notiziario dei Volontari di Roma anno III – speciale 2 - ottobre 2018
UNA PIETRA
ROMANA DALLA TESTA QUADRATA
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Il dibattito tra i favorevoli e i contrari sull’uso di questa pietra per la pavimentazione delle vie e piazze romane è in corso da secoli ed è particolarmente vivo ai nostri giorni, perché rientra nelle polemiche sulla situazione delle strade della nostra città. Naturalmente non entriamo nel merito della discussione, vogliamo solo raccontare, con questo interessante lavoro del Volontario Gianni Ricci, la storia affascinante di un oggetto che è diventato uno dei simboli della romanità. Sì, “il sampietrino” o “il sanpietrino” (come lo chiamano i “forastieri”, quelli di fuori Roma) o “er sercio” (come lo chiamano affettuosamente i “veri romani”) è proprio una pietra familiare, qui a Roma, specie al centro città. Ricordiamo subito che lo stesso nome di “sanpietrino”, attribuito alla pietra di cui parliamo, fu dato tradizionalmente anche agli operai della basilica di S. Pietro in Roma, addetti alla sua manutenzione e al suo addobbo. Non ci crederete ma esso è proprio l’erede del basolato delle strade degli antichi romani. Ricordate la Via Appia antica? Come tutte le vie consolari, o quelle principali dell’Urbe, la strada romana era costituita da quattro strati sovrapposti di materiali: lo Statumen, lo strato più in basso, alto circa 30 centimetri, costituito da grosso pietrame legato da malta di calce; il Rudus, un secondo strato, messo sopra, di circa 15 centimetri caratterizzato da pietrame più fino sempre legato a malta di calce; poi il Nucleus, il terzo strato, di circa 10 centimetri, di sabbia e ghiaia, senza alcun utilizzo di calce; da ultimo, in superficie, la Summa Crusta, composta da blocchi di lava (cioè di dura e resistentissima selce, ecco da dove viene la parola romana “sercio”!) o di arenaria, di forma poligonale, dello spessore di circa 35 centimetri, blocchi che venivano affondati nella sabbia del nucleus appena steso.
Da questa tecnica costruttiva “a strati” deriva il moderno termine italiano “strada” e ovviamente anche l’inglese “street” o il tedesco “strasse”. Bene, possiamo quindi argomentare che il nostro sampietrino viene dai blocchi di selce, i basoli, della Summa Crusta delle strade romane! Il selciato a sampietrini è il “figlio” evoluto del selciato a blocchi irregolari delle antiche strade romane! 2 uspeciale 2, Ottobre 2018
Dobbiamo poi ricordare che a Roma, fino al Rinascimento, la pavimentazione stradale più in uso era il “mattonato”. Per tutto il ‘500 la selciatura venne considerata come una pavimentazione poco sana e diffusiva di umidità e come tale era severamente proibita. Forse questa argomentazione derivava dal fatto che le strade dell’epoca non avevano le fogne, o quest’ultime funzionavano male, e il selcio, più impermeabile del mattone, faceva sì che la strada rimanesse più a lungo bagnata dall’acqua piovana e dai liquami. Il selciato a sampietrini “moderno”, così come lo vediamo anche oggi in città, si dice che sia stato inventato a fine ‘500 sotto Papa Sisto V Peretti, grande committente di opere pubbliche. Egli regnò nel periodo 1585-1590 ed è il secondo papa “residente” nella Villa estiva di Monte Cavallo (poi diventata il Palazzo del Quirinale). Il papa ordinò che 120 strade venissero lastricate a pietre di basalto. La selciatura veniva allora fatta sopra un letto di malta. Poi per molti decenni ritornarono di moda i vecchi “mattonati”, ma ricordiamo che, fino al principio del ‘700, le vie di Roma erano in maggioranza ancora in terra battuta, polverose, non