Archeologia industriale degli usa cat mostra terni 1998

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ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE DEGLI STATI UNITI Palazzo Gazzoli via del Teatro Romano Terni

5 novembre 22 dicembre 1998

Ecomusée de la Communauté Urbaine Le Creusot-Montceau les Mines ICSIM - Istituto per la Cultura e la Storia d’Impresa “Franco Momigliano”


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Ecomusée de la Communauté Urbaine Le Creusot-Montceau les Mines ICSIM - Istituto per la Cultura e la Storia d’Impresa “Franco Momigliano”

Archeologia industriale degli Stati Uniti Immagini del patrimonio industriale degli Stati Uniti catalogo della mostra Palazzo Gazzoli, via del Teatro Romano - Terni 5 novembre - 22 dicembre 1998

GIADA ICSIM “LA REVUE”

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Archeologia industriale degli Stati Uniti mostra fotografica “Immagini del patrimonio industriale degli Stati Uniti” ideata e progettata da Louis Bergeron e Maria Teresa Maiullari organizzata da Ecomusée e ICSIM

In collaborazione con

Con il sostegno di

Ecomusée de la Communauté Le Creusot-Montceau Les Mines

Regione dell’Umbria Provincia di Terni

AIPAI Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale ICMAI Istituto di Cultura Materiale e Archeologia Industriale Commissione Nazionale per la Tutela e la Valorizzazione del Patrimonio Culturale Ambientale e Industriale Consorzio per l’Integrazione Territoriale delle Città di Schio

Comune di Terni IERP Istituo per l’Edilizia Residenziale Pubblica Archivio di Stato di Terni Università di Lecce, Facoltà di Beni Culturali Camera di Commercio Industria Agricoltura e Artigianato di Terni AST Acciai Speciali Terni SDF Società delle Fucine

Con il contributo di Associaizone Industriali di Terni Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni Un particolare ringraziamento allo IERP, per aver messo a disposizione Palazzo Gazzoli.

in copertina Il maglio della The Bethelehem Iron Company South (Bethelehem, Pennsylvania).

© GIADA, ICSIM, “LA REVUE”

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Centro Studi Storici di Terni

Allestimento Michele Giorgini - Imago Servizi Multimediali Srl (Terni) Segreteria ICSIM - Istituto per la Cultura e la Storia d’Impresa “Franco Momigliano”


Nella fase di transizione che Terni sta vivendo, dalla cultura della grande impresa a un nuova identità, che si vorrebbe fortemente caratterizzata nelle direzioni del multimediale, dell’innovazione e dello sviluppo diffuso, l’ICSIM propone – con una pluralità di iniziative – di rilanciare anche la riflessione sulle prospettive dell’archeologia industriale. È un campo, questo, dove autorevoli studiosi, associazioni, istituzioni e aziende hanno già seminato idee pregevoli e dove, talvolta, accanto a significative esperienze di recupero e valorizzazione, sono state compiute azioni insensate di dissipazione di un eccezionale patrimonio di conoscenze e di realizzazioni. In generale, l’Italia, in tale materia, registra un ritardo rispetto a quanto fatto dagli altri paesi di più matura industrializzazione, ma non tutto è perduto. Una situazione come quella dell’area Ternano-Narnese, pure interessata da mille vicissitudini, si presta ancora bene per la realizzazione di un grande museo a cielo aperto basato sull’integrazione di una straordinaria pluralità di emergenze. La nostra proposta non è dunque tanto rivolta alla salvaguardia di questo o quel contenitore, di questa o quella macchina, di questo o quell’archivio, quanto alla difesa e alla valorizzazione dell’intero sistema locale di archeologia industriale. Più precisamente, ci prefiggiamo, senza sconfinare nelle altrui competenze, di sostenere l’adozione di una comune strategia di tutti i soggetti, istituzionalie non, interessati al problema. Ci sorreggono, in tale direzione, alcune considerazioni: l’area Ternano-Narnese costituisce uno dei più importanti siti industriali nell’Europa tra la metà dell’Ottocento e i primi del Novecento; le sue caratteristiche, quanto a diversificazione (industria tessile, meccanica, siderurgica, tipografica, chimica, idroelettrica, ecc.), offrono uno spaccato esemplare dell’universo produttivo del medesimo periodo; malgrado le distruzioni della seconda guerra mondiale, e quelle successive – sempre prodotte dall’uomo –, il materiale disponibile è ancora notevolissimo. La nostra proposta non prevede la realizzazione di “tutto e subito”, ma azioni graduali e finalizzate, attraverso un progetto di medio-lungo termine, con l’obiettivo di pervenire alla realizzazione di un sistema museale di nuova concezione, collegato fortemente alla sfida ternana della multimedialità, anche attraverso: la messa in opera di processi di formazione e aggiornamento continuo degli operatori; la raccolta, la sistemazione e la fruizione della documentazione; la crescita della sensibilità culturale dell’intero territorio sulle tematiche dei beni archeologico-industriali; la conoscenza e la diffusione delle più recenti esperienze italiane e straniere. Lungo questo percorso si situano la mostra sull’“Archeologia industriale degli Stati Uniti” – resa possibile dalla disponibilità e dalla collaborazione del professor Louis Bergeron (direttore dell’Ecosmusée de la Communauté Le Creusot-Montceau les Mines e presidente del TICCIH - The International Commitee for the Conservation of Industrial Heritage) e del professor Giovanni Luigi Fontana (presidente dell’AIPAI - Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale) – e gli altri appuntamenti programmati tra novembre e dicembre, per i quali ringrazio tutti coloro che ci hanno sostenuto e quanti vi parteciperanno. Sono tutti momenti importanti dello stesso ragionamento unitario che ci prefiggiamo di fare, con una duplice ambizione: rendere un servizio all’archeologia industriale, ma anche a questo nostro territorio che ne è così ricco, e che, a buon diritto, può aspirare, in tale materia, a una posizione di assoluto rilievo, in Italia come in Europa. Franco Giustinelli presidente ICSIM

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La preservazione delle testimonianze del passato industriale va riguardata sia come frutto culturale della civilizzazione che come doveroso omaggio verso quegli uomini – noti e ignoti – che, prima di noi, hanno profuso le loro idee e le loro fatiche per rendere più vivibile il nostro mondo. Ambedue questi assunti trovano piena rispondenza nella mostra “Archeologia industriale degli Stati Uniti”, i cui contenuti contribuiscono a riaffermare in modo inequivocabile la “globalità” del progresso tecnico e delle conseguenti implicazioni sociali. Sotto un altro punto di vista – quello della valenza storico-scientifica – la mostra va vista come corollario esemplicativo di quella svolta epocale – la rivoluzione industriale – che lo storico americano David S. Landes ha definito “simile, nei suoi effetti, al gesto compiuto da Eva alloché gustò il frutto dell’albero della conoscenza: il mondo non è stato mai più lo stesso”. Che tale mostra venga ospitata a Terni non è un caso fortuito, in quanto la città umbra è a pieno diritto uno di quei “centri industriali globali” nati da piccole comunità rurali che, nella seconda metà dell’Ottocento, hanno subito una radicale trasformazione operativa, strutturale e intellettuale sotto la spinta delle nuove conoscenze e dei nuovi mezzi, nel settore delle preminenti attività siderurgiche. E, infatti, Terni – così come Le Creusot in Borgogna, Essen nella Ruhr, Sheffield nello Yorkshire, Bethlehem in Pennsylvania – si trova, nel volgere di pochi anni, ad assurgere a sede di uno dei pochi opifici produttori di “heavy forgings”, ossia di grossi pezzi forgiati destinati prevalentemente all’armamento pesante. Le finalità strategiche di questa produzione vengono perseguite attraverso la “corsa al gigantismo” che influenza molteplici attività ma che trova evidenza soprattutto nella costruzione di enormi magli per fucinare lingotti sempre più pesanti. Il maglio di Bethlehem, che è l’emblema stesso della mostra, appartiene alla medesima famiglia di macchine colossali che comprende il maglio di le Creusot (oggi collocato in una piazza cittadina) e quello di Terni (insuperato per dimensioni e potenza, demolito nel 1910). Sul piano dei processi e della ricerca scientifica, gli opifici suddetti, benché concorrenti tra loro e gelosi dei segreti di fabbricazione, non disdegnavano – salvo, come è ovvio, nei casi di belligeranza tra i rispettivi paesi – di intrattenere relazioni reciproche. Ad esempio, lo stabilimento di Terni nacque, nel 1884-1886, usufruendo dei consigli tecnici delle officine di Le Creusot, il cui proprietario Henri Schneider ebbe poi a definire quella di Terni come “la più bella officina siderurgica del mondo”. E anche i contatti tra Terni e Sheffield, benché sporadici, si rinnovarono nel tempo, specialmente dopo la seconda guerra mondiale (oggi, tutti i forgemasters si incontrano in congressi periodici, tre dei quali – quelli del 1961, 1970 e 1991 – si sono tenuti a Terni). Ovviamente, la memoria dell’industrializzazione – e la mostra ne dà la prova – non è costituita solo da imponenti reperti meccanici ma anche da ogni altro mezzo impiantistico e ausiliario, oltre che da edifici, da prodotti, da ogni sorta di documentazione sui processi tecnologici e sui risvolti umani e ambientali. Questa mostra del patrimonio industriale statunitense è, infatti, un’espressione documentaria a tutto campo, capace di stimolare l’immaginazione, di verificare la congruità delle conoscenze personali, di produrre confronti con la realtà odierna. Di conseguenza, i documenti fotografici dell’immenso mondo industriale americano servono anche – se ce ne fosse bisogno – a dimostrare, per confronto, la piena legittimità di Terni come centro di riferimento italiano dell’archeologia industriale e dell’etica imprenditoriale. D’altro canto, la mostra, così come i contenute dei testi che seguono (tratti da “La revue” ), ci fanno capire quanto più ricchi dei nostri siano i risultati delle azioni di salvaguardia,

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recupero, documentazione e formazione conseguiti all’estero. Dopo un lungo ritardo, è solo in questi ultimi anni che, nel nostro paese, l’archeologia industriale ha riscosso attenzione e considerazione dall’opinione pubblica e dagli organi istituzionali: è stata costituita una Commissione nazionale in seno al Ministero dei Beni Culturali, sono state attivate le prime cattedre universitarie della materia, sono nate nuove associazioni, si sono moltiplicate le iniziative pubbliche e private, sono state condotte a termine operazioni di recupero e fruizione di edifici, macchine e archivi aziendali. Dunque, in questa nostra confortante (anche se non sufficiente) situazione di crescita, la mostra si pone come energica forza di stimolo e come qualificata affermazione dell’universalità della cultura. Ne siamo grati a coloro che l’hanno resa possibile. Gino Papuli Università di Lecce

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Musée des arts et métiers ESTRATTO n. 19 giugno 1997

La r e v u e SOMMARIO

Editoriale Dominique Ferriot

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Il patrimonio industriale degli Stati Uniti Louis Bergeron

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Un quarto di secolo d’inventario del patrimonio industriale degli Stati Uniti Eric DeLony

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Hagley Museum and Library Glenn Porter

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Scambi di tecnologie: un dialogo franco-americano Michel Cotte

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Immagini del patrimonio industriale degli Stati Uniti (XVIII-XX secolo) Louis Bergeron, Maria Teresa Maiullari

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Dall’indipendenza alla guerra di secessione Il gigantismo industriale: dalla guerra di secessione alla grande crisi L’età del patrimonio industriale Gli ingegneri e il controllo dello spazio Il controllo del sottosuolo e dell’energia Architettura e controllo dei materiali Lo sguardo di quattro artisti L’Ecomusée de la Communauté Urbaine Le Cresout-Montceau les Mines

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Editoriale Dominique Ferriot Nel 1977 i pionieri dell’archeologia industriale in Francia creavano il CILAC (Comité d’information et de liaison pour l’archéologie, l’étude et la mise en valeur du patrimoine industriel). I membri fondatori di questo comitato s’inserirono in un circuito internazionale già esistente, grazie ai lavori condotti in particolare negli Stati Uniti d’America, in Gran Bretagna, in Germania e in Svezia. Il Centro di documentazione di storia delle tecniche del Conservatoire National dea arts et métiers (CNAM), l’Ecomusée de la Communauté Urbaine Le Creusot-Montceau les Mines, il Centro di ricerche storiche dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS), l’Institut de l’entreprise e l’associazione Histoire matérielle de la civilisation industrielle organizzarono nel 1981 una conferenza internazionale, i cui atti, pubblicati a cura di Louis Bergeron, segnano una data importante nel campo degli studi sul patrimonio industriale. Louis Bergeron, direttore di ricerca all’EHESS e oggi presidente del The International Committee for the Conservation of the Industrial Heritage (TICCIH), vicepresidente del CILAC e presidente dell’Ecomusée de la Communauté Urbaine Le Creusot-Montceau les Mines. La sua proposta di realizzare una mostra e di dedicare un numero della “Revue” al patrimonio industriale statunitense ha suscitato l’immediata adesione dell’équipe del Creusot e di quella del Musée des arts et métiers. Questo numero rende omaggio al lavoro di precursori quali l’HAER (Historic American Engineering Record) e la Hagley Foundation, installata sul sito primitivo della Du Pont de Nemours a Wilmington. Molta strada è stata fatta in Francia a partire dagli anni settanta, com’e possibile constatare dalle realizzazioni esemplari dell’archi-

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tetto Philippe Robert a Noisiel, nel quadro della ristrutturazione della fabbrica Menier, o dalle opere di rinnovamento di numerosi musei della tecnica, tra cui quello delle arti e dei mestieri. La prudenza nell’analisi di questi dati, tuttavia, non è mai troppa. Per riprendere le parole di Louis Bergeron “La partita sarà vinta solo quando nei libri di testo e a scuola s’imparerà a studiare una fabbrica del XIX secolo alla stessa stregua di una chiesa romana o gotica” (Le Patrimoine industriel, un nouveau territoire). L’ambizione di questo numero della “Revue” è di contribuire alla necessaria rivalutazione del patrimonio industriale all’intemo del nostro sistema educativo e a favore dell’intero ambiente culturale.

Il patrimonio industriale degli Stati Uniti Louis Bergeron Ecco le immagini del patrimonio industriale degli Stati Uniti presentate per la prima volta in Francia, al Creusot e a Parigi. Il senso generale di questa mostra è quello di ricordare l’appartenenza di due paesi a una comune cultura tecnica e industriale, sostegno costante di una circolazione a doppio senso di tecnologie, tecnici e modelli, fin dall’indipendenza. Al di là delle specificità nazionali, che hanno indubbiamente inciso sul genio industriale di ognuno di questi paesi e che, talvolta, hanno generato alcuni pregiudizi o talune incomprensioni reciproche, è importante fare riferimento al campione fotografico e patrimoniale introdotto nelle pagine che seguono per ritrovare, nel concreto delle architetture e dei paesaggi, questa identità profonda. I clichés panoramici presentati nel preambolo insistono sull’analogia esistente fra i grandi

paesaggi industriali creati dagli Schneider e quelli prodotti dalla Bethlehem Steel. Negli stessi anni, precedenti il 1914, le due imprese affrontavano gli stessi problemi (resistenza degli acciai, tecniche di fonderia) e, con materiali analoghi, producevano gli stessi pezzi (grandi magli). Seppure con un leggero scarto cronologico, si osservano anche le stesse profonde difficoltà economiche che condurranno, da una parte e dall’altra dell’Atlantica, a chiudere i battenti o a delocalizzare le attività. Da ambo le parti si verifica ora uno sforzo parallelo di ricostruzione della memoria o di preservazione del patrimonio degli impressionanti successi di un passato ancora vicino: al Creusot attraverso l’azione di un ecomuseo, negli Stati Uniti attraverso una campagna fotografica di ampio raggio. La fine di una storia industriale deve essere sentita unicamente come un lutto, come una sconfitta o deve invitare, una volta superato lo choc, a reagire al nuovo contesto e a crescere, facendo uso di tutti gli atouts offerti dai successi precedenti? Si sono voluti evocare, in questa sede, i tempi di questa prima globalizzazione dell’industria, che il Creusot e il suo bacino industriale hanno vissuto inserendosi perfettamente nel panorama internazionale delle tecniche e degli scambi. Una ragione in più per sperare nella loro capacità di affrontare in maniera efficace i tempi della globalizzazione che oggi stiamo vivendo. Lo sguardo rivolto agli uomini al lavoro – americani sì, ma in realtà europei radicatisi oltre Atlantico – non invita, in altro modo, a percepire una certa solidarieta? Analogie nei gesti, nei compiti, nelle lotte. Gli anni novanta dell’Ottocento sono stati, in Francia come in America, anni duri nella gestione delle relazioni fra padroni e operai. Il sangue è corso a Homestead in Pennsylvania nel 1892, come a Fourmies nel


1891. Il vigore, talvolta disperato, delle reazioni operaie ha, però, innescato anche un meccanismo di approfondimento della riflessione condotta da parte di taluni imprenditori sulle possibilità di creazione di una società un poco più giusta. Sotto questo aspetto, particolarmente significative sono le analogie nel comportamento di un Andrew Carnegie e di un Eugéne II Schneider. Questa mostra, comunque, ha un significato in sé, al di Ià di tutte le retrospettive o prospettive, ed è questo significato che permetterà al visitatore non specialista di goderla appieno. È un piacere che risiede nella scoperta della ricchezza, della diversità, dell’originalità di un patrimonio industriale e tecnico; nella constatazione che, se i demolitori devono essere combattuti negli Stati Uniti come in Francia, essi possono essere contrastati, sia lì che qui, da servizi competenti nello studio e nella conservazione del patrimonio industriale e da gruppi di cittadini attivi che non vogliono farsi derubare dei gioielli di questo patrimonio. Gli Stati Uniti, inevitabile il luogo comune, hanno sempre avuto la fierezza dei record, il genio dell’insolito: è venuto il momento di lasciarsi prendere dall’entusiasmo per i grandi materiali o per un genio architettonico creatore di forme funzionali e portatrici di una nuova estetica. C’è da augurarsi che i visitatori europei si rivolgano, successivamente, a quel patrimonio che hanno sotto gli occhi tutti i giorni (per quanto tempo ancora?) con uno sguardo più attento, più comprensivo e più simpatico.

