Francesco chiapparino e renato covino la fabbrica di perugia perugina 1907 2007 icsim comune di peru

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Quaderni storici del Comune di Perugia




Gli autori hanno discusso, progettato ed elaborato comunemente il testo ma di Francesco Chiapparino è la stesura del paragrafo 3 del capitolo I e dei capitoli II-VI, mentre di Renato Covino è quella quella dei paragrafi 1 e 2 del capitolo I e dei capitoli VIIXI.

Progetto grafico Vito Simone Foresi Impaginazione Gianni Bovini Redazione e fonti archivistiche e bibliograriche Marco Venanzi Stampa Nuova Prhomos, Città di Castello (PG) Copertina

© 2008 ICSIM / Comune di Perugia


Prefazione

Renato Locchi Sindaco di Perugia

È la storia di una grande impresa iniziata più di 100 anni fa in una via del centro storico di Perugia, Via Angusta, che ha saputo negli anni crescere, svilupparsi, creare occupazione, professionalità. Un marchio che si identifica nel mondo con la città, che anzi ha fatto della città stessa il suo marchio (caso non frequente). Ma più di ogni altra cosa, la Perugina ha rappresentato il vero punto di innovazione della città, a livello economico, sociale e culturale: ha permesso che a Perugia nascesse una classe operaia, come è possibile solo in una grande industria, per di più con una notevole componente femminile, ha dato vita a modelli produttivi e gestionali all’avanguardia, ha forgiato manager. Non dimentichiamo che ha lasciato un segno persino nella storia del costume italiano, con il Bacio, le famose Figurine, la Coppa Perugina, o ancora con le campagne radiofoniche, oggi naturali meccanismi della pubblicità, allora operazione quasi rivoluzionaria. La Perugina è così interna alla storia recente della città che ne ha accompagnato, seguito, per certi aspetti anticipato, anche lo sviluppo urbanistico e le trasformazioni che normalmente interessano una città. In una prima fase si è trasferita dal centro storico a quello che era il quartiere di nuovo sviluppo, Fontivegge; poi, da qui a San Sisto, che è diventato con la sua presenza il quartiere operaio per eccellenza. Sono stati ridisegnati interi quartieri, ruoli e funzioni, e la fabbrica ne è stata parte integrante ed essenziale. A raccontare tutti questi momenti e aspetti di vita quotidiana e imprenditoriale non sono foto e immagini, sarebbe stato forse più semplice, ma una documentazione ricca e dettagliata che dà il senso pieno di un lavoro articolato e complesso, che testimonia l’importanza di un’industria dolciaria che ha conquistato il mondo, che ha proiettato Perugia e la sua immagine sugli scenari internazionali con un prodotto di qualità e d’eccellenza. La Perugina è un’azienda storica italiana, ma ancor prima è la fabbrica della città, è il ponte tra il passato e il futuro di Perugia, è sua “ambasciatrice” nel mondo. C’è una sorta di identificazione tra l’azienda e il territorio, di naturale osmosi. C’è orgoglio, profondo e sincero, quando


si parla di questa straordinaria impresa e dei suoi fondatori, le famiglie Buitoni e Spagnoli. Gli attuali proprietari, la multinazionale Nestlé, hanno avuto il merito di valorizzare ulteriormente il marchio, il prodotto, il management e le maestranze, altra punta di eccellenza, e di capire che la sua sede naturale è a Perugia. I 100 anni della Perugina sono stati celebrati con una serie di iniziative, con manifestazioni, incontri, eventi, cerimonie. E oggi, con questa pubblicazione, che mi auguro possa arrivare nelle case di tutti i cittadini, diamo conto di un patrimonio immenso per la città che va oltre i numeri, pure importanti, della produttività e della redditività. Racchiude la vita, i valori, le speranze di uomini e donne che hanno reso possibile la nascita e la crescita della fabbrica. Un ringraziamento particolare vorrei rivolgerlo all’Istituto per la Cultura e la Storia d’Impresa “Franco Momigliano”, con il quale l’Amministrazione da sempre ha un proficuo rapporto di collaborazione, che ha curato la realizzazione di questa pubblicazione pensata e redatta dal professor Francesco Chiapparino e dal professor Renato Covino, da tempo attenti studiosi della Perugina.


Indice

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Premessa

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Capitolo I Perugia 1907 I.1. Una modernizzazione contraddittoria I.2. I mutamenti del quadro economico I.3. La Società Perugina per la fabbricazione dei confetti e i suoi soci

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Capitolo II I Buitoni: Francesco e la sua famiglia II.1. La bottega di piazza II.2. Da artigiani a industriali II.3. Il passaggio alla terza generazione Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni III.1. Il difficile esordio dell’azienda III.2. La Perugina negli anni dieci III.3. Tra guerra e dopoguerra III.4. L’affermazione sul mercato nazionale III.5. La trasformazione in S.p.a.

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Capitolo IV Le sfide degli anni venti 89 IV.1. Il confronto con l’Unica 95 IV.2. La politica commerciale 105 IV.3. I nuovi assetti societari e l’acquisizione della Buitoni di Sansepolcro 118 Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale 118 V.1. L’organizzazione scientifica del lavoro a Fontivegge 136 V.2. L’industria dolciaria e la crisi 151 V.3. La “terapia anticrisi”: prodotti di lusso, negozi ed esportazioni 163 Capitolo VI Negli anni trenta 163 VI.1. Giovanni Buitoni e il fascismo: dall’adesione al dissenso 169 VI.2. Il concorso de “I Quattro moschettieri” 181 VI.3. La chiusura del concorso


189 Capitolo VII Dalla guerra agli anni cinquanta 189 VII.1. Crisi e ripresa. Il ruolo strategico delle esportazioni tra anni trenta e quaranta 193 VII.2. Ridimensionamento, blocco delle produzioni e ricostruzione 202 VII.3. Il vincolo dei bassi consumi 205 VII.4. I primi anni cinquanta 210 VII.5. Produttività, occupazione e relazioni sindacali 214 VII.6. Coordinare le aziende: la costituzione della International Buitoni Organization 219 VII.7. Verso un mercato di massa del cioccolato 223 Capitolo VIII Dentro il boom 223 VIII.1. Crisi industriale, crisi agraria: migrazioni e urbanizzazione 226 VIII.2. Crescita urbana e Perugina: un percorso intrecciato 232 VIII.3. Investimenti ed espansione immobiliare 239 VIII.4. I lavoratori della Perugina: una nuova classe operaia 241 VIII.5. Un nuovo sistema di relazioni industriali 245 VIII.6. Il ruolo dei mercati internazionali

250 VIII.7. Le evoluzioni del capitalismo familiare 253 Capitolo IX Verso un nuovo inizio: la nascita delle Industrie Buitoni Perugina 253 IX.1. Anni sessanta: la Perugina nell’industria dolciaria italiana 255 IX.2. Il ruolo della Perugina nel decollo industriale cittadino 258 IX.3. Nuovi prodotti e messaggio pubblicitario 261 IX.4. Gli operai 264 IX.5. L’azienda verso nuovi equilibri 273 Capitolo X Gli anni dell’Ibp 273 X.1. Il contesto 281 X.2. Dal successo alla crisi: gli anni di Paolo Buitoni 292 X.3. Dai tentativi di risanamento alla cessione 304 Capitolo XI L’ultimo ventennio: una conclusione provvisoria 304 XI.1. La nuova Buitoni di De Benedetti 309 XI.2. Settore alimentare e le multinazionali estere 311 XI.3. La città e la Nestlé Perugina 313 XI.4. L’ultimo decennio: la fabbrica flessibile 319 Abbreviazioni archivistiche


Premessa

Premessa

La Perugina, e con essa la Buitoni, è ormai da un ventennio uno dei casi industriali più studiati in Italia. I motivi sono vari e diversi. Il primo, e più rilevante, è rappresentato dal riordino in due fasi – la prima tra il 1982 e il 1985, la seconda tra il 1995 ed il 1997 – dell’archivio storico dell’azienda1. Il secondo è di carattere scientifico. La Buitoni e la Perugina rappresentano un caso di studio esemplare di ascesa e declino delle forme di capitalismo familiare in Italia, di azienda cresciuta enormemente nel corso di un sessantennio grazie all’attività di cinque generazioni di Buitoni che, tra gli anni settanta e ottanta, vede esaurirsi il ruolo della famiglia, la sua uscita dal novero dell’imprenditoria italiana e il passaggio delle aziende ad altri soggetti: prima un grande gruppo finanziario italiano, la Cir di Carlo De Benedetti, poi una società multinazionale: la Nestlé. Ciò ha gemmato un’abbondante letteratura che ha indagato su molti aspetti della vita della società, del gruppo, dei Buitoni, con una attenzione particolare nei confronti di Giovanni, la cui figura di imprenditore è stata ritenuta centrale per comprendere la crescita delle aziende e del gruppo2.

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Sul riordino dell’archivio cfr. Paola Boschi Archivio storico delle industrie Buitoni Perugina, in Ricerche storiche, XIII (1983), pp. 823-825; Paola Boschi e Osvaldo Fressoia, L’archivio storico della Buitoni, in “Rassegna degli Archivi di Stato”, XLVI (1986), pp. 415421; Giampaolo Gallo, Lo stato del dibattito e l’esperienza di riordino dell’archivio Buitoni, in Archivi d’impresa: un problema aperto. Atti del seminario di Perugia, 27 marzo 1987, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, 1987, pp. 17-25; Id., Pasta e cioccolato: dall’archivio alla storia della Buitoni Perugina, in “Annali di storia d’impresa”, IV (1988), pp. 421-436; Daniele Orlandi, L’archivio storico della Buitoni Perugina, in “Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, contributi di Renato Covino, Paola Boschi e Daniele Orlandi, Electa Editori umbri associati, 1990, pp. 99-106. Sulla storia delle aziende Buitoni si vedano Un’antica industria nella terra di Piero, dattiloscritto inedito e senza data [1963] sulla storia della Buitoni compilato da Milton Chieli, responsabile delle relazioni esterne dagli anni sessanta agli anni ottanta; ISUC, AG, Dati riguardanti l’origine e altri particolari sui primordi della nostra ditta desunti da deposizioni dello zio Beppe il 31 maggio 1895 (manoscritto); Marco Buitoni e Celestina Buitoni, I proficui risultati di una piccola industria, Sansepolcro, 1970; Paola Scavizzi, Buitoni Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, XV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1972, pp. 33 e ss.; Luciano Segreto, Buitoni Giovanni, ibid., pp. 34 s.; Giovanni Buitoni, Storia di un imprenditore, Milano, Longanesi, 1973; Francesco Chiapparino, La nascita di una grande impresa: la Perugina 1907-1923, in “Proposte e ricerche”, XII (1989),

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

Se sulla storia della famiglia e delle società, in generale e su singoli aspetti – primo tra tutti la pubblicità3 – molto è stato scritto, meno note sono due vicende parallele che si intrecciano strettamente con la storia aziendale. La prima è quella dei lavoratori e delle loro organizzazioni all’interno del-

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23, pp. 235-250; Giampaolo Gallo, Tipologia dell’industria ed esperienze d’impresa in una regione agricola, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Umbria, a cura di Renato Covino e Giampaolo Gallo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 441-446; “Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve cit. (a nota 1); Francesco Cavallucci, La Società Perugina per la fabbricazione dei confetti: dalla costituzione al regno Nestlé, in Idem, San Sisto da territorio a quartiere, Perugia, Protagon, 1990, pp. 41-61; Giampaolo Gallo, Immagini della terra promessa. Impressioni di un imprenditore italiano negli Stati Uniti (1950), in L’Italia contemporanea. Studi in onore di Paolo Alatri, a cura di Carlo Carini e Piero Melograni, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1991, pp. 373-391; Bruno Buitoni, Pasta e cioccolato. Una storia imprenditoriale, intervista di Giampaolo Gallo, postfazione di Giulio Sapelli, Perugia, Protagon, 1992; Giampaolo Gallo, La Perugina, in Storia illustrata delle città dell’Umbria, a cura di Raffaele Rossi, Perugia, a cura di Raffaele Rossi, Milano, Sellino, 1993, tomo III, pp. 769-784; Roberta Pencelli, Capitalismo familiare e strutture organizzative: il gruppo Buitoni Perugina dall’Ibo all’Ibp, in Uomini economie culture. Saggi in memoria di Giampaolo Gallo, a cura di Renato Covino, Alberto Grohmann e Luciano Tosi, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1997, vol. II, pp. 265-283; Francesco Chiapparino, Razionalizzazione produttiva e organizzazione scientifica del lavoro alla Perugina negli anni venti, ivi, pp. 241-264; Renato Covino, Perugina: crescita e sviluppo, in Perugina. Una storia d’azienda, ingegno e passione, a cura di Gian Paolo Ceserani e Renato Covino, testi di Gian Paolo Ceserani, Francesco Chiapparino, Renato Covino, David Nadery e Roberta Pencelli, Milano, Silvana, 1997; Francesco Chiapparino, Tra polverizzazione e concentrazione. L’industria alimentare dall’Unità al periodo tra le due guerre, in Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione, a cura di Alberto Capatti, Alberto De Bernardi e Angelo Varni, Torino, Einaudi, 1998, pp. 263-268; Renato Covino, Giampaolo Gallo e Roberto Monicchia, Crescita, crisi, riorganizzazione. L’industria alimentare dal dopoguerra a oggi, ivi., pp. 301-312; Francesco Chiapparino, Famiglia e impresa: il pastificio Buitoni di Sansepolcro tra Ottocento e primo Novecento, in “Proposte e ricerche”, XXIII (2000), 44, pp. 110-129; Renato Covino, I Buitoni di Perugia, in “Proposte e ricerche”, XXIII (2000), 45, pp. 70-89; Francesco Chiapparino, La Perugina tra occupazione tedesca e liberazione, in Gli Alleati in Umbria (1944-1945), Atti del convegno “Giornata degli Alleati” (Perugia, 12 gennaio 1999), a cura di Ruggero Ranieri, Perugia, Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation, 2000, pp. 170-173; Francesco Chiapparino e Renato Covino, Consumi e industria alimentare in Italia dall’Unità ad oggi, Perugia, Crace, 2002,p. 63-65 e 123133; Renato Covino, La Perugina: crescita e declino di un’impresa dolciaria, in Il cioccolato. Industria, mercato e società in Italia e Svizzera (XVIII-XX sec.), a cura di Francesco Chiapparino e Roberto Romano, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 119-134; Luca Masia, Buitoni. La famiglia, gli uomini, le imprese, Milano-Perugia, Silvana-Volumnia, 2007; La Perugina è storia nostra. I lavoratori raccontano i cento anni della fabbrica, a cura di Fabrizio Ricci, Roma, Ediesse, 2007. Sulla pubblicità Perugina cfr. Paola Boschi, La pubblicità, in “Sulla bocca di tutti” cit. (a nota 1), pp. 91-98; Gianpaolo Ceserani, Perugina: comunicazione e pubblicità, in Perugina. Una storia d’azienda, ingegno e passione cit. (a nota 2), pp. 93-173.


Premessa

l’azienda, cui solo recentemente – in occasione del centenario – per iniziativa della Cgil è stato dedicato un volume di interviste e testimonianze di operai e sindacalisti4. La seconda è rappresentata dal rapporto tra la fabbrica e la città, più stretto di quello che appaia a prima vista, soprattutto per quanto riguarda il quarto di secolo compreso tra il 1960 ed il 1985. L’ambizione di questo lavoro è quella di correlare tra loro le diverse “storie” che si coagulano intorno alla fabbrica e soprattutto i legami tra quest’ultima e la città dal punto di vista sociale, dei processi di sviluppo economico ed urbanistico. L’ipotesi è che le specifiche vicende siano legate da molteplici fili che tessono una trama unitaria. Più semplicemente l’ipotesi è che la Perugina sia la fabbrica di Perugia, l’azienda che ne ha in buona parte determinato il cambiamento. Lo sviluppo impetuoso dell’occupazione negli anni sessanta e settanta portò ad una presenza di oltre 3.000 lavoratori che, dopo le crisi e le ristrutturazioni, ancora nel 1984 erano circa 2.200; manager e tecnici cresciuti nell’impresa nel corso degli anni si diffusero nel tessuto produttivo cittadino; nuove relazioni industriali si affermarono nella fabbrica di San Sisto; rapporti intensi vennero sviluppati con i luoghi dell’innovazione sia per quello che riguarda la pubblicità, il marketing, il packaging, la logistica, mentre continuo fu il legame con i centri internazionali dell’innovazione. Già in precedenza, tuttavia, la Perugina aveva introdotto, in un tessuto sociale apatico e apparentemente inerte, forme di organizzazione moderna del lavoro, costruito momenti di workfare aziendale. L’azienda, peraltro, negli anni trenta, attraverso Giovanni Buitoni, assume la stessa direzione amministrativa della città, cercando di modernizzarne le funzioni e l’aspetto. La fabbrica, infine, induce processi di cambiamento rilevanti nella struttura urbana. È il primo stabilimento che si trasferisce in una sede nuova vicino alla stazione di Fontivegge, rappresentando il nucleo iniziale della zona industriale di Perugia fin dagli anni dieci del Novecento. La costruzione, nei primi anni sessanta del secolo scorso, dello stabilimento di San Sisto determina lo sviluppo di una nuova area insediativa per strutture produttive ed accentua il policentrismo della città. Anche nella fase discendente l’azienda determina, con la cessione dell’area del vecchio stabilimento, gli equilibri urbani attraverso la costruzione del nuovo centro direzionale. Basterebbero solo gli aspetti prima ricordati per definire un rapporto stretto tra la Perugina e Perugia. Accanto ai corposi legami derivanti dall’economia, dalla società e dalla struttura urbana ce n’è, però, un altro, forse meno evidente, ma non per questo meno importante, che riguarda l’immaginario collettivo. 4

La Perugina è storia nostra cit. (a nota 2).

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

Nell’Ottocento le città umbre tesero a caratterizzarsi come centri “climatici”, un altro modo per definirsi luoghi turistici. Il fascismo volle creare una specializzazione delle funzioni attraverso metafore retoriche. Perugia, punto di partenza della marcia su Roma, divenne la Capitale della rivoluzione fascista e l’Atene dell’Umbria5. In realtà con il susseguirsi dei decenni il suo rapporto con il mondo venne, in gran parte, assicurato dal prodotto e dalla pubblicità della Perugina. Già nel 1911 Giovanni Buitoni comprende la forza di una sinergia tra città e impresa e il marchio dell’azienda diviene il Grifo dello stemma del Comune. Non basta. L’impresa nel 1920 cambia la sua denominazione da Società Perugina per la fabbricazione dei confetti in Perugina cioccolato e confetture, quasi ad esaltare il suo carattere cittadino. Poco dopo il nome viene trasformato semplicemente in Perugina. Fu Giovanni Buitoni a volere il cambiamento: avevo avuto sempre antipatia per il nome della ditta La Perugina, non solo per se stesso, ma perché vi erano a quei tempi tanti altri nomi consimili: La Fiorentina, la Torinese, La Milanese, eccetera6.

In realtà, quello che è ritenuto dall’imprenditore come uno snellimento utile a livello pubblicitario si trasformerà in un ulteriore processo di identificazione. In un filmato del 1930, che avrebbe dovuto documentare i mutamenti intervenuti nell’azienda grazie all’adozione di metodi di organizzazione scientifica del lavoro, le prime immagini sono quelle relative alla città storica. Analogamente, su un documentario aziendale del 1956 le due immagini continuano a sovrapporsi, segno di un processo volto a coniugare tradizione e modernità. Se all’inizio la città traina il marchio, successivamente è l’azienda a caratterizzare l’immagine della città, quasi come una forma di pubblicità istituzionale. Non è questa, tuttavia, la sola traccia che la Perugina lascia nell’immaginario cittadino. Essa è la fabbrica dove tutti avrebbero voluto lavorare, il luogo dell’opportunità e, via via che crescono i livelli di consapevolezza operaia, il luogo della solidarietà. Significative sono da questo punto di vista le testimonianze dei lavoratori. Per qualcuno la Perugina è una grande famiglia7, altri affermano “Io devo tutto alla Perugina, mi ha aiutato a

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Loreto Di Nucci, Fascismo e spazio urbano. Le città storiche dell’Umbria, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 109-114. Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 2), p. 63. Gianfranco Sportolari, Testimonianza, in La Perugina è storia nostra cit. (a nota 2), p. 108.


Premessa

vivere bene, prima con un buono stipendio, ora con una buona pensione”8, per altri ancora la fabbrica è un grande contenitore di vite, storie, persone. Tutti noi , ci sentivamo privilegiati a lavorare in Perugina. […] Ho sempre difeso la fabbrica e ancora oggi la difendo. Le devo moltissimo, mi ha aiutato a crescere, anche culturalmente. Credo che non ci siano dubbi su questo: la Perugina è sempre stata un pezzo fondamentale di questa città9.

Infine: “Sono innamorato della Perugina e di quello che è stata per questa città e per questa regione”10. Insomma più di una fabbrica. Un luogo di crescita umana, di educazione sentimentale, di realizzazione personale che garantisce più del salario e della sopravvivenza. Un approccio alla modernità, a nuovi stili di vita, a diverse forme di relazione collettiva. Lo sforzo di questo lavoro è stato appunto questo: mettere in rete fonti, informazioni, testimonianze diverse, cercando di tratteggiare una storia d’impresa che sia anche storia di chi vi ha lavorato e della città che l’ha ospitata. Francesco Chiapparino Renato Covino

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Petronilla Ialacci, Testimonianza, ivi, p. 116. Elsa Ciucarelli, Testimonianza, ivi, p. 173. Salvatore Paladino, Testimonianza, ivi, p. 251.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

Capitolo I

Perugia 1907

I.1. Una modernizzazione contraddittoria Il 9 dicembre 1912 [s]ulla porta del Municipio i consiglieri comunali liberali sono accolti al grido di “Ladri, farabutti vigliacchi!” e da 300 persone guidate da Miliocchi, Brugnola, e Buitoni. Zuffa con gli agenti. È chiamata la truppa. Si sgombra il Corso. Arresti1.

I disordini si ripetono la sera in Consiglio comunale. Alcuni consiglieri comunali liberali sono aggrediti mentre tornano a casa. La ragione del contendere è l’aumento delle tasse dallo 0,2% all’11%, motivato con l’aumento delle spese del Comune. È la cronaca di una società cittadina in cui si scontrano istanze di cambiamento e di conservazione, in cui i ceti possidenti hanno riconquistato il Comune nel 1903, eleggendo sindaco Luciano Valentini, nipote di Luciana Valentini Bonaparte (seconda moglie di Zeffirino Faina) e grande proprietario terriero, con il contributo fondamentale dei clericali. Con ciò essi hanno chiuso la parentesi della giunta “popolare” di Ulisse Rocchi e dei suoi contraddittori tentativi di modernizzare la città, venendo contemporaneamente incontro ai ceti popolari. Ed è proprio nel 1903, anno del trionfo di conservatori e moderati nelle elezioni suppletive per il Comune, che Francesco Buitoni viene eletto tra le file della minoranza del Consiglio, insieme ad altri tre esponenti repubblicani. La svolta sancisce la rottura definitiva dei blocchi urbani e l’avvio di una effervescenza che percorrerà la città per tutto il primo quindicennio del Novecento, densa di scioperi, manifestazioni contro il carovita, proteste contro la gestione del Municipio dei monarchico liberali e dei loro alleati clerical-conservatori2. In questo quadro si collocano anche tentativi, in buona parte abortiti, di indurre processi di industrializzazione della città. 1 2

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Uguccione Ranieri di Sorbello, Perugia della bell’epoca, Perugia, Volumnia, 1970, p. 550. Sulla rottura dei blocchi urbani cfr. Renato Covino, Dall’Umbria verde all’Umbra rossa, in Storia d’Italia. Regioni dall’Unità ad oggi. L’Umbria, a cura di Renato Covino e Giampaolo Gallo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 526-538. Sulle proteste urbane cfr. Francesco Alunni Pierucci, Il movimento operaio in Umbria (Cronache di un secolo 1850-1950), in “Quaderni della Regione dell’Umbria”, (1983), 8.


Capitolo I Perugia 1907

Può sorprendere che tra i protagonisti della protesta del dicembre 1912 ci sia anche un industriale come Francesco Buitoni. Il suo attivismo testimonia, tuttavia, come istanze di modernità e di sviluppo si coniughino con la protesta sociale, siano due aspetti concomitanti di uno stesso fenomeno di disagio sociale e ricerca di cambiamento che attraversa la città nel suo insieme. È, del resto, quanto si è già manifestato nel decennio 1893-1903 con le giunte di Rocchi. Le amministrazioni “popolari” si impegnano su alcune questioni decisive per lo sviluppo cittadino: il riordino e l’ampliamento della rete idrica e dell’approvvigionamento di acqua, l’illuminazione pubblica, un primo, rudimentale, sviluppo della rete di trasporti urbani attraverso la costruzione della rete tranviaria3. Tanto l’impianto di illuminazione che la tramvia vengono inaugurate il 20 settembre 18994. Né sono questi gli unici terreni su cui si impernia l’attività di Rocchi. Il completamento della circonvallazione urbana tramite la costruzione di una nuova strada che costeggia le mura etrusche, l’attuale via Cesare Battisti, rappresenta infatti un ulteriore elemento di novità nell’assetto urbano, così come la scelta di istituire condotte mediche rurali e nuove scuole nelle frazioni inaugura una politica sociale che prefigura primi embrioni di stato sociale, al pari, per altro, dell’affidamento a cooperative di muratori di attività edilizie finanziate dal Comune. Saranno però le manifestazioni cittadine contro il carovita e, soprattutto, i primi scioperi contadini del 1901-1902 a mobilitare le classi dirigenti tradizionali, impaurite dal clima di “disordine” che attraversa la società umbra e perugina. In quegli stessi anni l’esaurirsi della Grande depressione che ha caratterizzato l’ultimo quarto dell’Ottocento, l’emergere di politiche protezioniste che difendono i produttori cerealicoli e la nascente industria italiana, il superamento di quella che sarà definita la “crisi di fine secolo” e l’esordio della lunga serie di governi presieduti da Giovanni Giolitti, aprono un periodo di prosperità che si riverbera anche in una regione povera e marginale come l’Umbria. È possibile affermare che la teoria di lotte contadine che viene inaugurata dallo sciopero di Narni del 1901 – e che si articolerà fino alla prima guerra mondiale in momenti di conflitto che attraverseranno tutta l’Umbria, sia pure senza riuscire a generalizzarsi e consolidare or-

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Si veda in proposito Gianluca Ricci, politica, amministrazione e servizi pubblici a Perugia. 1898-1903, in “Storia urbana”, XI (1978), 4, pp. 103-140 e Claudia Minciotti Tsoukas, Amministrazione comunale e servizio pubblico a Perugia (1893-1960), in Il cammino della modernizzazione. Storia, organizzazione e gestione dei servizi pubblici locali, s.n. t. 1995, pp. 9-85; Idem, Il tram in piazza Grande: servizi e trasporti, in Perugia al passaggio del secolo. La prima fase di modernizzazione fra Otto e Novecento, a cura di Alberto Sorbini, Perugia-Foligno, Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea - Editoriale umbra, 2000, pp. 25-39. Minciotti Tsoukas, Il tram in piazza Grande cit. (a nota 3), p. 25.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

ganizzazioni contadine stabili5–, derivi da un miglioramento della situazione economica nelle campagne, dalla consapevolezza che il ciclo andava invertendosi e che esistevano margini per un miglioramento di patti mezzadrili divenuti negli anni della crisi sempre più vessatori nei confronti dei coloni. La reazione ad un simile stato di cose sarà immediata. Il 20 giugno 1902 viene fondata da 137 possidenti la Società di mutua assistenza e difesa tra proprietari e affittuari di fondi rustici del circondario di Perugia, significativamente definita dalla stampa socialista la “Società della Forca” e presieduta proprio da quel Luciano Valentini che – come si è già ricordato – diverrà l’anno successivo sindaco della città6. Ciò nonostante i problemi della modernizzazione continueranno a premere, e con essi il tentativo di garantire la tenuta dei blocchi urbani, ossia una sorta di unione tra tutti i ceti cittadini in contrapposizione con le campagne. Sul piano amministrativo ciò si manifesta nello sforzo, già iniziato con la giunta Rocchi, di ampliare il perimetro della città, compiendo per certi versi una scelta obbligata, derivante dalla crescita della popolazione che investe in quella fase anche il capoluogo umbro. Il Comune di Perugia, che nel 1861 conta 42.515 residenti, sale nel 1881 a 50.718 e nel 1901 a 60.822 abitanti, per crescere poi ulteriormente a 66.277 nel 19117. Si tratta in realtà di uno sviluppo equilibrato: Nel comune di Perugia [tra il 1861 ed il 1911] l’aumento della popolazione presente nella città risulta pari a quello degli abitanti residenti nel territorio comunale: rispettivamente da 16.708 a 22.027 (+31,8%) e da 32.785 a 43.778. Nel territorio, però, pur con la difficoltà di un confronto tra dati non del tutto omogenei, l’incremento sembra riguardare molto più la popolazione agglomerata nelle frazioni che gli abitanti nelle case sparse (80 per cento circa, cioè da 5.869 a 10.817, in confronto al 20, cioè da 26.926 a 32.961)8.

La città, inoltre, col suo ruolo di capoluogo di provincia e la sua collocazione geografica baricentrica rispetto al Nord e al Sud della regione, e per certi aspetti anche tra Est ed Ovest, vede addensarsi funzioni burocratiche

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Sulle lotte contadine cfr. Francesco Bogliari, Il movimento contadino in Umbria dal 1900 al Fascismo, Milano, FrancoAngeli, 1979 e Francesco Alunni Pierucci, Le lotte contadine in Umbria (cronache di mezzo secolo), in “Quaderni della Regione dell’Umbria”, [1978], 7. Cfr. in proposito Covino, Dall’Umbria verde all’Umbria rossa cit. (a nota 2), p. 542. Cfr. Franco Bonelli, Evoluzione demografica ed ambiente economico nelle Marche e nell’Umbria dell’Ottocento, Archivio Storico dell’Unificazione Italiana, serie II, volume XII, Torino, Industria libraia tipografica editrice, Torino, 1967, tab. IV. Renato Covino, Giampaolo Gallo, Luigi Tittarelli e Gernot Wapler, Economia, società e territorio, in Perugia, a cura di Alberto Grohmann, Bari, Laterza, 1990, pp. 79-80.


Capitolo I Perugia 1907

e amministrative crescenti. A queste nuove esigenze corrispondono gli interventi edilizi ed urbanistici maturati nel primo quindicennio del Novecento. Se entro le mura si tenta di costruire una maglia di nuovi servizi – ne è esempio l’area del Sopramuro [l’attuale Piazza Matteotti], oggetto nel 1911 di un piano regolatore che introduce tra la piazza e il corso una fitta serie di funzioni tra cui il Mercato coperto e le Poste – a ridosso del centro storico si completa in modo consistente il nodo Sant’Anna - piazza d’Armi che si qualifica ancora di più come la nuova testata di accesso alla città. La Ferrovia Centrale Umbra è progetto del 1908, la stazione di Sant’Anna si costruisce nel 1910 e unitamente viene disegnata la nuova strada tra questa stazione e la Barriera di Santa Croce (1912), attuale via Marconi9.

L’uscita dalle mura, tuttavia, è segnata anche da altri elementi, come lo spostamento nel 1911 dell’Ospedale a Santa Maria di Monteluce o la specializzazione dei settori urbani residenziali, dovuta alla crescita delle abitazioni di una nascente borghesia cittadina. A Monteluce I villini sulla cresta collinare cominciano a crescere in quegli anni e configurano un quartiere borghese destinato al ceto impiegatizio. […] Nel 1908 le case popolari costruite in via Faina su terreni del Comune confermano il profilo operaio del Borgo di Sant’Angelo10.

