Valutazione 1998 a cura di claudio bezzi giada narni 1998

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Valutazione 1998 a cura di CLAUDIO BEZZI


Editing e redazione di GIANNI BOVINI

Progetto grafico e impaginazione di VITO SIMONE FORESI

La copertina è una rielaborazione di Vito Simone Foresi da un’idea di Paolo Tramontana.

GIADA di Gianni Bovini sede: via Flaminia Ternana, 279 - 05035 Narni (TR) ufficio: via del Giaggiolo, 31 - 06131 Perugia Tel. 0336 / 924198 Fax 075 / 5280148

© GIADA 1998 Tutti i diritti riservati ISBN 88-87288-00-3


Presentazione

I

l 1996 deve essere stato un anno particolarmente buono per la valutazione in Italia: nel febbraiomarzo di quell’anno si realizzarono, in Umbria, alcuni seminari su questo tema; diversi fra promotori e partecipanti presentarono in quell’occasione il primo numero della “Rassegna Italiana di Valutazione” (RIV), e assieme anche la loro volontà di costituire quell’ ASSOCIAZIONE ITALIANA DI VALUTAZIONE alla quale si lavorò, come Gruppo di Iniziativa, tutto l’anno, e che vide la luce al congresso costitutivo del 26 e 27 febbraio 1997. La RIV nacque come tentativo temerario di rivista scientifica estremamente specialistica, con l’ambizione di sfruttare le possibilità ipertestuali e multimediali dell’informatica. La prima RIV fu pensata su floppy disk, perché fra la fine del 1995 (quando si elaborò il progetto) e l’inizio del 1996 (quando lo si varò), Internet era veramente scarsamente diffusa in Italia, ma i problemi gestionali e organizzativi, nonché i limiti del supporto fisico, legati ai dischetti, ci indussero a metà anno a pensare il trasferimento della rivista nel Web (trasferimento facile e poco traumatico, data la sostanziale similitudine della gestione ipertestuale). La saggistica nella Rete. Non una no-

vità, anche se la RIV è tuttora l’unica rivista di valutazione ipertestuale al mondo, e comunque l’unica scientifica in Italia. Una scelta che voleva favorire lo scambio e l’apertura (nella Rete è facile incontrarsi, prendere messaggi, lasciarne), la velocità informativa, l’uso di linguaggi diversi, primo fra tutti l’ipertestualità che è un linguaggio specifico, un modo di organizzare il pensiero. Come tutti i tentativi nuovi anche il nostro non è riuscito completamente: la multimedialità nei fatti non si è realizzata, lo sviluppo della Rete in Italia non ha raggiunto neppure lontanamente lo standard di altri paesi, e questa scrittura “virtuale” accontenta poco gli apparati istituzionali legati alla forma, all’oggetto, al libro (più comodamente presentabile a un concorso, piuttosto che segnalare che si è pubblicato su www.valutazione.it). E allora eccola la carta. Dopo due anni di “resistenza” sulla Rete consegniamo alle biblioteche e agli internettofobi un’ampia sintesi dell’annata 1996. Se sarà accolta con benevolenza, contribuendo ad avvicinare altri lettori alle pagine virtuali della nostra rivista su Internet, questo prodotto potrà essere riproposto negli anni, riproducendo in volume i contributi più significativi, cercando di riportare anche

diO CLAUDIO BEZZI e GIANNI BOVINI

Costituita nel 1997, dopo il Congresso costitutivo di Roma, presso il CNR, il 26 e 27 febbraio 1997. Ha tenuto il suo primo Congresso a Venezia (Ca’ Tron) il 6 e 7 febbraio 1998. Ha una pagina in Internet: www.valutazione.it/associazione.


sulla carta la tecnica degli ipertesti resa con l’evidenziazione di parole “sensibili” che richiamano testi di approfondimento racchiusi in box. I criteri di selezione sono stati abbastanza semplici: abbiamo escluso alcuni articoli e saggi troppo legati ad avvenimenti contingenti, ormai superati, o su argomenti certamente interessanti ma già ampiamente presenti in una selezione che voleva essere il più possibile ridotta. Abbia-

Dal 1997 riuniti in un’unica “redazione telematica”; ne fanno parte: Leonardo Altieri (Università di Bologna) Giovanni Barro (Regione dell’Umbria) Fulvio Beato (Università di Roma) Giovanni Bertin (Emme & Erre, Padova) Anna Maria Boileau (ISIG, Gorizia) Aviana Bulgarelli (ISFOL, Roma) Salvatore Cacciola (Osservatorio Mediterraneo, Catania) Manuela Crescini (Resco, Ancona) Carlo Del Monte (Università di Perugia) Bruno Dente (IRS, Milano - IUAV, Venezia Piera Magnatti (NOMISMA, Bologna)

mo anche escluso le recensioni e il Glossario, quella sorta di “dizionario” ipertestuale dei termini e dei concetti più interessanti via via proposti negli articoli dai nostri autori, ampliato numero dopo numero. Il nostro ringraziamento va comunque a tutti i collaboratori, REDATTORI E MEMBRI DEL COMITATO SCIENTIFICO , agli autori, agli amici che ci hanno sostenuto.

Alberto Marradi (Università di Firenze) Mauro Palumbo (Università di Genova) Giuseppe Pennisi (Ministero del Lavoro - Scuola Superiore di Amministrazione Pubblica) Tullio Romita (Laboratorio Cati Università della Calabria) Marta Scettri (IRRES, Perugia) Alberto Silvani (ISDRS-CNR, Roma) Nicoletta Stame (Università di Bari) Mara Tognetti (Fondazione Cecchini Pace, Milano) Claudio Bezzi (IRRES, Perugia) è il coordinatore redazionale.


Indice Qualità versus Equità? La valutazione in sanità dopo il DL 502/92 Leonardo Altieri

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La valut-azione come strategia di gestione dei servizi sociali e sanitari Giovanni Bertin

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I focus group. Storia, applicabilità, tecnica Livia Bovina

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La qualità nei servizi territoriali alla persona Daniela Cecchetti

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Sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche Domenico Lipari

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Per il rigore terminologico nel linguaggio scientifico e professionale Alberto Marradi - Intervista di Claudio Bezzi

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La valutazione: teoria ed esperienze Mauro Palumbo - Michela Vecchia La valutazione del rendimento delle politiche sociali Giuseppe Pennisi

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Strategie di programmazione: le attuali tendenze Remo Siza

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Note sui progetti-pilota e la valutazione Nicoletta Stame La tecnica Delphi. Applicazione alle politiche sociali Erio Ziglio

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Valutazione 1998

La

Leonardo Altieri / Qualità versus equità. La valutazione in sanità dopo il DL 502/92

va lu ta z i o n e d e l l a q ua l i tà s i c o n f r o n ta t i p i c a m e n t e c o n u n p r o b l e m a :

i l p u n to d i v i s ta d e g l i u t e n t i , e q u i n d i l ’ e q u i tà .

Una

q u e s t i o n e c h e r i co r r e

s p e c i a l m e n t e q ua n d o s i p r e n d o n o i n co n s i d e r a z i o n e i s e r v i z i s o c i o - s a n i ta r i .

Qualità versus equità. La valutazione in sanità dopo il DL

1. Una qualità, due qualità? Una complessa questione di qualità!

A

nche nel sistema sanitario oggi agisce una pluralità di attori, istituzionali e non. Da tempo la relazione di cura non si fonda più essenzialmente su un rapporto duale fra operatore sanitario e paziente, dove la qualità era fondamentalmente affidata alla competenza e all’esperienza individuale dell’operatore e la valutazione della qualità alla sua singola capacità di intuizione e di giudizio. Vi è dunque una crescente complessità di interazioni fra gli attori. Ciò implica anche pluralità e complessità di interessi in gioco e di valori di riferimento. Ne consegue che sempre più complesso è anche giudicare che cosa sia un “servizio o una prestazione di qualità”. Quale sarà il soggetto investito del compito di giudicare della qualità? Il singolo operatore? Il singolo paziente? Una determinata categoria di operatori?

Tutti gli operatori? I responsabili tecnico-amministrativi del servizio? I responsabili politici? Esperti esterni? Associazioni di utenti? Le comunità locali? L ’opinione pubblica? Il mercato tramite il comportamento dei suoi attori? E, di conseguenza, esiste una sola qualità (tesi astrattamente inop-pugnabile)? Oppure esistono almeno due qualità, due punti di vista sulla qualità, quello del servizio e quello dell’utente (tesi che si legittima sui testi dell’art. 19 e dell’art. 14 del DL 502/92 )? E con quali parametri giudicheranno della qualità tutti costoro? Se, come riteniamo, valutare la qualità di un servizio significa, metodologicamente, compiere una duplice operazione e cioè indagare con metodo scientifico ed esprimere un giudizio tramite determinati parametri sui risultati raggiunti dall’indagine (per una definizione più articolata vedi oltre), viene confermata l’impostazione dei teorici della “quarta generazione della

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di LEONARDO ALTIERI

Il DL 30 dicembre 1992, n. 502 “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”, modificato con il DL 7 dicembre 1993, n. 517, contiene, per chi si occupa di valutazione della qualità, due importanti e innovativi articoli: il 10 sul “Controllo di qualità” e il 14 sui “Diritti dei cittadini”.


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Per efficacia di un intervento si intende “una misura del risultato tecnico in termini medici, psicologici o sociali”; “l’efficienza è un concetto economico che fa riferimento ai costi dell’intervento in relazione all’efficacia” (Holland, 1985, p. 35).

Per P.H. Glasser “la valutazione di un programma consiste nella determinazione dei risultati ottenuti con lo svolgimento di una certa attività ordinata al raggiungimento di un particolare obbiettivo. Nella defini-zione sono impliciti i quattro aspetti cardine della ricerca scientifica: il processo seguito quando si parla di ‘determinazione’, i criteri adottati per poter riconoscere i risultati, lo stimolo previsto quando ci si riferisce all’attività da svolgere, i valori implicati

segue

valutazione” (Guba Lincoln, 1989). Valutare la qualità non può essere concepito come qualcosa di statico o di astratto. La valutazione reale è un processo, in cui convergono molteplici attori, con molteplici punti di vista. L ’obbiettivo è, certo, mettere in comunicazione e quindi far convergere i diversi punti di vista. Ma i punti di partenza del processo restano vari e probabilmente differenziati. In questo senso l’articolato del DL 502/92 propone da una parte il controllo di qualità dal lato del servizio e dall’altra i diritti degli utenti (Ardigò, 1994). Valutare, in un contesto di crescente complessità, significa infatti non solo essere dei tecnici, dei misuratori, ma soprattutto essere dei mediatori, non nel senso semplicistico di esperti della ricerca del compromesso, ma nel senso di essere capaci, prima, di identificare i molteplici soggetti che interagiscono, i rispettivi interessi e valori, per riuscire, poi, a mettere in comunicazione i diversi punti di vista. È di fondamentale importanza partire da una chiara definizione di valutazione fondata sulle vecchie, ma utili categorie di efficacia ed efficienza , per esempio nella versione di Holland (1985). Molti autori (per tutti Glasser, 1972) insistono sulla valutazione come procedura scientifica . Per quanto attiene in specifico la valutazione della qualità, Donabedian (1990), uno degli esperti più noti in Italia, ritiene che essa debba

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riguardare innanzitutto due aspetti distinti: la gestione tecnica delle procedure da una parte e i rapporti interpersonali dall’altra. Detta in altre parole, si tratterebbe della distinzione fra care (assistenza) e cure (cura). Oppure fra la “tecnica dell’assistenza” e l’“arte dell’assistenza” (Donabedian, 1990, pp. 20-21). L ’approccio di Donabedian non è che uno degli approcci al tema della qualità, ma ha avuto un’importante influenza in alcuni settori di professionisti e amministratori dei servizi sanitari italiani. Esso si diversifica da quello abitualmente definito della qualità totale. Quest’ultimo, fondandosi anche sulla concezione dell’utente come cliente, fornisce dal punto di vista pratico utili indicazioni di procedura su come mettere al centro il cliente. Ma rischia anche di essere riduttivo, attribuendo questo status al paziente e non quello ben più ampio di cittadino e attore sociale intenzionale (Mazza, 1995). Rappresenta un passo in avanti in quanto l’utente, trasformato in cliente, è riconosciuto soggetto di diritti e di scelte, ma è riduttivo anche perché nella nozione di cliente non c’è un’accezione universalistica: non tutti sono clienti, cioè soggetti in grado di stare sul mercato; chi offre servizi a clienti, può scegliersi i suoi clienti. Equità vuole che in sanità occorra avere una concezione di tipo universa-listico dell’utente. 2. Qualità versus equità? Un primo ordine di problemi che


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si apre di fronte a chi si occupa di qualità nei servizi socio-sanitari consiste nello stabilire a quale livello ci si debba muovere. Non è messo in discussione da alcuno che nel valutare la qualità ci si debba muovere a livello micro, cioè di monitoraggio delle performance, all’interno delle condizioni strutturali date. A questo livello due sarebbero i momenti fondamentali: 1) l’autovalutazione fra pari (peer review), con le grandi potenzialità di tale approccio (confermate dalle esperienze più avanzate, per esempio in Canada) e anche i rischi di autoreferenzialità (gli altri attori relegati al ruolo di “rumori d’ambiente”); 2) la rilevazione della soddisfazione dei pazienti (customer satisfaction), tramite appositi sondaggi, sempre più diffusi, ma spesso superficiali, affrettati, insoddisfacenti. Già inizia a sorgere qualche dubbio sul fatto che la valutazione di qualità debba imbarcarsi anche nel livello macro, cioè se debba occuparsi del system design, di quell’insieme costituito da strutture, legislazione, risorse complessive, sistema di formazione, ecc. Non occuparsi di questo livello equivarrebbe ad accettare le condizioni date come immodifi-cabili, o modificabili solo per iniziativa di altri attori, diversi da quelli che valutano o promuovono la valutazione della qualità. C’è poi un terzo livello, di cui scarsamente ci si occupa, quello del rapporto fra grandi opzioni, scelte

di valore e system design. Tale livello, che dovrebbe stabilire la coerenza fra assunti di tipo etico-politico e scelte relative al system design, viene di fatto delegato ai policy maker, come fosse scontato che essi siano gli unici abilitati a occuparsene. Eppure vi è stato un momento, nella storia degli studi valutativi, in cui tale livello era considerato imprescindibile. In particolare quando al centro dell’attenzione vi era, piuttosto che la categoria della qualità, la categoria dell’efficacia, intesa come capacità di un’azione sociale di raggiungere gli obbiettivi per cui è stata messa in atto. Suchman (1967) per esempio, considerando da intrecciare strettamente programmazione e valutazione, ritiene che la prima fase da cui si deve partire in un processo di programmazione razionale sia appunto quella dell’esplicitazione e della chiarificazione delle scelte di valore a cui l’azione si ispira. La seconda fase, quella della determinazione degli obbiettivi, andrà quindi valutata innanzitutto in termini di rapporto di coerenza con la precedente. Seguiranno poi le fasi della progettazione, dell’implementazione, dell’identificazione e valutazione dei risultati (Altieri, 1987). E la valutazione di efficacia, in tale imposta-zione, confronterà sì i risultati con gli obbiettivi, ma, in caso di risultati non previsti, per giudicarne la positività o meno, li rapporterà alle scelte di valore iniziali, alle grandi opzioni di partenza. L ’insistenza sulla categoria di qualità, talvolta a discapito di quella di

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quando si indica l’obiettivo” (Glasser 1972, p. 11). Glasser pone l’accento sul fatto che la valutazione necessita di un metodo scientifico, per cui “determinazione” significa costruzione di una procedura rigorosa finalizzata all’individuazione degli effetti di programmi sociali e quindi all’espressione di un giudizio su di essi; sottolinea che l’attenzione del procedimento valu-tativo è innanzi-tutto sui risultati; ma, poiché sarebbe ridut-tiva una focaliz-zazione solo sui risultati, successivamente precisa che “la valutazione di un programma sociale consiste nella sistematica accumulazione di fatti allo scopo di fornire informazioni su come vengono rispettati i requisiti del programma e in che misura siano raggiunti i suoi obbiettivi in relazione agli sforzi, all’efficacia e all’efficienza del programma stesso” (Glasser 1972, p.12).


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Società Italiana di Verifica e Re v i s i o n e della Qualità dell’assistenza e delle prestazioni sanitarie (versione italiana della Quality Assu-rance). Il dibattito sui livelli della valutazione, e soprattutto se essa debba investire il system design, è presente per esempio all’interno della Società Italiana di VRQ (del cui Direttivo re-gionale dell’Emilia-Ro magna lo scrivente fa parte).

efficacia, può portare a una sottovalutazione di questo terzo livello. Non è compito comunque di una società scientifica, come per esempio quella di VRQ , muoversi su questo che è il piano delle scelte di valore. Infatti, la società di VRQ esclude dai propri compiti, per esempio, la valutazione dell’equità, affermando che l’equità è un “presupposto”. Una scelta di valore a monte, una grande opzione, appunto! È però proprio la grande insistenza attuale sul tema della qualità che richiede di porre con altrettanta insistenza il tema dell’equità. Come è noto, i recenti decreti sul riordino della sanità introducono alcune importanti innovazioni proprio nel campo della valutazione della qualità. In particolare viene affermata una duplice ottica con cui affrontare il problema: l’art. 10 del DL 502 si occupa di “controllo di qualità” dal lato del servizio, l’art. 14 tratta di “diritti dei cittadini”, dunque di qualità dal lato degli utenti. Se mettiamo in relazione le due diverse ottiche, ne scaturisce appunto il rapporto fra equità e qualità. Non si tratta di un rapporto privo di problemi, ma anzi suscettibile di forti tensioni. Un esito possibile, in regime di limitatezza di risorse assegnate al sistema sanitario e in assenza di precisi meccanismi sociali, può infatti essere del tipo: più qualità per pochi combinata con meno equità. Non è allora eludibile il compito di chiarire che cosa si intenda per

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equità e in che modo essa debba rapportarsi alla qualità. Ci soccorre utilmente l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che definisce la valutazione di qualità con queste parole: “La valutazione della qualità dell’assistenza sanitaria tende a far sì che ogni paziente riceva l’insieme di atti diagnostici e terapeutici che portano ai migliori esiti in termini di salute, tenendo conto dello stato attuale delle conoscenze scientifiche, con il minor costo possibile e i minori rischi iatro-geni, ottenendo la sua soddisfazione rispetto agli interventi ricevuti, agli esiti ottenuti e alle interazioni umane avute all’interno del sistema sanitario”. Si tratta di un’affermazione particolarmente pregnante, che raccoglie in poche parole alcuni concetti centrali: l’efficacia (raggiungi-mento dei migliori esiti in termini di salute); la qualità tecnica (migliori esiti allo stato attuale delle conoscenze scientifiche); l’efficienza (minor costo possibile); la sicurezza e l’affidabilità (minori rischi iatro-geni); la soddisfazione dell’utente; la personalizzazione e l’umanizzazione (interazioni umane). Il tema della qualità, in modo estremamente opportuno, non è visto dunque isolatamente ma correlato strettamente agli altri. Per quanto riguarda il rapporto con l’equità, tutto si gioca sull’interpretazione di cosa si intenda per “ogni paziente” (a cui si deve tendenzialmente garantire, ecc.). Si può tranquillamente escludere


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che l’OMS intenda “ogni paziente effettivo”, cioè solo l’utente che già ha interpellato il servizio e che ne è stato accolto. Certamente si intende “ogni utente potenziale”, cioè anche il cittadino che, portatore di un bisogno sanitario, non ha ancora interpellato il servizio. Una concezione piena di equità non può non riprendere la distinzione fra utente potenziale e utente effettivo: equità è anche fare in modo che ogni utente potenziale diventi effettivo. Torna utile, da questo punto di vista, la distinzione operata da Holland (1985) fra bisogno (che può non essere percepito, giudicato tale da esperti), necessità (percezione soggettiva dell’individuo), domanda (quando il cittadino interpella il servizio) e utilizzazione (quando l’utente lo usa effettivamente). Equità è dunque creare le condizioni che permettano a ogni utente potenziale di passare tutti e quattro i suddetti livelli, dal bisogno all’utilizzo. Ogni intervento, anche apparentemente di qualità, che crei ostacoli di qualsiasi natura (economici, logistici, psicologici, culturali) in questo percorso mette in contraddizione qualità ed equità. Siamo avvezzi a pensare che l’utente potenziale, in qualche modo, prima o poi, finirà per diventare utente effettivo. Così non è! Per esempio nel campo dei servizi per le tossicodipendenze si stima che non più del 20% dei tossicodipendenti raggiunga le comunità. È quindi scorretto valutare i servizi per tossicodipendenti senza

tener conto di quella quota altissima di utenti potenziali che non avanzano domanda (nel senso di Holland) e tanto meno usano il servizio. In termini di riferimento di principio, anche le più recenti disposizioni normative sembrano riaffermare il valore dell’equità. Il primo comma del già citato art. 10 del DL 502/92 intende infatti garantire “la qualità dell’assistenza nei confronti della generalità dei cittadini”. L ’affermazione è duplice: qualità ed equità non devono essere in contraddizione; considerare la “generalità” dei cittadini significa per l’appunto riferirsi all’utenza potenziale. La recente Carta dei Servizi Sanitari e la normativa da cui essa discende confermano questa impostazione quando ribadiscono che i principi ispiratori sono: eguaglianza, imparzialità, continuità, diritto di scelta, partecipazione, efficienza ed efficacia (Mazza, 1995). Sembra quasi assodato e scontato che tali eterogenei principi si incontrino e accordino senza problemi. In realtà è indispensabile che alla valutazione di qualità si affianchi la valutazione di equità. La questione dell’equità è particolarmente rilevante soprattutto in una fase in cui anche in periodi di crescita economica (come dimostrano le recenti statistiche dell’ISTAT) si ha sviluppo senza crescita dell’occupazione e senza redistribuzione del reddito. Inoltre, siamo in una fase in cui alcuni presidi centrali nel campo dei servizi

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Presidenza del Consiglio dei Ministri, Carta dei servizi pubblici sanitari, Decreto del Presidente del Consiglio 19 maggio 1995 in attuazione del-l’art. 2, comma 1, DL 12 maggio 1995 n. 163, pubblicato sul Supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale 31 maggio 1995 n. 125; Direttiva del Presidente del Consiglio 27 gennaio 1994; DL 3 febbraio 1993 n. 29 e successive modifiche; Direttiva del Presidente del Consiglio 11 ottobre 1994.


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(in primis gli ospedali) tendono a specializzare il proprio intervento, a puntare su prestazioni ad alto livello tecnologico e a bassissima durata temporale. In tal modo si ottiene anche una consistente riduzione dei costi. Tali costi, però, vengono sì depennati dai bilanci di tali presidi, ma ciò non determina la loro scomparsa sociale. Semplicemente escono dai bilanci degli ospedali (o di altri presidi) e si trasferiscono altrove: nei bilanci degli enti locali (che devono farsi carico dell’assistenza di anziani soli, ecc.), del volontariato e, soprattutto, delle famiglie. Equità dunque non può voler dire solo pari opportunità di accesso ai servizi, ma deve voler dire: eguaglianza e imparzialità nell’acquisizione di informazioni, nell’accesso, nel trattamento, nella fase della fuoriuscita dal servizio, nell’equa ripartizione dei costi sociali. Sorprende che nella Carta dei servizi pubblici sanitari all’affermazione di principio sulla centralità dei valori di eguaglianza e imparzialità non faccia seguito un preciso percorso di analisi e valutazione coerente e conseguente.

3. Fra compliance e legittimazione Come misurare la qualità? Con quale ottica? In una serie di servizi, soprattutto di tipo socio-assistenziale, o dove c’è un particolare tipo di relazione terapeutica, si può pro-

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porre un modello in cui la qualità è sostanzialmente centrata su strategie di ascolto e di attenzione all’utente. Ma proprio l’art. 14 del DL 502/92 riconosce che tale dimensione è comunque presente in ogni relazione servizio/utente. Ne conseguono alcuni problemi me-todologici. Ascolto, attenzione, qualità della relazione interpersonale appaiono come aspetti irriducibili a indicatori quantitativi. Ciò che si può tentare di misurare (sottolineando che si tratta di un tentativo) è la percezione soggettiva dell’utente in proposito (con domande del tipo “a suo avviso l’operatore ha prestato attenzione al suo caso personale: molto; abbastanza poco, ecc.”). Molto più improba è l’impresa di costruire indicatori di qualità, su queste tema-tiche, dal lato del servizio. Prendiamo ad esempio la durata del colloquio: una lunga durata sarebbe un dubbio indicatore di qualità, sarebbe invece per molti un indubbio indicatore di inefficienza (troppo pochi colloqui in un’ora di lavoro), mostrando un’altra possibile contraddizione, quella fra qualità (prestare molta attenzione all’utente) e produttività (trattare il numero più alto di casi possibile). Sarebbe errato pensare che tali problemi di difficile soluzione si pongano solo per i servizi socioassistenziali e che i problemi metodologici siano più semplici in quelli sanitari. È invece proprio la nuova concezione dei diritti dell’utente in sanità (fatta propria dal DL 502/92)


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che estende il diritto all’umanizzazione e alla persona-lizzazione a tutti i servizi (vedremo oltre come affrontare i problemi della loro misurazione). Qualità è anche come legittimare un programma socio-sanitario o socioassistenziale. La legittimazione si pone in termini molto diversi a seconda che ci si muova: 1) a livello di rapporto duale fra operatore e utente, dove la legittimazione è collegata alla compliance , alla partecipazione intenzionale attiva (Ardigò, 1994) del paziente al trattamento e alla relazione di cura; 2) a livello sociale, dove la legittimazione si intreccia con il consenso fra operatori; col consenso da parte degli utenti; con il consenso da parte dell’opinione pubblica. Nel primo caso qualità, legittimazione, compliance sono rilevabili soprattutto attraverso strumenti in cui si possa esprimere la soggettività dei due attori: innanzitutto l’intervista e, più superficialmente, ma con possibilità di quantificazione, il questionario. Nel secondo caso i problemi metodologici sono molto più complessi, poiché occorre indagare: a) il livello di informazione; b) il livello di consenso sociale; c) il livello di partecipazione; d) il livello di soddisfazione degli utenti. Ognuno di questi quattro aspetti richiede metodologie di rilevazione

diverse. Mentre il sondaggio è particolarmente indicato per studiare il consenso e la soddisfazione degli utenti, informazione e partecipazione sono analizzabili anche attraverso l’individuazione di indicatori: esistenza di uffici preposti alla comunicazione con gli utenti, numeri di telefono accessibili agli utenti, quantità di materiale informativo a stampa, numero riunioni, numero decisioni prese in conseguenza di incontri con rappresentanze di utenti, ecc. A proposito di partecipazione (e di come studiarla) si pongono alcuni interessanti problemi. Il primo è: cosa si deve intendere per partecipazione in sanità? Da tempo si riflette poco in proposito, nonostante che la concezione di partecipazione in sanità sia notevolmente mutata negli anni. Leggendo con l’ottica del valutatore la riforma sanitaria promossa dalla legge 833/78, si devono rilevare alcune in-congruenze e incoerenze proprio a proposito di partecipazione. Gli assunti di valore, i principi fondanti cui la legge 833/78 si ispirava erano soprattutto la partecipazione, la prevenzione (più e più volte affermate) e l’equità (meno diffu-samente). Ma proprio nel passaggio dalla fase dei principi alla fase in cui questi devono trasformarsi in obbiettivi, meccanismi sociali di attuazione, riconoscimenti istituzionali, ecco che la legge 833/78 mostra una sorprendente evanescenza, un’incoerenza di fondo: non ci sono cioè garanzie istituzionali per

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Per compliance si intende la partecipazione intenzionale attiva del paziente/utente/ cliente alla relazione di cura, partecipazione che ne fa un attore, dotato di diritti, interessi, valori e non un frui-tore passivo (Ardigò, 1994).


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la partecipazione, come aveva notato con forza Ardigò (1979). L ’unica partecipazione che si è attuata è stata quella delle comunità locali, attraverso cui è poi passato il ruolo dei partiti, sottoposto a pesanti critiche in questi tempi recenti. Dopo anni di silenzio, il DL 502/92 recupera un ruolo “politico” degli utenti, ma non più attraverso organismi istituzionali di partecipazione, ma attraverso un ruolo riconosciuto a “organizzazioni rappresentative degli utenti”. C’è dunque un mutamento sostanziale nella concezione della partecipazione nel sistema sanitario: da una idea di democrazia partecipata tramite canali istituzionali, ad una sorta di co-determinazione tramite rappresentanza non elette o non delegate, bensì in qualche modo cooptate. Stavamo parlando di legittimazione; il punto è allora: chi è legittimato a rappresentare gli utenti? Quale tipo di investitura si prevede? Attraverso quali canali istituzionali gli utenti possono investire queste rappresentanze? La legittimazione potrebbe avvenire per via istituzionale e verticistica, oppure attraverso delega e riconoscimento di rappresentatività da una base, seppure realisticamente limitata, di utenti. Oppure, ancora, solo per via “tecnica”, attraverso la nomina, da parte delle organizzazioni, di esperti e simili. Nulla è detto in proposito dal DL 502/92. La cosa altamente probabile allora è che sia la “controparte”, l’azienda USL, a legittimare le organizzazioni rap-

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presentative, investendole del ruolo di rappresentanza degli utenti (a prescindere da una delega esplicita da essi manifestata), riconoscendo a esse spazi e posti, per esempio nelle commissioni miste. La “qualità della partecipazione” degli utenti sarebbe così limitata fin dall’origine, quasi espropriata da “rappresentanze” non elette e non delegate.

4. Due direttrici della qualità A conclusione di queste riflessioni possiamo dire che non esiste un approccio neutrale alla qualità in sanità. Nel concreto contesto italiano, alla luce delle tendenze in atto, forzando forse un poco la schematizzazione, l’alternativa appare fra due direttrici: 1) l’asse qualità/equità/efficacia; 2) l’asse qualità/economicità/produttività. La prima direttrice mette a fuoco che il tema della qualità non deve portare a una sorta di nuovo formalismo burocratico: “basta osservare alcuni indicatori di qualità e le cose vanno bene”. Molto opportunamente la Società Italiana di VRQ ha intitolato gli atti di un suo recente convegno nazionale: “Qualità è efficacia” (Mariotto et al., 1992). Perseguire la qualità ha senso se qualità è sempre in stretto abbinamento con efficacia, intesa molto semplicemente come capacità di raggiungere gli obbiettivi o di rispondere a bisogni ordinati in


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una scala di priorità. Inoltre, come abbiamo visto, occorre costantemente tenere sotto controllo la possibile contraddizione fra qualità ed equità. La seconda direttrice tende piuttosto a connettere qualità con tagli sulle risorse, trascurando le ricadute eventuali a discapito dell’equità. Tende a connettere la qualità con statistiche che mostrino un alto volume di prodotto in termini di quantità di prestazioni (per esempio numero di visite per ora), arrivando quasi a dimenticare che la produttività non può che essere subordinata all’efficacia (per esempio il numero di visite che un operatore di consultorio può fare in un’ora deve sempre tendere a favorire un rapporto di compliance con l’utente, impossibile in tempi rapidi). Probabilmente concordiamo tutti sul fatto che equità ed efficacia da un lato ed economicità e produttività dall’altro sono strettamente intrecciate e teoricamente non in contraddizione. Ma nel concreto del dibattito attuale, nel concreto delle scelte attuali di politica sanitaria, tale coerenza fra i due versanti non appare scontata. Infine, un’ultima annotazione. In applicazione degli artt. 10 e 14 del DL 502/92 Ministero e Regioni partoriranno montagne di indicatori. È senz’altro importante che anche in Italia si esca da una situazione in cui si lavorava con indicatori scarsi e piuttosto rozzi. È utile però un richiamo alla cautela per non farci sommergere da questa marea di

indicatori, finendo per cadere in una mitologia degli stessi. Molto opportunamente, dopo l’uscita del DL 502/92, la Società Italiana di VRQ aveva messo in guardia da un uso smodato di indicatori, invitando a un’oculata selezione di pochi indicatori. Occorre invece collocare nella giusta luce il ruolo importante ma relativo degli indicatori e le difficoltà metodologiche che si incontrano nel costruire un buon sistema di indicatori. In ogni caso, ogni indicatore proposto va ricollocato all’interno di un quadro concettuale sistematico. È necessario risalire sempre dall’indicatore alla teoria e viceversa. Gli indicatori non parlano da soli. All’apparenza, cioè se letto in modo superficiale, un indicatore può dire addirittura sciocchezze. Oppure può dire cose diverse all’interno di quadri teorici diversi. Occorre inoltre essere consapevoli di ciò che gli indicatori non dicono. In ogni caso un ampio sistema di indicatori, senza un quadro teorico, come minimo produce una visione frammentata dei problemi. Ed è il riferimento teorico che legittima l’indicatore, che porta cioè alla scelta di quel dato indicatore e non di un altro; e poi a quella data interpretazione e non a un’altra. Riferimenti bibliografici Altieri L. (1987), La ricerca valutativa negli interventi sociali, in Guidicini P. (a cura di), Nuovo manuale della ricerca sociale, Angeli, Milano.

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Giovanni Bertin / La valut-azione come strategia di gestione dei servizi sociali e sanitari

La complessità dei servizi di Welfare richiede meccanismi di comunicazione, riflessività e controllo per coordinare l’agire dei singoli e controllare gli effetti delle decisioni attraverso specifici e diversificati processi di valutazione.

La valut-azione come

I

strategia di gestione dei servizi sociali e sanitari

l sistema dei servizi sociali e sanitari in Italia è continuamente interessato da cambiamenti nei modelli di gestione che rendono difficoltosa la definizione del ruolo e delle modalità di utilizzo dei diversi strumenti di programmazione. Come sempre, però, se noi allontaniamo per un momento la nostra prospettiva di analisi e riusciamo a considerare una sequenza temporale maggiore, allora è possibile delineare che questo percorso di cambiamento non ha un andamento costante ma ondivago. Esistono comunque alcune linee di tendenza riconoscibili. Per altro tali linee non segnano un cammino preciso che tende a un obiettivo, ma delimitano il campo entro cui si confrontano diversi modelli di regolazione/programmazione del sistema. Per fare alcuni esempi possiamo affermare che esiste un confronto fra la tradizionale logica burocratica e un tentativo di inserire elementi di gestione orientati ai risultati da raggiungere. Altre linee

di confronto sono date dal rafforzamento delle logiche operative legate alla cura e focalizzate sulle strutture ospedaliere in con-trapposizione allo sviluppo di attività di prevenzione basate su di un concetto sistemico dell’intervento di promozione e sviluppo della salute. In questo panorama continuamente in movimento esistono alcune linee di tendenza più chiare, anche se dai contenuti non sempre precisamente identificati. In particolare, la nostra analisi ci porta a constatare come il sistema dei servizi abbia visto una crescente diversificazione dei soggetti presenti, tanto da rendere più difficile la stessa definizione di servizi pubblici. Attualmente, infatti, i servizi pubblici sono spesso forniti da privati ma acquistati da soggetti pubblici in nome e per conto dell’utente. Altro elemento sul quale si muovono tutti i servizi riguarda il dibattito sul concetto di qualità. Questo termine è entrato nella letteratura e nel lessico quotidiano di

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chi opera in questo settore, anche se l’uso del termine e le esperienze concrete mostrano spesso una discreta confusione concettuale. Il dibattito e la sperimentazione che accompagnano questo panorama evolutivo sono alla ricerca di strumenti capaci di governare tali processi di innovazione, e in questa prospettiva un ruolo crescente viene sicuramente assegnato alla valutazione. Tutti i professionisti che operano nel sistema si confrontano quotidianamente con la necessità di verificare l’effetto del proprio lavoro o di giudicare i risultati prodotti dalle diverse organizzazioni che intervengono per la concretizzazione di un progetto. Il rischio di queste situazioni è che sulla valutazione vengano riposte speranze e aspettative miracolistiche, che si pensi alla valutazione non come a uno strumento ma come a un elemento in sé capace di risolvere le contraddizioni del sistema. Per questo è bene ripensare alla valutazione precisandone le potenzialità e i limiti, le implicazioni e relazioni con il processo decisionaLa logica razionale assoluta non considera l’incertezza che accompagna il processo decisionale e assume la possibilità di conoscere e controllare tutti i fattori che influenzano il problema sul quale insiste la decisione. In questa logica non vengono considerate le dinamiche che caratterizzano il campo decisionale e la complessità dei fenomeni, che difficilmente possono essere compiutamente controllati attraverso modelli deterministici. Il processo decisionale è considerato come un fatto squisitamente tecnico, perseguibile attraverso modelli formalizzati, capaci di rappresentare compiutamente la complessità dei problemi considerati. Come la produzione della decisione si ipotizza possa essere fatta dai tecnici attraverso le loro competenze ed i loro modelli comprensivi, così il controllo degli effetti delle decisioni è perseguito attraverso strumenti di analisi molto formalizzati. Le preoccupazioni del valutatore sono esclusivamente orientate al rispetto delle regole del metodo scientifico e al controllo della validità dei processi di analisi.

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le e le avvertenze meto-dologiche da seguire.

1. Il ruolo della valutazione nei processi decisionali Valutare significa giudicare e il giudizio può essere realizzato attraverso il pre-giudizio, vale a dire utilizzando le credenze e le conoscenze che la storia individuale e organizzativa ha consentito di sedimentare nel tempo. Oppure si può sostituire questa impostazione con una raccolta sistematica di informazioni che consentono di aumentare la capacità di giudizio. Per fare questo è necessario riconoscere che ogni giudizio è prodotto dall’interazione di alcune assun-zioni di valore, messe in relazione con informazioni e conoscenze relative al fenomeno che si intende valutare. In questa logica valutare significa aumentare la capacità di giudizio supportandola con la definizione degli elementi valoriali che lo compongono e con l’attivazione di tecniche di ricerca capaci di aumentare la conoscenza sul fenomeno che deve essere giudicato. Questa impostazione assume le caratteristiche del processo decisionale teso alla ricerca di una razionalità limitata , che rinuncia al controllo di tutte le variabili capaci di influenzare i fenomeni considerati e alla costruzione di modelli esplicativi di tipo comprensivo. Le esperienze di valutazione sperimentate all’interno della logica


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razionale assoluta erano centrate nel controllo scientifico dei fattori che potevano inficiare la possibilità di affermare l’esistenza di una relazione significativa fra l’intervento realizzato e il risultato rilevato dalla ricerca. In questa logica si spiega la netta divisione fra il ruolo del decisore e quello del valutatore, al quale assegnare il compito di osservare i fenomeni senza averne alcun contatto potenzialmente capace di influenzare il risultato del lavoro. Altro effetto di questa preoccupazione è costituito dal progressivo affinamento di modelli di ricerca tesi a controllare tutte le minacce alla validità del processo valutativo costituite dalla possibile influenza sul fenomeno studiato da fattori esterni all’intervento progettato. Entrambe queste direzioni di marcia hanno sicuramente una ragione scientifica rilevante, ma finiscono per essere controproducenti se applicate in tutti i contesti nei quali l’organizzazione necessita di sviluppare un giudizio. La valutazione deve, quindi, essere considerata una VALUT-AZIONE, vale a dire un processo, un’azione informativa che si sviluppa parallelamente al processo organizzativo e ne supporta le decisioni. Ma come il processo organizzativo è caratterizzato da decisioni di diversa complessità, così la valutazione non assume sempre le stesse caratteristiche, non comporta le stesse difficoltà me-todologiche. Il processo di valutazione si deve diversificare in funzione del problema decisionale da affrontare.

Nel tentativo di trovare una classificazione dei contesti valutativi propri del sistema dei servizi socio-sanitari possiamo considerare le seguenti situazioni: 1) valutazione degli effetti prodotti dal singolo professionista sul singolo caso; 2) valutazione come strategia di gestione di un singolo progetto; 3) valutazione come accompagnamento alla sperimentazione di processi di innovazione; 4) valutazione come strategia di regolazione del sistema.

2. La valutazione nella gestione dei singoli casi La sperimentazione di strategie di valutazione degli effetti prodotti sul singolo caso ha seguito due strade parallele, relative: 1) all’individuazione di protocolli di ricerca standardizzati rispetto ai quali i singoli professionisti confrontano il loro lavoro; 2) alla definizione di disegni di osservazione che tendono a isolare gli effetti prodotti dal programma di intervento posto sotto osservazione. Il primo approccio trova applicazione in contesti caratterizzati da un sapere condiviso fra gli addetti ai lavori. È precondizione, infatti il riuscire a definire quali sono i comportamenti professionali capaci di produrre risultati positivi rispetto a determinate condizioni di patologia. Ovviamente tale prospettiva assume

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l’esistenza di protocolli di intervento scientificamente validati e riflette lo sviluppo del sapere professionale proprio del mondo scientifico che di quel problema si occupa. L ’approccio basato sulla valutazione del singolo caso si muove nell’ambito delle strategie di autovalutazione, nelle quali è l’esecutore dell’intervento che struttura il modello di valutazione, raccoglie le informazioni secondo un preciso piano di rilevazione e ne deduce una valutazione sull’andamento dell’intervento e sui risultati ottenuti. La logica sottesa dall’approccio SCED (Single Case Evaluation Design) è legata all’assunzione della possibilità di individuare alcuni comportamenti/attività del soggetto su cui insiste l’intervento, che sono sicuramente fruibili in termini di “indicatore di miglioramento o Questo approccio è scomponibile in quattro fasi: 1) Definizione del problema: in questa prima fase l’operatore studia le caratteristiche e la natura del problema da affrontare, cercando di restringere progressivamente il campo dell’analisi, fino a individuare, “isolare” i comportamenti/attività che l’operatore si aspetta di trovare cambiati dopo il suo intervento. 2) Analisi e selezione delle strategie di valutazione: si tratta di stabilire una soglia più o meno flessibile che permetta di misurare l’efficacia dell’intervento. L’altro problema affrontato in questa fase è relativo alla definizione del piano di rilevazione dei comportamenti individuati. Gli strumenti di rilevazione si possono basare sia sull’osservazione da parte di soggetti esterni, sia su self-report da parte del cliente attraverso i quali il soggetto è chiamato ad annotare i suoi comportamenti. 3) Sviluppo di misure di “Baseline”: lo scopo della registrazione di “Baseline” è di ottenere un campione rappresentativo del comportamento. La registrazione deve comunque continuare per un lungo periodo per scoprire fluttuazioni anomale e modelli ricorrenti”. 4) Scegliere e implementare il disegno della ricerca: la strategia di valutazione imperniata sull’analisi di un singolo caso può basarsi sull’applicazione di disegni che presentano complessità e problemi di applicabilità diversificati. I diversi disegni tendono a combinare la necessità di isolare il reale contributo al cambiamento dovuto al programma di intervento, con la necessità di adattare il progetto alle caratteristiche dell’utente.

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peggioramento della situazione del cliente” rispetto all’obiettivo perseguito dall’operatore. Individuato questo tipo di comportamenti/attività, si tratta di osservare la frequenza e l’intensità delle manifestazioni di questi elementi in presenza e in assenza di intervento, per definire e misurare quanto quello specifico intervento ha e/o sta modificando il comportamento o le attività del soggetto. La critica che è stata fatta a questo approccio è di sposare una logica scientifica comportamentista, in quanto il fuoco dell’osservazione è concentrato su cosa fa concretamente l’individuo. Quanti si sono mossi usando questo approccio valutativo al di fuori di una logica squisitamente comportamentista sostengono però che in questo caso l’analisi del comportamento non ha una finalità diagnostico/terapeutica ma solo analitica, e questo uso non porta automaticamente l’operatore a impostare l’intervento sulla modifica diretta del comportamento. L ’approccio SCED alla valutazione dei risultati usa l’analisi del comportamento, inteso per altro con un’accezione piuttosto ampia (comprensiva anche delle attività svolte dai singoli), come indicatore della presenza/assenza di un determinato fenomeno. Osservare se e in che misura un anziano ricoverato in un’istituzione chiede l’aiuto dell’operatore per lavarsi o per uscire e usare l’informazione come indice di autonomia non significa certo operare con un approccio


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di tipo comportamentista. Questi disegni di ricerca risultano particolarmente interessanti per la valutazione degli effetti prodotti su problematiche complesse e difficilmente valutabili attraverso test validati di tipo clinico. L ’obiettivo di questi disegni di ricerca è quello di rilevare gli eventi che interessano il paziente, ma soprattutto di poter affermare l’esistenza di una relazione causale fra l’intervento prodotto dal terapeuta e il cambiamento osservato.

3. Valutazione come supporto alla gestione di un progetto Il modello organizzativo di tipo burocratico fonda il controllo dell’organizzazione sulla verifica del rispetto delle procedure operative precedentemente individuate dalla tecnostruttura. In questo ambiente organizzativo si assume che gli attori sono scarsamente dotati di autonomia decisionale e procedano applicando letteralmente le decisioni prese da altri. L’organizzazione funziona in quanto i soggetti che vi operano rispettano le procedure individuate. Quando, però, l’organizzazione insiste su di un ambiente turbolento e il campo decisionale è caratterizzato da discreti gradi di incertezza, allora il processo decisionale non può essere centrato sul rispetto di procedure predefinite. I decisori devono avere discreti

margini di autonomia decisionale e agire verificando progressivamente la realizzazione degli obiettivi posti nella definizione del processo decisionale. In altre parole, il meccanismo di governo del sistema deve orientarsi alla realizzazione dei risultati. È poi necessario prevedere dei momenti di verifica in itinere, tali da consentire al decisore di verificare il processo di realizzazione del progetto. La valutazione di processo è quindi rilevante nel supportare l’implementazione concreta del progetto. Questo comporta che il decisore deve scomporre il progetto, individuando dei risultati parziali direttamente o indirettamente legati all’obiettivo finale che si intende perseguire. Si tratta, in altre parole, di individuare e monitorare aspetti del processo di realizzazione del progetto che indicano al decisore se, e in che misura, gli sforzi realizzati consentono di andare verso la direzione desiderata. La valutazione di processo risulta fondamentale nella gestione di un progetto anche perché consente di tenere sotto controllo due variabili critiche, fondamentali per la buona riuscita di un progetto: la variabile tempo e la variabile risorse a disposizione di chi gestisce l’intervento. Questo aspetto è sicuramente ancora troppo poco presente nella cultura dei servizi pubblici italiani, ma sempre più chi gestisce un progetto deve imparare a fare i conti con questi elementi, e deve imparare a correggere

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La letteratura suggerisce di scomporre un progetto di pre-

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in corso lo sviluppo di un progetto in relazione agli sforzi prodotti, del tempo previsto e utilizzato nel produrre questi sforzi e dei risultati che si stanno realizzando. Il primo problema da affrontare in questa prospettiva è quello di arrivare a definire in modo misurabile i risultati che si intende perseguire con un progetto. Questa esigenza richiede ai responsabili del progetto uno sforzo di analisi teso a precisare su quali soggetti si intende produrre un risultato concreto, e quali cambiamenti specifici il progetto intende realizzare sul target considerato. Un aiuto in questo lavoro di analisi viene dalla scomposizione del progetto lungo una scala di astrazione . Questo processo consente di individuare diversi possibili elementi di valutazione che accompagnano il

processo di gestione di un progetto. La valutazione di un singolo progetto ha essenzialmente la preoccupazione metodologica di riuscire a stabilire se gli eventuali cambiamenti rilevati siano imputabili al progetto realizzato o non siano l’effetto di altri fattori esterni, indipendenti dal progetto stesso. In questa prospettiva si tratterà di utilizzare strumenti di analisi che consentano innanzitutto di definire se il cambiamento considerato possa essere definito significativo, e non semplicemente l’effetto di oscillazioni casuali. L ’altra attenzione metodologica riguarda il controllo della possibile incidenza di minacce interne alla validità , che mettono in crisi l’assunzione del rapporto causale fra il cambiamento rilevato e l’effetto prodotto con la realizzazione del progetto. Il controllo delle minacce interne passa essenzialmen-

venzione lungo una scala di astrazione, individuando specifici obiettivi relativi ai diversi livelli della scala. La scala di astrazione presentata evidenzia la possibilità di scomporre le attività che caratterizzano

un intervento di prevenzione e di individuare un insieme di obiettivi che presentano un diverso grado di prossimità rispetto all’obiettivo finale.

Scala di astrazione degli obiettivi della prevenzione

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te per la registrazione sistematica degli eventi che possono influenzare l’evoluzione della realtà e, ove possibile, per la costruzione di disegni di ricerca di tipo pre o quasi sperimentale .