Un quarto di secolo di inventario del patrimonio industriale degli Stati Uniti Eric DeLony HAER (Historic American Engineering Record) – il cui equivalente

in francese potrebbe essere l’Inventaire du patrimoine de l’ingénierie américaine o, in altri termini più vicini alle nostre abitudini mentali e amministrative, Inventaire du patrimoine industriel des Etats-Unis – è nato nel 1969 su decisione del Congresso degli Stati Uniti al fine di conservare nella Biblioteca di quella istituzione una documentazione sulle opere fondamentali dell’ingegneria e dell’industria americana. La creazione di HAER è coincisa con una forte preoccupazione, da parte di storici delle tecniche e ingegneri, per la distruzione rapida subita dalle architetture e dagli edifici industriali, vittime della ristrut-turazione delle città e della penetrazione urbana della rete autostradale, e questo ancor prima che il fenomeno internazionale della deindustrializzazione interessasse gli Stati Uniti. Salvaguardare siti ed edifici industriali come monumenti storici o, almeno, conservare la memoria documentaria di ponti, dighe, canali, fabbriche, centrali elettriche ecc.: ecco l’obiettivo. Reagendo all’immagine che faceva dei loro colleghi dei tecnocrati privi di sensibilità, un certo numero di membri dell’American Society of Civil Engineers stipularono un accordo tripartito con il direttore della Biblioteca del Congresso e con il direttore del National Park Service – una specie di direzione del Patrimonio americano – al fine di costituire un’agenzia federale analoga a quella in funzione fin dal 1933 per il patrimonio classico: l’Historic American Buildings Survey, pensato per dare lavoro a degli architetti disoccupati. La memoria dell’industria Fin dalla sua creazione, HAER non si è limitato alla creazione di archivi dell’industria e delle tecniche industriali degli Stati Uniti (accumulando 53.000 fotografie e 42.000 pagine di lavori di ricerca) o soltanto a incoraggiare la salvaguardia. Il suo è stato uno

sforzo volto alla sensibilizzazione delle coscienze a una nuova etica, rispettosa della memoria e dell’eredità degli ingegneri, degli industriali e degli operai. Il suo successo è innanzitutto dovuto all’autorità conferitagli da due testi legislativi. Il National Historic Sites Act del 1935 ha affidato al National Park Service il compito di redigere un inventario defle opere più significative realizzate negli Stati Uniti non solo nel settore storico, culturale o architettonico, ma anche nel campo tecnologico e di garantirne la divulgazione al pubblico. Il National Historic Preserva-tion Act del 1966 ha imposto alle agenzie federali la conservazione dei monumenti storici in loro possesso. Inoltre, per quanto riguarda più direttamente il patrimonio industriale, ha prescritto che per ogni edificio, sito, struttura od oggetto candidato all’iscrizione o già iscritto al National Register of Historic Places ed eventualmente minacciato nella sua sopravvivenza da un progetto finanziato o autorizzato dal governo federale, venisse almeno predisposto un dossier documentario (preparato da HAER/HABS) nel caso in cui non vi fosse alcuna altemativa alla sua distruzione. In pratica, negli ultimi trent’anni l’applicazione di questa disposizione ha salvato un gran numero di siti d’interesse nazionale. Questa efficacia non è affatto sorprendente se si tiene conto del fatto che HAER dipende dal potere esecutivo federale nella sua più alta espressione, il Dipartimento dell’Interno, e agisce sotto l’autorità e la responsabilità diretta del presidente degli Stati Uniti. HAER ha, inoltre, l’incarico di definire a livello nazionale le regole e gli standard di qualità ai quali ogni studio sul patrimonio industriale e tecnico deve conformarsi. La documentazione è archiviata per cinque anni alla Biblioteca del Congresso, una delle istituzioni più prestigiose e più rispettate del paese. La sua

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appartenenza al settore pubblico ne permette un’ampia utiIizzazione, con la sola restrizione di una corretta menzione della fonte, diventando cosi una specie di “patrimonio nazionale”. Un altro fattore di successo è dovuto alla collaborazione, stabilita con un accordo formale fra HAER, la Biblioteca del Congresso e l’American Society of Civil Engineers (ASCE), la più antica organizzazione professionale statunitense, fondata nel 1852. Un’estensione di questo accordo, realizzata nel 1987, ha apportato al gruppo l’appoggio dell’American Society of Mechanical Engineers (ASME), dell’Institute of American Electrical and Electronics Engineers (IEEE), dell’American Institute of Chemical Engineers (AICE), dell’American Institute of Mining, Metallurgical & Petroleum Engineers (AIME), Questa collaborazione si allarga anche ad altre agenzie federali, alle autorità dello Stato e dei comuni, alle società storiche, all’industria privata e a singoli individui. HAER può essere considerato come una vera e propria impresa. Le donazioni che riceve al di fuori del suo budget annuale raddoppiano o triplicano le sue possibilità d’azione, conferendo al suo programma di studio, salvaguardia e valorizzazione una grande flessibilità operativa. Rafforzano, inoltre, la convinzione che lo sforzo rivolto alla preservazione del patrimonio industriale e tecnico e, quindi, al miglioramento della qualità della vita negli Stati Uniti rappresenta qualcosa di collettivo e nazionale. Un inventario metodico II metodo procedurale di HAER si basa su programmi d’inventario condotti durante il periodo estivo, sulla complessità tecnica della metodologia adottata, sull’efficacia di taluni costosi mezzi più di una voIta impiegati (fotografia aerea al fine d’identificare vaste aree industriali; collaborazione

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con alcune università su soggetti tematici; inventari condotti all’interno di singoli Stati). Per quanto attiene più strettamente alla metodologia, HAER ha raccolto i preziosi insegnamenti di Angus Buchanan (Università di Bath, Inghilterra) e di Keith Falconer, specialista dei monumenti industriali per l’inventario britannico. Tutte le estati, durante le vacanze universitarie, migliaia di giovani sono coinvolti nelle operazioni d’inventario del patrimonio industriale nazionale. La loro selezione si effettua sulla base dell’interdisciplinarità delle competenze: architetti, ingegneri, storici, disegnatori industriali, archeologi, fotografi. L’appello si estende anche, attraverso l’Interna-tional Council on Monuments and Sites (ICOMOS) a studenti delle migliori scuole europee e del resto del mondo. Ogni équipe concentra la sua attività su di un sito. L’inventario dell’estate 1969 nella regione Mohawk-Hudson ha inaugurato la serie delle campagne ufficiali di HAER ed e stato realizzato con un’équipe del Rensselaer Polytechnic Institute di Troy nello Stato di New York. Il rapporto finale è stato redatto da Robert M. Vogel. A dire il vero, HABS aveva condotto precedentemente due altri inventari sulle industrie tessili della Nuova Inghilterra. L’originalità fondamentale di HAER consiste, mantenendo una costante attenzione per lo studio architet-tonico degli edifici e delle facciate, nell’aver ampliato lo sguardo alle strutture, agli utensili e ai processi di produzione. La storia locale, la storia delle tecniche, lo studio della conservazione dei monumenti storici sono diventati elementi di un’unica ricerca. Tra i successivi programmi d’inventario possiamo ricordare: - la Baltimore and Ohio Rail-road, la prima, grande, storica linea ferroviaria statunitense; - il lavoro pIuriennale sui distretti industriali di Paterson (New Jer-

sey) e di Lowell (Massachusetts), culle incontestate dell’industrializzazione americana, il cui studio ha favorito l’iscrizione della prima sulla lista del National Historic Landmark nel 1976 e della seconda su quella del National Historic Park nel 1978. II lavoro scientifico di HAER nel corso dei suoi primi dieci anni di vita (gli anni settanta) ha contribuito a far iscrivere nelle liste del patrimonio architettonico altri siti di primaria importanza, quali il ponte del Golden Gate a San Francisco, una serie di grandi stazioni ferroviarie come quelle di Baltimora o di Saint Louis, altoforni come quelli delle Sloss Furnaces a Birmingham nell’Alabama e tutto il patrimonio tessile e ferroviario della Georgia. È stato ancora HAER ad attirare l’attenzione sul formidabiIe patrimonio che le industrie dello zucchero e del caffè hanno lasciato a Portorico e nelle Isole Vergini. A partire dal 1977, l’agenzia ha associato alla ricerca documentaria alcune proposte di ristrutturazione e di riutilizzo d edifici industriali e di rivitalizzazione d zone economicamente depresse. Le équipes si sono aperte a studenti specializzati nelIa pianificazione che hanno intervistato amministratori locali e abitanti e condotto le prime analisi economiche e di mercato. Era l’epoca in cui, con il Tax Act del 1976 della presidenza Jimmy Carter, s’incoraggiava il movimento di preser-vazione con specifiche disposizioni fiscali, come le detrazioni a favore de proprietari di beni suscettibili di essere iscritti, sempre che la ristrutturazione avvenisse nel rispetto di talune regole fondamentali. Delle nuove priorità Negli anni settanta, HAER ha anche sperimentato, su richiesta e finanziamento degli interessi locali, il sistema delle “équipes d’inventario d’urgenza” capace d’intervenire su obiettivi ben definiti e per una durata limitata. Questi


gruppi hanno anche svolto lavori per il National Park Service e per le Forze Armate (ad esempio per la rampa di lancio dei razzi a Cap Canaveral o per i cantieri navali di Boston) in attesa dei molto più dettagliati inventari degli inizi degli anni ottanta. Questi ultimi infatti, descrivevano gli edifici e le macchine dei diversi arsenali e i depositi di materiali, mettendo i dati raccolti in rapporto con Ie conseguenze della fine della guerra fredda e della modernizzazione del sistema di difesa americano sull’obsolescenza di altre basi navali aeree o spaziali. A partire dalla metà degli anni ottanta HAER si è preoccupato di selezionare i suoi interventi in modo più rigoroso e di rispondere alle sfide lanciate dalla deindustrializzazione e dalla modernizzazione d numerose infrastrutture (autostrade, canalizza-zioni per la distribuzione ed evacuazione delle acque, centrali idroelettriche). I ponti, in particolare, sono stati minacciati dalla ricostruzione di autostrade o di ferrovie: più di un migliaio sono stati quelli inventariati. Del resto, l’amministrazione federale delle autostrade aveva lanciato, fin dal 1967, un programma di ricostruzione e ristrutturazione dei ponti, successivamente a una catastrofe, ed HAER pubblicava il suo Historic Bridges Program fin dal 1973. Quest’ultimo incoraggiava ogni Stato a effettuare l’inventario dei “suoi” ponti. Questo incoraggiamento è diventato un obbligo legale nel 1987. Ormai HAER intraprende uno studio sistematico negli Stati che possiedono collezioni eccezionali di ponti “storici”, quali l’Ohio, New York e altri ancora. L’immenso stock patrimoniale costituito dagli altoforni, le miniere, le concentrazioni di fabbriche di ogni sorta, dalla Nuova Inghilterra fino all’Ovest, passando per Pittsburgh e la valle della Monongahela in Pennsylvania può però apparire, a prima vista, al di sopra delle forze dell’Agenzia federale.

Una priorità è stata assegnata, dal 1989, alla documentazione relativa all’industria mineraria delle Montagne Rocciose. Nel 1996 e stata lanciata una campagna di studio sugli altoforni moderni, oggetto questa volta non tanto di un’analisi che si limiti all’esame del loro aspetto formale, quanto di una ricerca che comprenda la considerazione dell’evoluzione tecnologica, delle conoscenze ingegneristiche, dei processi di lavorazione, delle varietà regionali. In realtà, si è finora troppo insistito su una specie di “eccezionalità” americana in questo settore, mentre più approfonditi studi rivelano sempre più l’importanza dei “prestiti tecnologici” provenienti da Cleveland in Inghilterra negli anni sessanta e settanta dell’Ottocento. Questi trasferimenti riguardano le tecniche di recupero dei gas di combustione, l’accresciuta potenza delle soffierie proprio in coincidenza con l’aumento di domanda del greggio di fusione provocato dal convertitore Bessemer. Ovvero tutto quello che allora passò sotto il nome di New Metallurgy. Gli anni ottanta sono anche stati quelli dello sviluppo del concetto di “corridoi del patrimonio”, o di zone patrimoniali. La creazione di questo concetto è stata importante perché ha innescato un meccanismo d’indicazione delle protezioni necessarie e ha sostenuto il turismo, unico rimedio al declino economico delle zone depresse. Per quanto riguarda il patrimonio industriale, Paterson e Lowell avevano inaugurato il cammino, sin dalla fine degli anni settanta, ma le candidature si sono da allora moltiplicate. L’applicazione del concetto si estende ai canali e a interi bacini industriali. Il primo National Heritage Corridor, centrato sull’lllinois & Michigan Canal, a sud e a ovest di Chicago, data al 1985. Nel 1987 è stato avviato l’inventario di nove contee del sud-ovest della Pennsylvania, area conosciuta con

il nome di America’s Industrial Heritage Project, in prossimità di Pittsburgh. HAER ha partecipato all’inventario con un programma di cinque anni, centrato su Homestead. Parallelamente, HAER ha anche contribuito alla costituzione di un dossier simile per l’industria carbonifera e metallurgica intorno a Birmingham, in Alabama. Altri progetti includono il Lehigh and Delaware Canal, nella Pennsylvania orientale, per una lunghezza di circa 250 km (la vecchia strada dell’antracite degli Appalachi in direzione di Filadelfia); la Blackstone River Valley per un’ottantina di chilometri, ai confini del Massachusetts e di Rhode Island (una vallata caratterizzata da una fitta rete di villaggi manifatturieri datanti dalla prima fase d’industrializzazione della Nuova Inghilterra); Augusta, in Georgia, il suo canale e le vestigia della sua industria tessile. Il National Park Service non può diventare proprietario e gestire tutti questi parchi dell’attività industriale: HAER agisce in partenariato con le iniziative locali o con lo Stato. Queste iniziative testimoniano dell’avvenuta comprensione dell’importanza dei valori culturali, delle risorse naturaIi e delle attività ludiche come fattori di sviluppo allo stesso livello del commercio, delle abitazioni, degli uffici e dei parcheggi e della necessità della loro integrazione negli schemi di pianificazione urbana e rurale. L’interesse dei cittadini americani per il patrimonio industriale e per i successi tecnologici degli Stati Uniti è in continua crescita. Esso viene consolidato dall’appoggio dei difensori dell’ambiente e della legge. Grazie ad HAER, il patrimonio industriale continua ad arricchirsi negli studi e nella comunicazione al pubblico dei risultati di queste ricerche. Questo implica che una garanzia di protezione copre ormai la totalità del patrimonio? Purtroppo, no. L’attenzione deve essere mantenuta costante nei confron-

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ti di talune produzioni industriali colpite da drammatiche battute d’arresto (miniere di carbone e di metalli, ferrovie, patrimonio marittimo ecc.) e di certe città ormai quasi abbandonate dall’industria (Boston, Filadelfia, Chicago, Milwaukee, Minneapolis, Cincinnati, i grandi centri della costa del Pacifico). Inoltre, bisogna ancora preparare, attraverso le istituzioni dell’insegnamento superiore, un corpo di esperti del patrimonio tecnico e industriale; bisogna fare posto a questo patrimonio nella formazione degli ingegneri, degli architetti, degli storici delle tecniche, dei professionisti della conservazione. Comunque, in un paese in cui non si è mai esitato molto a liberarsi del proprio passato, l’accumulazione della ricerca fatta dalle équipes di HAER, l’inclusione in queste équipes di migliaia di persone, il contatto stabilito con centinaia di clienti hanno cominciato a imporre una vera e propria “etica del patrimonio industriale”. L’azione di HAER invita le popolazioni operaie a operarsi per la conservazione: i luoghi di lavoro, il lavoro in se stesso, vengono osservati differentemente e si integrano nella ricca varietà delle esperienze realizzate negli Stati Uniti. Manca ancora la giusta disposizione armonica di tutti questi risultati.