pavimentate. L’ufficiale denominazione di “sampietrino” nasce invece nel 1725, quando il Prefetto ed Economo della Fabbrica di San Pietro, Monsignor Sergardi, dopo aver valutato le pessime condizioni in cui versava piazza San Pietro - percorrendo la quale, poco tempo prima, la carrozza che trasportava il papa Innocenzo XIII si era quasi ribaltata - fece lastricare la piazza con i caratteristici blocchetti di pietra vulcanica dagli operai della vaticana Fabbrica di San Pietro (chiamati “sanpietrini”), blocchetti che da questi operai presero anch’essi la denominazione di “sampietrini”. Col trascorrere del tempo, questo tipo di pietra fu utilizzato per lastricare tutte le strade principali di Roma: si comportava meglio degli altri lastricati esistenti all’epoca per quanto riguardava il passaggio e il peso delle carrozze, dei carri e dei cavalli. L’uso del sampietrino per pavimentare le strade si fa via via più frequente nel ‘600 e ‘700. La selciatura dei sampietrini cominciò poi ad essere “a secco” (cioè essi venivano adagiati non su un letto di malta semiliquida ma su uno di sabbia e/o pozzolana asciutte, e venivano ricoperti di sabbia e tufo trito) e finì con il prevalere e divenire usuale, corrente. Il papa Clemente XII Corsini nel 1736 ne fece largo uso sulle strade dei rioni e su via del Corso. Con l’Unità d’Italia il sampietrino diventa un materiale molto richiesto in città. Dopo la Breccia di Porta Pia (1870), a piazza Navona viene rinnovata la pavimentazione con la costruzione di un grande marciapiede centrale in sampietrini. Famose sono rimaste anche le pavimentazioni di Piazza del Campidoglio (1940), ispirata a disegni di Michelangelo, e quelle di Piazza San Pietro (rifatta nel 1936), Piazza del Quirinale, del Pantheon, di Piazza del Popolo e di Piazza Venezia. Ma anche di luoghi meno celebrati: via Cavour, via Nazionale, i Lungotevere, oppure Piazza di Montecitorio (che è stata ripavimentata di recente, nel 1998, con “serci” e inconsueti “chiodi-stelle della Repubblica”, in titanio, conficcati nella pavimentazione). uu speciale 2, Ottobre 2018 u3
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Fateci caso: anche il Cortile d’Onore, spazio interno al Palazzo del Quirinale, risulta ancora oggi pavimentato con sampietrini e lastre di selce, con le fughe riempite di sabbia e tufo trito. 4 uspeciale 2, Ottobre 2018
Tutti i “serci” vengono dalle rocce vulcaniche proprie delle cave della zona dei Colli Albani e delle altre zone laviche laziali. La composizione è roccia di basalto oppure di porfido. Quello tipico romano ha il colore grigio-azzurrino e la forma di un tronco di piramide, la cui base quadrata misura di norma cm. 12x12x18h (i più grandi), oppure, 10x10x16h (sono i medi, i più comuni) mentre la forma piccola, a cubetto, è la 6x6x6h, “i quadrucci” (sono i selci più raffinati per la loro lavorazione più accurata). Tutti i serci a tronco di piramide vengono infissi di punta su letto di malta o di sabbia. In un metro quadrato di serci medi, se ne contano circa 70. I “mancati” sampietrini, cioè le “breccole”, gli scarti della lavorazione del sampietrino - che viene sagomato a mano a colpi di mazzetta -, il pietrisco di piccola pezzatura, viene recuperato e può andare a costituire, ad esempio, la “massicciata ferroviaria”, su cui poggiano le rotaie sulle quali corrono i treni. Quando le cave laziali hanno cominciato ad esaurirsi, i sampietrini locali sono stati integrati, prima con mezze piramidi tronche in porfido dell’Alto Adige, poi sono stati fatti arrivare addirittura dalla Cina (i cosiddetti “cinesini”) e recentemente anche dal Vietnam.