4. La valutazione dei progetti innovativi a carattere sperimentale Quando un progetto ha carattere sperimentale il valutatore si pone l’obiettivo di stabilire se, e in che misura, i risultati raggiunti avrebbero la stessa rilevanza in contesti spaziotemporali diversi. In questo caso le preoccupazioni metodologiche vanno al di là del controllo delle minacce interne, e il ricercatore si deve preoccupare anche di definire se la situazione sperimentale possa essere considerata rappresentativa dei possibili contesti nei quali il progetto potrebbe essere successivamente diffuso. In questo caso il disegno di Le minacce interne riguardano la possibilità di affermare con certezza che i cambiamenti rilevati nel gruppo di popolazione sulla quale si è effettuato l’intervento, sono sicuramente imputabili all’attività prodotta. A questo livello sono segnalati otto tipi di minacce, quali: 1) La storia: vale a dire il possibile effetto delle dinamiche socio-politiche ambientali su alcune condizioni che determinano il problema sul quale insiste l’esperimento. 2) La maturazione: ogni soggetto è portatore di una propria personalità, soggetta a cambiamenti ed evoluzioni continue che possono produrre mutamenti anche rispetto alle variabili-criterio scelte per valutare i cambiamenti prodotti dal trattamento sperimentale. 3) La misurazione: la prima misurazione effettuata con il pre-test, può influenzare i risultati ottenuti

Innumerevoli sono le configurazioni del disegno della ricerca presperimentali. Fra i tanti segnaliamo qui quelle più interessanti per la ricerca applicata ai servizi: 1) il modello basato sulle serie viene applicato in contesti nei quali è possibile definire un’unità temporale nella quale ci si aspetta di trovare un cambiamento significativo rispetto a una variabile-trattamento definita in precedenza; 2) il modello dei gruppi non equivalenti, per il quale la struttura è uguale a quella del modello sperimentale, senza però un’assegnazione casuale dei soggetti coinvolti ai due gruppi, sperimentale e di controllo; 3) il modello con misurazione prima e dopo. Questo modello contiene il solo gruppo sperimentale sul quale viene fatta una misurazione prima e una misurazione dopo il trattamento. L’obiettivo è misurare il cambiamento della situazione ipotizzandone, ma non verificandone, un legame con l’intervento stesso; 4) il modello con misurazione solo dopo su campioni non equivalenti. Anche in questo caso si riesce a stabilire se esistono differenze significative fra i due gruppi, ma non si è in grado di attribuire con certezza tali differenze all’intervento volontariamente introdotto; 5) il modello con sola misurazione dopo. Tale modello prevede solo una misurazione dopo l’esperimento e si pone, quindi, solo l’obiettivo di verificare qual è la situazione della popolazione interessata dall’intervento dopo la sua esecuzione. Questo approccio non è in grado di verificare se si sono realizzati probabili cambiamenti ma si limita a descrivere la situazione in un dato momento; 6) il modello basato sull’analisi della correlazione. In questo caso vengono comparati due gruppi di dati e si cerca se esistono variazioni con-comitanti fra questi dati. La verifica dell’esistenza di variazioni con-comitanti, fra eventi permette così di evidenziare l’esistenza di una relazione fra fenomeni, anche se nulla sarà possibile affermare sulla direzione della relazione, vale a dire sulla direzione dei nessi di causa ed effetto.

con il post-test. Il soggetto può avere memorizzato gli elementi componenti il pre-test e avere elaborato una maggiore capacità di risposta. 4) La strumentazione: la diversità degli elementi di misurazione, o dei soggetti che operano la misurazione può produrre effetti di distorsione dei risultati. 5) La selezione sperimentale: la costruzione dei gruppi sperimentali e di controllo non sempre permette di costruire due insiemi di soggetti che presentano le stesse caratteristiche. 6) La moralità sperimentale: la perdita di soggetti in uno dei gruppi può inficiare la possibilità di considerare uguali i due gruppi e introdurre, quindi, i problemi di validità rilevati a carico della selezione sperimentale. 7) La regressione statistica: questa minaccia si attiva quando i gruppi sono stati selezionati in base all’aver ottenuto un punteggio estremo in altri test. 8) L’interazione tra selezione dei gruppi ed altre

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variabili esterne: secondo Bernardi e Tripodi “la selezione oltre che comportare errori direttamente, può interagire in modo ulteriormente distorsivo con altri fattori, in particolare con l’esistenza di differenti propensioni alla matu-razione o di reazione a eventi storici”.


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valutazione deve preoccuparsi anche del controllo delle minacce esterne alla validità delle assunzioni derivanti dal processo di ricerca implementato. I disegni di valutazione basati sulla logica sperimentale si sviluppano dalla preoccupazione metodologicamente fondata di riuscire a controllare tutti i fattori che possono influenzare il processo di realizzazione di un intervento, inficiando la possibilità di mettere in relazione il cambiamento rilevato con la variabile manipolata, vale a dire con l’intervento realizzato. Tale preoccupazione si fonda sulla possibile presenza di molti fattori che entrano in relazione con la vaLe minacce di validità esterna sono quelle che non permettono di affermare che le condizioni in cui si è svolto l’esperimento si discostano in modo significativo dalla realtà, e che quindi i risultati ottenuti non sono relativi a particolari condizioni, ma possono essere considerati generalizzabili a tutto il sistema. A questo livello la letteratura segnala quattro fattori di possibile minaccia di validità: 1) Interazionefra prima misura e trattamento: la somministrazione del pre-test può predisporre o creare una reazione di rifiuto del soggetto all’esperimento, e quindi rendere la situazione sperimentale significativamente diversa dalle condizioni di applicazione dell’esperimento nella real-tà. 2) Interazione fra selezione e trattamento: questa minaccia riguarda le strategie adottate nella selezione dei soggetti coinvolti nell’esperimento. Se i soggetti coinvolti si differenziano in modo significativo dalla media dei possibili fruitori dell’intervento, è sempre possibile affermare che le eventuali differenze riscontrate nel confronto dei risultati ottenuti dal gruppo sperimentale e di controllo, possono essere legate alla particolarità di soggetti coinvolti, e quindi mettere in crisi la possibilità di generalizzarne i risultati. 3) Reazione all’assetto sperimentale: la necessità di controllare i fattori di disturbo costringono i ricercatori a introdurre nell’esperimento particolari accorgimenti artificiosi, sicuramente non riproducibili nella ripetizione dell’intervento in situazioni non sperimentali. Questo elemento di per sé rende la condizione sperimentale diversa dalla situazione normale di erogazione di un intervento. 4) Interazione fra più trattamenti: questa condizione è operante quando i soggetti sono sottoposti contemporaneamente a più interventi, e risulta praticamente impossibile isolare gli effetti attribuibili a ognuno di essi singolarmente.

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riabile sperimentale, interagiscono con essa e finiscono per influenzare il risultato del progetto. Per riuscire a controllare questi possibili fattori di distorsione il ricercatore definisce dei disegni di ricerca che cercano di riprodurre la logica del laboratorio sperimentale . L ’obiettivo di questi disegni di ricerca è quello di isolare l’effetto della variabile sperimentale. Ma la complessità del sistema sociale non si sposa facilmente con la logica sperimentale, e i ricercatori sono riusciti a costruire situazioni di questo tipo solo in casi particolari. Ancora una volta questo non significa assumere che la logica sperimentale non sia in grado di portare un contributo significativo alla valutazione. La preoccupazione che anima il valutatore deve essere quella di fare sempre un’analisi dei costi possibili sottesi alla costruzione del giudizio valutativo. Diversi obiettivi valutativi richiedono alla formulazione del giudizio un diverso grado di attendibilità. È importante ricordare che maggiore è il grado di attendibiLa logica del modello sperimentale è mutuata dalla logica della ricerca propria delle scienze naturali. Il ricercatore individua una variabile criterio e tenta di costruire una situazione sperimentale costituita da due contesti, o gruppi che si differenziano esclusivamente per l’intervento progettato. La conoscenza della situazione dei due gruppi prima dell’intervento permetterà di imputare eventuali diverse variazioni nella variabile criterio misurata dopo l’intervento, all’evento sperimentale volontariamente introdotto. La logica di questo modello di ricerca si basa sulla costruzione di un campione di popolazione scomposto in due parti uguali fra di loro ed entrambe rappresentative dell’universo.


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lità del processo di valutazione e maggiore è la quantità di risorse necessarie per la raccolta delle informazioni. Altro elemento da considerare riguarda l’oggetto sul quale insiste la valutazione. In altre parole, la costruzione di disegni sperimentali o quasi sperimentali comporta l’impiego di rilevanti quantità di risorse e la costruzione di ambienti “artificiali” che vincolano lo sviluppo dell’intervento realizzato. Tali costi diretti e indiretti devono comunque essere affrontati quando la decisione da prendere esige una valutazione di precisione e sottende l’impiego di risorse elevate, ma risulta sovrabbondante quando questi elementi non sussistono.

5. Valutazione della qualità e gestione del sistema organizzativo Il sistema dei servizi sociali e sanitari è oramai caratterizzato dalla compresenza di diversi attori pubblici e privati che intervengono per la soluzione degli stessi problemi o la realizzazione degli stessi progetti. Questo sistema diversificato richiede inevitabilmente la definizione di alcuni meccanismi di regolazione capaci di orientare l’agire organizzativo dei singoli attori. Un contributo interessante alla regolazione del sistema viene dalla definizione di regole di giudizio secondo il quale gestire il “quasi mercato” che

si sta sviluppando. In altre parole, si tratta di pensare che i singoli attori agiscono autonomamente nel sistema, coordinati e controllati sulla base della qualità del loro lavoro. Il concetto di qualità, in altre parole, si va affermando come il centro concettuale di questo processo di regolazione. Ma tale concetto non è utilizzato omogeneamente nel sistema e richiede sicuramente alcune precisazioni. Nella letteratura si riscontrano alcune tendenze nell’utilizzo di tale concetto che possono essere sche-maticamente conglobate in due filoni principali che attengono all’ approccio scientifico e all’ approccio manageriale . L ’approccio scientifico intende considerare la qualità di un intervento in funzione della sua corrispondenza con livelli/standard predefiniti e accettati dalla comunità scientifica dei professionisti. Il giudizio sulla qualità di un servizio si sviluppa, quindi, a partire da valutazioni tecniche fatte da esperti attraverso la definizione di com-

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portamenti ritenuti teoricamente capaci di risolvere un problema, di soddisfare un bisogno. Le complessità di questo approccio attengono al dibattito interno alle professioni e alla possibilità di riuscire concretamente a definire procedure che siano unanimemente considerate di qualità dalla comunità scientifica e professionale. Questo approccio è utilizzato nella valutazione di processo e serve al singolo professionista per confrontare il suo modo di lavorare con quanto sancito dal dibattito interno alla professione. Questo tipo di ricerche è utilizzato dalla corporazione professionale per definire il corpus di conoscenze posto alla base della propria identità professionale, e per difendersi contro le critiche dei soggetti che non appartengono al gruppo professionale. Non a caso i singoli gruppi professionali tendono sempre più ad affermare che l’unica forma di valutazione accettata è una valutazione interna, prodotta dagli stessi professionisti o da altri membri della stessa corporazione ai quali ASPETTI POSITIVI E NEGATIVI DELL’APPROCCIO MANAGERIALE

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affidare il compito di controllare l’operato dei membri del gruppo. Il principale problema incontrato da questo tipo di approccio è relativo alla scarsa condi-visione dei processi di lavoro da parte dei membri dello stesso gruppo professionale. La ricerca scientifica e il dibattito interno alle professioni va sicuramente consolidando dei saperi condivisi, ma i margini di confronto, alla luce di impostazioni meto-dologiche o a scuole di pensiero differenti, lasciano ancora ampi spazi di indeterminatezza. Questa assunzione rende difficile centrare il controllo esclusivamente sulla valutazione dei processi di lavoro. Con questo non si intende qui rinnegarne l’importanza, ma ribadire che non è possibile valutare la qualità dei servizi solo attraverso la valutazione dei processi, e che quando si passa dalla valutazione dei processi a quella dei risultati il professionista è solo uno degli attori e dei punti di vista che vanno considerati nella produzione di giudizi sulla qualità dei servizi. L ’approccio manageriale, o d’eccellenza, riprende il dibattito sviluppatosi nel mondo della produzione di beni o servizi rivolti alle imprese. La qualità è identificata con i risultati prodotti dall’impresa e con la capacità di soddisfare le esigenze del cliente. La logica sottostante a questo approccio è quella di considerare che l’organizzazione deve sviluppare le sue capacità nel rispondere, nel miglior modo possibile, alle aspettative del cliente che


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diventa, quindi, il giudice della qualità prodotta dalle imprese. Dal punto di vista meto-dologico i problemi sollevati da questo approccio alla valutazione della qualità attengono alla costruzione di misure di soddisfazione del cliente e di creazione delle condizioni di raccolta delle informazioni nelle quali il soggetto si possa sentire libero di esprimere il proprio punto di vista. Nel settore della produzione di beni e servizi alle aziende il fattore di regolazione del sistema e di giudizio sulla sua qualità è fondato prevalentemente sul giudizio espresso dal cliente. Questa affermazione che sembra scontata comincia oramai ad andare in crisi parallelamente all’ingresso nel mercato di beni e servizi non giudicabili liberamente dai fruitori, in quanto presentati al cliente attraverso tecniche di persuasione tese a ridurne la capacità critica. Non a caso nascono e si sviluppano sempre più gruppi di pressione che si pongono l’obiettivo di difendere il consumatore. Tali gruppi di pressione finiscono per diventare i “valutatori del mercato”, coloro che definiscono i requisiti di qualità del prodotto. Ora se questo è vero per le aziende che producono beni o servizi alle imprese, lo è sicuramente molto di più per le organizzazioni che producono interventi sulla persona. Gli elementi che rendono più rilevante il problema attengono prevalentemente a: 1) la soddisfazione è sempre il prodotto di un insieme diversificato di

fattori che il cliente non è in grado di scomporre. Possiamo avere a che fare con un intervento assolutamente inefficace che rende comunque soddisfatto il cliente perché la relazione fra operatore e utente è stata positiva, basata sul rispetto della persona o sulla gentilezza; 2) non sempre l’efficacia dell’intervento si combina con la soddisfazione del cliente. In altre parole, è possibile che la scelta fatta dal professionista incontri le resistenze del destinatario dell’intervento, creando la sua insoddisfazione, ma che l’intervento risulti comunque irrinunciabile e si dimostri nel tempo efficace. Il legame che connette il professionista al cliente ha carattere terapeu-tico e richiede l’interpretazione della domanda. Questo processo porta, inevitabilmente, a trovare soluzioni che possono contrastare con le speranze e le attese del cliente, creando quindi insoddisfazione; 3) l’esistenza di un insieme di stereotipi che definiscono le aspettative riposte nel servizio. Le aspettative che il cliente ripone nel professionista o nell’organizzazione dei servizi, quando pone una domanda di prestazione, sono il frutto di conoscenze e credenze spesso costruite sulla base di luoghi comuni, o comunque su di una semplificazione dei meccanismi di regolazione dei fenomeni, costruite in base a informazioni spesso parziali e distorte. Ciò che fa cultura su questi aspetti è la storia personale di altri soggetti che agiscono

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nello stesso mondo vitale, e i mass media che non sempre traducono correttamente il dibattito interno alle professioni. È anche possibile aggiungere che tanto più basso è il livello culturale di chi pone la domanda e tanto più presenti sono i meccanismi di distorsione che possono influenzare la definizione della soddisfazione di un servizio. Queste brevi osservazioni non devono far pensare che sia inutile porsi il problema della valutazione della soddisfazione dei clienti. È assolutamente importante porsi in questa prospettiva di ricerca, ma il significato che possiamo assegnare a questo tipo di valutazione dipende dall’oggetto e dal tipo di problema che si intende valutare. Se si intende valutare un servizio di mensa è chiaro che la soddisfazione ha una rilevante capacità indicativa, minore capacità indicativa va assegnata alla soddisfazione del cliente quando si giudicano interventi caratterizzati da una forte componente tecnologica, difficilmente visibile e percepibile dall’utente, o servizi che devono fare ricorso ad azioni coatte, in contrasto con le volontà dei singoli. La complessità interpretativa sottesa dalla valutazione della soddisfazione del cliente porta ad affermare che questa è sicuramente una delle dimensioni fondamentali per esprimere un giudizio sul funzionamento di un’organizzazione, ma va considerata come una delle dimensioni del processo di valutazione. Se non si accompagna tale valutazione con

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la raccolta di informazioni su altri aspetti del problema risulta impossibile formulare un giudizio valutativo sul fenomeno considerato. I limiti emersi dagli approcci precedentemente considerati portano allo sviluppo di un terzo approccio di tipo integrato. Questo tipo di approccio si sviluppa dalla necessità di diversificare il concetto di qualità nell’ambito del Welfare rispetto a quello classico della produzione di beni o servizi alle imprese. La missione delle organizzazioni che si muovono nella produzione di interventi di Welfare è riconducibile solo in minima parte alla produzione del profitto. Anche le esperienze dei paesi che per primi hanno tentato di centrare la gestione del sistema di Welfare solo attraverso le logiche del mercato hanno mostrato rilevanti difficoltà di funzionamento. Per questo la strada da battere non è quella di sostituire una logica burocratica a una di mercato, ma è necessario introdurre nel sistema dei servizi elementi di mercato e ridefinire in questa logica il funzionamento del sistema di Welfare. In questa logica l’approccio integrato recupera alcuni elementi di rilievo che caratterizzano gli approcci alla qualità precedentemente presentati. In altre parole, si definisce che il giudizio della qualità implica il confronto con diversi punti di vista, espressi da soggetti diversi. È importante, infatti, porre al centro della valutazione della qualità il cliente con i suoi bisogni, ma come singolo individuo


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il cliente non è sempre in grado di giudicare la qualità, ed è quindi importante dare spazio anche alle organizzazioni di rappresentanza dei consumatori. Va assegnato un ruolo importante anche ai professionisti che, riflettendo sulla propria attività professionale, definiscono procedure di comportamento capaci di influenzare i processi di intervento e costituiscono così uno strumento utile al giudizio di qualità. L’incertezza che accompagna il dibattito sugli approcci professionali rende impossibile centrare la qualità solo su questi elementi e riporta alla necessità di recuperare dall’approccio d’eccellenza l’orientamento ai risultati. Infatti, è fondamentale riuscire a ricondurre il giudizio di qualità anche agli effetti concretamente prodotti dagli interventi realizzati. Il tentativo di superare le critiche poste ai due principali approcci alla qualità comporta inevitabilmente la scomposizione del processo organizzativo e l’individuazione di diversi criteri di valutazione. Infatti, la qualità va ricondotta: 1) all’input, vale a dire all’insieme delle risorse materiali e umane

immesse nell’organizzazione per produrre un determinato risultato; 2) al processo, cioè all’insieme delle modalità operative e organizzative adottate per produrre l’intervento; 3) all’output, cioè le prestazioni concretamente prodotte dall’organizzazione; 4) all’outcome, relativo agli effetti concretamente prodotti dall’organizzazione. Assumere una logica multidimensionale nella valutazione della qualità significa definire un insieme di regole di giudizio costruite su indicatori relativi a queste fasi del processo di produzione. Una prima considerazione sul rapporto fra produzione degli interventi e criteri di giudizio della qualità ci porta a constatare che nessuno dei criteri considerati è, da solo, in grado di rappresentare compiu-tamente la complessità e multidimensionalità del concetto . Ma affrontare una misurazione della qualità con logica multidimensionale, pone alcune difficoltà che richiedono particolari attenzioni sul piano dei rapporti fra i diversi attori che agiscono nel sistema, e

Potenzialità e limiti di alcuni criteri di valutazione della qualità

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Giovanni Bertin / La valut-azione come strategia di gestione dei servizi sociali e sanitari

I modelli multicriteria si diversificano rispetto alla necessità di realizzare una valutazione ex ante o una valutazione ex post, alla natura delle misura costruite e alle scale di classificazione degli indicatori, al consenso o alla conflittualità fra gli attori all’interno del campo decisio-

sul piano delle conseguenti attenzioni metodologiche da osservare. Questo perché i diversi attori che agiscono nel sistema sono portatori di propri sistemi di preferenze, riconducibili ai modelli valoriali e alle credenze definite dalle dinamiche del sistema nel quale agiscono e ai legami con i segmenti dell’ambiente pertinenti. In altre parole si confrontano soggetti caratterizzati da sistemi di giudizio non sempre omogenei e talvolta conflittuali. Per quanto riguarda i problemi metodologici va ricordato che per riuscire a utilizzare contemporaneamente diversi criteri di giudizio è necessario comparare fra di loro indicatori che hanno una diversa natura e una diversa rilevanza per la formulazione di un giudizio di sintesi. Questi elementi rendono necessario il confronto di criteri di giudizio diversi per rilevanza e natura. Tale processo è governabile dal punto di vista metodologico solo ricorrendo all’ approccio multicriteri . Tale prospettiva di valutazione pone alcune difficoltà sul piano metodologico che attengono rispettivamente: 1) alla necessità di considerare che gli attori coinvolti nel processo decisionale sono dotati di loro autonomi indicatori. Ogni individuo forma, infatti, il proprio sistema di preferenze alla luce della propria storia, delle proprie credenze e aspettative e tenderà ad assegnare

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Valutazione 1998

rilevanza diversa ai possibili criteri di valutazione alla luce del proprio sistema preferenziale. Ma se ogni individuo valuta alla luce esclusiva delle proprie preferenze si finisce per assumere che la valutazione non ha il carattere della comparabilità e che deve avere solo una valenza soggettiva. In altre parole ciò che è positivo per un soggetto non ha nessun significato valutativo al di là della sua soddisfazione personale. Questa strada non comporta alcun problema quando si tratta di decisioni individuali, ma mette in crisi il sistema quando si parla di interventi che devono regolare l’azione collettiva; 2) fare riferimento a criteri di valutazione di natura diversa comporta inevitabilmente dover utilizzare indicatori costruiti con informazioni diverse, distribuite lungo scale diverse e non direttamente confrontabili fra di loro. Infatti risulta difficile confrontare fra di loro indicatori basati sulla percezione della durata di un bene, con il suo carattere estetico o il suo costo. Lo sforzo perseguito dai modelli di valutazione multicriterio presenti in letteratura è sicuramente indirizzato al tentativo di confrontare fra di loro criteri che assumono rilevanza diversa per il decisore, e che originano indicatori distribuiti lungo scale di classificazione diverse. La complessità sottesa da queste preoccupazioni metodologiche ha portare i valutatori a costruire diversi modelli di valutazione multicriteri,


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in funzione dell’oggetto sul quale insiste il processo di valutazione e dell’obiettivo valutativo da perseguire. Il merito principale di questi modelli di valutazione sta nel non mistificare la natura valoriale sottesa a ogni processo di valutazione, costringendo il decisore a scomporre il proprio processo decisionale in due momenti fondamentali relativi: 1) alla definizione del sistema delle preferenze e quindi dei criteri di valutazione scelti; 2) all’individuazione di indicatori capaci di descrivere concretamente e in modo empirico i criteri di valutazione considerati. Questo processo rende la valutazione trasparente ed esplicita, consentendo a tutti gli attori coinvolti nel processo decisionale di individuare i fattori di criticità sottesi, e di sviluppare il proprio ruolo in modo chiaro. Altro elemento rilevante dei disegni di valutazione multicriteri sta nella possibilità di combinare al loro interno misure di natura estremamente diverse e, quindi, di recuperare altre strategie di valutazione che da sole possono risultare parziali. In questa logica, per esempio, è possibile combinare all’interno dei modelli multicriteri la valutazione della soddisfazione con il giudizio degli esperti o l’autovalutazione.

6. Conclusioni Questa breve rassegna di utilizzi della valutazione nei processi di ge-

stione dei servizi sociali e sanitari ha solo l’obiettivo di individuare alcuni percorsi lungo i quali sperimentare la valutazione approfondendo le complessità metodologiche e le poten-zialità nella gestione dei processi decisionali. In questa strada la valutazione deve essere considerata un processo che assume un carattere sempre originale, capace di definire disegni di raccolta delle informazioni sempre congruenti con le caratteristiche del processo decisionale che intende supportare. La definizione di tali disegni deve essere orientata da alcuni principi guida che attengono: 1) alla consapevolezza che la valutazione deve consentire un giudizio: un giudizio si basa sempre su aspetti valoriali e informativi e le strategie informative rispondono a proprie regole di verifica della validità, ma la capacità informativa di un dato è fortemente ancorata al valore posto alla base del processo decisionale; 2) al controllo della qualità dei processi di valutazione: la qualità di un processi di valutazione è dato dalla sua capacità di influenzare concretamente i processi decisionali, di essere compatibile con i progetti di intervento e di produrre informazioni valide e attendibili; 3) alla combinazione dell’attendibilità con il costo della raccolta delle informazioni: al crescere dell’attendibilità cercata cresce inevitabilmente il costo e la complessità del disegno di ricerca. Il ricercatore deve imparare a combinare due esigenze

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Giovanni Bertin / La valut-azione come strategia di gestione dei servizi sociali e sanitari

che spingono in direzione opposta, vale a dire la ricerca della massima affidabilità e la necessità di occupare poche risorse.

Riferimenti bibliografici Per quanto riguarda gli aspetti relativi al concetto di razionalità limitata si sono presi in considerazione i seguenti testi: B. Maggi, Razionalità e benessere, Etas Libri, Milano 1990; G.E. Rusconi, Scambio, minaccia, decisione; il Mulino, Bologna 1984; H.A. Simon, Il comportamento organizzativo, il Mulino, Bologna 1958; H.A. Simon, La ragione nelle vicende umane, il Mulino, Bologna 1990; H.A. Simon J.C. March, Teoria dell’organizzazione, Ed. Comunità, Milano 1966; E. Stokey - R. Zeckhauser, Introduzione all’analisi delle decisioni pubbliche, Formez, Napoli 1988; J.D. Thompson, L’azione organizzativa; Isedi, Milano 1993; A. Robertson, Approcci alla presa delle decisioni nel settore sanitario: un’analisi dei concetti, in G. Bertin - M. Niero - E. Ziglio, Politiche di Welfare State e modelli decisionali, Unicopli, Milano 1983. Sull’approccio SCED si possono vedere: G. Bertin, Decidere nel pubblico, Etas Libri, Milano 1989; A. Robertson, L ’uso della self evaluation nella pianificazione dei servizi sociali e sanitari, in G. Bertin (a cura di), Valutazione e sapere sociologico, Angeli, Milano 1995; B. Sheldon, Single Case Evaluation Methods: Review and Prospects, in “Highlights”, n. 8, 1984. Sull’utilizzo della scala di astrazione si veda invece G. Bertin, La valutazione delle politiche e tossicodipendenza, in J. Fagioli P. Ugolini (a cura di), Tossicodipendenza e pratica sociologica, Angeli, Milano 1996.

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Valutazione 1998

Sul concetto di minacce interne ed esterne alla validità si può fare riferimento a L. Bernardi - T. Tripodi, Metodi di valutazione dei programmi sociali, Zancan, Padova 1981. Relativamente ai disegni pre o quasi sperimentali si vedano: L. Bernardi - T. Tripodi, Metodi di valutazione dei programmi sociali, Zancan, Padova 1981; G. Bertin, Decidere nel pubblico, Etas libri, Milano 1989; S. Campostrini, Disegni sperimentali, quasi sperimentali e non sperimentali per la valutazione delle politiche sociali, in G. Bertin (a cura di), Valutazione e sapere sociologico, Angeli, Milano 1995. Le caratteristiche del modello logico sperimentale sono state delineate tenendo presenti i seguenti testi: L. Bernardi - T. Tripodi, Metodi di valutazione dei programmi sociali, Zancan, Padova 1981; G. Bertin, Decidere nel pubblico, Etas Libri, Milano 1989; S. Campostrini, Disegni sperimentali, quasi sperimentali e non sperimentali per la valutazione delle politiche sociali, in G. Bertin (a cura di), Valutazione e sapere sociologico, Angeli, Milano 1995. Relativamente agli aspetti positivi e negativi dell’approccio scientifico si fa riferimento a: A. Bonaldi - F. Focarile - A. Torreggiani, Curare la qualità, Guerini, Milano 1994; A. Donabedian, La qualità dell’assistenza sanitaria, NIS, Roma 1990. Per la definizione dell’approccio manageriale si sono invece considerati i testi di G. Negro, Organizzare la qualità nei servizi, Il Sole 24 Ore, Milano 1992; V.A. Zeithaml - A. Parasuraman - L.L. Berry; Servire qualità, Mc Graw-Hill, Milano 1991. L ’approccio di tipo integrato è stato invece trattato riferendosi a G. Bertin (a cura di), Valutazione e sapere sociologico, Angeli, Milano 1995; G. Bertin - P. Selle, Accreditamento e valutazione della qualità in


Valutazione 1998

Giovanni Bertin / La valut-azione come strategia di gestione dei servizi sociali e sanitari

un sistema di Welfare State, in C. Costanzi - F. Ferraresi, Progettare la qualità negli istituti per anziani, Angeli, Milano1996; A. Robertson, Il concetto di qualità nella valutazione delle politiche sociali, relazione non pubblicata, Sois, Cagliari 1994. Sulle caratteristiche dell’approccio multicriteria si possono vedere G. Bertin, Il governo della multidimensionalità del

processo di valutazione, in G. Bertin (a cura di), Valutazione e sapere sociologico, Angeli. Milano, 1995; D.H. Gustafson - W. Cats-Baril - F. Alemi, Systems to Support Health Policy Analysis, Health Admini-stration Press, Michigan, 1992; C. March J., Decisioni e organizzazioni, il Mulino, Bologna 1993.

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Livia Bovina / I Focus Group. Storia, applicabilità, tecnica

Valutazione 1998

Una

delle tecniche di ricerca basata sul giudizio di esperti più nota e diffusa illustrata

introduttivamente.

Come e quando utilizzarla, quando non si dimostra adeguata, quali sono

i suoi limiti e quali i suoi vantaggi più evidenti.

I Focus Group. Storia, applicabilità,

tecnica

1. Lo sfondo

I

Focus Group sono una tecnica di ricerca applicabile in un approccio valutativo soft, di tipo qualitativo; quando si ritiene opportuno ricorrere a valutazioni, giudizi, opinioni, espressi da professionisti, esperti, o utenti/clienti, per raccoglierne i diversi punti di vista (Bertin, 1986) su un argomento, un processo, un risultato, un prodotto inteso in senso lato. I Focus Group sono interviste rivolte a un gruppo omogeneo di 7-12 persone circa, la cui attenzione è focalizzata su un argomento specifico, che viene scandagliato in profondità. Un moderatore indirizza e dirige la discussione tra i partecipanti e ne facilita l’interazione. Ogni partecipante ha l’opportunità di esprimere liberamente la propria opinione rispetto all’argomento trattato; la comunicazione nel gruppo è impostata in modo aperto e partecipato, con un’alta propensione all’ascolto.

Il contraddittorio positivo che ne consegue consente di far emergere i reali punti di vista, giudizi, pre-giudizi, opinioni, percezioni e aspettative del pubblico di interesse in modo più approfondito di quanto non consentano altre tecniche di indagine. La tecnica (Stewart - Shamdasani, 1990; Morgan, 1993; Krueger, 1994) trae origine dalle ricerche sulle dinamiche dei piccoli gruppi, sulla comunicazione persuasiva, e sugli effetti dei media. Le potenzialità della tecnica derivano, quindi, dalle capacità esplorative insite nella comunicazione interattiva (verbale e non) dei piccoli gruppi. Il ricorso ai Focus è possibile in qualsiasi fase di un programma di indagine. Ma vi sono momenti in cui è di fondamentale importanza utilizzare questa tecnica: in tutte quelle situazioni, cioè, in cui è necessario ricevere un feedback dal pubblico di riferimento sul tema di interesse. In linea generale occorre

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di LIVIA BOVINA


Livia Bovina / I Focus Group. Storia, applicabilità, tecnica

ricorrere ai Focus se le conoscenze sul fenomeno sono scarse, per tracciarne lo sfondo e/o approfondirne gli aspetti positivi e negativi; quando vadano esplorati o approfonditi suggerimenti, opinioni, esperienze, percezioni e aspettative del pubblico di riferimento (interno ed esterno) di un’organizzazione.

2. La storia La tecnica nasce nel 1941 nell’Office of Radio Research della Columbia University: Paul Lazarsfeld chiamò Robert Merton ad assisterlo in una ricerca di valutazione sulle reazioni dell’audience a programmi radio. Denominata focussed group interviews, nella fase iniziale la ricerca si svolgeva in modo molto semplice. I componenti scelti come rappresentativi dell’audience ascoltavano un programma radio registrato e dovevano schiacciare un pulsante rosso nel caso in cui stessero ascolLa chiave per scegliere una strategia appropriata per ottenere un feedback è chiedersi cosa si vuole esattamente realizzare, definire gli obiettivi e stabilire di quali informazioni si ha bisogno. Se l’obiettivo è orientarsi verso il cliente/utente, l’obiettivo sarà superare le aspettative, non semplicemente andare loro incontro. Per raggiungere questo obiettivo, perciò, occorre essere in possesso di informazioni reali sui bisogni del target di riferimento e sulle sue aspettative rispetto a un prodotto o un servizio. Ciò facendo si scoprirà se il processo specifico è adatto allo scopo, se il risultato attuale è soddisfacente o quale tipo di risultato/prodotto/servizio il cliente/utente si aspetta venga realizzato/proposto. L’obiettivo finale è apportare i correttivi o i miglioramenti alle azioni previste o in atto, alla luce dei risultati ottenuti dal feedback (Scholtes, 1990).

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Valutazione 1998 tando qualcosa che evocasse loro una sensazione negativa – noia, fastidio, rabbia, incredulità –, o un pulsante verde in caso di sensazione positiva. Le risposte e il relativo timing venivano registrati con uno strumento simile a un poligrafo, il LazarsfeldStanton Program Analyzer. Alla fine dell’ascolto, un intervistatore chiedeva al gruppo dei partecipanti di focalizzare l’attenzione sia sui punti positivi che negativi rilevati, e di discutere i motivi delle loro reazioni. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, Merton applicò questa tecnica nella Research Branch of the United States Information and Education Division, per l’analisi dei film di addestramento e sostegno morale realizzati per l’esercito. La ricerca, svolta nel corso della guerra e più tardi alla Columbia University, fondò le basi metodologiche della tecnica attuale, e l’elaborazione di uno dei classici sulle dinamiche relative alla persuasione e all’influenza dei media (Merton - Fiske - Curtis, 1946). Il metodo – applicato sia alle interviste individuali che di gruppo – cominciò a diffondersi, a modificarsi attraverso i cambiamenti via via apportati dai ricercatori a seconda delle esigenze specifiche, e a fondersi con altri tipi di interviste di gruppo non applicate ai media.

3. L’applicabilità I Focus Group sono diventati nel


Valutazione 1998 tempo un importante strumento di indagine utilizzato, soprattutto negli Stati Uniti, per finalità diverse e in numerosi ambiti: nel marketing, nella ricerca sociale, nelle analisi valutative di processi, risultati e prodotti, nelle politiche aziendali e sociali, in comunicazione e advertising. Ma la decisione di usare i Focus in un progetto di ricerca può non essere sempre la decisione migliore. Poiché per realizzare differenti obiettivi servono differenti metodologie (Ziglio, 1983), in via prioritaria occorre stabilire l’obiettivo della ricerca e valutare quale tipo di tecnica applicabile sia la più corretta per quell’obiettivo e in quel contesto. Come ogni tipo di tecnica, i Focus vanno inseriti nella strategia giusta per quell’obiettivo, utilizzati nella situazione adatta e al momento opportuno, gestiti da professionisti. La validità dei risultati ottenuti e delle azioni conseguenti dipenderà dalla presenza e dalla buona combinazione di tutti i fattori, ognuno né più né meno importante degli altri. La caratteristica fondamentale dei Focus è la presenza di un gruppo interattivo di pari che risponde direttamente alle domande poste da un moderatore. L ’obiettivo perseguibile con i Focus non è portare il gruppo verso l’assunzione di decisioni, né ricercarne il consenso su un argomento. I Focus enfatizzano l’obiettivo di tirare fuori al massimo da ciascun partecipante le expertise e le opinioni su un argomento specifico, attraverso un confronto costruttivo.

Livia Bovina / I Focus Group. Storia, applicabilità, tecnica

Ogni partecipante deve perciò avere la sicurezza non solo di confrontarsi con altri che condividono lo stesso tipo di esperienza, ma di sentirsi libero di esporre il proprio punto di vista, e di sostenerlo, senza alcun tipo di condizionamento. Daremo di seguito un quadro generale di casi e obiettivi in cui i Focus possono essere applicati con successo. Poiché ogni casistica ha un alto livello di generalizzazione, e nelle situazioni descritte può essere appropriato utilizzare altri metodi di tipo qualitativo, elencheremo inoltre una serie di situazioni in cui è fuori luogo impiegare la tecnica.

4. Quando usare i Focus? “We know, we can do well”. Tutte le volte in cui si ritenga necessario ricevere un feedback dal pubblico di riferimento. Le “linee-guida” per ottenere un feedback costruttivo, possono essere così sintetizzate: 1) riconoscere la necessità del feedback; 2) stimolare feedback sia negativi che positivi; 3) conoscere il contesto; 4) sapere quando creare il feedback; 5) sapere come creare il feedback; 6) sapere come ricevere il feedback. La chiave per scegliere una strategia appropriata per ottenere un feedback è chiedersi che cosa si vuole esattamente realizzare, definire gli obiettivi e stabilire di quali informazioni si ha bisogno. Se l’obiettivo

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Livia Bovina / I Focus Group. Storia, applicabilità, tecnica

è orientarsi verso il cliente/utente, l’obiettivo sarà superare le aspettative, non semplicemente andare loro incontro. Per raggiungere questo obiettivo, perciò, occorre essere in possesso di informazioni reali sui bisogni del target di riferimento e sulle sue aspettative rispetto a un prodotto o un servizio. Ciò facendo, si scoprirà se il processo specifico è adatto allo scopo, se il risultato attuale è soddisfacente o quale tipo di risultato/prodotto/servizio il cliente/ utente si aspetta venga realizzato/ proposto. L ’obiettivo finale è apportare i correttivi o i miglioramenti alle azioni previste o in atto, alla luce dei risultati ottenuti dal feedback (Scholtes et al., 1990). I Focus possono essere utilizzati quando si ritiene necessario ricevere un feedback per: 1) ottenere informazioni di fondo su un argomento; 2) generare ipotesi di ricerca; 3) conoscere gli effetti di prodotti, progetti, programmi, servizi, istituzioni, o altri argomenti di interesse; 4) diagnosticare il potenziale problematico di un nuovo programma, servizio, prodotto; 5) imparare il linguaggio del target circa il fenomeno di interesse, capirne il codice linguistico e identificare le distinzioni sottili delle espressioni; 6) testare in via preliminare il disegno di questionari, e di altri strumenti di ricerca di tipo quantitativo; 7) facilitare e aggiungere profondità di analisi all’interpretazione di risultati quantitativi, ottenuti in survey

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Valutazione 1998 strutturate condotte su vasta scala; 8) confermare o testare un’ipotesi di lavoro, se piccoli e uniformi gruppi di dati e/o soggetti non confermano in modo sistematico l’ipotesi; 9) colmare di informazioni un gap (culturale, decisionale, linguistico, ecc.) tra i decisori e coloro che subiscono le decisioni; 10) intervistare bambini, adolescenti e persone con un basso livello scolare; 11) assumere informazioni complesse riguardo motivazioni, attitudini, abitudini, esperienze, conoscenze e aspettative del target; 12) testare e analizzare gli effetti di campagne di comunicazione; 13) esplorare il grado di consenso su un argomento; 14) ricevere quelle informazioni ottenibili soltanto attraverso la tensione prodotta dal confronto diretto tra pareri contrapposti e l’osservazione della comunicazione verbale e non verbale; 15) scandagliare in profondità un argomento in tempi brevi e a costi relativamente bassi; 16) ottenere risultati facilmente comprensibili dai ricercatori e dai decisori cui è rivolto il programma di indagine.

5. Quando non usare i Focus? “To a man with a hummer, everything is a nail”. Ogniqualvolta la composizione del gruppo indagato o le finalità della


Valutazione 1998 ricerca o l’atteggiamento dei ricercatori non permettono una comunicazione tollerante, spontanea e aperta, tesa all’ascolto e alla comprensione delle opinioni, dei bisogni, delle percezioni e delle aspettative del target indagato. È inoltre controproducente utilizzare i Focus in un gruppo per risolverne i conflitti, costrui-re o cercare consenso, migliorare la comunicazione, cambiare attitudini, opinioni, atteggiamenti, prendere decisioni. Non è opportuno usare i Focus in gruppi formalizzati, gruppi non rappresentativi, in presenza di forti resistenze rispetto a un argomento, in tutte le situazioni che possano creare limiti nella libertà di espressione dei partecipanti. I Focus non possono sostituire le interviste individuali in profondità, se informazioni, opinioni, giudizi, devono essere espressi, per qualsiasi motivo, in forma privata. I Focus non possono sostituire altre tecniche di gestione di gruppo: le famiglie appartenenti alla Nominal Group Tecnique o alla tecnica Delphi, ad esempio, che hanno la finalità di cercare un’opinione condivisa dal gruppo. E, all’opposto, tutti i casi in cui è necessario affrontare il gruppo nelle sue interazioni formalizzate sia a livello di ruoli che di leadership, come le riunioni operative, di coordinamento, di gestione e altre ancora; ancora, i Focus non sostituiscono Brainstorming e Synectis group per stimolare la creatività. Caso per caso dovrà essere applicata la tecnica

Livia Bovina / I Focus Group. Storia, applicabilità, tecnica

più appropriata rispetto all’obiettivo specifico. I Focus non sono uno strumento attendibile per creare proiezioni di carattere statistico. Il numero complessivo di partecipanti non coinvolge un numero di persone sufficiente a tale scopo, né la strategia del campionamento qualitativo dei gruppi conferisce valore proiettivo di tipo statistico ai risultati.

6. La tecnica attuale Goldman (1962) distingue le interviste di gruppo in profondità dalle altre tecniche, sottolineandone il significato e le modalità di svolgimento attraverso l’analisi dei termini: 1) intervista: implica la presenza di un moderatore che usi il gruppo come un mezzo per tirare fuori le informazioni; 2) gruppo: un numero di individui interattivi con comunità di interessi; 3) in profondità: ricerca di informazioni molto più profonde di quanto non sia possibile ottenere a livello di relazioni interpersonali; 4) Focus: l’intervista è focalizzata su un preciso argomento, con pochi punti in discussione. Una volta stabilito (in base alla strategia di ricerca) che la tecnica dei Focus è la più attendibile, la sua applicazione si snoda attraverso le seguenti fasi: 1) determinare l’obiettivo atteso; 2) determinare con precisione il pubblico di riferimento. Un’azienda desidera

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Livia Bovina / I Focus Group. Storia, applicabilità, tecnica

conoscere quale tipo di percezione ha la sua clientela rispetto a un prodotto: la clientela corrente, passata, potenziale? La clientela può avere caratteristiche differenziate a seconda delle aree geografiche? ecc.; 3) creare un indirizzario di soggetti rappresentativi del campione generale considerato; 4) individuare il moderatore e delineare la struttura dell’intervista-guida. Il moderatore e la tipologia delle domande devono essere conciliabili tra loro e con il gruppo da intervistare. Un moderatore eccellente nell’intervistare un gruppo di bambini può non essere il più adatto come facilitatore di un gruppo di ingegneri che discutono le caratteristiche tecniche di un prodotto complesso. Il facilitatore è una figura chiave e, generalmente, fa parte del team di ricerca. Negli Stati Uniti i Focus sono utilizzati in modo talmente diffuso in ricerche qualitative di vario tipo (comunicazione, mar-keting, consumer satisfaction), dall’avere creato la professionalità specifica dei facilitatori. Alcune tra le abilità e capacità richieste nella selezione professionale dei facilitatori sono: conoscenza e padronanza delle dinamiche di gruppo e delle tecniche di gestione, capacità comunicative, empatia, apertura mentale, conoscenza dell’argomento da affrontare, buon livello di cultura generale, flessibilità, capacità analitiche e sintetiche, spontaneità, intuizione, leadership innata; 5) determinare con precisione che cosa

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Valutazione 1998 si vuole sapere. La struttura-base dell’intervista è realizzata al meglio se è tracciata in collaborazione con tutte le parti interessate alla ricerca, inclusi i decisori che utilizzeranno i risultati, i ricercatori e il facilitatore, che può entrare a far parte del team anche in questa fase. La struttura dell’intervista è finalizzata a dirigere la discussione, non è la versione verbale di un questionario. Il testo guida dell’intervista è formato da poche domande chiave (al massimo una dozzina); le domande sono strutturate il meno possibile e non suggeriscono mai alcuna risposta potenziale. Nel delineare le domande-guida dovrebbero essere osservati due principi di base: partire da domande di carattere più generale per passare via via a domande più specifiche, e ordinarle in ordine di importanza in relazione agli scopi della ricerca. Nella pratica, invece, si verifica spesso di passare da domande generali a specifiche, approfondire aspetti precisi e poi riprendere un aspetto generale dell’argomento trattato. Ciò dipende dal tipo di argomento e dall’andamento della discussione: il moderatore non è legato alle domande, ma all’obiettivo di approfondire al massimo i punti-chiave, e ha quindi un ampio margine di flessibilità. Non è mai consi-gliabile un solo Focus: il numero minimo consigliabile, ma relativo in base alla complessità dell’argomento, è di almeno tre Focus. Il primo serve a testare la validità dell’intervistaguida elaborata a tavolino: spesso


Valutazione 1998 ciò che viene considerato importante e saliente per i ricercatori non lo è altrettanto per gli intervistati, ed è il loro punto di vista che va sondato; 6) composizione del gruppo. Ogni Focus sarà composto da soggetti quali-tativamente rappresentativi del campione, che formeranno un gruppo omogeneo rispetto alle caratteristiche principali del comportamento di gruppo, perché il gruppo si muoverà attraverso le dinamiche di relazione caratteristiche di tutti i gruppi. Gli studi sulle influenze del comportamento nel gruppo relativi alle dimensioni intrapersonali, interpersonali e ambientali sono l’intelaiatura che indirizza verso una composizione del gruppo consona a una comunicazione aperta. Dovranno essere quindi evitati al massimo tutti i possibili impatti che possano impedirla o soffocarla; 7) organizzazione dei Focus. Ogni Focus sarà formato da 7-12 soggetti disponibili, reperiti tra la lista campionaria. Può non essere affatto semplice ottenerne la disponibilità: occorre superare gli ovvi ostacoli che si incontrano nel riunire un gruppo di persone, ognuna con impegni già stabiliti, e occorre motivarle alla partecipazione. Il luogo di incontro deve essere comodamente raggiungibile e il più adeguato rispetto alla composizione del gruppo (da una sala dell’aeroporto, o di un centro congressi, a una sala di un centro turistico o di un centro servizi, ecc.). Già dal primo tentativo telefonico per reclutare i partecipanti deve

Livia Bovina / I Focus Group. Storia, applicabilità, tecnica

essere espressa la motivazione che è fondamentale avere il loro parere, che sarà utilizzato in modo concreto per portare miglioramenti successivi. Questa motivazione può non essere sufficiente per superare le barriere degli impegni; secondo la tipologia del campione possono essere offerti incentivi di vario genere che vanno studiati caso per caso; 8) conduzione. Un Focus si snoda in un lasso di tempo che varia da un minimo di 90 minuti a un massimo di due ore e trenta. La qualità dei risultati ottenuti da un Focus è direttamente proporzionale alla qualità della conduzione. I partecipanti devono immediatamente sentirsi a proprio agio e in un’atmosfera percettiva, non valutativa; ma, allo stesso tempo, il moderatore deve pilotare l’argomento sui punti chiave e mantenere sempre la leadership del gruppo, assicurando sia il controllo di personalità dominanti, che la partecipazione degli introversi. Uno o più osservatori esterni assistono all’incontro, senza alcuna interazione diretta con il gruppo e con il moderatore; hanno il compito di analizzare le reazioni verbali e non verbali dei partecipanti. L ’incontro viene registrato o filmato: i partecipanti ne devono essere informati, spiegando loro che ciò permetterà un’analisi migliore dei risultati, che saranno espressi in forma anonima; 9) analisi dei dati. La natura dell’analisi dei dati, il totale dei dati, il loro livello di dettaglio e di rigore dipende dagli scopi per cui sono

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Livia Bovina / I Focus Group. Storia, applicabilità, tecnica

stati raccolti i dati stessi, e da una valutazione costo/efficacia di un dato livello di analisi rispetto all’obiettivo. Uno degli scopi più frequenti dei Focus è l’esplorazione in profondità di un argomento di cui si sa poco. Per una ricerca esplorativa è spesso sufficiente una descrizione narrativa – tratta dalla trascrizione dell’intervista –, arricchita con le osservazioni del moderatore e degli osservatori esterni. Ci sono situazioni in cui non è necessario sbobinare l’intervista: se i risultati sono estremamente evidenti e semplici da rilevare. Se il Focus è propedeutico a una rapida assunzione di decisione, i decisori possono far parte del gruppo di lavoro anche come osservatori esterni, discutere i risultati con il team e trarne immediatamente il rapporto. Se, invece, l’obiettivo è esplorare nel dettaglio le ragioni per cui un certo programma non è accettato e quali tipi di programmi potrebbero esserlo, è necessario ricorrere a un’analisi approfondita e rigorosa. In questo caso, gli step dell’analisi si snodano attraverso la trascrizione fedele dell’intervista, l’aggiunta delle osservazioni del facilitatore e degli osservatori punto per punto, l’applicazione della tecnica cut-andpaste al testo (il team identifica le sezioni rilevanti, identifica e assegna un simbolo a ogni argomento, assembla per categorie gli argomenti, li snoda secondo livelli evolutivi), il team discute in profondità i risultati, aggregando uno o più analisti esterni; se questo livello di analisi

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Valutazione 1998 del contenuto non è sufficiente, viene applicato un approccio ancora più rigoroso attraverso l’uso della famiglia metodologica chiamata Content Analysis (Pragma-tical, Semantical, Sign-vehicle Analysis), assistita o meno da programmi informatici. La stesura del rapporto finale chiude la valutazione dei risultati.

