per non farci mancare niente, l’occasio14 u notiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018

ne è propizia per gettare uno sguardo ad una delle primissime fontane realizzate a Roma dal governo piemontese dopo il 1870, reca infatti la data del 1872, e la scritta SPQR, appena due anni dopo la storica breccia di Porta Pia!


attivitàsul territorio

DI B U L C TERRITORIO A CURA DI ELISA BUCCI

Console TCI

Pianta Scavi di Ostia, 1925, T.C.I.

Vi presentiamo i resoconti della quinta e della sesta passeggiata del Progetto “Roma, Regina Aquarum”

PASSEGGIATA DEL 3 GIUGNO 2018

Il Parco Archeologico di Ostia antica DEL CONSOLE CHIARA BELFIORE

La visita a Ostia Antica, tra le passeggiate organizzate alla ricerca e riscoperta dei luoghi d’acqua a Roma, è stata probabilmente quella ha richiesto un notevole sforzo di immaginazione per cercare di visualizzare la presenza capillare, l’importanza e la possenza dell’acqua in un sito dalla lunghissima vita. Abbiamo percorso le antiche strade cercando far rivivere le testimonianze dell’acqua che ancora oggi sono percepibili, abbiamo incontrato pozzi, cisterne, acquedotti, ninfei, terme e latrine facendo ogni volta salti nel tempo per comprendere la quotidianità e la “normalità” dell’acqua in una città antica. Allo stato attuale Ostia Antica si inserisce in un contesto geografico e territoriale assai diverso dall’antico, in età romana il Tevere rasentava il lato settentrionale del centro abitato mentre ora lambisce, e solo in minima parte, un breve tratto del settore occidentale, il letto del fiume infatti si spostò a valle di oltre 1 Km a causa di una disastrosa alluvione nel 1557. La linea di costa, in origine vicina alla città, tanto che, a ridosso della cosiddetta Porta Marina, esistono i resti di una darsena, risulta attualmente più lontana di circa 4 Km. Se l’acqua della natura era quindi un elemento geografico di assoluta importanza nella vita quotidiana e nell’economia ostiense, non meno rilevante era l’acqua per così dire imbrigliata dall’uomo per le proprie necessità e il proprio godimento. I Romani hanno avuto sempre, e a Ostia in particolare, grazie uu notiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018 u15


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DI B U L C TERRITORIO uu anche

alla presenza di numerosissime falde nel sottosuolo, il desiderio preciso e sistematico di far arrivare in tutti i nuclei abitati masse enormi di acqua salubre, lo spiccato senso pratico che ha sempre distinto le progettazioni romane mise la scienza, le conoscenze tecniche e anche le leggi al servizio della pubblica utilità. Il nostro itinerario, iniziando dalla Via Ostiense in entrata nella città, ci ha fatto immediatamente incontrare i Cippi del Pretore Caninio (140-130 a.C.) posizionati lungo il lato destro della strada per delimitare un’ampia area demaniale tra il fiume e la città in cui era fatto divieto di costruzione poiché la zona era soggetta a frequenti inondazioni.

Proseguendo lungo il Decumano abbiamo iniziato a viaggiare nel tempo: a destra le Terme dei Cisiari (II sec. d.C.) importanti dal nostro punto di vista perché al loro interno è stata rinvenuta una ruota lignea di sollevamento idrico, situata in un ambiente appositamente costruito sopra una falda acquifera ancor oggi attiva, alla sinistra un grande ninfeo-abbeveratoio punto di arrivo dell’Acquedotto (databile all’epoca di Domiziano) e quindi, proprio nel centro stradale del Decumano Massimo un pozzo che risale di certo a non prima del V secolo, quando nel 410 i Visigoti di Alarico tagliarono gli acquedotti e fu necessario captare l’acqua dove era possibile fosse anche il centro della sede stradale.

Terme dei Cisiari (foto E. Bucci). Sopra, lungo il Decumano Massimo (foto M. Marzano)

Abbiamo proseguito poi fino alle grandi Terme di Nettuno, impianto pubblico tra i più imponenti della città sotto la cui Palestra è un’enorme cisterna di raccolta alimentata sia dalle acque piovane convogliate grazie a canali di scolo dai tetti, sia da acquedotto. E’ un ampio spazio (36 m x 26 m) diviso in sette lunghe celle utilizzato per il rifornimento dell’acqua necessario alle imbarcazioni che risalivano il Tevere e come deposito terminale dell’acquedotto fino alla costruzione del Castellum aquae del Piazzale della Vittoria. Le pareti sono completamente rivestite in signino, particolare intonaco impermeabile, e vi si accedeva grazie a quattro scale situate a Nord e a Sud, la cisterna era inoltre funzionale ai Vigili, il corpo preposto allo spegnimento dei frequenti incendi, la cui Caserma si trova alle spalle delle Terme. Nella nostra passeggiata abbiamo potuto ammirare anche una serie di fontane pubbliche che si trovano distribuite lungo le strade, erano generalmente del tipo cosiddetto a bauletto, raccoglievano acqua di varia provenienza e avevano sul fronte cannelli sotto i quali si trovano spesso alloggiamenti in travertino nei quali poggiare anfore o damigiane. Ancora avanti abbiamo ammirato due grandi ninfei monumentali posti proprio ai lati dell’ingresso del teatro, erano rivestiti con paste vitree di colori diversi e 16 unotiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018