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I “serci” si distinguono anche per il disegno della loro posa in opera: sfaccettati a mano (col taglio detto appunto “a mano”) a colpi di mezza mazza, e disposti a terra gli uni a fianco agli altri, possono essere messi in fila dritta per dritta o in diagonale o, più elegantemente, a coda di pavone, ossia “a ventaglio”. Il sampietrino, il selciato romano per eccellenza, rappresenta quindi una tipologia di pavé, di pavimentazione stradale. Esso ci ricorda visivamente l’opus reticulatum dei muri romani antichi. Ma quali figure professionali “maneggiano” i sampietrini? Un tempo esisteva la figura del “serciatore”, l’artigiano addetto alla creazione del sampietrino, che lavorava all’interno delle cave di selce, dove svolgeva il compito di dare forma al futuro “sercio” a colpi di mazza e di mazzetta; secondo le tecniche usate nel trattamento della pietra, si ottenevano vari tipi di selci: i “bastardoni”, così chiamati perché poco lavorati e un po’ meno precisi nella loro fattezza; i “sampietrini” di dimensioni più piccole rispetto ai “bastardoni”; le “regarelle” dalla particolare forma a parallelepipedo, con base rettangolare; il “cubetto” ritenuto il selcio più raffinato per la sua lavorazione accurata. A questa figura si aggiungeva quella del “serciarolo”, l’operaio-artigiano che si occupava della posa in opera dei selci e della loro disposizione, e di rimettere in linea i sampietrini quando uscivano fuori dalla propria sede. Il tutto con l’arnese per l’interramento, detto “mazzapicchio” o “pilone”, grosso tronco di legno rinforzato da cerchi in ferro: il selciarolo, dopo aver sistemato i sampietrini l’uno accanto all’altro, ripassava l’opera con il mazzapicchio, sollevandolo e battendolo sulle pietre per eguagliarne il profilo superiore. Ai tempi d’oggi una macchina vibratrice, detta “la ballerina”, assesta i sampietrini al posto del vecchio attrezzo manuale.
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Ma per entrambe le figure, l’arte di creare oppure di sistemare a terra il sampietrino è sempre meno conosciuta e purtroppo sembra andare gradualmente scomparendo; oggi i veri artigiani del settore si contano sulle dita di una mano. Quindi il selciato romano “moderno” a sampietrini ha circa 500 anni, ma non sempre portati bene. Il suo uso principale è avvenuto in quello che, oggi, chiamiamo il Centro città, con i suoi 350 chilometri di strade. Il suo attuale deterioramento ha come prima causa una posa in opera frettolosa, non a regola d’arte, mentre la seconda è la tipologia di traffico di oggi. Le malattie più frequenti della pavimentazione a sampietrini sono le buche, rattoppate, rappezzate, con il frequente risultato che spesso la toppa è peggio della buca (come del resto accade anche per quelle presenti nelle pavimentazioni “asfaltate”) e l’aumento della distanza tra un blocchetto e l’altro, con eventuale slabbramento dei bordi.
La caratteristica della tradizionale posa in opera del selciato era quella che i “serci” non fossero cementati ma solo posati su un letto di sabbia (ricordate il nucleus delle strade antiche romane?) e poi battuti: questo conferiva elasticità e capacità di coesione e adattamento al fondo stradale. Aveva anche il pregio di “lasciar respirare il terreno” grazie agli spazi tra un selcio e l’altro, e operava il drenaggio della pioggia. Oggi l’acqua piovana è smaltita dai tombini e fogne, e spesso sopra le fughe tra un selcio e l’altro viene passato un filo di catrame che copre fuga e testa del blocchetto, e salta alla prima occasione. Il tipo di traffico è l’altra causa del deterioramento del selciato: una superficie nata per modesti carichi verticali, di cavalli, carrozze e carri in transito, viene oggi sollecitata dai pesi enormi dei mezzi pubblici, degli autobus turistici, dei camion della nettezza urbana e di carico e scarico merci dei negozi. Tra gli aspetti negativi, c’è sicuramente da aggiungere il fatto che il selciato a sampietrini presenta spesso una superficie poco regolare, quindi poco confortevole per i pedoni, i carrelli della spesa o le carrozzine dei bimbi, e viene addirittura odiato … sì dalle donne con i tacchi a spillo! Anche i ciclisti e i motociclisti si lamentano perché, se bagnato, il selciato diventa scivoloso; inoltre il traffico motorizzato che vi scorre sopra risulta molto più rumoroso. Poca simpatia verso i nostri blocchetti di basalto/porfido perfino dalle istituzioni comunali! A fine 2014 un assessore di Roma propose addirittura di venderli alle imprese perché i sampietrini “sono un valore ed hanno uu speciale 2, Ottobre 2018 u7