7. Qui e ora Agenzie di comunicazione globale sono sensibili all’utilizzo dei Focus, soprattutto per realizzare indagini sull’immagine percepita di un’azienda o di un prodotto da parte dei consumatori. I Focus sono recentemente balzati alla cronaca nel corso delle lezioni nazionali del 1994, pubblicizzati da una delle parti politiche come lo strumento di indagine sulle opinioni, aspettative e propensioni politiche degli elettori, che ha consentito risultati vincenti. Ma in Italia i Focus, così come la ricerca sociale applicata in generale e la ricerca valutativa in particolare, vengono poco utilizzati. Le ragioni, molteplici, vanno dal soffocamento della ricerca alla scarsa attenzione della ricerca sociale agli aspetti applicati, alla scarsis-sima propensione delle organizzazioni (profit e non) a investimenti non immediatamente produttivi. Si potrebbe aprire un dibattito interessante con le organizzazioni pubbliche e private sulla reale propensione alla realizzazione del


Valutazione 1998 Sistema Qualità, ecc. Se, infatti, simbo-lizziamo il Sistema Qualità come un triangolo, un angolo rappresenta la qualità così come viene definita dai consumatori (intesi come clienti/utenti), il secondo un approccio scientifico di analisi del processo su cui poggia la formulazione di una strategia a lungo termine. Il terzo angolo rappresenta, infine, il lavorare in team e imparare ad applicare questi principi. Il Sistema Qualità sposta l’enfasi dal profitto alla qualità, e la qualità comincia dal consumatore. I consumatori sono le persone che ricevono il lavoro: soltanto essi possono decidere quale è la Qualità, dire cosa vogliono e come lo vogliono. Il Focus della qualità è quindi migliorare i prodotti e i servizi (Scholtes et al., 1990). I Focus vengono considerati una tecnica poderosa per capire e operare nel mondo reale: ascoltare e capire diversi punti di vista può cambiare le prospettive. Sono chiare, in tutto questo, le implicazioni etiche: ciò fa parte di un bagaglio deontologico e di una tensione morale che dovrebbe appartenere a ogni ricercatore.

Livia Bovina / I Focus Group. Storia, applicabilità, tecnica

Riferimenti bibliografici Bertin G. (1986), Decidere nel pubblico. Tecniche di decisione e valutazione nella gestione dei servizi pubblici, Etas Libri, Milano. Goldman E. (1962), The group depth interview, in “Journal of Marketing”, 26. Krueger R.A. (1994), Focus Group. A Practical Guide for Applied Research, Sage, Newbury Park, CA. Merton R.K. - Fiske, M. - Curtis A. (1946), Mass persuasion, Harper and Row, New York. Morgan D.L (1993), Successful Focus Group. Advancing the State of the Art, Sage, Newbury Park, CA. Scholtes P.R. et al. (1990), The Team Handbook, Joiner Associates Inc. Stewart D.W. - Shamdasani P.N. (1990), Focus Group. Theory and Practice, Sage, Newbury Park, CA. Ziglio E. (1983), Un problema per la razionalità decisionale: la valutazione, in Bertin G. - De Sandre I. - Niero M. - Ziglio E., Il sapere per la riproduzione sociale, Cleup, Milano.

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Valutazione 1998

Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

Un approccio concettuale introduttivo al tema della valutazione della qualità dei servizi alla persona, che prende corpo in alcuni passaggi fondamentali quali il processo di percorso, la cura e il percorso di guarigione.

La

qualità nei servizi territoriali alla persona

1. Premessa

C

on questo lavoro si vuole percorrere un itinerario di ricerca che sviluppa il concetto di qualità ancorandolo a un campo di osservazione, la produzione di servizi alla persona (Servizi territoriali); a un contesto di significati sociali, pratiche e organizzazioni, la salute; a un ambito normativo, la legge di riforma del sistema sociosanitario (DL 502/1992, successivamente modificato dal DL 517/1993, con uno specifico riferimento all’art. 14). La qualità è considerata quale attributo della relazione sociale di cura e come una funzione dell’organizzazione (il sistema di Welfare). La qualità è dunque, da un lato, connessa all’individualità della persona, ai significati e al senso dell’azione prodotti e condivisi entro spazi vitali; dall’altro lato, essa è legata sia ai ruoli sociali che i vari attori giocano sia all’organizzazione del sistema di Welfare. L ’ipotesi generale,

proposta e sviluppata nelle pagine che seguono, sostiene l’esistenza di interdipendenze tra gli aspetti funzionali e strutturali dell’organizzazione (il Servizio territoriale), il sistema individuale (la persona inserita nel suo mondo della vita) e le funzioni macro-sistemiche svolte dal singolo Servizio-sistema. Il punto di vista adottato per leggere tali interdipendenze è quello della “domanda”, cioè dei cittadini-utenti del sistema sociosanitario-assistenziale. Il modello interpretativo della qualità, illustrato nel paragrafo 2, sviluppa dunque due assunti: un Servizio produce qualità nella misura in cui è orientato alla persona; la persona entra a far parte costitutivamente del processo di produzione del servizio. Tale è la cornice che ricompone le dimensioni della qualità indicate dall’art. 14 e sostiene concettualmente il loro percorso di operativizzazione, volto a consentire l’elaborazione di un modello per la valutazione di qualità nei Servizi territoriali alla persona.

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di DANIELA CECCHETTI


Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

Valutazione 1998 2. I due termini della qualità: la persona ed il processo di servizio Applicare una prospettiva di tipo olistico allo studio del sistema dei Servizi alla persona significa dunque, sul piano epistemologico, adottare il punto di vista della domanda (i cittadini-utenti e la comunità locale), che è appunto lo spirito di questo lavoro; sul piano analitico-teorico, assumere quali aspetti prioritari del sistema organizzativo l’orientamento alla persona e il processo di produzione-fruizione del servizio. I due termini che ancorano teoricamente il concetto di qualità sono dunque la persona e il processo di servizio. La persona, intesa qui anche come sistema individuale, è vista nella sua interezza di individualità, soggettività e attore sociale. Anche nell’interazione con un Servizio, infatti, la persona è portatrice di una propria identità, di vissuti complessi e articolati a più livelli, comunque tra loro integrati seppure, spesso, con modalità intra-psichiche e/o inter-personali problematiche. L ’orientamento alla persona richiede pertanto, nel processo di produzione-fruizione del servizio, il riconoscimento e il rispetto di questa complessità nonché la sua valorizzazione a scopi terapeu-tici. La persona come individualità è, innanzi tutto, sistema biopsichico e personalità. Rappresenta l’unicità esistenziale, biologica e storica, di ciascuno ed è indicata dall’esperien-

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za della corporeità come organismo (Korper) e come coscienza del corpo (Leib), dai vissuti coscienziali (empatia, introspezione e motivazione), dalla configurazione evolutiva della personalità. È evidente che a questo primo livello di articolazione del concetto di persona, l’enfasi posta sull’aspetto della individualità è motivata, innanzitutto, dal fatto che la produzione-fruizione di un servizio di cura per risultare efficace deve essere necessariamente personalizzata; secondariamente, la produzionefruizione di un servizio di cura in quanto coincide con l’interazione tra operatore e utente-paziente, inevitabilmente non può prescindere dalle specificità biopsichiche e di personalità delle persone coinvolte nella relazione di cura. La persona come soggettività indica invece un primo ambito di socialità, semplice e originario, entro il quale la persona sperimenta la certezza e la realtà del mondo nel quale è immersa, fondando tali certezze sul senso comune (Jedlowsky, 1994). La dimensione spazio-temporale dell’in-terazione, vale a dire la sua continuità nella quotidianità, contribuisce a identificare la persona come io e come altro generalizzato. In effetti, è proprio nelle relazioni faccia a faccia che vengono selezionati quegli “altri significativi” in rapporto ai quali il sé individuale prende forma e si definisce. Da questo punto di vista, gli stili di consumo rappresentano una traduzione esperienziale della persona in-


Valutazione 1998 tesa come soggettività. Le abitudini, i patterns di comportamento e certi habita mentali che così grandemente influenzano l’idea di salute, l’insorgenza dei bisogni nonché l’espressione di una domanda di cura e le modalità del suo soddisfacimento, trovano dunque nelle relazioni di mondo vitale il terreno privilegiato di origine e sviluppo. La persona come attore è vista quale nodo di un sistema strutturato di relazioni sociali rispetto al quale convergono aspettative e norme prodotte e applicate con diversi gradi di condivisione. La persona è pertanto anche il centro di un sistema strutturato di ruoli sociali in grado sia di determinare la posizione sociale del soggetto oltreché le sue potenzialità acquisitive, sia di indicare il grado di conflittualità/ adattamento della persona verso il sistema sociale. Può risultare utile l’applicazione della teoria della rational choice in riferimento ai ruoli di cliente, contribuente e cittadino che la persona può giocare, a seconda della situazione, nei confronti del sistema socio-sanitario-assistenziale. L ’atto di rivolgersi a un Servizio, ad esempio, è anche un’azione intenzionale-razionale, posta in essere per raggiungere un risultato, ottimizzando il proprio interesse e le risorse che è necessario spendere per sostenerlo. L’assunzione dei ruoli sopra menzionati, in virtù delle particolari aspettative che la persona matura nei riguardi del sistema di Welfare sul piano economico (cliente

Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

e contribuente) e su quello politico (cittadino), può svolgere infatti l’importante funzione di vivificare dal basso le transazioni micro-macro con delle ricadute positive soprattutto verso i sottosistemi economico e politico. Il secondo termine della qualità è costituito dal processo di servizio, ovvero dall’organizzazione del processo di produzione-fruizione del servizio di cura. La qualità dunque, piuttosto che essere un mero attributo della funzione specialistica del controllo di qualità e rappresentare solo una misura del risultato, è qui considerata una filosofia che permea l’intera organizzazione (Normann, 1992). La prassi aziendale che consegue si fonda sulla preminenza assegnata a una serie di fattori connessi al sistema organizzativo. Sono almeno quattro gli aspetti relativi all’organizzazione e alla gestione di un Servizio in grado di incidere fortemente sul processo di produzione della qualità: 1) il concetto di servizio. Può essere utile, al fine di comprendere la specificità produttiva delle aziende di servizio, introdurre due specificazioni: la prima è relativa al compresenza nel servizio di aspetti oggettivi, vale a dire in qualche modo misurabili, e soggettivi, ovvero connessi alle capacità di relazione e gestionali degli operatori; la seconda è riferita alla distinzione tra nucleo centrale e nucleo periferico del servizio. Anche nei Servizi socio-sanitari-assistenziali l’elemento dell’integrazione tra i

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Valutazione 1998 due nuclei del servizio in un unico “pacchetto” è cruciale, risponde infatti alla duplice esigenza della persona-lizzazione sia del processo di servizio vista in rapporto alla tipologia della domanda e ai bisogni della persona sia dell’articolazione dei servizi offerti a seconda delle loro potenzialità terapeutiche. 2) La sovrapposizione tra le funzioni socioeconomiche della produzione e del consumo. Tipicamente nella produzione di servizi la persona figura contemporaneamente come consumatore finale e come elemento integrante della produzione del processo di servizio. Il neologismo prosumer sintetizza efficacemente il peso strategico degli utenti-pazienti nell’organizzazione del Servizio. La produzione di servizi è pertanto un’attività personality intesity, nella quale cioè, indipendentemente dai supporti tecnologici a disposizione, la qualità dell’intero processo e del suo esito è funzione degli aspetti di individualità e soggettività delle persone coinvolte direttamente nella relazione di care. Il concetto di azienda personality intensity richiama quello, anch’esso tipico delle aziende di servizio, di innovazione sociale. Infatti, affinché l’alta intensità di personalità che caratterizza il processo produttivo e il risultato degli interventi di cura possa tradursi in una produzione quotidiana di qualità, è necessario innovare la gestione della risorsa umana. Gli ambiti sui quali intervenire sono relativi principalmente alla configurazione del

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sistema dei ruoli professionali, ai percorsi di carriera, alla formazione in itinere, alla prevenzione dello stress e del burn out, alla motivazione al lavoro. La funzione dell’innovazione sociale assume dunque la peculiarità di essere riferita non tanto alle componenti hard dell’organizzazione, strutture e tecnologie, quanto piuttosto alla risorsa umana e al processo di servizio. Ciò vale a maggior ragione nei Servizi territoriali alla persona ove il fattore tecnologico riveste un peso del tutto secondario rispetto alla produzione del servizio che, all’opposto, è centrata sulla relazione di aiuto tra operatore e persona. Tale considerazione ha un immediato risvolto anche per ciò che riguarda la valutazione di qualità. Infatti, solo l’ottica del “punto di vista della domanda” può realmente dare conto della complessità e delle peculiarità inerenti all’organizzazione e al funzionamento del sistema di Welfare e delle sue articolazioni sub-sistemiche. Tradurre questa asserzione nel linguaggio della qualità significa, ad esempio, assegnare una priorità euristica alla valutazione di processo, invece che a quella di esito, nella quale anche l’innovazione sociale diventa una variabile determinante. 3) La centralità della risorsa umana nella progettazione del Servizio. Si parla a tale proposito di personnel idea proprio per indicare un modello di congruenza tra gli elementi strutturali e funzionali dell’organizzazione da un lato, le motivazioni e le attese


Valutazione 1998 del personale impiegato, dall’altro. La personnel idea di un’azienda è applicata soprattutto alla selezione del personale, alla configurazione dei ruoli e delle carriere, allo sviluppo organizzativo. Essa realizza, pertanto, il passaggio da un’organizzazione tendenzialmente burocratica basata sulle mansioni, a una di tipo sistemico, centrata su un sistema flessibile di ruoli a ridondanza funzionale, ove acquista valore professionale più che una spiccata competenza specialistica e settoriale, la sapienza tecnico-organizzativa (Giuli, 1993, p. 20). In riferimento ai Servizi alla persona l’importanza della gestione della risorsa umana assume almeno due valenze. L ’una, immediatamente riferibile all’operatività, è relativa appunto alla ricaduta della personnel idea sulla qualità del processo di servizio. L ’altra, meno immediata, è connessa alla necessità di gestire la complessità dell’ambiente esterno, in questo caso ambiente umano, e dell’ambiente interno essenzialmente nella direzione di sviluppare nell’organizzazione una riflessività, individuale e sistemica, atta all’evitamento di effetti perversi quali lo stress e il burn out degli operatori e la croni-cizzazione della domanda di aiuto. 4) L ’immagine del Servizio. Infine, l’immagine viene intesa quale insieme relativamente coerente di credenze e opinioni, riferito a un oggetto, sulla base del quale il soggetto agente attribuisce un senso e comprende la realtà verso la quale

Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

si rapporta. Da questo punto di vista, l’immagine surdetermina nel soggetto la definizione della realtà nella misura in cui la stabilità dei suoi contenuti ne rafforza le capacità comunicative e di mediazione simbolica (“un’altra interessante caratteristica dell’immagine [...] è la sua tendenza a rafforzare se stessa e, una volta che si è consolidata, persino ad autorealiz-zarsi”: cfr. Normann, 1992, p. 137). L’immagine influenza quindi la natura delle aspettative della persona verso il Servizio e le modalità della loro interazione, inoltre condiziona il posizionamento strategico del Servizio entro il suo ambiente esterno di riferimento; ad esempio, la collocazione in termini funzionali e di potere di un singolo Servizio entro il macro-sistema di appartenenza. Muovendo da queste argomentazioni e dal fatto che la sperimentazione della qualità e la sua valutazione da parte della domanda avviene nel cosiddetto momento della verità (Normann, 1992, p. 186), è possibile ora sottolineare l’importanza di alcuni percorsi operativi al fine di promuovere e produrre la qualità. Qualora il processo di produzione-fruizione del servizio sia stato im-prontato all’applicazione di una filosofia globale della qualità e, conseguentemente, al raggiungimento di certi standard, la qualità dell’in-terazione Serviziopersona sarà infatti una funzione: 1) del grado di apertura del sistemaServizio agli scambi con la comunità locale (ambiente esterno);

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Valutazione 1998 2) della possibilità di creare e trasmettere all’interno del Servizio un clima organizzativo positivo; 3) della capacità dell’operatore di rendere la persona in grado di partecipare efficacemente al processo di produzione del servizio; 4) della ricerca di continui feedback sul lavoro degli operatori; 5) del rinforzo applicato a ogni stimolo atto a stabilire una comunicazione significativa tra l’operatore e la persona; 6) della capacità di usare l’empatia quale strumento per instaurare una relazione efficace e vitale tra operatore e persona. Il momento della verità coincide pertanto con la fase più importante del processo di produzione del servizio, quella cioè del confronto diretto tra l’operatore e la persona. Si tratta di un momento clou poiché solo il soddisfacimento dei bisogni e delle aspettative dell’utente-paziente, a un certo livello di qualità, consente di ottenere la circolarità del processo medesimo e la lealtà della domanda, con la conseguente crescita più che proporzionale delle reciproche utilità.

3. Percorso di guarigione e processo di cura: ipotesi per un modello interpretativo della qualità Il modello interpretativo della qualità qui proposto sviluppa concettualmente e operativizza i due ambiti teorici della persona e del processo

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di servizio focalizzando, rispetto a quest’ultimo, il momento del-l’interazione Servizio-persona (momento della verità). Ognuno dei due ambiti esprime una dicotomia concettuale che corrisponde, dal punto di vista sostanziale, a due visioni contrapposte in merito al concetto di salute, al modello organizzativo e in special modo all’operatività di un Servizio; dal punto di vista formale, a due estremi di un iter processuale che, pur presentando al suo interno forti discontinuità e contingenze, può essere compiuto per riorganizzare la produzione del servizio orientandola verso la qualità totale. Il processo di produzione-fruizione del servizio corrisponde al cambiamento terapeutico, a quel processo cioè ove la relazione operatore-persona e il contesto organizzativo considerato nel suo complesso (il sistema-Servizio, il sistema di Welfare e la comunità locale), rappresentando essi stessi l’unico strumento per costruire un cambiamento, intervengono allo scopo di modificare una configurazione relazionale patogena, centrata su forme di disagio, esclusione sociale, dipendenza. Il processo di cambiamento terapeu-tico agisce quindi sulla struttura che connette i due termini dell’in-terazione, persona e processo di servizio, sia all’interno di ciascuno di essi sia tra i termini suddetti. Il cambiamento terapeutico interviene sulla struttura che connette i tre livelli del sistema individuale, individualità, soggettività e attore; contemporaneamente,


Valutazione 1998 esso ridisegna in modo tipico la relazione sistema individuale-ambiente sociale esterno. Le modalità ideal-tipiche del processo di cambiamento terapeutico che si sono qui individuate sono il percorso di guarigione e il processo di cura . Nel percorso di guarigione la persona si rapporta al Servizio come utente. La relazione, fortemente asimmetrica, è sbilanciata a favore del sistema socio-sanitario e assistenziale che definisce e conferma in modo autonomo i bisogni e la domanda dell’utente, rispettando la rigida sequenza domanda espressa-prestazione. La persona è accolta principalmente come portatrice di ruoli sociali ed espressione di un’appartenenza socioculturale relativamente precisa. I bisogni dell’utente e la sua domanda di aiuto vengono decodificati dal Servizio quali sintomi riferiti essenzialmente alla dimensione manifesta del disagio, meglio ancora se codificabile in termini clinico-sanitari. Il Servizio si riproduce dunque con le modalità comunicative auto-referenziali del sapere razionale-legale e tecnico, persegue inoltre l’obiettivo del mantenimento della propria identità sistemica, enfatizzando soprattutto due funzioni con forti valenze macro sistemiche: quelle dell’adattamento e della regolamen-tazione attraverso il controllo-contenimento dei comportamenti devianti. Dal punto di vista della prassi, il percorso di guarigione si traduce essenzialmente nell’erogazione di prestazioni

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specialistiche più che nella progettazione di un intervento globale, cioè di un programma di intervento centrato sulla persona, orientato alla qualità e modulato sul raccordo tra tutte le risorse presenti e/o attivabili entro un dato ambiente sociale. Il percorso di guarigione delinea dunque una situazione nella quale l’utente non è attivamente coinvolto nella costruzione del programma né, tanto meno, la sua partecipazione è cogente rispetto alla produzione del cambiamento terapeutico. La collocazione spazio-temporale elettiva della persona-utente è individuata, pertanto, nella fase finale del processo di servizio, quella della frui-zione. L’importanza attribuita alle regole più che ai valori, al contenimento e CAMBIAMENTO TERAPEUTICO: CARATTERISTICHE DEL PERCORSO DI GUARIGIONE E DEL PROCESSO DI SERVIZIO

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Valutazione 1998 al controllo più che all’integrazione del soggetto in spazi vitali transattivi e autonomi può trovare un riscontro possibile nella customer’s satisfa-ction. Qualora le prestazioni offerte dal Servizio rispondano adeguatamente alla domanda e alle aspettative dell’utente si ottiene infatti la cosiddetta soddisfazione del cliente (Colozzi, 1994). È evidente che le aspettative e la domanda soddisfatte corrispondono semplicemente a un primo e superficiale livello di esplicitazione del bisogno di cura ove la compliance, seppure auspicabile, non è necessaria. Nonostante ciò, è comunque possibile che la soddisfazione dell’utente dia origine e alimenti un circolo virtuoso della qualità. In effetti, la percezione, da parte sia dell’operatore che dell’utente, dell’avvenuta soddisfazione di una domanda, anche se minima, rappresenta essa stessa un indicatore dell’esistenza di un micro-circolo della qualità (Normann, 1992, p. 206). La soddisfazione dell’utentecliente è il principale fattore che, virtuosamente appunto, alimenta la ricorsività del processo di cambiamento terapeutico. Ciò soprattutto in due direzioni: la fedeltà (Giuli, 1993, p. 39) in riferimento all’utente e la motivazione al lavoro in rapporto agli operatori. In realtà, un processo di servizio che ricalchi nella sostanza la traccia del percorso di guarigione difficilmente riesce a mettere in atto relazioni e dinamiche organizzative di mediolungo periodo tali da salvaguardare

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l’organizzazione e la persona dagli esiti perniciosi degli effetti strutturali e degli effetti perversi derivati dall’azione di cambiamento terapeutico. Tale fatto incide inevitabilmente in modo negativo sulle reali possibilità di assicurare, con continuità e sistematicità di intervento, degli standard accettabili di qualità del servizio offerto. La formazione di macro-circoli viziosi della qualità, in conseguenza sia del deficit di cultura organizzativa (riflessività) e della capacità di management (gestione), sia dell’azione dei processi di stigmatizzazione verso la domanda e verso gli operatori del Servizio, rappresenta il segnale dei principali rischi che il sistema di Welfare corre a causa della sua organizzazione sistemica e dei suoi orientamenti valoriali ed epistemologici. Ancora, tali effetti strutturali possono avere delle ricadute nella produzione del servizio che si traducono in fenomeni di tipo iatrogenetico (effetti perversi) quali lo stress e/o il burn-out degli operatori e la cronicizzazione della domanda, problemi questi assai diffusi nei Servizi alla persona. In estrema sintesi, si può sostenere che pur esistendo la possibilità che un percorso di guarigione soddisfi una certa domanda di cura, originando un micro-circolo virtuoso della qualità, tale processo tipicamente: 1) preclude la possibilità di oltrepassare il livello della domanda esplicita di cura per arrivare ad analizzare i bisogni di salute della persona, ostacolando con ciò l’evoluzione


Valutazione 1998 delle modalità interattive da quelle Servizio-utente verso quelle che necessitano di una maggiore compliance della persona, fino alla sua piena partecipazione al cambiamento terapeutico e al coinvolgimento delle risorse comunitarie; 2) rende praticamente impossibile il passaggio dal micro al macro-circolo virtuoso della qualità a causa del peso che assumono gli effetti strutturali e quelli perversi; 3) limita nel tempo e nello spazio, la qualità degli interventi che lo sostanziano. Nel rapporto sistema individuale/sistema di Welfare il percorso di guarigione esprime una complessità di tipo triviale dove l’organizzazione è rigidamente strutturata, la persona è alienata rispetto ai propri bisogni e le reciproche determinazioni risultano essere altamente prevedibili. Facendo riferimento allo studio di Ardigò (1994-1995, p. 122), si propone uno schema, adattato alle esigenze conoscitive di questo lavoro (cfr. Tipologia della complessità), il quale mette a confronto la qualità comunicativa dei due termini del processo di servizio (persona e sottosistema socio-sanitario e assistenziale) e speci-ficatamente la capacità comunicativa della persona da un lato, e la natura della connettività sistemica dall’altro. La figura descrive le configurazioni tipiche del processo di servizio e al tempo stesso individua le potenzialità evolutive del

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cambiamento terapeutico proprio nelle forme spurie di complessità. Sono infatti soprattutto le capacità comunicative dell’ambiente umano a produrre quegli input in grado di stimolare dei mutamenti significativi e sostanziali nel processo di cambiamento terapeutico (complessità di tipo B). Rispetto al modello di qualità qui proposto, un primo importante stimolo in tal senso proviene dalla persona nel momento in cui essa sperimenta la compliance soddisfatta verso il processo di servizio (la compliance, nella definizione che ne dà Ardigò, è considerata una “intenzionalità comportamentale con cui il paziente segue il trattamento raccomandato dal medico”: cfr. Ardigò,1994-1995, p. 21). La compliance assume dunque il duplice significato di un saper fare che si apprende nel corso di un’interazione e di una capacità comunicativa potenzialmente non alienata, seppure esperita all’interno di un contesto di azione ove i soggetti

tipologia della complessità

Forme pure di complessità: A) complessità triviale D) complessità non triviale Forme spurie di complessità: B) con delle potenzialità C) estremamente problematica

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Valutazione 1998 interpretano e giocano ruoli ancora fortemente asimmetrici (operatore e utente-paziente). Nonostante ciò, l’elemento di intenzionalità comportamentale inerente alla compliance della persona, arricchendo vieppiù la soddisfazione verso il processo di servizio, introduce la possibilità di un salto evolutivo circa la natura del cambiamento terapeutico, direzio-nando tale possibilità verso un modello di processo di cura. Nel processo di cura la persona interagisce con il Servizio in qualità di partner. La persona viene cioè accolta nella sua pienezza di essere biopsichico e culturale, è vista dunque come portatrice e sintesi sui generis di un’individualità, una soggettività e di un sistema di ruoli sociali. L ’approccio olistico alla salute si esplica preliminarmente nel valutare la domanda di cura, adottando un’ottica siste-mica e relazionale: non più quindi il singolo individuo sintomatico, bensì la persona sofferente entro un sistema relazionale patogeno; l’oggetto dell’intervento si sposta pertanto dal sintomo alla rete sociale primaria e secondaria della persona e alla comunità locale. La domanda di cura viene letta in connessione alle funzioni manifeste e a quelle latenti che essa svolge all’interno del sistema relazionale cronico. È per questo che il livello esplicito della domanda, seppure necessario, non è sufficiente ad attivare un reale processo di cura, occorre perciò valutare, anche in prospettiva spazio-temporale, i bisogni latenti

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della persona. Il bisogno di salute si traduce dunque in una domanda di aiuto solo passando attraverso mediazioni psichiche (mediazioni intra-psichiche) e simbolico-culturali (mediazioni sociali). Il disagio e la sofferenza si manifestano proprio nelle dinamiche intrapsichiche e rela-zionali, nella loro incapacità di mediazione efficace, nelle loro valenze disfunzionali rispetto alla salute della persona. Per tale motivo, una capacità comunicativa peculiare quale l’empatia risulta essere uno strumento fondamentale, soprattutto nel lavoro professionale degli operatori impegnati nei Servizi alla persona, in quanto agisce senza bisogno di mediazione alcuna nella direzione di stabilire comunque una comunicazione ego-alter significativa e profonda. Il processo di cura comprende dunque la persona nella sua interezza, il cambiamento terapeutico che si ottiene è pertanto una funzione della partecipazione della persona al processo di servizio. La complessità del rapporto sistema individuale/ Servizio è qui di tipo non triviale (tipo D della tipologia della complessità): da un lato, le persone sono potenzialmente consapevoli di sé in senso pieno e non alienato seppure problematico; dall’altro lato, l’organizzazione del Servizio essendo aleatoria è in grado di accogliere gli stimoli provenienti dall’ambiente umano e dall’ambiente esterno trasformandoli in un accrescimento della varietà fun-


Valutazione 1998 zionale interna. Di conseguenza, le transazioni micro-macro-micro sono consustanziali al processo di cambiamento terapeutico e si esplicano essenzialmente nell’elevata capacità di auto-osservazione riflessiva che la relazione operatore-persona può attivare, sia verso il micro (la persona e la sua rete relazionale) sia verso il macro (il sistema-Servizio e il sistema comunitario). In questo senso, la qualità di un processo di servizio configurato come processo di cura costituisce appieno “una proprietà dell’organizzazione che permette di ottenere, in un arco temporale definito, il massimo di cambiamento terapeutico in rapporto ai bisogni di salute e alle aspettative della persona” (Braccio-forte - Cecchetti - Ferraris, 1994-1995). Le dinamiche sottostanti al processo di cura, di natura partecipata, aprono il campo della transazione micro-macro da un lato, verso la flessibilità, una maggiore aderenza alla realtà, la ricorsività e modifi-cabilità del progetto terapeutico; dall’altro lato, verso il cambiamento e lo sviluppo organizzativo. Il processo di cura origina pertanto sia micro- che macro-circoli virtuosi della qualità. Questi ultimi, relativi alla capacità dell’organizzazione di produrre qualità anche nel mediolungo periodo, rappresentano un tipico effetto strutturale indotto dall’azione del processo di servizio sull’organizzazione medesima. Ancora, il processo di cura ha delle ricadute positive anche rispetto all’ambito micro delle relazioni so-

Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

ciali, apportando stimoli vivificanti e aventi funzioni di supporto all’integrazione del soggetto: la nascita di gruppi di self-help e di iniziative similari costituiscono in proposito l’esempio più emblematico. Rispetto alle funzioni macro-sociali svolte, il processo di cura privilegia il livello dell’integrazione sociale piuttosto che quello regolativo-adattivo, laddove l’esigenza macro della riproduzione dell’identità sistemica, che pure esiste, viene soddisfatta attraverso la condivisione partecipata di norme e valori. Inoltre, in relazione alle transazioni micro-macro-micro, nel processo di cura l’ambito micro (la persona e la sua rete relazionale) esplode in due direzioni: verso i sotto-sistemi economico e politico quando la persona si realizza come cliente-contribuente-cittadino, verso il sistema di Welfare quando la persona esprime sia la propria individualità-soggettività che i ruoli di consumatore e di cittadino. In sintesi, il processo di cura rappresenta quel tipo di processo di servizio ove massimo è il cambiamento terapeutico ottenibile; si realizzano pertanto sia micro e macro-circoli virtuosi della qualità sia effetti strutturali funzionali al processo stesso, mentre sono assenti gli effetti perversi.

4. Qualità e Servizi alla persona: dimensioni concettuali e indicatori Questa fase della ricerca ha richiesto

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Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

Valutazione 1998 uno sforzo aggiuntivo di immaginazione in considerazione della scarsezza di materiale scientifico e di contributi empirici in merito alla valutazione della qualità nei Servizi territoriali alla persona. Le fonti utilizzate mancano dunque di riferimenti nazionali e, soprattutto, regionali, relativi ai risultati di indagini ad hoc, con la notevole eccezione del Rapporto sullo stato dei diritti del cittadino nel Servizio Sanitario Nazionale, curato dal CERFE. Di conseguenza, avendo a mente l’art. 14 della legge di riforma che individua cinque dimensioni attinenti al concetto di qualità e alcuni contributi tratti dalla letteratura specialistica sulla qualità, è stato compiuto un lavoro volto alla traduzione operativa delle dimensioni concettuali previste nel suddetto articolo di legge entro il modello interpretativo della qualità così come è stato tracciato nel paragrafo 3. Il modello interpretativo della qualità è articolato in sei campi informativi interconnessi sulla base dell’ipotesi di lavoro che considera la qualità quale proprietà del processo di produzione del processo di servizio (variabili dipendenti), spiegabile in funzione dell’azione di due aree seman-tiche, la rappresentazione del Servizio e il cambiamento terapeutico e dalle cosiddette variabili strutturali (variabili indipendenti), oltreché dall’intervento di ulteriori due ambiti osservativi (variabili intervenienti), l’interazione Serviziopersona, la rete sociale primaria della

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persona. Quest’ipotesi assume dunque le variabili socio-culturali (la rappresentazione del Servizio) e quelle organizzative (cambiamento terapeutico) come variabili indipendenti, ovvero in grado di influenzare le modalità e i contenuti dell’accesso al Servizio, della domanda di cura e della partecipazione della persona al processo di produzione, incidendo così sulla qualità del servizio ricevuto che è indicata dall’insieme delle variabili dipendenti. La valutazione di qualità, in questo specifico senso, costituisce l’espressione, fatta dal cittadino-utente del Servizio, di un giudizio sintetico riferito all’interazione Servizio-persona; indica la natura e l’efficacia di tale relazione (soddisfazione o partecipazione). Essa rappresenta altresì, dal punto di vista del soggetto, il segno stenografico di un’esperienza necessariamente calata entro una storia e una biografica personali. Sono dunque due gli ambiti informativi che comprendono le variabili intervenienti, considerati poiché in grado di articolare l’inter-relazione Servizio-persona: l’interazio-ne Servizio-persona, la rete sociale. Tali ambiti rappresentano infatti una sorta di sostrato relazionale e strutturale, riferito sia al Servizio (l’interazione Servizio-persona) che alla persona (la rete sociale) il quale agisce nella direzione di consentire-agevolarerafforzare-migliorare (oppure impedire-complicare-indebolire-peggiorare) l’esistenza di un’interrelazione e il suo progredire in un processo di


Valutazione 1998 cambiamento terapeutico. Saranno ora argomentati i passaggi teorico-metodologici attraverso i quali si è passati, per ogni campo informativo, dalle dimensioni concettuali agli indicatori. 1) Rappresentazione del Servizio . Il riferimento al concetto di rappresentazione sociale, oggetto privilegiato di analisi della psicologia sociale, serve al duplice scopo di far emergere l’esistenza di posizioni di differente natura e complessità strutturale interna (opinioni, atteggiamenti, stereotipi) relative a un medesimo “oggetto” (il Servizio) e di evidenziare come le diverse forme di comunicazione usate per esprimere la rappresentazione sociale del Servizio attivino differenti aspettative e quindi predisposizioni all’azione. La rappresentazione sociale di un oggetto, infatti, implica la preesistenza di un universo di re-ferenti simbolici organizzati e ancorati all’oggetto; tale universo ha una forte valenza regolativa e al suo interno si sviluppano dei processi comunicativi atti a strutturare, soprattutto a livello cognitivo, l’esperienza individuale (formazioni di opinioni, atteggiamenti, stereotipi). La rappresentazione del Servizio costituisce, di conseguenza, il “frame” della possibilità di fruizione dello stesso, modulando, al medesimo tempo, la sua capacità di attrarre e accogliere la persona e di costruire il cambiamento terapeutico. Questi tre tipi di azione sostanziano le tre dimensioni concettuali che operativizzano, a un primo livello, l’ambito

Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

informativo della rappresentazione del Servizio: la rappresentazione socio-culturale, la rappresentazione spazio-temporale, l’accessibilità culturale. a) Rappresentazione socio-culturale (attrarre). Questa dimensione intende cogliere le opinioni e alcuni atteggiamenti in merito all’azione del Servizio vista in rapporto alla sua importanza rispetto ad altri tipi di intervento, alla “cultura” professionale, alle funzioni espletate dal Servizio rispetto all’offerta di servizi. Sono state dunque individuate tre ulteriori sottodimensioni concettuali: - a1) centralità-autonomia/subordinazione-dipendenza rispetto a

ALBERO DEI CONCETTI: LA RAPPRESENTAZIONE DEL SERVIZIO

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Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

Valutazione 1998 Servizi potenzialmente concorrenti o similiari (ad esempio, le comunità terapeutiche private nel caso in cui il Servizio in questione sia un Ser.t.); - a2) agire burocratico/agire professionale; - a3) controllo sociale della devianza e della diversità/promozione della persona. b) Accessibilità culturale (accogliere). I riferimenti simbolici che ancorano l’oggetto-Servizio sono, ovviamente, comunicati (ad esempio, diffusi, propagati, propagandati). Interessa qui osservare l’aspetto delle condizioni di comunicabilità tra Servizio e persona in riferimento a due sottodimensioni concettuali:

ALBERO DEI CONCETTI: IL CAMBIAMENTO TERAPEUTICO

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- b1) il contenuto della comunicazione nei suoi aspetti di accessibilità linguistica e culturale; - b2) l’accessibilità esperienziale. c) Rappresentazione spazio-temporale (cambiare). Le categorie socio-antropologiche di spazio e tempo situano l’esperienza, costituiscono gli assi cartesiani della vita quotidiana di ciascuno, rappresentandone la forma. L ’aspetto dei tempi e degli spazi di vita risulta essere di fondamentale importanza per comprendere la natura di alcuni processi, come quelli di etichettamento ad esempio, i quali concorrono a strutturare le esperienze di esclusione, marginalità e dipendenza. Pertanto, assume rilevanza osservare il grado di sovrapposizione, coerenza e sincronia tra l’organizzazione spazio-tempo del Servizio e quella della persona. Sono state individuate due sottodimensioni concettuali: - c1) i tempi della vita quotidiana; - c2) gli spazi della vita quotidiana. 2) Cambiamento terapeutico . L ’ambito informativo del cambiamento terapeutico è considerato, a questo livello di operativiz-zazione dei concetti, come il cruciale anello di congiunzione, ovvero il tramite funzionale, tra gli aspetti intra- e interorganizzativi e la valutazione sulla qualità dei servizi ricevuti espressa dalla domanda. Da un lato, il momento organizzativo influenza ex ante la natura dei servizi alla persona e condiziona le possibilità dello sviluppo organiz-zativo del sistema; dall’altro, proprio in virtù


Valutazione 1998 dell’inevitabile presenza della domanda nel processo di produzione del servizio e della sua importanza rispetto alle potenzia-lità evolutive del cambiamento terapeutico, si avrà una diversa valutazione sulla qualità delle prestazioni ricevute. Le dimensioni concettuali attinenti al cambiamento terapeutico coincidono necessariamente con quelle individuate nel modello interpretativo della qualità: a) il percorso di guarigione; b) il processo di cura. Per ciascuna dimensione sono state individuate quattro sottodimensioni che, indagando le medesime aree problematiche, esprimono delle polarità teorico-metodologiche e di intervento-operativo: - a1-b1) il “chi” del cambiamento terapeutico, quindi l’oggetto dell’azione del Servizio; - a2-b2) quali relazioni sono attivate ed entrano a far parte del processo di cambiamento terapeutico; - a3-b3) come avviene la relazione di feedback Servizio-persona/personaServizio, dunque quali le sue modalità e quale l’esito del cambiamento terapeutico dal punto di vista della domanda; - a4-b4) quali funzioni macrosistemiche assolve il processo di cambiamento terapeutico. 3) Qualità . L ’ambito informativo della qualità è articolato nelle quattro dimensioni indicate dall’art. 14 e integrato con quella della accessibilità. Pertanto, le dimensioni concettuali individuate sono:

Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

a) Umanizzazione. La definizione qui assunta sottolinea gli aspetti squisitamente relazionali sottesi alla produzione del processo di cambiamento terapeutico, con uno specifico riferimento alle componenti soft del servizio, dal calore umano ai modi della comunicazione e dell’accoglienza, al senso di fiducia alla credibilità e affidabilità degli operatori. Sono state individuate tre sottodimensioni concettuali:

ALBERO DEI CONCETTI: LA QUALITÀ

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Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

Valutazione 1998 a1) regole di convivenza: questa sottodimensione coglie gli aspetti di neutralità affettiva riferiti alla forma e ai modi verbali della comunicazione, all’uniformità delle linee e dei principi di intervento, di specificità funzionale connessi al riconoscimento e alla legittima-zione delle qualità umane e professionali degli operatori; a2) regole del codice deontologico: gli aspetti sondati attraverso questo ambito di osservazione si riferiscono al rispetto dell’integrità morale della persona che si rivolge al Servizio, nonché della sua capacità di essere pienamente partecipe del processo di produzione del servizio; a3) empatia, si osserva la percezione che l’intervistato ha circa il suo essere pienamente e immediatamente compreso dagli operatori, non soltanto come persona portatrice di un disagio, bensì come individuo che vive comunque una sua interezza psicofisica e relazionale, spesso in molteplici situazioni di vita. Le esperienze connotate da vicinanza (cognitiva, affettiva ed esperienziale) o indifferenza sono dunque gli stimoli utilizzati nella definizione degli indicatori. b) Personalizzazione. Tale dimensione rileva l’attenzione rivolta non soltanto alla domanda esplicita ma anche ai reali bisogni della persona e al modo in cui essi sono accolti e gestiti nel processo di cambiamento terapeutico. Sono state individuate tre sottodimensioni concettuali: b1) bisogno: il riferimento è sia alla

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natura del bisogno vista a seconda del punto di vista che si adotta per accogliere tali esigenze, sia all’interesse e alla flessibilità con i quali tali esigenze vengono gestite; b2) privacy: viene rilevata l’attenzione posta al rispetto della persona nel momento in cui la struttura e gli spazi del Servizio vengono usati; b3) integrazione degli interventi: si indaga l’integrazione tra interventi, programmi e soggetti istituzionali, vista quale base imprescindibile per il pieno rispetto dell’integrità psicofisica e relazionale della persona. c) Informazione. Tale dimensione si riferisce agli aspetti di consensocompliance-partecipazione informati rispetto alle attività e al funzionamento del Servizio. Sono state individuate due sottodimensioni: c1) informazioni su attività e funzioni del Servizio, anche in riferimento all’attuale normativa in materia di tossicodipendenze; c2) informazioni che consentono l’identificabilità personale e professionale degli operatori del Servizio. d) Comfort. Questa dimensione indaga appunto il grado di conforto, piacevolezza e funzionalità degli spazi utilizzabili. e) Accessibilità. Questa dimensione intende rilevare la facilità con la quale è possibile accedere e/o contattare il Servizio. 4) Interazione Servizio persona . Sono state individuate tre sottodimensioni in grado di dare conto dell’influenza degli aspetti quanti-qualitativi dell’interazione:


Valutazione 1998 a) forza: si rileva il peso della prospettiva temporale nei suoi aspetti quantitativi ed esperienziali relativamente alla conoscenza di altri Servizi; b) durata: anche in questo caso si rileva un aspetto quantitativo dell’interazione relativamente al tempo dedicato alla relazione Serviziopersona; c) intenzione: si focalizzano qui gli aspetti più “qualitativi” visti in connessione ai soggetti e ai contenuti dell’interazione. 5) Reti sociali primarie . Sono state individuate due sottodimen-sioni concettuali in grado di consentire la costruzione di un indice di densità delle reti sociali primarie, familiari e amicali: a) ampiezza: relativa all’estensione quantitativa delle reti; b) intensità: si rileva l’importanza materiale e simbolica della rete, il suo grado di apertura/chiusura visto in rapporto alla capacità di sostegno alla persona. 6) Variabili strutturali. Per mettere a punto un disegno di ricerca adeguato occorre considerare, oltre alle usuali variabili strutturali, altre variabili con funzione di controllo quali quelle relative all’appartenenza politica, religiosa e associativa e quelle che consentono una distinzione, seppure grossolana, tra le tipologie di bisogno della persona-utente del Servizio.

Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

Riferimenti bibliografici Ardigò A. (1994-1995), Dispense del 2° anno della Scuola di Specializ-zazione in Sociologia Sanitaria dell’Università degli Studi di Bologna, Bologna. Braccioforte L. - Cecchetti D. - Ferraris E. (1994-1995), Introduzione al lavoro integrato di tesi, Scuola di Specializzazione in Sociologia Sanitaria dell’Università degli Studi di Bologna, Bologna. Butera F. (1992), Il nuovo Ente locale come organizzazione per l’erogazione dei servizi e come agenzia strategica per lo sviluppo di nodi vitali sul territorio, in “La critica sociologica”, 103. Colozzi I. (1994), La qualità come risposta alla crisi del Servizio Sanitario Nazio-

ALBERO DEI CONCETTI: L’INTERAZIONE SERVIZIO-PERSONA

ALBERO DEI CONCETTI: LE RETI SOCIALI PRIMARIE

Questo saggio è già apparso sulla “Rassegna Italiana di Valutazione”, n. 3. luglio-settembre 1996.

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Daniela Cecchetti / La qualità nei servizi territoriali alla persona

Valutazione 1998 nale, chi la controlla, come si misura, in “L’Arco di Giano”, 5. Donabedian A. (1989), La qualità nell’assistenza sanitaria, NIS, Roma. Donati P.P. (1989 - a cura di), La cura della salute verso il 2000, Angeli, Milano. Giuli M. (1993), Qualità e produttività nei Servizi, Isedi, Torino.

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Jedlowsky P. (1994), Quello che tutti sanno, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, XXXV, 1. Morgan G. (1989), Images. Le metafore dell’organizzazione, Angeli, Milano. Normann R. (1992), La gestione strategica dei servizi, Etas Libri, Milano.


Valutazione 1998

Domenico Lipari / Sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche

La certificazione è un tema di confine della valutazione; la formazione si rivela attualmente un settore fluido e in grande movimento.

Alcune note preliminari sulle azioni e le strategie di

innovazione in atto in questi settori.

Sulla certificazione delle

azioni formative nelle amministrazioni pubbliche 1.

U

na riflessione preliminare per affrontare il discorso sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche riguarda la crescente rilevanza che va assumendo la questione del cambiamento organizzativo e culturale nella Pubblica Amministrazione. Non c’è dubbio sul fatto che le misure normative degli ultimi anni, al di là di ogni analisi sulla loro concreta attuazione, abbiano cominciato a introdurre innovazioni forti nel corpo degli ordinamenti dell’amministrazione (e su questa constatazione la maggior parte delle riflessioni disponibili sembra convergere, anche se si tratta di analisi che tendono a privilegiare una lettura delle dimensioni formali del cambiamento). Il vero problema si pone quando si passa dalla dimensione normativa a quella delle azioni capaci di sostenere e favorire i processi di cambia-

mento, proprio perché il successo di una strategia di innovazione non può essere affidato solo alle leggi le quali, come è noto, sono una condizione indispensabile, ma del tutto insufficiente. Occorre dunque essere in grado di accompagnare i fenomeni di cambiamento. Ma per riuscire a pilotare adeguatamente il cambiamento non basta una visione strategica più o meno chiara; è necessario conoscere il campo d’azione, poiché, da questo punto di vista, è più che mai vero, come è stato notato da Weick, che “un’organizzazione non può sapere dove va se non sa che cosa è”. Purtroppo, su questo terreno, in Italia occorre misurarsi con un grave deficit di conoscenze sistematiche riguardanti il funzionamento concreto delle amministrazioni pubbliche a tutti i livelli della loro articolazione. Mancano, in sostanza, grandi analisi sul fenomeno burocratico italiano che siano, ad esempio, comparabili per spessore e paradigmaticità

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di DOMENICO LIPARI


Domenico Lipari / Sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche

Il riferimento è alle ricerche sulla burocrazia di Michel Crozier, lo studioso francese che ha legato la sua notorietà al classico della sociologia delle organizzazioni Il fenomeno burocratico (trad. it. Etas Libri, Milano 1969). Tr a l e a l t r e opere di Crozier note in Italia, si segnalano i seguenti lavori: Attore sociale e sistema (in collaborazione con E. Friedberg), trad. it. Etas Libri, Milano 1978. Stato modesto, Stato moderno, trad. it., Edizioni Lav o r o , Ro m a 1988. L’impresa in ascolto, trad. it., Il Sole 24

Ci si riferisce all’indagine conoscitiva commissionata nel 1979 al Formez (Centro di Formazione e Studi) dal Ministro per la Funzione Pubblica dell’epoca, il giu-rista Massimo Se-

segue

agli studi crozieriani sulla burocrazia francese: la ricerca Giannini-Formez dei primi anni ottanta, che pure ha avuto grandi meriti, non ha potuto, data la sua impostazione, affrontare in termini interpretativi la questione del funzionamento concreto dei sistemi d’azione della Pubblica Amministrazione. È dunque fondamentale che le autorità pubbliche e la comunità scientifica assumano un impegno di ricerca e di studio finalizzato a colmare, anche parzialmente, i limiti conoscitivi e a portare, per questa via, indicazioni utili all’azione di sostegno dei processi di cambiamento. Tuttavia, partendo dalle poche conoscenze disponibili, comprese quelle intuitive e di senso comune rintracciabili nel dibattito corrente sulla riforma della Pubblica Amministrazione, vi sono alcuni punti di attacco largamente condivisi che aiutano a costruire politiche attive di supporto al cambiamento complementari rispetto alle innovazioni normative già prodotte. Uno di essi è costituito dalla critica del garantismo e della cultura della conformità normativa, i capisaldi che storicamente hanno determinato quello scambio perverso tra basse retribuzioni da un lato e garanzia del posto di lavoro dall’altro: uno scambio che, a sua volta, ha largamente contribuito a generare un sistema burocratico pesante e fondato sulla bassissima qualità delle prestazioni lavorative.