Hagley Museum and Library Glenn Porter Istituzione d’insegnamento a fini non lucrativi, la Hagley Museum and Library, localizzata a Wilmington, nel Delaware, si dedica alla conservazione e alla valorizzazione dell’eredità tecnologica ed economica degli Stati Uniti. Sorta sui luoghi delle prime fabbriche di polvere nera della compagnia Du Pont, Hagley è stata fondata nel 1952 con la dizione legale, tuttora vigente, di Eleutherian Mills-Hagley Founda-

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tion. Hagley, uno dei più grandi musei d’archeologia industriale degli Stati Uniti, si e visto accordare la sua prima abilitazione nel 1972, poi sistematicamente riconfermata, dall’American Association of Museums. Il museo si estende per circa 95 ha lungo le rive della Brandywine. È il luogo della memoria di una delle prime comunità industriali americane, fondata nel 1802 da Eleuthére-Irénée Du Pont. Il museo conserva delle manifatture, dei sistemi di energia idraulica, delle case operaie, un edificio per l’educazione religiosa e la prima dimora dei Du Pont in America. I pezzi conservati, le dimostrazioni pratiche di funzionamento delle macchine e i programmi pedagogici per bambini e adulti sono presentati in questo sito storico. Piu di 90.000 sono i visitatori che ogni anno vengono ad Hagley per imparare qualcosa del loro passato e per apprezzare la bellezza naturale del luogo. La biblioteca di Hagley ha una reputazione internazionale nel campo della storia tecnologica e industriale e fa parte, insieme con le biblioteche di Huntington, Folger e Newberry, dei quindici membri dell’Independant Research Libraries Association (IRLA). Hagley fa anche parte de1 Philadelphia Area Consortium for Special Collections Libraries (PACSCL) e del Research Libraries Group (RLG). Hagley offre un servizio di prestito interbibliotecario, di consultazione su computer grazie al Research Libraries Information Network (RLIN), di accesso ai giomali elettronici grazie a JSTOR. Le informazioni sul museo e sulla biblioteca sono oggi disponibili su Internet (http://www.hagley.lib.de.us). L’attuale organizzazione riflette la volontà di Hagley di mantenere il suo livello di qualità. Si tratta di un’istituzione unica, la cui missione consiste nel raccogliere i documenti sulla storia commerciale, industriale e tecnologica, di conservarli e di studiarli. Questo

fine è raggiunto grazie alla complementarità di tre divisioni: un museo storico, una biblioteca di ricerca e un centro di studi approfonditi. La biblioteca di ricerca possiede un fondo importante nei suoi diversi dipartimenti: pubblicazioni, iconografia, manoscritti e archivi. Una biblioteca all’avanguardia La biblioteca fondata da PierreSamuel du Pont ha una sua storia, È stata costituita nel 1953 con il nome di Longwood Library per essere una biblioteca di ricerca indipendente, con un suo specifico asse di studio rappresentato dalla storia del commercio e dell’industria negli Stati centro-atlantici. Nel 1961 è unita al museo e si trasferisce nei suoi locali. Da allora arricchisce continuamente le sue collezioni e mette a disposizione degli studenti fotografie, manoscritti e gli archivi delle più importanti imprese, associazioni commerciali e individui, come pure altri documenti essenziali alla ricerca nei settori della storia commerciale, economica e tecnologica. Le collezioni sono aumentate in numero e varietà e ora Hagley è una specie di “santuario” della storia commerciale e tecnologica degli Stati Uniti. Le collezioni destinate alla ricerca sono organizzate in tre sezioni principali: pubblicazioni, manoscritti e iconografia. Le pubblicazioni comprendono circa 200.000 volumi, tra libri, opuscoli, carte e atlanti, annuari, cataloghi di società, dépliant, tesi e documenti ufficiali. Vi si trovano lavori sull’economia, la storia economica, la storia sociale, la manodopera, i mezzi di trasporto e le comunicazioni, il commercio, la pubbIicità, la finanza, il design industriale e la storia delle compagnie. I rapporti annuali delle società, i periodici destinati agli azionisti e agli impiegati, tutto ciò che concerne la pubblicità e le relazioni pubbliche completano gli archivi.


I suoi 25.000 cataloghi di società, interamente repertoriati, costituiscono una fonte importante per la storia della cultura tecnologica e materiale. Guide, cataloghi, diversi dépliant delle grandi esposizioni internazionali tracciano la storia dei trasferimenti di tecnologia e quella dell’introduzione di nuovi prodotti nell’era industriale. Le fiere europee e americane del XIX e XX secolo sono ben rappresentate nelle collezioni del museo. Le radici europee dello sviluppo commerciale e tecnologico americano appaiono chiaramente nei libri e negli opuscoli rari, nei quali la storia e la teoria economica della Francia del XVIII secolo occupano un posto importante. Collezioni di brevetti europei e americani coabitano con quelle relative agli esplosivi. Il dipartimento delle illustrazioni offre una documentazione visiva e sonora sulla maggior parte delle aree di ricerca coperte da Hagley. Numerosi filmati di argomento industriale e registrazioni sonore completano i 750.000 clichés, opera di fotografi d’azienda e di fotografi commerciali. Le collezioni, che variano numericamente da 1 a 100.000 immagini, rappresentano vedute di aziende e di fabbriche o immortalano processi di produzione e macchine. Vi sono anche fotografie che riproducono manufatti, vedute di case operaie, di villaggi operai e di siti industriali e commerciali inseriti nel loro ambiente naturale. I ricercatori scoprono spesso ad Hagley di poter utilizzare queste testimonianze fotografiche per capire il funzionamento di una macchina o l’organizzazione di una fabbrica. In un buon numero di casi, queste fotografie forniscono una migliore comprensione dei processi tecnologici delle relazioni che si instaurano nei luoghi di produzione e dell’archeologia di un sito industriale rispetto alle fonti scritte. II dipartimento degli archivi

II fondo degli archivi e dei manoscritti è senza dubbio il più ricco della biblioteca. Hagley conserva gli archivi di più di un migliaio d’imprese commerciali che comprendono le case di commercio del XVlll secolo come le società per azioni del XIX e le multinazionali del XX. Questi fondi includono naturalmente gli archivi della Du Pont Company e le carte personali della famiglia Du Pont e dei suoi associati, principalmente di John J. Raskob che è stato alla testa del Democratic National Committee durante gli anni venti. La maggior parte delle collezioni proviene, tuttavia, da altre imprese, La maggior parte degli archivi della compagnia delle ferrovie di Pennsylvania e della rete ferroviaria di Reading aiutano a comprendere la storia della prima grande impresa americana: la ferrovia. La storia dello sviluppo e dell’utilizzo dell’energia è illustrata dagli archivi della Sun Company, di St. Clair Coal, di Pennsylvania Power & Light, di Westmoreland Coal e di Consolidation Coal. Recentemente, la biblioteca ha arricchito la sua collezione relativa alla Sun Company (e alle carte dei dirigenti della famiglia Pew) grazie agli archivi della famiglia Pew, una delle maggiori associazioni caritative degli Stati Uniti. Altri documenti importanti si riferiscono alla banca (First Pennsylvania Bank et Philadelphia National Bank), alle assicurazioni (Provident Mutual Insurance Company), alle acciaierie (Bethlehem, Lukens, American Iron and Steel Institute) e all’industria delle materie plastiche (Society for the Plastics Industry). La storia delle alte tecnologie, delle industrie della difesa e del complesso militare-industriale è ben presente nelle collezioni di Hagley. La biblioteca conserva le carte di Elmer Sperry, il padre dei sistemi di comando a retroazione, un’innovazione tecnologica che, come ha dimostrato Thomas Hughes nel suo American Gene-

sis, è stata alla base di numerose innovazioni tecnologiche del XX secolo. Gli archivi della EckertMauchly Computer Corporation, della Engi-neering Research Associates, della Sperry-UNIVAC e del processo antitrust dell’IBM permettono di ripercorrere la storia della macchina che ha maggiormente caratterizzato il nostro secolo, il calcolatore, almeno per il lungo periodo compreso fra il 1930 e il 1970. Gli archivi della divisione aeronautica della Sperry Corporation aiutano alla comprensione dell’utilizzo del calcolatore e dell’autore-golazione nel comando e nel controllo di tutto il sistema del pilotaggio automatico, dei missili guidati, dei satelliti artificiali e dei missili dei programmi spaziali Mercury e Apollo. L’impatto della seconda guerra mondiale e della guerra fredda sulla scienza e sulla tecnologia americane è altrettanto ben descritto nelle collezioni dedicate all’energia atomica. La fabbricazione della prima bomba atomica è dettagliatamente spiegata nel giornale in otto volumi che Crawford Greenewait teneva durante il progetto Manhattan. Gli archivi dei siti di Hanford e di Savannah River ripercorrono le tappe dello sviluppo del programma di armamento nucleare americano dal 1944 al 1970. Dei materiali per meglio comprendere le scelte di società Durante gli ultimi anni, gli storici specializzati nella storia modema americana si sono interessati allo studio delle complesse relazioni fra industria e Stato. Gli archivi della Camera di Commercio degli Stati Uniti, della National Association of Manufacturers, dell’Associazione nazionale dei fabbricanti (NAM) e del Conference Board mostrano chiaramente fino a che punto il mondo degli affari ha influenzato la politica dei poteri pubblici in materia legislativa, nella lotta antitrust, nella contrattazione delle convezioni collettive e nel

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commercio estero. Le collezioni destinate ai ricercatori ripercorrono anche le tappe dello sviluppo della cultura della società dei consumi americana e il ruolo capitale giocato dal mondo degli affari in questo processo. Esse includono documenti originali relativi alla pubblicità, al design, alle strategie di marketing delle imprese, ma anche ai sondaggi d’opinione realizzati presso i consumatori. Le collezioni più ricche coprono dagli anni venti agli anni settanta, ma si trovano anche documenti sparsi della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo. Le ultime acquisizioni includono i registri delle compagnie Joseph E. Seagram & Sons, Strawbridge & Clothier, Avon Products Inc. e le carte d’Irv Koons che è stato l’inventore delle confezioni di numerosi prodotti. Recentemente è emerso un nuovo centro d’interesse che è all’origine di una pubblicazione ormai prossima su Women’s History: A Guide to Sources at Hagley Museum and Libary, opera dell’ar-chivista Lynn Catanese. Le collezioni possono essere utilizzate per lo studio di soggetti fondamentali relativi alla storia delle donne negli Stati Uniti, ad esempio il ruolo delle donne nell’economia familiare, l’eguaglianza nel lavoro, le casalinghe, la società dei consumi, le attività caritative e la partecipazione delle donne ai movimenti di riforma della politica. Una serie di guide aiuta gli studenti a identificare taluni soggetti all’interno delle collezioni. Queste guide riguardano l’architettura, la storia della donna americana, la società di consumo, le relazioni fra Stato e mondo degli affari. Studenti di differenti parti del mondo effettuano le loro ricerche nelle collezioni di Hagley e un programma di aiuto economico rende più facile l’accesso alle fonti. Nel corso degli ultimi trent’anni, le collezioni di Hagley hanno fornito la materia prima a un elevato numero di lavori che sono diven-

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tati dei classici nei settori della storia economica, commerciale, tecnologica. Thomas Cochran, Alfred D. Chandler, Thomas Hughes, Eugene Ferguson, Davis Hounshell, Meritt Roe Smith, Diane Lindstrom e Anthony F.C. Wallace hanno utilizzato queste collezioni per studiare le relazioni fra i cambiamenti tecnologici, le strategie, le strutture commerciali e la crescita economica. Negli ultimi anni, tuttavia, i ricercatori hanno posto nuove domande a queste stesse collezioni del museo. L’Hagley Center for the History of Business, Technology and Society, diretto da Philip Scranton e Roger Horowitz si è sforzato di aiutare gli studenti che lavorano su progetti generali interdisciplinari, capaci di superare le tradizionali barriere fra settori differenti della ricerca quali la storia economica o industriale, la tecnologia, la storia sociale o culturale. Gli studenti che lavorano ad Hagley integrano oggi concetti quale l’uguaglianza dei sessi, lo studio delle etnie, delle razze, delle classi e delle comunità nei settori tradizionali della storia economica e industriale e lo fanno in maniera innovativa e produttiva. Come ha fatto notare Philip Scranton, la storia economica, tecnologica e industriale è diventata il fondamento della storia globale dell’industrializzazione americana, del suo contesto e delle sue conseguenze sociali. Nel corso di numerosi seminari e conferenze, i dibattiti hanno affrontato il tema dei rapporti fra gli operai e la tecnologia, della flessibilità della specializzazione, dell’autonomia dei corpi di mestiere, della produzione di massa o in serie limitata, degli schemi di accumulazione, del potere di coloro che possiedono lo spirito imprenditoriale, della nascita dell’impresa moderna, dell’etica del consumatore e del produttore, del lavoro, della comunità e del modo in cui la segmentazione del mercato del lavoro ha colpito le donne e le

minoranze razziali ed etniche. L’Hagley Center propone un programma di studi in collaborazione con l’Università del Delaware. Questo programma avvia a lauree e dottorati in storia e a studi di museologia. Questi diplomi occupano posti chiave in numerosi musei americani, università e società storiche degli Stati Uniti. Hagley Museum and Library è un’istituzione d’insegnamento unica nel suo genere. Essa presenta e permette di comprendere un importante sito storico culla di una delle più importanti imprese e di una delle famiglie più in vista. Il programma che propone vuole arricchire le conoscenze del grande pubblico, come pure quelle dei liceali e degli universitari. La biblioteca conserva e permette Ia consultazione di archivi vitali per la storia del commercio e della tecnologia. L’Hagley Center lavora con studenti di tutto il mondo per migliorare la comprensione dell’evoluzione della società industriale e postindustriale. Il museo di Hagley si è associato con l’Ecomusée de la Communauté Urbaine Le Creusot-Montceau les Mines per il montaggio di quest’importante mostra fotografica delle industrie del ferro e dell’acciaio. Speriamo che questa cooperazione aprirà la strada ad una collaborazione continua fra i due musei.

Scambi di tecnologie: un dialogo franco-americano Michel Cotte I legami che unirono la Francia e gli Stati Uniti al momento dell’indipendenza americana sono ben noti, almeno sul piano militare e politico. Al di là di una figura emblematica come La Fayette e del periodo della guerra contro gli inglesi, influenze reciproche si esercitarono in numerosi settori. Le relazioni nel settore tecnico costituiscono indubbiamente


l’aspetto meno noto, al di qua come al di Ià dell’Atlantico, fatta eccezione per le disavventure della barca a vapore Fulton in Francia e dello straordinario successo americano dei Dupont de Nemours nel settore della polvere per cannone. Nello spirito americano, dopo la loro e quella dei francesi, la “terza rivoluzione” è costituita dallo sviluppo rapido dell’industrializzazione, durante il XIX secolo. Per spiegare il trasferimento di tecnologia che l’ha condizionata, si è soliti parlare di un modello d’influenza unipolare, dall’Inghilterra verso tutti gli altri paesi dell’Europa continentale e dell’America Settentrionale. Questo modello, se è valido per i settori più specifici dell’industrializzazione britannica (la siderurgia, la meccanica del ferro, le prime locomotive), lo è molto meno per altri campi, altrettanto importanti, quali il genio civile, l’idraulica, le imbarcazioni a vapore, la chimica. Da questo punto di vista, le relazioni franco-americane costituiscono l’esempio di una diffusione multipolare delle tecniche della prima era industriale. I primi tempi dell’indipendenza americana La guerra d’indipendenza condusse alcuni ufficiaIi francesi a stabilirsi definitivamente oltre Atlantico, con la conseguenza di un’influenza diretta sulla costituzione di un corpo militare americano. Il cavaliere Louis du Portail (1736?-1802), formatosi alla scuola del genio militare di Mézières, appare come una figura embIematica per spiegare il duplice aspetto, al contempo militare e tecnico, dell’aiuto francese. Reclutato da Franklin all’inizio del conflitto, pare che sia diventato il primo direttore nonché creatore del corpo degli ingegneri militari americani e che abbia mantenuto questa carica fino al 1783. Rientrerà in Francia per trascorrervi gli ultimi anni di vita, mentre il suo collega Pierre

Charles L’Enfant (1754-1825), ufficiale e architetto, deciderà di rimanere definitivamente nella giovane nazione americana. Fattosi conoscere per le sue attitudini d’ingegnere specializzato in fortificazioni al servizio del governo federale, non fu avulso da incarichi nel settore dell’architettura civile. Tra il 1788 ed il 1791 fu chiamato da George Washington per elaborare i piani della nuova capitale federale e per progettare numerosi edifici pubblici. L’ultima parte della sua vita è dedicata a differenti progetti di architettura industriale e urbana. Può essere considerato come uno degli ispiratori più importanti del neoclassicismo americano. Ambasciatore degli Stati Uniti a Parigi al momento della Rivoluzione Francese, Thomas Jefferson (1743-1826) s’interessò direttamente alle tecniche francesi. Nel 1787, ad esempio, effettuò un viaggio di studio lungo il Canal du Midi, al fine di raccogliere informazioni pratiche per i suoi compatrioti desiderosi di intraprendere tale tipo di lavori. Addirittura fece proposte di miglioramento del funzionamento delle chiuse al direttore dei lavori! Al suo rientro, il futuro presidente sarà uno dei promotori di un progetto di canale nella Carolina del Sud, per il quale pare che abbia sostenuto l’adozione delle chiuse multiple. Il periodo della Rivoluzione Francese Segue ai primi anni dell’indipendenza americana e sembra quasi rafforzare l’interesse reciproco dei due paesi nel settore tecnologico. Il movimento diventa duplice, poiché tecnici americani vengono, a loro volta, sul vecchio continente. Fulton (1765-1815) soggiornò a Parigi dal 1796 al 1803, moltiplicando le iniziative tecniche. Tuttavia, le sue proposte di mine e di sottomarini individuali per l’armata di Bonaparte, poi il suo

battello a vapore sperimentato sulla Senna, non furono mai utilizzati ed egli ritorno in patria. Diventò, allora, il pioniere della navigazione a vapore commerciale americana, con la costruzione del Clermont nel 1807. Durante il suo soggiorno parigino, Fulton frequentò numerosi esperti del settore, si documentò sul “saper fare” tecnico francese, studiando, per esempio, gli automi di Vaucanson. Non era, però, il solo americano né il primo a interessarsi da vicino al mercato tecnico francese alla fine del XVIII secolo. In questo settore, cerniera della navigazione a vapore, i suoi compatrioti John Fitch e Joel Barlow depositarono brevetti francesi rispettivamente nel 1791 e nel 1793. Questi ultimi possono essere considerati, soprattutto il secondo, come dei precursori delle caldaie a tubi. Lo scrittore e uomo politico Thomas Paine (1732-1809) fu curioso delle tecniche francesi durante la Rivoluzione. Nel 1780-1781, effettuo missioni di approvvigionamento militare in Francia e in Svizzera per conto del governo americano. S’interessò in seguito alle nuove possibilità architetto-niche della ghisa al fine di costruire i ponti, e i suoi viaggi dal 1787 al 1802 gli permisero di confrontare le sue idee con i progetti francesi dell’epoca, in particolare quello di una grande arcata metallica di Monpetit. Paine non fu mai un costruttore, ma uno spirito caratteristico dell’indipendenza americana, interessato al contempo alla filosofia, alla scienza e allo sviluppo tecnologico. Alla fine della Rivoluzione, Pierre Samuel Dupont de Nemours (1739-1817) i suoi figli Victor (1767-1827) ed Eleuthère (17711834) ebbero importanti relazioni con gli Stati Uniti, relazioni ufficiali e private. Risultano essere gli attori privilegiati delle relazioni franco-americane durante l’episodio napoleonico. Nel 1799, creano una prima compagnia