l’acqua fuoriusciva da elementi ornamentali in marmo creando un grande effetto decorativo. Non va poi dimenticata l’acqua utilizzata per le “industrie”, eccoci arrivare al Grande Mulino, una magnifica struttura in cui ancora oggi è visibile, e comprensibile, un largo spazio nel quale le macine lavoravano a pieno ritmo e sul retro un vero e proprio laboratorio per l’impasto e la cottura dei pani. Volendo ancora legare l’acqua, il nostro fil rouge, alla quotidianità non poteva mancare una visita alla latrina pubblica situata dietro le terme del Foro, è un’area che oggi non potremmo neanche più immaginare, gli ambienti sono due, probabilmente per uomini e donne, ma “multipli”. I sedili corrono lungo il perimetro e l’acqua riveste qui un compito fondamentale, scorreva di continuo lungo un canale ai piedi dei sedili in travertino rendendo gli ambienti, se non accoglienti secondo i nostri criteri moderni, sicuramente pulitissimi.

Il Mulino del Silvano (foto M. Marzano)

Latrina pubblica (foto E. Bucci)

L’ultima tappa del nostro lungo e articolato giro è stata la Domus di Amore e Psiche, ricca casa privata del IV secolo d.C. che deve il suo nome ad un piccolo gruppo scultoreo rinvenuto in uno dei cubicoli e che ne ha fatto il simbolo romantico di Ostia Antica. Si accede da un vestibolo porta ad un ambiente centrale le cui quattro arcate su colonne danno su un piccolo giardino interno, con un ninfeo sul lato di fondo. Il ninfeo mostra un podio con cinque nicchie semicircolari, con un piccolo scivolo scalettato in marmo per far scendere l’acqua; al di sopra la parete presenta altre cinque nicchie per statue, alternativamente rettangolari e semicircolari, in origine rivestite a mosaico e a paste vitree, inquadrate da colonnine in marmo. Le sale che si aprono lungo il vestibolo di fronte alla fontana sono completamente rivestite in opus sectile in marmi colorati così come la grande sala di rappresentanza posta sul fondo e sopraelevata di un gradino. uu

Domus Amore e Psiche (foto M. Marzano)

Il nostro gruppo (foto M. Marzano)

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Domus Amore e Psiche (foto E. Bucci)


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DI B U L C TERRITORIO uu

PASSEGGIATA DEL 10 GIUGNO 2018

Da Ponte Flaminio al Foro Italico Stadio dei Marmi con in fondo la Farnesina. A destra, l’Obelisco (foto M. Belati)

DEL CONSOLE ANDREA PORTANTE La passeggiata ci ha portato nella zona nord della città, nel tratto del Tevere fra il ponte Duca d’Aosta e Ponte Flaminio, e si è concentrata sugli sviluppi architettonici ed urbanistici di quest’area nella prima parte del XX secolo. Il complesso del Foro Italico ne costituisce certamente l’elemento più caratterizzante. Nata come campus per la formazione fisica ed ideologica dei giovani, l’area è stata successivamente ripensata come fulcro monumentale dell’attività politica, con la sede del Partito Nazionale Fascista (oggi Farnesina) ed uno spazio per adunate modellato su quello di Norimberga, che avrebbe dovuto ospitare un colosso del Duce alto 80 metri. I diversi stili architettonici che si possono osservare all’interno del medesimo complesso, riflettono perfettamente le diverse fasi del rapporto fra fascismo e arte/architettura: da un neoclassicismo di derivazione austriaca (ISEF), alle linee più moderniste della Sala delle Armi, agli elementi romaneggianti dello Stadio dei Marmi. All’ingresso si staglia l’obelisco in marmo di Carrara dedicato a Mussolini. Una altezza totale di 40 metri di cui 17 costituiti da un monolite trasportato dalle Alpi Apuane su slitte, nave e chiatte in un percorso che ha richiesto oltre due anni. Sullo sfondo il Palazzo della Farnesina, il cui progetto originario era stato realizzato per la sede monumentale del PNF (Partito Nazionale Fascista) e poi riconvertito in Ministero degli Esteri e, poco più avanti, lo Stadio dei Marmi, realizzato per ospitare i saggi ginnici e le adunate del regime ma che ospitò anche, nel 1948, la prima Festa dell’Unità ad onore di un Togliatti che rientrava a Roma dopo l’attentato cui era sopravvissuto. Tre sono i ponti toccati nel nostro itinerario: il Ponte della Musica, moderno ma previsto fin dai primi progetti urbanistici, Ponte Milvio, testimone della storia antica ma anche del Risorgimento. 18 unotiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018


Sopra, Presa di Ponte Milvio, 1849 (www.tesoridiroma.net) A sx, Veduta del corso del Tevere, 1939 (Archivio del Museo Aereonautico Caproni)