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Alla cultura lavorativa tradizionale bisogna tentare di sostituire una cultura organizzativa basata sulle seguenti opzioni di principio: 1) decentramento decisionale; 2) responsabilità; 3) riconoscimento dei meriti; 4) orientamento al cittadino; 5) professionalismo. Queste opzioni di principi assumono una rilevanza centrale dal nostro punto di vista, poiché possono orientare azioni che facciano leva non solo sull’applicazione dei dispositivi normativi, ma anche e soprattutto su una strategia di rimotivazione che passi attraverso una restituzione di senso, di dignità e di identità organizzativa e sociale al lavoro dei quadri pubblici. L ’ultima in particolare, quella che fa riferimento al professionalismo, ci porta direttamente nel nostro campo specifico, quello della formazione, da considerare sempre più come uno degli strumenti utili per favorire e accompagnare il cambiamento.

2. Ma occorre chiedersi quale formazione bisogna promuovere per la Pubblica Amministrazione. Una formazione, in primo luogo, che sappia superare i limiti che ne caratterizzano la più diffusa pratica, la quale è emblematicamente contrassegnata da forme acute di scolasticismo sul piano delle metodo-


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Domenico Lipari / Sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche

logie d’azione e di giuridicismo su quello dei contenuti. A questo livello, l’innovazione dovrebbe incidere in profondità e investire direttamente, sul versante metodologico, sia l’azione progettuale sia gli stili di realizzazione. Quanto ai contenuti delle attività, bisognerebbe introdurre nell’asse contenutistico della formazione dei quadri pubblici almeno tre aree specifiche di saperi finora in condizione di semiclandestinità o di esclusione dalle attività didattiche: 1) l’implementation delle politiche; 2) il management delle risorse umane; 3) il controllo di gestione. Occorre inoltre favorire lo sviluppo di una cultura dell’azione formativa che sia in grado di assumere e valorizzare alcuni tra i più recenti contributi della ricerca in campo formativo e organizzativo, recuperando, ad esempio, la nozione di “competenza professionale” con tutte le implicazioni che da qui potrebbero derivare sul versante dell’ancoraggio concreto della pratica formativa ai contesti organizzativi: poiché infatti la nozione di competenza si riferisce direttamente a comportamenti lavorativi/ organizzativi osservabili (sono in effetti saperi di base ridefiniti e reintrepre-tati contestualmente dai soggetti che ne detengono i contenuti), essa costituisce un rilevante punto di snodo che rende feconda e concretamente praticabile la relazione tra azione organizzativa e processi formativi.

La formazione può agire sulle competenze a crescenti gradi di complessità, impegno e investimento nella consapevolezza che ogni tipologia di intervento presuppone almeno un minimo di esplorazione dell’organizzazione. La sfida della cultura delle competenze si pone, per la pratica della formazione, ad almeno due livelli: 1) richiede come prerequisito di ogni strategia formativa la capacità di acquisire conoscenza organizzativa sui contesti di riferimento allo scopo di derivare da qui inputs forti per definire concretamente aree pertinenti di bisogni; 2) mette al centro dell’interesse una cultura nuova sia della progettazione formativa che della valutazione degli esiti delle attività: l’una e l’altra devono essere occasione e condizione per l’apprendimento di nuove stilizzazioni dell’azione for-mativa e per l’alimentazione e lo sviluppo di nuove strategie d’intervento. Su un altro piano di analisi, la situazione attuale della formazione nelle amministrazioni pubbliche si presenta con un’accentuata criticità dovuta al fatto che, parallelamente ai fenomeni di persistenza del modello classico di pratica formativa del quale si auspica il superamento, si è venuta determinando negli ultimi anni una considerevole espansione della domanda di servizi formativi e ciò come conseguenza di due fenomeni congiunti: da un lato la forte sollecitazione indotta delle retoriche del cambiamento, dall’altro, la spinta

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vero Gianni-ni. Scopo della ricerca era la rilevazione sistematica degli uffici, delle strutture e delle procedure dell’Amministrazione centrale dello Stato. I risultati dell’indagine sono stati raccolti e pubblicati a cura del Formez (Formez, Ricerca sull’organizzazione e il funzionamento delle Amministrazioni centrali dello Stato, Roma 1983, 4


Domenico Lipari / Sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche

agli investimenti in formazione che va crescendo specie nelle pubbliche amministrazioni regionali e locali. Si va prefigurando – questa sembra essere la tendenza – una dinamica di mercato fortemente proiettata verso l’espansione. Ora, se, su un piano generale, bisogna considerare positivamente questo fenomeno che non ha precedenti nella cultura organizzativa della Pubblica Amministrazione italiana, a una sua analisi più approfondita non si può non notare come, a fronte di un’offerta consolidata (essenzialmente pubblica) che può dare risposte quantitativamente molto parziali alla gran varietà di domande emergenti, si profili l’entrata in scena di vari soggetti che si propongono come attori della formazione per le amministrazioni pubbliche e che sono indotti a orientarsi verso questo settore in conseguenza dei rilevanti processi di ristrutturazione del mercato della formazione aziendale avvenuti negli ultimi anni. Tra tali attori vi sono in gran parte soggetti portatori di un’offerta e di un bagaglio di esperienze tecnico-culturali mature prevalentemente elaborate e accumulate in contesti d’azione diversi da quelli della Pubblica Amministrazione, ma vi sono anche – e in misura quantitativa non minore – soggetti che improvvisano competenze e ruoli in campo formativo rispetto al quale hanno scarsissima se non nessuna esperienza. Nell’un caso, come nell’altro, appaiono evidenti i rischi che si pos-

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sono correre se i processi di crescita del mercato formativo avvengono senza il filtro di azioni regolative di una certa efficacia. Da un lato, infatti, c’è il pericolo di inopportune forme di “colonizzazione culturale” perseguite (anche inconsapevolmente) attraverso la veicolazione di pratiche e di modelli formativi elaborati in altri ambienti organizativi e culturali; dall’altro, il problema si pone nei termini del rischio dell’invasione del mercato della formazione dei quadri pubblici da parte di attori che non garantiscono il possesso di adeguati requisiti di competenza tecnica.

3. È proprio in considerazione delle questioni fin qui schematicamente richiamate, che appare più che mai necessario affrontare in termini pertinenti il tema della certificazione delle azioni formative nel contesto organizzativo e istituzionale della Pubblica Amministrazione. La prospettiva da cui ritengo utile considerare la certificazione, dovrebbe essere al tempo stesso quella della regolazione delle dinamiche di mercato (attraverso la legittimazione di soggetti competenti, di azioni pertinenti e di metodologie appropriate) e quella della promozione selettiva di nuovi soggetti grazie alla quale, in una dinamica di competizione regolata, possano essere assicurate le condizioni di uno sviluppo qualificato del settore.


Valutazione 1998

Domenico Lipari / Sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche

A questo punto occorre chiarire alcune questioni legate al discorso della certificazione, poiché, se è vero che esiste, in campo formativo, un problema di certificazione della qualità , è anche vero che bisogna affrontare prioritariamente il problema della qualità della certificazione, il problema, cioè, delle condizioni – in qualche modo meta-certificative – che rendono efficace e credibile un dispositivo di certificazione. Da questo punto di vista il discorso non può sfuggire ad alcune riflessioni (e alle scelte tecniche e di politica della certificazione che ne conseguono), riguardanti: 1) la logica e i metodi; 2) i ruoli tecnico-istituzionali. Proverò molto schematicamente a svolgere qualche considerazione su ciascuna delle due dimensioni enunciate, partendo dalle questioni di logica e di metodo. Assumendo un significato generale di “certificazione” come atto (i cui effetti hanno rilevanza ufficiale) di un’autorità riconosciuta volto a rendere certo (e garantire) l’intrinseco valore di un oggetto, di un’azione o di un servizio reso; oppure (analogamente) a legittimare l’effettiva capacità – accertata mediante prove e verifiche – di qualcuno (individuo o gruppo) di fornire prestazioni corrispondenti a specifici standard di riferimento, emergono almeno tre ambiti differenziati di possibili campi di applicazione dell’idea e della stessa pratica della certificazione: - il primo si riferisce a quello ri-

guardante oggetti derivanti dalla produzione di beni materiali e ha lo scopo di distinguere alcuni di tali oggetti da altri; - il secondo, pur avendo lo stesso scopo, riguarda invece l’erogazione di beni non materiali nella forma del servizio; - il terzo è legato al riconoscimento, attraverso prove formali, di specifiche capacità, e ha lo scopo di assicurare il riferimento a un’idea astratta di prestazione competente valida sia per il cliente potenziale che per la comunità professionale di riferimento. In tutti i casi, la certificazione rinvia a due dimensioni di fondo: 1) agli atti valutativi che la precedono (in questo senso essa è la risultante di analisi orientate alla formulazione di giudizi di valore); 2) all’idea di qualità. È possibile cioè stabilire, avendo come punto di riferimento un insieme di criteri, di preferenze, di interessi: 1) se un oggetto sia dotato di caratteristiche corrispondenti a una data soglia di requisiti “tangibili”, 2) se una prestazione (ed è il caso di un servizio) risulti adeguata ai livelli di aspettative di chi ne è destinatario; 3) se la performance (ed è il caso di una prova d’esame) abbia raggiunto uno standard predefinito. Se è dunque vero che la dimensione valutativa e quella della qualità costituiscono i referenti cruciali della certificazione, è necessario mettere in evidenza come l’una e

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Non ci si può d i l u n g a re i n questa sede sul senso della nozione di qualità: è sufficiente il riferimento al significato, ampiamente condiviso, che a essa è attribuito nell’ambito della cultura dei servizi. Si vedano in proposito, tra gli altri, R. Normann, La gestione strategica dei servizi, Etas Libri, Milano, 1985; M. Cro-zier R. Nor-mann, L’innovazione nei servizi, Edizioni Lavoro, Roma 1990.


Domenico Lipari / Sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche

l’altra assumano caratteristiche del tutto particolari nei casi in cui la certificazione ha come oggetto una prestazione immateriale. In primo luogo, perché i criteri che definiscono la qualità di una prestazione non materiale hanno un carattere irriducibilmente locale proprio perché determinati dal particolare tipo di relazione che, in un momento dato, si stabilisce tra l’erogatore e il fruitore. In secondo luogo (e per conseguenza), perché tali criteri sono cangianti in ragione delle preferenze del fruitore/cliente, delle disposizioni dell’erogatore e, dunque, in ultima analisi, del contesto e del processo di “costruzione” dell’evento. In terzo luogo, perché la stessa “produzione”-fruizione può essere apprezzata (cioè valutata, dunque connotata qualitativamente e quindi certificata) solo nel momento stesso della sua erogazione – ed evidentemente, in forme più articolate e argomentate, in un momento successivo. Questo punto di vista che tende a mettere in evidenza la difficoltà di valutare e certificare la qualità di un evento così caratterizzato prima che sia dato e prima che si dispieghino i suoi effetti, risulta particolarmente adeguato per rappresentare la problematicità della certificazione nel campo dei servizi formativi. In quanto specialissimi beni immateriali, i servizi formativi non solo possono essere apprezzati solo al momento della loro erogazione/

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fruizione, ma si caratterizzano anche per alcune particolarità. Poiché mirano all’accrescimento di competenze professionali le quali, a loro volta, non possono essere considerate al di fuori dei contesti operazionali in cui si esprimono sotto forma di specifiche prestazioni organizzative, i servizi formativi possono essere apprezzati nei loro benefici durevoli a una distanza di tempo ragionevolmente dilatata dal momento della loro erogazione. Un altro elemento di complessità è dato dalla non riducibilità della valutazione e della certificazione di un evento formativo alla sola considerazione dei suoi risultati: essi sono comprensibili solo se visti in rapporto ai processi che ne costituiscono la necessaria premessa. Se inoltre si sposta l’attenzione dal livello degli effetti di un intervento formativo su individui e gruppi a quello del dispositivo tecnico preposto allo svolgimento dell’azione formativa, la questione si pone in termini ancora più complessi: infatti l’attenzione valutativa (e la valutazione è qui intesa come prerequisito della certificazione) si concentra sull’organizzazione, cioè sui sistemi d’azione disponibili per erogare servizi formativi di qualità. Un caso a parte, infine, è rappresentato da quelle specialissime forme di valutazione ex ante che definiamo solo convenzionalmente come atti certificativi e che corrispondono ai vari tipi di accreditamento relativi a progetti o ipotesi di interventi da realizzare: qui


Valutazione 1998

Domenico Lipari / Sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche

l’oggetto della certificazione coincide con l’apprezzamento di intenzioni progettuali, di congruenze tecniche di progetti, del valore intrinseco di esperienze formative pregresse e del grado di affidabilità dei soggetti che si propongono come attuatori dell’intervento. Emerge dunque una prospettiva secondo cui l’idea della certificazione applicata alle azioni formative assume una pluralità di dimensioni valutative ciascuna delle quali riguarda: 1) i risultati di un intervento (il “prodotto”, le competenze professionali); 2) le modalità stesse della loro “produzione” (i processi d’azione); 3) le condizioni organizzative che hanno reso possibile tale “produzione”, cioè i sistemi d’azione, gli attori implicati e le loro logiche d’azione; 4) le intenzioni progettuali. Questa linea interpretativa che descrive orientamenti differenziati di approccio corrispondenti a interessi specifici di certificazione, ha due conseguenze metodologiche di fondo. In primo luogo implica l’assunzione di consapevolezza circa la necessità di dover “fronteggiare” situazioni estremamente complesse, la cui irriducibile problematicità non può essere “trattata” e compresa con la logica deterministica della misurazione dei risultati in rapporto agli obiettivi, oppure secondo modalità sanzionatorie, tipiche dell’azione burocratica, guidate dal principio della conformità alla norma. In secondo luogo presuppone l’adozione di un approccio che consideri la certifica-

zione come un atto fondato su risultati di ricerca valutativa applicata e orientata alla comprensione e all’apprezzamento, in campi d’azione determinati, dei risultati conseguiti, in una prospettiva analitica che include nel proprio raggio l’intero processo di azione considerato. La ricerca valutativa dunque costituisce il necessario retroterra analitico e il fondamento conoscitivo che orienta l’atto ufficiale della certificazione. I problemi di questo approccio alla valutazione non riguardano tanto l’af-fidabilità dei dispositivi intellettuali e della strumentazione metodologica, quanto piuttosto la scarsa esperienza disponibile di pratica valutativa condotta secondo tale prospettiva. È necessario dunque intensificare la ricerca e affinare gli strumenti d’indagine con lo scopo di sviluppare il sapere di base oggi disponibile: è questo l’unico percorso in grado di fornire indicazioni attendibili per lo svolgimento di analisi valutative capaci di fronteggiare adeguatamente programmi complessi (le scorciatoie, praticabili nella forma delle prescrizioni normative o delle formule di misurazione, sono sempre possibili, ma garantiscono risultati molto parziali e comunque di dubbia utilità). È possibile a questo punto svolgere brevemente qualche considerazione, del tutto provvisoria, orientata a introdurre la questione dei ruoli tecnici e dunque dei soggetti della certificazione. Dal punto di vista qui sostenuto,

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Per una trattazione più argomentata del senso qui atti-buito alla ricerca valutativa, mi permetto di rinviare a D . L i p a ri , Progettazione e va-lutazione nei processi formativi, Edizioni Lavoro, Ro-ma 1995.


Domenico Lipari / Sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche

Sigla dell’Associazione Italiana delle Scuole di Management che opera, con sede a Milano, dal 1972.

appare evidente che la certificazione, in quanto atto eminentemente fondato sulla ricerca valutativa, costituisce una funzione specializzata che richiede un elevato grado di competenze tecniche che non possono in alcun modo essere improvvisate. Su questo terreno il panorama delle esperienze pratiche disponibili nel nostro paese è ancora limitato a rarissimi casi (si pensi alla pionieristica esperienza dell’ ASFOR di “certi-ficazione dei master”), i quali peraltro sono essenzialmente centrati sull’accreditamento di intenzioni progettuali e mirano ad accertare l’esistenza di requisiti-standard consolidati di esperienza (è la cosiddetta certificazione di prodotto). Sono in ogni caso esperienze preziose che occorre consolidare. Ma occorre anche ampliare queste pratiche estendendole alla certificazione di risultati, di competenze, di processi e di strutture. I tempi sono maturi perché si proceda all’elaborazione di una strategia orientata allo sviluppo di forme affidabili di certificazione dell’azione formativa. Il passaggio preliminare, in questa direzione, è costituito dal sostegno attivo e dall’incentivazione di ogni iniziativa volta ad accrescere una cultura non rituale della valutazione a tutti i livelli della pratica formativa (dalle microazioni, alle politiche formative complesse). Parallelamente, bisognerebbe incoraggiare e promuovere lo sviluppo di esperienzepilota di ricerca valutativa applicata

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e orientata a scopi di certificazione: si potrebbe aprire un vasto campo di elaborazione per preparare adeguatamente il terreno per forme mature di pratica certificativa. Il ventaglio delle azioni tecniche possibili è veramente ampio: dall’analisi di esperienze e studi di casi (finalizzati all’elaborazione di standard), alla ricerca di criteri appropriati a situazioni e contesti specifici e differenziati, alla certificazione in senso stretto. Infine, occorrerebbe che da queste esperienze cominciassero a emergere agenzie e attori competenti nel campo della ricerca valutativa orientata alla certificazione capaci di proporsi come soggetti indipendenti nel mercato della formazione. A questo scopo occorre che la cultura formativa più lungimirante assuma iniziative forti in questa direzione, promuovendo utili alleanze con soggetti interessati a questi temi (in particolare con l’Associazione Italiana di Valutazione), anche perché la crescente domanda di certificazione – indotta in campo formativo dalle pratiche di certificazione della qualità che si vanno diffondendo in tutti i settori di attività – rischia di essere totalmente intercettata e colonizzata dai sacerdoti degli standard astratti che credono di poter risolvere la questione in campo formativo, applicando criteri analoghi a quelli praticati nel campo della produzione di beni materiali. La certificazione è cosa troppo delicata, complessa e importante perché sia lasciata in mano a simili “certificatori”!


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Domenico Lipari / Sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche

È attraverso un processo graduale di costruzione di esperienze significative, che potrà affermarsi una rete di soggetti della certificazione: la loro legittimazione non sarà di tipo autoreferenziale, ma avverrà in parte attraverso forme di riconoscimento ad opera della comunità professionale, in parte attraverso forme di autocertificazione dotate di caratteri inoppugnabili di evidenza del tutto analoghi a quella proclamazione del barbiere di Siviglia (“Tutti mi cercano, tutti mi vogliono...”) che racchiude in sé alcuni indicatori chiave (di tipo quantitativo e qualitativo) grazie ai quali egli può

autocertificarsi, appunto, “barbiere di qualità”. La qualità della certificazione, che è un prerequisito imprescindibile della certificazione della qualità, richiede attività di studio, di promozione e di ricerca rispetto alle quali è necessaria fin da ora la più ampia mobilitazione possibile di risorse e di iniziative.

Intervento alla tavola rotonda del Convegno Asfor-Iref su “La Formazione per la pubblica amministrazione. Uno strumento per il cambiamento”, Milano, 9 luglio 1996, poi pubblicato sulla “Rassegna Italiana di Valutazione”, n. 4, ottobre-dicembre 1996.

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L’ i m p o r ta n z a

Alberto Marradi / Per il rigore terminologico nel linguaggio scientifico e professionale

d e l l i n g u a g g i o s c i e n t i f i c o e l a n e c e s s i tà d i u n s u o u s o

rigoroso , anche quando viene utilizzato nell ’ ambito delle at tività professionali .

Ne

abbiamo discusso con uno dei più noti me todologi ed epistemologi italiani .

Per

il rigore metodologico nel linguaggio scientifico e professionale Bezzi: Il tema di questa conversazione è l’importanza del rigore nell’uso scientifico e professionale del linguaggio, tenendo presente che i problemi sono di professioni e discipline diverse, che hanno elaborato storicamente dei linguaggi diversi, e l’uso casuale che si fa qualche volta a livello professionale di questo o di quel termine, spesso a scopi anche di marketing. Allora il primo problema è: è giusto, è necessario un rigore particolare nell’uso del linguaggio? Marradi: Il linguaggio scientifico non è più preciso del linguaggio comune. È una tesi autogratificante sottoscritta a scatola chiusa da quasi tutti gli scienziati. L ’ho controllata, quando potevo, per le scienze umane e l’epistemologia generale e si è rivelata completamente falsa; è una tesi ideologica. Non so se ricordi quel mio saggio su TEoria: una tipologia dei significati : lì prendo da una parte i dizionari del linguaggio comune delle varie lingue correnti (italiano, inglese e francese) e vi trovo tre significati

molto vicini del termine ‘teoria’. Invece nel mio schedario ho trovato una quantità sterminata di usi diversi del termine ‘teoria’ nelle scienze. Era un rapporto, se vogliamo quantificare, tra tre significati molto vicini e decine di significati

Alberto Marradi, Teoria: una tipologia dei significati, in “Sociologia e ricerca sociale”, n. 13, 1984. Marradi prende lo spunto dall’eccessiva e indebita estensione semantica del termine ‘teoria’ per scagliarsi contro una confusione anche concettuale che nasconde una lotta fra i superstiti positivisti nelle scienze sociali (diffusi più che altro in quella che l’A. chiama la “truppa”, “fanterie che scendono in campo e artiglieri che manovrano i calcolatori”) e gli antipositivisti (più che altro presenti fra gli “ufficiali” delle scienze sociali, ovvero quelli più epistemologicamente avvertiti). Dopo una premessa sulla necessità di un linguaggio scientifico rigoroso Marradi mostra come, contrariamente alle aspettative di alcuni, il linguaggio comune sia più preciso di quello scientifico. Per fare ciò riporta i 3 significati diversi (ma sostanzialmente affini) del termine ‘teoria’ desunti da dizionari monolingua italiani, francesi e inglesi, e i ben 19 significati diversi (e a volte veramente molto diversi) da lui rilevati nell’abbondante letteratura internazionale citata. (Claudio Bezzi)

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Intervista di CLAUDIO BEZZI ad ALBERTO MARRADI


Alberto Marradi / Per il rigore terminologico nel linguaggio scientifico e professionale

anche lontanissimi. Lo stesso si può dire per “misurazione”, lo stesso si può dire per “esperimento”. In un saggio successivo, che è intitolato Linguaggio scientifico o torre di Ba-bele? , analizzo le cause di questo fenomeno. Sostanzialmente, il linguaggio comune serve per comprendere gli altri. Se tu vai dal lattaio e gli dici “mi dia tre chili di carbone” lui ti dice che non ce li ha; se tu volevi due litri di latte, non raggiungi lo scopo. E quindi sei costretto a usare i termini giusti. Nel linguaggio scientifico non ci sono questi vincoli (non devi tornare a casa col latte), e le battaglie si vincono imponendo sul mercato i propri termini, o le proprie accezioni di termini già in uso. Questo porta a forzare esageratamente le estensioni semantiche di certi termini. I francesi sono maestri in questi giochetti (pensa a Barthes con ‘segno’, a Foucault con ‘violenza’): ma questi giochetti distruggono il linguaggio

Alberto Marradi, Linguaggio scientifico o torre di Babele?, in “Rivista Italiana di Scienza Politica”, n. 1, 1987. Questo saggio sviluppa il precedente su Teoria, in qualche modo concludendo il discorso là iniziato con l’analisi, qui, delle ragioni della confusione terminologico-concettuale. È un saggio anche più amaro e disilluso, che si apre con la constatazione dell’impotenza del Committee on Conceptual and Terminological Analysis (Cocta), descritta da Marradi anche nell’intervista, e che non risparmia fendenti agli intellettuali da salotto disposti a funambulismi concettuali per attirarsi notorietà, o alle consorterie accademiche in lotta per l’affermazione. Una lotta, conclude Marradi, fintamente giocata da opposti schieramenti sul terreno dello scontro teorico, e invece concretamente realizzata sul piano meramente terminologico. Nell’articolo Marradi passa in rassegna il tentativo di Sartori, Riggs e Oppenheim di indirizzare il dibattito scientifico verso un uso rigoroso dei termini utilizzati, con una sua proposta intermedia. Anche qui si ribadisce la superiore semplicità del linguaggio comune. (Claudio Bezzi)

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scientifico. Ci sono giochi semantici fatti per prestigio e giochi semantici utilizzati per fare una battaglia: ad esempio, il termine ‘teoria’ è stato gonfiato per odio ai neopositivisti, perché i neopositivisti non amavano questo concetto (tant’è vero che nei dizionari scientifici classici degli anni trenta e fino al 1966 non c’era la voce Teoria); adesso tutti parlano di teoria. Ed ha esattamente la stessa funzione che due generazioni fa aveva ‘legge’. Bezzi: Tu hai fatto un’affermazione all’inizio che credo interessante. Dicevi che il linguaggio scientifico non è più preciso del linguaggio comune. Allora se non è più preciso di quello comune perché aprire una battaglia, seppure ideale, per il rigore nel linguaggio scientifico? Marradi: Perché se dico “ho trovato una legge per cui – parliamo di fisica – l’accelerazione è funzione della massa e del momento” e intendo per massa una certa cosa e quell’altro intende per massa un’altra cosa e quell’altro ancora intende una terza cosa, non si può controllare la legge, perché per me sarà vera e per lui sarà falsa, visto che lui la controlla in un’altra maniera. Quindi, ci dovrebbe essere un giunto rigido almeno tra il mondo dei concetti e il mondo dei segni (termini). Il giunto non è rigido e non potrà essere reso tale. Però il maggiore accordo possibile sul significato dei termini dovrebbe essere perseguito, come ha tentato il Cocta e come cerca di fare il Glossario della “Rassegna Italiana di


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Alberto Marradi / Per il rigore terminologico nel linguaggio scientifico e professionale

Valutazione”. Solo che una cosa è perseguire un obiettivo, e una cosa è far finta, ignorando le più clamorose prove contrarie, che l’accordo intersoggettivo sul significato dei termini ci sia, per non doversi porre il problema. Negli anni trenta-quaranta, c’erano nella comunità sociologica americana proprio dei committe per questi problemi, con operazionisti eminenti come Lund-berg e Dodd. Ora sono spariti. Seconda osservazione: l’Unesco, negli anni cinquanta, cioè alla nascita, curava una rivista, intitolata Interna-tional Social Science Bulletin; ho trovato dei numeri in cui, a puntate, emerge che avevano costituito dei gruppi locali – ce n’era uno della Svizzera tedesca, uno della Tulane University, uno francese (con, per inciso, Levi Strauss), uno inglese con nomi come Goldthorpe. Questi gruppi prendevano di petto una serie di termini e ogni gruppo nazionale o locale ne dava l’etimologia, i vari significati nella lingua e nella comunità scientifica di sua pertinenza, con citazioni, bibliografia, osservazioni spesso assai sottili e godibili. Questo negli anni cinquanta, dopo di che è finito. Bezzi: E come te lo spieghi? Cioè, qual è la ragione culturale, scientifica... Marradi: Perché si sta incial-tronendo tutto. Per esempio, i programmi televisivi si incialtroniscono ogni minuto che passa. Devo aggiungere che quando vado all’estero constato che in Italia e in America il processo è più virulento. Inglesi, francesi e so-

prattutto tedeschi si salvano ancora. Ma per quanto? Bezzi: Si sperava che gli scienziati non fossero indifferenti a questi problemi... Marradi: E invece no, è una speranza del tutto infondata. Prendi le vicende del Cocta, che è l’erede nel suo piccolo di questa grande tradizione. Era stato fondato da Riggs (americano), Teune (americano) e Sartori (italiano), che dominava intellettualmente e caratterialmente gli altri due – infatti è stato il primo presidente. Assistetti da giovane al suo atto di nascita nel 1970, durante il congresso di scienza politica a Monaco di Baviera. Era il primo anno che lavoravo con Sartori. Si fosse reclutato qualcun altro! C’è stato un certo Lane, uno svedese che ha preso la presidenza come seconda generazione, ma praticamente già dal congresso dell’International Sociological Association (ISA) di New Delhi, nel 1986, la sorte era segnata. Non c’erano le reclute, la partecipazione alle sessioni era occasionale. Anche a Madrid, nel 1990, si vedeva che non c’erano le reclute, perché il tema non interessava nessuno. Alle sessioni del Cocta, i presenti permanenti erano pochissimi. Gli altri fluivano, andavano e venivano a seconda dell’argomento: se si parlava di violenza veniva il giovanotto interessato al tema della violenza, e così via. A Bielefeld, nel 1994, nemmeno quello: cercai di presentare all’inizio (ti puoi immaginare, in venti minuti), il mio discorso dei tre mondi [si

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Committee on Conceptual and Terminological Analysis. Comitato inter-disciplinare fondato nel 1970 da tre polito-logi: Giovanni Sartori, Fred W. Riggs e Henry Teune. Sartori è stato il primo presidente, e a lui sono succeduti l’americano Riggs, lo svedese JanErik Lane e l’americano George Gra-ham. La sua tematica (analisi dei concetti e dei termini della scienza) è decisamente fuori moda in questi tempi dominati dall’effimero e dal superficiale.


Alberto Marradi / Per il rigore terminologico nel linguaggio scientifico e professionale

veda: Refe-renti, pensiero e linguaggio , nota di Claudio Bezzi]: non importò nulla a nessuno. E praticamente decidemmo lo scioglimento de facto del Cocta. Ci fu questo Turner che è uno che avevo scoperto che era un ragazzo, adesso è diventato un luminare, che cercò di salvare il Cocta cambiandogli il nome, e centrandolo su theory, che adesso è di moda e quindi si “vende”. All’inizio ero ostile, ma alla fine mi resi conto che aveva ragione lui. Solo che mi spararono addosso i vecchi membri, i due-tre superstiti della prima generazione, e non se ne fece nulla. Bezzi: Domanda provocatoria. Poniamoci in un’ottica “darwiniana”. Voglio dire: se la comunità scientifica ha decretato la morte del Cocta, non può essere forse che è venuta meno l’attualità di questa problematica oggi? Qual è l’argomento che tu puoi invocare a difesa? Alberto Marradi, Referenti, pensiero e linguaggio: una questione rilevante per gli indicatori, in “Sociologia e ricerca sociale”, n. 43, 1994. In questo ponderoso saggio di circa settanta pagine, basato su una vastissima letteratura sociologica, antropologica, linguistica e filosofica di circa quattrocento testi, Marradi affronta il tema della conoscenza dividendone – sulla scia di Ogden-Richards e di Popper – gli elementi in tre “sfere” o “mondi”: - mondo 1, dei referenti, ovvero di ciò a cui si pensa o di cui si parla (gli oggetti, ma anche le azioni, gli eventi, ecc.); - mondo 2, del pensiero, ove trovano posto concetti ed asserti; - mondo 3, del linguaggio, e più in generale dei segni. Marradi affronta in modo sistematico e molto denso il rapporto fra questi tre mondi alla ricerca, come gli è consueto, di errori logici ed epistemologici fuorvianti. La distinzione nei tre “mondi”, ed i nessi che li legano, sono questioni particolarmente rilevanti per sfuggire a pericolose confusioni con ricadute rilevanti su fondamentali questioni metodologiche, quale la natura degli indicatori con cui si conclude il saggio. (Claudio Bezzi)

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Marradi: La mia risposta è di parte. È chiaro che io sono un anti-quantofrenico, pur essendo uno che ha introdotto l’SPSS in Italia quando era la battaglia di frontiera. Adesso tutti, anche i neonati fanno analisi con l’SPSS, e non pensano più: oramai sono americanizzati. Si pensa che il computer sia la scienza, e non c’è bisogno di occuparsi delle parole. Si sta andando verso la tecnologizzazione del lavoro scientifico; il mio manuale sarà una reazione decisa, il tentativo di fare l’appello agli ultimi brandelli di cervello ancora rimasti in giro, ma chiaramente è destinato a rimanere una voce di minoranza. Mi sento esattamente come in quei film di fantascienza in cui il mondo sta scoppiando, e allora pochissimi prendono la navicella e navigano nello spazio alla ricerca di chissà cosa. Bezzi: Adesso ti faccio una domanda cattiva (per modo di dire): perché questa è una risposta che va bene parlando alla comunità scientifica. Cioè tu da intellettuale, da scienziato, dici: “Guardate, io vi spiego il perché, all’interno di quella che è una logica che dovrebbe essere condivisa, parto con la navicella”. Parliamo adesso dei professionisti. Per dei professionisti, cioè per persone che campano vendendo ricerca sociale, demoscopica, o valutazione o quello che ti pare, dove può stare la necessità e l’attualità del rigore nel linguaggio e nei concetti? Cioè quale argomento riusciresti a trovare, tu Alberto Marradi, che stai in una


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Alberto Marradi / Per il rigore terminologico nel linguaggio scientifico e professionale

provincia di significato ben precisa? Marradi: Ti rispondo con un articolo del famoso Geoffrey Alexander, uno dei nomi emergenti della sociologia americana. Pierpaolo Donati lo invita a Bologna – primavera 1988 – a fare una sei giorni, veramente un tour de force di primissimo livello, in cui in sei giorni lui esponeva tutte le sue novità teoriche e le sue tesi. Il sesto giorno c’era la parte epistemologica, i suoi contributi epistemologici. Crespi e io eravamo stati chiamati come discussant. E quindi lui mandò questo saggio, sull’importanza dei classici, in cui sosteneva una tesi che a me piacque e che feci sviluppare in una tesi di laurea: de facto – sosteneva Alexander – non c’è dibattito scientifico sugli asserti, cioè non si controlla la verità/falsità nel dibattito. Si litiga sui termini, si richiamano i classici, si fanno considerazioni di valore (la teoria giusta è questa perché è bene che sia così). Il controllo empirico, che è difficile, è una piccola parte. Cosa significa questo? Che la scienza non c’è. Con il laureando, che si chiamava Figàri, cercammo uno specifico dibattito scientifico sul quale controllare la tesi di Alexander. Lui trovò il dibattito sollevato da Sylos Labini col famoso saggio sulle classi sociali. Si dette un sacco da fare ma trovò sostanzialmente solo articoli banali su “Rinascita”; praticamente questa tesi da controllo epistemologico diventò l’analisi dei difetti, degli errori categoriali di questi autori che, in grande misura su “Rinascita”, dibattevano

ideologicamente. Il problema non era l’ideologia, è che proprio non sapevano ragionare. Una tragedia, letteralmente. Quindi, abbiamo provato a controllare empiricamente la tesi di Alexander. Ma, almeno in italiano, non c’era nemmeno il materiale per controllare, da quanto le cose stavano male. Non disponendo di un riscontro empirico della tesi di Alexander mi limito a riaffermare la mia: per controllare empiricamente un asserto ci vuole un certo grado di accordo prima ancora che sulle tecniche, e sul modo di usarle, su cosa significa il termine tale e cosa significa il tal altro. Ecco, lì ha fatto un grandissimo danno Popper, sostenendo che si devono controllare gli asserti senza sapere che cosa significano i termini. Cioè con un illogismo mostruoso. Perché se tu dici: “Garibaldi è morto di sonno”, e per Garibaldi tu intendi Bezzi e quell’altro intende Marradi, e per sonno tu intendi fame e quell’altro intende sete, può capitare che l’asserto risulti vero per te e falso per quell’altro. Per fare scienza bisogna mettersi d’accordo minimamente su cosa significano i termini con cui sono composte le affermazioni. Altrimenti si fa televisione. Bezzi: Mi hai dato una risposta molto importante anche dal punto di vista della professione, che è alla base della domanda di prima. Perché il discorso del controllo diventa fondamentale. Cioè sostenere che un rigore nel linguaggio, un minimo accordo sul linguaggio serve per il

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Alberto Marradi / Per il rigore terminologico nel linguaggio scientifico e professionale

La “Rassegna Italiana di Valutazione” su Internet prevede anche un “Glossario” ipertestuale, implementato via via con nuove voci fornite dagli autori dei saggi. Alcuni cenni sono stati forniti ad Alberto Marradi dal glossario della collana di cui si parla nell’intervento.

controllo da parte della comunità scientifica – ma a questo punto da parte della comunità in generale – significa imporre anche a livello professionale – che è l’interfaccia della scienza – di sottoporsi a questo controllo, cioè di essere disposta a farsi controllare, cosa che chiaramente sta scomoda alla maggior parte di coloro che devono vendere il proprio prodotto (e questa è una cosa di non trascurabile conto!). Ora, per arrivare a una conclusione: il comitato redazionale della collana editoriale di cui tu sei direttore, ossia “Metodologia delle scienze umane” di Franco Angeli, sta facendo un pregevolissimo lavoro di costruzione di un “glossario”. Sarebbe molto bello se ci fosse la vostra disponibilità a dare per il Glossario della “Rassegna Italiana di Valutazione” questo vostro lavoro, le parole sulle quali avete concordato, per tentare di creare un dibattito; e man mano che lo aggiornate noi lo adeguiamo, raccogliamo sollecitazioni, cosa ne pensi? Marradi: Questo glossario, come puoi immaginare, è una mia idea; con mia grandissima sorpresa (una delle rare volte che ho avuto sorprese positive) ha avuto una buona accoglienza ed è diventato uno strumento condiviso dal Comitato che sostiene e coordina la collana. Ricordo che il primo termine sul

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quale, con molto piacere, “persi” fu ‘modalità’, termine di origine statistica. Io preferivo usare ‘categoria’, che è un termine greco; ma immediatamente presi il mio libro Analisi monovariata, feci una ricerca su ‘categoria’, tutte le volte che era il caso lo sostituii con ‘modalità’. E da allora sto usando ‘modalità’, perché questo è lo spirito della nostra operazione. Ritengo che le cose vadano organizzate così: c’è una famiglia di termini, con un’intestazione, tipo ‘classificazione’, oppure ‘misurazione’, ‘scale’, ecc.; se ne prende una per una e si fa il gioco di Saussure, l’opposizione: se questo vuol dire questo, allora... e termini, accezioni consigliate, accezioni sconsigliate, accezioni banali. Naturalmente c’è un elenco di settori ancora non coltivati. C’è ancora tantissimo da fare, naturalmente, coinvolgendo anche altri, comunque già ora molta roba c’è, e tu puoi tranquillamente utilizzarla per la “Rassegna Italiana di Valutazione”.

L ’intervista si è svolta a Perugia l’1 febbraio 1996, ed è comparsa sul n. 2, aprile-giugno 1996, della “Rassegna Italiana di Valutazione”.


Mauro Palumbo - Michela Vecchia / La valutazione: teoria ed esperienze

Valutazione 1998

Un i

q u a d r o t e o r i c o g e n e r a l e e d i a m p i o r e s p i r o c h e s v i l u p pa e c o r r e l a

concet ti

p r i n c i pa l i

che

vengono

u t i l i z z at i

nell’analisi

v a l u t at i v a ,

con un approfondimento sulla valutazione nel campo delle politiche del lavoro .

La valutazione:

teoria ed esperienze

1. Introduzione Nei paesi con maggiore esperienza nel campo delle politiche pubbliche, la legislazione che accompagna gli interventi impone sempre più spesso di destinare risorse alla valutazione degli stessi. Nel panorama italiano sono pochi i casi in cui è stata recepita l’importanza di accompagnare gli interventi con una loro valutazione: il campo forse più ricco di esperienza è quello delle politiche del lavoro (gli esempi più noti sono la legge 44/1986 e l’attività dell’Agenzia per l’Impiego di Trento). Negli anni recenti si riscontra un maggior interesse verso questi temi, anche perché la nuova struttura organizzativa prevista dalle leggi 56/1987 e 223/1991 per l’intervento sul mercato del lavoro prevede esplicitamente attività di monitoraggio e valutazione degli interventi attraverso gli Osservatori del Mercato del Lavoro (OML) e le Agenzie per l’Impiego. Altro campo

di intervento caratterizzato da iniziative di valutazione è quello della formazione professionale. L’interesse maggiore nei confronti di monitoraggio e valutazione si rivela da parte dei governi locali: è a questo livello, infatti, che si registrano le esperienze più significative; si tratta, nella maggior parte dei casi, di interventi di monitoraggio delle politiche adottate, più che di una ve-ra e propria VALUTAZIONE dell’impatto. L’esperienza degli altri paesi, e il confronto con il caso italiano, consentono di trarre alcune prime indicazioni circa le precondizioni necessarie perché si diffonda, anche Ricordiamo al riguardo che la differenza tra monitoraggio e valutazione consiste, secondo la letteratura in argomento, principalmente nel fatto che il primo consta nella “raccolta sistematica e continuativa delle informazioni necessarie per misurare costi e risultati lordi degli interventi”; la seconda “considera invece i risultati netti dell’intervento” (cfr. Samek Lodovici, 1995, p. 64) e, in generale, presuppone un feedback sui processi decisionali che tali politiche hanno attivato.

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di MAURO PALUMBO e MICHELA VECCHIA


Mauro Palumbo - Michela Vecchia / La valutazione: teoria ed esperienze

nel nostro paese, una seria attitudine verso il monitoraggio e la valutazione degli interventi a livello locale e nazionale. Tra i paesi guida si può collocare, a livello europeo, la Francia, che da diversi anni opera efficacemente in questo senso, sottoponendo a studi di valutazione le politiche più significative attivate sul territorio nazionale (cfr. Stame Meldolesi, 1994). In Francia sono state adottate, infatti, diverse iniziative istituzionali a partire dal governo Rocard (fine anni ottanta), caratterizzate da due obiettivi prioritari: 1) modernizzare la gestione pubblica; 2) nutrire il dibattito democratico, fornendo informazioni obiettive sull’efficacia e l’impatto sociale delle politiche pubbliche. In realtà, questi due obiettivi possono essere considerati da un punto di vista più generale come ricerca di nuove forme di razionalizzazione e di legittimazione dell’intervento pubblico. In questo senso, e come viene spiegato molto chiaramente da Patrick Viveret in un rapporto al primo ministro (1989) e nel Primo Rapporto del Consiglio della Valutazione, quest’ultima è un elemento di risposta alla crisi finanziaria dello Stato e alla crisi della sfera politica. Il ragionamento è il seguente: se i paesi occidentali hanno deciso, nella maggioranza, di frenare la crescita dei prelievi obbligatori non è perché i bisogni sociali sono meno pressanti oggi rispetto a

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Valutazione 1998 ieri, ma fondamentalmente perché le modalità tradizionali del processo decisionale, di gestione e controllo in materia di spesa pubblica, non rispondono più alle esigenze (minime) di trasparenza e razionalità. Si tratta dunque, attraverso la valutazione, di far pesare sulle attività della pubblica amministrazione gli stessi obblighi ai quali è sottoposto il mercato e, soprattutto, di renderne socialmente visibili la razionalità e l’utilità. Tutte le azioni pubbliche che sono caratterizzate da un’interazione di logiche eterogenee dovranno essere regolate da un’interrogazione critica sul loro “valore”, accompagnata da uno sforzo di conoscenza del loro impatto sulla società. A un’organizzazione socio-economica fondata sulla specializzazione delle razionalità e sul primato pratico delle regole sul valore, dovrebbe succedere un funzionamento che unisca in modo stretto etica della responsabilità e razionalità strumentale. La complessità degli effetti degli interventi sulla società e l’incertezza sul valore sociale di ciò che viene prodotto dal servizio pubblico diventano preoccupazioni permanenti che devono essere integrate nell’azione e nel processo decisionale. Una volta concluso il processo di valutazione, ed essendo in grado di stilare un bilancio esaustivo dell’intervento pubblico messo in atto, si potrà decidere quale cammino intraprendere: sostituire le misure che hanno registrato un impatto mediocre, cercare nuove soluzioni (magari più


Valutazione 1998 innovative) sulla base di quanto fatto fino a quel momento, apportare semplici correttivi ai dispositivi già adottati per ottimizzarne i risultati.

2. La valutazione: quadro di riferimento Di norma intendiamo con il termine politiche (policies) interventi pubblici o comunque programmati che rispondono a esigenze o bisogni collettivi, complessi sia sotto il profilo del processo decisionale che di quello d’implementazione, che mirano a incidere su popolazioni di riferimento più o meno vaste, ma comunque “altre” rispetto ai decisori. Una breve discussione dei termini impiegati nella definizione proposta evidenzia l’ambito d’azione della valutazione. 1) Politiche pubbliche o interventi comunque programmati: si tratta di due caratteristiche che non si escludono a vicenda, dal momento che quasi tutte le politiche pubbliche sono, almeno nelle intenzioni o nelle enunciazioni dei decisori, programmate. Il carattere pubblico di una politica ne rende possibile, quantomeno in linea teorica, la riconducibilità a competenze istituzionali da cui discendono le FINALITÀ dell’intervento e, in una certa misura, percorsi o vincoli nell’azione. “Comunque programmati” sta a significare che, se da un lato per l’ente pubblico dovrebbe essere

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Le finalità potrebbero essere definite come gli scopi o gli obiettivi (generalissimi) di una politica, considerati al più alto livello di astrazione. A questo livello, finalità e competenze sono quasi sovrapposti, dal momento che le competenze corrispondo ai poteri di cui dispone la mano pubblica in relazione al suo diritto/dovere di intervenire in un determinato ambito. Apparentemente le competenze, intese come campo in cui si esercita il potere legittimo di un soggetto pubblico, non predefiniscono anche i contenuti delle azioni (ossia i loro obiettivi e i risultati attesi), ma queste, nei termini più generali, non possono essere in contrasto con la fonte della loro legittimazione. Pertanto, una competenza in materia di lavoro troverà corrispondenza nella generalissima finalità di sviluppare e tutelare le diverse attività lavorative, in coerenza anche con il dettato costituzionale. Potranno naturalmente variare i modi in cui promuovere tale sviluppo, ma non sarà ipotizzabile come oggetto di tale competenza, ad esempio, la limitazione o l’esclusione dal lavoro di talune fasce di cittadini. Analogamente, la competenza in materia di giustizia comporterà finalità di tutela dei cittadini, in assenza di qualunque discriminazione. Queste osservazioni sembrano rilevanti per consentire al valutatore di affrontare con successo politiche prive di finalità esplicite, ovvero attività di routine che rendono difficile allo stesso operatore pubblico l’esplicitazione di finalità e obiettivi. Ancora, consentono di tradurre in termini analizzabili dalle scienze sociali attività genericamente rivolte ad “applicare le leggi” o a “svolgere compiti istituzionali”. Una compiuta attività di valutazione non può infatti prescindere dalla ricostruzione e presa in carico di finalità e obiettivi del decisore, anche se un più generale monitoraggio degli esiti di una politica (a prescindere dalle sue finalità e obiettivi) è comunque sempre possibile. Quello che non sarebbe consentito, qualora non sia possibile ricostruire finalità e obiettivi della politica (ma a nostro giudizio questo è solo un caso-limite), è l’effettuazione del raffronto tra aspettative e risultati che, a nostro giudizio, costituisce il cuore di ogni attività di valutazione.

I percorsi o vincoli all’azione discendono dal fatto che la natura istituzionale di un ente pubblico, la delimitazione delle sue competenze, il complesso di norme che definisce le relazioni e l’operato degli enti pubblici, i principi organizzativi che ne discendono e altro ancora predeterminano o vincolano, nei fatti, l’attività di tali soggetti. Ad esempio, un Comune non può pianificare un territorio esterno ai suoi confini (anche se le sue scelte possono influenzare notevolmente i Comuni vicini); un ente erogatore di incentivi o di servizi non può operare discriminazioni tra i potenziali beneficiari se non sulla base di criteri predefiniti, ecc.

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sempre ricostruibile la razionalità strumentale che ne governa l’azione, a prescindere dal fatto che questa sia esplicitata in un documento di valenza programmatoria, d’altro lato la maggior parte delle organizzazioni complesse tende ad agire, per sua natura, secondo logiche di razionalità strumentale. La riconducibilità a tali principi è infatti connaturata al concetto stesso di organizzazione, anche se è noto che molti filoni d’analisi sottolineano i limiti di tale razionalità, giungendo in casi estremi a negarla. 2) La complessità sta a sottolineare che, di norma, le decisioni degli enti pubblici (come quelle delle organizzazioni private di maggior consistenza) sono frutto della convergenza, formale o sostanziale che sia, di più soggetti e, soprattutto, che quasi mai chi compie una scelta è poi lo stesso soggetto che la attua, anche se può mantenerne per intero la responsabilità formale. È del resto noto che la valutazione di processo (vedi oltre) si rivela spesso indispensabile per comprendere le ragioni della parziale o totale inefficacia delle scelte, i cui esiti dipendono dalle modalità di implementazione delle politiche in misura spesso maggiore che dalle modalità della loro definizione. 3) Il riferimento a esigenze e bisogni di una collettività costituisce a sua volta un elemento importante per la valutazione, dal momento che presiede alla traduzione delle finalità in obiettivi e fornisce al tempo stesso un criterio di congruenza (ex ante)

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Valutazione 1998 dell’articolazione di una politica in specifiche linee d’intervento. Questo punto fa sorgere tuttavia due interrogativi, tra loro connessi. Il primo riguarda il grado in cui i bisogni sociali cui le politiche intendono rispondere siano in qualche modo strutturati, o al limite “deformati”, dalla “definizione” che ne viene data leggendoli secondo la specifica chiave di lettura costituita dalle finalità generali delle politiche stesse. È infatti evidente che i “bisogni” costitui-scono comunque un’astrazione rispetto al continuo fluire delle esigenze (espresse o meno) dei membri di una collettività; un’astrazione che necessariamente si configura anche come una loro “segmentazione” e “specificazione”, alla luce appunto dei presupposti delle politiche stesse, riconducibili a loro volta alla natura e alle competenze istituzionali dell’attore pubblico. In questo senso è attraverso la definizione delle politiche che si “forma” (e talvolta si deforma) una “domanda sociale” che non può configurarsi come tale in assenza di una gamma di “risposte possibili” ascrivibili a un soggetto pubblico. In altre parole, la domanda di posti di lavoro cui le politiche occupazionali tentano di dare risposta nasce come risposta a un insieme più ampio e indifferenziato di “bisogni” (di reddito, di autonomia economica, di autorealizzazione personale, d’inserimento sociale, ecc.) di cui sono portatori i membri di una società, nella cornice di una specifica cultura.