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di realizzazioni fondiarie a New York e decidono di emigrare definitiva-mente, pur mantenendo partner finanziari di tutto rispetto in Francia. È, tuttavia, l’attività del figlio cadetto che dà origine alla vera e propria fortuna americana della famiglia, con la fabbricazione della polvere nera, a partire dal 1802 a Wilmington nel Delaware. Eleuthère si era formato sotto l’Antico Regime alla Régie des poudres, allora diretta da Lavoisier. Gli scambi fra i Dupont e la Francia proseguirono al di là del loro definitivo trasferimento e si sono concretizzati anche nella costituzione di una biblioteca francese importante e regolarmente aggiornata. Per esempio, Les descriptions des machines et procédés spécifiés dans les brevets..., mostrano la continuità di un interesse per la tecnica francese durante tutto il XIX secolo. I ponti sospesi e i battelli a vapore Proposti da James Finley, i ponti sospesi moderni fanno la loro apparizione negli Stati Uniti nei primi anni del XIX secolo. Costruiti grazie al sostegno di catene di ferro battuto, conoscono una prima diffusione in Pennsylvania prima di essere adottati dagli inglesi. Gli ingegneri francesi (Navier, Seguin) si interessano ai ponti sospesi britannici negli anni venti. Il secondo, un ingegnere civile, sembra, però, mettere a profitto meglio i tentativi americani, come quello della passerella sullo Schuylkill River, in Pennsylvania, utilizzando per la prima volta dei grossi fili metallici. Egli mette a punto il cavo di fil di ferro fine che riuscirà a imporre sul continente europeo, a dispetto della tradizione inglese delle catene di ferro. La storia franco-americana del ponte sospeso non si ferma qui. Quando la prima generazione di queste opere d’arte è in rapido declino negli Stati Uniti, un giovane ingegnere americano, Charles Ellet (1810-1862) viene a

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perfezionarsi in Francia nel 1830 all’Ecole des ponts et chaussées dove incontra Navier. Il suo successivo viaggio nella vallata del Rodano, nel maggio 1831, finisce d’entusiasmarlo per i ponti sospesi a cavo. Appena rientrato propone un’opera di questo tipo per passare il Potomac, con 200 metri di portata centrale. Tuttavia, la sua prima realizzazione importante con questa tecnica data del 1847-1849 a Wheeling sull’Ohio. Il suo principale concorrente, fu John Roebling, di origine tedesca, e profondo conoscitore, anch’egli, delle opere d’arte europee. Per la generazione successiva, quella di Fulton, l’esempio dei battelli a vapore americani fu particolarmente importante per gli ingegneri francesi, al punto da giustificare, ad esempio, una missione ufficiale di studio, nel 1823, affidata a J.B. Marestier. È dal suo rendiconto che Marc Seguin (1786-1875), ancora una volta, prese alcune idee a proposito dell’architettura della macchina ad alta pressione e della produzione del vapore con la quale realizza la prima caldaia tubolare utilizzabile. Nello stesso periodo, uno dei consoli americani in Francia, Edward Church, si interessa allo sviluppo della navigazione a vapore negli estuari francesi sul lago di Ginevra, poi sulla Saône e infine sul Rodano. Seguin e Church furono concorrenti diretti su queste due vie d’acqua nel 1827-1828. Un altro candidato alla navigazione a vapore sul Rodano della fine degli anni 1820, François Bourdon (1798-1865), originario della vallata della Saône, fallì piuttosto clamorosamente. Partito nel 1833 per gli Stati Uniti al fine di studiare sul posto le macchine a vapore ad alta pressione e i battelli fluviali americani, fu chiamato, nel 1837, dagli Schneider al Creusot e diventò uno degli ingegneri più creativi. Mise a punto il maglio a vapore, poi lanciò la prima generazione

di grandi battelli da carico sul Rodano, la cui seconda generazione e la terza sono significativamente battezzati Missisipi e Missouri! L’Accademia militare di West Point, il genio civile e militare Gli americani organizzarono anch’essi delle missioni tecniche in Europa, alcune delle quali sono rimaste famose. Una delle più lontane nel tempo è quella che concerne la riorganizzazione dell’Accademia militare di West Point. Nel 1815-1816, Sylvanus Thayer effettuò una lunga missione di studio delle scuole e delle tecniche militari in Europa, in particolare di quelle francesi. Rinnovando le tradizioni della guerra d’Indipendenza, ravvivate dal conflitto del 1812 con il Canada inglese, Thayer ritorna accompagnato da due ufficiali del politecnico francese. In effetti, fin dalle sue origini, West Point aveva avuto dei professori francesi, ma non nel settore tecnico. Simon Bernard (1779-1839) ex aiuto di campo di Napoleone, diventa l’aiuto del brigadiere generale degli ingegneri americani, incaricato della difesa costiera. Claudius Crozet (1790-1864), insegna a West Point le scienze ingegneristiche, più specificamente il genio civile e militare. Con quest’occasione, i libri degli ingegneri francesi assumono una grande importanza: egli stesso redige un Treatise on Descriptive Geometry (1821). Qualche anno dopo, il manuale di Sganzin viene tradotto: An Elementary Course of Civil Engineering (1827). Crozet lascia West Point nel 1823 per diventare l’ingegnere capo dello Stato della Virginia, dove lancia un vasto programma di lavori pubblici, in particolare per rendere navigabile il fiume Kanawha. Durante la sua lunga carriera, in Virginia e in Luisiana, si impegna in tutti i settori delle infrastrutture del trasporto. Numerose missioni americane, spesso private, si sono interes-


sate alle tecniche europee e francesi della prima metà del XIX secolo, Una delle più famose rimane senza dubbio quella organizzata dal Franklin Institute di Filadelfia, in occasione della sua fondazione, avvenuta nel 1825. È una specie di missione di valutazione delle grandi tecniche di lavori pubblici e dell’industria siderurgica in Europa. Affidata all’ingegnere William Strickland (1787-1854), essa fu l’oggetto di numerosi rapporti tematici e di discussioni. L’elemento più evidente è la conferma della supremazia britannica nell’industria pesante e nella meccanica. Scienza e tecniche idrauliche Contemporaneo di Ellet, un altro giovane ingegnere americano, Charles S. Storrow (1809-1904), studiò all’Ecole des ponts et chaussées e visitò un gran numero di fabbriche da un lato e dall’altro della Manica. Una volta rientrato nel suo paese, è diviso fra l’influenza dei suoi studi teorici francesi e l’efficacia del pragmatismo britannico. Il suo interesse principale era per il settore dell’idraulica. Nel 1835, pubblica un Treatise on Water Works largamente influenzato dai manuali degli ingegneri francesi. Molto nuovo, in lingua inglese, il suo trattato è notato dagli specialisti americani del settore ancora poco avvezzi ai ragionamenti analitici, È abbondantemente ripreso da Mahan, professore a West Point, nel suo Elementary Course of Civil Engineering (1837). Vent’anni più tardi, la Società degli Ingegneri Civili di Boston faceva tradurre il voluminoso trattato d’idraulica di Aubuisson, ribadendo la permanenza di un’influenza francese nel settore. Tuttavia, fu solo fama scientifica, collegata all’eccellenza teorica o pedagogica dei professori francesi dell’inizio del XIX secolo. Si ritrovano importanti tracce delle tecniche francesi delle dighe mobili nella regolariz-zazione dei fiumi al fine

di renderli navigabili, durante la seconda metà del XIX e la prima del XX secolo . Le dighe di Poirée, Boulé, Thénard, Chanoine sono detta-gliatamente descritte nel libro di Wegmann, il manuale di riferimento americano in questo settore, più volte riedito. Tracce archeo-logiche di rilievo sono ancora presenti sulle rive del bacino del-l’Ohio. Gli Schneider e gli Stati Uniti Al di là del collegamento connesso a François Bourdon, nei primi e decisivi anni del decollo dell’industria siderurgica al Creusot, le relazioni fra gli Schneider e gli Stati Uniti illustrano alcuni momenti importanti, per i due paesi, nello scambio tecnologico. Negli anni ottanta dell’Ottocento, caratterizzati dall’inizio della seconda industrializzazione e dalla crescita in potenza dell’economia americana, l’acciaio diventa un prodotto strategico. Per le blindature delle sue navi, la US Navy sceglie i processi dei mastri di forgia del Creusot, preferendoli a quelli dei loro concorrenti stranieri, soprattutto tedeschi, e inaugurando un periodo di collaborazione fra gli Schneider e i produttori americani in piena espansione come la Bethlehem Steel. Qualche anno dopo, al passaggio del secolo, Schneider & Cie lanscia la sua produzione di grossi materiali elettrici necessari all’industrializzazione di questo nuovo settore energetico: motori, trasformatori, alternatori. Per questo, la ditta del Creusot sceglie di acquistare i brevetti della compagnia Westinghouse e di costruire una fabbrica ad hoc a Champagne-sur-Seine. Alla fine delIa prima guerra mondiale, Eugéne Schneider II, perfettamente bilingue, e nominato responsabile della missione ufficiale di studio per la ricostruzione industriale della Francia, missione che raggiunge gli Stati Uniti nel 1920. Il suo gruppo pare trarne un immediato beneficico

profitto grazie all’elettrificazione del trasporto ferroviario, dove si assicura dei brevetti della General Electric. Egli li sfrutta aprendo una divisione speciale a Jeumont. Poco dopo la cooperazione fra gli Schneider e Westinghouse riprende per l’equipaggiamento delle centrali elettriche, in particolare le turbine a vapore, a partire da brevetti della compagnia americana. Nel 1929 le due società creano una filiale , “Le matériel électrique SchnedierWestinghouse”, con un capitale di 150 milioni di franchi, che eredita una grossa parte delle attività elettriche precedenti del gruppo Schneider. A partire dagli anni settanta, questa collaborazione fra società francesi, tra cui Creusot-Loire, e la grande compagnia americana continua nel settore elettronucleare, con l’acquisto dei brevetti Westinghouse sulle centrali di tipo PWR e il loro spettacolare sviluppo in Francia.

Immagini del patrimonio industriale degli Stati Uniti XVIIl-XX secolo Louis Bergeron Maria Teresa Molullari II patrimonio industriale degli Stati Uniti è, indubbiamente, il più ricco del mondo, unitamente a quello della Gran Bretagna. Voler presentare al pubblico un’immagine d’insieme con duecento foto e un piccolo catalogo costituisce senza dubbio una sfida. Una sfida in cui ci siamo lanciati per offrire al pubblico l’occasione di “una prima impressione”. Dobbiamo, quindi, chiedere venia per le inevitabili lacune, imputabili anche alla scarsa disponibilità delle fonti. La cronologia II metodo procedurale per organizzare le sequenze di questa mostra è doppio. Da una lato, la lunghezza dell’arco temporale

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(dal 1740 al 1940, circa) imponeva delle distinzioni cronologiche. Di qui l’idea e la creazione di un primo asse nel quale vedremo succedersi tre momenti della storia dell’industrializzazione di questo grande paese: - prima della guerra di secessione: una fase d’industrializzazione “all’europea” caratterizzata dal netto predominio degli Stati della Nuova Inghilterra e nella quale il visitatore crederà di riconoscere immagini familiari al di 1à dell’Atlantico, immagini conformi a una tappa storica nella quale il modello europeo continuava a prevalere; - dalla fine della guerra di secessione fino alla seconda guerra mondiale: una fase di vera e propria industrializzazione “all’americana”, esattamente come si presenta nel nostro immaginario e che si caratterizza per il gigantismo industriale; - verso i giorni nostri: più la deindustrializzazione sviluppa aree industriali dismesse, più gli Stati Uniti entrano anch’essi in un periodo di riflessione sulle possibilità e le modalità della salvaguardia, della riconversione e del riutilizzo di quello che oggi chiamiamo correntemente patrimonio industriale. Anche in questo ambito la creatività americana sorprenderà il visitatore della mostra. I temi Dall’altro lato, la diversità e la dispersione geografica di questo patrimonio imponevano la presenza di un secondo asse nel quale trovassero posto quelle distinzioni tematiche che mettono l’accento sugli elementi più autenticamente americani dello sviluppo industriale: - gli Stati Uniti sono un paese di grandi spazi, un paese in cui la conquista, il popolamento e la valorizzazione hanno avuto come condizione prima la creazione di mezzi di comunicazione adeguati. I ponti, i canali, le ferrovie, i porti costituiscono un for-

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midabile insieme di attrezzature; - sono stati e restano tuttora una grande riserva di risorse naturali, minerarie ed energetiche il cui segno sul paesaggio non e meno importante; - lo sviluppo industriale stesso è stato accompagnato da un adattamento originale dei modi di costruzione: gli storici dell’arte americani riconoscono, oggi, la grande ricchezza dell’architettura industriale, spesso pioniera nell’ambito delle forme e dei materiali. Tutti questi temi, tutte queste epoche hanno ispirato delle scuole di pittura e oggi sono all’origine delle campagne di fotografia nel corso delle quali l’industrial Eye (cfr. l’album illustrato di Jet Lowe) diventa quello dell’arte come pure quello dell’inventario. È la ragione della presenza di questo sguardo estetico sull’industria, alla fine di questa mostra, sguardo che condurrà il visitatore sul cammino della curiosità e dell’affetto per un patrimonio che ci è comune.

Dall’Indipendenza alla guerra di secessione I coloni americani arrivati nel XVII e XVIII secolo venivano dalle isole britanniche, dall’Olanda, dai paesi teutonici e qualcuno anche dalla Francia. Portavano con sé le tecniche dell’Europa occidentale la cui storia ci è familiare. Il regime coloniale inglese impose loro, almeno fino al 1783, secondo la regola dei grandi Stati europei dell’epoca, ogni sorta di limite nel settore dello sviluppo dell’industria: di qui il loro entusiastico slancio; una volta ottenuta l’indipendenza, nel dotarsi di un’industria autonoma capace di rivaleggiare, dal punto di vista tecnico, con l’antica metropoli. Eccoli più vicini, quindi, ai francesi, ansiosi a loro volta di colmare il ritardo nei confronti del paese leader nell’invenzione

tecnologica, l’Inghilterra. La storia dello sviluppo industriale degli Stati Uniti e della Francia presenta, durante la prima metà del XIX secolo, caratteri fortemente analoghi. Da un lato e dall’altro dell’Atlantico si ritrovano i medesimi mulini, le medesime forge, lo stesso slancio verso la meccanizzazione del tessile, la stessa dispersione degli impianti lungo i corsi d’acqua, a causa di un predominante ricorso all’energia idraulica. La grande diversità nella crescita dei due paesi, i tempi degli stupefacenti scarti di scala non sono ancora giunti. Tuttavia, fin dall’inizio l’industrializzazione degli Stati Uniti ha obbedito a condizioni specifiche: la conquista di un paese coperto da foreste, ricco di centinaia di migliaia di corsi d’acqua, di risorse del sottosuolo varie e onnipresenti e condizionato dalla presenza delle lunghe distanze. Prima di attaccarsi ai mercati esterni, l’industrializzazione ha dovuto far fronte a una straordinaria domanda interna generata dalla presa di possesso del territorio. Alle fonti dell’industria americana Uno dei fari del patrimonio industriale statunitense è costituito, oggi, dal sito di Saugus, vicino a Lynn, a nord di Boston. È senza dubbio la sede del secondo tentativo di fabbricazione del ferro nell’America coloniale, un’esperienza che durerà soltanto dal 1652 al 1676 e che era collegata alla penuria di prodotti metaIlurgici di cui soffrivano le decine di migliaia di puritani che avevano colonizzato il Massachusetts. Negli anni cinquanta del nostro secolo, il sito fu oggetto di scavi archeologici e l’American Iron and Steel Institute decise di ricostruirlo sulla base di documenti originali. Pur mancando di autenticità, la ricostruzione del quadro e del processo tecnico fanno oggi di Saugus l’oggetto di un turismo