Pur nella sua modestia, il fenomeno investe l’insieme delle aree limitrofe alla città storica. Al di fuori della cinta muraria medioevale, lo sviluppo più consistente delle aree insediative della nuova borghesia, si avrà oltre che nelle […] zone dell’Elce e di Monteluce […] tra piazza d’Armi e il tracciato di via XX Settembre e lungo l’anello che gradatamente viene sorgendo intorno alla città: da Monteluce a Porta Nuova, dalla barriera di Santa Croce alla barriera dell’Elce, per poi proseguire con un tracciato interno alla mura fino a porta Sant’Angelo. L’unica area in cui, data la pendenza del sito, non si riuscirà a costruire un viale fuori le mura, né a realizzare un rapido collegamento interno, e che quindi non vedrà un’espansione della città, sarà quella a nord, tra porta Sant’Angelo e porta Sant’Antonio11.

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Giovanna Chiuini, Dentro e fuori le mura: una città che cambia, in Perugia al passaggio del secolo cit. (a nota 3), p. 49. Ibidem; sulle case operaie a Perugia cfr. Gianluca Ricci, Edilizia sovvenzionata e case popolari a Perugia 1900-1815, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia, Studi storico-antropologici, XVIII nuova serie (1980-1981), pp. 135166. Alberto Grohmann, Le città nella storia d’Italia. Perugia, Laterza, Roma-Bari, 1985, pp. 151-152.

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Questi sviluppi segnano in modo significativo la realtà di Perugia e i processi di cambiamento che la attraversano a inizio secolo, spesso indipendentemente dall’alternarsi dalle maggioranze politiche che governano la città. I.2. I mutamenti del quadro economico Quanto avviene sul piano dei cambiamenti urbani trova un suo corrispettivo nel dinamismo che la città conosce in ambito economico. Il miglioramento della congiuntura a livello nazionale, l’esaurirsi della lunga crisi dovuta alla depressione dei prezzi agricoli, le stesse politiche protezioniste cui prima si accennava, determinano processi di accumulazione che migliorano in generale la situazione produttiva dell’Umbria e, con essa, quella della stessa Perugia. Si genera infatti, per queste vie, una “riserva” di capitali derivanti dalle rendite agricole, che cerca nuovi settori verso cui indirizzarsi e che provoca, negli anni iniziali del secolo, una certa effervescenza nello stesso panorama industriale della città. Fino ad allora Perugia si caratterizza come centro di un’economia di zona, fondamentalmente a base agraria e relativamente ricca, sorretta da una grande proprietà che estende i suoi confini ben oltre il territorio del comune e che fa affluire verso la città il flusso delle sue rendite. L’intensa colonizzazione della pianura sottostante e delle aree collinari, alimentando tale flusso, assicura la prosperità di un centro urbano in cui i consumi rimangono tuttavia di tipo tradizionale e le attività non agricole sono per lo più destinate a rifornire il mercato locale. Un simile quadro trova conferma in molteplici indizi. Se si guarda alla statistica della popolazione per condizione professionale del 1871, emerge ad esempio come il 55% dei perugini sia costituito da possidenti e contadini, a fronte dei quali sta solo un 23% di occupati nel settore secondario e terziario. Le attività non agricole, inoltre, sono soprattutto di tipo strettamente artigianale, con l’eccezione dei muratori, che assommano a 693 unità12, mentre qualche elemento di novità è rilevabile solo nel comparto tessile con due imprese di modeste dimensioni: la filanda Faina e il lanificio Bonucci di Ponte Felcino. Complessivamente l’occupazione nel settore non supera comunque i 200 addetti. Insomma, come scrive Francesconi nella sua statistica:

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Covino, Gallo, Tittarelli e Wapler, Economia, società e territorio cit. (a nota 8), tab. IV, p. 83.


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Poco c’è da dire sull’industria perugina se si eccettuano e l’accreditato lanificio Bonucci posto a Ponte Felcino presso il Tevere, e la filanda a vapore del conte Faina. Tutte le altre fabbriche danno prodotti limitati solamente al consumo della città13.

In realtà, anche la filanda Faina è un piccolo opificio con attività discontinua, localizzato ai limiti della cinta urbana, a San Francesco delle Donne, con un andamento delle lavorazioni altalenante e una posizione marginale negli affari di un grande proprietario e banchiere come Zeffirino Faina. Essa rimane in attività, anche in una fase in cui entrano in crisi in Italia la produzione ed il commercio della seta, come “pedina secondaria di un gioco in cui l’iniziativa imprenditoriale era sostanzialmente subalterna all’attività bancaria e speculativa”14. E così, nel 1905, Faina cede la sua filanda al Banco Sete di Milano, partecipato dalla Comit, di cui si avviava a diventare vice-presidente attraverso la cessione della Banca di Perugia, la più importante banca dell’Umbria di quell’epoca. È il segno che San Francesco delle Donne è un’attività considerata poco redditizia, che molto più vantaggiose sul piano economico e prestigiose sul piano sociale sono considerate le attività bancarie e rurali15.

Meno precaria è la vicenda del lanificio che i Bonucci gestiscono, dopo una crisi aziendale nel 1878, con relativo successo fino al primo dopoguerra. A questi due impianti si affiancano due piccole imprese, lo stabilimento bacologico Pucci-Boncambi e il cotonificio Pucci-Cesarei16: la prima sele-

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Francesco Francesconi, Alcuni elementi di statistica della provincia dell’Umbria, Perugia, Boncompagni, 1872. Renato Covino, Cioccolata, fiammiferi e rumor di telai: la città si industrializza, in Perugia al passaggio del secolo cit. (a nota 3), p. 15. Ibidem. Sulle diverse imprese cfr. Giampaolo Gallo, Tipologia dell’industria ed esperienze d’impresa in una regione agricola, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Umbria, a cura di Renato Covino e Giampaolo Gallo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 343-448; Covino, Cioccolata, fiammiferi e rumor di telai cit. (a nota 14); Covino, Gallo, Tittarelli e Wapler, Economia, società e territorio cit. (a nota 8), pp. 89-106; L’industria bacologia e serica dell’Umbria, in “Bollettino industriale e commerciale”, n. 6, 7 aprile 1889, pp. 2-3; L’industria della seta, in “Giornale illustrato della esposizione umbra”, n. 7, 1 ottobre 1897, p. 7; Ernesto Trevisani, Rivista industriale e commerciale di Roma e dell’Umbria, Milano, 1899, pp. 363-366; I borghi operosi. L’industria della lana a Ponte Felcino, in “Perusia”, n. 5, 1950, pp. 25-27; Alberto Fortunati, Silvio Guelfa. L’uomo e l’opera sua, Spoleto, Arti grafiche Panetto e Petrelli, 1952; Olga Marinelli, La vita e l’opera di Zeffirino Faina, Perugia, Volumnia, 1959; Fabio Facchini, La famiglia Faina: tre secoli di storia, Todi, Edizioni Publimedia, 2000; Giampaolo Gallo, Dai Bonucci ai Ginocchietti. Il lanificio di Ponte Felcino, in Ponte Felcinio, Pontevalleceppi, Pretola. Da borghi rurali a realtà urbana, Perugia, Protagon, 1992, pp. 64-71.

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ziona il seme dei bachi da seta, la seconda è strettamente legata all’ambito cittadino fino a Novecento inoltrato ed è più che altro segno “di un rifornimento del mercato locale che ancora non (riesce) ad indirizzarsi verso i grandi produttori nazionali”17. Ma, a parte la descrizione delle singole realtà produttive, la situazione è ben delineata nel 1903 in una relazione del Comune da cui risulta che in città si contano solo 15 opifici: “4 conce, la fabbrica di fiammiferi, 6 tipografie, il bacologico, la Pucci-Cesarei, la filanda Faina, uno stabilimento di produzione di mattonelle”18. Sono elencati inoltre, fuori delle mura, il lanificio Bonucci e due mulini a cilindri, vere novità quest’ultimi di fine Ottocento e inizio Novecento. Complessivamente in ogni caso il quadro è quello che è venuto delineandosi nei decenni precedenti. Del resto, le rilevazioni dei primi anni novanta indicano come rispetto ad 4,8 abitanti su cento occupati in Umbria nell’industria, nel comune di Perugia ne risultino attivi solo 1,8. Se si esamina il quadro venti anni dopo emergono significativi mutamenti: il censimento del 1911 segnala infatti come nel comune siano allora attivi nell’industria 6 abitanti su cento contro i 4,8 della media regionale regione19. Un simile salto in avanti è figlio dei cambiamenti del clima economico prima descritti, della crescita del surplus agricolo, del crescente accumulo di capitali presso le banche locali, con il ruolo che in questo quadro assumono gli istituti di credito. La vicenda della Banca di Perugia è centrale per comprendere il nuovo contesto. L’istituto nasce nel 1889 “dalla fusione della locale Cassa di risparmio, operante dal 1844, con la Banca perugina di sconto, sorta rilevando la filiale cittadina della Banca del popolo di Firenze fallita nel 1877”20. L’operazione viene agevolata dal fatto che il suo pivot è Zeffirino Faina, proprietario della Sconto e presidente della Cassa di risparmio, e di conseguenza, poi, della nuova Banca di Perugia. Rapidamente il nuovo istituto di credito si trasforma nella principale banca della regione per capitale, depositi, movimento generale dei conti, utili. Con il nuovo secolo la banca, che ha come direttore generale Agostino Cianelli, assume il ruolo di una sorta di incubatore d’imprese, favorendo la nascita di piccole società ano-

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Covino, Cioccolata, fiammiferi e rumor di telai cit. (a nota 14), pp. 16-17. Ibidem. Cfr. Luigi Bellini, Aspetti statistici della struttura dei comuni umbri dal 1861 al 1961, in Idem, Scritti scelti, a cura di Luigi Tittarelli, Perugia-Foligno, Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea - Editoriale umbra, 1987, tavv. 7, 6, 9, pp. 204-207, 210-213, 218-222. Gallo, Tipologia dell’industria ed esperienza d’impresa in una regione agricola cit. (a nota 16), p. 404; Katryn Y. Ruchti, La Banca di Perugia dalla fondazione al suo assorbimento, tesi di laurea, Università di Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1995-1996.


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nime nel settore industriale, segnando una novità significativa nel panorama umbro. È grazie alla sua iniziativa che sorgono imprese come, nel 1901, la Società anonima umbra per la fabbricazione dei fiammiferi igienici e comuni e, nel 1905, la Società anonima già Ezio Vajani21. Il 15 marzo 1906 la Banca di Perugia viene posta in liquidazione in previsione del suo assorbimento da parte della Banca commerciale italiana e Agostino Cianelli, che ne è il direttore e molto si è speso a favore di tale soluzione, viene nominato contemporaneamente liquidatore dell’istituto perugino e direttore della nuova filiale cittadina della grande banca milanese. Cianelli, nondimeno, verrà infine estromesso da quest’ultima alla fine del 1909. I motivi di questo “licenziamento” vanno individuati soprattutto nel fatto che la Banca di Perugia, benché in liquidazione, continua, seppure con risultati non sempre esaltanti, ad entrare in combinazioni di affari e a promuovere e intervenire in imprese a Perugia e nella regione. Proprio nel 1907-1908, nel momento in cui inizia lo smobilizzo della Banca di Perugia, quest’ultima sottoscrive ad esempio 317.000 delle 800.000 lire del capitale sociale della Società anonima molino e pastificio di Ponte San Giovanni22, nonché 19.000 delle 300.000 lire di quello della Società anonima auto garage Perugia23. Sin dal 1906, peraltro, Cianelli ha costituito una società controllata al 100% dalla Banca di Perugia, ossia la Società delle cartiere centrali, un’anonima con sede a Perugia e 3 milioni di capitali, […], che rileva tra l’altro una fabbrica di Cassian Bon localizzata a Corneto Tarquinia e vari impianti di Pale (Foligno), alcuni dei quali gestiti direttamente mentre di altri si commercializza il prodotto, ma quasi tutti obsoleti dal punto di vista tecnico24.

Proprio quest’ultimo, in particolare, è un affare sbagliato, che finirà col

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Sulla fabbrica dei fiammiferi cfr. Luigi Catanelli, La fabbrica dei fiammiferi igienici a Perugia, Perugia, Regione dell’Umbria, 1974, sulla vicenda della Banca di Perugia cfr. Gallo, Tipologia dell’industria ed esperienze d’impresa in una regione agricola cit. (a nota 16), pp. 399-421; per la costituzione della Fabbrica dei fiammiferi e della valigeria cfr. Andp, Rogito Gualtiero Montesperelli, 1901, atto costitutivo della Società anonima umbra per la fabbricazione dei fiammiferi igienici e comuni e Rogito Aldo Tassi, 1905-1906, atto costitutivo della Società anonima Valigeria italiana già Ezio Vajani. Andp, Rogito Aldo Tassi, 1907, atto costitutivo della Società anonima Molino e pastificio di Ponte San Giovanni Andp, Rogito Gino Montesperelli, 1907, atto costitutivo della Società anonima Auto garage Perugia, Costituzione anonima “Auto Garage Perugia” in Perugia, in Ministero di agricoltura, industria e commercio, “Bollettino ufficiale delle società per azioni”, a. XXV, 23 maggio, 1907, p. 7. Gallo, Tipologia dell’industria ed esperienze d’impresa in una regione agricola cit. (a nota 16), p. 414.

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rallentare la liquidazione della Banca di Perugia e che costerà infine l’incarico a Cianelli, segnando la fine dell’intervento del credito locale nelle imprese cittadine e della regione. Del resto, il movimento di costituzione di piccole imprese degli anni tra il 1901 e il 1907 evidenzia non solo il protagonismo “drogato” della banca, ma anche l’atteggiamento dei detentori delle posizioni di rendita, ai quali la ripresa dei prezzi agricoli ha consentito di accumulare un notevole surplus di capitali. In realtà questo fiorire di partecipazioni azionarie in imprese industriali più che un sintomo di modernizzazione delle classi dirigenti perugine svela una continuità, una propensione del risparmio derivante dalla rendita a investire in altri settori con un atteggiamento da rentier. La dimensione del rischio imprenditoriale è estranea alla cultura dei gruppi che dominano economicamente la città. La priorità fondamentale diventa quella di garantirsi una forte redditività del capitale investito in azioni in tempi brevi, l’investimento insomma risponde a criteri fondamentalmente speculativi25.

È questo, in definitiva, ciò che si legge in controluce nei processi concreti di definizione del capitale azionario delle singole società anonime. Per costituire la Società anonima umbra dei fiammiferi igienici e comuni, con un capitale di 300.000 lire, occorreranno ben 329 soci. Per la Valigeria, nonostante Vajani apporti un sesto del capitale, sempre pari a 300.000 lire, e Ajò e Bisleri sottoscrivano rispettivamente 1/17 e 1/15 del capitale sociale, saranno necessari altri 46 soci. I soci dell’Auto garage, nonostante il massiccio intervento di partner nazionali, tra cui spicca la Fiat, saranno 102 per 300.000 lire di capitale. La Società anonima molino e pastificio di Ponte San Giovanni, infine, con 800.000 lire di capitale, vede una partecipazione del 40% della Banca di Perugia, del 41% di tre soci privati, e di ben 21 altri azionisti per il restante 20%26. Il prevalere di un simile atteggiamento da rentier trova una conferma anche nella tipologia degli investimenti, se si considera la tendenza della nascente industria perugina a localizzarsi soprattutto in conventi, strutture ecclesiastiche e palazzi nobiliari. Non stupisce, perciò, che quest’ultima soffra di gravi carenze quanto alle capacità tecniche e alla forza lavoro specializzata, che in loco del resto non abbondano. Ciò spiega anche il successivo passaggio delle imprese perugine a gruppi e capitali esterni alla città e alla regione. Delle aziende costituite nel primo decennio del secolo solo l’Auto garage manterrà un azionariato cittadino, e al riguardo non è

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Covino, Cioccolata, fiammiferi e rumor di telai cit. (a nota 14), pp. 18-19. Cfr. Gallo, Tipologia dell’industria ed esperienze d’impresa in una regione agricola cit. (a nota 16) cit., p. 416.


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casuale che l’azienda operi nel settore dei servizi alla nascente modernizzazione e che, dal 1913, si diversifichi, aggiungendo all’attività per i privati, quella del trasporto pubblico locale che comincia a beneficiare di sovvenzioni27. Tutte le altre industrie locali sono destinate a passare di mano, concorrendo a determinare quella situazione per cui agli inizi degli anni venti Carlo Faina osserva che “l’Umbria ospita le aziende ma non le possiede”28. I.3. La Società Perugina per la fabbricazione dei confetti e i suoi soci È in un siffatto contesto che il 30 novembre 1907 Francesco Buitoni, Annibale Spagnoli, Leone Ascoli e Francesco Andreani si riuniscono davanti ad un notaio del capoluogo umbro, Luigi Gasperini, per costituire la Società in nome collettivo Perugina per la fabbricazione dei confetti. L’atto privato, che sarà poi registrato il 19 del mese successivo al Tribunale di Perugia, prevede la creazione di una società della durata di venti anni con 100.000 lire di capitale sociale, “di cui 90.000 in denaro e 10.000 in credito e altri beni”. Di questo importo, come di consueto, risultano inizialmente versati i 7/10, cioè le 10.000 lire rappresentate dal valore attribuito al laboratorio di confetture “con sistema meccanico” apportato alla nascitura azienda da Annibale Spagnoli e i conferimenti monetari paritetici degli altri tre soci. Le restanti 30.000 lire sarebbero state versate entro il 1911, a partire dalla conferma della società, l’11 agosto del 1910. La firma sociale e la rappresentanza legale, infine, vengono attribuite a Francesco Buitoni29. Nessuno dei quattro soci fondatori della nuova impresa, pur essendo personaggi abbastanza in vista nella città – con la sola eccezione, forse, dell’assisano Spagnoli –, proviene da famiglie originarie di Perugia, anche se, nel caso degli Ascoli, il loro arrivo in città risale ormai a più di venti anni addietro. Nel 1886, infatti, lo zio di Leone, Vittorio, attivo nel commercio dei tessuti, si è trasferito da Ancona, aprendo nei centralissimi locali a piano terra di palazzo Donini, lungo il corso principale della città, la maggior rivendita di stoffe e prodotti affini perugina e dell’intera regione30. L’anno

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Cfr. Archivio storico dell’Azienda perugina della mobilità, Auto Servizi Perugia, Libri dei soci, volume 1, 1 giugno 1907 - 21 luglio 1958. Carlo Faina, L’Umbria ed il suo sviluppo industriale. Studio economico-statistico, Città di Castello, Il Solco, 1922 ANDPg, Notaio Luigi Gasperini, 1910, rep. not. A.1830; “Bollettino della Camera di commercio dell’Umbria”, XX, 3, 16 gennaio 1908, p. 1; ASCCPg, Anagrafe ditte, fasc. 6894 “Perugina”. Ranieri di Sorbello, Perugia della bell’epoca cit. (a nota 1), pp. 324-325.

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successivo, assieme al nipote, egli costituisce poi a Milano una società, le Industrie riunite di filati, destinata sviluppare piuttosto rapidamente una vasta rete d’affari tra Lombardia, Veneto, Marche e Umbria. L’impresa entrerà poi in crisi nel 1921, anno della morte di Vittorio, per la poco avveduta gestione fattane da Leone durante la guerra e per le difficoltà del periodo della riconversione all’economia di pace, giungendo infine alla bancarotta nel 1923. E la vicenda avrà riflessi non secondari, come si vedrà, sulla stessa Perugina, dal momento che in quella fase, i problemi finanziari e il bisogno di liquidità di Ascoli agevoleranno le manovre dei Buitoni per acquisire il controllo dell’azienda dolciaria umbra. Gli Ascoli appartengono ad una serie di famiglie ebraiche prevalentemente anconitane e senigalliesi, come gli Ajò e i Servadio, che già attorno alla metà dell’Ottocento hanno relazioni con Perugia per via dei loro affari, soprattutto in rapporto alla Fiera dei Morti, e che nella città umbra si trasferiscono poi, secondo la ricostruzione di Ariel Toaff, nei decenni successivi all’Unità, apportandovi attività commerciali di un certo rilievo31. Presidente dell’Associazione commercianti cittadina, Vittorio è membro della massoneria già prima del suo arrivo a Perugia, dove diverrà poi “oratore ufficiale” della Loggia Guardabassi. Tanto la posizione nel locale mondo degli affari, con le responsabilità associative che ne conseguono, quanto il ruolo di spicco all’interno della massoneria cittadina sono vie attraverso cui gli Ascoli hanno la possibilità di entrare in rapporto con Andreani e Buitoni. A parte l’attività commerciale di quest’ultimo, di cui pure presto si dirà, entrambi costoro sono infatti, negli anni novanta, attivi esponenti repubblicani, eletti nel Consiglio comunale nelle file della maggioranza “popolare” che sostiene, tra il 1893 e il 1903, l’esperienza modernizzatrice e riformatrice dell’amministrazione guidata da Ulisse Rocchi. Andreani, in particolare, ha anche responsabilità nella giunta, in qualità di assessore, prima all’istruzione e poi alle finanze. Ed è probabilmente lo stesso Rocchi a favorire nel 1894 l’ingresso di entrambi nella massoneria cittadina32. Né i contatti tra i tre devono limitarsi a questi ambiti, poiché tutti – gli Ascoli e Buitoni come soci, Andreani

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Ariel Toaff, Gli ebrei a Perugia, Perugia, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, 1975, pp. 185-186. Merita di essere sottolineato, in particolare, che Ascoli è il cognome più ricorrente nella comunità israelitica anconitana nell’Ottocento. Nel 1838 esistono nella città dorica ben 21 nuclei familiari con questo nome, che scendono a 17 nel 1843 per risalire poi ad oltre venti nella seconda metà del secolo. Cfr. Ercole Sori, Una “comunità crepuscolare”: Ancona tra Otto e Novecento, in La presenza ebraica nelle Marche. Secoli XIII-XX, a cura di Sergio Anselmi e Viviana Bonazzoli (Quaderni monografici di “Proposte e ricerche”, 14), Ancona, 1993, pp. 189-278, in part. pp. 274-278. Vittor Ugo Bistoni e Paola Monacchia, Due secoli di Massoneria a Perugia e in Umbria (1775-1975), Perugia, 1975, pp. 206-207.


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come amministratore – partecipano anche alla creazione nel 1901 della S.a. umbra per la fabbricazione dei fiammiferi igienici e comuni, le cui 300.000 lire di capitale sociale vengono appunto raccolte negli ambienti legati a Rocchi e alla massoneria. La nascita dell’azienda, che si propone lo sfruttamento commerciale del brevetto di due chimici perugini, i fratelli Purgotti, è uno dei simboli del programma della giunta “popolare” e, accanto alle istanze modernizzatrici, finisce col rappresentarne, come si è accennato, anche limiti e insufficienze. L’idea di un’impresa che mobiliti capitali, capacità gestionali e risorse scientifico-tecnologiche locali in vista di una produzione di tipo industriale, di cui si enfatizzano le positive ricadute sociali e occupazionali, non sopravvive infatti a lungo all’amministrazione che ne è stata levatrice. E quando, nel 1906, la fabbrica di fiammiferi viene assorbita dalla milanese Saffa, che peraltro la porterà a raggiungere i 400 addetti tre anni più tardi, Francesco Buitoni è incaricato di liquidare la società originaria33. Legami precedenti all’affare Perugina, devono esistere anche tra quest’ultimo e Francesco Andreani, avvocato, nato nel 1868 ad Umbertide, un piccolo centro a nord del capoluogo, che cambia il proprio nome originario Fratta dopo l’uccisione di Umberto I. I due condividono il successo elettorale del 1893, l’entrata nella massoneria e vari interessi economici. Andreani tuttavia si orienta forse maggiormente verso l’attività politica: assessore della giunta Rocchi, sindaco della cittadina natale nel 1890-1891 e poi nel 19101919 alla testa di una coalizione repubblicano-socialista34, non è rieletto (al contrario di Buitoni) nel nuovo Consiglio comunale nel 1903, salvo rientrarvi a più riprese negli anni successivi nelle file dell’opposizione. Nel 1910 si presenta anche come candidato popolare alle elezioni suppletive per il collegio di Perugia I della Camera, indette dopo il suicidio di Guido Pompili sul letto di morte della moglie (la poetessa Vittoria Aganoor), ma viene seccamente sconfitto dal conservatore Romeo Gallenga35. Ascoli, Andreani e Buitoni – di cui si dirà più approfonditamente fra breve – sono insomma tre attivi esponenti della borghesia perugina di epoca giolittiana; di essa, che pure è minoritaria a livello locale, esprimono tanto il dinamismo economico, quanto la visione culturale, le aspirazioni politiche e la consapevolezza sociale. Annibale Spagnoli, invece, è una figura in parte diversa, un po’ più defilata e di estrazione sociale più modesta, che non a caso compare solo molto raramente nelle cronache locali prima della nascita della Perugina. Primo di sei fratelli, egli nasce nel 1872 da una

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Cfr. Catanelli, La fabbrica dei fiammiferi igienici a Perugia cit. (a nota 21). Sull’attività di Andreani a Umbertide cfr. Roberto Sciurpa, Umbertide nel secolo XX. 19001846, Umbertide, Comune di Umbertide, 2005. Ranieri di Sorbello, Perugia della bell’epoca cit. (a nota 1), pp. 528-529.

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famiglia della piccola borghesia di Assisi e, seguendo la tradizione dello zio pare che da ragazzo si dedichi principalmente alla sua attività nella banda cittadina36, tanto che nell’atto del suo matrimonio con Luisa Sargentini, del 1899, è designato appunto come “musicante”. I suoi genitori sono dichiarati genericamente “possidenti”, in quanto proprietari di uno stabile nel centro storico di Assisi, con annesso giardino, che agli inizi del secolo funziona come casa-pensione per turisti e visitatori. Rientrato in famiglia, alla metà degli anni venti, Annibale tenterà con i fratelli di trasformarlo in albergo per sfruttare l’occasione dell’anno santo del 1925, senza tuttavia riuscire a condurre l’affare. Due dei suoi fratelli si dedicano agli inizi del secolo ad una ditta di materiale elettrico e idraulico non priva di un qualche successo37, mentre un terzo, Sigismondo, sarà canonico della cattedrale, nonché restauratore, pittore, incisore e in generale un uomo di cultura di rilievo nella Assisi del primo trentennio del Novecento38. Quando si sposa, nel 1899, Annibale è sotto le armi a Mantova, ove inizialmente si trasferisce anche la moglie e dove nel 1900 nasce il loro primo figlio Mario. Nel novembre dell’anno successivo, il secondogenito Armando nasce invece già a Perugia, dove Luisa è rientrata per essere di lì a breve raggiunta da Annibale, nel frattempo congedatosi. La coppia ha poi un terzo figlio, Aldo, nel 1905. Dal canto suo, Luisa Sargentini, che pure avrà un ruolo centrale nella vicenda della Perugina, è invece originaria del capoluogo umbro. Figlia di un piccolo commerciante di pesce, nasce nel 1877 nell’attuale via Cartolari (un tempo via della Berta), a pochi passi da quel palazzo Ansidei che sarà la prima sede dell’azienda. Agli inizi del secolo, suo fratello Aurelio gestisce un “atelier di moda” in corso Cavour, successivamente trasferitosi nel più centrale corso Vannucci39. L’attività intrapresa dalla giovane coppia, una volta rientrata in Umbria, è descritta praticamente dallo stesso Spagnoli in un memoriale dei primi anni venti40:

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Valerio Corvisieri, Una famiglia di imprenditori del Novecento. Gli Spagnoli da Assisi a Perugia (1900-1970), Perugia, Salvi, 2001, pp. 4-7. Fernando Mancini, L’Umbria agricola, industriale e commerciale. Anno 1913, Foligno, Camera di commercio e Industria dell’Umbria, 1914, p. 302. Corvisieri (Una famiglia di imprenditori cit. (a nota 36), p. 89) ritiene che la Fratelli Spagnoli sia stata la prima officina meccanica di Assisi. Negli anni venti la ditta installa e ripara “impianti di luce ed energia, motori, trasformatori, elettropompe, cabine di trasformazione, oltre a continuare a vendere materiali al dettaglio al piano terra del palazzetto di famiglia. L’azienda è anche rappresentate esclusiva per l’Umbria della milanese Marelli”. Per le notizie sulla famiglia Spagnoli ad Assisi si veda in generale ivi, pp. 87-108. Per queste notizie, Corvisieri, Una famiglia di imprenditori cit. (a nota 36), pp. 5-6. ASBP, FP, DGAD, b. 4, fasc. 25 “Annibale Spagnoli”, cc. 79-98. Il testo è tratto da un memoriale redatto dal legale di Spagnoli in occasione della causa giudiziaria che lo vedrà opposto ai Buitoni agli inizi degli anni venti per il controllo della Perugina.


Capitolo I Perugia 1907

[n]el dicembre 1901, rilevò un negozio di drogheria posto in Perugia in via Alessi, dove si lavoravano confetture con sistema a mano. […] Nel 1904 […] iniziò l’impianto con sistema meccanico per la fabbricazione di confetture, sforzandosi di acquistare col proprio raziocinio utili cognizioni … ed essendo cliente per l’articolo fino di varie fabbriche di Milano e Torino, poté così essere ammesso a visitarle, e ciò gli permise di conoscere approssimativamente i vari sistemi di lavorazione.

I tentativi di Annibale di perfezionarsi nelle produzioni dolciarie trovano tuttavia un ostacolo nella mancanza di capitali, per ovviare alla quale egli riceve, forse già nel 1904, un piccolo prestito dai cognati41 e poi, nel 1906, si associa con un pastificatore assisano, Francesco Amici, titolare di un impianto sorto nel 188442. Quell’anno, egli ha così modo di recarsi all’Esposizione internazionale di Milano, ove “completa le sue cognizioni” e acquista dei moderni macchinari svizzeri. Nel successivo 1907, sciolta la precedente società, Spagnoli, “desideroso di dare sempre maggior incremento alla sua industria […] riuscì a convincere i signori Buitoni, Ascoli ed Andreani ad unirsi con lui”43. La natura polemica dello scritto da cui è tratta questa ricostruzione e la concisione con cui vengono trattate le vicende impongono una certa cautela nel considerare le relazioni che furono all’origine della nuova società e nell’attribuire la paternità della sua idea iniziale. Sicuramente, comunque, Spagnoli è il responsabile tecnico della Perugina in tutti i primi anni di vita della nuova azienda, che, di fatto, è la continuazione dell’originario laboratorio da lui acquistato alla fine del 1901 in via Alessi. Pur appartenendo ad un ambiente sociale di estrazione più modesta di quello dei suoi nuovi soci, comunque, anche Annibale non è immediatamente inquadrabile nella staticità dei tradizionali ceti commerciali e artigianali della città, dei quali, del resto, non è neanche originario. In definitiva, gli sforzi di aggiornare la propria attività e dotarla di impianti meccanici fanno anche di lui un interprete della vivacità che investe il capoluogo umbro, come tante altri parti del paese, agli inizi del secolo. Certamente, il livello tecnico della piccola fabbrica di via Alessi non va neanche troppo enfatizzato. Si tratta, al più, di un laboratorio semi-artigianale di produzioni dolciarie non specializzate, entrato in funzione, come si vedrà, in un 41 42

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Tale è l’ipotesi di Corvisieri Una famiglia di imprenditori cit. (a nota 36), pp. 5-6) sulle base di testimonianze orali. La Ditta Francesco Amici e figli in quegli anni amplia i suoi impianti, montando una macchina a vapore da 12-15 Cv, che alimenta varie attrezzature meccaniche e dando lavoro a sei operai più un garzone. Cfr. Fernando Mancini, L’Umbria economica e industriale. Studio statistico, Foligno, Camera di commercio ed arti dell’Umbria, 1910, p. 296. ASBP, FP, DGAD, b. 4, fasc. 25 “Annibale Spagnoli”, cc. 79-98.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

momento in cui anche in Italia, specie a Torino, cominciano a comparire le prime strutture industriali del settore e, piÚ in generale, nella penisola si consumano prodotti – prevalentemente svizzeri, francesi e olandesi – realizzati da grandi impianti integrati, dediti alla lavorazione meccanica su larga scala di articoli standardizzati.