Valutazione 1998 È infatti ovvio che il modo in cui si manifesta il bisogno di un’occupazione è condizionato dai modelli culturali di una società, in particolare dal modo in cui viene concepito il “lavoro” (come diritto/dovere di ogni adulto, come assunzione di responsabilità e ruolo sociale, come attività retribuita esercitata in particolari condizioni, ecc.; cfr. sul tema Gorz, 1988; Reyneri, 1996). Il secondo punto concerne le modalità di misurazione dei bisogni cui un intervento o una politica intende rispondere. Si tratta di un problema epistemologico, metodologico e politico, prima ancora che tecnico. Infatti, una definizione “oggettiva” di bisogni da cui trarre spunto per la loro misurazione è inattingibile non solo per ragioni epistemologiche (ci si riferisce all’improponibilità di un “punto centrale di osservazione” su cui poter fondare l’oggettività della scienza, com’è ormai convinzione corrente nell’epistemologia contemporanea; cfr. Giddens, 1979), ma anche per ragioni politiche, in quanto sarebbe comunque partigiano proporre un “punto di vista del cittadino” contrapposto a quello delle istituzioni. Questa posizione comporterebbe poi, come ulteriore aggravante, il rischio di una posizione “fondamentalista” da parte di un valutatore che pretenda di erigersi a unico interprete autorizzato dei “veri” bisogni della popolazione (cfr. sul tema Palumbo, 1993). I bisogni andrebbero più correttamente visti come risultato di una coproduzione

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dei decisori e dei destinatari delle politiche, mediata dal comune sistema socio-culturale di appartenenza e dalle procedure operative grazie alle quali la definizione di bisogni prende corpo. Queste riflessioni non comportano tuttavia che la definizione dei bisogni proposta (in modo esplicito o implicito) dai decisori debba essere assunta in modo acritico dal valu-tatore. Questo ha infatti a disposizione diversi strumenti di controllo della “definizione della situazione” assunta dai primi. Innanzi tutto le concezioni correnti nel mondo scientifico e in quello “della vita quotidiana”; in secondo luogo quelle proposte da altri operatori, pubblici e privati, che intervengono sullo stesso problema, ivi incluse le eventuali associazioni di tutela o autotutela dei cittadini; in terzo luogo da contesti analoghi propri di altre realtà nazionali o locali; da ultimo, gli stessi riferimenti desumibili dalle norme e dalle deliberazioni assunte dai decisori. Sotto quest’ultimo aspetto, saper declinare i concetti di bisogno espressi dai decisori nei diversi documenti normativi e programmatici consente di coglierne per intero il significato loro attribuito, al di là del modo in cui tali bisogni vengono “colti” o accolti dagli interventi predisposti. In altre parole, la semantica dei bisogni espressa dal decisore è spesso molto più ampia della sintassi degli stessi desumibile dagli interventi messi in atto; mettere in luce le discrasie tra le due può già di per sé costituire

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un’operazione utile e innovativa (un esempio banale è costituito dalle politiche sanitarie, al cui interno, com’è noto, le enuncia-zioni di principio definiscono una gamma di bisogni assai più ampia di quella che risulta poi considerata dal complesso degli interventi che queste si prefiggono di realizzare). Quanto detto lascia impregiudicato l’aspetto “tecnico” relativo alla misurazione dei bisogni, che costituisce un punto di riferimento imprescindibile sia per la definizione delle politiche che per la loro valutazione. A questo proposito si osserva che la necessità di dare realmente voce alle esigenze di cittadini che spesso vengono considerati solo quando riescono ad assumere il ruolo di “utenti” costituisce un’operazione spesso tecnicamente complessa e sempre impegnativa sotto il profilo etico e deontologico. In analogia con quanto osservato dalle più avvertite analisi sulla qualità della vita (cfr. Vergati, 1995 e 1989), la dimensione soggettiva richiede di essere tenuta in considerazione almeno quanto quella “oggettiva” (ossia fornita da soggetti terzi rispetto ai diretti interessati). Gli aspetti tecnici sono comunque indissolubilmente legati a quelli metodologici e d’impostazione complessiva della valutazione. Basti pensare al fatto che un’ulteriore distinzione, su cui non ci si sofferma in questa sede, corre tra approcci topdown, che si prefiggono di misurare gli esiti a partire dai risultati attesi

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Valutazione 1998 dalle politiche (cfr. Van Meter - Van Horn, 1975), e approcci bottom-up, che partono invece dagli impatti (si vedano i lavori della Tendler) per risalire alle politiche, occupandosi quindi principalmente l’uno dell’efficacia interna, l’altro di quella esterna. È evidente che l’attenzione ai destinatari delle politiche sarà diversa nei due casi e diverse saranno le modalità di rilevazione degli esiti.

3. La valutazione: definizioni e obiettivi Ci si è soffermati in altra sede (Palumbo, 1995) sulla distinzione tra esito (output) e impatto di una politica. Con il primo termine si fa riferimento ai risultati ottenuti da questa in rapporto agli obiettivi prefissati; con il secondo al reale effetto ottenuto sull’ambito socio economico o territoriale cui era destinata. Secondo alcuni autori, l’output è costituito dall’esito “diretto” di un’azione, mentre l’impatto comprende l’insieme delle modifiche del mondo rea-le che l’azione produce. Un’ampiezza intermedia di significato viene assegnata al termine outcome (risultato) dell’azione, inteso come “la modifica del comportamento dei soggetti destinatari della politica” (Nomisma, 1991, p. 93). In questo senso, l’outcome misura anche gli effetti non previsti o non predeterminati dell’azione, limitando l’analisi unicamente ai


Valutazione 1998 destinatari della stessa . Altri autori (cfr. Agnoli - Fasanella, 1996) leggono invece il percorso di una politica dalla fase di predisposizione a quella in cui ha dispiegato per intero i propri effetti attraverso le tre categorie analitiche dell’input, che “riguarda le risorse umane e materiali impiegate nello svolgimento dell’attività da valutare”, il throughput, che si riferisce “agli aspetti relativi al percorso/processo attraverso il quale, poste determinate condizioni di partenza (input) si perviene a un certo risultato (output)” e output, che “dà conto del risultato finale ottenuto nello svolgimento della stessa attività” (p. 115). Secondo una consolidata letteratura, si distingue tra valutazione di efficienza, che concerne l’impiego ottimale delle risorse disponibili (finanziarie, ma anche di tempo e professionalità) per il conseguimento degli obiettivi prefissati, e di efficacia, che si riferisce al grado di conseguimento degli obiettivi attraverso il raffronto tra risultati ottenuti e risultati attesi o bisogni che si intendeva soddisfare. È evidente come i due concetti siano legati, ma la valutazione di efficienza acquisisce significato solo se accompagnata a quella di efficacia: quando si valuta l’impiego di risorse pubbliche il primo aspetto da considerare è il criterio della massimizzazione del risultato (grado di conseguimento degli obiettivi), ma essendo le risorse sempre scarse e suscettibili di impieghi plurimi, un ulteriore criterio di valutazione è costituito, a parità di

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La Regione Lombardia cerca altresì di classificare in modo esaustivo i tipi di risultati che possono essere censiti. Viene proposta una tipologia di standard articolata in: 1) standard di tipo fisico (o di prodotto): si tratta di indicatori che descrivono l’attività svolta in termini fisici: atti prodotti, prestazioni effettuate, metri di acquedotto costruiti, ecc.; 2) standard di tipo fisico-economico (di costo): si tratta di indicatori di costo medi per unità di prodotto (fisico) realizzato; ad esempio, costo medio posto utilizzato, allievo formato, prestazione erogata, ecc.; 3) standard di impatto (o di efficacia) [in questo caso il termine efficacia viene impiegato nell’accezione di efficacia esterna, ossia di rapporto tra risultati conseguiti o attesi e bisogni che hanno dato origine all’intervento]: grado di raggiungimento dell’obiettivo finale in termini di soddisfazione del bisogno o di protezione del bene. Ad esempio, concentrazione di sostanze inquinanti da ottenere, quota di utenza potenziale servita, ecc.; 4) standard di processo (tecnologici): quando viene prescritto non tanto un risultato, quanto una modalità di raggiungimento dello stesso, come accade per gli standard urbanistici imposti dalla Regione ai Piani regolatori; 5) standard organizzativi o procedurali: quando le prescrizioni riguardano le procedure da seguire (ad esempio, consultazioni o partecipazione) per la realizzazione di un’attività. Questa classificazione non sembra peraltro rispondere pienamente al requisito dell’unicità del criterio (Marradi, 1980), in quanto gli standard di tipo fisico o fisico-economico possono riguardare sia l’efficacia interna che quella esterna.

risultati, dall’ottimizzazione dell’impiego delle risorse e dalla massimizzazione dell’efficienza. La valutazione di efficacia delle politiche pubbliche viene generalmente distinta (cfr. Resmini, 1993) in due categorie fondamentali: 1) efficacia interna (o gestionale), intesa come capacità di raggiungere gli obiettivi o i risultati attesi fissati a priori dai decisori; 2) efficacia esterna (o sociale), intesa come capacità del prodotto/servizio

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offerto dal decisore di soddisfare i bisogni degli utenti. Nel primo tipo di valutazione ci si preoccupa, quindi, di confrontare i risultati attesi con quelli ottenuti senza necessariamente chiedersi se i primi sono coerenti con i bisogni della collettività; nel secondo, ci si chiede se i risultati ottenuti, al di là della loro coerenza con quelli programmati, hanno davvero assolto, e in quale misura, ai bisogni sociali che rendono necessario l’intervento. Infine, prendendo a riferimento il momento nel quale viene effettuata la valutazione, si distingue tra: 1) ex ante, ossia prima dell’avvio di un programma o di un intervento; 2) on going o in itinere, in corso di realizzazione; 3) conclusiva, al termine dell’attuazione di un programma o intervento; 4) ex post, quando l’intervento o il programma hanno iniziato a dare i loro frutti. In molti casi non si opera una distinzione tra valutazione conclusiva ed ex post, utilizzando quest’ultimo termine per designare entrambe. Al contrario, è nostra convinzione che sia particolarmente opportuno mantenerla, in quanto alcuni effetti delle politiche possono essere rilevati solo al termine delle stesse (ad esempio, il grado di soddisfazione degli allievi di un corso di formazione, o la preparazione acquisita), mentre altri richiedono per il loro dispiegarsi un certo tempo (ad esempio, l’occupazione degli allievi formati, ovvero eventuali aumenti

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Valutazione 1998 retributivi o avanzamenti di carriera degli occupati formati). Nelle esperienze più diffuse di valutazione la distinzione principale viene riferita alle due modalità maggiormente usate: efficacia ex ante ed efficacia ex post. La prima riguarda la coerenza tra bisogni e obiettivi (efficacia esterna ex ante) o quella tra obiettivi e risultati attesi (efficacia interna ex ante); la seconda, invece, la coerenza tra i risultati conseguiti e bisogni (efficacia esterna ex post, o valutazione d’impatto) o tra risultati conseguiti e risultati attesi (efficacia interna ex post o valutazione degli esiti). Si può distinguere inoltre tra valutazione di processo, che tiene conto dell’intero percorso di adozione/attuazione delle politiche; valutazione d’impatto, che si concentra maggiormente sui loro esiti (ivi inclusi quelli inintenzionali, sui quali si rinvia a Stame, 1990 e Tendler, 1992) e sistemi di monitoraggio. Rispetto alle distinzioni sopra considerate, si può affermare che nell’ambito delle politiche attive del lavoro assumono rilevanza in primo luogo la valutazione di efficacia (in particolare ex ante ed ex post) e solo in subordine quella di efficienza; in secondo luogo prima la valutazione d’impatto e poi quella di processo; da ultimo, per quanto attiene la misurazione, gli standard di tipo fisico, economico e quelli d’impatto. Si deve precisare inoltre che, di norma, esistono diversi “livelli” ai quali può essere effettuata una valutazio-


Valutazione 1998 ne, in accordo con corrispondenti livelli di generalità di una politica. Oggetto di valutazione potrebbero dunque essere: 1) obiettivi generali, quali derivano dai compiti istituzionali o dalle ma-croscelte politiche (ad esempio, diminuzione della disoccupazione); 2) strategie, ossia insieme coerente di obiettivi e azioni (ad esempio, aumentare le occasioni di lavoro); 3) obiettivi specifici, ossia subobiettivi delle strategie, ovvero finalità specifiche delle strategie più generali (ad esempio, sviluppare l’occupazione dipendente nella PMI; sostenere l’au-toimprenditorialità); 4) risultati attesi, ossia esiti concreti di una politica, ovvero traduzione operativa di un obiettivo (ad esempio, creare un certo numero di nuovi posti di lavoro dipendenti, ovvero un certo numero di nuove imprese). Volendo riferire queste distinzioni alla terminologia in uso nella programmazione comunitaria, si potrebbe tracciare un’analogia con: 1) politiche (ad esempio, politica del lavoro); 2) strategie (ad esempio, politiche formative); 3) programmi (ad esempio, Obiettivo 3); 4) misure (ad esempio, formazione per una singola fascia d’utenza). Detto per inciso, al crescere della complessità degli oggetti della valutazione decresce l’utilizzabilità di tecniche di valutazione consolidate quali l’analisi costi-benefici e l’analisi costi-efficacia (cfr. Pennisi, 1996).

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Ma esistono anche tipi diversi di valutazione, in relazione agli aspetti che si ritengono rilevanti. Il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale (1992), nella valutazione della formazione professionale individua aspetti quali la sicurezza (concernente l’affidabilità delle strutture), la pertinenza (coerenza delle singole azioni proposte con i requisiti del Programma), la rispondenza (capacità del prodotto formativo di rispondere alle esigenze degli utenti), la rilevanza (di una singola azione formativa rispetto alla classe cui appartiene), l’effetto moltiplicatore (capacità di innescare circuiti positivi e grado di riproducibilità dell’azione). Tali indicatori sono poi strutturati su quattro aree valutative :

Al di là di aspetti specifici della valutazione cui si riferisce il Ministero, è bene osservare che i diversi tipi di valutazione citati sono comunque riconducibili alle due categorie principali sopra illustrate. La sicurezza rientra infatti nelle valutazioni di processo e costituisce un prerequisito dell’efficacia (valutata ex ante); la pertinenza si riferisce al fatto che ogni “salto di livello” di una politica (ad esempio, dai Programmi alle Misure) deve essere motivato in termini di coerenza logica nei confronti del livello superiore; la rispondenza rientra sicuramente nel concetto di efficacia (ex ante), al pari della rilevanza, dal momento che riguardano entrambe il grado di sovrapposizione tra obiettivi e bisogni, la prima da un punto di vista semantico e la seconda da un punto di vista quantitativo; l’effetto moltiplicatore, infine, sembra costituire uno dei diversi modi possibili di leggere in modo congiunto le valutazioni di efficacia ed efficienza, sia dal punto di vista del processo che dell’impatto: una sorta di “metavalutazione”, piuttosto che un suo diverso tipo. Per quanto attiene la rilevanza, va detto che nell’ambito del Programma “Méthodes d’Evaluation del Actions de Nature Structurelle” (MEANS) della DG XVI dell’Unione Europea (cit. in Stame Meldolesi,

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1996) essa viene considerata una caratteristica “a monte” dell’efficacia, in quanto riguarderebbe la relazione tra problemi e obiettivi, mentre l’efficiacia si riferirebbe al percorso successivo, da obiettivi a mezzi impiegati a risultati ottenuti. Nell’accezione proposta in questo testo (cfr. anche Resmini, 1993 e Palumbo, 1995), invece, l’efficacia (esterna) copre anche la relazione tra bisogni e obiettivi, quindi la rilevanza ne costituisce una parte. Tale accezione è confermata peraltro dall’interpretazione proposta dall’ISFOL (1996) degli orientamenti del Fondo Sociale Europeo, dal momento che viene operativizzata in termini di quota di beneficiari di un’azione in rapporto alla popolazione di riferimento e considerata quindi all’interno della valutazione d’impatto (che costituisce valutazione di efficacia esterna nel senso più ampio).


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finanziaria, economica, didattica, organizzativa.

4. La valutazione delle politiche attive del lavoro A seguito della sempre più frequente non corrispondenza dei risultati delle manovre tradizionali volte a migliorare il mercato del lavoro dovuta, soprattutto, a rapide modificazioni strutturali e al sorgere di nuovi bisogni, le politiche neoclassiche prekeynesiane hanno lasciato sempre maggiore spazio alle politiche attive del lavoro che si caratterizzano essenzialmente per voler incidere direttamente sulla struttura del mercato del lavoro attraverso l’adeguamento delle caratteristiche di coloro che aspirano a un’occupazione alle esigenze della domanda, incidendo sull’organizzazione stessa del mercato del lavoro e creando nuove possibilità occupazionali. Le politiche attive del lavoro sono quindi volte a migliorare il funzionamento e a facilitare l’accesso dei lavoratori sul mercato del lavoro. La valutazione delle politiche, in generale, e delle politiche attive del lavoro, in particolare, costituisce parte essenziale del processo di realizzazione di interventi che siano socialmente ottimali. Un primo elemento di complessità che caratterizza questo tipo di politiche è la molteplicità degli obiettivi che si possono raggiungere attraverso un dato intervento, la possibilità che

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Valutazione 1998 questo vada a incidere su obiettivi non primari della politica (cosiddette esternalità di un intervento) o che lo stesso obiettivo possa essere raggiunto con differenti interventi (in questo caso l’analisi deve essere realizzata in modo comparato, soprattutto rispetto ai diversi risultati che possono essere raggiunti). Gli studi di valutazione hanno lo scopo, come già detto, di valutare costi e benefici degli interventi di politica economica e sociale e si inseriscono nell’ampia tipologia delle analisi rivolte a verificare la bontà di interventi effettivi o potenziali. Tra queste analisi si possono distinguere: 1) valutazioni di processo ;

Le valutazioni di processo hanno al loro centro l’analisi di come l’intervento possa essere impostato e realizzato e quindi verificare se le diverse fasi della realizzazione dell’intervento sono state consone a un modello di operare efficiente. Le domande alle quali si cerca di dare una risposta sono generalmente: 1) c’è congruenza tra gli obiettivi di chi ha progettato l’intervento e gli obiettivi seguiti da chi gestisce l’intervento? 2) qual è il grado di cooperazione tra i vari soggetti coinvolti negli interventi (politici, amministratori, ricercatori, partecipanti)? 3) sono state raggiunte le persone che si voleva beneficiassero dell’intervento? 4) le procedure di partecipazione sono complesse o semplici e quali sono i termini di realizzazione delle diverse fasi (presentazione delle domande, esame delle domande, esecuzione delle decisioni, ecc.)? 5) quante risorse sono state impiegate per organizzare l’intervento? 6) si tratta di interventi suscettibili di avere ricadute positive nel contesto socio-economico nel quale sono attivate? È evidente come, in questo caso, il fulcro dell’analisi siano più il processo e le istituzioni coinvolte nell’intervento che i soggetti destinatari della misura e le modificazioni che si sono prodotte nel funzionamento del mercato del lavoro.


Valutazione 1998 2) sistemi di monitoraggio di interventi specifici ; 3) valutazioni d’impatto . I primi due tipi di analisi si trovano di fronte alla difficoltà di tener conto di tutti i possibili effetti diretti e indiretti di un intervento di politica del lavoro: in presenza di interventi con obiettivi multipli è invece necessario valutare gli effetti globali (sia a livello micro che a livello macro) che possono esplicitarsi sia nel breve che nel lungo periodo, il che induce a preferire le valutazioni d’impatto, che di norma risultano tuttavia più costose e difficili. I sistemi di monitoraggio, dal canto loro, hanno quale scopo precipuo quello di raccogliere dati riguardanti specifici interventi. I dati raccolti riguardano sia gli input (risorse impiegate e costi sostenuti) che gli output (dati di “attività” e/o dati di “efficacia” rispetto a un dato obiettivo). Per poter parlare di “sistema di monitoraggio” è necessario che i dati di input e di output siano raccolti e analizzati in modo regolare e sistematico e non episodico e asistematico. Confrontando misure di output e misure di input si possono evidenziare anche indicatori di efficienza. Dal momento che l’output può essere misurato sia in termini di “attività” che di “efficacia”, l’efficienza può essere espressa sia come “efficienza produttiva” (rapporto tra “attività” e “risorse” o l’inverso) che come “efficienza finale” (rapporto tra risultati ottenuti in termini di efficacia e “attività”) sia in termini di “efficienza globale” (rapporto tra “risultati ottenuti in termini di efficacia” e “risorse” o l’inverso). Si resta comunque nell’ambito dei sistemi di monitoraggio se mancano confronti con la situazione che, in termini di obiettivi da raggiungere, si sarebbe avuta in assenza dell’intervento o con i risultati che, sugli stessi obiettivi, si sarebbero ottenuti realizzando interventi alternativi. effetti di un’azione programmata per determinati obiettivi” (p. 8), mentre “il monitoraggio è un sistema di raccolta di informazioni [...] che possono essere utilizzate anche per la valutazione” (p. 7, n. 10), ma questa, a differenza del monitoraggio, deve riferire i risultati agli obiettivi, quindi consentire un giudizio critico sulla politica in esame, in vista di un suo eventuale miglioramento.

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Le valutazioni di impatto possono essere suddivise in diverse tipologie, con riferimento al modo della valutazione o al momento della valutazione. Sotto il primo punto di vista, si possono distinguere: 1) valutazioni sperimentali che, nel valutare l’impatto dell’intervento, utilizzano il metodo proprio della ricerca sperimentale (si crea un campione casuale di soggetti che sono stati oggetto dell’azione e si confrontano con ciò che si verifica nel gruppo di controllo costituito da soggetti che non hanno beneficiato dell’intervento in esame); 2) valutazioni non sperimentali nelle quali viene effettuata una valutazione comparata degli effetti (in termini di costi e benefici) dell’intervento realizzato o in via di realizzazione. Questa valutazione comparata viene condotta ricostruendo la situazione di confronto o attraverso metodi di stima econometrica, o attraverso indagini sul campo nei confronti di campioni non costruiti secondo le normali tecniche sperimentali casuali. Se ci si riferisce, invece, al tipo di inserimento della valutazione nel processo decisionale, si possono distinguere: 1) valutazioni dimostrative, cioè analisi pilota condotte su particolari campioni allo scopo di verificare preliminarmente i presunti costi/ benefici dell’intervento rispetto alla situazione base e/o rispetto a interventi alternativi. Dai risultati di quest’indagine preliminare dipen-

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Le valutazioni di impatto si prefiggono uno scopo più ambizioso degli altri tipi e si trovano ovviamente ad affrontare maggiori difficoltà: infatti, esse non si limitano a osservare il valore effettivo della variabilerisultato rispetto a un determinato gruppo e in un determinato periodo di tempo, ma mirano a stimare il valore che la stessa variabile-risultato avrebbe mostrato nello stesso lasso di tempo e per gli stessi soggetti nell’ipotesi in cui questi ultimi non fossero stati oggetto dell’intervento. La bontà del risultato sarà quindi misurata in riferimento alla differenza tra questi due valori della variabile obiettivo.


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de, generalmente, la realizzazione dell’intervento; 2) valutazioni effettive, cioè analisi condotte nei confronti di interventi realizzati nella loro dimensione a regime (al termine o nel corso dell’intervento). I risultati ottenuti da una valutazione di questo tipo vengono utilizzati quali valutazioni dimostrative per successive decisioni a livello politico (cfr. Ciravegna, 1994). La caratteristica fondamentale delle analisi d’impatto resta, comunque, quella della formulazione di un giudizio di tipo controfattuale. Questo si rende necessario quando da un interesse semplicemente descrittivo (sistemi di monitoraggiO DI INTERVENTI SPECIFICI) si passa a un interesse strettamente valutativo. Nel primo caso, infatti, abbiamo analisi destinate a registrare l’output di un determinato intervento (la sua performance) attribuendo direttamente e arbitrariamente le variazioni della variabile-risultato all’intervento. Nel caso dell’analisi controfattuale, invece, lo scopo è quello di stabilire in modo rigoroso la misura in cui l’andamento della variabile-risultato è effettivamente causato dall’intervento (si cerca di valutare l’impatto netto della messa in atto della misura). Nel calcolare l’effetto netto occorre tener conto, e quindi cercare di valutare, per sottrarli dal risultato lordo, cinque effetti di dispersione che l’intervento può attivare: 1) l’effetto inerziale (o deadweight) che si registra quando il risultato si

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Valutazione 1998 sarebbe ottenuto anche in assenza dell’intervento; 2) l’effetto difensivo (o “domino”) che si ha quando l’intervento coinvolge alcuni destinatari che si sono assoggettati a esso unicamente per adeguarsi al comportamento di altri soggetti; 3) l’effetto di anticipazione che si verifica quando il risultato dell’intervento anticipa ciò che sarebbe comunque accaduto; 4) l’effetto di sostituzione che si registra quando i fruitori della misura godono di un risultato positivo a danno di altri soggetti non fruitori dell’intervento (è il caso in cui non si modifica il numero di lavoratori in un certo settore ma unicamente la loro composizione); 5) l’effetto spiazzamento, simile al precedente, che si ha quando i soggetti spiazzati non sono soggetti che competono a livello micro, ma altri che vengono coinvolti a livello globale (ad esempio i lavoratori che vengono occupati da imprese oggetto dell’intervento che vengono ad assumere un peso maggiore rispetto ad aziende che non hanno fruito della stessa politica). Essenziale, per la valutazione d’impatto, la costruzione di uno scenario (o più di uno) controfattuale. Il metodo più accurato è quello di assegnare casualmente gli individui idonei e selezionati per beneficiare della misura a due gruppi distinti di cui uno è classificato come gruppo di controllo (i soggetti che appartengono a questo insieme non bene-


Valutazione 1998 ficiano della politica implementata) e l’altro come gruppo sperimentale (le persone che appartengono a questo secondo gruppo beneficiano normalmente della misura). L’assegnazione casuale degli individui a uno dei due gruppi garantisce che questi presentino mediamente le stesse caratteristiche e questo fatto darà un quadro corretto dell’impatto reale del programma sui partecipanti all’intervento. In alternativa alla metodologia appena descritta, si può ricorrere (per la costruzione dello scenario controfattuale) alla creazione di un campione composto da un gruppo di partecipanti al programma e da un gruppo (di comparazione) che non è oggetto della misura ma che faccia registrare una certa similitu-dine con il primo insieme. Ultima alternativa, non ricorrere a un gruppo di controllo, ma basare la valutazione dell’intervento sull’apprezzamento soggettivo dell’impatto da parte degli individui oggetto dell’azione attraverso interviste volte a determinare se il loro comportamento o la loro condizione sarebbe stata la stessa in assenza di intervento.

5. Due esperienze esemplari: gli Stati Uniti e il Canada Nei paesi con maggiore cultura ed esperienza nel campo della valutazione degli interventi sociali in generale (Stati Uniti e Canada), la

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normativa che regola gli interventi di politica del lavoro impone in modo preciso che essi siano valutati, destinando a questo fine apposite risorse. Negli Stati Uniti, un’apposita legge impone il monitoraggio e la valutazione delle politiche sociali, inducendo i decisori a produrre studi che forniscano indicazioni circa l’efficacia degli interventi realizzati, ma anche di perfezionare le tecniche e metodologie di valutazione per evitare procedure errate che indirizzino i politici verso interventi non adatti a raggiungere gli obiettivi fissati. In questo paese vengono applicati, generalmente, metodi di valutazione sperimentali e praticamente solo in questo paese si realizzano studi dimostrativi. Per quanto riguarda i paesi europei, invece, vengono seguite procedure non sperimentali o quasi-sperimentali. Gli studiosi europei, oltre a sottolineare le difficoltà insite nella realizzazione di valutazioni sperimentali, sono piuttosto scettici circa l’utilità di questo procedimento e l’utilizzabilità dei risultati così ottenuti (cfr. Samek Lodo-vici, 1995). Più in particolare, i primi tentativi significativi di valutazione delle politiche del lavoro sono state attuate attraverso il metodo sperimentale e risalgono alla fine degli anni settanta. In quei casi si trattava di valutazioni, condotte in diversi Stati, riguardanti l’impatto sull’incentivo al lavoro introdotto con un sistema di tassazione negativa (Negative Income Tax) o di un reddito annuo

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Mauro Palumbo - Michela Vecchia / La valutazione: teoria ed esperienze

garantito (Guaranteed Annual Income) o di interventi nel campo della sicurezza/assistenza sociale e dell’educazione. A partire dalla metà degli anni settanta, gli studi di valutazione si sono rivolti maggiormente a interventi di politica attiva del lavoro in particolare rivolti alle fasce deboli del mercato del lavoro e a interventi mirati a gruppi ben precisi di popolazione. Parallelamente sono anche cambiate le tecniche di valutazione sperimentale e si è passati, quindi, da esperimenti che duravano a lungo e impiegavano campioni rappresentativi ampi (soglie minime di 4-5.000 unità) in diverse località, a esperimenti di durata più breve e condotti su scale modeste. Per quanto riguarda, invece, politiche del lavoro più ampie sono state spesso impiegate metodologie di tipo non sperimentale come ad esempio per valutare gli effetti

Valutazione 1998 del Comprehensive Employment and Training Act del 1973, riguardante interventi di formazione professionale e di sostegno all’occupazione. In quel particolare caso si trattava di valutare l’accresciuta capacità di guadagno dei soggetti che ricevono formazione o assistenza o la maggiore probabilità di occupazione e/o la minore durata dell’inoc-cupazione. Nonostante la creazione di una banca dati di tipo longitudinale da parte del Dipartimento del Lavoro (Continuous Longitudinal Manpower Survey), i risultati non furono considerati soddisfacenti in quanto poco affidabili rispetto a quelli ottenuti con metodi sperimentali. L ’attuale tendenza, viste le difficoltà rilevate nel condurre esperimenti sociali, è quella di applicare metodologie quasi-sperimentali per le quali si può contare anche sulla disponibilità di dati di monitoraggio

QUADRO DI RIFERIMENTO DELLA VALUTAZIONE: LE POLITICHE

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Valutazione 1998 accurati e su tecniche econometriche sofisticate e solide. Altro esempio interessante è quello del Canada che presenta metodologie di valutazione diverse da quelle degli Stati Uniti e più simili a quelle adottate in Europa (quasi sempre di tipo non sperimentale). L’inizio della valutazione delle politiche del lavoro in Canada si può far risalire alla seconda metà degli anni sessanta e sono, ancora oggi, affidate al Ministero del Lavoro. A parte un caso (il Manitoba Income Maintenance Experiment), nel quale si cercò di applicare metodologie sperimentali, la procedura più seguita è quella di utilizzare un’indagine ad hoc per coloro che partecipano al programma e dati già disponibili (ad esempio una banca dati longitudinale costruita attraverso le diverse fonti amministrative) per creare un gruppo di comparazione con caratteristiche il più possibile simili a quelle dei partecipanti. Pur avendo elaborato unitariamente questo saggio – gà apparso nella “Rassegna Italiana di Valutazione”, n. 4, ottobre-dicembre 1996 – gli autori precisano che i paragrafi 1,4 e 5 si devono a Mauro Palumbo e i paragrafi 2 e 3 a Michela Vecchia.

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Giuseppe Pennisi / La valutazione del rendimento delle politiche sociali

Valutazione 1998

A lcuni

limiti evidenti degli approcci tradizionali della valutazione

economica ,

d e l l e m i s u r e d i p o l i t i c a s o c i a l e e l e p r o p o s t e p e r p r o m u o v e r e lo s v i lu p p o d e g l i s t u d i d i s e t to r e .

Il

r u o lo r i co p e r to d a l l ’“ e co n o m i a d e l l a fa m i g l i a ”.

La valutazione

del rendimento delle politiche sociali

1. Premessa

I

n questo saggio ci si sofferma su alcuni aspetti concettuali della valutazione delle politiche e dei progetti pubblici nel campo sociale: 1) i limiti del metodo e delle procedure “tradizionali” di valutazione; 2) l’esigenza di integrare tale metodo e tali procedure con metodi e procedure provenienti dall’analisi sociologica; 3) quale debba essere l’oggetto da “valutare”. La valutazione dei rendimenti delle politiche sociali può venire effettuata sotto diversi aspetti . Questa nota concerne solamente uno dei tanti temi possibili: la valutazione delle misure puntuali di cui sono composti i programmi con i quali si dà corpo alle strategie per realizzare le politiche sociali. Da un lato, questo è presumibilmente l’argomento che ha maggiore rilevanza praticooperativa per le Amministrazioni e

gli Enti responsabili, in ultima istanza, che le politiche sociali vengano realizzate tramite misure puntuali e, perciò, valutabili puntualmente e singolarmente. Da un altro, la va-

di GIUSEPPE PENNISI

La valutazione delle politiche sociali è un tema di grande interesse per le Amministrazioni e gli Enti, in particolare a livello locale, responsabili dell’allestimento, formulazione e attuazione di tali politiche. “Valutare” significa individuare, quantizzare, misurare ed esprimere un giudizio motivato su effetti e impatti di un’attività. Per effettuare la valutazione di un intervento di politica pubblica, quale, ad esempio, una misura di politica sociale, occorre uno schema di riferimento, una specificazione degli obiettivi che si intendono raggiungere (e degli strumenti che si intendono utilizzare) e dati per misurarne effetti e impatti.

Gli aspetti principali della valutazione delle politiche sono: coerenza di tali politiche con gli obiettivi e i vincoli di politica economica tanto a livello nazionale quanto a livello delle autonomie locali; incidenza delle politiche rispetto a obiettivi e vincoli specifici ai settori, ai comparti e/o agli enti incaricati della loro realizzazione; loro efficacia; loro risultati attesi e/o effettivamente conseguiti. La valutazione, inoltre, può riguardare le politiche in senso ampio, le strategie per realizzarle, i programmi per dar corpo alle strategie e le misure puntuali di cui si compongono i programmi. La valutazione, infine, può avere come proprio campo di analisi la definizione e l’allestimento di politiche, strategie, programmi e misure; i processi decisionali tramite i quali si è giunti a esse; il ruolo e i comportamenti dei vari attori in esse coinvolti nei distinti stadi del ciclo del progetto (identificazione, formulazione, decisione di finanziamento e di realizzazione, attuazione, valutazione a completamento ed ex post); uno o più aspetti delle politiche, delle strategie, dei programmi e delle misure (aspetti tecnici, istituzionali, amministrativi, finanziari, economici, sociali). Il terreno, in breve, è molto vasto e diversificato.

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Giuseppe Pennisi / La valutazione del rendimento delle politiche sociali

L’analisi costibenefici è un metodo per documentare, quantizzare e raffrontare in modo sistematico i costi e i benefici delle politiche e soprattutto dei progetti, utilizzando indicatori sintetici di valore progettuale e di convenienza. Si distingue tra vari aspetti di analisi costi-benefici a seconda dell’oggetto, del punto di vista e dei parametri di valutazione: finanziaria, tributaria-fiscale, economica, sociale e politica.

L’analisi costiefficacia, o analisi della minimiz-zazione dei costi, è una tecnica impiegata per comparare progetti alternativi o tecniche alternative di un progetto qualora i benefici non possano essere quantizzati accuratamente. Al fine di individuare l’alternativa che minimizza i costi totali, si calcola il tasso

segue

lutazione delle misure è quella che meglio si presta all’analisi economica, mentre per la valutazione delle politiche sociali in senso lato si fa di solito ricorso ad altre discipline, quali l’analisi dell’amministrazione pubblica e dei suoi comportamenti (Dente, 1990 e 1995). Inoltre, la nota concerne soltanto uno dei molteplici aspetti della valutazione delle misure di politica sociale: il dibattito su cosa debba essere l’oggetto delle misure specifiche, il singolo individuo o un corpo intermedio, come, ad esempio, la famiglia. È un dibattito che si è inserito di recente nelle discussioni sull’analisi economica delle misure di politica sociale, in parallelo con lo sviluppo dell’ economia della famiglia ; esso è di implicazioni anche operative in quanto consente di chiarire alcuni aspetti chiave dell’allestimento delle misure puntuali di intervento sociale.

2. Il metodo “tradizionale” di valutazione economica delle misure di politica sociale e i suoi limiti Una delle caratteristiche delle misure di politica sociale è la difficoltà di quantizzarne i benefici e, quindi, di giustapporli ai costi e di effettuare una valutazione dei risultati attesi (oppure effettivamente conseguiti) sulla base delle tecniche convenzionali di analisi costi-benefici , ormai entrate nella prassi delle pubbliche amministrazioni (Pennisi - Pe-

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Valutazione 1998 terlini, 1987; Florio, 1990). Pertanto, l’ analisi costi-efficacia è assunta a metodo “tradizionale” di valutazione economica delle misure di politica sociale. L ’analisi costi-efficacia applicata alle politiche sociali ha, senza dubbio, grandi vantaggi operativi: 1) è di semplice comprensione e, quindi, apprendimento e diffusione; 2) consente di ricavare, tramite il calcolo di indicatori sintetici di convenienza, anche implicazioni, ove non conclusioni, pertinenti pure ad aspetti diversi da quelli strettamente

L’economia della famiglia è una disciplina caratterizzata da un rigoglio particolarmente ricco di proposte metodologiche e operative proprio in questa prima metà degli anni novanta, specialmente nella visione “collettiva” della famiglia proposta dalla scuola di pensiero “neofemminista” in contrasto con la visione “unitaria” proposta invece, sin dall’inizio degli anni ottanta, nel Trattato di Gary Becker. Per una rassegna dei principali contributi, cfr. le sezioni “Alternative perspectives on distribution within marriage” e “Can feminist thought improve economics” in Papers and proceedings of the 106th Annual Meeting of the American Economic Association, in “The American Economic Review” - maggio 1994. Si possono individuare due filoni: uno, marcatamente influenzato da antropologia e sociologia, che analizza le relazione intrafamiliari in paesi e società in via di sviluppo tramite modelli collettivi (Adelman - Chiappori - Haddad, Hoddinot - Kanbur, 1995) e l’altro specifico ai paesi industrializzati, e influenzato principalmente dalla psicologia, che ha preso il nome di scuola femminista e il cui campo prevalente di analisi sono i rapporti tra i coniugi (e gli ex coniugi) nell’ambito del matrimonio e/o di rapporti matrimoniali multipli , le relazioni con i figli, l’interazione tra famiglia e carriera professionale (Ferber - Nelson, 1993). In Italia, particolarmente significativi (in una visione “unitaria”) i contributi di Belli e Ichino (1995) e di Checchi, Ichino e Rustichini (1995).


Valutazione 1998 economici e finanziari della valutazione (quali quelli tecnici, istituzionali ed amministrativi); 3) comporta costi di informazione relativamente bassi, specialmente se gli standard sociali sono già stati definiti a monte e/o possono essere derivati, a valle, individuando le preferenze rivelate di chi allestisce e valuta le politiche sociali. L ’analisi costi-efficacia delle misure di intervento sociale ha, però, anche limiti angusti. In primo luogo, essa ha un modello neoclassico molto semplice come propria struttura teorica di riferimento; pure se negli ultimi vent’anni tale modello è stato gradualmente integrato per tener conto di sviluppi nell’economia del benessere e soprattutto nell’etica (Ray, 1984; Boeri, 1990; Sen, 1994), esso costituisce una rappresentazione tanto schematizzata della realtà che non consente di dare risposte adeguate alle esigenze di valutazione degli interventi di politica sociale in società molto complesse. In secondo luogo, in armonia con gli assunti teorici a essa sottostanti, l’analisi costi-efficacia ha come suo oggetto di analisi l’individuo, ossia in che misura e come aumenta il “benessere”, variamente definito, del singolo individuo a ragione delle misure specifiche di politica sociale che vengono valutate; ciò stride marcatamente con il fatto che in una casistica sempre più ampia tali misure non riguardano il singolo individuo ma un corpo intermedio – di norma la famiglia – e

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di attualizzazione che eguaglia a zero la differenza tra i costi delle alternative e lo si utilizza come indicatore di valore progettuale e di convenienza. L’applicazione dell’analisi costi-efficacia per le misure di politica sociale ha avuto un notevole sviluppo negli anni settanta e ottanta principalmente nell’ambito delle organizzazioni internazionali: un lavoro pubblicato in Italia all’inizio degli anni novanta ne codifica i principali parametri di valutazione per comparti di intervento di politica sociale quali la sanità, la formazione, lo sviluppo di zone depresse, alcune fasce deboli (Fanciullacci - Guelfi - Pennisi, 1991). Essa ha avuto uno sviluppo interessante e stimolante specialmente nell’ambito dell’Unione Europea per gli interventi a carattere sociale finanziati, con l’apporto dell’Unione medesima, nei paesi membri (de Stefani, 1994). Anche per questo motivo in Italia essa è entrata nella prassi amministrativa a tutti i livelli di governo e di amministrazione. In certi comparti, si sono pure tentati percorsi metodologici procedurali particolarmente stimolanti in quanto, sollecitando l’applicazione di “premi” o “penali” che dessero corpo al valore sociale degli interventi, si possono derivare le preferenze di chi allestisce e valuta le politiche e ricavare, quindi, standard sociali impliciti (Pennisi, 1986; Bulgarelli - Giovine - Pennisi, 1990; Pennisi, 1991).

che, anche ove le misure siano dirette specificatamente all’individuo, condizione per la loro erogazione è un apprezzamento dell’individuo nell’ambito della famiglia. Si pensi, ad esempio, al dibattito, vivacissimo negli Stati Uniti, sul ruolo delle sovvenzioni pubbliche alle famiglie con figli a carico nella riforma dello stato sociale americano oppure a quello, in corso in Italia, sull’entità degli assegni al nucleo familiare e sulla destinazione dei contributi a essi pertinenti oppure ancora a quello sulla famiglia come ammortizzatore sociale (Belli - Ichino, 1995; Checchi - Ichino - Rustichini, 1995) o altre tematiche relative alla formulazione, all’attuazione e alla valutazione

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di politiche dirette ad alleviare o eradicare la povertà, il disagio, il disadattamento e l’emarginazione (International Institute for Labour Studies, 1995; Gaudier 1993). Un’economista italiana che si è impegnata con particolare dedizione a questo campo di ricerca sintetizzava vividamente il problema già in un lavoro di alcuni anni orsono: “l’avere considerato una forma ridotta della funzione di utilità, priva di motivo ereditario, ha portato a una sottostima del valore cercato” (Pierantoni, 1989). Si tratta di limiti che interagiscono l’uno con l’altro e che si rafforzano a vicenda. Da un lato, l’eccessivo schematismo del modello di riferimento di base non riesce a cogliere la ricchezza degli interventi e ne lascia indeterminati e indeterminabili molti aspetti. Da un altro, l’individualismo metodologico sempre alla base del modello di riferimento non fornisce risposte a domande praticooperative di grande rilevanza quali quelle attinenti alla struttura e alla modulazione degli interventi. Come superare questi limiti? Le strade indicate dalla letteratura nella prima metà degli anni novanta sono due: 1) una maggiore integrazione tra discipline – in particolare tra economia e sociologia – per la formulazione, l’allestimento e la valutazione delle misure di politica sociale; 2) una definizione più rigorosa di metodo per chiarire cosa debba essere l’oggetto della valutazione

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Valutazione 1998 (e, a monte, della misura specifica di intervento sociale), se (e in qual misura) il singolo individuo e la sua utilità oppure (e in qual misura) il corpo intermedio “famiglia” e l’utilità di quest’ultimo.

3. La valutazione economica delle misure di politica sociale: cosa ci insegna l’analisi sociologica Dalla seconda metà degli anni ottanta, in particolare, si sta verificando un sempre più marcato processo di integrazione tra analisi economica e analisi sociologica in materia di valutazione di interventi pubblici di natura sociale. In un saggio pubblicato di recente da due sociologici americani, James T. Baron e Micheal T. Hannan nel “Journal of Economic Literature”, sull’impatto della scienza economica sulla sociologia contemporanea, si passano in rassegna oltre 140 titoli (libri, studi, articoli scientifici) apparsi, per lo più negli ultimi dieci anni, in cui sociologi hanno utilizzato strumenti propri alle discipline economiche (Baron - Hannan, 1994). In parallelo, con la crescente influenza dell’analisi economica nella sociologia, gli economisti stanno facendo sempre più frequentemente ricorso a strumenti e paradigmi propri della sociologia per comprendere e interpretare fenomeni economici. Lo dimostra, tra l’altro, nelle discipline economiche la sempre maggiore autorevolezza


Valutazione 1998 assunta dalla scuola “neoistituzionalista” e il Premio Nobel per il 1993 attribuito a due dei suoi esponenti di maggior rilievo (Fogel, 1989; North, 1994). Ai fini della valutazione delle misure d’intervento sociale, sono molti gli spunti che, sulla scia di tale processo di integrazione, permettono di tracciare un percorso che può far superare l’analisi costi-efficacia: il confronto di più di una scuola sociologica nei confronti dell’assunto, economico, dei processi “razionali” di scelta individuale (Coleman, 1990; Smelser 1990); le teorie sociologiche del labelling per meglio interpretare il funzionamento dei mercati del lavoro (Spence, 1974); l’approccio sociologico al “capitale societario” (Bourdieu, 1988). Al fine, in particolare, del superamento dei confini dell’analisi costi-efficacia, una strada particolarmente promettente è

Le reti sociali e l’analisi sociologica a esse attinente (Cook, 1987; Cook - Whitmeyer, 1992) comportano una riformulazione i paradigmi della stessa scuola neoistituzionalista, sostituendo nozioni atomistiche di informazioni (e di azioni) con strutture tangibili di reti di relazioni sociali. Mentre gli economisti trattano le informazioni come beni che possono venire acquistati e accumulati e mettono l’accento sulla distinzione tra beni privati, pubblici e sociali, i sociologi considerano la disponibilità, la natura e il valore delle informazioni come il prodotto, spesso preterintenzionale, delle relazioni sociali. Pertanto, le informazioni non possono venire separate dalla loro base sociale strutturale; inoltre, esse non possono essere messe a disposizione degli attori sociali, quali che sia il livello di investimento, di sforzo o di ricerca, se mancano le relazioni sociali che, in primo luogo, danno accesso a esse.

Giuseppe Pennisi / La valutazione del rendimento delle politiche sociali

quella dell’analisi delle reti sociali , un terreno in cui i sociologi, pur lavorando in un campo – quello delle istituzioni economiche – proprio di una disciplina economica – per l’appunto della scuola “neoistituzionalista” – portano un’ottica distinta che consente di arricchire la modellistica economica. Se, in linea con la scuola dello sviluppo endogeno e della teoria economica dell’informazione, la crescita e la distribuzione del reddito – e, quindi, il superamento di stati di povertà, disadattamento ed emarginazio-ne – hanno come loro determinante essenziale l’informazione, tramite il learning by doing e il learning by using (Arrow, 1962; Romer, 1986; Stigliz, 1989), la visione dell’informazione come prodotto, spesso preterintenzionale, delle relazioni sociali, e a esse intrinsecamente connesso, piuttosto che come un bene acquistabili ed accumulabile in se stesso dà una dimensione nuova all’analisi: le misure specifiche non possono essere valutate (e a maggior ragione allestite) se non tenendo pienamente conto delle relazioni sociali, della loro base strutturale e del modo specifico con il quale gli attori sociali si trasmettono segnali. Dall’analisi delle reti sociali emergono due paradigmi: da un lato, quello dello cambio sociale e, dall’altro, quello della Scelta razionale della solidarietà di gruppo che hanno grande rilievo per superare i limiti della valutazione delle misure

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Giuseppe Pennisi / La valutazione del rendimento delle politiche sociali

La teoria dello scambio sociale (McPherson, Popierlatz - Drobnic, 1992) mette in rilievo che risorse disponibili agli agenti economici in uno scambio comprendono i loro legami attuali e potenziali, diretti e indiretti, con tutti gli altri agenti economici nell’ambito del sistema economico-sociale di riferimento, non soltanto le caratteristiche della relazione specifica che è oggetto dello scambio.