culturale di qualità. Si può incominciare a parlare seriamente di metallurgia americana solo nel XVIII secolo e, in particolare, per la Pennsylvania. Fin dal 1929 il sito di Valley Forge, nell’entroterra di Filadelfia, era stato studiato, ma gli scavi erano stati interrotti. Lo sviluppo della siderurgia americana doveva trovare in questo Stato il suo principale focolaio per due secoli e mezzo. II successo dei mulini idraulici tradizionali è ancora oggi molto vivo presso il pubblico americano. Il XVIII secolo è anche stato, nelle tredici colonie, quello della moltiplicazione dei mulini sui corsi d’acqua modesti, purché fossero rapidi e la loro installazione non ponesse problemi tecnici insormon-tabili. Come in Francia, questi mulini avevano usi molteplici – mulini da grano, macine da olio, pestelli da carta, ecc. – prima di diventare le prime manifatture tessili della rivoluzione industriale. Un bell’esempio è costituito dalla valle del Patapsco, nell’entroterra del porto di Baltimora, una vallata che sarà utilizzata, un po’ più tardi, dalla ferrovia della B&O. Un altro esempio, altrettanto significativo, è quello delle Jones Falls, ancora più vicino a Baltimora, utilizzate dall’industria molitoria fin dal 1719, e che diventarono uno dei siti idraulici più intensamente sfruttato del Maryland, intorno alla metà del XIX secolo: ventitré mulini, fonderie e manifatture diverse ne fecero allora la più grande concentrazione industriale dello Stato. L’industria dei mulini è anche stata la sede della prima rivoluzione tecnologica, grazie a Oliver Evans di Filadelfia, la cui opera The Young Millwright and Millers’ Guide del 1795 venne ripubblicata ben quindici volte ed è ancora oggi oggetto di una riproduzione in facsimile. Gli archeologi industriali di Filadelfia hanno dato il suo nome al proprio Chapter. Evans è l’in-

ventore della moderna struttura del mulino industriale, nel 1787: un edificio a più piani, in cui il processo di trasformazione dei grani si effettua dall’alto verso il basso, aumentando notevolmente la produttività del mulino. L’elevazione e il carico, a livello superiore, della materia prima hanno ulteriormente contribuito alla messa a punto della tecnica del silos e, tutto sommato, anche a quella del montaggio delle automobili. Il sistema di Evans è stato rapidamente imitato in Europa: negli Stati Uniti stessi, la sua adozione da parte di grandi e piccoli mugnai ha condotto a un boom nella costruzione dei mulini dalla Pennsylvania e dal Delaware al Maryland e alla Virginia. La prosperità durevole generata da questa prima forma di rivoluzione industriale fu tale che i mugnai rifiutarono per lungo tempo di equipaggiare i loro mulini con il vapore e di abbandonare le forme che certi mulini facevano girare a decine. La fabbricazione all’ungherese sarà adottata dagli Stati Uniti solo nel 1880. Energia idraulica e industrializzazione L’industrializzazione del settore tessile (cotone e lana) ha seguito l’installazione dei mulini tradizionali. Le prime fabbriche, di piccole dimensioni, avevano sfruttato, all’inizio, salti d’acqua relativamente deboli. Il sito di Slater Mill, nel Rhode Island, oggi altrettanto simbolico di quello di Saugus, ricorda gli inizi della meccanizzazione all’inglese sul territorio della giovane repubblica americana, con la costruzione sul posto, dovuta a Samuel Slater, delle prime macchine per filare il cotone. Tutto questo, nonostante gli sforzi degli inglesi per evitare che la loro tecnologia e i loro tecnici fuoriuscis-sero in direzione degli Stati Uniti. A monte, le fabbriche si moltiplicavano lungo il corso del Blackstone River, con una vera corsi allo sfruttamen-

to delle cascate. La fabbrica di Waltham, nei dintorni di Boston, appartiene ancora a questo tipo d’insediamento, pur mostrando i primi segni di un capitalismo più avanzato. Negli anni tra il 1820 e il 1840, un salto tecnologico decisivo procurò all’est degli Stati Uniti l’ingresso nel gruppo delle più grandi potenze industriali. Questa nuova tecnologia è quella dell’utilizzo dell’energia, dei fiumi più ricchi che scendevano dal versante est degli Appalachi verso l’Atlantico, grazie a una serie di cascate ravvicinate e talvolta con forte dislivello. Questo sistema favorì la creazione di una vera concentrazione industriale che avvicinava la Nuova Inghilterra all’Inghilterra stessa. II primo esempio di diffusione di questo nuovo metodo, che prevedeva l’impiego di un potenza effettiva più vicina all’energia teorica offerta dai corsi d’acqua, venne offerto dall’operazione di pianificazione industriale realizzata a Paterson, nel New Jersey. Vicino alle Great Falls (25 metri di caduta), la statua di Alexander Hamilton, uno degli uomini di Stato più in vista alla fine del XVIII secolo, ricorda che fu questi ad aver avuto l’idea di ordinare un sistema di derivazione delle acque del Passaic, distribuite da una serie di canali a diverse fabbriche. Questa fu l’origine della grande fortuna industriale della città, prima nel settore cotoniero e delle macchine tessili, poi in quello delle locomotive, dell’armamento e, soprattutto, della seta. Però, il trionfo di questo sistema di utilizzo della forza idraulica attraverso una rete di canali che alimentano un distretto di produzione industriale fu raggiunto a Lowell, nel Massachusetts, oggi considerata come la culla della vera industrializzazione degli Stati Uniti. Eppure Lowell non è nulla di più che un elemento di una potente rete industriale (filatura e tessitura del cotone

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e della lana) incentrata sulla valle del Merrimack e dei suoi affluenti e composta soprattutto dalle citta di Lawrence, Methuen, Amesbury, Manchester. È vero, tuttavia, che Lowell costituì l’esempio di un successo industriale connesso a un’oculata decisione d’investimento da parte dei capitalisti bostoniani (uno dei quali era Cabot Lowell) e al talento dell’ingegnere Kirk Boott, formatosi in Inghilterra, all’Accademia Militare di Sandhurst. Il sistema di canali di derivazione, lungo 10 miglia (16,09 km), è ancora praticamente intatto e fornisce la potenza di 10.000 CV. Prima del 1840, sei compagnie maggiori si sono installate su questa fonte di energia. Da notare che l’energia idraulica ha continuato a essere utilizzata parallelamente al vapore e questo fino in pieno XX secolo, grazie alle potenti turbine moderne. II modello di Lowell ha fatto scuola nello Stato di New York a Cohoes, vicino alla confluenza del Mohawk e dell’Hudson, dove ad alcune cascate fu aggiunta, a partire dal 1831, una diga che alimentava un sistema di canali. Anche qui, s’incontrarono gli sforzi dei capitalisti newyorkesi, di un ingegnere costruttore e di un industriale cotoniero del Rhode Island, che non era altri che il cognato di Samuel Slater. Cohoes e i suoi grandi complessi cotonieri entrarono cosi in stretto rapporto con le vicine città di Albany e di Troy per costituire la seconda grande concentrazione industriale degli Stati Uniti, prima della guerra di secessione. II Sud non mancò di adottare il medesimo modello per fornirsi di filature e tessiture, cosa che smentisce l’immagine divenuta classica di una regione sottoindustrializza-ta. Questo fu il caso, in Georgia, di Columbus e di Augusta. Columbus, grazie alla successione di cascate sul corso del Chattahoochee River per una lunghezza di 25 miglia (40,22 km), fu in grado di sviluppare,

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a partire dal 1828, una serie di mulini, di manifatture tessili, ecc., disclocati lungo il fiume, prima di diventare, durante la guerra di secessione, l’arsenale delle armate confede-rate. In effetti, il corso d’acqua offriva un’energia potenziale di 100.000 CV, molto vicina a quella delle Pawtucket Falls a Lowell. Da non dimenticare, infine, il caso di Minneapolis, nel Minnesota, dove le Saint Anthony’s Falls e la derivazione delle acque del Missisipi sono servite di supporto allo sviluppo del più potente distretto industriale per la produzione delle farine del mondo, integrato da una collezione di silos in cemento armato che datano del primo terzo del XX secolo. I paesaggi dell’industria antica associano, quindi, due immagini: quella delle grandi manifatture in mattone, all’inglese, movimentate dal fascio dei grandi fiumi costieri e quella di edifici più modesti, altoforni che funzionano a carbone di legna fino agli anni 1860, mulini d’impresa familiare, piccole manifatture installate sulla rete idraulica secondaria. Tutti questi elementi si armonizzavano perfettamente, a dispetto della presenza di un certo numero di ciminiere, con una natura fatta di legno e di acqua, che la fabbriche interrompevano appena qui e là.

Il gigantismo industriale: dalla guerra di secessione alla grande crisi Dalla fine della guerra di secessione (1865) alla prima guerra mondiale, popolamento e crescita economica ricevono un forte impulso negli Stati Uniti. Le industrie tessili giganti della seconda generazione sono l’espressione della costituzione di un grande mercato: immensi vascelli sempre lunghi e stretti, alti cinque, sei o sette piani e che ben meriterebbero, per analo-

gia, l’appellativo di “cattedrali in mattone”. In Francia, negli anni quaranta, si era potuto parlare, a Roubaix, di una fabbrica di questo tipo costruita da uno dei membri della tribù dei Motte. Negli Stati Uniti, nell’ultimo terzo del XIX secolo o nell’immediato anteguerra, l’una o l’altra filatura, a nord come a sud degli Stati atlantici, ha sempre potuto, in un certo momento o in un altro, essere qualificata come “the largest in the world”. La moltiplicazione, in un dato momento storico, di questi potenti edifici pone, da circa trent’anni, qualche problema alla politica di salvaguardia del patrimonio americano. Eppure, questi edifici costituiscono i più begli esemplari di questo patrimonio: sono solidi, eleganti, di facile riconversione grazie alla loro polivalenza (reidenze, piccole imprese, usi culturali o commerciali ecc.). L’età del gigantismo industriale, però, è più ancora quella della creazione di una vera siderurgia – essenzialmente dell’acciaio – e il secolo di Henry Bessemer. Nascita di una moderna siderurgia La mostra “Immagini del patrimonio industriale degli Stati Uniti” presenta essenzialmente la siderurgia della Pennsylvania, territorio che, attraversando gli Appalachi, resta un simbolo della storia e della conquista dell’entro-terra continentale. Questo Stato, a forte cultura rurale e agricola, è ormai diventato anche il più industrializzato degli Stati Uniti. Si trovano, a ovest come a est, miniere di carbone e di ferro, piccoli centri industriali, grandi metropoli (Filadelfia, Pittsburg) e vie di circolazione altrettanto importanti quanto quelle dello Stato di New York per il collegamento fra Est e Midwest. Prima del 1860, gli altoforni a carbone di legna avevano colonizzato le vallate dello Schuykill, del Delaware e della Juniata, poi si erano concentrati a ovest intor-


no a Pittsburgh e a Scranton, città che possedeva il più grande complesso siderurgico. Dal 1840, però, si era utilizzata sempre di più l’antracite, soprattutto nella Pennsylvania orientale. Nel 1860, lo Stato forniva la metà della produzione di ferro dell’Unione; i suoi laminatoi avevano già soddisfatto un’enorme domanda di binari. Dal 1860 al 1919, la Pennsylvania faceva registrare una crescita vertiginosa: occupazione decuplicata, investimenti e valore della produzione moltiplicati per sessanta, una proliferazione di siti, benché la sua parte della produzione nazionale si riducesse leggermente. Questa espansione coincide con gli inizi dell’età dell’acciaio. L’uso del converitore Bessemer, di origine britannica, comincia nel 1867 a Steelton, alla Pennsylvania Steel Cy, mentre i primi binari d’acciaio escono dalla Cambria Iron Works, a Johnstown, grazie all’ingegnere John Fritz, inventore di un nuovo procedimento che permette di ottenerli a basso prezzo e di una qualità uniforme. Pittsburgh conobbe il suo grande boom industriale fin dagli anni settanta. La Pennsylvania creò, nel 1887, le acciaierie e i cantieri navali di Sparrows Point a Baltimora, che finiranno per passare nelle mani della Bethlehem Steel Company a Bethlehem (vicino ad Allentown, in Pennsylvania). Questa compagnia riesce a migliorare, in questo sito, il procedimento Bessemer per adattarlo alle condizioni di approvvigionamento americane; poi s’introduce la tecnologia della produzione di grossi pezzi (haevy forging). La compagnia diventa fabbricante di cannoni e di blindature per le prime navi da guerra in acciaio della US Navy che servirono nella guerra ispano-americana del 1898: si è potuto vedere in questo i primordi del “complesso militare-industriale”. È intorno a questa fabbricazione che incominciano a nascere i primi collegamenti fra gli Schneider

e la Bethlehem Steel. In effetti, il governo americano aveva riconosciuto la supremazia della tecnologia degli “acciai omogenei” sui quali il Creusot lavorava fin dal 1875 e ne aveva trasmesso la richiesta alla Bethlehem Steel. Fu quest’ultima a trattare direttamente con gli Schneider per l’organizzazione di questo tipo di fabbricazione e a costruire un maglio di 120 t sul modello di quello del Creusot per forgiare le blindature. Un’ulteriore tappa fu raggiunta con la messa a punto degli acciai al nickel: in seguito agli esperimenti condotti al poligono di Annapolis (accademia navale americana nel Maryland), una commissione americana assegnò il primo posto agli Schneider, davanti a Cammel e a Sheffield, per una placca francese di 267 mm che aveva resistito ai tiri senza aver presentato alcuna perforatura o fenditura e che aveva addirittura respinto tre proiettili. Verso il 1910, il convertitore Bessemer è sostituito dal forno open hearth, un procedimento meno rapido ma che permetteva il trattamento di maggiori quantità che venivano riscaldate al coke, prodotto in forni speciali, a partire dal carbone del bacino di Pittsburgh. L’automobile, una rivoluzione Alla fine del XIX secolo, la geografia industriale degli Stati Uniti registra un mutamento decisivo: da Pittsburgh a Chicago, passando per Cleveland, Buffalo, Detroit, si trovano ormai gli elementi di una catena di metropoli regionali che controbilanciano l’industria delle vecchia l’industria e delle vecchie tredici colonie. A Detroit, anello principale di questa catena, nasce l’industria automobilistica che si caratterizza al contempo per un nuovo prodotto, una nuova organizzazione del lavoro, una nuova architettura dell’industria. Gli anni 1910-1930 sono gli anni trionfali di Detroit (nel 1929 vengono prodotte 5.300.000

automobili, in una città dove un operaio su due lavora per costruirle). Raddoppiatasi grazie a una formidabile immigrazione, la sua popolazione passa da meno di 300.000 abitanti nel 1900 a più di 1.500.000 nel 1929. Detroit diventa allora il primo centro industriale degli Stati Uniti. Al contrario di quanto solitamente si crede, non e stato Herry Ford il creatore dell’industria automobilistica, ma Ransom Olds che, dopo aver venduto la sua prima automobile a New York nel 1893, si installò a Detroit nel 1899. Egli è l’inventore della prima macchina in serie a buon mercato. All’epoca, i costruttori automobilistici non facevano altro che mettere insieme le componenti fornite da Dodge, Timken o Uniroyal. È vero, però, che è stato Ford a riprendere con il suo modello “T” l’idea di concentrarsi su di un prodotto principale di serie (1.000.000 di esemplari usciti tra il 1908 ed il 1920), e d’introdurre la fabbricazione di tutte le parti della vettura in un unico stabilimento. Questo nuovo tipo d’industria ha dato origine a una nuova architettura. La Ford “T” fu inizialmente prodotta nella fabbrica di Highland Park, in un edificio a più piani in cui il montaggio progressivo degli elementi si faceva dall’alto verso il basso, e la macchina, pronta, usciva dal piano terra (al contrario della famosa soluzione adottata dagli Agnelli a Torino). L’edificio era in calcestruzzo, molto solido, non combustibile, che permetteva una costruzione rapida, quindi adatta a seguire il ritmo frenetico della crescita industriale. Successivamente, alla metà del 1910, Ford decideva di abbandonare la fabbrica a più piani a vantaggio di una nuova organizzazione del lavoro e di edifici su un solo piano: oramai i pezzi entravano da un lato e la macchina usciva finita dall’altro, dopo aver percorso un’unica catena di montaggio, mobile anch’essa.