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Capitolo II I Buitoni: Francesco e la sua famiglia

Capitolo II

I Buitoni: Francesco e la sua famiglia

II.1. La bottega di piazza Tra i quattro soci fondatori della S.n.c. Perugina per la fabbricazione dei confetti, come si è visto, un ruolo importante spetta a Francesco Buitoni, che della nuova società è titolare della firma sociale e della rappresentanza legale. Anche al di là di questa posizione, inoltre, il ruolo dei Buitoni di Perugia non tarderà a divenire preminente all’interno dell’azienda, soprattutto per effetto dell’ingresso del figlio di Francesco, Giovanni, nella gestione dell’impresa già prima della Grande guerra. Né il loro coinvolgimento rimarrà limitato alla sola Perugina, poiché nella seconda metà degli anni venti le difficoltà – cioè, di fatto, il fallimento – del pastificio di Sansepolcro, nella vicina provincia di Arezzo, su cui l’originario nucleo toscano dei Buitoni ha costruito la sua fortuna nel corso dell’Ottocento, metterà nelle mani di Francesco e dei suoi figli le sorti di tutte le principali attività commerciali della famiglia. Alla luce di quell’episodio e della riunificazione delle due aziende che ne consegue, la vicenda della stessa Perugina può a ben vedere essere letta come un segmento, ancorché centrale, della lunga parabola imprenditoriale che, attraverso oltre centocinquant’anni e cinque generazioni, fa di quello dei Buitoni un caso particolarmente longevo e per molti aspetti esemplare di capitalismo familiare. Senza sviluppare oltre, per il momento, simili considerazioni, appare nondimeno evidente come una descrizione della figura di Francesco non possa fare a meno di un breve cenno alla vicenda della famiglia da cui egli proviene e degli affari da essa condotti in Toscana nel XIX secolo. Del resto, è nella precedente storia del pastificio di Sansepolcro e della sua proprietà che va ricercata almeno una parte consistente delle motivazioni della sua presenza a Perugia e della posizione che egli occupa nella società cittadina agli inizi del secolo. La vicenda imprenditoriale dei Buitoni inizia nella Sansepolcro della prima metà dell’Ottocento, dove il nonno di Francesco, Giovanni Battista, nato nel 1769, svolge l’attività di barbiere – come tale almeno viene registrato dalla mairie napoleonica nel 1809 – e biliardiere, salvo probabilmente anche prestare servizio nella Guardia granducale dopo la fine della parentesi francese1. Di condizioni modeste, ma non umili (all’impianto del 1

ACSs, Se. VIII, Registro patenti di esercizio, fasc. 29, n. 77 e Registro passaporti A, fasc. 29,

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Catasto leopoldino, nel 1825 egli figura proprietario di una casa e due terreni “lavorati, vitati e oppiati” per circa quattro ettari2), Gio.Batta si sposa in età avanzata, nel 1820, con Giulia Boninsegni, di oltre vent’anni più giovane, da cui nel successivo quindicennio ha sei figli, nell’ordine Giovanni, Marco, Beatrice, Giuseppe, Nazzareno e Luigi. La Sansepolcro dei primi dell’Ottocento è una piccola comunità con poco più di seimila persone, metà dei quali abitanti all’esterno delle mura cittadine o dispersi nel contado circostante. Con un’agricoltura di fondovalle e un’economia montana non prive di potenzialità ma arretrate e incapsulate nei rapporti di proprietà tradizionali3, poche e ristrette attività artigianali e la staticità quasi assoluta del quadro sociale e imprenditoriale, l’Alta Valtiberina toscana soffre in quella fase di una stagione di stagnazione che si protrarrà fino ed oltre l’unificazione nazionale. Oramai lontani sono i fasti della Repubblica fiorentina, quando le manifatture della lana e della seta, legate rispettivamente all’allevamento appenninico e alla piantate di gelso della piana, avevano conferito alla Sansepolcro del Quattro e Cinquecento un notevole dinamismo commerciale. Di quelle tradizioni tre secoli più tardi rimane solo una pallidissima eco in un paio di modeste botteghe laniere e nella tessitura domestica sparsa nella campagna, in entrambi i casi, tuttavia, strettamente rivolte ormai al solo consumo locale. Analogamente, in forte declino sono la coltivazione e il commercio del guado, che un tempo costituivano forse la specializzazione più caratteristica della zona, tanto da rimanere immortalata nelle raffigurazioni arboree che animano gli sfondi dei dipinti pierfrancescani. La rimozione degli incintivi previsti dalla normativa francese del 1809 fa sì che la sua coltivazione entri in una crisi profonda sotto il restaurato governo granducale e, pur senza scomparire del tutto, languisca fino all’Unità. Di questo arbusto appenninico, da cui si ricava un pregiato indaco da tintura, una rilevazione compiuta nel 1866 non può oramai che constatare quanto siano “pochi quelli che lo seminano” e “pochissimi quello che fanno gl’incettatori”4.

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n. 112. Il reperimento di questi documenti è frutto della scrupolosa ricerca condotta per la sua tesi da Catia Del Furio, Il pastificio Buitoni a Sansepolcro dal 1928 al 1923: sviluppo imprenditoriale e dinamiche familiari, tesi di laurea, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Lettere, a.a. 1996-1997. ASAr, Catasto geometrico-particellare del Granducato di Toscana, Campioni, Comune di Sansepolcro, partt. F/634, G/573 e L930. Un rapporto dell’amministrazione imperiale del 1809 (ACSs, Se. VIII, Atti della Mairie al tempo francese, filza 27, c. 48) recita che “la comunità è suscettibile di moltissimi miglioramenti i quali tutti possono derivare dall’apertura delle strade di comunicazione e dall’alleggerimento della contribuzione fondiaria”. Storia di Borgo Sansepolcro dalla sua origine fino ai nostri giorni, in “La Valle Tiberina”, I, 50 (16 dicembre 1866), p. 372.


Capitolo II I Buitoni: Francesco e la sua famiglia

Accanto a ciò che resta di queste tradizioni produttive, le attività manifatturiere della cittadina si limitano poi a qualche modesto esercizio dedito al commercio o alla lavorazione di generi alimentari, ad alcune botteghe di cuoiai, fabbri, falegnami e simili, alla lavorazione del merletto5. Negli anni venti compariranno poi anche le produzioni di terraglie, maioliche e altri materiali da costruzione della famiglia Tricca, pure di dimensioni sostanzialmente artigianali, che costituiranno nondimeno, assieme appunto ai primi passi del pastificio Buitoni, il tenue riflesso locale del dinamismo economico del decennio successivo6. Frutto di un complesso articolato di fattori, la stagnazione che caratterizza Sansepolcro e la sua valle ha le sue cause più immediate – ed avvertite – nell’insufficienza dei collegamenti che la relegano alle estreme propaggini orientali del Granducato. Una via di comunicazione relativamente agevole con Arezzo (che pure soffre di problemi di isolamento fino all’apertura della ferrovia Roma-Firenze nel 1866), viene creata appunto durante la Restaurazione con la carreggiabile regia fatta costruire da Leopoldo II attraverso il passo dello Scopetone e la valle del Cerfone, mentre a nord e a est le strade per Urbino e la Romagna sono poco più che mulattiere e gli stessi spostamenti col resto della Valtiberina, oltre il confine pontificio, risultano lunghi e faticosi, specie per le merci ingombranti e con la cattiva stagione7.

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Sulle tradizioni produttive di Sansepolcro e dell’Alta Valtiberina toscana si veda Franco Polcri, Sansepolcro, città medicea di confine. Vicende di una crisi tra i secoli XVI e XVII, Sansepolcro, Arti Grafiche, 1987, pp. 8-12 e 54-59; Lorenzo Coleschi, Franco Polcri, La storia di Sansepolcro dalle origini al 1860, Sansepolcro, Associazione Vivere Sansepolcro, 1966, in part. pp. 149 e 178; Ivo Biagianti, Economia e società in Valtiberina e nell’Appennino toscano tra ‘700 e ‘800. La vendita dei patrimoni ecclesiastici, in La montagna tra Toscana e Marche. Ambiente, territorio, cultura, economia e società dal medioevo al XIX secolo, a cura di Sergio Anselmi, Milano, FrancoAngeli, 1985, pp. 275-313. Per un quadro dell’economia toscana nei decenni centrali del secolo XIX cfr. il I capitolo di Giorgio Mori, Dall’Unità alla guerra: aggregazione e disgregazione di un’area regionale, in La Toscana. Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, a cura di Giorgio Mori, Torino, Einaudi, 1986, pp. 3-342. Sull’Aretino, Ivo Biagianti, Evoluzione storica dell’industrializzazione nel territorio aretino, in Lavoro, industria e cultura. Storia delle trasformazioni del territorio aretino, a cura di Massimo Squillacciotti, Perugia, Electa, 1990, pp. 21-31 con la relativa bibliografia, Ildebrando Imberciadori, Economia toscana nel primo ‘800. Dalla Restaurazione al Regno 1815-1861, Firenze, Accademia economico agraria dei Gergofili, 1961, in part. p. 161. Per Sansepolcro si vedano anche Claudio Cherubini, Gli opifici industriali della Valtiberina toscana dagli inizi dell’Ottocento all’Unità di’Italia, in Pagine altotiberine, II (1998), 6, pp. 61-78, nonché Emanuele Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, Firenze, Alessini e Mazzoni, 1843, vol. V, p. 127 e Amintore Fanfani, La popolazione della diocesi di Borgo Sansepolcro dal 1681 ad oggi, Milano, Vita e pensiero, 1932. Cfr. Attilio Zuccagni Orlandini, Atlante geografico, fisico e storico del Granducato di Toscana, Firenze, Stamperia Granducale, 1832, tav. XIX e Gian Franco Di Pietro, Le struttu-

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È in un simile contesto, statico e appartato, che i Buitoni intraprendono la loro carriera di pastificatori nel terzo decennio dell’Ottocento, con un’attività che all’inizio, e probabilmente per vari anni, non emerge particolarmente nell’ambiente in cui si svolge. Sulle origini e su tutti i primi decenni del pastificio le notizie certe, basate cioè su precisi riscontri documentali, sono, per la verità, assai scarse; mentre esiste tutta una vasta aneddotica, frutto in larga misura di memorie familiari e aziendali, difficilmente verificabili e soggette spesso a distorsioni, sia casuali sia legate alle esigenze di creare un’immagine dell’impresa in epoche successive8. Ne è dimostrazione la data stessa di fondazione dell’azienda, che la tradizione ha a lungo voluto risalisse al 1827 (al punto da usare a lungo questa data nelle confezioni dell’azienda), probabilmente per simmetria con la quasi rifondazione dell’impresa avvenuta, come si vedrà, esattamente cento anni dopo, a seguito del passaggio del pastificio al ramo cadetto, quello perugino di Francesco appunto, della famiglia. In realtà, ciò che oggi è disponibile al proposito è un contratto del 15 luglio 1828 di affitto dei macchinari e di

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re territoriali, in Id. e Giovanni Fanelli, La Valle Tiberina toscana, Arezzo, Ente provinciale per il turismo. 1973, pp. XIX-XL. Il problema dell’isolamento della Valtiberina verrà risolto solo con la costruzione della ferrovia Arezzo-Fossato di Vico, che nel 1886 collega trasversalmente la Roma-Firenze alla Roma-Ancona passando per Sansepolcro e Città di Castello. Più in generale sul sistema ferroviario umbro cfr. Stefano De Cenzo, La centralità mancata. La questione ferroviaria in Umbria (1845-1927), Perugia, Crace, 2004. Si veda, al riguardo, l’attenta disanima di queste notizie condotta da Giampaolo Gallo, Dagli esordi alla seconda guerra mondiale, in “Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, contributi di Renato Covino, Paola Boschi e Daniele Orlandi, Electa Editori umbri associati, 1990, pp. 9-31, nonché, per le problematiche relative alla costruzione dell’immagine dell’impresa, Francesco Chiapparino, Famiglia e impresa: il pastificio Buitoni di Sansepolcro tra Ottocento e primo Novecento, in “Proposte e ricerche”, XIII (2000), 44, pp. 111-129. Gallo individua in una lettera del 1925 di Antonio Buitoni al cugino Guido, contente riferimenti ai ricordi della sorella maggiore Carolina (appartenente alla terza generazione), l’origine di parte delle notizie sugli esordi dell’azienda. Queste notizie sono state poi riprese dal ds. inedito del responsabile delle relazioni esterne dell’impresa pastaria toscana negli anni sessanta, Milton Chieli [Storia dei Buitoni], Sansepolcro, s.d. (ma ca. 1963, conservato in ASBP, FB, DGAD, b. 76, fasc. 885 e b. 87, fasc., 969), e sono alla base di molte successive ricostruzioni della storia aziendale, quali ad esempio Un’antica industria nella terra di Piero, dattiloscritto inedito e senza data [1963]; Marco Buitoni e Celestina Buitoni, I proficui risultati di una piccola industria, Sansepolcro, 1970, o la stessa autobiografia di Giovanni Buitoni jr, Storia di un imprenditore, Milano, Longanesi, 1973, per le parti riguardanti la vicenda familiare nell’Ottocento. A questo filone, anche se con maggiore attenzione alle recenti acquisizioni storiografiche, si ricollega anche il volume di Luca Masia, Buitoni, la famiglia, gli uomini, le imprese, Cinisello Balsamo, Silvana ed.Volumnia, 2007.


Capitolo II I Buitoni: Francesco e la sua famiglia

rilevamento della gestione della bottega del pastaio fiorentino Antonio Betti da parte dei coniugi Buitoni9. Il documento è privo di riferimenti ad atti di anni precedenti e indica solamente nell’8 giugno, dunque poco più di un mese prima, la data dell’effettiva cessione del piccolo pastificio ai nuovi gestori. Quest’ultimo era “un negozio ad uso di Fabbrica di paste, corredato di tutti gli attrezzi ed utensili inservienti la fabbricazione e vendita di dette paste” che Betti “concede in affitto ho sia a titolo di locazione e conduzione” al prezzo di una lira al giorno da pagarsi anticipatamente ogni due mesi. Il canone include probabilmente anche il costo di locazione dei locali, di proprietà di Leonardo Pichi, membro di una delle famiglie eminenti del piccolo centro toscano. Il contratto prevede l’accensione a garanzia dei macchinari contenuti nella bottega di due ipoteche sui terreni “oppiati e vitati” cui si è già fatto cenno, il cui valore viene giudicato notevolmente maggiore di quello delle attrezzature rilevate. Tutto ciò da un lato sostanzia il titolo di “possidenti” attribuito dal documento ai Buitoni e, dall’altro, appare un po’ in contrasto – anche se non necessariamente in contraddizione – con il sacrificio che le memorie familiari vogliono Giulia Boninsegni facesse della sua collana di corallo, data in pegno per avviare l’attività10. Quanto alla bottega, viene descritta in un inventario allegato al contratto, redatto da Franco Tricca, un altro dei protagonisti, come si è accennato, della ristretta vita economica della cittadina toscana. Dalla lista emerge il quadro di un’attività di tipo tradizionale, strettamente artigianale e di modeste dimensioni, ma completa nella sua strumentazione. Disposto su tre locali, il pastificio consta di un primo vano adibito anche a negozio per la vendita e non privo di una sua eleganza nell’arredo, col grande banco di noce, due scaffalature coperte da tende e una stadera con il romano di ottone. Nella stessa stanza stanno anche due “edifizi da pasta”, vale a dire i torchi a vite in cui la pasta gramolata viene spinta attraverso le trafile (disponibili in un assortimento di un centinaio di tipi) che danno la forma

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Copia completa dei documenti relativi all’affitto e al successivo completo rilevamento della bottega di Sansepolcro, i cui originali sono presumibilmente presso la villa Buitoni oggi di proprietà Nestlé, è presso l’ISUC, AG, b. 79, fasc. 423 “Casa Museo Buitoni / Sansepolcro”. Ulteriori copie del contratto sono anche in ASBP, FB, DGAD, b. 99, fasc. 1044. Da indagini svolte presso l’archivio storico del Comune di Sansepolcro, ACSs, Se. XXVII, Amministrazione Monte Pio, fasc. 7 “Fascio dei bilanci diversi, 1789-1844” e fasc. 8 “Campioni dei debitori e creditori del Monte”, non è peraltro emersa traccia dell’impegno del ‘vezzo’ di Giulia, della cui medaglietta, raffigurante una madonna, esiste una fotografia realizzata ovviamente in epoche successive e riprodotta in Masia, Buitoni cit. (a nota 8), p. 19.

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finale dei maccheroni finiti. In un secondo vano sono disposte la madia per il primo impasto del semolino e la gramola per la sua ulteriore lavorazione con la stanga – una trave a sezione triangolare fissata con un’estremità al muro e disposta orizzontalmente sopra un tavolo, attraverso la quale, sedendosi ad intermittenza, l’artigiano batte l’impasto per ammorbidirlo ed eliminarne l’aria. La terza stanza è prevalentemente adibita alla preparazione delle farine e delle semole, oltre che a ripostiglio dei graticci per stendere il prodotto finito ad asciugare. Completano la bottega un ripostiglio per le materie prime, un assortimento di stanghe e una notevole quantità di attrezzature minori. Nel suo insieme, si tratta insomma del tipico pastificio artigiano, quale viene differenziandosi dalla bottega del fornaio a partire dal Seicento, in seguito appunto alla diffusione della gramola e del torchio. Bisogna tener presente, nondimeno, che la pasta all’epoca è ben lungi dal costituire il prodotto vastamente diffuso e relativamente comune che diventerà in Italia nei decenni dopo l’Unità, allorché si trasformerà abbastanza rapidamente in una dei simboli stessi dell’identità dietetica e più in generale culturale della penisola. Nota nel mondo antico, romano e orientale, essa viene prodotta in quantità considerevoli inizialmente, nel Medioevo, soprattutto dagli arabi, ed in particolare in Sicilia, salvo diffondersi prevalentemente nell’Italia Meridionale, oltre che a Genova, in virtù della centralità che questa ha nel mondo mediterraneo. Tradizioni produttive di varia – e spesso oscura – origine e prevalentemente legate all’uso di grano “morbido”, più tipico dei territori continentali, si stabiliscono per altro sempre tra Medioevo e prima età moderna anche altrove in Italia (ad esempio nel Bolognese) e in Europa (ad esempio in Alsazia). La prima vasta affermazione dei consumi di pasta, e conseguentemente della produzione, si verifica tuttavia solo nella Napoli del XVII secolo, con la trasformazione degli strati popolari di quella che nell’Europa dell’epoca poteva definirsi una vera e propria megalopoli, da “mangiafoglie” a “mangiamaccheroni”, secondo l’ormai classica ricostruzione di Emilio Sereni11. Da allora l’artigianato pastario prende a diffondersi, lentamente tuttavia, e raramente occupando la posizione privilegiata che ha nelle produzioni alimentari partenopee. Sin dalla fine del Seicento, tuttavia, in una località non distante da Sansepolcro come ad esem-

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Emilio Sereni, Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno: i Napoletani da “magiafoglia” a “mangiamaccheroni”, in Id., Terra nuova e buoi rossi, e altri saggi per una storia dell’agricoltura europea, Torino, Einaudi, 1981, pp. 292-371. Sulla storia delle paste alimentari si veda Silvano Serventi e Francoise Sabban, La pasta. Storia e cultura di un cibo universale, Roma-Bari, Laterza, 2000, in part. capp. I-III; nonché, per l’Italia, anche Franco La Cecla, La pasta e la pizza, Bologna, il Mulino, Bologna, 1998.


Capitolo II I Buitoni: Francesco e la sua famiglia

pio Foligno, sono documentate botteghe con una dotazione di attrezzature tecniche non sostanzialmente troppo differenti, anche se meno abbondanti, di quella acquisita dai Buitoni12. Questa lenta diffusione, che spesso riunifica tradizioni artigianali precedenti, conoscerà una prima accelerazione proprio nella prima metà dell’Ottocento, allorché nei centri di maggior produzione si compiono i primi – non sempre felici – tentativi di meccanizzazione (valga per tutti l’“uomo di bronzo” napoletano13), e soprattutto poi nella successiva seconda metà del secolo, quando si procede alla vera e propria industrializzazione del settore. Quest’ultima, per altro, vedrà inizialmente le produzioni italiane, ed in particolare quelle meridionali, sopravanzate inizialmente dalle prime moderne fabbriche del settore dell’Italia Centro-Settentrionale e soprattutto della Francia Meridionale, anche se già attorno al volgere del ‘900 il Napoletano riaffermerà la propria posizione di primo piano nel settore industriale14. All’interno di questo quadro, insomma, appare evidente come la bottega rilevata dai Buitoni, pur non rappresentando inizialmente un’impresa particolarmente innovativa, si inserisca nell’ondata di espansione che il comparto pastario conosce nell’Ottocento e costituisca un’attività non del tutto ordinaria né priva di rischi, specie se si considera poi la perifericità di una piccolo centro come Sansepolcro – in cui, non a caso, ad avviare l’iniziativa è stato il Betti, un artigiano proveniente dalla capitale. Al rilevamento del pastificio-negozio del 1828 fanno seguito lunghi decenni, fino ed oltre l’unificazione nazionale, per i quali le informazioni sono piuttosto scarse e consentono di tracciare solo un quadro sommario delle vicende della famiglia e dell’evoluzione dei suoi affari. Sicuramente, poco dopo il contratto d’affitto, la bottega, o meglio in primo luogo i suoi macchinari, vengono definitivamente acquistati dai Buitoni, che si avvalgono a questo fine di una delle clausole dell’accordo del 1828. Nel marzo del 1831, infatti, Antonio Betti rilascia da Firenze la quietanza dell’avvenuta liquidazione delle 2.087,14 lire del valore stimato degli impianti, oltre che della regolare corresponsione del canone di locazione sino ad allora dovutogli. Al quarto decennio dell’Ottocento risalirebbero poi i viaggi compiuti in Puglia da parte di Gio.Batta per approvvigionarsi di grano

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Cfr. Gabriele Metelli, Per una storia della produzione meccanica di paste alimentari nel Seicento, in “Proposte e ricerche”, X (1987), 18, pp. 22-31. Serventi e Sabban, La pasta cit. (a nota 11), p. 178. Sul settore napoletano cfr. Paola Gargiulo, Lea Quintavalle, L’industria della pastificazione a Torre Annunziata e Gragnano, in Manifatture in Campania, Napoli, Guida editori, 1983, pp. 152-224 e Silvio De Majo, I pastifici di Gragnano e Torre Annunziata nei secoli XIX e XX, in Comunità di imprese. Sistemi locali in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di Franco Amatori e Andrea Colli, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 183-217.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

duro, una circostanza questa che, considerate le condizioni delle vie di comunicazione dell’epoca, le memorie familiari tingono di colori epici con l’intento sottolineare l’attenzione dei Buitoni per la qualità della propria produzione, ma che di fatto non ha trovato finora conferme documentarie. L’attenzione alla qualità, nondimeno, è attestata anche da altre vicende, attorno alle quali i riscontri sono un po’ più solidi15. Anzitutto, agli inizi degli anni trenta, il primogenito Giovanni viene inviato a fare il suo apprendistato a Firenze, presso lo stesso Antonio Betti, che di fatto rimane vicino alla famiglia di Sansepolcro e in certo senso le fa da guida nei suoi primi passi in un settore produttivo relativamente nuovo e poco diffuso come quello pastario. Giovanni torna a Sansepolcro nel 1837, a quindici anni, con un’esperienza che avrà un peso non secondario nelle vicende successive. In secondo luogo, in quegli stessi anni comincia a lavorare nella bottega toscana un pastaio genovese, Giovanni Parma, il quale, dopo essere stato impiegato in alcune “fabbriche” di Arezzo, apporta a quella dei Buitoni le sue preziose conoscenze tecniche. Parma resterà fino alla morte, avvenuta nel 1855, presso costoro, condividendone il lavoro quotidiano al pastificio e la stessa abitazione16. Quando nel 1841 muore, Gio.Batta lascia insomma alla moglie e ai figli un esercizio ormai solido e ben avviato, anche se ancora di natura strettamente artigiana. Già l’anno prima, peraltro, pare che Giovanni riceva dal padre l’indicazione di aprire, in futuro, una seconda bottega di pasta a Città di Castello, al di là del confine con lo Stato pontificio, sempre con l’appoggio della famiglia Betti, in particolare collaborando col figlio di Antonio, Agostino. I tempi dell’iniziativa sono incerti, ma al più tardi nel 1854, dopo essere passato al figlio di quest’ultimo, Raffaele, l’esercizio sarà affittato dai Buitoni, che nel 1856 infine lo acquisiranno definitivamente, rilevandolo dall’ospedale della cittadina umbra, cui è passato alla morte del proprietario17. L’apertura di un pastificio a Città di Castello, la cui gestione viene poi assunta dal terzogenito di Giobatta, Giuseppe, non rappresenta comunque un salto di qualità, né dal punto di vista tecnico-produttivo, dal momento che si tratta di un’attività artigianale del tutto analoga ed anzi forse più piccola di quella dei Sansepolcro, né da quello dei mercati a cui consente l’accesso, essendo la cittadi-

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In particolare dalla memoria del 1895 di Giuseppe Buitoni, figlio di Gio.Batta, e contenuta in ISUC, AG, fasc. 423, “Dati riguardanti l’origine e altri particolari sui primordi della nostra Ditta desunti da disposizioni dello zio Beppe il 31 maggio 1895". La presenza di Parma è anche attestata da ADSs, Registro dello stato delle anime della Cattedrale, 1841, c. 47, e Registro dei morti, 1855, che ne riporta appunto il decesso presso la casa dei Buitoni. ISUC, AG, fasc. 423, “Dati riguardanti l’origine e altri particolari sui primordi della nostra Ditta desunti da disposizioni dello zio Beppe il 31 maggio 1895".


Capitolo II I Buitoni: Francesco e la sua famiglia

na umbra un centro sempre interno all’Alta Valtiberina e di dimensioni non dissimili dalla sua controparte toscana. Al contrario, anzi, la gemmazione delle attività della famiglia può essere letta in una logica del tutto tradizionale, che privilegia la dimensione locale e la diversificazione degli investimenti in funzione degli interessi ereditari, e che si potrebbe definire patrimoniale più che legata ad una moderna prospettiva imprenditoriale industriale. Di senso opposto, al contrario, vale a dire orientata a concentrare le risorse su di una singola iniziativa innovativa, è il trasferimento delle lavorazioni pastarie dalla bottega di piazza di Sansepolcro ai seminterrati del non distante palazzo Mugnoni, in via della Fiorenzuola, che pure dovette avvenire attorno alla metà del secolo. Il passaggio in locali più vasti, che si riveleranno capaci di contenere la stessa fase iniziale dello sviluppo industriale dell’impresa negli ultimi due decenni dell’Ottocento, indica quanto meno un dinamismo della gestione industriale del pastificio, benché evidentemente non è detto che nella nuova sede l’ampliamento delle superfici adibite alla fabbricazione – e con esse dei macchinari e dei volumi di produzione – non sia comunque avvenuto per gradi e sotto la spinta di esigenze estranee ad un definito programma di espansione e modernizzazione della capacità produttiva. II.2. Da artigiani a industriali A riprova di queste considerazioni, merita di essere ricordato come il trasferimento del pastificio in via della Fiorenzuola non sembra accompagnarsi immediatamente ad un significativo aumento dell’attività produttiva: così ad esempio, una pubblicazione locale, nell’indicare le attività economiche di Sansepolcro, menziona la coltivazione degli ortaggi e la fabbricazione di vasi ordinari di creta, ma non quella di pasta; mentre del resto anche Giuseppe Buitoni, nelle sue memorie della fine del secolo, ricorda come “[p]rima (degli anni settanta) il suo giro d’affari o la produzione era assai piccola”18. Dal punto di vista qualitativo, al contrario, le lavorazioni pastarie dell’azienda sembrano raggiungere nel primo decennio unitario un ottimo standard, che consente ai Buitoni, non solo di partecipare con successo alle esposizioni industriali di Firenze (1861) e Sansepolcro (1863), ma di vincere un’inaspettata medaglia di bronzo all’Esposizione universale di Parigi del 1867, tanto più sorprendente se si considera che in realtà solo a partire dagli anni ottanta, grazie alla nuova produzione di paste speciali, l’impresa comincerà ad entrare stabilmente nel circuito delle ma18

Storia di Borgo Sansepolcro cit. (a nota 4).

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nifestazioni nazionali e internazionali19. Sempre sotto il profilo qualitativo, inoltre, è da segnalare come attorno al 1870 si abbia notizia – invero da verificare – dell’affitto da parte di Luigi Buitoni di un mulino in Puglia, presto rescisso per l’insorgere di problemi fiscali, ma che di per sé potrebbe, da un lato, essere indicativo dell’orientamento verso le lavorazioni di semole di grano duro – e perciò di una qualità superiore a quella delle comuni botteghe artigiane del Centro Italia – e, dall’altro, costituire un riscontro della già menzionata vicenda degli avventurosi convogli di grano pugliese, pur collocandola in una fase più tarda rispetto a quella cui fa riferimento la tradizione aziendale. Al termine di questa prima fase di crescita, ancora sostanzialmente artigianale o semi-artigianale, si pone infine, nel 1878, l’apertura del pastificio di Perugia, in società con la preesistente ditta locale dei fratelli Sabatini e alla cui direzione è destinato il figlio quartogenito di Giovanni, quel Francesco Buitoni che trent’anni dopo si dedicherà alla fondazione della Perugina. Benché a quella data l’azienda abbia già una clientela nazionale, soprattutto lombarda e campana, nonché contatti con l’estero (in particolare in Belgio), il modello di crescita è ancora quello tradizionale, basato sulla diversificazione territoriale di attività artigianali e, al più, commerciali. Il pastificio di Perugia, infatti, pur avendo un’ottima localizzazione nella centrale piazza del Sopramuro (oggi piazza Matteotti) e segnalandosi già all’esposizione regionale del 1879 per aver migliorato e ampliato la produzione della pure già rinomata ditta perugina, rimane un esercizio di piccole dimensioni, appena un laboratorio e un punto vendita, strutturalmente inadatto a produzioni industriali che del resto non sarà mai destinato ad avviare20. Parallelamente a questi avanzamenti, tutto sommato abbastanza lenti e si è detto prevalentmente qualitativi, il giro d’affari della famiglia Buitoni conosce negli anni attorno all’Unità e nei decenni immediatamente successivi una cospicua espansione in altri settori di attività, solo in parte correlati e affini a quello pastario. Un libro contabile conservato nell’Archivio storico Buitoni Perugina, riguardante un arco di tempo dal 1855 al 1890 circa, mostra come la bottega di piazza si trasformi, presumibilmente dopo il trasferimento del pastificio in via Fiorenzuola, in un fiorente negozio di drogheria, attivo sia nel commercio al dettaglio che in quello all’ingrosso. L’emporio rifornisce di pasta e generi alimentari (caffè, zucchero, burro,

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Giovanni Sacchetti, Sansepolcro, alta Valle Tiberina, Sansepolcro, Tipolit. Biturgense,1888, p. 38. Luigi Monaldi, Le paste da minestra, in “Giornale illustrato dell’Esposizione provinciale umbra”, X, 12 ottobre 1879, p. 82.