La teoria della scelta razionale della solidarietà di gruppo (Hechter, 1987; Ellicson, 1991) sottolinea che l’osservanza volontaria delle obbligazioni di gruppo è il primo blocco su cui si costruisce la dipendenza del singolo individuo dal gruppo.

di politica sociale tramite l’analisi costi-efficacia. Da un canto, una delle implicazioni del paradigma dello scambio sociale, infatti, è quella di considerare la valutazione come scambio di informazioni nell’ambito della rete sociale di riferimento. In questo contesto, gli indicatori di convenienza, di efficienza, di efficacia, diventano elementi del lessico con il quale tutti i soggetti coinvolti nell’intervento specifico di politica sociale si trasmettono informazioni pertinenti e rilevanti al fine principalmente dell’affinamento, ed eventualmente della riformulazione, delle misure medesime. Il lessico non comprende soltanto gli indicatori dell’analisi costiefficacia, ma anche altri (fisici, psicoattitudinali, sociologici) relativi all’interpretazione delle misure di politica sociale in esame nell’ambito del sistema sociale di riferimento. La valutazione non è più vista come un momento puntuale, ma diventa un processo di scambio frequente, ove non continuo, di informazioni tramite gli indicatori. Essa diventa così negoziazione svolta nell’ambito della rete sociale. Dall’altro, un’implicazione del paradigma della scelta razionale della solidarietà di gruppo, anch’essa conseguente all’analisi delle reti sociali, è che lo “scambio sociale” non può avere come suo oggetto il “benessere”, o la funzione di utilità del singolo soggetto, in quanto quest’ultimo

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Valutazione 1998 dipende dalle relazioni di gruppo. È, quindi, a un corpo sociale intermedio che occorre guardare sia nel caso in cui si consideri la valutazione-negoziazione, e gli indicatori a essa relativi, quanto per l’allestimento delle misure di politica sociale.

4. La valutazione delle misure di politica sociale con riferimento a corpi sociali intermedi: modelli unitari e collettivi della famiglia Si giunge, quindi, al secondo interrogativo che ci si è posti all’inizio di questa nota: se l’oggetto della valutazione (e, dunque, delle misure specifiche di politica sociale) debba essere il singolo individuo (e il suo “benessere”) o un corpo intermedio a cui il singolo individuo appartiene e nell’ambito del quale ha una “rete” di complesse relazioni sociali: la famiglia. Il quesito viene posto in questa forma volutamente dicotomica solamente a fini espositivi, per schematizzare il problema estremizzan-dolo. Nell’esperienza delle politiche sociali si dà spesso a questo interrogativo una risposta puramente empirica, di buon senso (Presidenza del Consiglio dei Ministri 1985, 1992 e 1995). Cerchiamo di vedere se l’analisi economica, in particolare dell’economia della famiglia, permette, invece, di darne una rigorosa. Per decenni, la famiglia è stata trattata come una “scatola nera”


Valutazione 1998 dalla scienza economica: se ne sono interessati i classici, ma dal pensiero neo-classico sino agli anni settanta gli economisti hanno, in linea di massima, considerato a-economiche la domanda e l’offerta all’interno della famiglia, le funzioni di produzione e di consumo dispiegate nel suo seno e i giochi più o meno complessi che avvengono nel suo ambito. Gli economisti ritenevano che tali temi dovevano e potevano essere studiati più proficuamente da cultori e specialisti di altri campi delle scienze sociali, dai sociologi, dagli psicologi, dagli antropologi. Soltanto nel 1981, ossia con il Trattato di Gary Becker, la famiglia riceve una trattazione economica sistematica e organica sotto il profilo della disciplina economica (Becker, 1981). Becker presenta un modello unitario della famiglia: essa è vista come un’unità economica distinta in relazione continua e continuata con altre unità economiche distinte. Nel suo seno il collante fondamentale è l’altruismo: la famiglia consente all’altruista (il padre, il patriarca, il marito) di massimizzare la propria utilità altruistica, mettendo a disposizione di altri membri dell’unità mezzi e strumenti nel rispetto del vincolo complessivo delle risorse familiari. Di converso, nei suoi rapporti con le altre famiglie, l’unità-famiglia ispira i propri comportamenti all’individualismo metodologico: un confronto-scontro continuo e continuato per massimizzare la proprio utilità e l’acquisizione e accumulazione di risorse da parte

Giuseppe Pennisi / La valutazione del rendimento delle politiche sociali

propria, in quanto unità piuttosto che da altri, in specie da altre unità. L’altruismo-unitario della famiglia di Becker continua a plasmare la modellistica economica anche se in questi ultimi anni il modello è stato via via arricchito: nella sua formulazione più nuova, e più innovativa (Stark, 1995), l’altruismo dell’unitàfamiglia non è collegato, come in Becker, ad aspettative utilitaristiche dei singoli che di essa fanno parte: la certezza di tutela, il senso di stabilità, la consapevolezza di fruire di un ammortizzatore, la speranza di un’eredità o di un lascito. Esso è, invece, un altruismo comportamentale che nasce all’interno dell’unità-famiglia ma che si dispiega nel resto della società, quindi nella “rete sociale” di riferimento. In questa visione, l’altruista (ancora una volta, il padre, il patriarca, il marito) è tale non per massimizzare una propria utilità e gli altri componenti non seguono il suo esempio per determinanti connesse al proprio individualismo metodologico (le tutele, l’eredità, la possibilità di sostituire l’altruista nel suo ruolo) ma al fine di instillare un comportamento altruista negli altri (specialmente nelle generazioni più giovani) e nella società nel suo complesso: esso è tale, quindi, da poter essere considerato come un bene pubblico e sociale, meritevole di sostegno da parte della collettività. Dall’unità-famiglia, infatti, scaturiscono benefici esterni sia statici sia dinamici per tutta la società: tali benefici costituiscono una base eco-

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nomica rigorosa per le politiche, le strategie, i programmi e le misure dirette alla famiglia. Al modello unitario viene giustapposto sempre più frequentemente uno schema interpretativo alternativo: modelli collettivi della famiglia e delle relazioni intra-familiari. Le relazioni tra i componenti della famiglia vengono interpretate come “giochi” sempre più complessi tanto all’interno dell’unità familiare (per l’appunto, il collettivo, un insieme nel cui ambito ciascuno mantiene il proprio individualismo metodologico pur facendo parte di un corpo che si basa su un complesso di regole) quanto rispetto ad agenti e istituzioni economiche esterne a questa unità, al collettivo. Dai modelli collettivi emerge un messaggio molto chiaro per le politiche, le strategie, i programmi e le misure sociali: occorre mirarle agli individui all’interno del collettivo in quanto altrimenti non dispiegherebbero gli effetti voluti. In sintesi, dal modello unitario scaturisce l’esigenza di allestire e valutare-negoziare misure di intervento sociale mirate all’intera famiglia nell’ipotesi che, all’interno di essa, l’altruista le allocherà in modo socialmente ottimale, quindi tenendo conto dei bisogni e dell’utilità marginale dei più deboli. Dai modelli collettivi deriva un’esigenza opposta: quella di mirare le misure di politica sociale ai singoli individui, pur tenendo pienamente conto della ricchezza delle relazioni intrafamiliari, nel

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Valutazione 1998 timore che all’interno del collettivofamiglia potrebbero essere coloro che sono relativamente più forti a trarre vantaggio di provvedimenti originariamente concepiti a favore dei più deboli. I modelli collettivi rappresentano una sfida molto forte al modello unitario e al suo ruolo nell’allestimento e nella valutazione delle misure di politiche sociale. Tanto i primi quanto i secondi, in sostanza, sostengono che occorre fornire prova della validità del modello unitario in ciascuna accezione specifica in cui lo si voglia assumere come base di politiche, strategie, programmi e misure di politica sociale in quanto, altrimenti, si rischia di non mirare bene l’obiettivo e, quindi, di non cogliere il bersaglio. Imperniare, però, le politiche sociali solo o prevalentemente sui modelli collettivi, scartando il modello unitario di famiglia, può significare, a livello teorico e metodologico, entrare in contraddizione proprio con quelle scuole dello scambio sociale e della scelta razionale della solidarietà di gruppo, nonché dell’analisi delle “rete sociali”, che permettono di superare le angustie dell’analisi costi-efficacia, delle misure di intervento sociale; a livello pratico-operativo, ciò può costringere a rinunciare alla famiglia come ammortizzatore naturale, pur se intermedio, e come veicolo efficiente ed efficace di informazioni (due caratteristiche che le riconoscono pure i sostenitori dei modelli collettivi).


Valutazione 1998 C’è, però, una via d’uscita. In genere, il costo delle analisi basate sulla famiglia concepita come modello unitario è inferiore a quello della famiglia vista tramite modelli collettivi; nei secondi, infatti, sono necessarie analisi specifiche e puntuali delle funzioni di utilità dei singoli componenti del nucleo familiare. Se il costo del targeting nei confronti dei singoli supera di gran lunga quello nei confronti della famiglia, in prima approssimazione è il modello unitario a poter essere assunto a base delle politiche e come oggetto della valutazionenegoziazione. In caso contrario, vale la pena puntare sul modello collettivo in cui i rischi di errore – sbagliare il bersaglio – sono minori anche se i costi, principalmente quelli informativi, sono maggiori.

5. Alcune conclusioni preliminari Da questa nota si ricavano alcune conclusioni preliminari: 1) l’esigenza di concepire la valutazione non come un momento distinto ma come un processo continuo strettamente interconnesso con la negoziazione tra soggetti nell’ambito della rete sociale di riferimento; 2) l’esigenza di utilizzare non soltanto indicatori di convenienza economica ed economica-finanziaria nella valutazione-negoziazione ma pure indicatori di altra natura e di impiegarli come lessico per facilitare la trasmissione di segnali e di indi-

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cazioni tra soggetti sociali; 3) l’esigenza di andare al di là tanto dell’individualismo metodologico quanto del tradizionale modello unitario della famiglia per individuare, di norma, l’oggetto della valutazione-negoziazione – e quel che più conta dell’allestimento – delle misure di intervento sociale nella famiglia vista come collettivo di una rete complessa di rapporti in-frafamiliari (e con il mondo esterno), optando per il modello unitario soltanto quando i costi del targeting, basato su modelli collettivi, sono manifestamente troppo elevati.

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Valutazione 1998


Valutazione 1998

U n ’ altra

Remo Siza / Strategie di programmazione: le attuali tendenze

area tematica di confine per la valutazione , in una panoramica teorica

di ampio respiro.

Un’ampia

r i f l e s s i o n e s u l l e d i v e r s i tà d e g l i a p p r o c c i e

u n a r i c o g n i z i o n e s u l l e p r i n c i pa l i fa s i s t o r i c h e d e l l a p r o g r a m m a z i o n e .

Strategie

di programmazione: le attuali tendenze

1. Una premessa

L

’emergere di forti tendenze deregolative, di un’insofferenza crescente degli attori sociali nei confronti di qualsiasi coordinamento politico e della volontà diffusa di liberare le relazioni economiche e sociali da vincoli e costrizioni sembra aver dissolto ogni entusiasmo nei confronti della programmazione, delle possibilità che essa può assicurare in termini regolativi e di razionalità dei processi decisionali. Si consolida la convinzione che la programmazione sia una forma di regolazione storica applicabile solo a società semplici, stabili o comunque non soggette a rapidi e complessi mutamenti e che le attuali tendenze delle società contemporanee richiamino l’esigenza di più mercato, di più libertà (per una trattazione più ampia rimando a Siza, 1994). A tale perdita di rilevanza hanno contribuito, altresì, gli insuccessi a cui sono andati incontro importanti

processi di pianificazione. Ma nella valutazione di tali esperienze è risultata assente la capacità di correlare gli effetti osservati alle forme e agli strumenti specifici di piano di volta in volta utilizzati; la consapevolezza che i modelli e gli stili di pianificazione sono molteplici e chiaramente differenziati e ognuno di essi va incontro a possibilità di successo molto differenti. Il piano può proporsi come governo delle interazioni e delle interdipendenze sociali con delle valenze regolative sostanzialmente aperte, ha in sé capacità di sostenere una politica volta a ridurre gli spazi del mercato, dell’autonomia individuale, ma anche una politica opposta che lascia esprimere le dinamiche spontanee, selezionando in base a criteri più o meno generali, alla luce di un progetto, affermando limiti e vincoli generali o particolarmente stringenti. Nelle rappresentazioni dei soggetti istituzionali, delle forze politiche e

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di REMO SIZA


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sociali la programmazione è considerata, invece, come un modo rigido di regolazione sociale che impone alla collettività le azioni da svolgere. Essa inevitabilmente si deve esplicare in un disegno tendenzialmente globalizzante, che guida dal centro la società nel suo complesso attraverso l’autorevolezza e la forza persuasiva del messaggio o attraverso un modello gerarchico, lo standard, le norme rigidamente definite e imposte. Ugualmente nel senso comune, nelle rappresentazioni sociali più ricorrenti, la programmazione è uno strumento inevitabilmente rigido che fissa per un arco temporale più o meno ampio obiettivi e azioni possibili. Chi predispone un piano per un’azienda sanitaria o per un Comune deve cercare di governare tutto – la globalità degli interventi e delle informazioni – di individuare puntualmente compiti e responsabilità per ogni singolo soggetto sociale. D’altra parte, per anni la programmazione si è presentata come modalità di regolazione fondata su convinzioni e presupposti teorici sostanzialmente comuni: le distinzioni erano tutte interne al modello razional-comprensivo fra una programmazione dirigistica, che orienta fortemente le dinamiche del mercato attraverso vincoli, una programmazione fondata sull’incentivazione delle azioni ritenute coerenti alle scelte assunte e una programmazione puramente indicativa che si limitasse ad individuare uno

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Valutazione 1998 schema previsionale. Questo modello e questa cultura della programmazione sono entrate definitivamente in crisi negli anni settanta, lasciando emergere una pluralità di punti di vista, di approcci, di strategie.

2. La comunity planning Con il termine comunity planning ci si riferisce a un primo versante di modelli e stili di programmazione, a un complesso di esperienze di programmazione molto diversificate, fondate sulla partecipazione attiva del cittadino e sul coinvolgimento della comunità nei processi di formazione del piano, e nella quale la progettualità fisica si collega a quella economica e sociale al fine di promuovere uno sviluppo equo; la comunità è considerata nel complesso delle sue articolazioni – le sue istituzioni, le associazioni di volontariato, i gruppi di volontariato, i gruppi in-formali, le imprese economiche – (Hague, 1982). La programmazione come organizzazione cosciente del divenire può essere dovuta a un’istanza estranea e superiore alla collettività urbana o può essere realizzata da agenti che appartengono a questa collettività: nel primo caso la pianificazione urbana sfugge alla città che si trova allora fortemente minacciata nella sua autonomia, nel secondo la pianificazione è l’insieme di mezzi grazie ai quali una collettività locale


Valutazione 1998 si controlla da se stessa, si sforza di dominare il proprio avvenire, tenta di organizzare la propria esistenza (Ledrut, 1969). Il contributo di Ignacy Sachs si colloca in questo secondo versante. Nella sua riflessione il piano è parte rilevante di un progetto sociale di ampia portata teso alla valorizzazione delle comunità e delle culture locali, della partecipazione, dell’auto-organizzazione della popolazione per il proprio sviluppo (Sachs, 1988). Gli interessi ecologici, sociali ed economici non si ricompongono spontaneamente, ma necessitano di un piano. In questo approccio – antitetico alla programmazione tecnocratica ed economicistica, fortemente partecipato e contrattato, che ha alla base il concetto di razionalità limitata – la pianificazione accentua il proprio ruolo politico di azione collettiva, di organizzatrice del processo di apprendimento sociale, tramite il quale gli uomini imparano a identificare i loro margini di libertà e di decisione autonoma, i modi per contribuire alla soluzione dei problemi della vita quotidiana. Il ruolo del pianificatore consiste nello stimolare lo sforzo di immaginazione sociale, la capacità dei cittadini di identificare i propri bisogni e i modi per soddisfarli. L ’antropologia della vita quotidiana diventa una delle maggiori fonti di informazione per il pianificatore, interessato a individuare delle alternative ecologicamente prudenti

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e socialmente dotate di senso. La pianificazione è il tentativo di armonizzare obiettivi culturali, sociali, economici ed ecologici: le occasioni di sviluppo sono potenziate da un rapporto armonico fra società civile, da una parte, e coalizione Stato-mercato dall’altro. Assume un concetto di razionalità diverso dalla logica di mercato, è fondato su principi etici di solidarietà sincronica con la presente generazione e di solidarietà diacronica con le generazioni future, incoraggia le soluzioni endo-gene, inevitabilmente plurali, ben al di là di ogni soluzione unifor-mizzatrice. Il pianificatore deve abbandonare l’idea di esorcizzare l’incertezza, al contrario deve porsi il problema di come individuare i molteplici spazi di autonomia dei quartieri e dei vicinati, e in secondo luogo riflettere sul modo in cui queste decisioni autonome possono essere indirizzate alla soluzione dei problemi comuni. L’accento è posto sugli spazi di autonomia locale ma ciò non significa che il decentramento debba essere portato all’estremo e lo Stato deresponsabilizzato. La pianificazione centrale ha dei compiti rilevanti e ben definiti: deve garantire al livello locale l’accesso alla globalità delle risorse, trasferire adeguate risorse a favore degli strati di popolazione più povera, rendere compatibili i progetti locali fra loro e con il progetto di civiltà assunto a livello nazionale, garantire il funzionamento dei servizi che per loro natura richiedono una gestione centralizzata.

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La pianificazione dell’ecosviluppo si pone agli antipodi della pianificazione tecnocratica: la prima aiuta la società civile a prendere coscienza del proprio ruolo, a imporre le proprie scelte, a riequilibrare il rapporto di forza con lo Stato e le istituzioni che dominano la vita economica; la seconda si traduce nella cancellazione della società civile davanti allo Stato e all’economia. L ’advocacy planning è uno dei tentativi più organici di promuovere una partecipazione effettiva del cittadino, di dare spazio decisionale alle comunità locali. Il termine venne coniato da Paul Davidoff in un articolo del novembre del 1965 (Davi-doff, 1965; vedi anche Davidoff - Reiner, 1962. Per una sua evoluzione in termini più conflittuali vedi P. Davidoff - L. Davidoff - Gold, 1970). La capacità dell’advocacy planning di creare una reale democrazia urbana è messa seriamente in dubbio da Robert Goodman (1972): basandosi sulla disponibilità di controprofes-sionisti è difficile provocare mutamenti sostanziali della società: l’advocacy planning può al massimo riuscire a trasferire un certo potere urbanistico ai quartieri a basso reddito, a bloccare interventi pubblici; ma queste comunità devono sempre operare entro i limiti imposti da persone che vivono fuori dal loro ambito e hanno interessi totalmente diversi dai loro. Se il processo di pianificazione deve incoraggiare una forma democratica di governo della città, allora deve svolgersi in modo che la partecipa-

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Valutazione 1998 zione dei cittadini venga organizzata e non esclusa: il che significa non solo che il cittadino deve essere ascoltato, ma anche che deve essere completamente informato sulle motivazioni di fondo del piano, ed eventualmente in grado di controbatterle nel linguaggio dei tecnici della pianificazione. L’utente può assumere un ruolo attivo nella trasformazione dell’ambiente in cui vive, se i processi urbani vengono riportati alla sua portata: decentrando verso la periferia le funzioni della pianificazione e garantendo allo stesso l’assistenza tecnica necessaria a rendere effettiva la sua partecipazione ai processi decisionali, per individuare correttamente le sue esigenze. La pianificazione pluralistica è caratterizzata dalla presenza simultanea di più punti di vista espressi nella forma tecnica di piani in opposizione l’uno all’altro, è fondata non più su un piano unico elaborato centralmente, ma su una molteplicità di piani valutati, attraverso metodologie adeguate, nella loro rispondenza alle esigenze della popolazione. Piuttosto che chiedere al tecnico dell’ente di elaborare un certo numero di alternative significative, un metodo di pianificazione pluralistico favorisce la presentazione di piani alternativi da parte di gruppi con interessi diversi. Il presupposto è che ogni piano rappresenti gli interessi di un particolare gruppo di potere, e che quindi è importante per ogni gruppo con


Valutazione 1998 degli interessi in gioco nel processo di pianificazione – dai partiti politici, alle associazioni per i diritti civili – avere la possibilità di esprimerli (Peattie, 1968). L’advocacy planning diventa lo strumento che rende effettiva la pianificazione pluralistica. Il professionista di parte assume la difesa degli interessi di singoli cittadini, di poveri, consentendoli di fronteggiare in modo consapevole l’impatto di un piano sulle loro condizioni insediative; svolge un ruolo analogo a quello dell’avvocato: come quest’ultimo perora la causa del cliente. Gran parte del ruolo dell’urbanista più che di conflitto e antagonistico, è di tipo educativo: al tecnico spetta il compito di informare gli altri gruppi e le amministrazioni pubbliche dei problemi del gruppo che rappresenta, e di rendere consapevole il gruppo stesso dei suoi diritti e più in generale delle possibilità e degli effetti del programma elaborato. Il ruolo del tecnico di parte è quello di difendere i suoi clienti: mette in relazione risorse e strategie con gli obiettivi prescelti, lo difende quando l’interpretazione dei fatti resa dalla parte avversa rischia di lederne gli interessi (Kaplan, 1969). L’advocacy planner si limita a farsi portatore e rappresentante dei cittadini poveri minacciati da interventi urbanistici, canalizzando la protesta verso forme riconosciute e approvate di contenzioso. I cittadini devono possedere le informazioni e le conoscenze tecniche al fine di

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valutare la reale portata dei processi pianificatori “ben presto ci si rende comunque conto che, nell’organizzazione dello spazio, il mutamento dei rapporti tra chi ha e chi non ha, tra chi comanda e chi obbedisce non può essere affidato ad una maggiore divulgazione tecnica” (Elia, 1983, p. 35). Un altro autore, Friedmann, in quello che viene considerato come uno dei più ambiziosi tentativi di rileggere la storia della programmazione, esprime ugualmente una posizione radicale seppure attraverso con-notazioni molto differenti (Fried-mann, 1987). Per Friedmann la programmazione deve spostare la sua attenzione dai grandi aggregati, dalle dinamiche macroeconomiche, dallo Stato ai problemi specifici della gente, alle reti di relazione fra i piccoli gruppi: la sua crisi può essere superata partendo dalle comunità locali, dai quartieri, coinvolgendo le famiglie. La buona società è implacabilmente in opposizione al mondo della pianificazione centralizzata, essa cerca di liberare ogni persona e di mutare la sfera pubblica per favorirne il suo modo di essere nel mondo, corrisponde a una concezione comunitaria della natura e della società umana (Friedmann, 1979). Il piano è parte fondamentale di un vasto progetto di ricostruzione sociale che ha per obiettivo la trasformazione della vita quotidiana, il rafforzamento e la valorizzazione delle relazioni fra la comunità poli-

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tica e la società civile. Per Friedmann la famiglia e la comunità locale per divenire soggetti politici devono imparare a contare maggiormente sulle loro forze, devono spezzare i legami di dipendenza e subordinazione sistemici, con l’economico, lo Stato, resistere alla colonizzazione della vita quotidiana. Il riferimento concettuale è chiaramente Habermas e la sua denuncia della manipolazione sistemica, dell’indebita estensione, cioè, della logica strumentale, propria del mondo sistemico, alla sfera comunicativa, al mondo della vita quotidiana. Il compito centrale della pianificazione è quello di porre in relazione una solida teoria della trasformazione con una pratica radicale con l’obiettivo specifico di produrre analisi, strategie che aiutino le famiglie, le comunità, i movimenti sociali a meglio comprendere la realtà in cui vivono, a contare sulle proprie forze, a impiegare il proprio tempo a fini sociali, a progettare il proprio futuro. È una programmazione foca-lizzata sui problemi della vita quotidiana: il lavoro, la casa, i servizi per l’infanzia, per l’adolescenza, per gli anziani. È un processo di apprendimento sociale di una pratica e di uno stile di vita emancipatorio che meglio si può esplicare in rapporti faccia-afaccia, in un rapporto transat-tivo tra il destinatario e il pianificatore (Friedmann, 1973). Nel processo di formazione del piano i ruoli del pianificatore e della comunità non appaiono mai

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Valutazione 1998 rigidamente definiti: il pianificatore – attraverso il confronto, il dialogo e l’interazione – deve assistere le comunità intermedie, incoraggiarle a formulare e a realizzare progetti, ad ampliarne l’orizzonte delle possibilità, a mobilitare le risorse locali verso obiettivi generali, a creare reti di relazione, deve immergersi nelle reti informali. La partecipazione locale, l’autonomia della comunità devono necessariamente essere rese compatibili con le esigenze che esprime il centro del sistema nello svolgimento dei suoi compiti di coordinamento, di tutela degli interessi collettivi. Il capitalismo del tardo XX secolo esclude più della metà della popolazione mondiale dalla partecipazione, sia come produttrice che come consumatrice. Per mutarne l’evoluzione è necessario rafforzare la società civile e le sue unità elementari, le famiglie, migliorare le loro condizioni di vita e le possibilità di un loro autosviluppo (Friedmann, 1992). Il senso della pianificazione è nella sua capacità di mobilitare la società civile, di sostenere una dissociazione selettiva dalla logica del capitalismo industriale, di favorirne l’autorafforzamento e il dispiegamento.

3. La programmazione policentrica In un altro versante si collocano modelli di programmazione in cui la preoccupazione di fondo è


Valutazione 1998 rendere compatibili le azioni di coordinamento e di regolazione con le dinamiche di mercato. Modelli che non presuppongono la partecipazione dei cittadini e che tentano di meglio rispondere alle domande sociali decentrando profondamente i processi decisionali; che presentano più limitate aspirazioni di direzione politica rispetto alle illusioni e alle ingenuità razionalistiche del modello onnicomprensivo e centralizzato. Una programmazione che fa perno sul mercato e sulla sua efficienza nell’allocazione delle sua risorse e che intende rappresentare una terza via rispetto a metodi di controllo delle dinamiche economiche fondati sulla pianificazione collettivistica o sulle spontanee dinamiche di mercato. Nel market planning di Lindblom lo Stato non si sostituisce al mercato ma ne orienta il funzionamento attraverso l’acquisto di beni, opera attraverso interventi incrementali che favoriscono le interazioni di mercato; la pianificazione urbanistica consiste nell’analizzare gli interventi che si possono fare nei complessi processi di mercato. Raccoglie e diffonde le informazioni sui piani di investimento dei soggetti pubblici e privati, consentendo loro di ricalcolarli in base alla reciproca conoscenza, elabora proposte incrementali, ne influenza le decisioni, rendendo note le sue strategie, attraverso interventi fiscali (Lindblom, 1979a, pp. 333-350). L’autorità di governo dirige l’investimento delle risorse

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nel processo produttivo, comprando o non comprando i prodotti finali, o comprandone o non comprandone in maggiore o minore quantità. L’interazione più che l’azione intenzionale degli attori dotati di maggiore conoscenza e informazione è la modalità prevalente per risolvere i problemi e indurre mutamento; limitate sono le capacità intellettive dell’uomo di risolvere i problemi, limitate le disponibilità di conoscenze. La programmazione è esplicitamente e completamente subordinata ai processi di interazione. Il suo opposto è una programmazione sinottica che riunisca controllo economico, politico e sociale in un solo processo in modo da rendere l’interazione inutile (Linblom, 1979b). L ’inevitabilità di tale scelta è contestata da numerosi autori. Webber, pur nella consapevolezza del pluralismo e della necessità di preservarlo, contrappone la necessità di forme di coordinamento e controllo esercitate da agenzie pubbliche: il coordinamento non è un esito dell’interazione ma un processo guidato e intenzionale (Vettoretto, 1994, pp. 97-125). La pianificazione deve essere vista come un processo attraverso il quale la comunità cerca di aumentare la possibilità di ciascun individuo di scegliere per se stesso. La storia ci ha insegnato che non possiamo fare affidamento né sul caso né sulla previdenza perché a tutti sia assicurata una più ampia possibilità di scelta. Per aumentare la libertà occorrono dei precisi in-

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terventi governativi che allarghino o restringano le libertà individuali a seconda delle circostanze (Webber, 1983). La pianificazione permissiva di Webber privilegia l’incentivo rispetto al divieto, si collega sinergicamente a una politica di ridistribuzione dei redditi per consentire a tutti i cittadini pari condizioni nell’accesso ai beni e ai servizi, è costantemente orientata dalla ricerca dell’equità piuttosto che dall’efficienza. La programmazione per progetti rappresenta uno dei maggiori sviluppi applicativi della programmazione decentrata. Molteplici sono i suoi riferimenti culturali: Lindblom e la sua critica alla pianificazione centralizzata, le metodologie di analisi e di valutazione dei progetti elaborate da diversi organismi internazionali, i nuovi apporti di Hicks e Kaldor alla teoria dell’economia del benessere (Hicks, 1939; Kaldor, 1939). La programmazione per progetti recupera l’integrazione che Lindblom propone dell’analisi incrementale con un’osservazione globale, con riflessioni a largo raggio (Lindblom, 1979b), mostrando l’evoluzione del suo pensiero verso modelli di mixed scanning (Etzioni, 1967). I riferimenti a Lindblom finiscono qui (malgrado alcune vicinanze concettuali): la programmazione per progetti si distingue, almeno teoricamente, dal metodo delle comparazioni limitate successive e dal suo perfezionamento, la strategia dell’incrementalismo sconnesso; il

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Valutazione 1998 coordinamento in questo modello non si realizza secondo un “reciproco aggiustamento partigiano” in base al quale il decisore si adatta semplicemente alle decisioni che lo circondano (cfr. Lindblom, 1959; Braybrooke - Lindblom, 1963). Il paradigma della razionalità limitata permea chiaramente questo modello di programmazione, sebbene la tecnica di valutazione privilegiata (l’analisi costi-benefici) rappresenti un recupero sostanziale di significativi elementi propri della razionalità assoluta: a combinazione, in buona parte invertita rispetto al mixed scanning di Etzioni, in quanto sono le microdecisioni che risultano affidate a processi decisionali di razionalità assoluta. Il principale e più diretto riferimento della programmazione per progetti è costituito dalle metodologie di analisi dei progetti elaborate da Little e Mirlees per l’Ocse (Little - Mirrlees, 1969 e 1974) e dalle reinterpretazioni di questo metodo compiute da Squire e Van Der Tak (1975), dal metodo di Dasgupta, Sen e Marglin per l’UNIDO (Dasgupta - Sen - Marglin, 1972). Questi autori, sistematizzando precedenti riflessioni sull’analisi dei progetti di investimento, tentano di superare la dicotomia fra scelta dei progetti e pianificazione nazionale. I progetti vengono valutati secondo il metodo degli effetti e l’analisi costi-benefici, considerando, contrariamente all’impostazione tradizionale, una pluralità di obiettivi:


Valutazione 1998 il complessivo impatto sociale del progetto in rapporto agli obiettivi e alle preferenze sociali assunte dalla pianificazione nazionale, sono considerati parte integrante della strategia di sviluppo. Non si tratta solo di valutare l’incremento del reddito pro-capite che determina uno specifico investimento, la sua efficienza nell’uso delle risorse, ma di osservare l’impatto del progetto in rapporto a un’articolazione ampia di parametri nazionali (l’occupazione, il riequilibrio territoriale, gli effetti sull’ambiente, ecc.) che riflettono fini nazionali e obiettivi sociali e la loro coerenza rispetto ai piani settoriali. Il modello è fondato sulla capacità progettuale dei livelli periferici: solo laddove questa risulti particolarmente debole, come è accaduto nelle esperienze applicative degli organismi internazionali nei paesi in via di sviluppo, è prevalsa una accentuazio-ne del ruolo delle strutture centrali. I compiti delle varie articolazioni del sistema e le relazioni che le coinvolgono risultano ben circoscritti. La programmazione per progetti prevede che gli organi centrali definiscano le priorità, le strategie e gli obiettivi dei vari comparti, lasciando ai livelli periferici la formulazione di progetti, l’individuazione di strumenti specifici e di risorse. Formulata centralmente una prima proposta di piano generale i soggetti legittimati preparano progetti specifici. Il progetto si configura come

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un insieme di attività chiaramente delimitato, che per essere attuato richiede un finanziamento ben definito: risulta fortemente finalizzato al raggiungimento di uno o più obiettivi, dotato di un adeguato grado di coerenza interna. Il progetto costituisce l’unità minima di programmazione. Esso non si configura riduttivamente come un’opera pubblica di competenza pressoché esclusiva dell’ingegnere, ma il suo strumento operativo: contiene localizzazioni, decisioni sui costi finanziari, sugli effetti che determina; la sua predisposizione per evitare un sovraccarico decisionale viene affidata ai livelli periferici. I progetti vengono valutati non come iniziative a se stanti ma per il contributo che possono garantire al perseguimento degli obiettivi formulati; le priorità del piano rappresentano i criteri di scelta fra progetti concorrenti. La valutazione dei costi e dei benefici sociali di ogni singolo progetto ha lo scopo di selezionare fra i progetti disponibili quelli che, in maggior misura, contribuiscono a realizzare gli obiettivi privilegiati. L ’analisi costi-benefici e il metodo degli effetti consentono l’utilizzo di un modello decisionale fortemente decentrato: la valutazione è affidata alle strutture periferiche che nello svolgimento di tale attività hanno come parametri di riferimento gli obiettivi del piano e le strategie di sviluppo, i piani nazionali e settoriali, elaborati centralmente.

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Gli organi centrali in un processo di programmazione che si configura altamente interattivo oltreché valutare la compatibilità dei progetti alle scelte assunte modificano la loro strategia iniziale in rapporto ai progetti approvati. Nell’ambito della cooperazione per lo sviluppo la programmazione per progetti si è contrapposta efficacemente alla programmazione shopping list, nella quale il governo beneficiario presenta all’organismo di cooperazione una lista di progetti il cui importo è di solito molto superiore a quello necessario per realizzare le opere. L ’adozione della programmazione per progetti conduce prioritariamen-te, invece, a discutere il piano di sviluppo, a stabilire priorità e solo a questo punto si discute di progetti concreti e di interventi finanziari (Pirzio Biroli, 1994, pp. 91-93).

4. Il piano tra flessibilità ed esigenze regolative In Italia, a partire dagli anni settanta, la programmazione ha ondeggiato fra il polo dell’integrazione forte delle dinamiche sociali perseguito attraverso un modello gerarchico, più o meno rigido e centralizzato, e quello del decentramento profondo dei processi decisionali, inteso però riduttivamente come un ribaltamento del modello precedente, una strategia che svilisce quasi del tutto le funzioni di indirizzo e di coor-

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Valutazione 1998 dinamento attribuite al centro del sistema programmatorio. I due modelli hanno orientato documenti di programmazione distinti, raramente hanno interagito: nella cultura della programmazione la divaricazione fra questi due poli è stata profonda e ha alimentato, sostanzialmente, quattro distinte strategie: 1) la programmazione di settore (in particolare quella sanitaria, urbanistica, industriale), ancora permeata da un’ansia razionalistica, che ha immaginato che esistesse un’autorità gerarchicamente sovraordinata capace di assumere decisioni vincolanti; 2) i piani di terza generazione, i tentativi di elaborare una programmazione flessibile, la programmazione debole nel settore urbanistico; 3) la programmazione partecipata che ha nel decentramento dei processi decisionali il suo irrinunciabile punto di partenza, fondata su un confronto diretto con i cittadini e le forme organizzative assunte autonomamente; 4) la programmazione per progetti nel settore economico, un insieme di modelli che esprimono una diversa cultura della programmazione, che affidano ai sottosistemi sociali non solo un’astratta possibilità di concorrere alla formulazione del piano ma la concreta e ben definita possibilità di formulare programmi operativi e di attuarli. La programmazione si è affermata quando si è inteso rispondere alla crisi di governabilità con un elevamento


Valutazione 1998 delle capacità di governo piuttosto che attraverso processi deregolativi: deregolazione e programmazione per molti anni si sono presentate come concetti antitetici, come scelte politiche dirette, rispettivamente, alla riduzione del campo di azione dello Stato o a un ampliamento della sua presenza al fine di controllare, attraverso un disegno razionale tendenzialmente globalizzante, le crescenti interdipendenze. Alcuni sviluppi della programmazione tentano di superare tale antitesi, si confrontano con le esigenze di deregolazione che emergono nel tessuto sociale, proponendo nuovi strumenti connettivi, ma restituendo allo stesso tempo agli attori sociali autonomia e larga possibilità di scelta. I piani urbanistici di terza generazione segnano il passaggio dalla cultura dell’espansione urbana alla cultura della trasformazione, da piani ad azione generalizzata – tendenti cioè a stabilire un eguale livello di controllo sul territorio – a piani ad azione differenziata, indirizzati cioè con intensità diseguale nei diversi contesti. I nuovi piani indicano esplicitamente quali funzioni e aree assumeranno una funzione strategica nel processo di trasformazione; in essi vi è una chiara distinzione fra interventi intensivi a forte carattere di trasformazione per l’area investita e per la città intera e interventi estensivi che inducono un mutamento dolce e graduale (Campos Venuti, 1993, pp. 46-47).

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La programmazione debole nasce anch’essa da una critica al modello razional-comprensivo (Mela, 1978). L’esigenza di un piano capace di raccordarsi alla molteplicità dei luoghi e degli eventi, dei soggetti, dei loro movimenti e comportamenti, nasce da una riflessione sugli anni passati in cui i comportamenti sociali sembrano negare le proposte dell’urbanista, opporsi alle sue utopie e ai suoi progetti, alle relazioni fra le cose e le persone che esso suggeriva e sembrava imporre (Secchi, 1989). Una flessibilità che si muove fra polarità estreme, fra una concezione del piano che non assume alcuna prescrittività, le cui proposte non selezionano fra concreti interessi e tutto diviene possibile assieme al suo contrario; e una concezione in cui il piano per riuscire a far fronte alla molteplicità dei soggetti, dei ruoli, diviene affermazione sempre più generale e astratta che rinvia la soluzione dei problemi che esso stesso ha riconosciuto, che consente a sempre più numerosi soggetti di reperire proprie specifiche linee di fuga. L ’identificazione e la delimitazione dell’interesse generale, di ciò che dovrebbe essere inflessibilmente perseguito, di obiettivi non negoziabili che richiedono e giustificano la mobilitazione di poteri e risorse eccezionali, richiede molta ricerca, richiede esperimenti e valutazioni dei loro risultati, progetti ed ipotesi su cui costruirli (Secchi, 1989, pp. 4-5).

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Di fronte a una realtà in continua evoluzione è insostenibile la rigidità del piano che tenta di difendere tutta la sua potestà prescrittiva senza un’esplicita gerarchia dei valori e della loro adattabilità a situazioni diverse; d’altra parte, i tentativi di costruire in sede teorica e praticare in sede professionale una pianificazione di tipo flessibile o processuale non sembra aver raggiunto una convincente ed esauriente formulazione (Tutino, 1985). Nell’ambito del settore economico il rilancio della programmazione è affidato, negli anni ottanta, a una strategia fortemente decentrata fondata sulla valutazione economica di progetti di intervento, strategia che presenta più limitate aspirazioni di direzione politica rispetto alle illusioni e alle ingenuità razionalistiche del modello onnicomprensivo e centralizzato. Ciò che risulta fortemente valorizzata delle articolate strategie di programmazione richiamate è una concezione del processo di programmazione come sistema di decisioni fondate su criteri obiettivi, su metodi di valutazione di ben definiti progetti di intervento; caratterizzata da un elevato decentramento dei processi decisionali e da un’interazione profonda tra piani, elaborati centralmente, e progetti. Il processo di interazione è favorito dalla predisposizione di piani intermedi, che si collocano fra i piani nazionali e i singoli progetti, piani per gruppi specifici della popolazione,

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Valutazione 1998 piani territoriali, di settore: le allocazioni settoriali e territoriali sono formulate nell’ambito di progetti specifici, fisicamente, tecnicamente ed economicamente realizzabili (Pennisi, 1985). La programmazione per progetti presenta degli indubbi vantaggi e sembra affrontare con adeguati strumenti i problemi di implementazione coerente, di informazione e di consenso di cui soffrono i modelli sinottici. Essa si presenta come un modello flessibile, che ha bisogno di minori apporti informativi, fondato su una plura-lizzazione dei soggetti e dei percorsi attuativi.

5. La perdita del centro I limiti di tali strategie fortemente decentrate risiedono, principalmente, nel fatto che non attivano soddisfacenti interazioni fra strategie definite centralmente e decisioni di minor ampiezza affidate ai livelli periferici: più che di decentramento, spesso sarebbe corretto parlare di scomposizione del processo decisionale in atti distinti e separati non sufficientemente coordinati tra loro. Il superamento della dicotomia fra piano e valutazione dei progetti spesso non si è realizzato: la programmazione per progetti è stata frequentemente un metodo di valutazione delle istanze e delle domande di intervento pubblico, più o meno compiutamente organizzate, dei progetti, tenendo presente


Valutazione 1998 alcuni parametri nazionali elaborati centralmente. In molti paesi dove queste tecniche sono di impiego corrente, l’analisi non viene effettuata in un contesto di politica economica articolata e organicamente definita. L’analisi dei progetti si svolge frequentemente in assenza di piani. I parametri di riferimento vengono spesso individuati tenendo conto di risultanze di studi ad hoc, oppure vengono “rivelati”: dall’esame dei progetti il cui finanziamento viene accettato si ricavano in prima approssimazione gli obiettivi impliciti di politica economica a cui questi progetti intendono contribuire. Il piano viene edificato partendo dai progetti, spesso senza che i policy-makers abbiano espresso delle strutture di preferenze stabili e coerenti, abbiano offerto ai livelli periferici informazioni adeguate (Florio, 1991). Questa perdita di rilevanza del centro è visibile anche nella fase di identificazione del progetto: la necessità di proporre un certo intervento, l’idea progettuale risulta in generale sollecitata più che dagli obiettivi del piano nazionale o settoriale di riferimento, dalle circostanze fisiche, finanziarie, che ne permettono la realizzazione. Nell’esperienza delle grandi organizzazioni internazionali la programmazione per progetti sembra indissolubilmente legata a un modello di sviluppo fondato sugli effetti moltiplicativi dei grandi investimenti: le agenzie internazionali privile-

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giano grandi progetti d’intervento che presentano il più soddisfacente rapporto costi-benefici, si concentrano esclusivamente su obiettivi quantitativi, sulle dinamiche macroeconomiche, si identifica l’equità con la crescita economica, trascurando ogni valutazione sulle capacità che ha il progetto di mettere in moto un processo attraverso il quale i beneficiari imparano a conquistare il controllo della propria vita, sono coinvolti nel processo decisionale, acquistano maggiore convinzione sulle possibilità di sviluppo della propria comunità, si consolidano relazioni di cooperazione e solidarietà e i progetti e le valutazioni diventano processi di apprendimento (Tendler, 1992). La valutazione dei progetti secondo l’analisi costi-benefici tende a far sì che si privilegino grandi opere, inutilmente grandi, la cui tecnologia è spesso troppo sofisticata per poter essere assorbita dalle istituzioni dei paesi in via di sviluppo. L ’attenzione è rivolta a ciò che è quantitativamente valutabile trascurando l’ambiente organizzativo. Hirschman propone un’integrazione dell’analisi costi-benefici con un metodo comparativo, nel quale la comparazione fra progetti differenti si esprime nell’ambito di un’esperienza di sviluppo, si valutano le interrelazioni fra il progetto stesso e la società, la sua capacità di indurre processi di apprendimento, di cambiare le attitudini della popolazione, di rinnovare le istituzioni; è più

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utile decomporre l’esperienza di un progetto nei suoi vari elementi che non costruire su di esso un giudizio sintetico (Hirschman, 1975, p. 35). I progetti rappresentano frazioni privilegiate del processo di sviluppo, essi richiedono un obiettivo, una certa dimensione minima, una determinata localizzazione. Il successo di grandi progetti, per Hirschman, più che il frutto di azioni accuratamente pianificate, razionali e condotte con chiara percezione di ogni difficoltà, sembra derivare viceversa da una sottostima dei rischi, da una “mano che nasconde” che beneficamente ci occulta le difficoltà e consente agli operatori decisionali di intraprendere l’iniziativa. Il piano onnicomprensivo è spesso una tecnica della “mano che nasconde” che “dà ai pianificatori l’illusione di possedere una comprensione delle difficoltà di un progetto maggiore di quanto non sia in effetti possibile realizzare”. La pianificazione è necessaria in quanto è un utile vincolo alla realizzazione dei progetti formulati, è uno strumento per richiedere sacrifici finanziari alla popolazione e per dislocare nel tempo le richieste di spesa: è bene, però, riconoscere e valorizzare in modo appropriato accanto alla propensione a pianificare la propensione a sperimentare e a improvvisare, costruendo sequenze decisionali che alternano regolarità a flessibilità rispetto al cambiamento (Hirschman, 1971). I progetti, oltre che i beni e servizi

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Valutazione 1998 che rappresentano la ragione principale per cui vengono realizzati, producono una grande varietà di effetti collaterali molto importanti e di grande efficacia quali lo stimolo esercitato sugli imprenditori, uno sviluppo dell’alfabetizzazione, una maggior fiducia sul proprio paese senza dimenticare gli effetti negativi, come nuove o maggiori tensioni razziali, rinnovate occasioni per il dilagare della corruzione. Una particolare attenzione va rivolta ai fattori di incertezza, ai gradi di libertà e ai vincoli, discriminando le dinamiche che vanno modificate da quelle che invece bisogna accettare. L ’attenzione al contesto in cui si cala la programmazione, al complesso delle interrelazioni che attiva, ai mutamenti più ampi che inevitabilmente promuove, rappresenta un tratto peculiare della programmazione frequentemente trascurato. A questi sviluppi della programmazione ben si adatta il giudizio di Ruffolo: si tenta di ottimizzare le decisioni e le scelte sono smontate in una serie di operazioni isolate e indipendenti l’una dall’altra, realizzando in questo modo il paradosso del Titanic: “ottimizzare la posizione delle sedie a sdraio sul ponte, mentre la nave affonda” (Ruffolo, 1985, pp. 264-265).

6. La programmazione sostenibile Un nuovo modello di programmazione si trova ad affrontare i proble-


Valutazione 1998 mi derivanti dalla crescente differenziazione funzionale, dalla perdita del centro della società contemporanea, dalla diminuita capacità di regolazione che manifesta il sottosistema politico, dal crescere di autonomia delle sfere sociali. Difficoltà aggravate da una crisi profonda delle basi cognitive, del patrimonio di conoscenze selettivamente accumulato. Esso più che un progetto normativo che regola le interdipendenze, rafforzando la dimensione contrattuale dei legami collettivi, si presenta come strumento volto a sollecitare la capacità progettuale dei singoli e dei gruppi sociali. Ha almeno tre caratterizzazioni: 1) è una programmazione sostenibile, in quanto è espressione di una consapevolezza compiuta delle esigenze di autonomia che i sottosistemi, le comunità e le istituzioni esprimono; 2) è una programmazione comunicativa basata sull’intenzione di intendersi, che tenta di fondare razionalmente l’intendersi, il capirsi, il consenso sociale, che vuole subordinare le relazioni sistemiche alle esigenze del mondo vitale; 3) è una programmazione relazionale che intende governare le relazioni fra le istituzioni e le relazioni intersoggettive e quelle ancora che si stabiliscono fra questi due versanti relazionali. Decentramento, partecipazione, progettualità diffusa, interazione e flessibilità sono le articolazioni e i momenti fondanti della programmazione sostenibile. Di questa

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programmazione ne costituiscono primi riferimenti gli stili di pianificazione che si sono affermati in questi anni: la prospettiva di Friedmann, la pianificazione dell’ecosviluppo, la programmazione per progetti, l’advocacy planning. Ma sicuramente queste strategie di pianificazione necessitano di un’ampia ridefinizione nella strumentazione, negli obiettivi, di una diversa combinazione degli elementi che li contraddistinguono, per superare l’impianto economicistico e deterministico rispetto alle relazioni intersoggettive che spesso li caratterizza; in quanto appaiono prevalentemente fondate sul fisico, centrate sull’oggetto piuttosto che sulle relazioni che l’individuo instaura con le cose e con gli altri individui. L ’obiettivo finale è quello di proporre uno stile e un modello di programmazione capace di individuare di volta in volta modalità, mezzi specifici, per rapportarsi adeguatamente alle differenti sfere della vita, per governarne le interazioni. Immagino un processo di programmazione in cui gruppi sociali rappresentativi in un determinato contesto propongono progetti d’intervento che sono valutati nella loro adeguatezza ai problemi e resi compatibili, reciprocamente e rispetto agli obiettivi assunti, attraverso un’attività valutativa (il riferimento è la programmazione per progetti), una valutazione capace, comunque, di rendere visibili gli effetti di tali progetti sulle relazioni intersogget-

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tive. Nella loro attività progettuale i gruppi sociali possono usufruire di un’assistenza tecnica (advocacy planning); il piano risulta fortemente focalizzato sui problemi della gente e ha per obiettivo finale la trasformazione della comunità e delle relazioni che essa stabilisce con il mondo delle istituzioni (Friedmann); è uno strumento rilevante per l’auto-organizzazione delle comunità locali, per aiutarle a prendere coscienza del loro ruolo (Sachs). La programmazione sostenibile si rapporta alle relazioni intersoggettive, rinunciando, però, a una pretesa di integrazione piena, in senso parsonsiano, di controllo e di socia-lizzazione tendenzialmente totalizzante. Per valorizzare quanto al di fuori dei canali di socializzazione istituzionale si muove con le finalità di affermare esigenze di solidarietà e comunicazione, per attivare le potenzialità comunicative presenti nel mondo della vita quotidiana, per sostenere molteplici forme di solidarietà, quelle fondate su un progetto comune, su una condivisione di obiettivi e mezzi; e quella propria di chi opera a favore di altri, di gruppi sociali in stato di profondo disagio o di conflitto acuto. Il mio progetto, parafrasando Polanyi (1974 e 1978), è quello di contribuire all’affermarsi di una programmazione che risulti immersa nei suoi rapporti sociali, che tenda a integrare l’economia, il territorio, nella società e nelle sue istituzioni,

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Valutazione 1998 che favorisca il passaggio da un’economia non “incorporata” a un’economia “incorporata” nella società”, che valorizzi reciprocità e redistribuzione come forme di integrazione, risolvendo l’esclusività pretesa dai rapporti di scambio. La programmazione viene correntemente intesa come un metodo proprio di una soluzione tecnocratica tesa a rafforzare i momenti di controllo e di direzione, che sposta i confini tra istituzioni e vita privata, riducendo l’ambito di autonomia degli individui; oppure, ancora più riduttivamente, come un metodo per ottimizzare le decisioni attraverso l’analisi dei benefici e dei costi che determinano le azioni attivate. Essa tradizionalmente assume come interlocutori delle sue scelte gli amministratori, gli operatori, a loro è affidato il compito di indurre i mutamenti nella direzione voluta dal piano, di stabilire nuovi rapporti con l’utenza, di garantire i livelli di prestazioni ritenuti soddisfacenti. Nella mia prospettiva gli individui posti in relazioni di vita quotidiana possono divenire i nuovi interlocutori del piano e concorrere, attraverso la loro attività progettuale, alla sua formulazione e a una sua implemen-tazione coerente, se assunti come soggetti autonomi ai quali proporre direttamente indicazioni, programmi operativi, opportunità partecipa-tive. La programmazione sostenibile può rispondere in modo adeguato alle esigenze di integrazione e di


Valutazione 1998 autonomia che esprime la società, contribuire a promuovere interazioni più soddisfacenti fra mondo della vita quotidiana e istituzioni. Può contribuire a creare un diverso clima culturale – fondato sulla trasparenza delle dinamiche decisionali, sulla valutazione organica delle esigenze dei gruppi sociali, sulla stabilità di alcuni riferimenti valoriali – se non svilito, indebolito, come fonte normativa da decisioni a esso incoerenti.