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Questo è il sistema adottato sul nuovo sito Ford che si svilupperà a River Rouge, abbastanza distante da Detroit, tra il 1917 e il 1938, su 800 ettari – ettari a basso prezzo – situati sul territorio di Dearbom. La nuova generazione di fabbriche ha la carcassa di acciaio. L’architetto di Ford è ormai l’illustre Albert Kahn (che non ha nulla a che vedere con il suo omonimo parigino), l’uomo della rivoluzione nell’architettura a uso industriale, che doveva costruire circa 2.000 fabbriche tra il 1900 e il 1940. Fabbrica e architettura La vera rivoluzione, tuttavia, risiede probabilmente nel cambiamento essenziale del rapporto fra l’architettura, il suo oggetto e il suo committente; cambiamento di cui Albert Kahn è stato, lì e allora, l’artefice su scala mondiale. Tradizionalmente, l’architetto del XIX secolo rivestiva con facciate decorate e forme eclettiche gli edifici destinati alla produzione industriale. Più tardi, degli architetti con uno spirito più moderno, con più approfondite conoscenze di tecnica o di meccanica, hanno dato alla fabbrica una struttura d’avanguardia, senza tuttavia riuscire a rinunciare completamente a uno stile d’altri tempi. Peter Behrens, ad esempio, ha progettato la fabbrica di turbine di AEG a Berlino con le caratteristiche architet-toniche di un tempio greco. Ovunque, l’attitudine dell’architetto era improntata alla fedeltà a un sistema di referenze artistiche ed estetiche che tendevano a fare dell’edificio industriale un pretesto per la scoperta di nuove forme portatrici di nuovi simboli. Al contrario, il prodigioso successo commerciale di Albert Kahn si spiega con la relazione che egli ha saputo stabilire con i numerosi uomini d’affari di Detroit, città in cui aveva imparato il mestiere, e con l’università del Michigan. Egli si è sempre e completamente sottomesso alle

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esigenze tecniche ed economiche degli imprenditori e a quelle della nuova organizzazione del lavoro, un partner altrettanto scomodo per i committenti come per il realizzatore. La capacità che dimostrò Alber Kahn di soddisfare la domanda d’industrie in continua espansione e con un ritmo di crescita quasi frenetico, si rivelò straordinaria. Essa è senza dubbio connessa al rigore con cui regnava, anche nel suo studio d’architettura, il principio dell’organizzazione industriale. Dal disegno e dall’approvvigionamento in materiali fino al più piccolo dettaglio idraulico, tutto era previsto e razionalmente organizzato. Cosi Albert Kahn riuscì a battere gli studi di architettura di Boston, di Lockwood, Greene & Company, fino alla regina del mercato. Dopo la conversione di Henry Ford alle sue idee, Albert Kahn poté lasciar libero sfogo alla sua creatività, prima al servizio di un gran numero di costruttori automobilistici, poi di costruttori aeronautici. Lavorò per Glenn Martin a Middle River, a nord di Baltimora (nel 1929, 1937, 1939, 1941) e ad Omaha, nel Kansas (nel 1941). Nel 1937, Glenn Martin, convinto del continuo aumento delle dimensioni degli aerei, gli ordina uno spazio senza colonne di 100 metri per 150 con un’estremità completamente aperta per permettere agli aerei, ormai ultimati, di uscire. Albert Kahn si serve allora della tecnica adottata nella costruzione dei ponti per realizzare delle strutture portanti d’acciaio di una portata fino ad allora mai tentata. Quando, nel 1939, Glenn Martin chiede una seconda unità di produzione contigua, Albert Kahn la realizza fra il 5 febbraio e il 23 aprile! Da ultimo, la produzione di guerra crebbe ancora la pressione sullo studio di architettura. Bisogna almeno ricordare che lo stabilimento di Willow Run a Ypsilanti, nel Michigan, è la più

grande fabbrica di guerra del mondo (42.000 operai nel 1943) per la costruzione del bombardiere B-24, opera di Ford.

L’età del patrimonio industriale L’industrializzazione su grande scala del territorio degli Stati Uniti ha creato nuovi paesaggi, caratterizzati dalla rottura di quell’armonia che si era creata fra il mulino o la fabbrica e l’ambiente naturale e che aveva permesso l’inserzione dell’industria in un’economia essenzialmente rurale e in una società dalla mentalità agraria. Quest’armonia è ben rappresentata nelle opere dei pittori americani della prima metà del XIX secolo, i quali non celano il loro compiacimento per il felice compromesso trovato nell’illustrare la capacita di controllo delle forze della natura da parte dell’uomo e nel celebrare l’America come una specie di Eden. L’industria, tra immaginario e realismo Dall’indomani della guerra di secessione alla prima guerra mondiale le situazioni concrete e le attitudini subiscono modifiche profonde. La corsa alle terre libere e alle ricchezze minerarie fece prendere coscienza, verso la fine del XIX secolo, del fatto che l’America non era affatto un paese dalle risorse infinite, ma, al contrario, una nazione che doveva mostrarsi attenta alla conservazione del suo suolo, delle sue foreste, delle riserve minerarie e idriche. D’altra parte, l’opinione pubblica era nuovamente divisa: non più come ai tempi del dibattito ideologico fra Jefferson ed Hamilton, sull’opportunità stessa dell’industrializzazione, bensì sui danni fisici o sociali che l’improvvisa crescita dell’industria poneva all’ordine del giorno. Il gigantismo dei complessi


produttivi che impiegavano abitualmente da 2.000 a 10.000 operai, nella siderurgia come nella costruzione meccanica (si parla ormai di works e non più di mill o di factory), lo squallore della città industriale o della sua periferia e, soprattutto, le condizioni di vita malsane, pericolose, inumane, sono denunciate e combattute dalle correnti progressiste e riformatrici, che si appoggiano ad associazioni caritative e religiose, o ancora dalla stampa popolare e da romanzieri quali Sinclair Lewis. Nello stesso tempo, la stampa periodica, tecnica e commerciale, sostiene, al contrario, la nascita di un’estetica dell’industria e di fabbriche moderne. Periodici come “Industrial Management”, “Archi-tectural Record”, “Factory”, “En-gineering Record”, pubblicano lunghi studi, abbondantemente illustrati, sulle nuove fabbriche a un solo piano e sulle nuove localizzazioni suburbane dell’industria. Verso il 1910-1920, si nota che la grande stampa popolare decide metodicamente d’istruire la sua clientela su tutte le caratteristiche della nuova architettura industriale, la quale fa gradualmente cadere in disuso i materiali tradizionali, il gusto per la decorazione delle facciate, la sovrapposizione dei piani, elementi distintivi delle vecchie manifatture. Questo periodo coincide con l’accettazione, nell’immaginario nazionale, dei ponti d’acciaio. Essi sono meraviglie della costruzione, ma anche elementi della nuova estetica industriale. Un esempio per tutti può essere costituito da Brookling Bridge, ma anche i ponti girevoli e i ponti ascensore fanno parte di questo immaginario. La fotografia artistica se ne appropria. L’inserimento dei ponti in una città (Pittsburgh, per esempio) diventa sinonimo della sua potenza industriale e, quindi, della sua prosperità. Indubbiamente lo spirito di questa letteratura giornalistica

escludeva ogni considerazione dei lavoratori: solo l’aspetto fisico delle zone industriali importava, con un’attitudine non lontana da un nuovo romanticismo industriale. La fine della prosperità, nel 1929, doveva rompere, almeno momentaneamente, questo slancio d’entusiasmo. Pur nella speranza di un prossimo ritorno alla prosperità, l’opinione pubblica maturò, negli anni trenta, un odio feroce per il sistema industriale, come ha recentemente mostrato l’esposizione “Artistes engagés des années 30: l’Amerique de la dépression”, organizzata a Parigi, a la SEITA, dal dicembre 1996 al febbraio 1997. Nella seconda metà del XX secolo il patrimonio industriale americano si è trovato minacciato, ma questa volta in modo diretto, da un concorso di circostanze: spostamento dell’industria tessile verso sud – iniziato negli anni venti – con la conseguenza della chiusura definitiva di un buon numero di industrie della Nuova Inghilterra; crisi dei vecchi centri urbani con la conseguenza, negli anni sessanta, di ristrutturazioni che hanno implicato soprattutto la penetra-zione di autostrade urbane contemporaneamente allo spostamento di popolazione; forte deindustrializzazione, a partire dagli anni settanta, all’interno della nuova divisione mondiale del lavoro che ha colpito soprattutto i bacini siderurgici e minerari, e, in generale, tutta la costa del nord-est dell’Atlantico. Distruzioni e riabilitazioni La pressione speculativa per il riutilizzo delle aree dismesse non si esercita con la stessa forza in tutte le aree. Laddove manca una domanda da parte delle città o delle nuove industrie o vengono imposte condizioni, talvolta draconiane, da parte di taluni Stati al riutilizzo dei suoli inquinati, numerosi edifici svuotati sono rimasti in piedi senza essere distrutti né riattati. Questa situazione comporta, tuttavia,

altrettanti rischi: la mancanza di manutenzione, l’occupazione selvaggia, il furto di materiali, gli incendi. Cosi, il 23 marzo 1987, gli edifici della Lawrence Manufacturing Corpo-ration, a Lowell, sono crollati; si trattava di una delle principali società fondatrici (1832) e di una bellissima facciata delimitata da due torri che nascondevano una scala di sei piani; gli sprinklers avevano già chiuso per paura del gelo. Già il 28 novembre 1982, a Lynn, nel Massachusetts, un incendiario aveva dato fuoco e distrutto quasi 3 ettari di edifici, di cui parecchi in corso di restauro; Lynn era la capitale storica della produzione industriale di scarpe. Nello stesso Stato, Fall River è riuscita a salvarsi perché la maggior parte delle sue fabbriche sono costruite in granito e non in mattone. Bisogna, però, ricordare che, spesso, in passato, l’incendio è stato doloso. Nel Rhode Island, agli inizi degli anni settanta del secolo scorso, molte fabbriche bruciarono “misteriosamente”, quando i loro proprietari ebbero compreso che le tele grezze per gli schiavi del Sud non avevano più mercato; così le compagnie di assicurazione aiutarono, loro malgrado, a garantire agli imprenditori una decorosa pensione. Quando i centri urbani si sono trovati minacciati da distruzioni massicce, talvolta si sono costituite delle associazioni di cittadini impegnate nel loro salvataggio. È cosi che sono stati salvati Paterson, Lowell e i distretti industriali storici alla fine degli anni settanta. Molto spesso, tali associazioni si mobilitano per un sito o per un singolo monumento: ponti e stazioni ne hanno spesso beneficiato. Tuttavia, la salvaguardia e il riutilizzo di un gran numero di edifici industriali o di servizi pubblici di primo interesse devono passare attraverso l’intervento di gruppi finanziari desiderosi di realizzare delle riconversioni economicamente vantaggiose.

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Progetti riguardanti aree più vaste sono stati condotti a buon fine dalle comunità locali quella di Boston si è associata al National Park Service per riutilizzare i cantieri navali della Navy a Charlestown, quella di Birmingham, nell’Alabama, per proteggere le Sloss Furnaces, quella di Savannah, in Georgia, per salvare le officine ferroviarie della Georgia Railroads. Uno degli aspetti più seducenti della riabilitazione-riutilizzo degli edifici industriali americani risiede senza dubbio nella fertilità immaginativa dei promotori, che non hanno mai difficoltà a trovare soluzioni tecniche e usi inattesi. Paradossalmente sono l’Ovest e il Sud che si sono impegnati per primi in questo genere di riutilizzi. A San Francisco, in California, un’operazione urbanistica aveva iniziato, fin dal 1968, il rimodellamento, un po’ fantasioso della cioccolateria Ghirardelli. Nel 1972 cominciò a San Antonio, nel Texas, la trasformazione della Lone Star Brewery in museo delle belle arti. Più recentemente, il Midwest e l’Est hanno dato prova di virtuosismo: se la rotonda delle locomotive di Baltimora si prestava molto bene ad accogliere il più bel museo della ferrovia americana, chi si sarebbe aspettato di vedere la batteria di 36 silos in calcestruzzo della fabbrica Quaker Oats a Akronn, nell’Ohio, trasformata in hotel Hilton di 200 camere circolari o i fomi di Coplay, in Pennsylvania, in museo del cemento? Una lunga serie di stazioni monumentali sono state oggetto di riuso, sotto forma di centri commerciali, senza interruzione del traffico ferroviario: è il caso della Union Station, a Washington, nel distretto federale di Colombia (DC), a Tacoma, nello Stato di Washington, ad Albany, nello Stato di New York, a Saint Louis, nel Missouri, dove si trova la più grande cristalleria degli Stati Uniti.

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Gli ingegneri e il controllo dello spazio I ponti “Imagine! Imagine a world without bridges!”, esclama Henry Petroski, autore di Great Bridge Builders and the Spanning of America (1995). In effetti, il grande numero dei ponti negli Stati Uniti dimostra il ruolo svolto da questo tipo di architettura nella progressione del popolamento e, più tardi, nella costruzione delle reti stradale e ferroviaria. Come nota Eric DeLony, una popolazione in crescita e in continua mobilita, che si confronta ogni giorno con i problemi dell’attraversamento di centinaia di migliaia di corsi d’acqua, talvolta molto profondi, molto larghi, o in zone paludose, non può non provare un grande affetto per i ponti, agenti anch’essi dell’unificazione e della valorizzazione del paese. Emory Kemp, dal canto suo, insiste sulla vastità dell’impresa che ha fatto ricorso a immense risorse finanziarie e umane. La storia dei ponti americani ha anch’essa legami con la tecnologia europea. Gli Stati Uniti hanno, infatti, avuto i loro ponti in legno e in pietra. Oggi restano ancora numerosi ponti di taglia modesta in granito, ma anche qualche viadotto ferroviario molto alto e molto lungo come quello di Starrucca, in Pennsylvania. Questi viadotti miravano a rendere più rapido l’attraversamento di numerose vallate degli Appalachi. Dei ponti stradali coperti in legno, costruiti fin dal XVIII secolo, non resta niente, mentre rimane ancora qualcosa di quelli costruiti negli anni 1830-1840, come quello di Humpback, in Virginia. Facciamo notare qui che i ponti in legno hanno preceduto i ponti metallici nell’uso del truss, sistema a struttura di sostegno incrociata mirante a rendere più rigide le strutture laterali, pur nel mantenimento di una certa flessibilità. Su questo tema e su quello dell’inquadramento del

truss (ad arco o a trapezio) un gran numero d’ingegneri americani hanno sviluppato una forte immaginazione sperimentale parallelamente a dei calcoli matematici molto formalizzati. I ponti sospesi Storia americana e storia francese s’intrecciano nuovamente nelle origini dei ponti sospesi. Negli Stati Uniti, la necessità di questo tipo di ponte si è rapidamente manifestata per rispondere alla sfida della topografia di questo continente. Il principio della sospensione permetteva di rispondere, a buon mercato, a questo bisogno. Già nel 1849, il ponte di Wheeling sull’Ohio, allo sbocco della famosa National Road che collegava Washington alle grandi pianure dell’interno, superava i 300 m. L’utilizzo di cavi metallici si rivelò di particolare efficacia nella resistenza alla tensione, come le esperienze del francese Marc Seguin avevano dimostrato. Questo tipo di sospensione sarà ormai il solo adottato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, con il conseguente abbandono di un altro tipo di sospensione, fino ad allora preferito durante la prima metà del secolo: la sospensione a catene utilizzata per la prima volta nel 1801 dall’americano Finley. La tecnica della sospensione con cavi si radicherà profondamente nella cultura americana, permettendo di attraversare delle lunghezze sempre più audaci (fino a quasi un miglio) come dimostra, nel 1864, la costruzione del ponte di Verrazzano all’ingresso della Upper Bay di New York. Questo fu il risultato dell’esempio dato dall’ingegnere Charles Ellet, il costruttore del ponte di Wheeling che aveva seguito a Parigi i corsi dell’Ecole des ponts et chaussées, ma più in generale della forte influenza esercitata sugli ingegneri americani dall’insegnamento del genio civile presente nell’accademia militare di West Point. Creata nel 1802 e diretta da Sylvanus Thayer, essa


decise di seguire, nel 1817, il tipo di formazione praticato dall’Ecole Polytechnique. Gli ingegneri militari americani dovevano svolgere, per un buon cinquantennio, un ruolo essenziale nella costruzione di tutte le reti del loro paese: canali, strade, ferrovie. II passaggio ai ponti metallici accompagnò, quindi, l’adozione del ponte sospeso come quella di tutte le altre soluzioni utilizzate anteriormente o parallelamente. Questo passaggio sarebbe stato inconcepibile senza la profonda evoluzione della siderurgia, almeno a partire dalla fine del XVIII secolo; evoluzione che favorì una produzione massiccia di ghisa, di coke, di ferro laminato e forgiato: “materiali miracolosi” abbondanti e a buon mercato. Il primo ponte stradale in metallo è stato costruito nel 1839 a Dunlaps Creek, nella città di Brownsville in Pennsylvania, dal capitano Richard Delafield. Il primo ponte ferroviario tutto in metallo è del 1845 e si trova sulla linea della Pennsylvania Reading; la Baltimore & Ohio doveva generalizzare il suo uso a partire dal 1851 nel superamento degli Appalachi. Nuove esigenze Dal 1840 al 1880 si registra la costruzione di un numero prodigioso di ponti che associavano la ghisa e il ferro lavorato (indispensabile quest’ultimo per la sua elasticità, capace di garantire il sostegno dei carichi), a seconda che le parti dell’opera richiedessero resistenza alla compressione o, piuttosto, alla tensione. Quest’articolazione di un materiale su di un altro, tuttavia, non era sempre realizzata in maniera adeguata perché la ghisa non aveva sempre un’omogeneità soddisfacente e la costruzione dei ponti non era sempre affidata agli ingegneri o era il risultato di calcoli rigorosi. In un buon numero di casi, intervenivano piccole imprese artigianali e familiari che funzionavano sull’esperienza pratica

del carpentiere, del fabbro, del meccanico del millwright (colui che installa i mulini), del costruttore di materiali agricoli, con un miscuglio di tradizioni pragmatiche venute dall’Inghilterra e di regole scientifiche insegnate agli ingegneri propriamente detti. Differenti incidenti spettacolari, le esigenze della rete ferroviaria (locomotive e convogli sempre più pesanti) e l’adozione del procedimento Bessemer, associati all’obsolescenza dei ponti in legno, resero inevitabile, agli inizi degli anni ottanta dell’Ottocento, il trionfo dell’acciaio, materiale senza pari nell’arte dell’edificare i ponti come in quella del costruire palazzi e navi. Tuttavia, la ghisa venne mantenuta per le travi e le colonne. È dello stesso periodo la standardizzazione di caratteristiche tecniche e di pezzi di costruzione, grazie anche alla moltiplicazione delle imprese specializzate nella costruzione dei ponti (190 nel 1900!) fra le quali emersero talune compagnie. Citiamo a titolo di esempio la Phoenix Bridge Works, nei dintorni di Filadelfia, attiva a partire dall’inizio del secolo, quella della dinastia dei Roebling a Trenton (una manifattura di cavi creata nel 1849) o Keystone a Pittsburg. Queste compagnie utilizzavano le competenze degli ingegneri e proponevano su catalogo degli elementi metallici prefabbricati che potevano essere inviati ovunque via ferrovia. Più tardi, invece, si passò al sistema degli ingegneri consulenti che elaboravano soluzioni specifiche in grado di rispondere con precisione alle domande della clientela. Da più di un secolo, i ponti sono rimasti un oggetto di dibattiti appassionanti che fuoriescono dal circolo dei tecnici e degli architetti per raggiungere il grande pubblico e il terreno della politica: dibattiti sugli stili e sui meriti tecnici. Sempre più la storia dei ponti diventa quella dei grandi ingegneri. Il nome di John Buchanan Eads resta associato

al superamento del Mississippi a Saint Louis, nel 1874, grazie a un ponte monumentale a tre arcate di circa 170 m ciascuna. Una collaborazione indispensabile si è stabilita fra ingegneri e acciaieristi come dimostrato da Carnegie e Mellon; il secondo ponte sul Mississippi a Memphis, nel 1892, ha necessitato 3,5 t d’acciaio per ogni metro. Si deve a Theodore Cooper, specialista di ponti ferroviari a cantilever, lo studio delle tavole di carichi per la loro costruzione, tavole tuttora in vigore. Il nome di Gustav Lindenthal resta collegato alla concezione dello Smithfield Street Bridge a Pittsburgh, ponte che egli costruì prima di continuare la sua carriera a New York, dove ebbe come assistente Othmar Am-mann. Si giunge, con quest’ultimo, all’episodio più sbalorditivo dell’ingegneria americana in materia di ponti. Diventato ingegnere capo della Port Authority of New York and New Jersey, egli ha svolto (con l’ingegnere Leon Moisseiff ) un ruolo centrale nel completamento del sistema di ponti newyorkesi inaugurato da Roebling. Egli è l’artefice di George Washington Bridge (1931) e di Verrazzano Bridge. Al di fuori di New York, la fama del Golden Gate Bridge (1937) di San Francisco, opera di Joseph Strauss, ha ingiustamente offuscato quella dell’Ambassador Bridge (1929), il ponte di frontiera fra Stati Uniti (Detroit) e Canada (Windsor), al quale Lindenthal e Moisseiff avevano lavorato. I canali I canali “storici” hanno profondamente influenzato la sensibilità americana attraverso la pittura, la fotografia e la poesia. Essi esercitano oggi una forte attrazione turistica esattamente come i vecchi battelli fluviali. Il forte volume delle vendite di libri illustrati sulla storia dei canali testimonia il persistere di quest’appassionato interesse. La costruzione dei canali ha cono-