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formaggi), ma anche di articoli quali farina, olio da lanterna o sapone, le abitazioni di molte famiglie eminenti di Sansepolcro, nonché le istituzioni locali – dall’orfanatrofio alla caserma dei regi carabinieri dopo l’Unità, a varie comunanze religiose e allo stesso Municipio, per quanto concerne in particolare il combustibile da illuminazione21. Il registro, contenente i conti correnti della clientela, mostra non solo un crescente volume di vendite, ma anche la concessione di larghe dilazioni di pagamento sulle merci vendute, e non è da escludere che una simile attività di credito, giustificata di per sé dalla scarsità di circolante che deve affliggere una territorio periferico come la Valtiberina toscana, si estenda tuttavia anche al di là dei commerci dell’emporio, come sembrano far intuire i numerosi atti di pignoramento di cui beneficia la famiglia ai danni di piccoli proprietari e contadini specie dalla metà degli anni settanta22. Al di la di questi sviluppi, ad ogni modo, dagli anni sessanta i Buitoni sembrano trovare un fertile terreno d’affari soprattutto nel commercio delle farine, che li porta ad affittare già prima del 1868 il mulino di San Leo alla Caduta, poco fuori le mura di Sansepolcro, acquistato poi dalla famiglia Alberti nel 1879 per 12.500 lire23. Durante gli anni settanta, d’altronde, il giro di interessi dei Buitoni si consolida e si allarga soprattutto in ambito locale, portando la famiglia alla ribalta della vita economica e sociale altotiberina. Nel 1874 essi aprono, inizialmente con altri soci, un’officina meccanica, che da un lato si occupa (o meglio si occuperà soprattutto negli anni successivi) dei macchinari delle loro attività produttive, dall’altro radica ulteriormente la loro presenza nell’economia locale dedicandosi alla riparazione, alla modifica, al noleggio e alla vendita di attrezzature per l’agricoltura, come trebbiatrici, sgranatrici, pompe, torchi e carri24. Negli anni successivi l’impresa arriverà anche a produrre macchine in proprio, sia pure dei tipi più semplici e con

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ASBP, FB, DA, b. 1, fasc. 1, Crediti diversi della bottega di piazza. ANDAr, Aloigi Luzzi, a.a. 1876-1899. Si tratta di decine di atti di pignoramento di proprietà mobili e immobili, cessioni di mutui a interesse, sottoscrizioni di garanzie ipotecarie da parte di debitori e saldi di vertenze economiche. ANDAr, Galli, 1868, Prot. XIII, 24, Transazione quietanza, 8 giugno 1868. Della molitura, come sembra potersi desumere dalla documentazione relativa alla tassa sul macinato oltre che dalla citata vicenda del mulino pugliese, pare si occupi soprattutto Luigi Buitoni. Cfr. ACSs, Movimento d’affari, 1868, cat. I-XIII, fasc. 732, Esercizio legge della Tassa sul Macinato. Per l’acquisto dell’impianto cfr. ANDAr, Luzzi, 596/1878, rep. 580, 28 dicembre 1878 e ASAr, Catasto geometrico-particellare del Granducato di Toscana, Suppl. ai campioni, Sansepolcro, n. 3749, part. 48, sez. C. La ditta, in società con Collacchioni, Giovagnoli e Biozzi, passerà completamente ai Buitoni nel 1884. Cfr. ISUC, AG, fasc. 423, “Dati riguardanti l’origine e altri particolari sui primordi della nostra Ditta desunti da disposizioni dello zio Beppe il 31 maggio 1895".

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componenti acquistate altrove, specializzandosi in particolare nella realizzazione di piccole trebbiatrici a vapore, che vengono premiate tra l’altro in alcune esposizioni nazionali del settore. Soprattutto, poi, nel 1881, i Buitoni realizzano vasti investimenti fondiari, con l’acquisto di oltre 95 ettari di terreni dell’asse ecclesiastico attorno al centro toscano, parte dei quali confluirà poi in un’ampia tenuta agraria25. Questa serie di attività, ad un tempo diversificata e dotata di numerosi momenti di integrazione, rappresenta ancora negli anni settanta, come si è detto, un complesso d’interessi tutto sommato piuttosto tradizionale, tipico cioè della realtà prevalentemente agraria di gran parte della provincia italiana, che per la ristrettezza dei mercati e l’arretratezza del suo tessuto economico, offre scarse opportunità di specializzazione degli investimenti in senso propriamente industriale. Un orientamento in quest’ultima direzione emerge al contrario nel decennio successivo, e può essere inserito nel più generale quadro di crescita in senso manifatturiero che si registra in tutto il nuovo Stato unitario negli anni ottanta. Il primo passo in questo senso viene fatto nel 1882, con la trasformazione del mulino di San Leo in un impianto a cilindri “a sistema ungaro-americano”, su progetto della ditta Debes di Norimberga, dotato di una turbina idraulica Gotha da 20 cv. E una macchina a vapore ausiliaria Compound da 30 cv. Il riferimento al “sistema ungaro-americano” non è gratuito, poiché appunto in questi paesi ha preso il via nei decenni centrali dell’Ottocento quella vera e propria “rivoluzione molitoria”, che porta alla sostituzione dei tradizionali impianti a palmenti (basati cioè su macine di pietra) con sistemi di cilindri accoppiati, molto più efficienti intermini di rese quantitative e controllo della qualità del macinato, specie nella lavorazione dei grani duri. L’avvento della nuova tecnologia, che segna nel comparto l’avvento di un assetto propriamente industriale – con tutte le conseguenze che questo comporta sotto il profilo delle dimensioni minime degli investimenti e dei volumi di lavorazione, dell’utilizzo di materiali metallici al posto di legno e pietra, del ricorso a nuove fonti energetiche, della necessità di un’attenta progettazione e manutenzione degli impianti, ecc. –, investe l’Italia con un certo ritardo rispetto ai paesi più sviluppati. Nel 1881, ad esempio, i molini a cilindri di nuova concezione nella penisola sono appena una decina, il prevalenza localizzati nel Settentrione, ove la concentrazione della domanda e l’integrazione dei mercati giustificano i consistenti investimenti richiesti da tali impianti. Nel corso degli anni ottanta, poi, si assisterà ad una significativa diffusione di queste strutture

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ASAr, Catasto, cit., Suppl. n. 5032 e 5252-5255.


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produttive, con la realizzazione di oltre un migliaio di nuovi impianti, anche se di fatto l’inferiorità italiana nella nuova tecnologia verrà ad essere superata solo verso la fine del secolo, quando compaiono anche i primi costruttori meccanici specializzati in questo tipo di attrezzature26. La realizzazione del nuovo mulino di San Leo, insomma, rappresenta un passo importante per i Buitoni, tanto impegnativo dal punto di vista tecnico e finanziario, quanto significativo da quello propriamente imprenditoriale, segnando il passaggio ad una strategia di investimento volta alla specializzazione e alla concentrazione (sia territoriale che settoriale) delle risorse su di un progetto propriamente industriale, con tutte le necessità di immobilizzazione di grosse quote di capitale fisso che ciò comporta. Parallelamente alla realizzazione del nuovo mulino, Giovanni Buitoni, che da tempo oramai è il leader indiscusso della famiglia, intensifica i suoi sforzi per arrivare alla principale innovazione di prodotto di questa fase, la pastina glutinata, messa in commercio attorno al 1884 e insignita, due anni più tardi della medaglia d’oro all’Esposizione di scienze ed arti industriali di Parigi. Non è ben chiaro come egli rivolga la sua attenzione al glutine, la miscela di proteine contenuta nei cereali, né se veramente, come vuole la tradizione di famiglia, egli si dedichi alla lettura del De frumento, la memoria del medico bolognese Jacopo Bartolomeo Beccari, che per primo individua nel 1728 questa componente dei cereali e ne illustra il metodo di estrazione in laboratorio27. Sta di fatto comunque, che nella prima metà degli anni ottanta, forse imitando e migliorando anche precedenti prodotti francesi, Giovanni mette a punto un originale procedimento produttivo che consente l’utilizzazione commerciale di questa “carne vegetale”, ossia da un lato la sua estrazione in grosse quantità dalla farina di frumento e dall’altro la sua riutilizzazione in prodotti pastari di alto valore nutritivo. Merita di essere sottolineato, d’altra parte, che è solo sulla scorta degli avanzamenti della chimica e della fisiologia verificatisi attorno alla metà dell’Ottocento che si comincia ad avere una visione coerente della nutrizione umana e una percezione chiara dell’importanza delle proteine al suo interno. E solo nell’ultimo trentennio del secolo queste scoperte si traducono in prodotti di tipo commerciale, a cominciare dai rivoluzionari

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Sulle trasformazioni delle tecnologie molitorie cfr. Richard Perren, Structural Change and MarketGrowth in the Food Industry: Flour Milling in Britain, Europe, and America, 18501914, in “Economic History Review”, 2nd Se., XLIII (1990), 3, pp. 420-437; Marco Ferrazza, Cesare Saldini e l’industria molitoria, in Storia in Lombardia, (1987), 2, pp. 75101, in part. p. 95. La memoria venne per la prima volta pubblicata nel 1745 negli “Atti Commentari dell’Accademia di Bologna”.

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estratti di carne di Justus von Liebig, che di quegli avanzamenti teorici è il padre, fino alle prime minestre di legumi in polvere che lo svizzero Julius Maggi mette sul mercato nel 1884, cioè in definitiva più o meno contemporaneamente alla pastina glutinata, la quale può perciò a buon diritto inserirsi nella prima generazione dei prodotti della moderna tecnologia alimentare28. Ad un simile risultato Giovanni Buitoni arriva, secondo la tradizione aziendale, dopo estenuanti tentativi, risolvendo tutte le difficoltà connesse alla separazione dall’amido del glutine e poi al trattamento e al dosaggio di questa sostanza, cogliendo un successo tanto più notevole se si considera il carattere pratico della sua formazione, l’isolamento dell’ambiente alto tiberino e la sua stessa condizione di imprenditore ormai maturo con una consolidata posizione nella società locale. Da allora, fino alla seconda metà del Novecento, la pastina glutinata rappresenterà una delle specialità di punta dell’azienda, che con essa si dota di un prodotto attorno a cui far ruotare tutta una vasta strategia di marchio e in definitiva la propria stessa immagine di impresa legata alla dietetica e all’alimentazione speciale29. Significativamente, d’altro canto, il nuovo articolo si rivolge a “bambini, malati e convalescenti”, da utilizzare “al consommé volendo una minestra molto nutriente, leggera e pronta alla cottura”. La sua commercializzazione, cioè, rimane estranea alle preoccupazioni – presenti al contrario nei citati casi di Liebig e Maggi – per le vastissime sacche di sottonutrizione diffuse a livello popolare, che costituiscono il tratto più evidente del drammatico quadro dei consumi italiani dell’epoca. Ciò è indicativo di come comunque il prezzo della nuova specialità, e per converso ovviamente il potere d’acquisto diffuso delle classi popolari, siano tali da rendere la pastina glutinata un prodotto da ceti medi, per quanto anche di modesta estrazione, o comunque riservato all’alimentazione speciale, qual è quella di bambini e malati. Coerentemente con i limiti e i ritardi dello sviluppo economico italiano, insomma, ci si orienta così, più che verso un articolo per il consumo di massa, quali sono gli estratti Liebig o le minestre Maggi nell’Europa Centro-Settentrionale, verso un prodotto di nicchia, una li-

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Su Liebig, Maggi e le innovazioni della tecnologia alimentare della seconda metà dell’Ottocento cfr. Hans-Jurgen Teuteberg, Die Rolle des Fleischextraktes für die Ernährungswissenschaften und die Aufstieg der Suppenindustrie, Stuttgart, Steiner, 1995, e Martin Schärer, Analysis of Nutritional Status, the Food Industry and Product Innvoation in the Late Nineteenth Century with Reference to Prefabricated Pulse Powder, in Food, Technology Science and Marketing, a cura di Adel P. den Hartog, East Linton, Tuckwell, 1995, pp. 19-35. Sulla pastina glutinata, nonché sulla scoperta dell’incompatibilità al glutine nel secondo dopoguerra e sull’invecchiamento del prodotto che ne consiglierà il ritiro, si veda ASBP, FB, DGAD, b. 25, fasc. 432 e b. 66, fasc. 799.


Capitolo II I Buitoni: Francesco e la sua famiglia

nea di specialità medico-dietetiche, debitamente differenziate a seconda del quadro clinico e delle specifiche esigenze del consumatore30. Dotatasi di moderni impianti di molitura e messa a punto, accanto a quella comune, anche una produzione di marca originale e prestigiosa, la Buitoni supera inoltre i gravi problemi legati all’isolamento della sua localizzazione grazie all’apertura nel 1886 della ferrovia Arezzo-Fossato di Vico, che taglia orizzontalmente la penisola collegando la Roma-Ancona alla Roma-Firenze e collega Sansepolcro e Città di Castello alle principali direttrici di traffico nazionali31. Già in precedenza, cioè probabilmente dai tardi anni settanta, ci si impegna poi nell’ammodernamento delle attrezzature del pastificio. Accanto ai torchi di legno vengono introdotti quelli a vite metallica, a cui si accompagnano col tempo impastatrici, tagliatori, montacarichi e soprattutto le prime attrezzature per l’asciugatura artificiale della pasta, che mediante caloriferi, ventilatori e giostre girevoli cominciano a svincolare la produzione dai capricci della meteorologia. Nonostante questi sforzi, tuttavia, quello realizzato nel laboratorio di via della Fiorenzuola rimane con tutta probabilità un processo di lavorazione di tipo semi-artigianale. Una sua evoluzione in senso più decisamente industriale viene infatti ostacolata tanto dalle difficoltà e dai costi di utilizzare energia inanimata (sebbene venga comunque installata una macchina a vapore da 12 cv), quanto in generale dalla scarsa funzionalità di locali che restano quelli del seminterrato di un palazzo cittadino. È così che tra 1892 e 1894 deve porsi come irrinunciabile la costruzione di un nuovo, moderno stabilimento fuori le mura. Collegato al molino a cilindri [l]’edificio, sito – recita un opuscolo per l’Esposizione Generale di Torino del 1898 – in posizione saluberrima, è a tre piani con vasti locali ben arieggiati ed igienici che corrispondono a tutte le esigenze dei moderni sistemi di fabbricazione delle paste, ed il cui macchinario è dei più perfetti. La forza motrice idraulica è comunicata da una turbina […] sussidiata da due macchine a vapore con due caldaie per avere sempre una produzione non interrotta. Col trasportare la Fabbrica di paste nel nuovo stabile, fu pure fatto un impianto a luce elettrica per la illuminazione dei propri stabilimenti, del Teatro e delle abitazioni private della città.

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Entro gli anni novanta, accanto alla pastina con 15% di glutine secco, la Buitoni produrrà quella poliglutinata al 25%, l’iperglutinata al 35%, la pasta Somatose, con 30% di glutine e 10% di estratto di carne Bayer, di cui l’azienda ha licenza esclusiva per l’Italia. La linea della “glutineria italiana” viene poi completata entro il volgere del secolo da altre lavorazioni speciali, dal pane al glutine “per malati di diabete, di stomaco in generale, obesi”, alle farine speciali, alla tapioca brasiliana “preparata ad uso minestra per bambini e convalescenti”. Per la ferrovia Arezzo-Fossato cfr. Mariano Sarzi e Piero Muscolino, La ferrovia dell’Appennino centrale, Linea Arezzo-Fossato: FAC, Cortona, Calosci, 2002.

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A prescindere dalle forniture di energia elettrica agli utenti esterni ancora solo occasionali, quello di San Leo è sicuramente un impianto moderno, con funzionalità e una capacità produttiva notevolmente accresciute rispetto alle lavorazioni del passato. Non è facile, tuttavia, quantificare la misura dei miglioramenti apportati. Memorie e pubblicazioni aziendali sovrastimano con tutta probabilità la produzione (o anche solo la capacità produttiva) degli impianti di via della Fiorenzuola, indicando dai 30 ai 50 quintali al giorno di prodotto nella seconda metà dell’Ottocento. In realtà, rilevazioni ministeriali del 1882, forse addirittura aggiornate ai primissimi anni novanta, fissano le quantità lavorate giornalmente nel vecchio pastificio attorno ai 15 quintali, pari a 4.500 quintali l’anno di pasta. Analogamente ai 20 quintali giornalieri che vengono attribuiti alla bottega di Città di Castello si contrappongono i 3, per 7-800 quintali annui, cui fanno riferimento le ricostruzioni dell’ambiente economico tifernate dell’epoca. Il nuovo pastificio degli anni novanta deve invece raggiungere una capacità produttiva dai 40 ai 60 quintali al giorno, portati poi progressivamente ad 80-90 dagli ampliamenti realizzati tra il 1907 e lo scoppio della prima guerra mondiale, all’indomani dell’incendio, cioè, che nel 1905 ne danneggia le strutture. Con una progressione più o meno analoga, gli occupati dovrebbero passare dai circa 50 operai di via della Fiorenzuola degli anni ottanta, ai 100-130 del decennio successivo e ai circa 250-300 degli anni tra il 1910 e la guerra, quando peraltro a Città di Castello sono impiegati, tra lavoranti, gerenti e commessi, 12 addetti e a Perugia 3232. Simili dimensioni sono quelle medie della realtà industriale del settore dell’epoca e rendono, specie negli anni che precedono la Grande guerra, il pastificio Buitoni confrontabile con le grandi imprese operanti nel Settentrione e nelle maggiori città del Centro Sud, ove tuttavia tali impianti tendono a raggrupparsi in poli produttivi via via più cospicui ed afferenti a vaste concentrazioni di domanda urbana (si pensi ad esempio a Roma o al Napoletano), ovvero si inseriscono in un tessuto di mercato relativamente integrato, come nel Nord Italia, e si collegano con i complessi moli-

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Per questi dati cfr. Ministero di agricoltura, industria e commercio, Notizie statistiche sulle condizioni industriali della provincia di Arezzo(seconda edizione), in “Annali di statistica. Statistica industriale”, fasc. I-A, Roma, 1892, pp. 29-30; ACSs, Movimento d’affari, 1888, fasc. 5.3, Esecuzione della legge e regolamento sul lavoro dei fanciulli; Sacchetti, Sansepolcro, cit., pp. 36-38; Giuseppe Carloni, Dall’Arno al Tebro. Escursioni per la provincia di Arezzo, Pistoia, Bracali, 1889-1890, vol. II, pp. 121-122 (nonché p. 83 per una descrizione della cartiera di Montedoglio); ASBP, FB, DC, b. 1, fasc. 1, Fatturati 19071914. Per il pastificio di Città di Castello si veda anche Giuseppe Amicizia, Città di Castello nel MDCCCXCIII, Città di Castello, 1893 e Id., Città di Castello. Notizie statistiche 1 novembre 1896, Città di Castello, Lapi, 1896.


Capitolo II I Buitoni: Francesco e la sua famiglia

tori di grossi centri portuali come Genova e Venezia. Né va dimenticato, come si è già accennato, che l’industria della pastificazione italiana, pur con tutte le sue tradizioni, nei decenni successivi all’Unità incontra non poche difficoltà ad acquisire una dimensione propriamente industriale e soffre perciò della concorrenza dei produttori francesi, in particolare parigini e dei centri manifatturieri del Sud come Lione o Marsiglia, che invece ad una tale dimensione approdano più speditamente. Solo negli anni ottanta, il settore pastario italiano comincia a recuperare slancio, per consolidare poi le proprie posizioni in età giolittiana, come del resto avviene anche per la Buitoni. Quest’ultima in particolare, da un lato punta ad un espansione sui mercati minori dell’Italia Centrale, relativamente meno competitivi di quelli delle altre regioni del paese, dall’altro si costruisce, con le sue produzioni dietetiche, una nicchia all’interno della quale sviluppare la propria presenza a livello nazionale ed oltre. Ciò non toglie che, appunto nel comparto delle paste glutinate e speciali, l’azienda toscana debba affrontare la concorrenza francese, sorretta ormai da una solida esperienza industriale e molto rapida nel seguire l’evoluzione della domanda. Il confronto, nondimeno, volge tutt’altro che a sfavore della Buitoni, che anzi riesce anche in qualche – probabilmente modesta – misura a procacciarsi una clientela d’oltralpe33. II.3. Il passaggio alla terza generazione Gran parte delle vicende presentate fino ad ora hanno come protagonista Giovanni Buitoni. Sin dai primi anni quaranta, dopo l’apprendistato fiorentino e qualche anno passato a fianco del padre, egli guida gli affari di famiglia, coadiuvato in parte dalla madre Giulia Boninsegni, scomparsa nel 1877, che le memorie concordano nel ricordare come una donna attiva e tenace. Fino alla morte, nel 1901, Giovanni è il capo incontrastato della famiglia, colui che opera le scelte di fondo e, dunque, il principale

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Vari elementi indicano che in particolare la ditta parigina Geroult costituisse una concorrente particolarmente temibile in questo segmento produttivo, producendo forse articoli a base di glutine già prima della Buitoni. Entro la fine del secolo, tuttavia, il pastificio toscano riesce in vari casi a battere la concorrenza francese sugli stessi mercati esteri, come indica niente di meno che il caso delle Antille. Cfr. Giampaolo Gallo, Dagli esordi alla seconda guerra mondiale, in “Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, contributi di Renato Covino, Paola Boschi e Daniele Orlandi, Electa Editori umbri associati, 1990, p. 14 e Cesare Mansueti, Il monumento a Giovanni Buitoni a Sansepolcro, e le opere insigni del nipote, Milano, s.e., 1936, p. 6.

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artefice tanto dell’espansione del giro di interessi dei Buitoni dei decenni attorno all’Unità, quanto dell’evoluzione in senso industriale che i loro affari conoscono negli anni ottanta e novanta34. Se è principalmente alle sue decisioni e alla sua visione imprenditoriale che si deve la trasformazione della piccola bottega artigiana di Sansepolcro in un complesso industriale di rango nazionale, un certo spazio hanno tuttavia anche, soprattutto nelle varie attività collaterali della famiglia, l’iniziativa e l’aiuto a lui prestato dai fratelli. Di questi, per altro, Nazzareno si eclissa negli anni settanta in seguito ad una grave malattia, ma Luigi e Marco, scomparsi rispettivamente nel 1887 e nel 1893, svolgono un ruolo attivo negli affari di famiglia, mentre Giuseppe, che pure si occupa principalmente dell’esercizio di Città di Castello, rimane probabilmente sempre uno dei più fidati confidenti e consiglieri del fratello. Della figura di Giovanni rimane la descrizione del pubblicista Cesare Mansueti, a tratti un po’ di maniera ma utile nell’insieme per immaginare il personaggio, redatta parecchi anni dopo la scomparsa e riportata in uno scritto commemorativo dell’azienda degli anni sessanta: Lo conobbi nel 1883, o per meglio dire nel 1885, perché nell’83 non avevo la facoltà di conoscere e ragionare. Visto da vicino non appariva quello che era o più precisamente emergeva la sola qualità di lavoratore, non quella di una struttura mentale genialissima, così da indurlo a creare un genere d’alimentazione che doveva superare qualsiasi altra. Non alto di statura, di corporatura complessa, occhi vividi e scintillanti, ed un atteggiamento garibaldino che tradiva da lontano cento metri l’ammiratore del Generale di Caprera. Ma c’era anche in lui un po’ di Vittorio Emanuele II, con fiero pizzo, i baffi all’insù e il cappello che il Re portava quando vestiva in borghese […] Giovanni Buitoni era parco di parole, disprezzava tutto ciò che era rettorico, fastoso, inutile. Anche quando divenne ricco, non volle che ciò apparisse esteriormente; vestiva sempre di chiaro, con cravatta alla Valliere, e amò camminare rifuggendo qualsiasi mezzo di trasporto […]; volle vivere umilmente e non chiese né seggi al Comune e al Parlamento, né onorificienze, né alcunché lo mettesse mai in vista35.

Il ruolo centrale di Giovanni nello sviluppo degli affari di famiglia, del re34

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Cinque anni dopo la costituzione della nuova società, Giovanni, che ne è già il mandatario, viene nel 1884 riconosciuto dai fratelli procuratore generale e speciale della ditta, con “pieno potere e facoltà di amministrare incondizionatamente tutti i beni che gli stessi mandatari ritengono in comune”. Cfr. ANDAr, Luzzi, 602/1884, rep. 1741, Procura generale, 5 agosto 1884. Poco dopo, ai primi di settembre, egli sposta il suo domicilio legale “presso il negozio di Donato Righelli posto nella piazza Grande d’Arezzo” perché “la Ditta Buitoni intrattiene molti rapporti d’affari con la Banca Nazionale del Regno, la quale ha una sede succursale proprio ad Arezzo” e probabilmente finanzia in misura cospicua la crescita del giro d’interessi dell’azienda in quegli anni. Cfr. Ivi, rep. 1750, 4 settembre 1884. Mansueti, Il monumento a Giovanni Buitoni cit. (a nota 33), p. 6.


Capitolo II I Buitoni: Francesco e la sua famiglia

sto, è ben rispecchiato nella stessa denominazione assunta dalla ditta a partire dal 1879, poco dopo la morte della madre Giulia, allorché da “Gio.Batta Buitoni” essa cambia in “Gio. e f.lli Buitoni”, cui segue sette anni più tardi la trasformazione in società in nome collettivo con un capitale di 200.000 lire36. Contestualmente, nel 1886, vengono fissate regole per la successione che di fatto resteranno in vigore per un secolo: i fratelli stabiliscono infatti che la vecchia generazione debba rimanere proprietaria, mentre la nuova, viventi i genitori, venga associata agli utili se rispettosa delle indicazioni di questi e in generale delle gerarchie, oltre ad impegnarsi fattivamente nelle aziende di famiglia. La norma, che pure ha il merito di porsi il problema tipico del capitalismo familiare della discontinuità generazionale delle attitudini imprenditoriali – o anche solo degli interessi personali e dei percorsi di vita –, presuppone tuttavia un accordo di fondo o una leadership forte tra gli “anziani”, che in futuro non sempre esisteranno o saranno operative. Nell’immediato, in ogni caso, essa funziona, poiché la seconda generazione sembra trovare una guida naturale nella figura di Giovanni. Quando agli inizi del nuovo secolo questi scompare, i suoi cinque figli maschi hanno tutti tra i quaranta e i cinquant’anni (ad eccezione di Bindo che ne ha 37) e collaborano ormai da decenni nella gestione dell’azienda di cui prendono in mano le redini. Un problema in meno è rappresentato dalla bottega di Città di Castello, che esce dall’asse ereditario diretto, passando alla discendenza di Giuseppe, pure scomparso nel 1901. Nondimeno, all’interno della terza generazione manca una figura forte, capace di esercitare una leadership naturalmente incontrastata, come quella di Giovanni. Al vertice dell’azienda è destinato a salire il primogenito di Giovanni, Giovanni Battista (1851-1915), il quale tuttavia dopo la morte del padre vede molto limitata la sua autonomia da seri problemi di salute. Accanto a lui, un ruolo di crescente importanza gioca Silvio, il terzogenito (1856-1939), che gestendo di fatto il centro delle attività dell’azienda a Sansepolcro, diviene via via il punto di riferimento più stabile della famiglia. Sin dai primi anni del nuovo secolo egli affianca Giovanni Battista alla direzione degli affari del gruppo, per sostituirlo poi anche formalmente quando questi viene meno nel 1915. Il secondogenito Arnaldo (1854-1915), d’altra parte, ha una personalità più dinamica e viene inizialmente indirizzato dal padre, che confida nella leadership del fratello maggiore, in attività esplorative e di ampliamento degli interessi del gruppo. È lui, così, che nel 1889-1890 si reca negli Stati Uniti, a raccogliere informazioni e cercare contatti commerciali, che negli anni attorno al volgere del secolo si impegna per primo nella breve vicenda dell’apertura di una suc-

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ANDAr, Luzzi, 597/1879, rep. 701, 5 agosto 1879.

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cursale del pastificio a Livorno, e che ancora, tra 1902 e 1906, si dedica alla costruzione della centrale elettrica di Montedoglio. Accanto a loro e a Bindo (1864-1926), il più giovane, con una posizione relativamente defilata, c’è infine Francesco, quartogenito, nato nel 1859, che come si è visto viene mandato nel 1879 a gestire la bottega di Perugia. Pur rimanendo sempre all’interno degli affari di famiglia, in definitiva egli è tra i fratelli quello che più di altri ha la posizione del cadetto, destinato reimpiantare per gemmazione gli interessi dei Buitoni in una nuova sede, appunto il capoluogo umbro, ed eventualmente a separarsi dal ramo principale della successione patrimoniale, sul modello di quanto si verifica con lo zio Giuseppe a Città di Castello. Va tenuto presente, inoltre, che lo stile di vita e la posizione sociale dei figli di Giovanni assumono ben presto connotati assai diversi da quello della generazione precedente. Non più piccoli artigiani o commercianti di un centro di provincia, costoro partecipano, impegnandovisi attivamente in vari casi, di un’ascesa sociale che trova giustificazione nella forte crescita degli affari – e delle disponibilità – di famiglia e li porta ad entrare a pieno titolo, ed anzi ben presto a primeggiare largamente, all’interno del notabilato locale. Se ancora, tra gli anni quaranta e i cinquanta i documenti fiscali della curia della cattedrale parlano della famiglia come da poco passata da una stato di “povertà” ad una “condotta comoda”37, trenta anni più tardi essa appartiene ormai ai vertici della società cittadina. Questa scalata si basa evidentemente sul successo commerciale, ma si appoggia e viene completata anche dalle acquisizioni fondiarie dei primi anni ottanta, dall’attiva presenza nel Consiglio comunale di Sansepolcro, inaugurata da Luigi sin dal 1867 e proseguita poi in particolare dal nipote Silvio fino agli inizi del nuovo secolo, nonché da un’attiva politica matrimoniale. Così ad esempio Arnaldo, il secondogenito di Giovanni, sposa Maria Tricca, esponente di un’altra famiglia della borghesia emergente della cittadina toscana. Ma ancora una volta è soprattutto Silvio, a seguire la traiettoria più efficace. Nel 1882, a ventisei anni, egli sposa Vittoria Monti, torinese, la colta e volitiva figlia del titolare dell’esattoria delle imposte nel Comune, carica che essa stessa eredita alla morte del padre negli anni novanta ed esercita col consenso del marito, erogando, tra l’altro mutui ipotecari e realizzando complesse operazioni finanziarie. Dopo la prematura scomparsa di lei nel 1901, il terzogenito dei Buitoni si sposa poi, nel successivo 1902, con la ventiseienne Minerva Mugnoni, discendente di una delle fa-

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ACSs, Se. XIV, Tassa di famiglia, vol.1-5, Parrocchia San Giovanni Evangelista, contr. 400.42.