7. Quattro dimensioni del piano Per tratteggiare i caratteri di una programmazione sostenibile quattro dimensioni del processo decisionale appaiono cruciali: 1) l’estensione delle interdipendenze da governare; 2) la ripartizione dei compiti e delle responsabilità tra il sottosistema politico e gli altri sottosistemi, fra il livello centrale e quelli periferici; 3) i processi integrativi compatibili con il mutamento e con l’autonomia dei singoli; 4) il ruolo delle relazioni intersoggettive. Per ciascuna di esse non può essere individuato un ambito certo e predefinito. Un’attività conoscitiva orientata da una teoria adeguata del mutamento e delle relazioni sociali, una capacità di osservare le intera-zioni esistenti e quelle che si sviluppano in rapporto al cambiamento proposto, possono consentire

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al programmatore di declinare, di volta in volta in modo diverso, le quattro dimensioni proposte. L’attenzione a queste quattro dimensioni può contribuire a rendere meno indeterminata l’esortazione di molti programmatori a dare flessibilità ai processi di piano. Rispetto agli approcci più diffusi, una programmazione sostenibile non può che operare una drastica riduzione del suo campo di azione limitandosi a considerare un numero ristretto di alternative e controllare un numero ridotto di interdi-pendenze. Contrarre, insomma, l’arco temporale di riferimento, l’ambito territoriale su cui operare, seg-mentare il campo decisionale in unità più maneggevoli. Con due preci-sazioni: 1) l’ampiezza del campo decisionale non è individuabile in astratto ma in rapporto alle specifiche caratteristiche dell’ambiente, ai conflitti presenti nel suo ambito, alle differen-ziazioni, alle informazioni disponibili, alla distanza fra gli obiettivi assunti e l’evoluzione che assumerebbe il settore in assenza di piano; 2) l’esigenza di segmentare il processo decisionale deve necessariamente collegarsi a esigenze opposte volte a costruire il coordinamento delle azioni relativamente autonome, gli ambiti decisionali segmentati devono essere inseriti in un quadro d’insieme che dia loro senso e significato generale.

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L ’ambito di azione va definito selezionando le interdipendenze su cui operare attraverso un criterio di rilevanza e di priorità, che ha alla base un quadro conoscitivo adeguato. Si può sicuramente ridurre in minor misura l’estensione delle interdipendenze se il centro è disposto ad affidare ai livelli periferici autonomia decisionale, compiti ampi, agendo insomma sull’equilibrio fra centralità e decentramento. Il centro può sicuramente rinunciare a tutto ciò che è operativo, a individuare localizzazioni puntuali ma non a quello di dare un senso, un progetto e degli obiettivi finali, una direzione che orienti le decisioni parziali. La programmazione non può che ridimensionare le sue pretese di direzione politica. Ma ciò non significa abbassare il livello dei suoi obiettivi bensì assumere una concezione meno rigida e meno predefinita dello sviluppo, dell’integrazione e del mutamento, degli strumenti, delle regole e dei soggetti che lo promuovono. Senza rinunciare a elaborare un progetto e degli obiettivi finali. La programmazione non è uno strumento per ottimizzare le decisioni assunte dal sottosistema politico, ma un processo decisionale più ampio, una strategia regolativa che comprende scelte sugli obiettivi, sui mezzi e i soggetti. Il ritorno al centro che suggestiona una parte rilevante della cultura urbanistica e dell’operato pianificatorio (Gibelli, 1988) e il dovere etico

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Valutazione 1998 di formulare visioni d’assieme (Secchi, 1987), se correttamente intesi, possono costitituire buoni punti di partenza per un ripensamento del metodo e degli strumenti della programmazione in una società complessa e fortemente differenziata. In rapporto alle dinamiche presenti nel contesto in cui si opera, alla consistenza del conflitto e alla comunità di intenti che si ritiene si sviluppino nei confronti delle strategie di mutamento privilegiate, possono essere individuati gli ambiti da lasciare all’autonoma determinazione dei singoli e quelli da coinvolgere in uno sforzo regolativo rigido, può essere accentuata la dimensione normativa del piano, il controllo e l’imposizione o quella fondata su legami comunitari, su contesti di cooperazione, su norme e valori condivisi. La sua capacità integrativa può essere fondata sul coinvolgimento, sulla promozione di valori comuni, valorizzando legami comunitari, gli input motivazionali, piuttosto che attraverso regole più pervasive, restrittive della libertà del singolo, la coercizione istituzionale. Nella consapevolezza, comunque, che ogni ordine sociale poggia su una combinazione, di volta in volta differente, di coercizione, interesse e valori. La programmazione come attività volta a promuovere e consolidare tendenze alla coesione e alla coerenza, a dare un progetto e un senso in base al quale selezionare la complessità ambientale, la molteplicità di


Valutazione 1998 percorsi, di opportunità e di scelte, può rispondere alle forti esigenze integrative che esprime la società contemporanea. Individuando di volta in volta differenti equilibri: se la coesione e la coerenza che intende attribuire ai processi sociali è troppo rigido rispetto alle spontanee dinamiche del settore, è standardizzata, l’impegno progettuale diventa illusorio; se, viceversa, i processi integrativi e di coordinamento avviati sono troppo deboli la programmazione diventa priva di senso. Ciò che tradizionalmente conta nel processo di formazione del piano sono le istituzioni, i gruppi organizzati, il cui potenziale di consenso o di offesa viene affrontato attraverso la cogenza normativa, la forza persuasiva del messaggio o lo scambio politico. Il piano non si propone di attivare processi di aggregazione sociale di individui in relazioni di mondo vitale, di rendere compatibili le loro azioni agli obiettivi privilegiati, di mobilitarli all’attuazione delle strategie di mutamento prescelte. La programmazione tradizionalmente ha inteso coordinare le azioni separate che percorrono l’organizzazione societaria, perseguire gli obiettivi privilegiati elaborando norme, individuando nessi e legami per un’integrazione intesa in senso sistemico che progetta di modificare istituzioni, incidere nella trama dei rapporti fra esse, prescindendo dagli individui o attivando pratiche selettive di scansamento e negazione

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nei confronti delle loro eccessive pretese. In realtà, per coinvolgere gli individui nel mutamento voluto dal piano non è sufficiente definire puntualmente ruoli, aspettative formali. Se accogliamo, a livello analitico, la distinzione di Habermas (1986) sulle modalità di coordinamento dell’azione sociale, potremmo dire che il piano si deve esprimere a livello dell’integrazione sistemica, dell’integrazione cioè che si sviluppa sostanzialmente attraverso imperativi e nessi funzionali nei confronti delle relazioni istituzionalizzate, dei rapporti fra le istituzioni e i sottosistemi sociali, delle sfere della vita dove prevale l’agire strumentale. Allo stesso tempo il piano deve esplicare la sua azione a livello di un’integrazione che assume come ambito di riferimento la soggettività e le relazioni intersoggettive, i mondi della vita quotidiana, le interazioni di familiarità e di amicizia, i luoghi quotidiani dell’agire comunicativo, della comprensione e dell’intenzione di intendersi. La ricerca sociologica può contribuire a individuare un’articolazione del processo decisionale più rispondente alle caratteristiche del contesto, dell’area operativa, privilegiare spazi programmatori molto vasti o accettare confini più circoscritti, proporre un’accentuazione della cogenza normativa o un suo allentamento, un equilibrio fra centralizzazione delle decisioni e decentramento, una strategia più attenta alle dinamiche

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istituzionali o, viceversa, alle comunità, ai suoi vincoli e alle sue risorse. I riferimenti di questa strategia di programmazione sono approcci sociologici che colgono la complessità del rapporto fra dinamiche strutturali e agire individuale senza accentuare unilateralmente il significato del momento della relazione intersoggettiva o, al contrario, subordinare gli individui e le loro relazioni di vita quotidiana alla dimensione oggettiva della realtà sociale.

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Remo Siza / Strategie di programmazione: le attuali tendenze

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Remo Siza / Strategie di programmazione: le attuali tendenze

130

Valutazione 1998


Nicoletta Stame / Note sui progetti-pilota e sulla valutazione

Valutazione 1998

I

p r o g e t t i - p i lota e s p lo r a n o v i e i n n o vat i v e .

La

va lu ta z i o n e n o n m i r a a u n a

lo r o i m p o s s i b i l e r i p r o d u c i b i l i tà , m a a i u ta l e a m m i n i s t r a z i o n i a d i s p i r a r s i a q u e g l i e s e m p i i n m o d o ta l e da fav o r i r e lo s v i lu p p o d e l l e e n e r g i e lo c a l i .

Note sui

progetti-pilota e sulla valutazione

1. Progetti pilota e riproducibilità

N

ella pratica recente dell’amministrazione pubblica italiana (e comunitaria) si è andata costruendo una rappresentazione sociale dell’azione amministrativa basata sull’idea del progetto-pilota, che è al tempo stesso fonte di rassicurazione (“si può innovare”) ma anche di non poche angosce (“come si fa a generalizzare?”). Questa rappresentazione trae origine da un duplice slittamento linguistico. In primo luogo, l’idea che il nuovo management pubblico lavori “per progetti” che mirano a ottenere dei “risultati previsti” viene confuso con la messa in opera di progetti-pilota . Quanto a questi ultimi, poi, si auspica regolarmente che abbiano la caratteristica di essere “riproducibili”. Paradossalmente è ormai diventato moneta corrente che un progettopilota realizzato da qualche parte

sia riproducibile soltanto perché è stato valutato positivamente, ossia ha avuto “successo”. Si assume così che la realtà dell’amministrazione pubblica sia uniforme e che un progetto riuscito possa essere trattato come un frame logico da replicare all’infinito. Un modo “pragmatico” di pensare e di agire come quello dell’esplorazione di nuove vie tramite tentativi e innovazioni, tipico dell’approccio dell’“amministrazione che apprende”, che dovrebbe ispirare le riforme

di NICOLETTA STAME

Il concetto di progetto pilota è contenuto in numerosi provvedimenti legislativi, italiani e comunitari. Ci riferiamo, ad esempio, all’importante (e innovativo) documento del Dipartimento della Funzione Pubblica del marzo 1994, intitolato Progetti pilota per modernizzare le amministrazioni pubbliche, nel quale, tra l’altro, si parla apertamente di “valutazione dei costi e dei benefici [...] senza necessariamente proporsi di ricondurli ad una misura monetaria” (p. 15). Questo documento considera progetti-pilota tutte le tipologie di progetti richiamate dall’ art. 2 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, e precisamente: “progetti finalizzati all’ampliamento e al miglioramento dei servizi, progetti sperimentali di tipo strumentale e per obiettivo, progetti-pilota finalizzati al recupero della produttività”. Tra i requisiti dei progetti-pilota si nota il seguente: “i progetti devono proporre soluzioni sperimentabili in ambiti circoscritti, in vista di una successiva applicazione, anche su larga scala. Da un lato, non devono richiedere la riforma dell’intero settore in cui vengono realizzati; dall’altro, devono essere riproducibili altrove” (p. 10).

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Nicoletta Stame / Note sui progetti-pilota e sulla valutazione

Si è soliti attribuire l’emergere della legislazione per progetti statunitense a fattori di tipo istituzionale: da una parte, una legislazione pubblica ispirata ai principi di common law (in cui non esiste una tradizione di diritto amministrativo comparabile a quella europea continentale), dall’altra, la struttura federale, che favorisce le autonomie locali. L’effetto congiunto di tali fattori sarebbe quello di privilegiare il momento della implementazione rispetto alla decisione, e il livello locale rispetto a quello centrale (cfr. ad esempio Du-ran, 1990). Complementare a questa interpretazione è una considerazione sulla tradizione politica rispettiva, avanzata da House (1993, p. 47). La predisposizione alla sperimentazione sociale negli Stati Uniti rifletterebbe la riluttanza ad accettare l’inter-

segue

del nuovo management pubblico, viene così circoscritto entro un ambito di “regolarità” che rischia di irrigidirlo e devitalizzarlo. Ho infatti l’impressione che tale accostamento non permetta alle amministrazioni che sono riuscite a innovare di far tesoro delle lezioni apprese, né alle innovazioni di diffondersi tra altre amministrazioni. Forse una ragione di quell’accostamento può trovarsi in un bisogno di tradurre la concezione anglosassone della legislazione per programmi nel linguaggio “normativo” che ancora caratterizza la nostra amministrazione pubblica, ad onta della conclamata modernizzazione amministrativa. E può essere qui utile ricordare che questo scarto linguistico e operativo trova origine nella differenza tra la tradizione politicoistituzionale statunitense e quella dell’Europa continentale. Uno sguardo alla letteratura statunitense in materia di programmi può comunque aiutarci a muovere qualche passo sulla via dell’innovazione e dell’apprendimento.

2. Tipi di progetti e forme di valutazione Propongo di partire dal modo in cui la letteratura sulla valutazione, che ha sempre avuto una particolare attenzione al problema della sperimentazione, ha trattato i modelli. In un saggio del 1972 Suchman distingue tra tipi di programmi al fine

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Valutazione 1998 di stabilire quale forma di valutazione sia più adatta a ciascuno di essi (egli parla di programmi, ma il discorso è applicabile anche ai progetti, che ne sono una componente gerarchicamente inferiore). I programmi, dunque, possono essere di due tipi: dimostrativi, ovvero ancora in fase sperimentale, e operativi, ovvero a regime. I programmi dimostrativi, a loro volta, si distinguono a seconda del grado di conoscenze acquisite sui loro obiettivi e il modo di ottenerli (risultati), e quindi in base al loro stadio di avanzamento: la distinzione comporta dunque anche un ordine temporale. Essi sono così classificati: 1) programmi pilota: si svolgono in un periodo iniziale di trial-and-error, in cui vengono esplorati nuovi approcci e procedure (intorno a obiettivi e fattori strategici per l’amministrazione che li realizza) che vengono riviste rapidamente in modo flessibile. Si impara dall’esperienza e dai problemi che sorgono. Qui ci vuole una valutazione rapida, con grande enfasi sui feedback. Non è possibile basarsi su un disegno sperimentale di valutazione, e ci si affida piuttosto a case studies, osservazioni, ecc.; 2) programmi modello: è il risultato finale di una serie di progetti-pilota che siano stati considerati positivi, quando però non si è ancora sicuri dei passi da prendere. Si sa che il successo è possibile (validità interna), ma non si è ancora certi di voler/ poter diffondere il programma su vasta scala. Per farlo, si vuole una


Valutazione 1998 maggiore certezza sulle condizioni di applicabilità in luoghi e contesti diversi (validità esterna). Qui si prevede un disegno di valutazione di tipo sperimentale, in cui si confronti un gruppo sperimentale cui si somministra il programma con uno di controllo cui il programma non viene somministrato. Comunque – avverte Suchman – occorre ancora cautela: anche se l’esperimento è stato positivo non è detto che il programma possa essere messo in pratica su vasta scala. 3) prototipi: è lo stadio in cui il programma è stato testato ampiamente e può essere reso operativo su vasta scala. Qui il disegno della valutazione deve cercare di avvicinarsi al modello sperimentale (attraverso i quasi-esperimenti), tenendo la situazione attuale del programma come gruppo sperimentale e quella dei programmi precedenti come gruppo di controllo. Per quanto riguarda i programmi operativi, una volta che il programma sia a regime non è più necessario valutarlo tramite un disegno sperimentale perché si cerca piuttosto di capire come si può migliorare il programma esistente. Lo si farà con un sistema di monitoraggio e con analisi di processo, con valutazioni continue del personale, ecc. Un primo chiarimento riguarda il primo slittamento linguistico: i normali progetti realizzati da una amministrazione che lavori “per progetti” nel corso dell’erogazione dei suoi servizi sono progetti operativi, mentre i progetti-pilota sono

Nicoletta Stame / Note sui progetti-pilota e sulla valutazione

progetti dimostrativi. Un progetto operativo che va bene viene normalmente applicato da varie parti, anche se – come vedremo subito – ciò non significa dire se esso sia esattamente “riprodotto”. Un progetto pilota, invece, non può accontentarsi di un solo successo per potersi ritenere riproducibile (siamo così venuti al secondo slittamento linguistico): infatti, tra i progetti dimostrativi solo i prototipi sono – per definizione – considerati riproducibili, mentre i progetti-pilota hanno ancora bisogno di verifiche e di decisioni di attuazione. D’altra parte, come si può essere sicuri anche nel tracciare il confine tra programma modello e prototipo?

3. Generalizzazione e apprendimento La logica del passaggio dai progetti dimostrativi ai progetti operativi è una logica di diffusione e generalizzazione: conoscere – tramite la valutazione – gli effetti di un’innovazione su piccola scala prima di diffonderla su vasta scala, senza attribuire al contesto locale altra valenza se non quella di essere (per definizione) piccolo: questo comporta, tra l’altro, che eventuali risultati negativi saranno meno perniciosi per l’insieme. Il progetto è visto come soluzione nuova a problemi ricorrenti: si assume che se la sperimentazione è stata fatta bene (le condizioni sono certe e i possibili bias sono sotto controllo) la diffusione sia

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vento pubblico sui problemi sociali: prima di essere sicuri che un intervento funzionerà lo si vuole sperimentare su larga scala, e verificare con “metodo scientifico”; ciò contrasterebbe con la tradizione europea (e canadese) in cui un tale tipo di intervento è normale, e il problema principale consiste nel modo in cui si prende la decisione politica di agire, dopo-dichè ci si attende che il programma venga implementato dall’alto al basso. Conseguenza di tale differenza sarebbe poi che nella tradizione statunitense si favorisce un pluralismo di valutazioni, anche in conflitto tra loro e critiche del governo, mentre in quella europea continentale la valutazio ne resta una funzione del management centrale.


Nicoletta Stame / Note sui progetti-pilota e sulla valutazione

poi nelle cose. È una logica che va dal centro alla periferia, e che viene azionata da un ente centrale. Questa logica è stata però fortemente criticata da altri approcci alla valutazione, che si sono posti la domanda “Che senso ha generalizzare?”. In particolare, Cronbach (1980) sostiene che, proprio a causa dell’importanza del contesto locale e del ruolo giocato da decisori, attuatori e beneficiari (attori), ogni programma si sviluppa in modo diverso da quello che si era previsto e da come si sviluppano programmi analoghi (“l’idea della riproducibilità di un programma è una mera figura retorica”), e il valutatore che segue gli sviluppi di un programma può aiutare gli attori a capire cosa è successo e metterli in condizione di agire usando le proprie capacità. Si ritrovano qui aspetti di un approccio dell’apprendimento applicato allo studio delle organizzazioni secondo cui l’attore e il contesto locale riescono a usare le conoscenze generali (o globali) solo se sono in grado di ricontestualizzarle (Rullani, 1995), e in cui, quindi, il locale è visto come luogo dell’incontro tra contestuale e globale. In effetti, ogni volta che un programma viene “replicato” in un altro luogo, ci si trova in una situazione nuova (e incerta) che va ridefinita da parte degli attori per riappropriarsi dei significati del programma e per poter prendere le decisioni che permettano loro di usare al meglio le proprie capacità palesi (e far

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Valutazione 1998 emergere quelle nascoste e disperse) nell’attuare il programma. (A questo proposito, si dovrebbero utilizzare di più le analisi che provengono dal filone degli studi sul simbolismo organizzativo – cfr. Czarniawska-Joerges, 1995 – cui contribuisce anche Bruno Latour (1986) quando contrappone al modello della “diffusione” quello della “traduzione”, intesa come “spostamento, spinta, innovazione, mediazione, creazione di un nuovo legame”). Invece di generalizzazione di modelli, si tratterebbe piuttosto di esempi da proporre e da imitare. Le varie situazioni possono infatti parlarsi paragonando realtà diverse per convergenza e divergenza: un’esperienza non può essere replicata in un’altra, ma può ispirarne un’altra. La ricostruzione di come qualcosa sia riuscito a funzionare in un mare di inefficienza è una lezione straordinariamente importante per le tante altre situazioni di inefficienza, ma poi queste ultime dovranno saper cogliere ciò che si adatta alla loro situazione e farne il perno della propria innovazione. Siamo così giunti a distinguere tra sperimentazione ed esplorazione. Se non ci sono regole da generalizzare (dopo la sperimentazione) ci sono però lezioni che possono essere apprese (con un procedimento esplorativo), e che possono essere riappropriate altrove. In questo caso, però, il processo non dipende unicamente da un impulso del centro, ma da un incontro tra centro e periferie, o tra


Valutazione 1998 diverse località e situazioni. Da questo punto di vista, si può dire che i tre tipi di programmi dimostrativi di Suchman non si distinguano solo per la temporalità o per lo stadio di avanzamento, ma anche per la logica: infatti, i progetti-pilota si basano su una logica esplorativa, della scoperta, che può essere utilizzata dalle amministrazioni periferiche che apprendono, mentre sia i progetti-modello che i prototipi si basano su una logica sperimentale, di verifica, che viene azionata dal centro.

4. Buon governo e progetti innovativi Un’interessante riflessione sull’uso dei modelli nell’analisi delle innovazioni amministrative è contenuta nell’ultimo lavoro di Judith Tendler (1997) che ha il significativo titolo di Good Government in the Tropics: esso riporta i risultati di una ricerca su una serie di progetti innovativi nello stato del Cearà (Brasile), che riguardano lo sviluppo della piccola impresa, l’irrigazione, l’ambiente, i servizi sanitari. I punti che qui più interessano mi sembrano quelli in cui la Tendler sottolinea il modo in cui i casi da lei analizzati contraddicano la teoria tradizionale sui modelli. Di solito si ritiene che qualcosa si sperimenti e si perfezioni nel piccolo e poi lo si riproduca su vasta scala. Nel Cearà, invece, le idee

Nicoletta Stame / Note sui progetti-pilota e sulla valutazione

inno-vative si sono diffuse prima che i modelli fossero perfezionati; e non vi è stata solo una diffusione dal centro, ma un’attuazione da parte delle Provincie che avevano saputo cosa si stava facendo altrove e hanno voluto imitarlo. Di solito si ritiene che un modello può funzionare bene solo se lo si applica tutto intero (come era stato sperimentato e testato). Invece, nel Cearà non si è applicato il modello in generale (in certi casi, si è capito che per alcune componenti c’erano dei limiti), ma solo quella parte che si riteneva adatta alla propria situazione, e che spesso era semplicemente quella che si vedeva fare alla provincia vicina. Di solito si ritiene che il campanilismo sia una caratteristica negativa. Invece, qui ha funzionato da stimolo: “voglio anch’io quello che hanno fatto gli altri”, rivendicavano le varie amministrazioni locali. Si può quindi dire che nei casi analizzati dalla Tendler i progetti pilota non hanno atteso la fase del prototipo per potersi “diffondere”; tuttavia, essi non sono stati “generalizzati”, ma la loro logica esplorativa è stata ripresa da altri, che, volendo a loro volta “innovare”, hanno “adattato”.

5. Flessibilità e oscillazione A conclusione di questo ragionamento, ci si potrebbe chiedere se la mancata ripetibilità non sia in

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Nicoletta Stame / Note sui progetti-pilota e sulla valutazione

contraddizione con l’aspirazione al buon governo e alla direzione per programmi, oltre che alla valutazione. Ma la risposta non potrebbe che essere negativa: prendere atto di quella impossibilità può essere indispensabile per superare le frustrazioni riguardo alla mancata ripetizione e affrontare con realismo i problemi. In effetti, il nuovo management pubblico che punta alla diffusione delle innovazioni non deve tanto preoccuparsi di sperimentare dei prototipi che difficilmente verranno riprodotti altrove nella loro completezza, ma piuttosto di: 1) inventare modi nuovi di affrontare i problemi, che liberino le energie esistenti, chiamandole a raccolta e organizzandole; 2) proporre l’esempio ad altri, evitando però che diventi un obbligo imposto dall’esterno, un ipse dixit; favorire invece che altri adottino le novità in modo autonomo; 3) imparare a usare la valutazione come strumento per muoversi tra questi due compiti, favorendo il potenziamento delle energie individua-

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Valutazione 1998 li e locali, per un cambiamento che tenga conto dell’interesse generale. Riferimenti bibliografici Cronbach L.J. et al. (1980), Toward Reform of Program Evaluation, JosseyBass, San Francisco. Czarniawska-Joerges B. (1995), Il simbolismo negli studi sull’organizzazione della pubblica amministrazione, in “Rivista trimestrale di scienza dell’amministrazione”, n. 1. Duran P. (1990), Pour une approche raisonnée de l’analyse des politiques publiques, in “L’annèe sociologique”. House E.R. (1993), Professional Evaluation, Sage, Newbury Park, CA. Latour B. (1986), The Powers of Association, in J. Law, Power, Action, and Belief, Routledge and Kegan Paul, London. Rullani E. (1995), Contesti e varietà nell’economia di impresa, relazione alla XXXVI riunione della Società Italiana degli Economisti, Firenze. Suchman E. (1972), Action for What? A Critique of Evaluative Research, in Evaluating Action Programs, a cura di C. Weiss, Allyn and Bacon, Boston. Tendler J. (1997), Good Government in the Tropics, Johns Hopkins University Press, Baltimore.


Erio Ziglio / La tecnica Delphi. Applicazione alle politiche sociali

Valutazione 1998

U na

tecnica di ricerca , basata sul giudizio di esperti , molto nota e utilizzata

a n c h e n e l c am p o d e l l a va lu tata z i o n e .

A lc u n e

i n d i c a z i o n i s u co m e e q ua n d o

va u t i l i z z ata , s u q ua l i s t r u m e n t i va n n o i m p i e g at i e q ua l i c au t e l e r i s p e t tat e .

La tecnica Delphi. Applicazione alle

politiche sociali

1. Introduzione

N

ella tecnica Delphi l’obiet tivo è l’esplorazione di idee creative e attendibili, o l’elaborazione di informazioni utili al processo decisionale. L ’applicazione della tecnica consente di sviluppare nuovi approfondimenti, creare scenari futuri, valutare la deside-rabilità e la fattibilità di possibili alternative, contribuendo così a un processo decisionale informato (Dalkey, 1969). La tecnica Delphi si basa su un processo strutturato che raccoglie e distilla informazioni dal patrimonio conoscitivo di un gruppo di esperti. Tale processo viene attivato attraverso una serie di questionari intervallati da feedback di verifica sulle opinioni espresse. La tecnica Delphi è usata come supporto valutativo o euristico a un processo decisionale innovatore. Questa tecnica viene usata in situazioni in cui si riscontri “mancanza

di accordo o uno stato incompleto di conoscenze sulla natura del problema, o sulle componenti di cui occorre tenere conto per una sua soluzione. Come risultato, i giudizi espressi dai membri di un gruppo eterogeneo devono fondersi, per inventare o scoprire una linea di azione soddisfacente” (Delbecq et al., 1975, p. 5). Per applicare con efficacia la tecnica Delphi sono necessari tre requisiti fondamentali (Linstone - Turoff, 1975, p. 4): 1) il problema non si presta a precise tecniche analitiche, ma può trarre vantaggio dalla formulazione collettiva di giudizi soggettivi (ad esempio, il possibile impatto del mercato unico europeo sull’ambiente, sul fenomeno migratorio, sulla politica educativa, ecc.); 2) il problema non è stato storicamente monitorato e/o non vi sono informazioni adeguate sul suo sviluppo attuale e futuro (ad esempio, gli effetti del disastro nucleare di

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di ERIO ZIGLIO


Erio Ziglio / La tecnica Delphi. Applicazione alle politiche sociali

Chernobyl sull’ambiente e la salute pubblica, o l’effetto serra); 3) il problema va affrontato attraverso l’esplorazione e la valutazione di numerosi scenari correlati a opzioni tra loro diverse, laddove la necessità di formulare un giudizio di gruppo è facilitata da tecniche valutative (ad esempio, le possibili misure comuni di politica sociale negli Stati membri della Comunità Europea). Nelle politiche sociali è frequente la necessità di dover risolvere problemi connotati da incertezza, sia relativa alla natura del problema stesso che alle misure da adottare. Ciò rende indispensabile l’utilizzo di un giudizio informato nel processo decisionale. Quando si affronta un problema in condizioni di incertezza – determinata o dall’inadeguatezza dei dati sul problema investigato e/o da una teoria carente sia sulle cause che sugli effetti –, esistono due possibilità (Pill, 1971; vedere inoltre Goldschmidt, 1975): 1) aspettare (un tempo indefinito) sino a che non sia stata elaborata una teoria adeguata, basata su una conoscenza scientificamente testata, in grado di affrontare il problema investigato. Se il problema è urgente e richiede attenzione e azioni immediate, non è certamente possibile optare per questa scelta. Inoltre, molti problemi sociali, ma anche aziendali, non si prestano a risoluzioni elaborate secondo metodi puramente positivistici o scientifici (Goldschmidt, 1975, p. 199);

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Valutazione 1998 2) cercare di ottenere dagli esperti un numero rilevante di previsioni basate sull’intuizione, e usare il loro giudizio informato nel modo più sistematico possibile. La logica della tecnica Delphi rappresenta uno sforzo sistematico per affrontare al meglio una situazione palesemente insoddisfacente.

1. Necessità di una comunicazione creativa e strutturata L ’area globale delle informazioni è stata differenziata da Dalkey (1968a) in tre tipologie, visualizzate come le tre componenti di un segmento. Un estremo del segmento è definito conoscenza, cioè quel genere di informazione ampiamente provata da una solida evidenza empirica. Testata e confermata dalla sperimentazione, la conoscenza è solitamente tipica delle scienze naturali e difficilmente applicabile alle politiche sociali. All’altro estremo del segmento, la speculazione, basata su fondamenta labili o inesistenti. Tra gli estremi del segmento – la conoscenza e la speculazione – un’area grigia, definita saggezza, intuizione, o giudizio informato (Dalkey, 1968a; vedere anche Dahl, 1974). Il giudizio informato è il cardine dell’assunto teorico della tecnica Delphi: è il rifiuto di etichettare come mera speculazione ogni cosa non definibile come conoscenza. La procedura metodologica della


Valutazione 1998 tecnica Delphi tende a strutturare e a filtrare una vasta massa di informazioni al cui riguardo c’è una qualche prova (ma non ancora la conoscenza), con l’obiettivo di migliorare il giudizio (rendendolo informato) e, di conseguenza, il processo decisionale (Dalkey, 1968a, 1968b e 1969; Helmer - Rescher, 1959). 1.1 Delphi: strumento per costruire conoscenza La tecnica Delphi è utile per migliorare la formulazione di idee-chiave attraverso l’uso di supporti tecnici, una buona dose di creatività, la raccolta strutturata di informazioni fornite da esperti, e la loro analisi. Questa tecnica può essere applicata per raggiungere uno o più dei seguenti risultati: 1) assicurare che siano esplicitate e vengano prese in considerazione il maggior numero possibile di opzioni riguardanti uno specifico argomento; 2) stimare l’impatto e le conseguenze di ogni specifica decisione (ad esempio in termini di fattibilità tecnica ed economica); 3) esaminare l’accettabilità di ogni possibile opzione (ad esempio in termini di desiderabilità etica o politica ). Il processo Delphi, inoltre, può essere utilizzato con successo per arricchire i tradizionali incontri face-to-face. Ancora, la tecnica Delphi può sostituire frequenti incontri diretti

Erio Ziglio / La tecnica Delphi. Applicazione alle politiche sociali

Scala valutativa di fattibilità tecnica Adattata da Turoff (1975) e Ziglio (1985) Valuti, per cortesia, la fattibilità tecnica delle soluzioni indicate nel questionario, seguendo il seguente punteggio

Scala valutativa di fattibilità politica Adattata da Turoff (1975) E Ziglio (1985) Valuti, per cortesia, la fattibilità tecnica delle soluzioni indicate nel questionario, seguendo il seguente punteggio

segue

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Erio Ziglio / La tecnica Delphi. Applicazione alle politiche sociali

e ovviare a tempi limitati e a costi elevati, nell’eventualità di esperti geograficamente dispersi. In altri casi, la tecnica Delphi consente di assicurare l’eterogeneità dei partecipanti, e preservarne l’anonimato, per evitare il dominio di lea-dership (da parte di una specifica professione, o di interessi di gruppo acquisiti, o di forti personalità). Il crescente impegno di autorità locali, nazionali e internazionali, ma anche di organizzazioni ambientali e sanitarie, ha dato vita a un’ampia gamma di funzioni, nuove istituzioni, comitati ad hoc e altri organismi decisionali, in cui sono coinvolti funzionari statali, esperti, politici, amministratori ed esponenti della società civile. Le relazioni e gli scambi di esperienze e di informazioni tra questi partners spesso non sono ideali. Sta diventando sempre più una necessità trovare le modalità e gli strumenti pratici in grado di migliorare la comunicazione, per sostenere le organizzazioni e i vari organismi decisionali a ogni livello politico. È frequente che, a tutti i livelli, commissioni e gruppi di lavoro siano

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Valutazione 1998 composti da venti e più persone, che devono affrontare argomenti complessi, con la pressione di dover esaurire tutti i punti all’ordine del giorno, rispettando le scadenze. In un simile contesto realizzare un processo decisionale informato – basato su un completo, effettivo e libero scambio di opinioni –, non solo richiede troppo tempo, ma è spesso addirittura impossibile. L ’informazione generata da un processo Delphi può ben essere, ad esempio, l’input per una commissione, che ne utilizza i risultati per chiarire tutte le differenti posizioni esistenti su un determinato argomento e i principali pro e contro. Anche nel caso in cui gli esperti coinvolti nel processo Delphi fossero i membri stessi della commissione, la tecnica avrebbe il vantaggio di eliminare “manipolazioni” insite nella maggior parte delle dinamiche di gruppo. Essa consentirebbe una chiara delineazione dei differenti punti di vista in un contesto non minaccioso o manipolato. Naturalmente, deve essere chiaro che l’uso della tecnica Delphi non può essere visto, in alcun caso, come un tentativo di rimuovere le responsabilità della formulazione politica e dell’atto decisionale da parte di coloro che devono esercitarli. Chi elabora una tecnica Delphi, perciò, deve lavorare in stretta collaborazione con i decisori e con coloro che dovranno utilizzare le informazioni derivate dalla sua applicazione. La collaborazione è


Valutazione 1998 indispensabile per assicurare che gli scopi e le reali intenzioni applicative della tecnica Delphi siano compresi correttamente dalle parti interessate, e siano visti come uno strumento imparziale per supportare il processo decisionale. 1.2 Quando non dovrebbe essere usata la tecnica Delphi La tecnica Delphi e le tecniche simili (ad esempio la Nominal Group Technique) non sono state sviluppate per una loro applicazione a incontri di routine o, ad esempio, a riunioni di coordinamento, a negoziati, o a trattative. Prima di decidere se adottare o escludere la tecnica Delphi, è molto importante analizzare a fondo il contesto in cui dovrebbe essere applicata (Delbecq et al., 1975), e rispondere ad alcune domande: 1) Quale tipo di processo comunicativo di gruppo è desiderabile per esplorare il problema? 2) Chi sono gli esperti del problema e dove sono localizzati? 3) Quali sono le tecniche alternative disponibili e quali risultati ci si può ragionevolmente aspettare dalla loro applicazione? Soltanto successivamente si potrà decidere se la tecnica Delphi è appropriata a quel contesto. Se non si affrontano le domande sopra elencate, il rischio conseguente è un’applicazione inappropriata e la vanificazione di ogni sforzo creativo. Occorre essere consapevoli inoltre che la decisione di adottare la tec-

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nica Delphi non ne garantisce, di per sé, un buon funzionamento. La tecnica Delphi è solo in apparenza un metodo semplice e diretto. È tuttora molto frequente una visione e applicazione errata del metodo Delphi. Vi sono molti esempi di cattivo utilizzo di questa tecnica generati da malintesi sia sui risultati raggiungibili, sia sulle implicazioni che il processo comporta. L ’assenza di un esame accurato dei requisiti richiesti e di possibili approcci alternativi comporta il rischio, quindi, di un uso indiscriminato ed erroneo della tecnica Delphi.

2. Elementi di base della tecnica Delphi La tecnica Delphi è un processo applicato alla comunicazione di un panel formato da esperti geograficamente distanti. La tecnica permette loro di affrontare in modo sistematico un compito, o un problema complesso. Una serie di questionari vengono inviati (per posta, o con sistemi computerizzati) a un gruppo di esperti preselezionato. I questionari sono formulati con lo scopo di sollecitare e approfondire risposte individuali al problema posto, aiutando gli esperti ad affinare il loro punto di vista mano a mano che il gruppo progredisce nel compito assegnato. Nella maggior parte dei casi, il primo questionario ( Q1 ) pone il

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problema in modo ampio e richiede risposte e commenti. Le risposte a Q1 vengono sintetizzate dal team di ricerca ed utilizzate per costruire un secondo questionario ( Q2 ). Q2 presenta i risultati di Q1 e offre agli interlocutori l’opportunità di rivedere le loro prime risposte alla luce del feedback che comprende le risposte dell’intero gruppo. Durante

ESEMPIO DI ISTRUZIONI PER IL Q1 Adattato da Delbecq et al. (1975) e da Ziglio (1985) Questo è il primo di una serie di questionari Delphi. Lo scopo di questa esercitazione Delphi è esplorare e valutare i numerosi problemi che rendono complicato il perseguimento di una linea comune sulla valutazione dei risultati dei programmi educativi per la salute condotti a livello europeo. L ’esercitazione Delphi si avvale di un metodo sistematico per correlare i punti di vista e le informazioni che riguardano problemi specifici dello sviluppo di una politica europea sulla valutazione dei risultati dei programmi educativi per la salute. In questo questionario Delphi Le chiediamo di fare cinque cose: 1) Esaminare tutti i punti del questionario. 2) Commentare gli argomenti che preferisce. Si ritenga libero di fornire chiarimenti, argomentare a favore o contro ogni argomento, porre domande. 3) Valutare il livello di desiderabilità e di fattibilità di ogni argomento, secondo il punteggio di valutazione qui allegato. 4) Selezionare i sette punti che Lei ritiene i più importanti per sviluppare una politica europea per la valutazione dei risultati dei programmi educativi per la salute. Assegni il valore “7” al più importante. Assegni il valore “6” al successivo più importante e così via, fino al settimo punto (il meno importante dei sette) a cui sarà assegnato il valore “1”. (Questa è soltanto una votazione preliminare. Lei avrà ancora l’opportunità di votare in successivi questionari). 5) Restituire la risposta entro...

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Valutazione 1998 questo processo interattivo – che, secondo le circostanze, può essere ripetuto ogniqualvolta lo si ritenga opportuno –, vengono evidenziati i problemi, identificate aree di accordo o disaccordo e aree richiedenti ulteriore informazione e analisi. 2.1 Il processo Delphi: fasi principali e risultati L ’applicazione della tecnica Delphi si snoda in due fasi. La prima può essere definita fase esplorativa. Generalmente caratterizza Q1, e Q2, se l’argomento in discussione deve essere esplorato a fondo ed è necessario acquisire ulteriori informazioni. La fase esplo-

ESEMPIO DI Q2 Questo è il secondo questionario Delphi, che si propone di esplorare e valutare i numerosi problemi incontrati nel perseguimento di una politica comune per valutare i risultati dei programmi di educazione alla salute condotti a livello europeo. Come può notare, questo questionario è basato sulle risposte (analisi, commenti, votazioni di priorità, ecc.) ottenute nel primo questionario. In questo secondo questionario Le chiediamo di svolgere cinque compiti: 1) Analizzare tutti i punti del questionario. 2) Commentare ogni punto che Lei desidera. È libero di dare chiarimenti, argomentare a favore o contro ogni punto, porre domande. 3) Valutare il livello di fattibilità tecnica e di fattibilità politica di ogni punto, secondo il punteggio di valutazione qui accluso. 4) Selezionare i cinque punti che Lei ritiene i più importanti per sviluppare una politica europea per la valutazione dei risultati dei programmi educativi sulla salute. Assegni il valore “5” al più importante. Assegni il valore “4” al successivo più importante e così via, sino al quinto punto (il meno importante dei cinque), a cui sarà assegnato il valore “I”. 5) Restituire la risposta entro...


Valutazione 1998 rativa è di cruciale importanza. Se gli interlocutori non comprendono lo scopo che sottende l’applicazione della tecnica Delphi, possono rispondere in modo inappropriato, esserne frustrati, o perdere interesse (Delbecq et al., 1975). Vale la pena, perciò, di avviare una fase preliminare per rassicurare gli esperti prescelti – qualora non abbiano familiarità con la tecnica –, che saranno in grado di portare a termine il compito richiesto. A tal fine, è spesso molto efficace un contatto individuale e fornire in anticipo materiale informativo appropriato (Ziglio, 1985, pp. 85-86). La seconda fase – fase valutativa – è composta dal processo di valutazione dei punti di vista (anche contrastanti) degli esperti sui vari modi di affrontare gli argomenti oggetto di indagine. In genere, la fase valutativa caratterizza Q2 e Q3. Il secondo questionario Q2 chiede ai partecipanti di rivedere gli items identificati nel Q1, sintetizzati dal team Delphi incaricato dell’analisi. Come nel Q1, gli esperti possono argomentare a favore o contro. Generalmente nella fase Q2 si chiede agli interlocutori di classificare gli items e stabilirne priorità preliminari, seguendo le istruzioni fornite. Se il disaccordo è significativo, un’indagine ulteriore (Q4) porta alla luce le ragioni che sottendono le divergenze di opinione tra gli esperti e, se possibile, le valuta (Linstone - Turoff, 1975, pp. 5-6; Delbecq et al., 1975, cap. 4). I vantaggi che ci si può ragionevol-

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mente aspettare dalla seconda fase Q2 sono l’identificazione iniziale delle aree di accordo e disaccordo tra i membri del panel, e delle aree che richiedono chiarimenti ulteriori: 1) Aree di accordo: sono identificabili alla luce dei commenti e delle priorità votate dagli esperti. 2) Aree di disaccordo: gli items indicano le posizioni iniziali dei partecipanti, che possono essere chiarite da ulteriori commenti e reazioni. Basata su questa informazione, l’analisi del Q2 può già indicare, in qualche caso, le cause di divergenza. 3) Aree che richiedono chiarimenti: con il Q2 e, se necessario, con successivi questionari, possono essere identificati gli items del Q2 il cui significato non sia chiaro agli intervistati; ogni item può essere ricostruito, per evitare che la mancanza di chiarezza distorca il voto finale. 4) Comprensione: Q2 è l’inizio del dialogo tra i partecipanti, che possono formulare domande, esprimere critiche o dichiarazioni a favore. I risultati saranno inviati a tutti i partecipanti attraverso il Q3, consentendo loro di averne cognizione e di votare in modo preciso. Lo scopo è di aiutare i partecipanti a comprendere le posizioni reciproche ed esprimere un giudizio accurato sul relativo valore dei vari items (Delbecq et al., 1975). 2.2 Selezione degli esperti e ampiezza del gruppo Il criterio esemplare per costruire un gruppo di esperti Delphi non è

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(e non può essere) soltanto statistico. L ’ampiezza del panel di esperti è variabile. La letteratura sostiene che, con un gruppo omogeneo di esperti, si possono raggiungere buoni risultati anche con piccoli panel composti da 10-15 persone. L ’ampiezza del campione deve essere aumentata in modo considerevole nel caso in cui siano coinvolti vari gruppi di riferimento (Delbecq et al., 1975, cap. 4; vedere inoltre Helmer - Rescher, 1959; Goldschmidt, 1975). L ’effetto dell’ampiezza del gruppo sui risultati è un punto certamente cruciale. Esperimenti condotti negli anni cinquanta e sessanta mostrano che, aumentando il numero dei componenti, la possibilità di errore del gruppo si riduce (o, in altre parole, c’è un miglioramento nella qualità dei risultati) (Delbecq, 1968; Dalkey, 1969a, 1969b). Occorre notare tuttavia che, oltre una certa soglia, aumentare sempre più il numero dei componenti il panel ha un impatto molto marginale il processo di distillazione ottenuto (Dalkey - Helmer, 1963; Helmer, 1967). La selezione degli “esperti adatti” non deve, naturalmente, essere materia di una mera preferenza personale. Occorre seguire, al contrario, una procedura governata da criteri espliciti. Tali criteri possono variare da un’applicazione all’altra, secondo gli scopi e il contesto in cui viene condotta la tecnica Delphi. Nondimeno, l’expertise è, di solito, il requisito chiave nella selezione

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Valutazione 1998 dei membri del gruppo Delphi. La prima componente dell’expertise è, certamente, la “conoscenza” e l’esperienza pratica sugli argomenti investigati. Altri criteri di selezione sono: la capacità e la propensione degli esperti a contribuire all’esplorazione di un problema specifico; la garanzia che gli esperti abbiano il tempo sufficiente per contribuire al processo Delphi; e che siano abili sia nella comunicazione scritta che nell’esprimere priorità nelle scale di misurazione. I ricercatori Delphi devono essere sicuri che gli esperti scelti forniranno risposte molto più significative rispetto a quelle che potrebbero essere fornite da coloro che non saranno interpellati (Goldschmidt, 1975). Occorre segnalare, infine, che la definizione di “esperto” varia secondo il contesto e il campo di interesse in cui la tecnica Delphi è applicata. Essere esperti significa aver acquisito esperienza, o una particolare conoscenza, di uno specifico argomento. Non è detto che gli esperti debbano essere necessariamente in possesso di qualifiche speciali, di onorificenze o di titoli accademici. Se, ad esempio, l’obiettivo Delphi è identificare e assegnare delle priorità ai criteri per la valutazione della qualità dell’assistenza ospedaliera, è importante che venga espresso un giudizio da parte di chi fornisce l’assistenza e di chi ne usufruisce. Può essere perciò selezionato un panel composto sia da medici che da pazienti, che abbiano


Valutazione 1998 vissuto l’esperienza dell’ospedalizzazione. I criteri definiti dai pazienti sulla qualità dell’assistenza possono essere completamente diversi da quelli identificati dai medici, ma, per sviluppare indicatori della qualità dell’assistenza che vadano al di là di ristretti criteri clinici, è significativa l’expertise complessiva dei cittadini e dei medici. 2.3 Istruzioni agli esperti Fornire istruzioni chiare agli esperti che partecipano a un processo Delphi può aiutare a garantire l’affidabilità delle loro risposte. Istruzioni come quelle indicate nella Tabella 1 vengono spesso usate per acquisire informazioni sul livello di sicurezza che gli esperti hanno nei confronti dei vari compiti che devono assolvere (per esempio la probabilità che uno specifico evento si verifichi, la probabilità che venga risolta una particolare questione politica, la rilevanza delle osservazioni fatte, ecc.). In questo modo, gli esperti consentono una misurazione indiretta della percezione della propria affidabilità e accuratezza nell’esecuzione dei compiti richiesti dai questionari Delphi. Quando la tecnica Delphi coinvolge esperti di diversi paesi, sono possibili problemi di linguaggio. Sebbene la grande maggioranza degli esperti internazionali parli un inglese molto fluente, la scelta della lingua da usare è cruciale. Se i ricercatori Delphi possono avvalersi di traduzioni

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eccellenti e rapide, è opportuno che gli esperti rispondano nella loro lingua madre. Ma, a causa dei tempi ristretti o dei costi elevati, è raro che si possa offrire agli esperti tanta libertà. Durante lo svolgimento del processo Delphi, è importante minimizzare possibili malintesi o “confusioni”. L’efficacia degli scambi delle informazioni e l’affidabilità dei giudizi richiesti agli esperti può essere aumentata, fornendo loro parole chiave e istruzioni chiare per portare a termine i compiti indicati. Spesso sono fornite istruzioni come

TABELLA 1 - Autoanalisi degli esperti sulla capacità di adempiere agli incarichi assegnati Per ogni risposta fornita agli items del questionario, assegni per cortesia il Suo giudizio soggettivo al Suo livello di sicurezza di essere stato accurato nel contributo fornito. Il seguente punteggio è stato pensato per guidare il Suo giudizio soggettivo.