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sciuto il suo periodo d’oro, breve ma intenso, nella prima meta del XIX secolo. Queste infrastrutture sono ancora visibili, almeno in talune zone, e ricordano molto da vicino i canali francesi costruiti nel medesimo periodo. I canali hanno senza dubbio introdotto nel paesaggio americano la sua prima grande trasformazione, inaugurando, ancora prima della ferrovia, lo schema spaziale dei metropolitan corridors. Hanno mobilitato, su grande scala, capitali privati e pubblici, una massa di manodopera d’immigrazione e di materiali da costruzione. Prima della ferrovia, hanno aiutano la giovane economia americana a ritagliarsi il suo posto nell’economia mondiale, garantendo dei costi di trasporto ridotti fra le zone dell’interno, quelle della colonizzazione e della produzione, i centri industriali e i porti marittimi. Nella rete, relativamente densa, dei canali del nord-est degli Stati Uniti, si possono distinguere quelli che hanno assicurato il collegamento fra l’Atlantico e il Midwest e quelli che hanno assolto una funzione economica più localizzata. Alla prima categoria appartengono i canale dell’Erié e il Chesapeake and Ohio Canal. Il canale dell’Erié, inaugurato nel 1825, ha fatto della depressione HudsonMohawk la colonna vertebrale della circolazione degli uomini e delle ricchezze nel secondo quarto del XIX secolo, aprendo alla regione dei Grandi Laghi una strada per New York. Lo stesso anno è stato creato il Chesapeake and Ohio Canal con l’obiettivo di collegare Washington o, più esattamente, Georgetown a Pittsburgh, chiamata “la porta dell’Ovest” a causa della sua posizione all’inizio della vallata dell’Ohio. Il canale, però, cominciato nel 1828 e terminato soltanto nel 1850, non andava oltre Cumberland, per un totale di 183 miglia (294,5 km.). Questo episodio si inserisce curiosamente tra la costruzione,

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voluta dal Congresso, della National Road Cumberland-Wheeling, aperta nel 1818, e quella della linea ferroviaria della Baltimore & Ohio che doveva infliggere una battuta d’arresto definitivo al traffico del canale. Alla seconda categoria appartengono i canali della Pennsylvania orientale quali il Lehigh Canal (costruito fin dal 1818) e il Delaware and Hudson Canal (aperto nel 1832). Insieme al Raritan Canal e al Morris Canal, i primi due andavano a cercare la preziosa antracite degli Appalachi, nella Pennsylvania orientale, e le assicuravano uno sbocco diretto verso i centri industriali del New Jersey, di New York, di Filadelfia, facendo dello Stato della Pennsylvania il centro della lavorazione del ferro negli Stati Uniti. In effetti, il Chesapeake and Ohio Canal doveva svolgere essenzialmente il medesimo ruolo per l’istrada-mento del carbone del Maryland verso i porti della Chesapeake. La ferrovia La mostra Immagini del patrimonio industriale degli Stati Uniti non prende volontariamente in considerazione tutto ciò che riguarda il materiale viaggiante, la cui analisi rivelerebbe, indubbiamente, altri caratteri specifici della cultura tecnica americana, adattati all’immensità di un continente, allo sfruttamento e alla commercializzazione delle sue risorse. Il materiale viaggiante è, oggi, l’oggetto di un interesse museologico importante. Almeno tre elementi del patrimonio architettonico ferroviario americano continuano ad attrarre l’attenzione: le stazioni, le officine di manutenzione delle locomotive, i magazzini. Le stazioni degli Stati Uniti hanno assunto, nei primi anni del XX secolo, un carattere monumentale nelle grandi metropoli regionali, carattere evidentemente destinato a rendere onore a un sistema di trasporti grazie al quale lo

spazio nazionale era stato definitivamente unificato e garantita la sua prosperità economica. Ecco perche la demolizione della Pennsylvania Station a Manhattan, dopo solo alcuni decenni dalla sua costruzione, è riuscita a unire e mobilitare l’opinione pubblica sul tema della salvaguardia del patrimonio industriale. Oggi non sarebbe più immaginabile che un tale destino possa pesare su Grand Central, sulla 42esima Strada, e si parla persino di ricostruire la stazione distrutta e rimpiazzata da una sotterranea inadeguata ai bisogni della città. Altrove, a Washington, a Baltimora, a Fila-delfia e a Saint Louis, la riabilitazione ha prevalso, negli ultimi anni, e ha avviato un riutilizzo, almeno parziale, della rete ferroviaria e una modernizzazione del suo sfruttamento. Quest’orientamento non lascia indifferenti al Creusot, dove si fabbricano alcuni elementi dei modemi TGV. Anche laddove stazioni più piccole sono completamente abbandonate o stazioni di dimensioni farao-niche sono ormai sproporzionate al traffico, il riutilizzo si sforza di reintegrarle in un’attività commerciale e la loro silhouette ritrova il suo vero valore simbolico, evo-catore dell’epoca della gloriosa conquista del territorio. La vicinanza delle officine di manutenzione, delle rotonde delle locomotive è certo banale, trattandosi di un patrimonio ferroviario essenzialmente caratterizzato dalla trazione a vapore. La rotonda della Baltimore & Ohio Railroad a Baltimora, edificio poligonale a 22 uscite, è senza dubbio la più bella e storicamente significativa. Più tipicamente americana è la presenza diffusa dei depositi, inseriti nel paesaggio delle grandi pianure dei silos a grani, regolarmente distribuiti lungo la linea della ferrovia transcontinentale. A partire dal 1880, in effetti, la ferrovia ha raddoppiato l’importanza del commercio all’ingrosso e del


deposito: la warehouse, accompagnata sempre dal suo vasto territorio pianeggiante antistante e indissociabile dal binario, diventa il monumento maggiore nelle città situate allo sbocco di grandi regioni agricole, all’incrocio di vie d’acqua o in contatto con il mare. Le città del Midwest posseggono talvolta dei veri warehouses districts, non privi di elementi decorativi, a dispetto dell’austerità delle facciate dalle strette aperture (contro i danni della luce). I porti I magazzini costituiscono per gli europei un’immagine emblematica dello sviluppo del sistema portuale moderno, il cui modello è stato messo a punto in Inghilterra all’inizio del XIX secolo. Gli Stati Uniti, però, non hanno adottato il modello europeo, senza dubbio per una questione di costi, rinunciando alla provata efficacia delle sue tecniche molto elaborate di protezione contro il fuoco (terrore maggiore del negoziante all’ingrosso come dell’industriale tessile). La prima realizzazione di questo tipo era stata quella di Albert Dock a Liverpool (1846), opera dell’architetto Jesse Hartley. Una commissione del Congresso era venuta ad ammirare in situ l’impianto e la suddivisione dei suoi spazi in compartimenti resistenti ai carichi e all’incendio. Questa realizzazione ha trovato eco piuttosto modesto nel più antico dei docks di New York, l’Imperial Warehouse, a Brookling, all’ombra del Washington Bridge, sul bordo dell’East River. Tuttavia, i porti americani hanno imposto la loro supremazia sugli scambi mondiali dei cereali con la costruzione di batterie di silos a grani praticamente senza equivalenti. L’archetipo del Grain Elevator (1843) si deve a un negoziante di Buffalo, Joseph Dart (1799-1879). Quest’innovazione è intervenuta in un momento in cui i docks di Buffalo non riusci-

vano più ad accogliere il flusso di grani in provenienza dall’Ovest. Costruito in legno, questo silos bruciò durante la Civil War, come molti altri, e, forse, per un sabotaggio. Si deve a Dunbar il sistema di scarico conosciuto con il nome di marine leg. II porto del lago Erié divide con Minneapolis, capitale delle farine, il privilegio di possedere i più bei resti di queste macchine della conservazione. A Minneapolis fu costruito, nel 1899, il primo silos in calcestruzzo per conto di un altro commerciante internazionale di grani, Franck Peavey. Questo genere d’architettura illustra tutte le ambiguità che hanno sempre caratterizzato le relazioni fra patrimonio industriale e sfera dell’estetica e delle belle arti. L’adozione dei cilindri in calcestruzzo incollati in maniera ripetitiva, talvolta su centinaia di metri di lunghezza, è, indubbiamente, il risultato puro e semplice di una ricerca tecnica di mezzo secolo sui volumi e i materiali più adatti all’accumulazione e conservazione dei grani. Ebbene, quest’adozione creò l’illusione di nuova architettura che i più grandi architetti del primo quarto del XX secolo hanno accolto come ispiratrice di un ritorno alla purezza delle combinazioni delle forme geometriche.. “Il pronostico non è lo stesso per i silos a grani ‘storici’, in particolare per quelli appartenenti alla categoria degli elevators giganti” si poteva leggere nella lettera d’informazione della Società Americana per l’Archeologia Industriale, alla fine del 1993. Cosi, nel porto di Duluth, all’estremità ovest del lago Superiore, simmetrico nella sua funzione a quello di Buffalo all’estremità est del sistema dei Grandi Laghi, si prevedeva di demolire, nel 1994, il Globe Elevator costruito nel 1887, senza dubbio il più antico della generazione dei silos a involucro estemo in legno; mentre l’attività continuava al Great Northern Elevator, struttura d’acciaio del

1901, opera dell’ingegnere Max Toltz. In effetti, Duluth possiede un enorme stock di silos, ancora più grandi e meno noti di quelli di Buffalo o di Min-neapolis, ma come quelli esposti alla vendita o alla demolizione, al vandalismo o all’incendio. Fra questi merita menzione il primo grande silos a cilindri di cemento armato, costruito dalla Peavey Co nel 1900. I silos di Minneapolis non beneficiano di alcuna protezione, mentre la città possiede un potenziale museo all’aria aperta di questo tipo di edifici... Il numero 3 è stato distrutto, eppure costituiva un esempio straordinario di rivestimento in tegole; datava al 1901-1902.

Il controllo del sottosuolo e dell’energia Le miniere La conferma di destini comuni nel mondo occidentale industrializzato viene anche dall’esame delle storie parallele del bacino di ferro della Lorena e dei giacimenti di rame e di ferro americani. Questi, sfruttati a partire dalla seconda metà del XIX secolo e tra i più ricchi del mondo, sono diventati, dopo appena un secolo, negli anni novanta, oggetto d’inventario archeologico o, almeno, di uno sfruttamento solo di superficie. Houghton, la cui università tecnica ospita ormai la sede della Società Americana di Archeologia Industriale, è al centro del distretto minerario del rame, nella penisola di Keweenah, una sottile lingua di terra che si protrae per 70 miglia tra le acque del lago Superiore, nello Stato del Michigan. Le popolazioni autoctone facevano commercio di rame da 5.000 anni attraverso il continente americano ed è stato per proteggere lo sfruttamento di questo distretto minerario dagli attacchi degli Indiani che fu installata una postazione militare

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a Ft. Wilkins, fin dal 1844. Non lontano, la Quincy Mine è stata sfruttata da taluni avventurieri venuti dall’Est dal 1845 fino alla metà del XX secolo. Chiusa nel 1969, è oggi uno dei maggiori siti del patrimonio industriale. Questi distretti minerari hanno raggiunto i massimi record della produzione fra il 1880 e la prima guerra mondiale. Successivamente, hanno incominciato a patire i costi connessi a uno sfruttamento che scendeva a profondità sempre maggiori. I giacimenti più recenti sono stati messi in produzione a sud di Houghton verso il 1900. L’estrazione ha posto il problema del collegamento fra risorse minerarie all’intemo del continente e centri della trasformazione industriale ancora situati nell’Est, tra la Pennsylvania e il lago Erié. La soluzione fu l’apertura del canale che aggirava le cascate di Sault-Sainte-Marie. Dal 1880 il centro della produzione di rame si spostò a ovest: Butte, nel Montana, diventò la capitale dell’impero industriale della Anaconda Copper Mining Corpo-ration che trasformo la regione nel primo produttore mondiale di rame, zinco e manganese. Sebbene le raffinerie siano state una fonte d’inquinamento insopportabile per la popolazione, l’intera citta è stata dichiarata, nel 1962, National Historic Land-mark. Nel 1929, Samuel Dashiell Hammett, nel suo primo romanzo, Red Harvest, ambientato a Butte, descriveva la località come “a grey and ugly place dirtied up by mining and smelting”. Questa città, proprietà personale del barone Elihu Willson, ha ispirato la pittura cubista e realista di Louis Lozowick, nei quadri del 1926-1927 che la rappresentano. Resta ancora, dell’antica gloria, una delle più alte ciminiere del mondo (585 piedi, ovvero 189,5metri). All’inizio del XX secolo un altro centro di sfruttamento viene aperto a Kennecott, in Alaska.

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Gli edifici della miniera sono tra i più spettacolari e offrono l’immagine di una montagna di casette individuali sovrapposte che celano allo sguardo estemo un sistema tecnico di concentrazione del minerale in continua modemizzazione. Nella seconda metà del XIX secolo, toccò al minerale di ferro il ruolo di ridare alla regione del lago Superiore, in particolare nei dintorni di Duluth, un’importanza economica mondiale grazie alla scoperta, nel 1891, del giacimento del Mesabi Range, addirittura superiore a quello della Marquet-te. Era davvero un giacimento provvidenziale che affiorava alla superficie invece di essere sfruttato sotterraneamente, il che implicava uno scarto nei costi estrattivi di 2 dollari e 95 cents. Servendosi del canale di Sault-Sainte-Marie, il minerale raggiungeva Cleveland, dove veniva istradato sui canali in direzione del bacino siderurgico di Pittsburgh. Nulla di sorprendente, quindi, se è in questa città che è stato pensato e costruito il “hulett one unloader”, un’enorme mandibola capace di prendere 17 t di minerale di ferro alla volta. Numerosi esemplari funzionavano nel bacino minerario della potente compagnia Pennsylvania Railroad. Questi dinosauri, troppo costosi, sono stati abbandonati da Conrail alla fine del 1992; le lake carriers sono oggi self unloading. Fin dal 1893, John Davison Rockefeller, petroliere a Cleve-land, poi creatore della Standard Oil, colse l’interesse di investire in questa montagna di ferro. Egli comprò il giacimento di Mesabi, prima di acconsentire al suo affitto e, successivamente, alla sua vendita pura e semplice ad Andrew Camegie, il grande acciaierista di Pittsburgh che, a sua volta, la rivenderà a John Pierpont Morgan, creatore della United States Steel. Oggi, il Michigan resta produttore del 25% del minerale di

ferro americano, essenzialmente grazie allo sfruttamento dei giacimenti all’aria aperta. Il controllo dell’acqua La fine del XIX secolo ha visto l’inizio di una nuova era nelle tecniche della canalizzazione dell’acqua. Nella metà orientale del continente l’era dell’energia idroelettrica rinnova, per la produzione dell’energia, il modo di sfruttamento delle cascate, in particolare di quelle sugli immissari dei Grandi Laghi, le cascate del Niagara o quelle di Sault-Sainte-Marie. Su quest’ultimo sito rimane la bella facciata, lunga un quarto di miglio, di una centrale che doveva essere, secondo i progetti primitivi, il centro di una nuova città industriale alla maniera di Lowell. Essa, tuttavia, non vide mai la luce: la localizzazione della fonte di energia scoraggiava l’installazione delle imprese. A ovest del limite di aridità del 98o meridiano (che taglia nel bel mezzo gli Stati del Kansas e del Nebraska), la piovosità media annua decresce vertiginosamente; la maggior parte delle precipitazioni in provenienza dal Pacifico sono intercettate dalle catene della Sierra Nevada e delle Cascate. L’acqua, quindi, èqui un elemento che bisognava conservare e ridi-stribuire al fine di facilitare il compimento del popolamento dell’Ovest. Questa necessità ha favorito lo sviluppo di una particolare tecnologia per la costruzione delle dighe. Esse dovevano essere molto alte in ragione della forte profondità delle valli, di una resistenza eccezionale per contenere enormi masse d’acqua (quelle delle nevi invernali di altitudine, raccolte in dighe di grandissima capacità). Come più tardi, al momento della famosa iniziativa roosveltiana della Tennessee Valley Authority, queste dighe hanno costituito l’oggetto, nei primi anni del XX secolo, di programmi federali. Il primo grande progetto è quello del Roosevelt Dam (Arizona,


1903), seguito da altri due nel Wyoming, nel 1906. Negli anni 1925-1930, saranno costruite tredici dighe tra cui il mammouth di dimensioni senza precedenti: il Bouder Dam (ribattezzato più tardi Hoover Dam) sul Colorado, nel Nevada, destinato all’idroelettricità e all’irrigazione. Allo studio fin dal 1920, la sua costruzione venne stata autorizzata dal Congresso nel 1928. Esso raggiunge un’altezza di 727 piedi (235,5 m.) e costituisce una delle più grandi opere d’ingegneria civile mai realizzata negli Stati Uniti.