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miglie di più antica nobiltà della cittadina toscana e pure destinata a morire in giovane età, nel 1911. Oltre alla cospicua dote di 10.000 lire, il matrimonio varrà ai Buitoni l’ingresso nei circoli nobiliari della provincia e, in un certo senso, il definitivo riconoscimento del loro nuovo status sociale38. Nonostante questi successi, tuttavia, la gestione collettiva dell’azienda da parte della terza generazione, inauguratasi con gli inizi del Novecento con la scomparsa Giovanni, non manca di mostrare limiti e punti di debolezza. All’epoca la Buitoni è ormai un’impresa di dimensioni notevoli, che fa perno sul molino a cilindri del 1882 e sul nuovo pastificio sortogli accanto dieci anni dopo. Da un punto di vista commerciale, la produzione pastaria corrente comincia ad avere un buon radicamento sui mercati toscani, umbri e marchigiani, mentre quella speciale ha una distribuzione a livello nazionale e in qualche caso anche all’estero. Sin dalla fine dell’Ottocento, infatti, l’azienda ha cominciato a dotarsi di un’organizzazione di vendita, con agenti, distributori, depositi e concessionari, e dispone inoltre di alcuni nuclei di clientela straniera che, seguendo spesso le rotte dell’emigrazione italiana, sono presenti in particolare in Francia, Belgio, America Latina e Sudafrica. Il suo albo d’oro si arricchisce quasi ogni anno di onorificenze e riconoscimenti ricevuti alle esposizioni nazionali e straniere, mentre entro la prima guerra mondiale, verranno lanciate le prime campagne di propaganda rivolte direttamente ai consumatori, con manifesti e locandine. Attorno a questo asse centrale di attività, tuttavia, si moltiplicano gli interessi collaterali della famiglia, più o meno correlati al nucleo principale delle attività pastario-molitorie, ma non sempre pienamente integrati né convergenti con esse. Le attività della tenuta agraria e la presenza nel commercio delle derrate alimentari, ad esempio, vengono entrambe mantenute, e la seconda in particolare, pur concentrandosi, da un lato, sempre sul mercato delle granaglie e delle farine, non manca, dall’altro, di ampliarsi anche a quello degli oli da combustione. Sotto la spinta dello sviluppo del pastificio e del molino, inoltre, le attività dell’officina meccanica ricevono un forte impulso, fungendo in primo luogo da reparto interno, per la manutenzione, l’adattamento ed eventualmente, nel caso delle attrezzature più semplici, la realizzazione stessa degli impianti dell’azienda, ma continuando anche ad operare sul mercato locale, nel settore dei macchinari agricoli. Sin dal 1884 viene acquistato a Montedoglio, nel Comune di Pieve Santo Stefano, un mulino a due palmenti con annessa cartiera, che i Buitoni trasformano per la produzione di incarti per la produzione

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ANDAr, Bartolomei, 1212/1902, rep. 3056, 25 giugno 1902; Angelo Tafi, Immagine di Borgo San Sepolcro, Cortona, Calosci, 1995, p. 278.

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pastaria39. Nel 1902, soprattutto, le installazioni e la derivazione idraulica della cartiera, probabilmente da qualche anno dismessa, cominciano ad essere modificate per la costruzione di una centrale elettrica. Si tratta di un progetto ambizioso, che richiede uno sforzo tecnico ed un impegno finanziario notevole, volto anzitutto a fornire elettricità agli impianti industriali della famiglia. Tuttavia, anche in questo caso, i costi fissi e le dimensioni minime di efficienza delle strutture fanno sì che l’iniziativa abbia una sua vera convenienza economica solo se rivolta ad un bacino di utenza più ampio di quello interno dell’impresa – che per altro copre, e continuerà in futuro a coprire, parte del suo fabbisogno energetico con i vecchi impianti termici e idraulici. Di fatto, la clientela esterna esiste già all’epoca della costruzione dell’impianto ed è rappresentata, in primo luogo, dal Comune di Sansepolcro, già rifornito dagli stessi Buitoni di combustibili per l’illuminazione pubblica, e desideroso di dotarsi di quella sorta di simbolo della modernità che sono all’epoca gli impianti di illuminazione elettrica. L’affare, tuttavia, si rivela irto di difficoltà, tanto dal punto di vista tecnico, quanto per le tensioni che innesca con l’amministrazione municipale, controllata dai partiti popolari e ostile ai Buitoni per l’atteggiamento paternalistico e antisindacale che essi intrattengono con le loro maestranze, specie a seguito degli scioperi del 1903. Di fatto le forniture di energia elettrica al Comune cominceranno solo nel 1910 e tutta l’iniziativa finirà con l’assorbire grosse risorse, sia umane che finanziarie, dando poi risultati modesti, almeno nei termini generali della situazione imprenditoriale della famiglia40. L’impegno nel settore elettrico, insomma, al pari di quelli nei rami collaterali, come la meccanica, contribuiscono indirettamente a far perdere slancio alla crescita del comparto strategico della costellazione di interessi della famiglia, vale a dire a quelle produzioni pastario-molitorie a cui Giovanni Buitoni ha dato un assetto industriale nell’ultimo ventennio dell’Ottocento. Sotto la spinta dell’espansione dell’età giolittiana, infatti, il settore comincia ad avviarsi verso uno sviluppo di tipo oligopolistico, che vede sorgere, soprattutto nel Nord e nei centri maggiori della penisola, grandi gruppi integrati verticalmente – dal commercio dei grani fino alla produzione finali di generi di consumo – collegati tra loro in cartelli e combinazioni di largo raggio, appoggiati da forti concentrazioni di interessi banca39 40

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ANDAr, Luzzi, 602/1884, rep. 1684, 24 aprile 1884. Sulla centrale di Montedoglio si veda ACSs, Verbali delle Adunanze del Consiglio comunale, 1892, cc. 99 e 109; 1896, c. 96; nonché le violente polemiche tra il giornale socialista “La Rivendicazione” e il conservatore “L’Alto Tevere” durante tutti i primi anni del Novecento, con un vertice in occasione degli scioperi del 1903, quando lo scontro si allarga rapidamente anche alla questione della centrale elettrica.


Capitolo II I Buitoni: Francesco e la sua famiglia

ri e finanziari, e assai attivi nell’estendere, attraverso accordi ed acquisizioni, le loro sfere d’influenza nelle aree economicamente periferiche, tanto italiane che, già in quella fase, mediterranee. Gruppi come le genovesi Società molini dell’Alta Italia o le Semolerie italiane, la veneziana Molino Stucky o la Pantanella di Roma cominciano a costituire veri e propri colossi, di fronte ai quali imprese come la Buitoni rischiano di rimanere marginalizzate e confinate all’interno di mercati di nicchia, o quanto meno di vedere sostanzialmente compromesse le loro prospettive di crescita41. Nel Sud, per contro, e principalmente nell’area napoletana, viene emergendo un complesso di imprese di dimensioni medie e medio-grandi fortemente inserite nel mercato locale e capace quanto meno di presidiarlo efficacemente. All’interno di questo quadro, la strategia di crescita che i Buitoni adottano dopo il volgere del secolo oscilla tra opzioni diverse, conseguendo risultati solo parziali e finendo col rivelarsi incerta, se non ondivaga. Tra il 1899 e il 1901, infatti, negli ultimi anni di vita di Giovanni, si intraprende la strada di aprire un nuovo impianto a Livorno, che esalterebbe la vocazione verso l’esportazione dell’azienda – avvalorata dalle numerosi riconoscimenti internazionali – e renderebbe più agevole l’accesso ai grani duri ucraini Taganrog, che per prezzo e qualità costituiscono la materia prima su cui si basano le produzioni pastarie di pregio (e a maggior ragione quelle glutinate) per tutti i tre decenni attorno al volgere del secolo42. Nonostante l’affitto del pastificio dei fratelli Bougleux a Torretta e la costituzione di una nuova società, l’affaire sfuma, non da ultimo per i problemi di salute di Giovanni Battista, che, investito della responsabilità dell’iniziativa, vede venire meno con ciò appunto la sua posizione di vertice tra i fratelli. Successivamente, almeno dal 1904, si punta poi sull’apertura di una filiale fiorentina, che permetterebbe di insediarsi saldamente in uno dei pochi grossi mercati urbani ancora in definitiva accessibili. E tuttavia, anche in questo caso, le estenuanti trattative per il rilevamento del pastificio Dolfi, nel capoluogo toscano, si protraggono fino alla prima guerra mondiale, per concludersi poi infine in un nulla di fatto. Nonostante gli indiscutibili miglioramenti e ampliamenti apportati al pastificio di Sansepolcro dopo l’incendio del 1905, per cui negli anni successivi l’impianto vede progressivamente crescere la propria produzione fino ed oltre i 90

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Per questi sviluppi cfr. Francesco Chiapparino, Tra polverizzazione e concentrazione. L’industria alimentare dall’Unità al periodo tra le due guerre, in Storia d’Italia, Annali 13, L’alimentazione, a cura di Alberto De Bernardi, Alberto Capotti e Angelo Varni, Torino, Einaudi, 1998, pp. 203-268, e la bibliografia ivi contenuta. Vincenzo Agnesi, È tempo di pasta. Scritti. 1960-1976, Roma, Gangeni, pp. 53-62 . Sul pastificio livornese cfr. ANDAr, Bartolomei, Rep. 2348, 30 aprile 1899 e Aloigi Luzzi, Rep. 5426, 4 luglio 1899.

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quintali al giorno, il nodo della direzione su cui instradare la crescita del periodo giolittiano rimane sostanzialmente insoluto. Scelte significative in questo senso interverranno, infine, solo dopo il primo conflitto mondiale, con la “sfamiliarizzazione” – invero molto parziale – della proprietà, mediante l’accordo del 1921 con il pastificio pesarese della famiglia Falasconi in vista dell’apertura, nel 1924, sull’onda della limitato boom dei consumi legato del primo dopoguerra, di uno stabilimento per la produzione di paste comuni nel quartiere Ostiense a Roma43. Di lì a breve, nondimeno, la crisi connessa alla rivoluzione della lira e alla politica recessiva del fascismo si incaricheranno di dimostrare l’insufficienza di simili indirizzi, o quanto meno il ritardo e la scarsa decisione con cui sono stati assunti. Le difficoltà e le incertezze da cui è contrassegnata la crescita dell’impresa nel primo quarto del Novecento hanno ragioni articolate ed in parte sono probabilmente da ricondurre ai limiti strutturali della localizzazione e dell’ambiente economico in cui la Buitoni si sviluppa. Un peso tuttavia hanno sicuramente anche le divisioni che insorgono tra i membri della terza generazione. Col declino della leadership del primogenito, Giovanni Battista, le figure che assumono un ruolo di direzione degli interessi del gruppo restano sostanzialmente due: quella di Arnaldo, che si dedica all’espansione delle attività dell’impresa e finisce per l’occuparsi degli affari più diversi, e quella di Silvio, terzo per età, che dirige lo stabilimento di Sansepolcro e, in virtù di questa sua posizione centrale, in definitiva tende a prevalere al vertice della famiglia. Questa sorta di diarchia trova una conferma nelle stesse prospettive ereditarie della famiglia, e perciò negli stessi percorsi biografici dei suoi membri. Significativamente tra il 1906 e il 1908 vengono associati alla ditta appunto i due figli di Arnaldo, Guido (18851927) e Fosco (1894-1972), e due dei tre figli di Silvio, Gherardo (18841956) e Aldo (1886-1943) – mentre in omaggio alla regola per cui la successione alle funzioni dirigenziali deve essere guadagnata dando dimostrazione di impegno, obbedienza e capacità, viene escluso il primogenito di Silvio, Fernando (1882-1969), che resterà semplice rappresentante della ditta. Ciò ha evidentemente conseguenze importanti sulla posizione del personaggio che più interessa in questa sede, vale a dire Francesco Buitoni. Quartogenito, destinato sin dal 1879 ad occuparsi di un ramo collaterale degli interessi di famiglia, egli è in sostanza il primo dei cadetti. Da Perugia mantiene il ruolo privilegiato di consigliere dei fratelli maggiori, e in questo senso rimarrà sempre ampiamente informato e partecipe delle

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Renato Covino, I Buitoni di Perugia, in “Proposte e ricerche”, XXIII (2000), 45, pp. 7089.


Capitolo II I Buitoni: Francesco e la sua famiglia

vicende aziendali, ma questa relativa influenza è strettamente correlata alla sua esclusione dalla discendenza diretta alla direzione del nucleo centrale degli affari di famiglia. Così sembra, almeno, durante tutto il primo quindicennio del nuovo secolo e oltre. Alla luce di questi rapporti si comprende allora la punta di tristezza che, secondo le memorie familiari, accompagna Francesco durante il viaggio con cui, già nel 1878, si reca a prendere possesso della bottega perugina, e la delusione che ne segue all’arrivo nel capoluogo umbro. Né questa sensazione nei confronti del pastificio di piazza del Sopramuro è destinata a mutare col tempo: ancora negli anni tra le due guerre esso appare al giovanissimo Bruno Buitoni, nipote di Francesco, “piccolo, buio e mal distribuito. Poi da bambino – aggiunge nei suoi ricordi – mi sembrava che mio nonno fosse più grande di tutta la fabbrica”44.

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Bruno Buitoni, Pasta e cioccolato. Una storia imprenditoriale, intervista di Giampaolo Gallo, postfazione di Giulio Sapelli, Perugia, Protagon, 1992, p. 19.

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Capitolo III

Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni III.1. Il difficile esordio dell’azienda A Buitoni, Andreani, Ascoli e Spagnoli, quattro esponenti dell’emergente borghesia cittadina dell’età giolittiana è dunque legato, nel 1907, l’esordio della Perugina. L’indagine della Camera di commercio e artigianato dell’Umbria a cura di Fernando Mancini1 riferisce che al più tardi nei primi anni dieci la fabbrica impiega cinquanta operai (36 maschi e 14 femmine, di cui 4 sotto i 14 anni) per dieci ore al giorno e trecento giorni l’anno, e dispone di venti macchine, tra cui una caldaia a vapore da 3 cv alimentata da carbone “Cardiff ”, un motore a vapore da 2 cv e tre elettrici da 10. La produzione consiste in primo luogo in confetti “di qualità diversa” (per un massimo di 5 quintali al giorno) e in misura minore in caramelle e cioccolato; lo zucchero viene acquistato ad Ancona, Senigallia, Pontelagoscuro, Avezzano e Sampierdarena. L’industria benché allo stato iniziale ed avendo potuto solo da poco tempo conseguire i perfezionamenti più importanti, è già nel suo pieno sviluppo, per cui è in grado di sostenere la concorrenza delle altre fabbriche d’Italia. I prodotti della fabbrica sono già conosciuti ed apprezzati in tutta l’Italia Centrale, e potranno in breve conquistare altri mercati.

Nonostante l’ottimismo del rapporto di Mancini, tuttavia, i primi passi della Perugina devono essere tutt’altro che facili. Varie fonti sono concordi nel ricordare che i primi esercizi registrano perdite superiori all’investimento d’avvio, tanto che si avanzano dubbi sull’opportunità di completare il versamento del capitale sociale e confermare così la società. Giovanni Buitoni ricorda che al suo rientro a Perugia, nel 1909, “tutti usano ormai, chiamarla (l’azienda) la ‘Società Perugina per la fabbricazione degli effetti’, cioè della cambiali e dei debiti” parafrasandone la denominazione ufficiale2. A suo dire, alla base di tale situazione stanno la trascuratezza della

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Fernando Mancini, L’Umbria economica e industriale. Studio statistico, Foligno, Camera di commercio ed Arti dell’Umbria, 1910, pp. 305-306. Giovanni Buitoni, Storia di un imprenditore, Milano, Longanesi, 1973, p. 30.


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

Tabella 1. Alcuni dati di bilancio della S.n.c. Perugina (1910-1922)

Fonte: ASBP, FP, DA, Registri, fasc. 567.

gestione amministrativo-contabile ed errori di fondo della politica commerciale, rivolta a penetrare i ricchi mercati dell’Italia Settentrionale, dove operano aziende ben più consolidate e dove è particolarmente forte la concorrenza straniera. A ciò si aggiungerebbero problemi logistici, per l’insufficienza degli spazi a disposizione, nonostante la fabbrica si sia ampliata dal piano terra già utilizzato dallo Spagnoli ai piani superiori di palazzo Ansidei. A riprova di queste ultime difficoltà, invero, sono menzionabili due richieste del 1909 alle amministrazioni comunali di Perugia e di Foligno, per l’utilizzazione a scopo industriale rispettivamente degli ex conventi di Sant’Agnese e Santa Caterina, entrambe conclusesi per altro con un nulla di fatto, dato anche il contemporaneo peggioramento dei conti della società3. I dati contabili disponibili per il quinquennio dalla metà del 1910 all’inizio della guerra indicano l’assenza di utili ed anzi perdite d’esercizio attorno alle 15.000 lire nei due anni tra l’aprile 1911 e l’aprile 1913, a fronte di un capitale di 100.000 lire (115.000 dal 1913) e un indebitamento tre volte superiore (tab. 1).

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ASPg, AscPg, Atti del Consiglio comunale, sedute del 2 e del 27 aprile 1909 e del 21 marzo 1910; ASF, Archivio storico del Comune di Foligno, Se. II, cat. VO, fasc. 16, Fabbriche e molini 1909.

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Nel considerare questi dati frammentari, tuttavia, va tenuto presente che una valutazione del ruolo e dell’operato dei soci fondatori della Perugina, e più in generale di gran parte dei personaggi e delle vicende del primo periodo di attività della società, è resa difficile dalla scarsità e dall’incompletezza delle fonti. Le informazioni, infatti, cominciano a farsi più esaurienti solo agli inizi degli anni venti, all’epoca della prima affermazione dell’azienda e soprattutto della sua trasformazione in società per azioni, sebbene anche allora gli obblighi che una tale evoluzione comporta restino ben lungi dal dissipare tutte le reticenze e le zone d’ombra della documentazione4. In ogni caso, il ruolo dei fondatori non deve essere sopravvalutato. Il vero, rilevante sviluppo della società e la sua affermazione sul piano nazionale si verificheranno solo dopo la prima guerra mondiale, se non addirittura negli anni venti inoltrati, e saranno in realtà principalmente il frutto dell’opera della generazione successiva, in primo luogo di Giovanni Buitoni e Mario Spagnoli. Lo stesso carattere innovativo dell’impresa alla sua fondazione non va eccessivamente enfatizzato: non bisogna dimenticare infatti che ai suoi esordi la Perugina è legata principalmente alle confetture, una produzione ben più “matura” di quella del cioccolato e che soprattutto richiede minori investimenti e caratteristiche d’impresa non marcatamente industriali. Solo a causa della guerra e delle conseguenti limitazioni annonarie alla fabbricazione di generi dolciari, l’impresa si sarebbe orientata con decisione verso la lavorazione dei prodotti a base di cacao. Aziende semi-meccanizzate del tipo della Perugina nei suoi primi dieciquindici anni di attività sono piuttosto diffuse in Italia. Il censimento industriale del 1911, ad esempio, indica la presenza nel paese di 506 esercizi (esclusi quelli con un solo addetto) dediti alla fabbricazione di cioccolata, confetture, frutti canditi e gelati. Di essi, solo 93 hanno più di dieci occupati e possono considerarsi qualcosa di più di laboratori strettamente artigianali, paragonabili appunto all’azienda umbra. Anche a restringere il fuoco su queste imprese un po’ più strutturate in senso industriale, resta il fatto che esse hanno dimensioni molto modeste e solo in pochissimi casi possono essere designate come attività manifatturiere compiutamente meccanizzate e dotate di un’organizzazione di fabbrica di tipo moderno. Basti pensare che le attività con più di dieci occupati nella penisola occu-

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A ciò si aggiunga che per il periodo 1907-1923 gran parte delle informazioni disponibili provengono memorie, lettere e documenti legali redatti in occasione allo scontro tra i Buitoni e gli altri soci per il controllo della società, per cui risulta spesso evidente come l’intento degli autori di tali scritti di rivendicare a se stessi un ruolo determinante nell’avvio dell’impresa.


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

pano nel 1911 in media 51 addetti (cioè precisamente quanti ne ha la Perugina), contro i 241 della totalità delle imprese svizzere (che sono 23, comprese quelle con meno di 10 occupati) e i 96 di quelle tedesche del 1907, che nel complesso sono 186. Anche dal punto di vista dell’utilizzo di energia inanimata, i 20 cv medi delle aziende italiane con più di dieci occupati sono appena un terzo di quelli mediamente utilizzati dalle unità produttive tedesche (sempre considerando anche quelle minori, al di sotto dei 10 impiegati) e meno di un settimo di quelle svizzere5. Ciò che in larga misura prevale, insomma, nel panorama dell’industria dolciaria della penisola (così come di buona parte delle produzioni di generi di consumo, specie se non di sussistenza) sono attività di tipo artigianale o semiartigianale, molto numerose ma con modeste dimensioni ed un ancor più limitato ricorso all’energia inanimata. Soprattutto, le imprese italiane tendono a produrre una gamma di prodotti molto vasta in quantità necessariamente ridotte, il che permette loro di godere solo in piccola misura delle economie che la meccanizzazione rende possibili nel settore. Questo prevalente carattere artigianale, o più precisamente semi-artigianale, del resto, è un elemento caratteristico della situazione dei paesi relativamente in ritardo sulla via della crescita economica, rispetto alle economie industrialmente più sviluppate dell’Europa nord-occidentale e del Nord America. Dapprima in Francia, Olanda e Gran Bretagna, e poi presto anche in Germania e negli Stati Uniti, infatti, a partire dalla metà dell’Ottocento, le produzioni dolciarie conoscono una significativa trasformazione in senso propriamente industriale, in cui spiccano soprattutto le lavorazioni a base cacao. Il distacco di quest’ultimo comparto dalle precedenti tradizioni artigianali poggia, anzitutto, sulla serie di innovazioni tecniche che tra gli anni venti e gli anni quaranta del secolo XIX consentono di utilizzare unicamente la pasta di cacao e lo zucchero6 per la fabbricazio-

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Per questi dati e le fonti censuali da cui sono tratti, con tutti i relativi problemi di comparabilità internazionale, cfr. Francesco Chiapparino, L’industria italiana del cioccolato nel quadro dell’evoluzione della tecnologia del cacao tra il tardo Ottocento e la prima metà del Novecento, in Innovazione tecnologica e industria, a cura di Daniela Brignone, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 223 ss. Un simile risultato, che porta alla nascita della moderna industria del cioccolato e dei prodotti cioccolatieri quali oggi li conosciamo, è fondamentalmente frutto dell’aggiunta, alla miscela di zucchero e pasta di cacao macinato, di burro di cacao, che, estratto a sua volta pure dal cacao, rende la pasta modellabile e perciò consumabile in forma solida senza additivi ulteriori. L’estrazione del burro dal cacao viene realizzata per la prima volta nei tardi anni Venti dell’Ottocento dall’olandese Conrad van Houten attraverso dei procedimenti chimici, per essere poi successivamente essere perfezionata e resa più agevole dall’adozione delle presse idrauliche rese disponibili dalla nascente industria meccanica nei due decenni successivi.

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ne del cioccolato e, in secondo luogo, sullo sviluppo di poco successivo della produzione saccarifera europea da barbabietola, che riduce sostanzialmente il prezzo dell’altro semilavorato di base del settore. Qualora, infatti, non ci si limiti alle sole produzioni finali di pasticceria, il ciclo di lavorazione dei derivati del cacao viene ad implicare necessariamente il ricorso a presse idrauliche, mescolatori ed altri macchinari moderni, che rapidamente fanno emergere un settore di imprese medie e medio-grandi, largamente basate sull’uso di energia inanimata e sul sistema di fabbrica. Le economie che ne derivano consentono di ridurre notevolmente i prezzi unitari dei prodotti finiti, facendo del cioccolato, specie nelle sue nuove forme tipicamente industriali delle tavolette solide e del cacao in polvere, articoli di consumo incomparabilmente più diffuso delle praline e della cioccolata liquida sei-settecentesche7. Questa evoluzione si trasforma poi in un vero e proprio boom negli anni attorno al volgere del secolo, con le innovazioni di prodotto elvetiche8. Il successo del cioccolato fondant, basato sulla nuova tecnica del concaggio, e soprattutto del cioccolato al latte, destinato a crescere continuamente nell’apprezzamento dei consumatori dei paesi più ricchi per tutto il primo trentennio del Novecento, alimentano un ciclo di sviluppo del comparto che nell’arco di pochi anni vede non solo la comparsa ex novo (se si esclude la Suchard) di un settore industriale fortemente concentrato in Svizzera, ma anche l’affermazione della grande impresa in tutte le nazioni maggiormente industrializzate. La Menier in Francia, la Bensdorp e la Van Houten in Olanda, Cadbury, Rowntree e Fry in Gran Bretagna, così come la Hershey negli Stati Uniti o la Stollwerck in Germania, sono tutti grandi gruppi con migliaia di occupati, linee per la produzione di massa e articolate strategie di crescita di tipo oligopolistico. A livello internazionale, insomma, tra gli ultimi due

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Tra le numerose ricostruzioni dell’evoluzione storica della produzione e del consumo del cioccolato si vedano Sophie D. Coe e Michael D. Coe, La vera storia del cioccolato, Milano, Archinto, 1997, nonché Wolfgang Schievelbusch, Il paradiso, il gusto e il buonsenso. Una storia dei generi voluttuari, Bari, De Donato, 1908, pp. 93-104. Sulle innovazioni del cioccolato fondente e del cioccolato al latte cfr. Lisane Lavanchy, Le chocolait au lait: de l’invension de Daniel Peter à la commercialisation par Nestlé, in Il cioccolato. Industria, mercato e società in Italia e Svizzera (XVIII-XX sec.), a cura di Francesco Chiapparino e Roberto Romano, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 63-82; Francesco Chiapparino, Milk and Fondent Chocolate and the Emergence of the Swiss Chocolate Industry at the Turn of the 20th Century in Martin Schärer e Alexander Fenton, Food and Material Culture, East Linton, Tuckwell, 1998, pp. 328-344. Sullo sviluppo del settore svizzero negli anni attorno al 1900, Roman Rossfeld, Schweizerische Schokolade. Industrielle Produktion und kulturelle Konstruktion eines nationales Symbols, 1860-1920, Baden, Hier-Jetzt, 2007.


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

Tabella 2. Stime dei consumi di cacao in grani pro capite nella prima metà del Novecento*

* il dato riguarda le importazioni di materia prima e il contenuto di cacao dell’importexport di prodotti finiti e semilavorati. Fonte: Francesco Chiapparino, L’industria italiana del cioccolato nel quadro dell’evoluzione della tecnologia del cacao tra il tardo Ottocento e la prima metà del Novecento, in Innovazione tecnologica e industria, a cura di Daniela Brignone, Roma, Bulzoni, 1998, p. 47.

decenni dell’Ottocento e la prima guerra mondiale il comparto dolciario entra a pieno titolo nel novero di comparti tipici della seconda rivoluzione industriale. Questi sviluppi, per altro, si concentrano principalmente nella sezione delle lavorazioni a base di cacao, che costituiscono la componente più innovativa del settore. Essi riguardano in certa misura anche il segmento dei biscotti, che pur rientrando nelle produzioni dolciarie ha caratteristiche strutturali diverse e si colloca, di fatto, in un’area dell’industria alimentare più vicina alle lavorazioni a base di cereali e agli articoli da forno. Mentre assai più eterogenea, con l’episodica compresenza di imprese medie e medio-grandi accanto a piccoli esercizi artigianali, rimane la situazione degli altri rami del comparto, da quello delle caramelle e dei prodotti prevalentemente a base di zucchero a quelli delle marmellate, dei marzapani, dei torroni o dei gelati (la cui fabbricazione industriale comincerà ad affermarsi soprattutto tra le due guerre), assai più differenziati e segmentati dalla frammentazione locale o nazionale di gusti e tipologie di prodotto. Una simile evoluzione, tuttavia, riguarda solo in misura limitata l’Italia prima del miracolo economico del secondo dopoguerra. Benché nella prima età moderna, al pari ad esempio della Spagna, la penisola abbia matu59


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rato notevolissime tradizioni artigianali e di consumo nel comparto cioccolatiero – e dolciario in generale –9, entrambi i paesi stentano a dotarsi di una moderna industria nel settore tra Otto e Novecento, rimanendo per lo più legati all’attività di piccole e medie imprese e a modelli di domanda sostanzialmente estranei al consumo di massa. Nel caso italiano, in particolare, il mancato sviluppo della grande industria dolciaria è da ricondursi a due ordini principali di motivi, in parte collegati. In primo luogo, infatti, pesano i ritardi complessivi della modernizzazione del paese, frutto dell’arretramento economico che colpisce la penisola sino dal Seicento e che si concretizza poi tanto nel prevalente carattere agrario dell’economia italiana nei due secoli successivi, quanto nelle difficoltà con cui essa segue quelle più dinamiche sulla via dell’industrializzazione nel corso dell’Ottocento. Con la maggioranza della popolazione impiegata nell’agricoltura, bassi redditi procapite e un largo ricorso all’autoconsumo, il paese non presenta condizioni favorevoli allo sviluppo di moderni settori di generi di consumo, a maggior ragione se produttori di articoli di tipo voluttuario. Tanto più che, anche laddove esiste una domanda privata di questi prodotti, come nelle città o presso gli esili strati di ceto medio presenti nel penisola, essa per lo più risulta estremamente frammentata nei ristretti circuiti dei mercati locali. Anche quando, negli ultimi decenni dell’Ottocento – ed in particolare con la svolta industrialista degli anni ottanta10 – si avviano nel paese processi di crescita industriale di una certa consistenza, essi risultano concentrati in aree particolari (il Nord Ovest, alcuni grandi centri urbani e singole varie altre “isole” manifatturiere sparse a macchia di leopardo sul territorio nazionale) e soprattutto riguardano settori produttivi tendenzialmente ad alta intensità di capitale e laboursaving, che non distribuiscono un monte salari elevato ed hanno un effetto limitato sulla crescita dei consumi diffusi. Il permanere di una larga incidenza della popolazione rurale e dell’autoconsumo, l’abbondanza di forza lavoro e i bassi salari diffusi, i dualismi e le discontinuità dello sviluppo, unitamente alla frammentazione e alla ristrettezza dei mercati, insomma, sono tutti elementi che concorrono a far sì che i consumi dolciari – al pari di molti altri non primari – rimangano a lungo in Italia consumi stretta-

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Si veda ad esempio Piero Camporesi, Il brodo indiano. Edonismo ed esotismo nel Settecento, Milano, Garzanti, 1990, pp. 109-122 o Marina Cavallera, Società e cultura del caffè e del cioccolato nella Milano del Settecento, in Il cioccolato cit. (a nota 8), pp. 239-266. Cfr. al riguardo Franco Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali di interpretazione, in Storia d’Italia, Annali 1, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, pp. 11951255; Vera Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia, 1861-1990, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 205 ss. e, più recentemente, Stefano Fenoaltea, L’economia italiana dall’Unità alla grande guerra, Roma-Bari, Laterza, 2006.


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

mente voluttuari e di lusso, legati a occasioni particolari, come le festività o il regalo11. Su questo quadro generale, che pure lascia alcuni margini di crescita per il comparto, ad esempio nelle zone più dinamiche del Nord o nei grandi centri, si inseriscono poi le politiche economiche avviate dai governi della Sinistra storica a partire dalla fine degli anni settanta dell’Ottocento e rivolte ad un’accelerazione dei processi di crescita industriale del paese. Imperniate su un massiccio intervento dello Stato, che, sia pure in forme via via anche molto diverse, rimarrà una costante negli orientamenti del paese fino al miracolo economico del secondo dopoguerra ed oltre, queste politiche si concentrano nel sostegno dei settori “pesanti”, di beni strumentali, come la siderurgia, la meccanica pesante, la cantieristica, l’elettricità, ritenuti strategici per lo sviluppo economico del paese oltre che, più a breve termine, per la politica di potenza della nuova Italia unitaria. Un simile sforzo di investimento pubblico – dapprima indiretto e poi, dagli anni trenta, supportato dalla proprietà stessa di gran parte dell’industria pesante da parte dello Stato – si traduce in una marginalizzazione di molti dei comparti di beni di consumo, tanto più se voluttuari, come il dolciario. Concretamente, ciò per il settore significa vedersi penalizzato da una politica fiscale e doganale sfavorevole, non beneficiare – se non episodicamente e in fasi eccezionali, come durante la prima guerra mondiale – delle protezioni e delle commesse di cui si giovano i produttori di beni strumentali e, infine, rimanere per lo più estraneo, proprio per effetto di questa sua marginalità rispetto alle politiche statali, ai flussi di finanziamento della grande banca, che con quelle politiche agisce appunto in stretta convergenza. Gli effetti di questa situazione sono pesanti. Soprattutto prima del 1905, ad esempio, l’industria dolciaria e, segnatamente, la sua sezione maggiormente passibile di sviluppi in senso industriale, cioè quella del cioccolato, soffrono di un regime doganale che non solo non garantisce loro protezione nei confronti della concorrenza straniera, ma risulta avere addirittura effetti disincentivanti sulla crescita dei produttori nazionali. I forti dazi sulle importazioni di materia prima, il cacao in grani, volti a colpire l’uso di un articolo esotico e di lusso, ritenuto dannoso per l’equilibrio della bilancia commerciale, non sono infatti compensati da adeguate protezioni sull’importazione di semilavorati di cacao – pasta e burro di

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Per un quadro generale dell’evoluzione dei consumi nell’Italia contemporanea si veda il recente Emanuela Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla belle époque al nuovo millennio, Roma-Bari, Laterza, 2008; per i consumi alimentari cfr. anche Paolo Sorcinelli, Gli italiani e il cibo. Appetiti, digiuni e rinunce dalla realtà contadina alla società del benessere, Bologna, Clueb, 1995.