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mercato fiorente sia italiano, sia internazionale”, quasi fossero una merce da scambiare per avere fondi per asfaltare tutto il già allora trascurato manto stradale cittadino. Non hanno tardato le polemiche risposte di molti personaggi della politica e del mondo della cultura. Qualcuno ha espresso la propria intransigente ed estrema contrarietà all’iniziativa, proponendo di tirarli … non via dalle strade romane … ma verso l’assessore! Una rissa (per fortuna, fino ad oggi solo…) culturale, quella tra i partiti della modernità (l’asfalto) e della conservazione (la pietra), rissa che si ripropone frequente nel tempo. Intanto apprezzamenti per i lavori di sostituzione dei sampietrini della pavimentazione stradale con «asfalto drenante e fonoassorbente» arrivano per tante vie della città ad alta densità di traffico motorizzato, come per i Lungotevere, per via Nizza o le Botteghe Oscure. Sampietrini sì o no? De-sampietrinizzare alcune vie? Mantenerli sì, certamente, in luoghi caratteristici del centro e delle periferie, nelle zone pedonalizzate e in strade a traffico contenuto e velocità limitata. Sì, se studiati bene per dimensione, tessitura e posa in opera secondo il luogo d’installazione. In certi tratti di strade cittadine, così come nelle corsie tramviarie riservate, nelle nuove aree pedonali, per aiutare il drenaggio delle acque piovane, sui marciapiedi in prossimità di alberi ad alto fusto, il sampietrino sta proprio bene. Non sta bene il suo impiego indiscriminato in nome del “prima c’era”, ma oggi non c’è più! E non sta bene il riuso di sampietrini già utilizzati e recuperati, ma ancora sporchi di catrame o di vernice della segnaletica stradale.
Parliamo ora di un ulteriore, recente ma doloroso uso del “sercio” romano. Passando per tante strade di Roma, magari anche casualmente, abbiamo notato, davanti a qualche portone, un sampietrino particolare che salta all’occhio per la sua lucentezza sul grigio del marciapiede o dell’asfalto. Ne esistono molti uguali disseminati per Roma, e sono chiamati “pietre d’inciampo”. Nascono da un’idea dell’artista tedesco Gunter Demning, che ha pensato di lasciare sui marciapiedi delle città d’Europa, d’Italia e di Roma un’impronta, una memoria che ricordi le vittime del nazismo, i tanti deportati razziali, politici, militari, rom e omosessuali, in tutto il mondo. Sono oltre 50.000 le pietre già posate in Germania, Austria, Ungheria, Ucraina, Cecoslovacchia, Polonia, Paesi Bassi e Italia. 8 uspeciale 2, Ottobre 2018
A Roma, i sampietrini “memoria d’inciampo” sono del tipo comune, di uso pavimentale, di piccola dimensione, 10x10x10h cm.; li distingue solo la superficie superiore, perché è di ottone lucente. Su di essa sono incisi pochi dati identificativi: nome e cognome del deportato/a, anno di nascita, data e luogo di deportazione, data e luogo di morte, quando conosciuti. Ogni sampietrino è collocato personalmente dall’artista e riporta la data in cui, proprio da quel portone, quella donna, uomo o bambina/o è stato strappato alla casa, agli affetti, alla vita, per essere condotto a morte alle Fosse Ardeatine o in altro tragico luogo oppure deportato e assassinato nei campi di concentramento nazisti. E’ un’insolita mappa della memoria! A Roma, le pietre d’inciampo sono oggi 272, le ultime 11 posate a gennaio 2018. La memoria del passante “inciampa”, colpita dalla lucentezza insolita, e recupera per un istante un rapporto più vivo col passato. Oggi, camminando sopra questi sampietrini luccicanti, non possiamo che ricordare e rivolgere un omaggio a tanti nostri concittadini che, in quelle tragiche vicende storiche, con il loro sacrificio hanno contribuito a creare un’Italia nuova, libera, democratica e pluralistica. Quindi un sampietrino per la pace, per ricordare e non dimenticare! (approfondimenti su: http://www.arteinmemoria.it/memoriedinciampo/home.htm ).