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quelle indicate nella Tabella 2 , sia per permettere agli esperti di riflettere sulla sicurezza con cui hanno assolto alcuni compiti specifici, richiesti nel processo Delphi, sia per incrementare l’omogeneità del linguaggio usato. Le parole chiave e le istruzioni per stimare gli items dei questionari Delphi rivestono particolare importanza per la Policy Delphi, in cui spesso gli esperti vengono interrogati circa la facilitazione e la fattibilità di risoluzione di una determinata questione politica. I lavori di Turoff (1975) e ZiTABELLA 2 - Esempi di istruzioni per migliorare l’omogeneità del linguaggio Adattata da Turoff (1975) e ziglio (1996) Nei suoi commenti è libero di esprimere qualunque giudizio che Lei ritenga appropriato. Per migliorare l’omogeneità del compito valutativo, suggeriamo alcune parole chiave

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Valutazione 1998 glio (1985 e 1996) forniscono esempi di punteggio per la valutazione della desiderabilità e della fattibilità. I membri del gruppo, infine, hanno la facoltà di partecipare e interagire in modo asincrono. Questo aspetto, importante e forse poco compreso del metodo Delphi, ha due caratteristiche principali: 1) gli esperti possono scegliere di partecipare al processo comunicativo di gruppo quando vogliono; 2) possono scegliere di dare il proprio contributo all’area del problema in cui si sentono più qualificati (Rotondi - Gustafson, 1996). Durante l’uso della tecnica Delphi bisognerebbe sempre ricordare che le caratteristiche dell’ideazione del processo (ad esempio i metodi di raccolta delle opinioni degli esperti, i metodi di misura usati, il feedback fornito, ecc.) possono avere effetti importanti sia sulla natura del processo di comunicazione tra i componenti del panel, che sui risultati finali (Rotondi - Gustafson, 1996). Le istruzioni, i punteggi e ogni altro sistema usato per raccogliere i giudizi degli esperti dovrebbero essere pretestati in modo appropriato. Il team di ricerca Delphi dovrebbe fare la stessa cosa sui diversi modi utilizzabili per fornire agli esperti i feedback riguardanti le risposte ai precedenti questionari Delphi. Il processo dovrebbe fornire agli esperti l’opportunità di una profonda comprensione dei pensieri reciproci, delle valutazioni e delle previsioni (Rotondi - Gustafson, 1996).


Valutazione 1998 In altre parole, un processo Delphi, per essere efficace, deve riuscire a facilitare un profondo scambio di opinioni tra gli esperti. È una necessità particolarmente rilevante per quelle applicazioni Delphi che forniscono informazioni utili al processo decisionale e all’esplorazione di opzioni politiche. Uno scambio profondo è, tuttavia, una grande sfida in ogni forma di comunicazione, processo Delphi incluso. In ogni scambio di gruppo è problematico far nascere una profonda comprensione reciproca a causa dei diversi status, convinzioni, valori, background e aree di esperienza dei membri del gruppo. Per aumentare le possibilità di un interscambio creativo e di un pensiero sinergico, i membri del gruppo dovrebbero sentirsi accomunati nello sforzo di portare a termine l’incarico. Per promuovere un profondo scambio comunicativo nel processo Delphi può essere utile sviluppare una simulazione, in cui si definiscono i criteri e si mostra come il compito debba essere affrontato in prospettiva (Gustafson et al., 1992). 2.4 Nuovi strumenti per il Delphi Dover fornire brevi commenti scritti, o lunghi ritardi tra una risposta e l’altra, possono limitare le possibilità di esplorare in modo critico le idee dei partecipanti e di capire il loro modo di ragionare. Una sfida chiave per coloro che sono impegnati nell’applicazione della tecnica Delphi è, quindi, la ricerca delle giuste mo-

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dalità per promuovere tra gli esperti una comunicazione in profondità, tale da creare un livello ottimale di comprensione e apportare al processo contributi di alta qualità (Rotondi - Gustafson, 1996). Da quando è stato usato per la prima volta, il processo Delphi è stato arricchito da molte innovazioni, che vanno da Delphi computerizzate all’uso del fax in sostituzione del questionario postale. Vi sono state, inoltre, molteplici applicazioni con altri metodi di ricerca, come il monito-raggio sociale, la Nominal Group Technique (NGT), la Cross Impact Ana-lysis e le simulazioni. Benché la tecnica Delphi sia comunemente applicata utilizzando carta e penna anche nel processo di comunicazione di quei gruppi i cui membri siano lontani geograficamente, esiste ora un’ulteriore opportunità. I Computer Mediated Communication Systems (Hiltz - Turoff, 1978 e 1996; Turoff, 1989 e 1991) sono sistemi computerizzati che supportano le comunicazioni dei gruppi sia in modo sincrono (Group Decision Support System), che asincrono (Computer Conferencing). Molti dei sistemi computerizzati citati prevedono nella loro programmazione procedure meto-dologiche sviluppate e raffinate nel corso dell’evoluzione del metodo Delphi (l’anonimato o le votazioni, ad esempio). 2.5 Policy Delphi, NGT e Cross Impact Analysis La tecnica Delphi e tecniche similari,

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come la Policy Delphi, il Committee Delphi e la NGT rappresentano un metodo organizzato per correlare le opinioni e le informazioni che riguardano determinate aree di intervento politico (Ziglio, 1996). Poiché in molte applicazioni i contributi e i punti di vista espressi dai partecipanti sono riportati in modo anonimo, vengono rimossi eventuali timori di ripercussioni; nessun singolo componente deve infatti affermare pubblicamente un punto di vista specifico, finché non siano state esplicitate tutte le alternative (Dahl, 1974, pp. 50-52; vedere anche Linstone, 1984, cap. 13). La tecnica Policy Delphi è l’adattamento della tecnica Delphi all’esplorazione e alla valutazione di problemi politici. La tecnica Policy Delphi va utilizzata in situazioni in cui non esiste una soluzione netta a un determinato problema di politica sociale, economica, ecc. Gli esperti diventano, in questo caso, i sostenitori dell’efficacia e dell’efficienza di una specifica soluzione di quel problema politico, entrando in contrasto con i sostenitori dei gruppi di interesse, che di quella decisione politica finale subiranno le conseguenze (Turoff, 1970; Dahl, 1974, cap. 3). Uno dei limiti della tecnica Delphi riguarda la valutazione previsionale di eventi futuri, in quanto tende a trattare singolarmente ogni componente dell’analisi come se fosse una variabile indipendente. La Cross Impact Analysis minimizza questo li-

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Valutazione 1998 mite: i fatti, o altri fattori di analisi, non solo vengono valutati separata-mente, ma in relazione l’uno all’altro. L ’evento “A”, ad esempio, può avere una bassa probabilità di verificarsi, così come l’evento “B”. Ma, se l’evento “A” si verificasse, le probabilità l’evento “B” potrebbero aumentare. La Cross Impact Analysis offre quindi sia profondità analitica nella previsione, sia un modello di analisi sensibile e coerente. L ’NGT sollecita il giudizio degli esperti, realizzando un processo simile alla Delphi; le fasi che la compongono la sono infatti la formulazione separata delle opinioni, un feedback strutturato e l’esplicitazione di un giudizio matematico indipendente (Gustafson et al., 1973; Scholters, 1990). L ’NGT, come la tecnica Delphi, è usata per aggregare il giudizio di gruppo e distillare informazioni su problemi altamente complessi, caratterizzati da incertezza. L’NGT utilizza processi che mettono in contatto fra loro gli esperti e combina insieme fasi sia verbali che non verbali, con una procedura di comunicazione altamente strutturata. Negli ultimi due decenni l’NGT è stata ampiamente applicata nell’industria, nella politica educativa, in organizzazioni governative e, in modo particolare, nella sanità pubblica (Delbecq et al., 1975; Bertin, 1989 e 1996; Scholters, 1990). Il lavoro originario di Delbecq et al. (1975) resta la migliore fonte di documentazione per condurre un


Valutazione 1998 processo NGT. Il lettore interessato è perciò invitato a far riferimento alla pubblicazione indicata. Si può rilevare, infine, che l’NGT e la Cross Impact Analysis, così come le simulazioni e le indagini sistematiche, possono essere usate in combinazione con la tecnica Delphi (Bertin, 1996; Niero, 1996).

3. Considerazioni metodologiche Ogni tecnica di ricerca genera inevitabilmente critiche, oltre a consensi. La tecnica Delphi è stata oggetto di numerose critiche (spesso eccessive) riguardo: la carenza di procedure scientifiche (sperimentazioni convenzionali di controllo); il cam-pionamento; e la verifica dei risultati. La critica più rilevante è stata mossa da Sackman: “Il futuro è davvero troppo importante per la specie umana, per essere lasciato a chiromanti che usano una nuova versione della vecchia sfera di cristallo. È tempo che l’oracolo esca di scena per far posto alla scienza”. Goldschmidt (1975), attraverso ricerche meticolose, ha felicemente dimostrato che la maggior parte delle critiche mosse da Sackman erano ingiuste. Nel suo articolo Gold-schmidt, pur convenendo sul fatto che molti progetti Delphi siano stati mal condotti (i questionari, ad esempio, sono stati spesso ideati in modo carente, non pretestati, o formulati con domande ambigue), ammonisce, tuttavia, che è un errore

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macroscopico il voler equiparare la tecnica Delphi alle sue molteplici applicazioni. Esiste, infatti, una importante distinzione concettuale tra il valutare una tecnica e valutarne le applicazioni. Ancora, Linstone (Linstone - Turoff, 1975, p. 573) si oppone alla critica di Sackman che la tecnica Delphi è, per sua stessa natura, non scientifica, sostenendo che: “Secondo Sackman, la scienza significa scienziati sociali addestrati psicometri-camente [...] Ciò equivale all’illusione che la scienza sia ‘oggettiva’, che solo i sistemi di ricerca Lockiani o Leibniziani siano legittimati e che quelli soggettivi, probabilistici, o Bayesiani, siano eretici. L ’ortodossia, minacciata da nuovi paradigmi, reagisce spesso con condanne assolute e distorsioni maldestre”. Anche se la tecnica Delphi può essere accusata di ignorare il rigore scientifico puramente sperimentale nella fase applicativa, essa, tuttavia, risponde a una serie di interrogativi che rimarrebbero altrimenti senza risposta (Turoff, 1975). Non è chiaro il motivo per cui la tecnica Delphi dovrebbe essere meto-dologicamente meno robusta di tecniche come l’intervista, l’analisi di casi di studio o le simulazioni comportamentali, ormai ampiamente accettate come strumenti di analisi di programmi, o per la formulazione di idee e di scenari. È importante tuttavia ribadire che bisogna evitare di considerare la tecnica Delphi come una panacea.

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Prima di usare la tecnica occorre conoscerne i punti di forza e di debolezza, e approfondirne i molti aspetti di carattere metodologico. 3.1 Attendibilità dei risultati Chi realizza un processo Delphi riconosce implicitamente che, per esplorare meglio un problema, o valutarne la natura e le possibili opzioni per affrontarlo, è necessario strutturare lo scambio di comunicazione di gruppo. Tuttavia, la decisione di usare la tecnica Delphi o altre tecniche valutative di gruppo è legata ad un problema di fondo: “È possibile creare una sorta di intelligenza umana collettiva attraverso un gruppo strutturato di comunicazione?” (Linstone - Turoff, 1975, p. 5). In altre parole, si può sostenere che le considerazioni e i risultati raccolti attraverso il processo Delphi siano superiori a quelli forniti da singoli esperti, o da individui coinvolti in un gruppo di comunicazione non strutturato? A questa domanda non corrisponde una risposta netta e semplice. L ’assunto teorico della tecnica Delphi è che i giudizi informati di gruppo – raccolti attraverso le procedure meto-dologiche – siano più attendibili di un giudizio individuale (Helmer, 1963 e 1964; Brown - Helmer, 1964; Dalkey, 1968a e 1968b; Rotondi Gustafson, 1996). L ’“attendibilità” e la definizione di “esperto” sono stati affrontati attraverso una domanda chiave: se, cioè, il processo Delphi produca una qualità migliore del giudizio informato,

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Valutazione 1998 rispetto, ad esempio, al tradizionale face-to-face dei gruppi interattivi (Helmer, 1963 e 1964; Brown - Helmer, 1964; Rescher 1969; Dalkey 1968a, 1968b e 1969). Numerosi esperimenti condotti durante gli anni sessanta e settanta hanno dimostrato che la tecnica Delphi offre particolari vantaggi rispetto a discussioni di gruppo tradizionali (conferenze, brainstorming, e altri processi interattivi di gruppo), per quelle problematiche in cui l’informazione più utile è il giudizio di persone ben informate (Dalkey, 1969; Dalkey - Rourke, 1971; Dahl, 1974). Ciò perché la Delphi induce un processo sistematico di domande e di aggregazione dei giudizi degli esperti (alcuni di questi esperimenti sono stati riesaminati: cfr. Pill, 1971). Sfortunatamente, dalla metà degli anni settanta in poi ben pochi esperimenti comparativi tra le applicazioni Delphi e altre tecniche sono stati riportati in letteratura, per cui la maggior parte delle pubblicazioni su questo argomento è ormai del tutto superata. Malgrado il fatto che per la tecnica Delphi vi siano stati molti e significativi sviluppi (nelle strategie di indagine, nei metodi di misurazione e di valutazione, e nelle tecnologie informatiche) nell’ultimo decennio, in pratica, non vi sono state pubblicazioni specialistiche sui nodi fondamentali a livello teorico, metodologico e pratico dei processi Delphi. Le ragioni di questo apparente silenzio accademico sono numerose.


Valutazione 1998 Una di esse è probabilmente correlata al concomitante cambiamento, sia negli USA che in Europa, nelle priorità della ricerca tout court e nel rigido orientamento dato alle sovvenzioni. Poiché la tecnica Delphi non appartiene ad alcuna specifica branca scientifica, i ricercatori che lavoravano a tecniche e processi di gruppo come la Delphi, hanno incontrato difficoltà nell’assicurarsi finanzia-menti. Dahl (1974) fa giustamente notare che, a partire dagli anni cinquanta, tutti gli anni sessanta e parte degli anni settanta, c’è stato un maggior interesse istituzionale per le tecniche e i processi di gruppo, in particolare per le tecniche dei piccoli gruppi. Interesse riflesso nella disponibilità dei fondi per la ricerca, nell’aumento di esperimenti, pubblicazioni di libri e articoli, conferenze, workshop e seminari di formazione. È in questo periodo che è stato sperimentato un piccolo gruppo di tecniche per il processo decisionale come, ad esempio, il T-Group e l’Analisi Transazionale. Nello stesso periodo, sono state sviluppate la tecnica NGT (Delbecq et al., 1975), la Delphi (Dalkey - Helmer, 1963; Dalkey, 1967 e 1969), e le variazioni alla Delphi, come la Policy Delphi (Turoff, 1970 e 1975) e la Committee Delphi (Dahl, 1974). Si può concordare con Helmer quando conclude che: “Sarebbe sicuramente desiderabile un maggior consolidamento della tecnica Delphi, basato su accurati esperimenti, in vista di applicazioni di

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maggior portata [...]. Tra queste, va posta particolare attenzione alle seguenti due [...]. La prima consiste nel far ricorso alla tecnica di monitoraggio Delphi per procurarsi dati di input valutativi, da usare in quegli studi delle scienze sociali in cui i dati tecnici non siano disponibili o siano troppo costosi da ottenere. [...] L ’altro rilevante campo di applicazione della tecnica Delphi [...] è il processo di raccolta di opinioni esperte all’interno di quella che si può definire ‘società civile’, che è proprio l’ambito su cui frequentemente si basano le decisioni governative. In questo tipo di applicazione la tecnica Delphi è di notevole utilità, sia perché sistematizza il processo, sia perché conferisce maggiore obiettività agli aspetti ‘controversi’”.

4. Conclusioni La tecnica Delphi costituisce un metodo per strutturare un processo di comunicazione tra esperti. Permette a un gruppo di esperti, in quanto tale, di affrontare un problema complesso in modo sistematico. Linstone e Turoff (1975, p. 3) fanno notare che, per realizzare una comunicazione strutturata, la tecnica Delphi mette in atto: il feedback dei contributi individuali, la valutazione del giudizio del gruppo, l’opportunità per gli esperti di rivedere i punti di vista espressi e di rivalutare i contributi forniti in precedenza e, se necessario, l’anonimato. Una pluralità di

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elementi non disponibili, di solito, nei tradizionali incontri interattivi face-to-face (Dahl, 1974, pp. 47-48; Goldschmidt, 1975). La tecnica Delphi può essere applicata in vari contesti. Può produrre informazioni molto utili e sostenere il processo decisionale sia con l’uso di carta e penna, che via computer. I risultati Delphi possono essere utilizzati in combinazione con incontri face-to-face, l’NGT, la Cross Impact Analysis, simulazioni, riunioni politiche e decisorie, e simili. Concludendo, si possono sottolineare i seguenti punti. 1) La tecnica Delphi cerca di attingere da una vasta riserva di conoscenze, esperienze e capacità in modo sistematico, anziché basarsi su comunicazioni ad hoc con individui selezionati. 2) La tecnica Delphi può essere usata quando la principale fonte di informazione ricercata sia un giudizio informato. Quando, in altre parole, c’è incertezza sia sulla reale natura del problema investigato, che sulle misure policy measures da adottare per risolverlo in modo efficace ed efficiente, oppure quando l’informazione esistente sul problema nel suo complesso non sia disponibile, o sia troppo costosa da reperire. 3) Nelle politiche sociali, in molti casi, le decisioni richiederebbero una “conoscenza” che non è facilmente disponibile. Chi ha il compito di decidere deve quindi basarsi sulle opinioni degli esperti. Ed è una sfida conciliare opinioni differenti

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Valutazione 1998 sul problema in questione. I processi Delphi sono un modo di affrontare questa sfida. 4) Un processo Delphi, se condotto in modo appropriato, può rappresentare un compito altamente motivante per gli esperti coinvolti. Se i ricercatori Delphi sono creativi nella loro analisi, nel feedback e nell’impostazione dei questionari sequenziali, la tecnica Delphi può apportare nuove e interessanti modalità negli scambi comunicativi e informativi tra gli esperti coinvolti. 5) Per eliminare eventuali resistenze degli interpellati, si può far ricorso all’anonimato, o ad altre facilitazio-ni, allo scopo di rasserenarli, migliorare la risposta del gruppo e consentire la condivisione delle responsabilità. 6) Nelle applicazioni della tecnica Delphi ci si preoccupa quasi sempre della sua validità e utilità come strumento di inchiesta e, in modo particolare, della credibilità dei risultati raggiunti. Benché queste preoccupazioni siano realistiche e valide, esse non riguardano soltanto la tecnica Delphi, ma anche ogni altra forma in cui si verifichi uno scambio di informazioni, dagli incontri interattivi alle interviste, dalle conferenze ai gruppi di lavoro ad hoc. Nel dar vita a nuove idee, nell’esplorare scenari futuri e nel fornire giudizi informati su problemi caratterizzati da incertezza, la tecnica Delphi, se condotta in modo appropriato, produce solitamente un risultato migliore rispetto alla


Valutazione 1998 tradizionale comunicazione interattiva face-to-face. 7) La tecnica Delphi ha alcuni meriti specifici nella capacità di sollecitare e valutare un’informazione oculata. Secondo la letteratura (Dahl, 1974, cap. 3; Delbecq et al., 1975, cap. 4; Goldschmidt, 1975; Turoff, 1975; Linstone, 1984, pp. 227-229), i meriti della tecnica Delphi possono essere così sintetizzati: a) accentra l’attenzione direttamente sul problema indagato; b) fornisce una struttura in cui individui con un background diverso o logisticamente distanti possono lavorare insieme sullo stesso problema; c) nella comunicazione minimizza la tendenza a seguire il leader e altre barriere psicologiche o professionali; d) fornisce uguali opportunità a tutti gli esperti coinvolti nel processo; e) produce una precisa documentazione d’archivio sul processo di distillazione attraverso cui è stato raggiunto un giudizio informato. 8) I recenti sviluppi sia nell’area della comunicazione via computer che nei metodi di simulazione possono avere un impatto enorme nel minimizzare alcune debolezze della tecnica Delphi. In particolare, questi sviluppi possono ridurre tutte le perdite di tempo che complicano le attività di un processo Delphi, migliorare la possibilità di includere chiare procedure di sintesi dei contributi espressi, e aumentare le opportunità di scambi collaterali tra gli esperti.

Erio Ziglio / La tecnica Delphi. Applicazione alle politiche sociali

Traduzione e adattamento di Livia Bovina. Collaborazione alla traduzione di Laura Radiconcini. La versione integrale si trova nel volume Gazing into the Oracle. The Delphi Method and its Application to Social Policy and Public Health, a cura di M. Adler e E. Ziglio, Jessica Kingsley Ltd., London 1996; questo contributo è già apparso nella “Rassegna Italiana di Valutazione”, 2, aprile-giugno 1996.

Riferimenti bibliografici Bertin G. (1989) Decidere nel Pubblico, Son-zogno - Etas Libri, Milano. Bertin G. (1996) Delphi Method in planning services for the elderly, in Gazing into the Oracle. The Delphi Method and its Application to Social Policy and Public Health,

a cura di M. Adler e E. Ziglio, Jessica Kingsley Ltd., London. Bijl R. (1996), The Use of the Delphi Metohod in construing scenarios for the future of mental health care, in Gazing into the Oracle: Applications on the Delphi Methods to Social Policy and Public Health, a cura di M. Adler e E. Ziglio, Jessica Kingsley Ltd., London. Brown B. - Helmer O. (1964), Improving the Reliability of Estimates Obtaines from Consensus of Experts, The RAND Corporation, Santa Monica. Dahl A.W. (1974), Delphic and Interactive Committe Processes in a Comprehensive Health Planning Advisory Council: A Comparative Case Study, PhD Thesis, School of Hygiene and Public Health John Hopkins University, Baltimore, Maryland. Dalkey N.C. (1967), Delphi, The RAND Corporation, Santa Monica. Dalkey N.C. (1968a), Predicting the Future, The RAND CorporationSanta Monica. Dalkey N.C. (1968b), The Delphi Method: An Experimental Study of Group Opinions, The RAND Corporation, Santa Monica.

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Erio Ziglio / La tecnica Delphi. Applicazione alle politiche sociali

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Valutazione 1998 A.L. - Walster W. (1973), A Comparative Study of Differences in Subjective Likelihood Estimates by Individuals, Interacting Groups, Delphi Groups and Nominal Groups, in “Organizational Behaviour and Human Performance”, 9. Helmer O. (1963), The Systematic Use of Expert Judgment in Operations Research, The RAND Corporation, Santa Monica. Helmer O. (1964), Convergence of Expert Consensus Through Feedback, The RAND Corporation, Santa Monica. Helmer O. (1967), Analysis of the Future: The Delphi Method, The RAND Corporation, Santa Monica. Helmer O. - Rescher N. (1959), On the Epidemiology of the Inexact Science, in “Management Science”, 6(11). Hiltz S.R. (1986), The Virtual Classroom: Using CMC for University Teaching, in “Journal of Communications”, 36 (2), Spring. Hiltz S.R. (1988), Productivity Enhancement from Computer Mediated Communications, in “Communications of the ACM”, 31 (12), December. Hiltz S.R. (1990), Collaborative Learning: The Virtual Classroom Approach, in “T.H.E Journal”, 17 (10), June. Hiltz S.R. - Johanason K. - Turoff M. (1986), Experiments in Group Decision Making 1: Communication Process and Outcome in Face-to-Face Computerized Conferences, in “Human Communication Research”, 13 (2), Winter. Hiltz S.R. - Turoff M. (1978), The Network Nation: Human Communication via Computer, Addison-Wesley Publishing Co., Reading, MA. Hiltz S.R. - Turoff M. (1985), Structuring Computer-Mediated Communications to Avoid Information Overload, “Communications of the ACM”, 28 (7), July. Hiltz S.R. - Turoff M. - Johnson K. (1989), Experiments in Group Decision


Valutazione 1998 Making, 3: Disinhibition, Deindividuation, and Group Process in Pen Name and Real Name Computer Conferences, in “Journal of Decision Support Systems”, (5). Lerch I.A. (1988), Electronic Communications and Collaboration: The Emerging Model for Computer Aided Communications in Science and Medicine, in “Telematics and Informatics”, 5(4). Linstone H. (1984), Multiple Perspective for Decision Making, Elsevier North Holland. Linstone H.A. - Turoff M. (1975), The Delphi Method: Techniques and Applications, Addison-Wesley Publishing Co., Reading, Mass. Niero M. (1996), Delphi Estimates on clients’ perceptions of family planning services, in Gazing into the Oracle: Applications on the Delphi Methods to Social Policy and Public Health, a cura di M. Adler e E. Ziglio, Jessica Kingsley Ltd., London. Pill J. (1971), The Delphi Method: Substance, Contexts, a Critique and an Annotated Bibliography, in “Socio-Economic Planning Science”, 5. Rao U. - Turoff M. (1990), Hypertext Functionality: A Theoritical Framework, in “International Journal of HumanComputer Interaction”, 2 (4). Rescher N. (1969), Delphi and Values, The RAND Corporation, Santa Monica. Rippey R. (1980), Facing up to Uncertainty: Accountability for Wise Judgements in a Problematic Future, in “World Future Society Bulletin”, January-February. Rivera J.A. (1983), Future Studies as a Source of Teaching Tools for public Administration: An Assessment and Selected In-ventory, in “World Future Society Bul-letin”, Novemebr-December. Rohrbaugh J. (1981), Improving the quality of group judgement Social judgment analysis and the Nominal Group Technique, in “Organizational Behavior and Human performance”, (28).

Erio Ziglio / La tecnica Delphi. Applicazione alle politiche sociali

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Erio Ziglio / La tecnica Delphi. Applicazione alle politiche sociali

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Valutazione 1998 van Beeck E.F. (1996), The Use of the Delphi Method in the forecasting of accidents in the Year 2000, in Gazing into the Oracle: Applications on the Delphi Methods to Social Policy and Public Health, a cura di M. Adler e E. Ziglio, Jessica Kingsley Ltd., London. Ziglio E. (1985), Uncertainty and Innovation in Health Policy: The Canadian and Norwegian Approaches to Health Promotion, Ph.D. Thesis, University of Edinburgh, Edinburgh. Ziglio E. (1987), Policy Making and Planning in Conditions of Uncertainty, Theo-retical Considerations for Health Promo-tion Policy, Research Unit in Health and Behavioural Change, Working Paper 7, Edinburgh. Ziglio E. (1996), The Delphi Method and its Contribution to Decision Making, in Ga-zing into the Oracle: Applications on the Delphi Methods to Social Policy and Public Health, a cura di M. Adler e E. Ziglio, Jessica Kingsley Ltd., London.


Gli autori

Valutazione 1998

Gli autori LEONARDO ALTIERI (Castelbolognese - RA, 1948) È ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna. Insegna Tecniche di Ricerca Sociale presso la facoltà di Scienze Politiche, sede di Forlì; Metodi e Tecniche di Valutazione degli Interventi Socio-sanitari presso la Scuola di Specializzazione in Sociologia Sanitaria di Bologna; Ricerca Applicata al Servizio Sociale presso la Scuola per Assistenti Sociali di Bologna. Come sociologo si occupa principalmente, da un lato, di ricerca sulla condizione giovanile e adolescenziale e, dall’altro, di problemi metodologici della ricerca valutativa, temi su cui ha scritto vari saggi. Recapito: Dipartimento di Sociologia, Strada Maggiore 45, Bologna; tel. 051-6403258; fax 051- 238004; email: Altieri@ bopH01.Cineca.It Bibliografia: La ricerca valutativa degli interventi sociali, in P. Guidicini (a cura di), Nuovo manuale della ricerca sociologica, Angeli, Milano 1987, pp. 657- 680; Il ruolo della ricerca valutativa nell’attività di un Ser.T., in Sois-USL 39, “Meridiana tossicodipendenza, Tossicodipendenze. Conoscenze e pratiche sociologiche nella tutela della salute e nella prevenzione delle forme di Cesena”, 1992, pp. 43-55; La valutazione dal punto di vista del servizio e dal punto di vista degli utenti nell’attività di un Ser.T., in J. Fagioli, P. Ugolini (a cura di), Tossi-codipendenze e pratica sociologica. prevenzione, valutazione, sistema informativo e osservatorio, Angeli, Milano 1996, pp. 157-176; (a cura di) La ricerca valutativa per la nuova programmazione socio-sanitaria, Angeli,

Milano, in corso di pubblicazione; Valutazione della qualità, qualità della valutazione. Problemi metodologici della ricerca valu-tativa in sanità, in L. Altieri, L. Luison (a cura di), Qualità della vita: problemi di analisi, metodi di ricerca, atti del convegno Ais sezione Metodologia-Sois, Perugia, 24-25 maggio 1994, Angeli, Milano, in corso di pubblicazione, pp. 22; (a cura di) Tempi di adolescenti. Affetti, interessi, studio e lavoro degli studenti di Faenza, Edizioni di Ricerca, Faenza, in corso di pubblicazione.

GIOVANNI BERTIN (Rossano Veneto - VI, 8 marzo1953 ) Si laurea in Sociologia presso l’Università di Trento, a.a. 1978-79. Dopo la laurea orienta i suoi interessi scientifici verso le dinamiche di regolazione dei sistemi di Welfare State, indirizzando la sua attività di ricerca allo studio dei meccanismi decisionali e delle tecniche di ricerca a supporto del management. In particolare è interessa alle problematiche metodologiche legate all’attivazione di tecniche di valutazione ex-ante ed expost a supporto dei processi di gestione delle politiche pubbliche. Dall’anno accademico 1990-91 è docente di “Programmazione, amministrazione e organizzazione dei Servizi Sociali”, presso l’Università di Trento, è responsabile dell’Area Valutazione e controllo di Qualità della Società Emme&Erre (Società di formazione, management e ricerca) per la quale si occupa di progetti di valutazione dei servizi pubblici e di valutazione di impatto socio-economico.

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Gli autori

Valutazione 1998 E’ membro del comitato scientifico della rivista RIV (rassegna italiana di valutazione) e del Comitato editoriale della collana “Sociologia Professionale” della Franco Angeli Tra le numerose pubblicazioni sui temi della programmazione e valutazione dei servizi pubblici ricordiamo: - Valutazione e sapere sociologico, Angeli, Milano, 1995. - Decidere nel pubblico, Etas, Milano, 1989. - La valutazione della qualità nella gestione dei servizi sociali, in “Animazione sociale”, 1, 1992. - Delphi Tecniques and Planning of Social Services: the Prevention of Dependency among the old, In M. Adler, E. Ziglio (eds), Gazing into the Oracle: the Delphi Method, Jassica Kingsail Harmonds Worth, 1996. - La valutazione delle politiche e tossicodipendenza, in J. Fagioli - P. Ugolini, Tossicodipendenza e pratica sociologica, Angeli, Milano, 1996. - La valutazione di impatto socio-economico (con D. Berti), in Vulnerabilità, comunicazione ed ecologia umana, G. Righetto (a cura di), SGE, Padova, 1993. - La valutazione soggettiva dello stato di salute: il Nottingham health Profile, in “Medicina Geriatrica”, XXIII, 1991. - Qualità della vita e servizi socio sanitari (curato con altri), Marsilio, Venezia, 1986. - La costuzione degli indicatori di autonomia nella programmazione dei servizi per la popolazione anziana, in G. Bertin - M. Niero - E. Ziglio (a cura di) Qualità della vita e servizi socio sanitari, Marsilio, Venezia, 1986.

CLAUDIO BEZZI (Bagnacavallo, RA, 1952) Sociologo valutatore, si occupa di ricerca da oltre un ventennio ed ha scritto diversi saggi di argomento metodologico.

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Da vari anni si dedica a tempo pieno alla ricerca in campo valutativo ed allo studio delle tecniche utilizzate in questo ambito. Ha ideato, con Gianni Bovini, la Rassegna Italiana di Valutazione, ed è un socio fondatore dell’Associazione Italiana di Valutazione di cui è attualmente Segretario. Fra i suoi lavori più recenti: Questionario e dintorni (con M. Palumbo), Arnaud-Gramma, Perugia 1995 La valutazione della comunicazione pubblica (con altri), Irres, Perugia 1995 La valutazione della formazione professionale (a cura), Irres, Perugia 1995 La Scala delle Priorità Obbligate. Una proposta per la ricerca valutativa, “Rassegna Italiana di Valutazione”, n. 7, 1997 E-mail: bezzi@edisons.it.

LIVIA BOVINA (San Pietro in Casale, BO, 1950) Laureata in Sociologia all’Università di Roma ha seguito, tra gli altri, corsi di Comunicazione, Valutazione e di specializzazione in marketing strategico e aziendale all’Istituto Superiore di Direzione Aziendale. Free lance, ha operato a lungo nei Servizi Marketing di società di servizi, ha svolto ricerche sociali e valutative per i settori pubblico e no profit; Responsabile di progetti di ricerca finanziati da Unione Europea e Ministero Ambiente. Bibliografia Bovina L., L’autonomia dell’anziano ricoverato: formazione infermieristica e ricerca valutativa, in “Difesa sociale”, 1990. Bovina L., Ospedale e anziani. Autonomia, accoglienza e valutazione, in “La rivista di servizio sociale”, 1990. Bezzi C. - Bovina L. - Jannotti E. - Scettri M., Linee guida per la valutazione della comunicazione pubblica, Irres, Perugia 1995.


Gli autori

Valutazione 1998 DANIELA CECCHETTI

DOMENICO LIPARI

(Terni, 1964) Laureata in Sociologia all’Università “La Sapienza” di Roma, perfezionata in Metodologia della Ricerca Sociale presso la stessa Università, ha conseguito nell’anno accademico 199495 la specializzazione in Sociologia Sanitaria (Università degli Studi di Bologna). Si è occupata di sociologia della famiglia, salute, devianza e problematiche giovanili; ha una esperienza pluriennale di lavoro in Servizi territoriali alla persona. Recapito: Via A. Staderini 35, 05100 Terni, tel. 0744/283493; presso il Comune di Terni, Via Crocesanta 1, 05100 Terni, tel. 0744/549374. Bibliografia: V. Nocifora - D. Cecchetti- D. Donato, La persistenza della famiglia allargata in Italia. Alcune riflessioni di ricerca, in “Sociologia e Ricerca Sociale”, X, 29, 1989. D. Cecchetti, La salute come problematica sociale complessa, in “Passaggi”, VI, 16, 1992. D. Cecchetti - L. Marsiliani, Famiglia e mercato del lavoro in Umbria. Un’ipotesi interpretativa, in “Studi e Informazioni”, VI, 19, 1994. D. Cecchetti - R. Trona, La famiglia rurale in Umbria. Da un’indagine sul campo: prime ipotesi interpretative sulle tipologie familiari, in “Studi e Informazioni”, VII, 19, 1994. D. Cecchetti, Famiglia e complessità a Terni. Concetti, tendenze e profili di famiglie, in “Passaggi”, I, I Supplementi, 1994. D. Cecchetti, Famiglia e modernizzazione in Umbria. Analisi dei profili e dei comportamenti socioeconomici delle famiglie, in IRRES, Secondo Rapporto sulla situazione economica, sociale e territoriale dell’Umbria, Perugia, 1995. D. Cecchetti, L’agire economico delle famiglie. Strutture familiari e mutamento socioeconomico in Umbria: alcune tendenze di medio-lungo periodo, in “Studi e Informazioni”, 20-21, 1995.

Sociologo, vive e lavora a Roma, dove svolge, presso il Formez e l’Università “La Sapienza”, attività didattica e di ricerca su temi legati all’azione formativa, ai processi organizzativi ed alla valutazione. È autore di vari studi; tra i più recenti: il volume Progettazione e valutazione nei processi formativi, Edizioni lavoro, Roma, 1995 ed i saggi Il nodo della certificazione di qualità dei servizi formativi, in “De qualitate”, giugno 1996; La formazione e l’apprendimento nelle organizzazioni, in “Skill”, n.1 genn. 1996. E-MAIL: mimmo_lipari@trainet.it

ALBERTO MARRADI Professore ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali presso l’Università di Firenze; professore supplente di Metodologia e Tecnica della Ricerca Sociale all’Università di Bologna. Gli attuali interessi privilegiano la Filosofia della Conoscenza, l’omogeneizzazione del meta-linguaggio per le Scienze Umane, l’analisi dei dati e la sua didattica. È direttore della collana editoriale ufficiale della sezione di Metodologia dell’Associazione Italiana di Sociologia (AIS). Bibliografia: Classificazioni, tipologie, tassonomie; L’intervista; Metodo e tecniche, voci dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali, vari voll. istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1993, 1995, 1996. Referenti, pensiero e linguaggio: una questione rilevante per gli indicatori, in “Sociologia e Ricerca Sociale”, 43, 1994. L’analisi monovariata, Angeli, Milano 1995.

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Gli autori

Valutazione 1998 MAURO PALUMBO Nato a Genova nel 1950, è professore associato di Sociologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione, dove insegna anche Metodologia della ricerca sociale. E’ autore di studi e ricerche su mobilità e stratificazione sociale, classi e coscienza di classe, sulla struttura socio-economica della Liguria, sulla condizione giovanile, sui problemi formativi ed occupazionali, sui processi decisionali in ambito pubblico e sui relativi problemi d’informazione e ricerca finalizzate alla programmazione e valutazione. Nel corso della propria attività scientifica e professionale ha collaborato con Regione Liguria, Enti locali liguri, piemontesi e umbri, Istituti regionali di ricerca (ILRES e IRRES), ISTAT, CENSIS, INEA, ISTAO, CNR, IARD, occupandosi principalmente di analisi socio-economiche e territoriali, di analisi e progettazione di sistemi informativi, di analisi costi-benefici, di programmazione socio economica, valutazione delle politiche pubbliche, mercato del lavoro e formazione professionale. Ha svolto e coordinato ricerche empiriche sulla condizione giovanile, sull’imprenditorialità ligure, sulla famiglia, sul turismo, sulle politiche di sviluppo territoriale ed occupazionale a livello regionale e locale.

e dirigente della FAO (1986-89) e della Banca Mondiale (1968-82). E’ autore di 12 libri e frequente collaboratore di quotidiani e periodici.

REMO SIZA Lavora come sociologo presso il Centro regionale di programmazione della Regione Sardegna, nel cui ambito dirige la rivista La programmazione in Sardegna. E’ autore di numerosi articoli sulla programmazione e sulle politiche sociali. Coordina l’Osservatorio regionale del volontariato. E’ presidente della Società italiana di sociologia. Fra i suoi ultimi contributi i saggi: Stili di programmazione e I piani e i progetti per la promozione della salute nel volume curato da Bruno Bertelli “Manuale di programmazione sociale”, con articoli di P. Donati, M. Colasanto, I. Colozzi, M. De Bernart, P. De Nicola, G. Bertin, A. Vergani, in corso di stampa presso la Nuova Italia Scientifica (in distribuzione a marzo del 1997). Frammentazione sociale e politiche integrative. Per una politica dei legami sociali, in Animazione sociale, novembre 1996 e nel quaderno monografico del Gruppo Abele Il lavoro di comunità, Torino, 1996.

NICOLETTA STAME GIUSEPPE PENNISI Professore stabile di finanza pubblica alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Ha insegnato alla Johns Hopkins University (1979-89) ed è stato direttore dell’ufficio per l’Italia dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (1992-95), dirigente generale dei Ministeri del Lavoro e della Previdenza Sociale (1989-92) e del Bilancio e della Programmazione Economica (1982-86)

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Insegna Metodologia della ricerca sociale all’Università di Bari. Si interessa di teoria della valutazione; i suoi campi di applicazione sono le politiche industriali e dello sviluppo e i servizi pubblici. Recapito: via degli Zingari 30, 00184 Roma; email: nstame@mbox.vol.it Ha pubblicato fra l’altro: Nicoletta Stame - Luca Meldolesi, Intervento diretto dello stato e coinvolgimento dei beneficiari: alcune lezioni socio-economiche


Gli autori

Valutazione 1998 della legge sulla imprenditorialità giovanile, in “L’industria”, 1995. Nicoletta Stame, Integrazione degli immigrati e politiche pubbliche in Francia: casa, quartiere, città, in L. Santelli Beccegato (a cura di), “Interculturalità e scienze dell’educazione”, Adriatica, Bari 1995. Nicoletta Stame, La valutazione delle politiche pubbliche in Francia, in “Rivista trimestrale di scienza dell’amministrazione”, n. 1, 1994. Nicoletta Stame, Valutazione e sviluppo, introduzione e cura del volume: J. Tendler, “Progetti ed effetti”, Liguori, Napoli 1992. Nicoletta Stame, Valutazione ex post e conseguenze inattese, in “Sociologia e ricerca sociale”, n. 31, 1990.

MICHELA VECCHIA Nata a Laigueglia (Sv) nel 1968, laureata in Scienze Politiche (indirizzo politicosociale) presso l’Università degli Studi di Genova con una tesi di Sociologia Economica e del Lavoro dal titolo “Lavoro e politiche del lavoro in Italia e Francia”, è attualmente cultrice di materia presso la cattedra di Sociologia della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. Collabora alle attività di supporto dell’Osservatorio Regionale Ligure sul Mercato del Lavoro (OML) con particolare attenzione alla valutazione degli impatti degli interventi a sostegno dell’occupazione e di formazione professionale. Ha partecipato nel 1996, in qualità di esperto indipendente segnalato dal Ministero del Lavoro, all’attività di valutazione dei progetti presentati alla Commissione Europea nel quadro del Programma “Leonardo”.

ERIO ZIGLIO Laureato in Sociologia all’Università di Trento, si è specializzato ed ha lavorato per oltre dieci anni nel mondo accademico anglosassone e nord-americano. Ricercatore e docente all’Università di Edimburgo, Department of Social Policy e Research Unit in Health and Behavioural Change, si è occupato di analisi delle politiche sanitarie, futures research, promozione della salute e sviluppo organizzativo. Ha insegnato inoltre alla Toronto University, alla Carlton University, alla Wisconsin University ed è stato consulente in Public Health alla Commissione della Comunità Europea. Dal 1992 lavora all’Organizzazione Mondiale della Sanità, Ufficio Europeo, (Copenhagen), dove è responsabile del Programma di Promozione della Salute ed Investimento; in costante e stretto rapporto con il mondo accademico, è Professore Onorario alla Yale University, e Ricercatore Onorario all’Università di Edimburgo. E’ autore di numerosi testi, saggi ed articoli in italiano, inglese e spagnolo; tra i più recenti: European Realities and Status of Older Workers. (Chapter) in Investing in Older People at Work, London, Health Education Authority, 1994. Health Promotion as an Investment Strategy: Considerations on Theory and Practice, Health Promotion International (con L.S. Levin), Health Promotion Internazional, 11 (1), pp. 33-40, 1996. Gazing into the Oracle: The Applications of the Delphi Method to Public Policy, (con M. Adler, a cura di), London: Jessica Kingsley Ltd. 1996. La prevenzione dell’HIV/AIDS nell’ambito delle attività della Rete Europea della Scuola che Promuove Salute. in L. Bertinato, E. Caffarelli, D. Greco e S. Poli (a cura di), Seminario Europeo sull’Educazione alla

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Gli autori

Valutazione 1998 Salute e Prevenzione dell’AIDS nella Scuola, Roma, Istituto Superiore di Sanità , 1996. Garantire gli investimenti nella Salute: Un Progetto Dimostrativo nelle Province di Trento e Bolzano. Lavoro e Salute, 1-2 (gennaio-febbraio), 1996.

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Job Insecurity: Implications for Health Promotion and Social Welfare (con M. Marmot, a cura di), in via di pubblicazione, WHO Regional Office for Europe, in collaborazione con Stakes, Finland.


Valutazione 1998

“Rassegna Italiana di Valutazione” / Indici 1996-1997

“Rassegna Italiana di Valutazione” Indici 1996-1997 n. 1/1996

n. 3/1996

Presentazione e istruzioni per l’uso (un anno dopo) Claudio Bezzi

Qualità versus Equità? La valutazione in sanità dopo il DL 502/92 Leonardo Altieri

I focus group. Storia, applicabilità, tecnica Livia Bovina

La valut-azione come strategia di gestione dei servizi sociali e sanitari Giovanni Bertin

Valutare per selezionare. Alcune riflessioni sulla valutazione dei progetti attuativi dei programmi di spesa all’interno della Pubblica Amministrazione Carlo Cipiciani - Edoardo Pompo

La qualità nei servizi territoriali alla persona Daniela Cecchetti

n. 2/1996 Valutare, monitorare, promuovere la qualità dei servizi per l’infanzia Laura Cipollone Per il rigore terminologico nel linguaggio scientifico e professionale Alberto Marradi Intervista ed ipertesti di Claudio Bezzi La valutazione del rendimento delle politiche sociali. Una nota di metodo Giuseppe Pennisi Note sui progetti pilota e la valutazione Nicoletta Stame La tecnica Delphi. Applicazione alle politiche sociali Erio Ziglio

Potenzialità e problemi metodologici nella valutazione della qualità delle Comunità Terapeutiche Piero Selle - Paolo Stocco

n. 4/1996 Il rapporto di valutazione del Fondo Sociale Europeo: metodologia e sintesi dei risultati dell’obiettivo 3 Aviana Bulgarelli - Alessandra De Lellis Sulla valutazione della qualità dei servizi socio-sanitari Fosco Foglietta Note preliminari sulla certificazione delle azioni formative nelle amministrazioni pubbliche Domenico Lipari La valutazione: teoria ed esperienze Mauro Palumbo - Michela Vecchia Il “processo” come elemento della valutazione di efficacia

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“Rassegna Italiana di Valutazione” / Indici 1996-1997

Valutazione 1998

degli interventi di educazione alla salute Giancarlo Pocetta

La valutazione dei servizi sociali territoriali Paola Piva

Strategie di programmazione: le attuali tendenze Remo Siza

Alcune riflessioni e proposte sulla valutazione nella riforma scolastica. Un’ipotesi di navigazione didattica Andrea Sacchi

Note sulla Conferenza Annuale dell’American Evaluation Association Nicoletta Stame

n. 5/1997 L’impiego di modelli econometrici per la valutazione di politiche economiche alternative. Una nota Carlo Del Monte Innovazione tecnologica e ricerca sociale Tullio Romita Valutazione di un intervento educativo per i bambini asmatici e le loro famiglie L. Todesco - C. Beltramello - P. Bonin - T. Scala

n. 6/1997 Osservare e valutare la comunicazione nelle & delle organizzazioni (I parte) Gabriella B. Klein Il manuale di valutazione degli investimenti pubblici: quindici anni dopo Giuseppe Pennisi Dieci anni verso il cambiamento. Analisi dei processi di trasformazione della gestione delle politiche culturali nel Distretto di Pescara. Dal 1988 al 1997, dieci anni di Programmi per un cambiamento della Promozione Culturale del Centro di Servizi Culturali di Pescara Oriano Notarandrea

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La valutazione della ricerca come strumento di politica scientifica: un’analisi comparata della realtà europea ed alcuni commenti e suggerimenti sul caso italiano Laura Savini - Alberto Silvani

n. 7/1997 La Valutazione degli impatti socioambientali. L ’esperienza estera del Social Impact Assessment: quali prospettive per l’Italia? Alessandro Bellinzoni La Scala delle Priorità Obbligate. Una proposta per la ricerca valutativa Claudio Bezzi Osservazioni sulla Scala di Likert Mariassunta Giordano Il manuale di valutazione degli investimenti pubblici: quindici anni dopo Giuseppe Pennisi Professione intervistato? Maria Concetta Pitrone La valutazione in Leonardo da Vinci: reset o restart, ovvero, ripartire da zero o da tre... Claudio M. Vitali

n. 8/1997 In preparazione

n. 9/1998 In preparazione


Valutazione 1998

“Rassegna Italiana di Valutazione� / Indici 1996-1997

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Finito di stampare nel mese di gennaio 1998 presso lo Stabilimento Tipografico ÂŤPlinianaÂť Viale F. Nardi, 12 Selci Lama (PG)



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