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cacao –, specie dopo che il prezzo di questi ultimi, alla fine dell’Ottocento, è crollato per effetto della massiccia industrializzazione della loro produzione. Il risultato di questo squilibro è che in Italia risulta conveniente dedicarsi alle sole lavorazioni finali del comparto, a più bassa intensità di capitale e realizzabili anche con un’organizzazione artigianale, acquistando all’estero direttamente i semilavorati necessari e rinunciando così in molti casi a fare investimenti nelle sezioni tecnologicamente più avanzate del ciclo di produzione del cacao12. Le penalizzazioni di cui il settore dolciario soffre agli inizi del secolo, del resto, riguardano anche lo zucchero, vale a dire l’altro semilavorato di base delle sue lavorazioni. Benché il settore saccarifero sia in larga misura rivolto ai consumi privati interni, grazie agli appoggi politici di cui gode, all’influenza della proprietà agraria interessata alla barbabietola e al coinvolgimento al suo interno degli stessi ambienti industriali e finanziari del Nord, soprattutto genovesi, esso riesce ampiamente ad inserirsi nelle pieghe dell’intervento statale, beneficiando di sovvenzioni e larghe protezioni doganali. Ciò che ne risulta è la nascita, attorno al volgere del secolo, di un comparto organizzato in maniera rigidamente consortile, egemonizzato da un ristretto numero di grandi società – l’Eridania, la Ligure-Lombarda, la Società dello zucchero indigeno – e fortemente speculativo, che ai propri investitori garantisce alti profitti a agli italiani i più bassi consumi di zucchero in Europa. Per il comparto dolciario, tutto questo significa costi proibitivi di approvvigionamento del proprio principale semilavorato, nonché, di fatto, una condizione di dipendenza dalla potente lobby degli zuccherieri che, all’epoca della riorganizzazione corporativa del periodo tra le due guerre, sfocerà direttamente nell’assorbimento della Federdolce nella Federzuccheri13. Nonostante tutti questi limiti, tuttavia, l’industria dolciaria, e all’interno di essa soprattutto il comparto del cioccolato, avviano il loro sviluppo in Italia già prima della Grande guerra. Accanto al tradizionale artigianato, infatti, a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX cominciano a comparire nel paese aziende meccanizzate, anche se di dimensioni e soprattutto con un grado di specializzazione ancora modesti. Al pari della Perugina, come si è accennato, esse assomigliano per lo più a grandi laboratori, che

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Cfr. in proposito Chiapparino, L’industria italiana del cioccolato cit. (a nota 5), pp. 235241. Sulle vicende del settore zuccheriero italiano si vedano in particolare M. Elisabetta Tonizzi, L’industria dello zucchero. La produzione saccarifera in Italia e in Europa, 18002000, Milano, FrancoAngeli, 2001 e Patrizia Sabbatucci Severini, Il capitalismo organizzato. Il settore saccarifero in Italia, 1800-1945, Venezia, Marsilio, 2004.


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Tabella 3. Consumo procapite di zucchero e tassazione nei principali paesi europei

* sullo zucchero raffinato. Fonte: “L’Italia economica. Annuario dell’attività nazionale”, I (1907), p. 147

fanno anche uso di macchinari ed energia inanimata, ma producono una gran varietà di generi dolciari diversi e scarsamente standardizzati. Il processo produttivo rimane perciò, inevitabilmente, legato ad un largo intervento di manodopera, con ridotte economie di scala e di flusso, che si riflettono, assieme agli elevati costi delle materie prime di cui si è detto, sui – relativamente – elevati prezzi unitari dei prodotti finiti. Significativo è ad esempio il caso di una delle maggiori imprese dolciarie italiane dell’età giolittiana, la milanese Lombardi & Macchi, attiva per la verità sin dal 1845, allorché per altro rileva un precedente esercizio fondato nel 1823 da Justin Bouthon, di Tolosa14. Agli inizi degli anni novanta dell’Ottocento essa occupa circa 170 operai in tre diversi stabili del capoluogo lombardo, in cui si producono sciroppi, conserve, gomme pettorali, confetture, dolci, mostarde, frutta candita, “cioccolatte”, bomboniere, confetti e sacchetti di riso miniato. Ancorché piuttosto isolatamente, tuttavia, anche nella penisola si registrano sviluppi verso una maggior specializzazione, in particolare nelle lavorazioni di cioccolato. Per assistere ad un’evoluzione in questo senso bisogna attendere gli inizi dell’età giolittiana, cioè gli anni attorno al volgere del secolo allorché, complice anche la buona congiuntura economica, in ambito internazionale si verifica una forte espansione dei consumi di cioccolato legata all’immissione sul mercato delle nuove varietà al latte e fon-

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Gabriele Benvenisti e Leone F. Bolaffio, Antonio Gramola, Annuario dell’industria e degli industriali di Milano, Anno primo, 1890-1891, Milano, s.e., 1890, pp. 148-152.

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Tabella 4. Le principali società dolciarie italiane in età giolittiana

Fonte: Credito Italiano, Società italiane per azioni. Notizie statistiche, Milano, v.a.

dant svizzere. L’eco di un simile piccolo boom tocca anche l’Italia, ove in particolare, nei primissimi anni del Novecento numerose sono le imprese dolciarie che conoscono una notevole affermazione commerciale. La trasformazione di alcune di esse in società anonime porta così alla nascita della prima generazione di società per azioni del comparto in ambito nazionale. È assai probabile, tra l’altro, che queste vicende, alimentando le aspettative diffuse di una rapida espansione della domanda dolciaria italiana, abbiano avuto un ruolo non secondario nel suggerire l’idea di costituire la stessa Perugina, salvo che poi – è bene ricordalo – la successiva crisi del 1907 si sarebbe incaricata di raffreddare bruscamente molte delle speranze di un adeguamento dei consumi della penisola agli standard dei paesi più sviluppati. Tra le aziende che maggiormente beneficiano dell’inaspettata stagione di crescita dei primi anni del Novecento sono da 64


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

menzionare soprattutto due ditte torinesi, la Michele Talmone e la Moriondo & Gariglio, che assumono allora decisamente i connotati di medie imprese specializzate e meccanizzate – pur rimanendo ancora distanti dai grandi gruppi oligopolistici e multinazionali che operano nei paesi nordeuropei. Nel primo caso, quello della Talmone, l’exploit di vendite del primo quinquennio del secolo si conclude con l’acquisizione dell’azienda da parte della svizzera Tobler, che in quella fase individua nella penisola un possibile mercato di espansione. Quanto alla Moriondo, la buona affermazione commerciale le frutterà – caso più unico che raro in quella fase per il settore – la possibilità di accedere ai servizi finanziari, per altro piuttosto onerosi, del Credito italiano per collocare i suoi titoli sul mercato. Così rafforzata, l’azienda costituirà la maggiore produttrice nazionale di cioccolato fino alla prima guerra mondiale, quando verrà a sua volta rilevata dalla concorrente svizzera15. Da tutto quanto detto risulta evidente, d’altra parte, come gran parte degli sviluppi di tipo più moderno del settore dolciario italiano si verifichino nelle regioni settentrionali o presso le grandi concentrazioni urbane, le uniche zone del paese a presentare una dinamica della domanda capace di sostenere un’evoluzione delle esperienze produttive del comparto che vada al di là delle tradizionali forme artigianali. Lo sviluppo [...] [di questa] industria [...] fino al termine della seconda guerra mondiale ... non ha mutato la tendenza a localizzazioni determinate non dalle fonti di rifornimento, ma dai costi di distribuzione e di trasporto del prodotto finito [...]. Da qui la localizzazione prevalente in una fase iniziale, nelle regioni più ricche del triangolo industriale, o più precisamente [...] a più elevato livello di reddito. Successivamente, formatosi un mercato nazionale, si è assistito da una parte all’estensione dell’attività delle imprese già operanti alle regioni di recente acquisizione al consumo dolciario di massa, dall’altra alla nascita, quasi sempre come passaggio dall’artigianato, di imprese industriali di importanza regionale16.

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Sulla Tobler e l’acquisizione della Talmone si veda Francesco Chiapparino, Competizione e cooperazione tra imprese nazionali e straniere in Italia nella prima metà del secolo: Talmone, Tobler e il caso dell’industria del cioccolato (1900-1940), in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Perugia. 2. Studi storico-antropologici, volume XXXIXXXII, nuova serie volume XVII-XVIII, 1993/1994-1994/1995, t. II, pp. 393-423. Per la Moriondo & Gariglio, Idem, L’industria italiana del cioccolato cit. (a nota 5), p. 263. Sulla Tobler cfr. anche Chocolat Tobler. Zur Geschichte der Schokolade und einer Berner Firma, a cura di Yvonne Leimbruber, Patrick Feutz, Roman Rossfeld, Andreas Tobler, Berna, Historisches Institut der Universität Bern, 2001. Umberto Collesei, L’industria dolciaria, Milano, Etas Kompass, 1968, pp. 54-55.

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Tabella 5. Localizzazione dell’industria dolciaria italiana nel 1911 (aziende > 10 addetti)

Fonte: Censimento industriale 1911.

III.2. La Perugina negli anni dieci Tutto ciò permette di comprendere a quali difficoltà vada incontro la nuova azienda umbra nel suo tentativo di affermazione sul mercato nazionale e, in particolare, nelle regioni settentrionali della penisola. Non a caso, appena arrivato in azienda, Giovanni Buitoni si incaricherà per prima cosa di dimostrare la possibilità di una politica commerciale alternativa, più prudentemente rivolta alle regioni del Centro e del Sud, ove minore è la concorrenza e dove pure è disponibile, seppure in misura contenuta, il potere di acquisto sufficiente per un qualche consumo dolciario di lusso. Già nell’ottobre del 1909, a neanche un paio d’anni dalla creazione della nuova impresa, Francesco Buitoni scrive infatti al figlio Giovanni, da qualche tempo in Germania a studiare giurisprudenza, informandolo del cattivo andamento degli affari a Perugia. Poco dopo questi rientra in Italia e fa il suo ingresso alla direzione della Perugina17. Giovanni Buitoni è nato nel capoluogo umbro diciotto anni prima, il 6 novembre 1891, terzogenito, dopo Bruno e Luigi, di Francesco e Maria Egiziaca Marchettoni. Conseguita la maturità classica nel 1908, intraprende gli studi universitari, che terminerà nel 1917, quando già è ai vertici della Perugina. Quello stesso anno viene richiamato alle armi, ma rimane nelle retrovie: prima alla scuola

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Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 2), p. 28.


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ufficiali di Modena – e in quell’occasione non manca di organizzare la distribuzione dei prodotti Perugina in Emilia –, poi presso un reparto logistico a Padova, a causa di supposti disturbi cardiaci18. Tornato alla guida dell’azienda alla fine della guerra, vi rimarrà fino al 1939, acquisendo nel 1927 il controllo anche della Gio.& f.lli Buitoni di Sansepolcro, sino ad allora di proprietà del ramo principale della famiglia facente capo allo zio Silvio. Simpatizzante del movimento fascista già prima della “marcia su Roma”, commendatore della Corona nel 1923 e cavaliere del lavoro nel 1940, è vicepresidente del Consiglio provinciale dell’economia corporativa dall’anno della sua costituzione, nel 1928 (allorché sostituisce la Camera di commercio), al 1932, e podestà di Perugia dal 1930 al 1934. L’amarezza per i dissidi col regime, non da ultimo – come si vedrà – per gli ostacoli da questo frapposti al concorso de “I Quattro Moschettieri”, con cui Buitoni e Perugina raggiungono l’apice del loro successo negli anni dell’autarchia, lo porteranno infine, alla vigilia della seconda guerra mondiale, a recarsi negli Stati Uniti, ove quello che comincia come un soggiorno temporaneo si trasforma ben presto in un trasferimento definitivo. Dopo il conflitto non tornerà in Italia prima del 1953, e anche allora solo occasionalmente, poiché nel dopoguerra continua a risiedere a New York e a dedicarsi in prima persona alla Buitoni Foods Corporation, l’azienda fondata a New York nel 1940. Ritiratosi formalmente dagli affari nel 1966, muore infine nel 1979. Giovanni Buitoni può probabilmente essere considerato il più importante e dinamico industriale perugino della prima metà del Novecento. Oltre che alla guida delle aziende del gruppo di famiglia, egli è azionista e consigliere di amministrazione in varie altre imprese dell’epoca, dal Consorzio italiano maioliche artistiche, che sotto la sua guida e quella di Biagio Biagiotti, riunisce alla metà degli anni venti numerose aziende di ceramiche dell’Italia Centrale, alla S.a. Estrazione lavorazione ligniti e sottoprodotti (Selles) di Livorno, con 2,2 milioni di capitale sociale nel 1925 e con impianti e concessioni nella zona di Torgiano, presso Perugia, e alla Società anonima per l’elettricità umbra di Perugia . In primo luogo però egli è il principale artefice dello sviluppo della Perugina nel periodo tra le due guerre, oltre che del rilancio del pastificio di Sansepolcro, fatto questo che prolunga la parabola imprenditoriale dei Buitoni e ne fa un caso di capitalismo familiare di rara longevità. Nel corso degli anni, per altro, Giovanni Butoni viene coadiuvato nella gestione di questo vasto giro di interessi dai fratelli, in primo luogo da Bruno, poi da Marco, Luigi e Giuseppe, posti

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Ivi, p. 29 e ASBP, FP, DGAD, b. 4, fasc. 25 “Annibale Spagnoli”, cc. 79-98.

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via via alla guida operativa delle imprese create o passate sotto il suo controllo, pur riservando sempre per sé, almeno fino all’emigrazione negli Stati Uniti, l’elaborazione degli indirizzi di fondo e la realizzazione degli affari più importanti. Secondo quanto afferma in una comunicazione ai soci del dicembre 192219, già nel giugno 1910, a neanche otto mesi dal suo arrivo in azienda e dal suo diciottesimo compleanno, egli assume di fatto la direzione della Perugina, affiancandosi e in parte anche sostituendosi al padre, di cui nondimeno godrà sempre della piena fiducia. A fine anno, come pure fa rilevare la comunicazione del 1922, i conti della società sono tornati in attivo. Di sicuro, tuttavia, il mandato ad negotia che conferisce formalmente a Giovanni Buitoni la responsabilità gestionale dell’azienda è successivo di tre anni, del 14 giugno 1913. Nel frattempo, nell’agosto 1910, viene firmato l’atto di conferma della società, contenente l’impegno dei contraenti a completare i versamenti del capitale sociale (30.000 lire) entro l’anno successivo20. Il breve intervallo tra questo atto e l’approdo di Giovanni al vertice dell’azienda, posto che sia avvenuto veramente già nel giugno del 1910, lascia supporre una sua pressione per assicurarsi l’impegno dei soci, e conferma indirettamente le voci di un loro disimpegno dalla società. Nell’autobiografia del 1972 poi Buitoni ricorda le iniziative che portano alla rapida ripresa dell’azienda: il già accennato riorientamento della politica commerciale, con il parziale disimpegno dei mercati settentrionali a favore di quelli locali umbri e di quelli dell’Italia Centro-Meridionale (“la zona da Roma in giù”), il riordino (in realtà assai limitato) della gestione amministrativo-contabile e infine il reperimento di nuovi fondi, ben 500.000 lire, con l’ingresso in due società dei carati, cui quella somma deve essere restituita in rate settimanali nei quattro anni successivi21. In particolare, è nel quadro della scelta di accentuare il radicamento dell’azienda in un’area di mercato facente perno sull’area umbro-laziale e sull’Italia Meridionale che va inscritto il rafforzamento di un’immagine della Perugina legata al suo contesto urbano. A fine 1911, così, dopo aver ricevuto l’autorizzazione del Comune di Perugia, deposita come proprio marchio il grifone che compare nello stemma della città, quasi a voler sottolineare il proprio carattere perugino e umbro, rimarcando così un’iden-

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ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 2 “Originali dei documenti più importanti mandate al sig. Giovanni Buitoni”, cc. 48 ss. Ivi, b. 1, fasc. 5 “La Perugina cioccolato e confetture. Documenti firmati il 19 agosto”, cc. 1 ss. Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 2), p. 31.


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

tificazione e un’appartenenza territoriale più consona ai propri recenti indirizzi commerciali22. Quanto poi all’insistenza sull’indebitamento dell’impresa, essa non è del tutto gratuita: effettivamente, per tutto il periodo sino alla seconda guerra mondiale, la società sopravvive e si ingrandisce a costo di una pesante e spesso precaria esposizione finanziaria. La carenza di fondi rimarrà particolarmente grave fino all’aumento di capitale del 1927, ma si protrae in certa misura anche oltre quella data, prima a causa della crisi, poi per il mezzo collasso provocato dall’interruzione del concorso delle figurine nel 1937. Soprattutto prima del 1923, tuttavia, quando ancora i Buitoni hanno ancora solo una partecipazione di minoranza all’azienda, le lamentele della direzione per la scarsità di circolante, che costringe a “correre per umilianti questue da una Banca all’altra” sono particolarmente frequenti, con lo scopo evidente di fare pressione sugli altri soci23; mentre altrettanto iterati sono i richiami dei Buitoni al ruolo della ditta di famiglia, la Gio & f.lli Buitoni, nel fornire avalli presso gli istituti di credito e, in alcuni casi, anche prestiti diretti. Indebitamento a parte, comunque, la Perugina si consolida negli anni precedenti la prima guerra mondiale e si avvia a superare lo stadio di piccola impresa semiartigianale. Nel 1913 infatti le risorse accumulate ed il recupero della fiducia nelle prospettive dell’impresa permettono di riprendere in considerazione la questione del trasferimento in nuovi e più ampi locali. Se non che, questa volta, anziché richiedere a titolo semigratuito vecchi edifici alle amministrazioni locali, si acquistano, il 27 maggio 1913, 4.510 metri quadrati di terreno nei pressi della stazione ferroviaria perugina di Fontivegge, un’area che, con qualche aggiunta, conterrà lo sviluppo della fabbrica per i successivi cinquant’anni. Il 29 aprile 1914 un’impresa edile cittadina, la ditta del conte Lavison, viene incaricata della costruzione di un nuovo opificio sulla base di un preventivo di 140.000 lire24. I lavori vanno avanti fino all’estate del 1915, quando si provvede al trasferimento degli impianti. Per l’occasione, questi ultimi, oltre ad essere resi più funzionali dalla collocazione in locali appositamente progettati (piano unico, prese di luce dall’alto, ecc.), vengono in parte rinnovati. In particolare entra allora in funzione una linea di produzione per il cacao in polvere, con le relative presse idrauliche di estrazione del burro di cacao, che

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ISUC, AG, fasc. 353 “Perugina 1907-1927”, Perugina 1909-1922. ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 2 “Originali dei documenti più importanti mandate al sig. Giovanni Buitoni”, cc. 48 ss., la sottolineatura è nel testo. Ivi, fasc. 4 “Stabilimento Perugina di Fontivegge. Lavori di costruzione”, cc. 8-14.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

completa finalmente anche il ciclo di lavorazione del cioccolato, non rendendo più necessari gli acquisti dall’esterno di quest’ultimo semilavorato. Ciò è indicativo, già in questa fase, di un progressivo slittamento delle attività della Perugina dalle produzioni dolciarie in generale a quelle specificatamente cioccolatiere, passaggio che tuttavia, si completerà soltanto con la prima guerra mondiale. In una richiesta di contributi del gennaio 1916 al Comune di Perugia per gli investimenti produttivi compiuti, il costo del solo edificio di Fontivegge viene indicato in 200.000 lire. Su questa base l’amministrazione concede 15.000 lire di sgravi sulle imposte comunali (la fabbrica sorge infatti all’esterno della cinta daziaria), dilazionati in almeno quindici annualità25. Negli atti di contestazione dei provvedimenti fiscali sui sovrapprofitti di guerra, Buitoni parla poi di investimenti in capitale fisso per circa 400.000 lire nel biennio 1914-1915 tra edifici, terreni e macchinari (questi ultimi per 190.000 lire), contro la cifra di 240.000 lire rilevata dall’Agenzia delle imposte26. In entrambe le occasioni naturalmente la direzione aziendale deve aver avuto tutto l’interesse a gonfiare le voci di spesa, mentre per contro va detto che la rilevazione del fisco è di natura sostanzialmente induttiva. Ad ogni modo gli investimenti realizzati sono di un certo rilievo, specie considerando le dimensioni dell’impresa. Essi permettono alla Perugina un salto di qualità nei sistemi di fabbricazione, facendo passare gli occupati dalla cinquantina di via Alessi a 150-200, e i volumi di produzione, nonostante i ritmi di lavoro rallentati dei primi anni di guerra, ad almeno il doppio della capacità di 4-5 quintali giornalieri delle vecchie strutture. L’onere di queste spese, l’indebitamento che ne deriva, viene per altro mitigato per effetto dell’inflazione prodotta dalla prima guerra mondiale. III.3. Tra guerra e dopoguerra L’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio 1915, coglie tuttavia la Perugina proprio nel momento del trasloco. L’emergenza bellica ha l’effetto di ritardare il raggiungimento dei livelli di produzione e di profitto che la nuova struttura rende possibili, ma nel complesso questa azione frenante sembra pregiudicare lo sviluppo e il consolidamento dell’azienda solo sul breve periodo. L’andamento del fatturato indica infatti chiaramente come, dopo

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ASPg, ASCPg, Atti amministrativi 1871-1933, tit. V, art. 2, pos. 1, pr. 3. ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 6 “Tasse e profitti di guerra”, cc. 24-25.


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

Tabella 6. Fatturato Perugina 1914-1919

* 1914=100 riportato a base annua in lire 1913. Fonte: ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 5, c. 5 e fasc. 3, c. 8.

un primo momento di difficoltà, di adeguamento cioè a normative speciali e contingentamenti di materie prime, le vendite conoscano un pronunciato sviluppo, attestandosi su standard molto superiori a quelli dell’anteguerra. I dati sul fatturato riportati in tabella provengono dalle già citate pratiche sui sovrapprofitti di guerra e dai relativi ricorsi dell’azienda nei primi anni venti. I valori indicati, gli unici si quali vi sia un minimo di convergenza tra la Perugina e l’Agenzia provinciale delle finanze, sono frutto dei rilevamenti condotti da quest’ultima su libri contabili incompleti o volutamente erronei, come ammette in una comunicazione interna lo stesso Giovanni Buitoni27. Si tratta perciò di cifre indicative, inferiori al reale giro d’affari di quegli anni. Nondimeno, esse mostrano dapprima una sostanziale tenuta e successivamente un avanzamento delle vendite che sfocerà poi nell’espansione del primo dopoguerra. Al di là delle difficoltà e delle complicazioni che comporta per la Perugina, la prima guerra mondiale, con la dilatazione della spesa pubblica e la mobilitazione di risorse che l’accompagnano, sembra rappresentare un’opportunità per l’insieme della vita economica della città e della regione. Proprio durante la guerra infatti nascono nuove imprese, la più importante delle quali sarà la Società industrie aeronautiche e meccaniche dell’Italia Centrale (Siamic), ed altre attività già esistenti conoscono una cre-

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Ivi, fasc. 2 “Originali dei documenti più importanti mandati al sig. Giovanni Buitoni”, c. 59. I dati relativi al 1914 e 1915 sono annotati a mano dallo stesso Buitoni.

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scita impensata, come nel caso dell’estrazione della lignite, che solo nel caso della miniera di Morgnano, di proprietà della Società Terni, arriverà ad occupare nel 1918 2.000 addetti28. La Siamic, in particolare, che per qualche anno è la maggiore azienda perugina, viene costituita l’11 ottobre 1917 per iniziativa del direttore dell’Auto garage Perugia, Federico Benigni, attorno al quale intervengono nella nuova società vari industriali cittadini, come Amedeo Rossi e Augusto Ajò La prima commessa statale per la riparazione di idrovolanti è assegnata nel gennaio 1918, in anticipo sull’entrata in funzione dello stabilimento che diventerà efficiente in giugno … Gli impianti costruiti presso la stazione ferroviaria di Perugia sono integrati dai cantieri localizzati a San Feliciano sul Lago Trasimeno29.

Gli stabilimenti sorgono accanto all’Officina proiettili costituita dall’Auto garage nel 1915 e operante all’interno del consorzio cui fanno capo gli impianti delle province di Perugia e di Roma30. Siamic, l’Officina proiettili, che verrà da questa acquisita nel marzo del 192131, e l’Auto garage sorgono tutti a Fontivegge e vanno ad ampliare il nuovo insediamento industriale del capoluogo umbro di cui la fabbrica della Perugina ha rappresentato il primo nucleo32. L’azienda meccanica, che nello scorcio del periodo bellico supera i mille addetti, nel dopoguerra amplia la gamma della produzioni all’insieme delle costruzioni meccaniche, occupando 825 addetti ancora nel 1920. La sua esperienza si conclude tuttavia già nel dicembre del 1922, in certa misura per l’indisponibilità delle banche a continuare a garantirne il finanziamento, stante la crisi che coinvolge nel 1921

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Renato Covino e Giampaolo Gallo, Ipotesi e materiali per una storia dell’industria nella provincia di Perugia dal primo dopoguerra alla ricostruzione, in Politica e società in Italia dal fascismo alla Resistenza. Problemi di storia nazionale e storia umbra, a cura di Giacomina Nenci, Bologna, il Mulino, 1978, p. 241. Giampaolo Gallo, Tipologia dell’industria ed esperienze d’impresa in una regione agricola, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. L’Umbria, a cura di Renato Covino e Giampaolo Gallo, Torino, Einaudi, 1989, p. 417. Renato Covino e Stefano de Cenzo, Il trasporto locale tra servizio pubblico e impresa. Dalla Società dell’Auto Garage Perugia all’Azienda perugina della mobilità. 1907-2007, Perugia, Futura, 2007, p. 49 Ivi, p. 53. Per quanto riguarda le dimensioni e l’articolazione il polo industriale di Fontivegge cfr. Alberto Grohmann, Perugia, Bari, Laterza, 1981, fig. 166, p. 160; inoltre, Enrico Antinoro, Paolo Ceccarelli, Loreto Di Nucci e Raffele Rossi, Mezzo secolo di urbanistica. Storia e società della Perugia contemporanea, Perugia, Protagon, 1993, pp. 59-102.


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

la Banca italiana di sconto, uno dei maggiori creditori dell’azienda33. Sicuramente, tuttavia, [l]’esperimento non regge oltre il brevissimo sfruttamento della congiuntura bellica; nel momento in cui è necessario riconvertirsi e riplasmare gli impianti volontariamente accresciuti, apportando risorse e competenze tecnico-organizzative nuove, fallisce miseramente34.

Analoga è la vicenda dell’industria lignitifera umbra che vedrà, finita l’emergenza della guerra, calare produzione ed occupazione35. Nel complesso, insomma, le aspettative di un salto verso l’industrializzazione alimentate dalla dinamizzazione dell’economia locale durante la guerra sono destinate a dissolversi rapidamente36. Diversa è al contrario la vicenda della Perugina. Accanto ad alcuni vantaggi, il conflitto sicuramente comporta per l’impresa una serie di problemi e condizionamenti di non poco conto, derivanti dalla natura stessa della sua attività. Anzitutto il Ministero degli approvvigionamenti vieta, nell’ambito delle misure restrittive del consumo voluttuario, la produzione di svariati generi dolciari, ad eccezione di cacao in polvere, alcuni tipi standardizzati di cioccolato, biscotti e pochi altri generi ritenuti utili sotto il profilo alimentare per approvvigionamento dell’esercito e della popolazione civile. Ciò costringe la Perugina ad abbandonare, sino al 1919, la lavorazione dei confetti e di numerosi altri articoli, lasciando inutilizzati inizialmente tre quarti dei nuovi impianti di Fontivegge (il dato, forse esagerato, è di fonte aziendale). Tuttavia il ristagno della produzione sui livelli pre-1915 che ne consegue, come si è detto, non si prolunga più di tanto, visto che nel 1916 la riconversione viene ultimata. L’orientamento verso i prodotti a base di cacao, d’altro canto, si rivelerà ben altrimenti positivo che non il rimanere ancorati al più tradizionale ambito delle confetture. La guerra, insomma, ha l’effetto di spingere l’azienda in un ambito produttivo più moderno ed innovativo di quello in cui essa si è originariamente indirizzata. Sul breve periodo, tuttavia la congiuntura bellica non manca di creare anche ulteriori difficoltà. Materie prime fondamentali quali lo zucchero vengono rigidamente razionate, tanto che nel 1916, per ottenere riforni-

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Gallo, Tipologia dell’industria ed esperienze d’impresa in una regione agricola cit. (a nota 29), p. 418. Ivi, p. 419. Covino e Gallo, Ipotesi e materiali per una storia dell’industria nella provincia di Perugia dal primo dopoguerra alla ricostruzione cit. (a nota 28), p. 241. Cfr. Daniela Crispolti, Il dovere della modernità. Domenico Arcangeli amministratore, politico e intellettuale, Perugia-Spoleto, Crace - Comune di Spoleto, 2006, pp. 141- 155.

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menti dallo Zuccherificio di Foligno ed evitare la sospensione delle lavorazioni, si deve ricorrere alle pressioni dell’amministrazione comunale di Perugia sul Ministero dell’agricoltura, industria e commercio37. La carenza di carbone impedisce di utilizzare l’impianto termico della fabbrica e rende necessario un contratto con la S.a. Elettricità umbra (di cui per altro Buitoni possiede una cospicua partecipazione azionaria), con i conseguenti oneri per l’allaccio e l’adattamento delle attrezzature38. A ciò vanno poi aggiunti i ritardi nei trasporti, l’aumento dei noli e dei costi di stoccaggio, le assenze per gli obblighi di leva di maestranze qualificate e di dirigenti (Giovanni Buitoni stesso, si è detto, manca nel 1917-1918). Sul versante della commercializzazione, la società, decentrata e poco conosciuta, riesce a procacciarsi solo una modesta commessa di 400 quintali di cioccolato per l’amministrazione militare nel 191739. Per il resto deve collocare i suoi prodotti nel mercato, potendo giovarsi solo in misura limitata delle agevolazioni accordate alle industrie direttamente operanti per la mobilitazione bellica. Per contro, tuttavia, il conflitto porta con sé anche circostanze favorevoli, non irrilevanti nel favorire il consolidamento che, in definitiva, la Perugina conosce in questa fase. L’alleanza italiana con le potenze coloniali e marittime dell’Intesa fa sì che gli approvvigionamenti di cacao, nonostante le difficoltà dei trasporti, non siano mai sostanzialmente in pericolo, mentre d’altra parte l’impresa umbra può trarre beneficio dalla scomparsa della concorrenza tedesca ed austriaca tanto sul mercato internazionale delle materie prime che su quello nazionale dei prodotti finiti. Il prezzo all’importazione del cacao, già ridottosi di un terzo nel primo quindicennio del secolo, subisce un’ulteriore flessione del 30% per effetto delle eccedenze createsi con il blocco delle esportazioni agli Imperi centrali e dei paesi da essi occupati, come il Belgio. La Perugina, inoltre, al pari di ogni altra impresa industriale, ha modo di sfruttare i vantaggi dei processi inflazionistici che la forte spesa pubblica per il conflitto finisce per innescare e che faranno sentire il loro effetto non tanto durante il periodo di belligeranza, allorché tutto il sistema dei prezzi risulta strettamente controllato per via amministrativa, quando soprattutto nell’immediato dopoguerra, una volta che vincoli e calmieri non hanno più ragione di essere mantenuti. La svalutazione dei debiti, tanto più per un’impresa che soffre di una sottocapitalizzazione strutturale e ha effettuato cospicui investimenti in

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ASPg, ASCP, Atti amministrativi 1871-1933, 1919, tit. V, art. 2, pos. 1, fasc. 3. ASBP, FP, DGAD, b. 6, fasc. 41 “lettera aperta di Francesco Andreani a Giovanni Buitoni” (1924). Ivi, b. 1, fasc. 6 “Tasse e profitti di guerra”, cc. 5-13 e 22-25.