Un tempo direttrice di uscita verso nord per il traffico anche motorizzato ed oggi pedonale, Ponte Milvio mostra le stratificazioni storiche con blocchi ancora romani alla base, sovrastrutture rinascimentali e la Torretta Valadier, realizzata nel 1805. Il ponte fu fatto saltare da Garibaldi nel 1849 durante i combattimenti per la Repubblica Romana. Vediamo poi il ponte Duca D’Aosta, porta d’accesso al Foro Italico, decorato con le gesta dei soldati italiani nella prima guerra mondiale a simboleggiare il passaggio di consegne e la continuità fra vecchi e giovani italiani, ed in lontananza il Ponte Flaminio, con i resti del ponte “Bailey” il ponte provvisorio costruito durante i lavori di rinforzo del Ponte Flaminio, principale arteria nel nuovo assetto urbanistico realizzato in occasione delle Olimpiadi di Roma 1960. Quel tratto del Tevere è oggi molto diverso da come si presentava nei secoli scorsi, quando tutta la zona, sia dell’attuale Foro Italico che dell’attuale Flaminio, era uu notiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018 u19


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DI B U L C TERRITORIO PROGRAMMAZIONE INIZIATIVE CONSOLI E VOLONTARI DI ROMA PROGETTI ANNO 2019

“ROMA DAL 1870” “I PERCORSI DEL GUSTO”

Il nostro gruppo (foto M. Belati)

FEBBRAIO – MAGGIO

uu campagna.

22 FEBBRAIO Conferenza “La capitale all’indomani della proclamazione” – Biblioteca Angelica Referente Giorgio Levantesi 2 MARZO Conferenza “L’Architettura romana dopo il 1870” Referente Andrea Portante 17 MARZO Passeggiata “Roma dal 1870 - Rione XV Esquilino” Referenti Mauro Belati e Massimo Pratelli 28 MARZO * Visita al Palazzo delle Finanze Referente Rosalia di Bella 6 APRILE Visita al Palazzo del Ministero dello Sviluppo Economico Referente Massimo Marzano

Solo con il piano regolatore del 1889 si iniziano a vedere progetti di sviluppo urbanistico che prendono la loro forma definitiva nel 1908. Il disegno non è esattamente quello poi realizzato, ma gli elementi formali sono rimasti gli stessi. In particolare, resta la grande piazza sul Tevere in fondo a Via Guido Reni (piazza Gentile da Fabriano) da cui si diparte un tridente che cita e riprende quello più noto di Piazza del Popolo. Sulla base di questo disegno si iniziano a tracciare le strade e si realizzano i primi interventi residenziali, peraltro di edilizia pubblica. Si notano, sul lungo fiume, numerosi edifici di questo tipo, che precedono i molti altri di epoca “fascista”, realizzati per ospitare gerarchi e impiegati pubblici. Non mancano i circoli sportivi della stessa epoca. Il fiume era rimasto quasi intatto, al naturale, fino a metà 900, quando ancora esistevano numerose “spiagge” per la balneazione e lo sport. La zona era, tuttavia, estremamente esposta alle inondazioni, cosa che ha portato alla realizzazione degli argini di contenimento, che hanno dato protezione ma reso il fiume meno fruibile. In sintesi la passeggiata ha mostrato due paralleli: la vocazione sportiva, con il foro Italico e le opere per Roma 1960 e la connotazione politica, dal Fascismo alla liberazione alle lotte politiche della giovane democrazia Italiana.

7 APRILE Passeggiata “Roma dal 1870 – Rione XVI Ludovisi” Referenti Massimo Marzano e Paola Palmucci 14 APRILE Passeggiata “Roma dal 1870 – Rione XXII Prati” Referenti Rosalia di Bella e Raffaele Focarelli 5 MAGGIO Passeggiata “Roma dal 1870 – Rione XX Testaccio” Referenti Patrizia Coppola, Simonetta Mariani e Massimo Romano 26 MAGGIO Passeggiata “I percorsi del Gusto – Centro storico” Referenti Vittorio Gamba e Massimo Marzano

In Redazione: Alessia De Fabiani e Massimo Romano Grafica e impaginazione: Gianluca Rivolta Hanno collaborato a questo numero: Massimo Marzano, Elena Cipriani, Rinaldo Gennari, Elisa Bucci, Chiara Belfiore, Andrea Portante SEGRETERIA ORGANIZZATIVA APERTI PER VOI ROMA: Piazza Santi Apostoli, 62/65 Apertura dedicata ai volontari dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 13.00. Tel. 06.36005281-1” apertipervoi.roma@volontaritouring.it

* La data è suscettibile di modifica

ALTRE INIZIATIVE PROGRAMMATE 18 MAGGIO Passeggiata fra ritrovamenti archeologici ed importanti edifici storici ai margini della via Ardeatina, in collaborazione con il Comitato di Quartiere di Grottaperfetta

20 unotiziario 5/6, Ottobre/Dicembre 2018


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