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se in maniera impropria, il “sercio” può essere usato pure come una vera e propria arma. Come dimostrano certe immagini di Bartolomeo Pinelli (1781 – 1835) con lo sfondo di rovine antiche, o come recitano alcuni sonetti del Belli e canzoni popolari romanesche. Sampietrini e pietre furono, infatti, spesso usati, in modo diciamo “alternativo” a quello stradale, in tutte le rivolte di piazza o nelle sassaiole tra i diversi rioni dell’Urbe: i primi lanciati a mano, le seconde con le fionde; ma dietro quelle rassicuranti immagini di popolani in costume, però, la realtà era fatta di morti, feriti gravi, fratture da ricomporre e tagli da ricucire.
Queste battaglie (la “sassarolata”), a suon di sassi e/o sampietrini, si combattevano fra gli abitanti dei rioni di Roma ancora a fine ‘800. Il campo di battaglia era quasi sempre il Foro Romano, detto “Campo Vaccino”, pieno di pietre e vicino all’Ospedale della Consolazione, indispensabile per portarci i feriti che inevitabilmente provocava la sassaiola. Ricordo che l’Ospedale era opera di carità dell’omonima Confraternita di Santa Maria della Consolazione, sin dal 1400, ospedale “specializzato” in ferite da armi da taglio e punta (i coltelli, i pugnali e i punteruoli), e da frattura (tra cui proprio quelle causate dalle pietre). Queste antiche furiose battaglie “cor sercio in mano” si svolgevano fra i bulli dei vari rioni, soprattutto quelli di Trastevere e di Monti, acerrimi nemici tra loro. Ma anche in tempi più vicini a noi, a Roma, durante violente manifestazioni, dagli studenti della Contestazione del ’68-’69 i sampietrini venivano scagliati verso la “Celere”, dotata dei primi scudi antisommossa. A Parigi, dopo le famose barricate del maggio ’68, quasi tutti i selciati cittadini, molto simili a quelli romani e utilizzati dai contestatori (v. foto appresso), furono smantellati e sostituiti da un bel manto di asfalto.
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E se qualcuno, anche oggi, ci dovesse gridare “Mo te tiro ‘n sercio”, se qualcuno ci fa questa promessa o minaccia, è meglio girare al largo: beccarsi un sampietrino in testa non è proprio il massimo della vita! Per terminare con un sorriso, il comico romano Enrico Brignano, a proposito dell’origine del nome, recentemente ha formulato l’ipotesi secondo cui la parola Sampietrino deriverebbe proprio dal fatto che San Pietro è il Santo più “… nominato …” (“A Sampié!”) ogniqualvolta s’inciampa malamente su un “sercio” di quelle dimensioni, ideato proprio per la piazza sua! E se fosse proprio questa l’origine?
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di lui, “sampietrino” o “sanpietrino” o “sercio”, si continua e si continuerà a parlare, non solo nelle cronache cittadine, nelle dispute politiche-amministrative della Città ma anche nei luoghi di cultura, nelle sovrintendenze, tra le associazioni di cittadini e tra gli abitanti di Roma: a lui sono dedicate chat e pagine web. Più famoso di così, … ancora oggi, ... a quasi 500 anni dalla nascita, proprio non si può!!! Gianni Ricci Volontario del Touring Club Italiano per il Patrimonio Culturale
© foto MASSIMO ROMANO
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Sampietrini e “nasone”, anche questa è la Roma che amo
In Redazione: Alessia De Fabiani, Gianluca Rivolta e Massimo Romano SEGRETERIA ORGANIZZATIVA APERTI PER VOI ROMA: Piazza Santi Apostoli, 62/65 Apertura dedicata ai volontari dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 13.00. Tel. 06.36005281-1” apertipervoi.roma@volontaritouring.it
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