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impianti fissi come quella umbra, la costante rivalutazione di scorte e merci in lavorazione e, specie immediatamente dopo la fine della guerra, l’aumento della propensione al consumo che l’inflazione montante e le privazioni belliche inducono, costituiscono altrettanti volani della crescita ulteriore che si verificherà all’indomani della Grande guerra. Non stupisce insomma che la Commissione per i sovrapprofitti di guerra, in ottemperanza alle disposizioni del governo Giolitti, contesti alla Perugina, ancorché su basi largamente induttive come si è detto, utili straordinari di 3.140.000 lire per il periodo agosto 1914-giugno 1920, da cui deriva un’imposta di 1.892.095,25 lire. Nell’autunno del 1924, grazie all’interessamento dei uno dei leader del fascismo perugino, Giuseppe Bastianini, e nel mutato clima del governo Mussolini – la cui ascesa ha potuto giovarsi non da ultimo anche dell’insofferenza degli industriali nei confronti della tassazione dei profitti realizzati nel periodo bellico –, Giovanni Buitoni riesce ad ottenere una riduzione di due terzi di questa cifra, nonché una rateazione dei pagamenti di due anni e mezzo40. III.4. L’affermazione sul mercato nazionale In una breve comunicazione ad alcuni collaboratori datata aprile 192241, Giovanni Buitoni fornisce un sintetico quadro della situazione della Perugina, rendendo possibile una valutazione dei progressi fatti dall’azienda alla fine del ciclo post-bellico. All’epoca lo stabilimento di Fontivegge giunge ad occupare circa 400 operai (per tre quarti donne) e a produrre 7.000 quintali di cioccolato l’anno (comprendenti anche 500 quintali circa di cacao in polvere), 1.000 di caramelle e 2.000 di confetture, lavorazione quest’ultima riattivata nel 1919, una volta venuti meno i divieti governativi. Tutto ciò significa una produzione media giornaliera di oltre 30 quintali di merci, quasi 10 volte superiore a quella del 1912. Questo dato trova peraltro conferma in altri documenti che indicano in 30 quintali al giorno la media delle vendite degli inizi del 1922, allorché, per altro sono ancora avvertibili gli strascichi della crisi del 1921, implicitamente lamentati nelle fonti42. La relazione dell’aprile 1922 inoltre valuta il ricavo complessivo, al lordo dei costi e sempre su base annua, attorno ai 17,3 milioni di lire; per contro

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Ivi, cc. 55-59 ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 2 “Originali dei documenti più importanti mandati al sig. Giovanni Buitoni”, cc. 7-9. Ivi, fasc. 7 “Carte personali”, lettera di Bruno a Giovanni Buitoni del 6 febbraio 1922.

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stanno necessità di circolante – per l’acquisto di materie prime e semilavorati e per i salari – di circa 6 milioni. Una disponibilità doppia di tale capitale, giudicata ottimale per il pieno utilizzo degli impianti, permetterebbe, si afferma nel documento, di raddoppiare anche le quantità prodotte (ad eccezione delle confetture, per cui la capacità produttiva sfruttata è già di due terzi), raggiungendo i 20.000 quintali annui, pari all’incirca a 35,5 milioni di fatturato. Il raggiungimento di simili risultati è frutto di un ampliamento degli impianti ulteriore rispetto a quello realizzato con la costruzione dello stabilimento di Fontivegge e la sua attivazione all’inizio della guerra. Nel 1919-21, infatti, si è provveduto ad ingrandire la fabbrica e ad acquistare nuove attrezzature produttive, tra cui “novissimo macchinario tedesco”43. Con una simile operazione, Buitoni approfitta con un notevole tempismo delle opportunità offerte dalla situazione internazionale. Per la Germania infatti, la sconfitta e l’astronomico onere delle riparazioni previste dalla Pace di Versailles si traduce in un trend inflazionistico che sfocerà di lì a breve nell’iperinflazione del 1923. La vera e propria svendita della produzione nazionale che ne consegue consente ottimi affari, soprattutto agli importatori di beni strumentali tedeschi, particolarmente avanzati sotto il profilo tecnologico e della qualità costruttiva. La Perugina in particolare ha modo per questa via di dotarsi a prezzi molto contenuti di numerosi macchinari, destinati soprattutto alle lavorazioni a base di cacao, tra cui ad esempio una notevole numero di conche longitudinali, necessarie per la produzione di fondente e perciò per elevare in misura significativa la qualità stessa del liquore di cioccolato dell’impresa umbra. Molte di queste attrezzature rimarranno in funzione ancora nel secondo dopoguerra e in qualche caso addirittura fino al trasferimento nel nuovo stabilimento di San Sisto del 196244. Compresi tali macchinari, dunque, il valore degli impianti della Perugina raggiunge nel 1922, secondo la stima propostane da Buitoni, un valore di 6,3 milioni di lire. Ma al di là dei sostanziali miglioramenti apportati allo stabilimento di Fontivegge sotto il profilo sia della capacità produttiva che della qualità delle lavorazioni, è soprattutto dal punto di vista commerciale che gli anni del primo dopoguerra costituiscono un passaggio cruciale della vicenda della Perugina. L’impresa, non a caso, viene ora descritta come “potentemente affermata in Italia” e in fase di espansione sui mercati esteri, in particolare 43 44

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Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 2), p. 37. Per una ricostruzione puntuale del macchinario dell’azienda nel periodo tra le due guerre si rinvia a Francesco Chiapparino, Razionalizzazione produttiva e relazioni industriali alla Perugina negli anni Venti, in Uomini, economie, culture. Saggi in memoria di Giampaolo Gallo, a cura di Renato Covino, Alberto Grohmann, Luciano Tosi, Napoli, Esi, 1997, vol. II, pp. 241-264.


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quelli del Mediterraneo centro-orientale e di alcuni stati sudamericani. Di fatto, all’indomani della prima guerra mondiale si verifica in Italia un piccolo boom dei consumi, che per il comparto dolciario replica su scala un po’ più vasta l’espansione verificatasi agli inizi del secolo. Al pari di quest’ultima, la crescita si risolverà anche nel periodo tra le due guerre in una sorta di falsa partenza per chi si aspetta un decollo dei consumi diffusi sul modello di quanto è già avvenuto durante la belle époque – e a maggior ragione avviene nei “dorati anni venti” – nei paesi occidentali più sviluppati. Il dinamismo della domanda privata comincia infatti a raffreddarsi sin dalla crisi del 1921, per essere riassorbito poi in maniera definitiva nel restante corso del decennio, col progressivo ristabilimento dei vincoli sui salari e infine, abbandonate le velleità “manchesteriane” e liberiste del primo governo Mussolini, con la pesante deflazione rappresentata dalla “battaglia della lira”45. Volano di questa temporanea crescita dei consumi è l’inflazione del periodo post-bellico, allorché la grande massa di circolante immessa nel sistema economico per sostenere la mobilitazione industriale non trova più un freno nel vasto sistema di razionamento e di prezzi amministrati introdotto durante la guerra, non più giustificabile una volta che lo sforzo militare si è concluso. L’inflazione, d’altra parte, ha anzitutto l’effetto di disarticolare il sistema della tassazione indiretta e dei dazi doganali che grava sui consumo. Non a caso nel 1920, al primo riassestarsi dei circuiti commerciali internazionali, si assiste ad un’impennata delle importazioni di generi dolciari – e segnatamente di quelli a base di cacao dalla Svizzera –, che vengono poi prontamente arginate dalla nuova tariffa doganale del 1921. Soprattutto, poi, la massiccia ondata di agitazioni operaie e contadine del “biennio rosso” e le pressanti rivendicazioni di un adeguamento dei salari al “carovita” provocano una parziale ridistribuzione del potere d’acquisto a ceti sociali tradizionalmente meno propensi al risparmio di quanto lo siano, ad esempio, le classi medie. Infine, sulla di-

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Per una descrizione delle politiche economiche del fascismo si veda Gianni Toniolo, L’economia dell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1980 ovvero Zamagni, Dalla periferia al centro cit. (a nota 10), parte III. Sulle dinamiche della domanda si veda in particolare ivi, pp. 395 ss. Quanto al primo dopoguerra cfr. poi, oltre a Alessandra Staderini, L’economia italiana dal 1918 al 1922, in La crisi italiana del primo dopoguerra, a cura di Giovanni Sabbatucci, Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 109-130; Vera Zamagni, Le alterazioni nella distribuzione del reddito in Italia nell’immediato dopoguerra (1919-1922), in La transizione dall’economia di guerra all’economia di pace in Italia e in Germania dopo la Prima guerra mondiale, a cura di Peter Hertner e Giorgio Mori, Bologna, il Mulino, 1983, pp. 509-532; Rolf Petri, Storia economica d’Italia. Dalla grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna, il Mulino, 2002, in part. i capp. II.2 e III.7 ovvero Marco Doria, L’imprenditoria industriale in Italia dall’Unità al “miracolo economico”, Torino, Giappichelli, 1998, pp. 58-66.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

Tabella 7 Importazioni italiane di cacao in grani e cioccolato 1913-1929

Fonti: Ministero delle finanze, Movimento commerciale del Regno d’Italia, vv. aa; “Il Dolce”, nn. 26 (1928); Banca d’Italia, L’economia italiana nel sessennio 1931-1936, Roma, 1937, p.642; “Gordian” (Amburgo), nn. 621, 637, 821.

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Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

namica dei consumi, specie di generi voluttuari a basso costo unitario come quelli dolciari, ha un peso sicuramente anche l’effetto psicologico della fine del conflitto e delle privazioni che esso ha comportato, così come, a un livello più profondo, l’accumularsi di aspettative o di semplici esperienze legate alla modernizzazione indotte dalla guerra. Al fronte, infatti, i contadini italiani cominciano a familiarizzare con nuovi beni di consumo, dalla carne in scatola, alle sigarette, a probabilmente alcuni degli stessi generi a base di cacao, da quello in polvere e alcuni tipi di cioccolato, che vengono utilizzati dalle forze armate per il loro elevato valore energetico e la loro facilità di trasporto. Naturalmente, non si intende con ciò sottovalutare le difficoltà del primo dopoguerra e gli enormi problemi di riconversione industriale, con la disoccupazione e il disordine finanziario che ne conseguono, la disarticolazione del mercato internazionale e le tensioni economiche e sociali caratteristiche di quella fase. Semplicemente, in quel turbolento contesto hanno modo di manifestarsi, nella penisola come in gran parte del mondo occidentale, spinte verso un regime di consumi di massa insite nei processi di modernizzazione verificatisi sino ad allora. Mentre per converso, nello specifico caso italiano, gli stessi sconvolgimenti introdotti dalla guerra provocano un temporaneo allentamento della politica di contenimento del tenore di vita diffuso su cui poggia il meccanismo di accumulazione e industrializzazione operante nel paese fino al miracolo economico del secondo dopoguerra. È in questo quadro generale che si colloca il salto di qualità realizzato dalla Perugina. L’azienda umbra deve appunto alla temporanea impennata dei consumi dolciari degli anni successivi alla Grande guerra la sua prima significativa affermazione a livello nazionale, oltre che un primo esordio sui mercati internazionali. Di questa fase è, in particolare, la prima generazione di prodotti dell’impresa, soprattutto per ciò che riguarda il cioccolato. In occasione della Fiera Campionaria di Napoli, nel settembre 1921, ad esempio, “II Mattino” scrive: “La Perugina” (è universalmente riconosciuta in Italia...) come la sovrana fabbrica dei migliori tipi di cioccolato, fra cui le grandi marche Thais al latte, Tebro alla vainiglia, Luisa fondants e Grifo al latte e caffè, dei più squisiti e delicati bombons, specie Malia e Amor e dei più eccellenti ed insuperabili cioccolatini46.

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La citazione è riportata in Glorie del lavoro umbro alla fiera campionaria di Napoli, in “Rivista dell’economia umbra”, XXXIII, 10 (31 dicembre 1921), pp. 222 e ss. Si veda anche al riguardo ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 2 “Originali dei documenti più importanti mandati al sig. Giovanni Buitoni”, cc. 7-9.

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Del 1922, cioè di fatto sempre di questo periodo, sono anche i Baci, la cui nascita è raccontata da Buitoni stesso in un passo piuttosto conosciuto47: Un giorno, tornando a Perugia da un viaggio in Germania, feci una delle consuete ispezioni al negozio Perugina e con sorpresa vidi esposto un nuovo articolo. La sorpresa non stava tanto nel vedere un nuovo articolo […], ma nel suo nome assolutamente inaspettato: i Cazzotti della Perugina. Il cioccolatino con la sua forma tondeggiante e la sua superficie irregolare (era fatto di soffice granella di nocciole e di una nocciola intera in corrispondenza del vertice, il tutto rivestito di ottimo cioccolato fondente), aveva realmente l’apparenza di un pugno chiuso, pronto a sferrare un cazzotto: ma quel nome, che oltre tutto suonava piuttosto volgare, lo trovai assurdo e fuori posto. Come avrebbe potuto un cliente, pensavo, entrare in un negozio e chiedere, magari ad una graziosa venditrice: “Per favore, un cazzotto?”. Mi venne subito in mente che sarebbe stato molto più appropriato e più gentile chiedere, semmai, un bacio. Pensato e fatto: tolsi il cartello dei cioccolatini esposti in vetrina, e ne misi uno nuovo: “Baci Perugina”. Il successo si delineò il giorno stesso. Soprattutto i giovani si rivolgevano alla signorina venditrice, chiedendo con un sorriso: “Signorina, mi dà un bacio?” oppure, più maliziosamente: “Un bacio, per favore”. E la signorina, anche lei con un sorriso: “Eccole un bacio”, rispondeva, e offriva il cioccolatino, accompagnandolo con uno sguardo birichino. In pochi giorni, la grande maggioranza dei negozi italiani erano riforniti abbondantemente di Baci, e il semplice rituale della scherzosa domanda e della risposta era già diventato il più efficace strumento di propaganda del nostro nuovo prodotto: una propaganda che, oltre tutto, non ci costava una lira!

Quanto sia veridica questa ricostruzione, naturalmente, è difficile dire. Lo stesso nome Bacio, a cui il prodotto Perugina deve tanto del suo successo, non è da escludere che sia già stato utilizzato altrove. La ditta tedesca Reichardt – e il riferimento iniziale alla Germania non sarebbe perciò così del tutto casuale –, ad esempio, realizza in quegli anni prodotti con una denominazione simile nel tentativo di penetrare il mercato americano, ove per altro cioccolatini dal nome Kisses probabilmente già esistono in precedenza. Ad ogni modo, il nodo della questione non sta tanto nella paternità originaria del marchio, immaginare il quale per un genere di consumo tipicamente associato al regalo non è poi cosa assolutamente originale, quanto nel fatto che esso funzioni commercialmente. E sicuramente ciò vale per i Baci Perugina, che a tutt’oggi sono uno dei prodotti più longevi, non solo nell’ambito del settore dolciario.

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Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 2), p.44.


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

Parallelamente alla prima affermazione dei prodotti Perugina su scala nazionale, si sperimentano poi anche, come ricordato tra l’altro nel brano citato, le prime forme di vendita diretta dei prodotti dell’azienda. Una coerente politica in questo senso sarà in realtà frutto solo di un’elaborazione graduale. Nel 1919, in ogni caso, viene aperto il primo negozio Perugina, o meglio la rivendita al dettaglio annessa al laboratorio di via Alessi venne trasferita nei più ampi e sofisticati locali di piazza Umberto I, l’attuale piazza della Repubblica, all’angolo con Corso Vannucci, in una delle posizioni più centrali (e visibili) della città48. Del marzo 1921 è poi l’apertura del primo esercizio al minuto fuori dal capoluogo umbro, il negozio di Foligno, nella zona posta sotto la responsabilità del figlio di uno dei soci fondatori, Felice Andreani49. Dal punto di vista dell’organizzazione commerciale diretta si tratta di primi passi molto parziali. Un salto di qualità in questo senso viene compiuto solo nel 1924 con l’apertura del negozio di Napoli, su di una piazza, cioè, molto distante da Perugia e molto differente dal capoluogo umbro, quale può essere il più grande centro urbano del Meridione – coerentemente, per altro, con la strategia perseguita sin dai primi anni dieci di orientare lo sviluppo dell’azienda nei meno competitivi mercati del Centro-Sud. Dal primo dopoguerra, inoltre, la Perugina comincia a destinare quote rilevanti del proprio bilancio alle campagne promozionali. Sin dal 1919 collabora con l’impresa Federico Seneca, uno dei più originali artisti italiani dell’epoca, alla cui cartellonistica l’immagine della Perugina è destinata a rimanere intimamente legata50. Nel 1924 le spese per la pubblicità assommeranno al 20% delle uscite riportate nei libri contabili e negli anni precedenti tale importo non deve essere molto inferiore, dal momento che in più di un’occasione si parla di essa come di uno dei principali strumenti d’affermazione dell’azienda51. Anche nel settore delle esportazioni l’impresa è nel 1922 poco più che agli esordi. I mercati verso cui si orienta sono in primo luogo quelli del Mediterraneo orientale, e tra di essi per la verità solo quelli greco ed egiziano sembrano dare qualche risultato positivo. Nel febbraio-marzo di quell’an-

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ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 3 “Pratica profitti di Guerra e documenti della Società”, c. 6. Ivi, fasc. 7 “Carte personali”, lettera di Bruno Buitoni del 6 febbraio 1922. Gian Paolo Ceserani, Storia della pubblicità in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 134 e Giampiero Mughini e Maurizio Scudiero, Il manifesto pubblicitario italiano. Da Dudovich a Depero, 1890-1940, Milano, NAG Ricordi, 1997, in part. pp. XV sgg. e XXXI. ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 3 bis “Bilancio Buitoni 1923-1924 e seguenti. Riassunti situazione 1913-1914”, c. 26. Cfr. anche la relazione sul bilancio di fine 1922, ivi, fasc. 2 “Originali dei documenti più importanti mandati al sig. Giovanni Buitoni”, cc. 6467.

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no Giovanni Buitoni è in viaggio nei Balcani e in Turchia: in quella occasione intrattiene una fitta corrispondenza con i familiari che illustra i primi passi della politica di esportazione della società52. Nonostante debba confrontarsi con la concorrenza francese e di altre ditte italiane (Talmone, Caffarel, Moriondo), in Grecia la Perugina risulta ben attestata, mentre per il resto non è che ai primi contatti con importatori e confiseur di alcune piazze commerciali. A Smirne, tuttavia, già alla fine del marzo 1922, Buitoni giunge ad un accordo con una ditta di import-export italiana, la Algranti. L’intesa riguarda anche il pastificio di Sansepolcro e consente di aprire un deposito, limitando così ritardi nelle consegne e danni alla merce. Sforzi di penetrazione commerciale vengono poi compiuti nei mercati del Mar Nero, in particolare in Bulgaria (Varna), in Georgia (Batumi) e in Ucraina (Odessa), ove evidentemente ci si appoggia ai contatti già stabiliti dalla Buitoni per le importazioni di grano duro53. Se sono destinati al fallimento i tentativi di penetrare in paesi più settentrionali, in Europa occidentale (ad esempio in Danimarca) come in quella orientale, qualche successo lo si riporta in Sud America. Già prima della guerra il settore dolciario italiano attiva qualche modesto flusso di esportazioni con alcuni paesi latino-americani, giovandosi del ritardo dell’industria locale, di una relativa scarsità di concorrenti esteri e della presenza di nutrite comunità di emigrati italiani54. Sebbene nei primi anni venti queste favorevoli condizioni subiscano un ridimensionamento, per la crescita della concorrenza delle manifatture locali e degli esportatori europei e nordamericani, la Perugina riesce ad allacciare contatti in Venezuela, in vari centri dell’Uruguay e più tardi in Argentina. Nell’Archivio Buitoni Perugina è conservato un rapporto di Armando Verduccioli, uno dei principali responsabili di questi legami all’estero dell’azienda umbra, redatto appunto a Montevideo nel 1924 durante la crociera promozionale dei prodotti italiani che la nave Italia compie quell’anno nelle Americhe col patrocinio del governo, e a cui prende parte tanto la Perugina che la Società maioliche Deruta, strettamente collegata all’azienda dolciaria. Nonostante l’enfasi data dalla stampa locale a questa partecipazione e al lancio di quella che – probabilmente con qualche eccesso – viene definita una prima campagna pubblicitaria negli Stati Uniti, la comunicazione privata del-

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Ivi, fasc. 7 “Carte personali”. Si veda in proposito anche la lettera di Verduccioli a Buitoni del 12 maggio 1922, ivi, c. 132. Produzione ed esportazione italiana di cioccolato, in “Il Dolce”, III, n. 26 (aprile 1928), pp. 85-88.


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

l’agente commerciale non nasconde un certo sconforto per le difficoltà incontrate dai marchi italiani oltreoceano55. Nel complesso, insomma, gli anni del primo dopoguerra vedono la Perugina affermarsi come azienda di rilevanza nazionale, presente soprattutto sui mercati centro-meridionali ma nota ovunque, capace di rapportarsi su posizioni di parità con le più rinomate ditte settentrionali e dotata di orientamenti, seppure ancora solo abbozzati, verso originali politiche pubblicitarie, di esportazione e di distribuzione diretta. Una simile crescita, tuttavia, non è priva di costi, come emerge dai frammentari dati disponibili sull’indebitamento e sugli utili dell’azienda. Nella sua relazione ai soci del novembre 1922, Giovanni Buitoni indica in due milioni di lire (367.200 in lire del 1913) il capitale sociale della Società in nome collettivo; cifra più o meno equivalente, vista la perdita dei conferimenti iniziali e l’assenza formale di dividendi, all’insieme degli utili consolidati degli ultimi dodici anni56. Per contro, sempre secondo questa fonte, in quello stesso lasso di tempo sono stati contratti debiti per un totale di 7 milioni, oltre 2/5 dei quali con l’avallo della Buitoni di Sansepolcro. L’impresa comincia a far registrare profitti consistenti a partire dal 1917, ma ancora cinque anni dopo non si prevedono distribuzioni di utili per i soci prima del 192557. In realtà qualche ripartizione ha avuto luogo, ad esempio attraverso premi, e soprattutto è consistente il prelievo di risorse dalla società sotto forma di prestiti (nel dicembre 1922 risultano 650.000 lire in crediti ai soci58) e di garanzie per altri affari. Né è da escludere che una certa quantità di profitti venga distribuita per via informale. In generale tuttavia è senz’altro vero che lo sviluppo degli anni dieci si fonda su scarsi benefici alla proprietà oltre che su di un forte indebitamento. Quest’ultimo e la ormai quasi cronica carenza di capitale circolante dell’impresa non mancano di creare problemi anche gravi nei turbinosi anni della crisi post-bellica. Il crollo della Banca italiana di sconto, ad esempio, per poco non porta l’azienda al fallimento, mettendo in circolazione una forte somma di effetti passivi che sono poi recuperati solo grazie al provvidenziale intervento del Banco di Roma e della Buitoni di Sansepolcro59.

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Cfr. la cit. lettera di Verduccioli, nonché Com’è considerata la Perugina all’estero, in “L’Assalto”, 2-3 novembre 1926 e La Perugina fa onore alla patria affermandosi brillantemente nelle lontane Americhe, ivi, 5-6 dicembre 1924. ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 2 “Originali dei documenti più importanti mandate al sig. Giovanni Buitoni”, cc. 48-50. Cfr. il memoriale Spagnoli, ivi, b. 4, fasc. 25 “Annibale Spagnoli”, cc. 79-80. Ivi, fasc. 2 “Originali dei documenti più importanti mandate al sig. Giovanni Buitoni”, cc. 48-50. Ivi, b. 1, fasc. 7 “Carte personali”, cc. 64-70.

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Alla fine del 1921, poi, il pastificio toscano concede direttamente un credito di 300.000 lire all’”alleata” Perugina60. Ancora alla fine dell’anno successivo Giovanni Buitoni si vede costretto ad impegnare due terzi del magazzino cacao della fabbrica con la Banca commerciale, che nondimeno due mesi dopo rifiuta il rinnovo di anticipi a breve per la non colossale cifra di 55.000 lire. Secondo il bilancio di fine esercizio del 1922, l’indebitamento netto con le banche supera i tre milioni di lire, più o meno la cifra che Giovanni, estensore del bilancio, reputa necessario reperire in vista della trasformazione del pastificio di Sansepolcro in società anonima e del conseguente ritiro del suo avallo. È bene ricordare, tuttavia, che Buitoni, mirando ormai apertamente all’acquisizione della proprietà della Perugina, ha tutto l’interesse a presentare come insostituibile il ruolo della propria famiglia nel sostenere l’indebitamento dell’azienda dolciaria, un indebitamento di cui, del resto, è egli stesso il principale responsabile. Vari problemi l’azienda conosce anche durante il “biennio rosso” sul fronte delle relazioni di fabbrica e della retribuzione della manodopera. Già nel 1918 e nel 1919 si verificano agitazioni per l’indennità sul caroviveri, ma in quell’occasione il buon andamento degli affari lascia agevoli margini per una composizione contrattata delle vertenze. Nel 1920 invece il confronto è più duro. Nell’estate di quell’anno le organizzazioni operaie richiedono attraverso la Camera circondariale del lavoro l’adeguamento dei salari Perugina ai livelli medi delle fabbriche settentrionali, cioè 17-21 lire al giorno per gli operai maschi di categoria superiore e 14-17 per quelli di categoria media. Al rifiuto della direzione segue una lunga fase conflittuale, culminata nello sciopero del novembre-dicembre 1920 e proseguita fino alla primavera successiva61. Benché non sia noto nel dettaglio l’esito della vicenda, il senso generale in cui essa si conclude si coglie nelle parole con cui lo stesso Buitoni la ricorda in una serata del Dopolavoro Perugina nel 193462: avevamo avuto un gravissimo sciopero nel novembre 1920 (bisogna pur ricordare ogni tanto quei tempi che tanto facilmente si dimenticano) ed io per ben tre mesi non ero sceso più tra i camerati della fabbrica. Ebbene furono gli stessi operai, le stesse operaie

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Ivi, fasc. 2 “Originali dei documenti più importanti mandate al sig. Giovanni Buitoni”, cc. 48-52 e 72. La corrispondenza della Perugina con la Camera del lavoro di Perugia è in ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 3 “Pratica profitti di guerra e documenti della Società”, cc. 25 e ss; quella con le altre ditte dolciarie sulle retribuzioni, ivi cc. 14-17. Su tutta la vicenda si veda anche “L’Avanti!” del 9 dicembre 1920. “L’Assalto” del 10 aprile 1934; per la richiesta dei capireparto cfr. ASBP, FP, DP, b. 1, fasc. 1 “Camera del lavoro e commissioni interne”, c. 13.


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

che mi fecero giungere l’espressione del loro vivissimo desiderio che io tornassi fra loro. Accettai imponendo una singolare espiazione: che essi sfilassero con la bandiera tricolore in testa per il Corso Vannucci. La sfilata avvenne, la pacificazione vera, definitiva [...] fu conclusa, ed il tutto solennizzato con una indimenticabile riunione nei capannoni della Perugina. Era l’1 maggio 1921.

La rievocazione risente del clima politico degli anni trenta ed è riportata da un giornale, l’organo del Partito nazionale fascista perugino, ovviamente teso ad enfatizzarne i toni. Essa tuttavia è significativa dell’orientamento di Giovanni Buitoni nelle relazioni industriali. Merita d’altro canto, di essere sottolineato come, a fronte della rigidità sulle questioni salariali e dell’affermazione della gerarchia di fabbrica, egli non trascuri di concedere alle maestranze della Perugina sin dal primissimo dopoguerra premi e fondi previdenziali, cui fa seguito negli anni immediatamente successivi una prima serie di iniziative dopolavoristiche, che vanno dai corsi serali di igiene domestica e di lingue (per gli impiegati), alla palestra, alla creazione di una filarmonica. Il tutto si inserisce, com’è ovvio, in una prospettiva non priva di paternalismo, ma anche dotata di una sua modernità per l’enfasi produttivistica e per la ricerca del consenso all’interno della fabbrica di cui riecheggia, tanto più se si considera l’ambiente ancora profondamente legato ai rapporti di lavoro tradizionali, artigiani e agrari, quale è quello della Perugia degli anni venti.

III.5. La trasformazione in S.p.a. Tutta questa intensa stagione, che sia pure a tratti confusamente, vede gettare molte delle basi dei successivi orientamenti della vicenda aziendale, giunge alfine ad un punto di svolta nel 1923. La trasformazione della Perugina in società per azioni suggella infatti quell’anno un cambiamento radicale dei suoi equilibri interni, equivalente per certi versi ad un vero e proprio atto di rifondazione, con il passaggio della proprietà dell’azienda nelle mani di Giovanni e dei Buitoni di Perugia, affiancati dalla moglie di Annibale Spagnoli, Luisa, e dai figli di questi, Mario, Aldo e Armando. All’origine di questa evoluzione sta il progressivo aumento di peso dei Buitoni, e di Giovanni in particolare, nella gestione dell’azienda, a fronte del permanere dei vecchi equilibri della proprietà. Agli inizi degli anni venti questa resta infatti divisa pariteticamente tra i quattro soci fondatori, escludendo formalmente perciò l’effettivo direttore, il cui ruolo nella gestione e nel successo dell’impresa è via via crescente. Una correzione parziale di questa situazione viene tentata con la revisione degli accordi socie85


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tari avvenuta nel maggio 192063, che tuttavia non va oltre la riformulazione della ragione sociale, trasformata in S.n.c. Perugina cioccolato e confetture, e un certo riconoscimento del ruolo della direzione generale (Giovanni Buitoni) e di quella tecnica (Annibale Spagnoli, coadiuvato da Luisa). Ai due organi viene infatti attribuito il 22% sugli utili netti, in parte compensato dall’attribuzione alla proprietà di dividendi del 5%. Tali accordi non sembra diano luogo a reali distribuzioni di utili (salvo eventualmente per l’esercizio giugno 1920-giugno 1921, di cui non si possiede la documentazione), poiché appunto la linea di condotta di Giovanni Buitoni in questo confronto con i soci del padre è quella di negare la disponibilità di attivi netti (almeno ufficialmente) e reinvestire nello sviluppo dell’impresa i proventi della gestione, la cui esistenza è peraltro sottolineata con forza. La necessità di investimenti, lo si è visto, consente del resto a Buitoni di appoggiarsi – per avalli e prestiti diretti – al pastificio di Sansepolcro, vedendo così ulteriormente esaltato il peso della propria famiglia all’interno della Perugina. Lo scontro, che viene delineandosi durante tutto il dopoguerra se non già in precedenza, precipita infine, negli ultimi mesi del 1922, in coincidenza con l’acuirsi della crisi di liquidità che si registra in quella fase. Il 10 novembre Giovanni Buitoni presenta ai soci del padre, con toni inusitatamente duri, un progetto di aumento del capitale sociale che prevede l’apporto di un milione e mezzo da parte della propria famiglia e la ridistribuzione delle quote di controllo: ne deriverebbero 7 pacchetti (per un totale di 3,5 milioni), quattro dei quali ai vecchi soci (tra cui anche, ovviamente, il padre Francesco), uno a suo nome e due a quello dello zio Silvio, titolare dell’azienda di Sansepolcro. I Buitoni verrebbero così a disporre dei 4/7 della proprietà della nuova Perugina. Al secco rifiuto opposto da Andreani, Ascoli e Spagnoli, Buitoni minaccia le proprie dimissioni e annuncia, stante il forte indebitamento dell’azienda, il prossimo ritiro dell’avallo della Gio & f.lli Buitoni, dovendosi questa trasformare in anonima64. In realtà, tuttavia, l’impressione è che Giovanni e la sua famiglia siano lontani dal disporre della liquidità per realizzate il minacciato aumento di capitale, che di fatto avverrà solo svariati anni più tardi. Dallo stallo che viene a determinarsi, si comincia a uscire poco dopo, a fine dicembre, allorché Buitoni sembra trovare un accordo con Annibale Spa-

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ASBP, FP, DGAD, b. 4, fasc. 25 “Dopolavoro”, cc. 79-98. Ivi, b. 1, fasc. 2 “Annibale Spagnoli”, cc. 48-52, Relazione del Direttore Generale (G. Buitoni) sulla situazione finanziaria e sulla proposta di aumento del capitale dell’azienda, Perugia, 10 novembre 1922. Le carte successive riportano poi la successiva corrispondenza tra i soci.