Architettura e controllo dei materiali Breve genealogia delle fabbriche tradizionali Nella Nuova Inghilterra, come in Inghilterra o in Francia, tutto cominciò, per l’architettura dell’industria, con le filature meccaniche di cotone o di lana. I primi esempi sono costituiti da palazzine piuttosto modeste, di forma stretta e allungata (bisognava, infatti, assicurare ai telai luce da ambo i lati) molto vicine a dei granai o a dei mulini e con non più di tre piani. Slater Mill, la culla della nuova industria americana, misura 43 per 29 piedi (13 per 10 metri circa). Le sue dimensioni sono nettamente superiori rispetto a quelle di Lowell, dove non si trova più, oggi, neppure un solo edificio originario, a causa delle successive ricostruzioni. I materiali utilizzati erano, allora, essenzialmente il legno e la pietra, in attesa dell’utilizzazione del metallo sotto forma di pilastri in file parallele per sostenere i soffitti carichi di telai e di operai, e capaci di sopportare le temibili vibrazioni. Quest’architettura delle prime manifatture tessili ha esercitato un’influenza assolutamente predominante su tutta l’architettura industriale del XIX secolo: di fatto, le sue forme di base, molto semplici, erano adat-

tabili a tutti i tipi di produzione industriale. Più ancora dei carichi da sostenere, l’ossessione degli imprenditori, dei costruttori e, soprattutto, delle compagnie d’assicurazione era il rischio d’incendio. Le materie prime contengono sostanze oleose, le macchine si surriscaldano e, anche se i pericoli non sono tali quali quelli all’ordine del giorno nelle industrie di farine (con l’esplosione del miscuglio di aria e di polvere di farina), ci si preoccupa molto presto di sperimentare metodi che permettano, se non di eliminare i rischi, almeno di limitare i danni, rallentando la progressione delle fiamme. Fin dal 1827, la Manufacturers’ Mutual Fire Insurance Company, fondata dall’industriale del cotone del Rhode Island, Zachariah Allen, preconizza la costruzione di muri in mattone sotto forma di pilastri, separati da ampie aperture. Essa invita a raddoppiare il numero delle travi affinché questo sovrannu-mero le faccia carbonizzare, ma non infiammarsi; a prevedere dei pavimenti di almeno 3 pollici di spessore (66,2 mm) posati su una malta di cemento, poiché questi spessi pavimenti impedivano all’olio delle macchine come all’acqua dei pompieri di passare da un piano all’altro; a sistemare delle colonne di sostegno rotonde di 9 pollici di diametro (228,6 mm) al piano terra, di preferenza in pino o quercia molto secca. Tutti questi accorgimenti venivano dalle fabbriche di Manchester ed erano stati descritti nel 1826 nel-l’“American Mechanics Magazine”. Si rimproverava ai pilastri di ghisa (materiale spesso utilizzato come il legno) di spezzarsi sotto l’effetto dell’acqua fredda utilizzata dai pompieri o di deformarsi al calore e, quindi, di piegarsi. Nonostante questo, negli anni 18601880, la ghisa doveva incontrare una grande fortuna in tutte le maggiori città industriali per la costruzione in serie d’immobili

per laboratori e magazzini, sotto la forma di elementi prefabbricati per le facciate. Il quartiere di New York conosciuto con il nome di Soho (South of Houston Street) a Manhattan e stato classificato historic district nel 1873, Questa moda delle facciate a buon mercato e veloci da montare doveva, però, sparire ben presto con lo sviluppo della costruzione in struttura metallica. Le medesime preoccupazioni si ritrovano in un manuale di architettura del 1885, a dispetto dell’invenzione, nel 1879, dell’automatic sprinkler. In effetti, al di là del 1880, la nozione di slow burning construction conserva tutta la sua importanza negli edifici industriali di dimensioni ormai gigantesche. Le compagnie di assicurazione assumono degli ingegneri con il compito preciso di definire un tipo di costruzione che permetta di controllare e, addirittura, di spegnere gli incendi. Esse accordano riduzioni di quote agli industriali che seguono le loro raccomandazioni. È un’occasione per rimpiazzare l’architetto con l’ingegnere. Si sopprime ogni ornamento che possa costituire un rischio inutile; si limita al massimo l’uso della pittura e dei rivestimenti murali, come pure la presenza di chiusure inteme che possano bloccare il flusso d’acqua. Si rinuncia ai granai (dove il fuoco è più difficile da domare) a vantaggio dei tetti piatti. Si sopprime la scala centrale, si allargano al massimo le finestre: è l’inizio delle daylight factories. Bisogna dire che all’epoca si viveva sotto lo choc dei giganteschi incendi che avevano distrutto Boston nel 1872 e, soprattutto, Chicago, nel 1871. Non è un caso che quest’ultima sia stata, tra il 1870 e il 1910, la culla di un’architettura di depositi di un’eccezionale qualità. Inoltre, si raccomanda la riduzione numerica dei piani a favore di fabbriche su un solo livello, le quali, richiedendo molto spazio,

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favoriscono, agli inizi del XX secolo, lo spostamento delle fabbriche verso le periferie urbane. II grande ingegnere bostoniano, Charles T. Main, fa l’elogio di queste nuove fabbriche dove il problema delle vibrazioni è quasi scomparso. Per le fabbriche che mantengono la struttura a più piani, i muri cedono il passo a scheletri in cemento armato (procedimento sperimentato negli anni intorno al 1880 da Ernest Ransom) o in acciaio, benché quest’ultimo sia più costoso e sospetto di non reggere alle alte temperature. Tali strutture, dal montaggio relativamente economico, resistono perfettamente ai carichi. Si coglie, in quest’evoluzione, la transizione che condurrà all’architettura (o all’ingegneria?) di Albert Kahn. Gli anni 1900-1920 hanno assistito al proliferare di migliaia di fabbriche del medesimo tipo, ma di qualità. Così, nel patrimonio industriale degli Stati Uniti, si ritrova la forma europea delle grandi halles di mattone a larghe aperture in pieno centro, capaci di accogliere per lungo tempo le attività siderurgica e metallurgica. L’arsenale di Watervliet offre superbi esempi, a una data tardiva, come pure l’officina dei cannoni destinata alle fortificazioni costiere, edificata a partire dal 1899, modello di uno spazio di lavoro adattato alla circolazione di grossi pezzi lavorati e alla penetrazione della luce. Architettura di uffici, stazioni e altri edifici pubblici L’architettura delle fabbriche ha esercitato una forte influenza su quella di altri edifici dei settori dell’architettura civile, a dimostrazione dell’efficacia delle soluzioni di cui era portatrice e del suo significato come espressione di una cultura della modernità, di una nuova estetica. L’architettura degli uffici e delle stazioni all’inizio del XX secolo, esprime, inoltre, il trionfalismo

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dei grandi capitani d’industria e una coscienza collettiva della potenza economica acquisita dall’Unione. In questo senso il miglior esempio è senza dubbio rappresentato da Detroit, dove, negli anni venti, i grandi industriali dell’automobile hanno tentato di costruire intorno alla loro attività un nuovo centro urbano distinto dal centro storico situato sul fiume e oggi sede del Renaissance Center. Albert Kahn fu incaricato dell’impresa grandiosa, anche se mai ultimata. Egli scelse due stili differenti, in un eclettismo lontano dal funzionalismo assoluto delle sue fabbriche per costruire, tra l’altro, la stazione di Detroit (che accoglieva, all’epoca, un flusso di immigrati di colore venuti dal Sud), il GMC Building (Genera Motors nasceva dalla fusione di Buick, Cadillac, Olds e Chevrolet) e il Fisher Building (richiesto da un carrozziere costruttore di aerei arricchitosi durante la prima guerra mondiale). Nelle vicinanze, una biblioteca e un museo di belle arti. Edsel Ford decise di far decorare quest’ultimo con il gigantesco affresco di Diego Rivera che può essere considerato, oggi, come un’altra forma di monumento alla gloria del genio industriale e, senza alcun paradosso, degli operai stessi. Acciaio, vetro e calcestruzzo Questi tre termini potrebbero riassumere perfettamente le idee e i progetti di Albet Kahn in materia di fabbriche. I muri conservano il mattone solo su 4 metri di altezza; al di sopra adottano una struttura di acciaio e di vetro. I tetti abbandonano definitivamente la forma a shed per agevolare la flessibilità delle catene di montaggio. Alber Kahn utilizza i vetri su tutta la lunghezza, inclinati secondo pendenze variabili: di qui le forme insolite e le sorprendenti angolature dei tetti. La combinazione tetti-muri offre una straordinaria luminosità e un’impressione di trasparen-

za, la cui bellezza colpisce gli architetti del Bauhaus come Le Corbusier, già cantore dei silos cilindrici in calcestruzzo. Questo comportamento marca una rottura fra ingegneri e industriali da un lato, e architetti dall’altro. Si noti che le riviste di architettura americane non pubblicarono mai le immagini delle fabbriche di Albert Kahn.

Lo sguardo di quattro artisti Joseph E.B. Elliott Si tratta di uno dei fotografi contemporanei che esplorano le possibilita estetiche del paesaggio industriale e il cui punto di vista è quello dell’artista prima ancora che quello dell’archeologo. Ha fatto i suoi studi all’Università del Minnesota, poi a Brooklyn. Fin da piccolo è appassionato di ferrovie. Dopo una mostra ad Allentown nel 1986 intitolata “Men - Altered Landscapes. Three Photographic Perspectives”, si impegna per una società storica di Easton, in Pennsylvania, in un gigantesco inventario fotografico del sito industriale di Bethlehem, pur continuando il suo mestiere di professore a Mulhlenberg College ad Allentown, città vicina. Le sue fotografie attirano l’attenzione sulla bellezza innata, spesso sconosciuta, di molti paesaggi industriali. Joseph Elliott lavora solo in bianco e nero, di preferenza di notte, come un vero detective ispirato. Jet Lowe Jet Lowe è originario dello Stato della Georgia. È un fotografo di terreno, lavora sul grande formato e produce immagini di una qualità documentaria impeccabile e di un altissimo valore artistico. È, infatti, un esteta capace di interessarsi agli aspetti tecnici dei soggetti che fotografa. È anche un grande sportivo, e questo gli permette di offrici immagini che nessun’altro osereb-


be prendere a causa della pericolosità o della difficoltà della posa. Specialista del triatlon; ha scalato impalcature di più di cento metri di altezza per andare a guardare la Statua della Libertà dritto negli occhi ed è salito sui cavi del Brooklin Bridge a New Yorrk e dell’Oakland Bay Bridge in California per studiare la cima delle torri di questi prestigiosi ponti sospesi con uno zainetto contenente la sua macchina fotografica che pesa 40 libbre, ovvero 20 chilogrammi. Sulla torre di Brooklin ha rischiato di cadere nel vuoto e su quella dell’Oakland Bay Bridge il suo zaino è rimasto impigliato quando ha deciso di passare da un cavo a un altro per assicurarsi una posizione più stabile. Jet Lowe sa fare anche altri miracoli: ad esempio, fotografare la stazione di Austerlitz a Parigi, a mezzogiorno, senza neppure un solo viaggiatore sui binari... La varietà dei soggetti abbordati nel corso delle sue innumerevoli campagne al servizio di HAER è ricordata in una pubblicazione molto lussuosa del 1986, The Industrial Eye, integralmente dedicata a una selezione dei suoi clichés.

Sandy Noyes Nato nel 1941 a New York, Bachelor of Arts alla Yale University nel 1963, fotografo free lance dal 1970, Sandy Noyes si specializza nella fotografia di grande formato nel 1973. La sua opera è esposta nelle collezioni del Metropolitan Museum of Arts di New York e dell’Amon Carter Museum a Forth Worth nel Texas, ma anche nei musei di arte e di fotografia di Rochester, Andover, Albany, Atlanta, alla Biblioteca Nazionale di Parigi e nelle collezioni d’impresa quali AT &T, Chase, Manhattan Bank, Dodge Foundation. Ha partecipato a 32 mostre collettive (di cui 5 hanno prodotto un catalogo) e a 7 esposizioni individuali. Dal 1984, Sandy Noyes fotografa paesaggi industriali: dal 1984 al 1989 ha condotto una campagna fotografica sul tema delle cave di ardesia negli Stati di New York e del Vermont, utilizzando una macchina fotografica del formato 8 per 10 inches (altri clichés sono stati realizzati successivamente in 4 per 5). Egli si interessa anche alle miniere di rame e d’oro dello Utah, alle rovine degli

zuccherifici delle Isole Vergini e, più recentemente, ai vecchi stabilimenti siderurgici di Duquesne, a Pittsburgh, in Pennsylvania e di Richmond, nel Massachusetts. Sandy Noyes e membro della SIA, fin dal 1992, nelle sezioni di New York e della Nuova Inghilterra ed ha una piccola impresa di fotografia a Chatham, nello Stato di New York, specializzata nei documenti della storia delle tecniche. Gerald Weinstein Gerald Weinstein studia e fotografa da circa vent’anni le testimonianze della storia dell’industria e della tecnologia. Ha incominciato nel 1980 con un programma di documentazione fotografica sulle vecchie stazioni elettriche della metropoli di New York prima di ottenere numerosi contratti da HABS, HAER e il National Register. Fra i siti studiati: ponti, stazioni terminali di linee transatlantiche, prigioni, centrali termiche, elettriche e idroelettriche, installazioni di depurazione e di trattamento delle acque, lamina-toi, fari, imbarcazioni abbandonate.

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L’Ecomusée de la Communauté Urbaine Le Creusot-Montceau les Mines Fin dalla sua creazione nel 1972, l’Ecomusée ha posto fra le sue priorità la conoscenza e la conservazione delle testimonianze della storia industriale sul territorio della Communauté Urbaine Le Creusot-Montceau les Mines. Una ricerca di cinque anni, iniziata nel momento in cui si distruggevano le Halles de Baltard, è stata una delle prime a prendere in considerazione un nuovo patrimonio, quello rimasto dopo due secoli di industrializzazione. Sono seguite azioni di valorizzazione, di salvaguardia e di raccolta documentaria, di sensibilizzazione del pubblico e degli attori locali in occasione di incontri, dibattiti, circolazione, sui luoghi del lavoro, di mostre itineranti. Un inizio del riconoscimento di valore dell’architettura dell’industria si è manifestato in occasione del convegno “Patrimonio industriale e società contemporanea”, organizzato al Creusot nel settembre1976, con il sostegno di ICOM e con la successiva adozione di misure di protezione. Sono stati così ascritti all’Inventario Supplementare dei Monumenti Storici due officine, una città operaia, una scuoIa del XIX secolo. Oggi, l’Ecomusée ha intrapreso, con il sostegno della Direzione

RegionaIe degli Affari Culturali di Borgogna e della Comunità Urbana Le Creusot-Montceau les Mines una attualizzazione e pubblicazione di questo inventario. Dei progetti di sviluppo museografico di taluni siti industriali abbandonati sono in corso di realizzazione. È il caso di Ciry Le Noble dove la reabilitazione, all’interno di un cantiere di fomazione e di reinserzione di una vecchia industria della ceramica, integra la valorizzazione del patrimonio industriale con le attuali preoccupazioni sociali. Per lungo tempo l’Ecomusée si e esclusivamente rivolto al suo territorio di riferimento; oggi considera indispensabile non chiudersi in una politica solo locale. Al contrario, vuole favorire gli sguardi incrociati sul patrimonio industriale di differenti paesi europei, e anche del continente americano. La ricerca delle singolarità come delle similitudini o l’analisi della diversità delle pratiche attuali nei confronti di questo patrimonio arricchiscono tutti e permettono di comprendere meglio, far comprendere e preservare. La costituzione o la partecipazione a reti museali concerne questo tipo di patrimonio, l’organizzazione di incontri, la realizzazione di mostre permanenti esprimono un nuovo orientamento dell’Eco-musée. Questa mostra s’inscrive appieno in questa evoluzione.

Finito di stampare nell’ottobre 1998 dalla Umbriagraf (Terni) per conto di Giada- Icsim - “La revue”

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