Capitolo III Dal 1907 al 1923. L’importanza di chiamarsi Giovanni

gnoli, prospettando la sostituzione degli altri due soci, Ascoli e Andreani, con partecipazioni proprie e della moglie di Spagnoli, Luisa, che come si è accennato ha svolto un ruolo non secondario alla Perugina, prima affiancando il marito e poi assumendo un peso di rilievo nella gestione tecnica della fabbrica durante la guerra65. L’intesa fra i due non regge a lungo, anche per l’emergere della relazione che lega sentimentalmente Luisa a Giovanni, ma raggiunge comunque lo scopo di incrinare il fronte della maggioranza societaria. Nei primi sei mesi del 1923 si intrecciarono manovre e contromanovre. Anzitutto, Buitoni si assicura l’appoggio dei parenti di Sansepolcro, che rendono disponibili circa 500.000 lire in contanti e aprono trattative parallele con Andreani ed Ascoli66. Già dal marzo del 1921, per altro, quest’ultimo si è visto costretto ad impegnare i propri diritti sulla Perugina per far fronte alle gravi perdite della sua ditta milanese, le Industrie riunite di filati, che nel giugno successivo viene messa in liquidazione. La vicenda si trascina appunto fino al 1923: il primo dicembre di quell’anno il Tribunale di Milano dichiarerà il fallimento della società ed un anno dopo Leone Ascoli ed il figlio Napoleone verranno rinviati a giudizio per bancarotta semplice67. È evidente perciò che nel 1923 Giovanni Buitoni abbia buon gioco nel prospettare una consistente liquidazione ad un socio che si trova ad un passo dal completo dissesto finanziario e dal discredito nel mondo degli affari. Quanto agli Spagnoli poi, verso la fine del 1922 i rapporti tra i due coniugi giungono ad un punto di rottura, e Luisa rivendica per sé e i figli una parte della quota di proprietà del marito, quale riconoscimento della sua più che decennale attività alla Perugina. Facendo leva su questo insieme di situazioni, alternando rotture a riconciliazioni, Buitoni, che dal giugno 1923 può fregiarsi del titolo di commendatore, giunge infine tra il 15 e il 19 agosto di quell’anno ad un primo accordo con Ascoli e Andreani, che accettano di recedere dalla società. Con Annibale Spagnoli, al contrario, che con un atto a parte intende riservarsi la possibilità di entrare a far parte della nuova Perugina su posizioni di parità con i Buitoni, le trattative proseguono in maniera convulsa per altri due mesi. La vicenda, resa ancora più amara dalla contemporanea separazione dei coniugi Spagnoli e dal coinvolgimento dei figli, schieratisi con

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Ivi, b. 4, fasc. 25 “Dopolavoro”, cc. 79-98. Si vedano al riguardo le lettere di Silvio Buitoni del 28 gennaio e di Bruno del 15 marzo a Giovanni (ivi b. 1, fasc. 3 “Pratica profitti di guerra e documenti della Società”, cc. 116-119). Ivi, b. 3, fasc. 5 “La Perugina cioccolato e confetture. Documenti firmati il 19 agosto”, Posizione Ascoli Leone, in part. le cc. 3, 6, 47 e 55 ss.

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Luisa, si conclude infine con il ritiro, dopo forti pressioni, di Annibale68. Il 16 ottobre si giunge così alla firma degli atti che sanciscono il nuovo assetto della Perugina: la vecchia S.n.c. viene trasformata in società anonima con un capitale di un milione di lire, formalmente nelle mani di Francesco Buitoni, in attesa di un prossimo aumento di capitale. Andreani e Ascoli hanno già ricevuto nell’agosto cambiali rispettivamente per 1.590.000 e 410.000 lire. Spagnoli riceve in quell’occasione 900.000 lire (sempre in cambiali e al netto del precedente indebitamento), due terzi delle quali vengono da lui contestualmente girate alla moglie ed ai figli e restano per questa via all’interno della società69 ad attestare quanto dovuto a questi ultimi. I successivi rapporti tra i vecchi soci e i nuovi padroni della Perugina saranno tutt’altro che pacifici: il pagamento delle cambiali si protrae fino agli anni trenta e con esso gli scontri, le recriminazioni e i ricorsi legali. Nondimeno la svolta si è compiuta e l’azienda umbra si è data un solido assetto proprietario imperniato sulla famiglia Buitoni e, in posizione di minoranza, Luisa Spagnoli ed i figli. Il 30 ottobre 1923, alla presenza di Mussolini e di tutto lo stato maggiore del Pnf, convenuti in città per l’anniversario della “marcia su Roma”, Giovanni Buitoni, affiancato dai familiari, i collaboratori e Luisa Spagnoli, dà la comunicazione ufficiale del nuovo assetto societario dell’azienda70.

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Ivi, b. 4, fasc. 25 “Annibale Spagnoli”, cc. 79-98. Una ricostruzione della vicenda dal punto di vista del direttore tecnico della Perugina è in Valerio Corvisieri, Una famiglia di imprenditori del Novecento. Gli Spagnoli da Assisi a Perugia (1900-1970), Perugia, Salvi, 2001, pp. 15-30. I pagamenti effettuati dalla Perugina a Spagnoli sono riassunti in una nota in ASBP, FP, DGAD, b. 2, fasc. 2 “Originali dei documenti più importanti mandati al sig. Giovanni Buitoni”, cc. 2-3, mentre uno specchietto riassuntivo della liquidazione dei vecchi soci è ivi b. 1, fasc. 5 “La Perugina cioccolato e confetture. Documenti firmati il 19 agosto”, c. 94. Le cifre riportate trovano riscontro anche in altre fonti e sono contraddette solo da alcune carte relative a Leone Ascoli (ivi, b. 3, fasc. 15 “Posizione Ascoli Leone”, c. 142), secondo le quali egli percepirebbe nell’agosto del 1923 910.000 lire, mezzo milione in più di quanto indicato. È probabile per altro che Ascoli abbia debiti con l’azienda legati al cattivo andamento dei suoi restanti affari. Ivi, b. 1, fasc. 2 “Originali dei documenti più importanti mandati al sig. Giovanni Buitoni”, cc. 81 ss. ove sono contenuti anche gli estratti de “L’Assalto” che forniscono il resoconto della giornata.


Capitolo IV Le sfide degli anni venti

Capitolo IV

Le sfide degli anni venti

IV.1. Il confronto con l’Unica Era appena finita la battaglia contro [...] Aldo Buitoni, quando dovetti impegnarne un’altra, durissima, con un vero gigante dell’industria italiana: il famoso Gualino [...Egli] era così convinto di poter costringere anche la Perugina ad entrare nel suo disegno, che aveva messo cinque rettangoli sotto un UNO nel manifesto reclamistico creato per lanciare la nuova impresa: un rettangolo, quello destinato alla Perugina, era stato lasciato vuoto, in attesa della nostra [...] resa1.

La rievocazione di Giovanni Buitoni prosegue con la descrizione degli approcci “dal tono palesemente presuntuoso” del capo della Snia e con l’iniziale, rassegnata, decisione delle famiglie Buitoni e Spagnoli di cedere l’azienda per 36 milioni di lire. Quando già è in viaggio per Torino, tuttavia l’imprenditore umbro si risolve a non abdicare e a raccogliere la sfida: “tornato [...] dal colloquio torinese [...] fui capace di trasfondere [...] questa fiducia in tutti gli altri. La guerra cominciò, ma fu la Perugina a vincerla”2. Questo racconto è, al solito, difficilmente verificabile in molte sue parti. Anzitutto, col riferimento al confronto che lo oppose al cugino Aldo per l’uso del marchio del pastificio di Sansepolcro, Giovanni Buitoni sembra collocare questi avvenimenti agli inizi degli anni trenta, quando tuttavia l’astro di Gualino si è già, seppure temporaneamente, eclissato dalla scena industriale italiana. In realtà la vicenda deve avere luogo nel corso del 19243. Del suo viaggio a Torino l’imprenditore umbro scrive il 14 ottobre di quell’anno, presumibilmente qualche giorno dopo il suo rientro, in una lettera a Luigi Piazza, direttore amministrativo dell’Unica, affermando di

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Giovanni Buitoni, Storia di un imprenditore, Milano, Longanesi, 1973, pp. 55-56. Ibidem. Nel 1930, infatti, Aldo Buitoni, cugino di Giovanni del ramo toscano della famiglia, fonda la S.a. Aldo Buitoni & figli, un’azienda che produce prodotti alimentari, sfruttando il marchio Buitoni. Ciò provoca la reazione di Giovanni, che ne frattempo ha assunto il controllo dell’azienda di Sansepolcro ed uno scontro che si conclude con l’assorbimento in quest’ultima della società di Aldo. Per la vicenda cfr. Giampaolo Gallo, Dagli esordi alla seconda guerra mondiale, in “Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, contributi di Renato Covino, Paola Boschi e Daniele Orlandi, Electa Editori umbri associati, 1990, p. 24.

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essere rimasto impressionato dalla visita alla Snia e di avere apprezzato lo scambio di idee appunto con Gualino e con un membro del suo staff, Ferdinando Ravazzi4. Egli aggiunge anche che con il necessario chiarimento del punto di vista dell’Unica e del punto di vista nostro [...] ho potuto constatare come non sia impossibile una collaborazione per il raggiungimento degli scopi comuni ed una cordialità di rapporti che non potrà non portare buoni frutti in qualunque evenienza.

Al di là della cordialità e della volontà di non tagliare i ponti con il potente concorrente, tuttavia, la Perugina rifiuta seccamente qualsiasi proposta di fusione con la grande impresa torinese, impegnandosi con ciò, a meno di un anno dalla sua trasformazione in anonima, in un confronto assai duro e rischioso, in definitiva, per la sua stessa sopravvivenza. Per cogliere i motivi e le origini di una simile situazione, e spiegare come mai quella che agli inizi degli anni venti è un’impresa emergente sul mercato nazionale si trovi, di lì a breve, ad un passo dall’essere assorbita dalla concorrenza, è opportuno far un passo indietro e guardare all’evoluzione che il settore dolciario italiano conosce tra guerra e dopoguerra, con i nuovi scenari che le vicende dell’epoca sembrano aprire. Del primo conflitto mondiale, e dell’inserimento di alcune sezioni del comparto nei meccanismi della spesa pubblica, infatti, non beneficia solo la Perugina. Al contrario, come si è accennato, essa viene coinvolta in forniture per l’amministrazione militare solo marginalmente per modeste quantità di cioccolato. Il grosso delle commesse di prodotti a base di cacao o di gallette alle forze armate va piuttosto, come è facile immaginare, ad aziende già affermate, quali quelle del Nord Ovest del paese. Tra di esse, lo si è accennato, un ruolo di primo piano ha dal 1905 la svizzera Tobler, che attraverso la proprietà della maggiore azienda italiana di cioccolato, la Michele Talmone di Torino, si trova nelle condizioni migliori per sfruttare l’impennata della domanda che la guerra porta con sé. In realtà, le cospicue commesse dello Stato e gli ampi margini di guadagno che esse comportano, sono per il gruppo svizzero solo una ricompensa parziale, e soprattutto tardiva, dello sforzo finanziario compiuto per entrare nel mercato italiano. Dopo l’exploit dei primissimi anni del secolo, infatti, la crisi del 1907 raffredda la dinamica della domanda di cioccolato della penisola, e con essa i profitti della Talmone, frustrando sostanzialmente le aspettative di un rapido decollo dei consumi nel settore e di un loro adeguamento a quelli dei paesi più sviluppati. Non solo, ma il penalizzante regime tariffario vigente in Italia, spinge la Tobler

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ASBP, FP, DGAD, b. 6, fasc. 44 “Unica Bonatti Digerini & Marinai”, cc. 29-30.


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ad acquisire anche un’impresa di Lugano, la Bianchi, e a concentrare su di essa i nuovi investimenti, in modo da poter eventualmente esportare su altri mercati europei le quote di produzione non assorbite da quello italiano5. Rivelatasi inizialmente un mezzo fallimento, insomma, la penetrazione nella penisola finisce poi, inaspettatamente, per fruttare buoni profitti al gruppo bernese con lo scoppio della guerra. Durante la fase bellica, infatti, la maturità tecnologica delle produzioni elvetiche, con la capacità che ne deriva di realizzare lavorazioni standardizzate su larga scala, garantisce alla Tobler utili talmente alti che, viste anche le difficoltà a trasferire le risorse così accumulate oltre confine, questa giunge nel 1917 ad acquisire la sua maggiore concorrente italiana, quella Moriondo & Gariglio che si è visto essere l’altra grossa azienda torinese del comparto per capitale investito e specializzazione produttiva. È sulla base di questa fusione che, alla fine della guerra, la Tobler concepisce il progetto di ristrutturare e concentrare le sue attività in Italia, creando un nuovo grande stabilimento modernamente attrezzato (di cui si avvia la costruzione a Torino lungo la statale di Francia), che metta l’impresa in condizione di dominare il mercato nazionale nel dopoguerra. Una simile prospettiva, per altro, viene considerata sempre con un certa diffidenza dal capo della multinazionale svizzera, Theodor Tobler, che rimane memore delle delusioni conosciute in età giolittiana, ma pare essere invece abbracciata con un certo entusiasmo dai dirigenti italiani dell’impresa, che del resto godono di un’ampia autonomia, se non anche, forse, di compartecipazioni agli affari della ditta di Berna nella penisola. A costoro, probabilmente, si riferisce Fernando Bonatti, proprietario di un’emergente impresa dolciaria milanese, in una sua lettera a Buitoni della tarda estate del 1920, allorché denuncia “ribassi strani e sintomatici fatti dalla nota Casa italianissima di Torino […] la cui direzione ripete spesso che vuole schiacciare tutti i cioccolatai italiani”6. Ben presto Theodor Tobler decide di disimpegnarsi dalla penisola, spaventato dal clima di montante nazionalismo che si registra nel paese, dal largo richiamo alla polemica contro l’industria straniera che – come si desume anche dalla citazione – fanno gli esponenti delle nuove, aggressive aziende emergenti, quali appunto la Perugina e la Cioccolato Bonatti, e dalla loro stessa vicinanza agli ambienti che si apprestano a salire al pote-

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Per una ricostruzione complessiva delle vicende Tobler e Talmone si rimanda ai già citati Chiapparino, Competizione e cooperazione, in Chocolat Tobler, a cura di Leimgruber, Feutz, Rossfeld, Tobler; su Teodor Thobler: Patrick Feutz, Andreas Tobler, Schoggibaron. Das bittersûsse Leben Theodor Toblers (1867 bis 1941), Bern, Benteli Vlg., 1996. ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 3 “Pratica profitti di guerra e documenti della Società”, cc. 10-13, corrispondenza Buitoni-Bonatti del 1920.

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re. Mentre la multinazionale di Berna si concentra sui più promettenti investimenti francesi e britannici, il giro d’affari che ad essa fa capo in Italia viene probabilmente ceduto ai suoi stessi amministratori locali, che tentano di rilanciarlo nei primi anni venti, salvo rimanere incagliati nell’instabilità finanziaria che imperversa nel paese tra il 1921 e il 1923. È appunto al termine di questa parabola che, nel 1924, sulla scena del comparto dolciario nazionale entra Riccardo Gualino, uno dei più brillanti e controversi imprenditori del momento, socio di Agnelli e artefice dello spettacolare successo della Snia Viscosa, divenuta in quegli stessi anni uno dei colossi internazionali del nuovo settore della seta artificiale7. Gualino riprende e amplia l’originario progetto della Tobler, rilevando la Talmone-Moriondo e fondendola con la Cioccolato Bonatti di Milano, cui si è accennato e con la Gellettine Dora Biscuits di Genova, una delle maggiori produttrici nazionali di biscotti, pure largamente beneficiata dal conflitto e poi entrata in crisi con la riconversione. Non è escluso, d’altro canto, che lo stesso Fernando Bonatti, inizialmente coinvolto nell’affare, abbia avuto un ruolo attivo nel suggerire la combine al finanziere piemontese. Questi, in particolare, così ricorda la vicenda nelle memorie che scrive una decina d’anni dopo dal confino di Lipari e Cava de’Tirreni, a cui viene condannato dal regime dopo il crack del suo impero industriale nel 19308: Parallelamente alla “Snia”, sviluppavo in Italia altre imprese, alcune notevoli, tra le quali vorrei ricordare l’“Unica”, perché fu aspramente criticata. L’industria del cioccolato e dei confetti era condotta in Italia quasi per intero da vecchi stabilimenti rabberciati o ingranditi alla meglio, inadatti alle esigenze di una vera industria moderna. Acquistai il controllo di parecchie antiche aziende, chiusi gradatamente senza eccezione le vecchie fabbriche, e creai in Torino un magnifico stabilimento moderno, capace di cinquecento quintali giornalieri di produzione, organizzato secondo i più recenti dettami della tecnica, e che parve troppo ardito. Invece già ora, malgrado la depressione economica, lavora al completo in alcuni periodi dell’anno; non tarderà ad essere totalmente utilizzato e a richiedere ulteriori ingrandimenti.

In realtà il grande stabilimento di corso Francia si rivelerà drammaticamen-

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Per la figura di Gualino si veda Claudio Bermond, Riccardo Gualino finanziere e imprenditore. Un protagonista dell’economia italiana del Novecento, Torino, Centro studi piemontesi, 2005; Nicola De Ianni, Gli affari di Agnelli e Gualino, 1917-1927, Napoli, Prismi, 1998; Marcella Spadoni, Il gruppo Snia dal 1917 al 1951, Torino, Giappichelli, 2003; nonché gli ampi e illuminanti passi dedicati alla figura del finanziere biellese da Valerio Castronovo, Giovanni Agnelli. La Fiat dal 1899 al 1945, Torino, Einaudi, 1977. Roberto Gualino, Frammenti di vita e pagine inedite, Roma, Famija piemonteisa, 1966, p. 61.


Capitolo IV Le sfide degli anni venti

te sovradimensionato rispetto alla situazione italiana: alla fine degli anni venti, lo stesso Gualino tenterà persino di accorpare all’Unica le produzioni della Cinzano per utilizzarne gli spazi; mentre nel decennio successivo, passata sotto la proprietà della Venchi, la grande fabbrica apparirà malinconicamente semivuota, quasi un monumento al naufragio dei sogni fordisti del finanziere biellese nell’Italia tra le due guerre9. Perché le potenzialità dell’impianto vengano usate bisognerà infatti attendere il boom del secondo dopoguerra, quando esso ospiterà le produzioni della Talmone, prima che quest’ultima, per ironia della sorte, venga infine travolta dalle speculazioni del suo ultimo proprietario, Michele Sindona, e con gli anni settanta lo stabilimento torni ad essere progressivamente abbandonato. A prescindere da queste vicende, ancora di là da venire, il quadro del comparto dolciario italiano resta dominato, nella prima metà degli anni venti, dal progetto di rilancio di Gualino. L’ipotesi poggia sulla scommessa che il dinamismo della domanda del primo dopoguerra non sia transitorio, ma che costituisca la premessa per il definitivo decollo dei consumi di massa nel paese. In vista di ciò, il capo della Snia crea nel 1924, con l’Unica, una delle maggiori imprese italiane (con un capitale di 180-200 milioni alla metà degli anni venti), dotandola non solo di impianti capaci di una produzione di 250.000 quintali di merci l’anno (pari all’incirca alla metà di quella che sarà la capacità produttiva dell’industria dolciaria italiana negli anni trenta), ma anche di una imponente rete di distribuzione diretta, che entro il 1928 arriva a contare ben 332 negozi per la vendita al dettaglio, sparsi praticamente in ogni angolo del territorio nazionale10. Con una manodopera di 2.000-2.500 unità ed una produzione effettiva che non supera comunque mai gli 80.000 quintali l’anno di prodotti, l’Unica costituisce, insomma, un complesso industriale di grandi proporzioni, che sovrasta largamente qualunque altro concorrente italiano ed è comparabile solo con i grandi gruppi multinazionali svizzeri, inglesi o francesi operanti a livello internazionale. È all’interno di una tale compagine che, almeno stando alle affermazioni di Buitoni, la Perugina sarebbe destinata ad entrare. D’altra parte, le voci di un tale assorbimento devono essere diffuse ed insistenti se, meno di una settimana dopo il suo viaggio a Torino, nell’ottobre del 1924, Buitoni dira-

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Giuseppe Berta, L’Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell’industrialismo italiano, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 60-66. Sull’Unica si rinvia a Francesco Chiapparino, Il tentativo di concentrazione dell’industria dolciaria italiana negli anni Venti: Gualino e l’Unica (1924-1934), in Annali di storia dell’impresa, (1989/1990), 5/6, pp. 323-373.

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ma al personale di vendita una circolare riservata11, in cui si afferma che “la ns. Ditta non fa parte dell’Unica, né trattative sono state mai iniziate fra le parti interessate”. Tra le due società, si aggiunge nel documento, non esiste “nessun contrasto di interessi”, ma anzi “una serie di scopi comuni da perseguire e da raggiungere” sia “in rapporto al mercato nazionale che all’esportazione”. Nondimeno, l’ipotesi che, alla fine, la Perugina scenda a patti con 1’Unica continuerà ad essere ventilata per tutto il resto degli anni venti. La “cordialità di rapporti” tra le due aziende viene, per altro, almeno formalmente mantenuta, come testimoniano i frequenti scambi di informazioni sulla politica dei prezzi o sulla linea da dare all’azione dell’associazione di settore, la Federdolce. Quanto però all’assenza di un “contrasto di interessi”, o addirittura di una possibile collaborazione, si tratta ovviamente poco più che di formule di circostanza. Lo dimostra, accanto ai toni usati dalla stessa autobiografia di Buitoni citata in precedenza, un comunicato che questi si avvia a diramare alla stampa nel marzo 1925, e che viene garbatamente bloccato dalla direzione dell’Unica12: si dice da alcuni che l’Unica [...] abbia divisato di farci una lotta di prezzi per indurci ad entrare a far parte dell’Unione stessa; altri affermano [...] che l’assorbimento è già cosa compiuta [...]. Ci preme pertanto smentire recisamente [...]: la nostra industria è oggi come ieri, di nome e di fatto, completamente Perugina, né trattative pendono per una eventuale fusione o cessione. Altrettanto fantastica è la voce del contrasto in atto fra l’Unica e la nostra Industria. L’Unica infatti si propone, con mezzi eccezionalmente potenti, di volgarizzare l’uso del cioccolato come alimento, tenendo giustamente conto del fatto che l’Italia occupa uno degli ultimi posti tra le Nazioni Europee come consumatrice di questo prodotto alimentare, che si può considerare ormai di prima necessità: quindi produzione fortissima con moderni e potenti mezzi meccanici, a costo relativamente basso. Nostro programma è invece quello di produrre principalmente cioccolatini e confezioni di lusso: produzione pertanto necessariamente limitata, con forte impiego di manodopera e costo relativamente alto. Non contrasto di programmi dunque, ma direttive precise e nell’uno e nell’altro campo.

Una simile visione, che pure in gran parte corrisponde alla realtà, non può evidentemente essere accettata dall’Unica, che tra le sue controllate annovera le più antiche e prestigiose marche italiane, e le cui dimensioni sono tali, da permetterle ragionevolmente di puntare tanto alla conquista del mercato di massa che di quello di lusso. Non a caso, come si è detto,

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ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 3 “Pratica profitti di guerra e documenti della Società”, cc. 79-80. Ivi, b. 6, fasc. 44 “Unica Bonatti Digerini & Marinai”, c. 48.


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alla presa visione del comunicato stampa, i dirigenti dell’anonima torinese fanno seguire delle moderate ma ferme proteste, facendo presente che è preferibile sia la loro azienda stessa a rendere noti i propri obiettivi commerciali e le proprie strategie13. Né, per contro, Buitoni si rassegna al “forte impiego di manodopera” e a vedersi relegato in nicchie di mercato marginali. Nonostante le tradizionali difficoltà di approvvigionamento finanziario dell’azienda, e sebbene dopo qualche anno il peggioramento della congiuntura economica riduca notevolmente i margini di manovra, la Perugina riesce a evitare entrambi questi limiti, sopravvivendo anzi all’Unica e cogliendo notevolissimi successi durante tutto il difficile decennio 1927-1937. Perni della strategia dell’industriale perugino sono, da un lato, il miglioramento dell’efficienza tecnico-produttiva dell’azienda, culminato con la razionalizzazione delle lavorazioni portata a termine dal direttore tecnico Mario Spagnoli nella seconda metà degli anni venti; dall’altro, un eccezionale dinamismo della politica commerciale, e segnatamente di quella pubblicitaria, la cui principale affermazione sarà sì il famoso concorso delle figurine del 1935-1937, ma che già nel decennio precedente fa registrare successi di tutto rilievo. IV.2. La politica commerciale Coerentemente con le linee tracciate nel comunicato che nel 1925 solleva le proteste dell’Unica, la Perugina imposta la sua politica commerciale sulla realizzazione di articoli di lusso, nella consapevolezza che la via della produzione di massa, al di là del fatto che trovi o meno margini in un’eventuale evoluzione del mercato interno italiano, le viene preclusa dalla forza della concorrenza. In questo senso, il confronto con il gruppo torinese finisce per accentuare orientamenti già insiti nella prima affermazione dell’azienda agli inizi degli anni venti e contribuisce a definire una strategia commerciale che alla fine si dimostrerà vincente e consentirà all’impresa umbra, ad esempio, di affrontare con successo la drammatica contrazione dei consumi che si verifica alla fine del decennio. Il primo requisito di questi indirizzi commerciali è rappresentato dalla forte differenziazione della produzione. Sin dai primi anni venti, il campionario della ditta umbra è estremamente vasto ed annovera un gran numero di tavolette di cioccolato, cioccolatini, confetture, nonché generi scarsamente fabbricati in Italia, come ad esempio il cacao in polvere.

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Si veda al riguardo la lettera di Piazza a Buitoni dell’1 aprile 1925, ivi, cc. 49-50.

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Alla già citata Fiera campionaria di Napoli del 1921, ad esempio, “II Messaggero” sottolinea nei termini che seguono la varietà dei prodotti dell’azienda: Negli stands della nostra Fiera, sono radunati i campioni principali della produzione de “La Perugina”, cioccolato lavorato in tutte le guise, sotto tutte le forme, racchiuso negli involucri più eleganti, nelle scatole più suggestive; cacao in polvere ed in grani; cioccolatini d’ogni specie, alcuni di lavorazione esclusiva della ditta, confetture speciali, ecc.14.

Una breve rassegna sugli articoli Perugina del 1926 aggiunge, a quelle sin qui indicate, altre specialità “quali i cioccolatini al liquore [...] alla crema limone [...], alla crema fluida [...], al Bitter e al Cordial Campari, al gran spumante Gancia”15. Si tratta insomma di una gamma di prodotti molto ampia, che, compatibilmente con una qualità in genere media e medio-alta (che esclude cioè i surrogati), copre fasce di prezzo molto variegate. Costante, inoltre, è lo sforzo di rinnovare e aggiornare il campionario, in modo che nuovi articoli di successo rilancino periodicamente il marchio dell’azienda, con una prassi piuttosto normale in un moderno mercato di massa, ma all’epoca sintomo di un notevole dinamismo commerciale. Così, per rimanere ai prodotti più longevi ed ancora oggi noti, le tavolette di cioccolato fondente Luisa, dal nome della Spagnoli, sono in produzione già nel 1919, nel 1922 vengono lanciati i Baci, il cui grande successo è rinnovato nel 1926 dalle caramelle Rossana16. Come indica la citazione da “Il Messaggero” precedentemente riportata, un ruolo estremamente importante nella commercializzazione del prodotto dolciario hanno poi le confezioni. Per curare gli incarti e i contenitori in cui i prodotti sono sistemati, oltre che gli altri aspetti della pubblicità e del design, la Perugina si dota sin dal 1923 di un’apposita direzione artistica, affidata al pittore e disegnatore Federico Seneca, uno dei più notevoli car-

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Glorie del lavoro umbro alla fiera campionaria di Napoli, in “Rivista dell’economia umbra”, XXXIII, 10 (31 dicembre 1921), pp. 222 e ss. Cfr. la rassegna degli articoli sulla Perugina in “Rivista dell’economia umbra”, XXXXVIII, 9 (10 ottobre 1926), p. 174. Per i campionari dell’epoca si veda anche ASBP, Sezione fotografica, b. 6, fasc. 52, Catalogo illustrato Perugina 1926. Per il cioccolato Luisa si vedano le Materie prime e prodotti lavorati al 31 dicembre 1919, in ASBP, FP, DGAD, b. 2, fasc. 10 “Roma Profitti di guerra”, cc. 3-4; per le Rossana, la “Rivista dell’economia umbra”, XXXVIII, (10 ottobre 1926), p. 174, in cui si sottolinea il fortunato lancio delle caramelle “la cui preventivata produzione annuale è stata esaurita in un solo mese”.


Capitolo IV Le sfide degli anni venti

tellonisti italiani della prima metà del secolo, che già da vari anni collabora con l’azienda. Alle esigenze della presentazione esterna vengono subordinati anche gli aspetti organizzativi e tecnologici della produzione. Il reparto di incarto e confezionamento, ad esempio, è quello che assorbe la grande maggioranza della manodopera, dal momento che incartatrici meccaniche davvero efficienti si diffondono solo nel secondo dopoguerra. Esso costituisce, come si vedrà, il punto debole dell’automatizzazione introdotta da Spagnoli nella seconda metà degli anni venti, e tuttavia non si pensa mai, neanche nei periodi di crisi economica, di ridurne gli organici17. Alla luce della centralità che la fase di confezionamento viene ad assumere nella strategia commerciale della Perugina, si comprende meglio anche l’opzione di Giovanni Buitoni per il rilevamento e la successiva incorporazione della tipografia Borrani di Firenze. Per questa via, infatti, l’azienda umbra assume il diretto controllo, internalizzandola, su di una lavorazione ausiliaria di primaria importanza per il suo sviluppo, dando luogo, attraverso la successiva ristrutturazione tecnico-produttiva, ad un fruttuosa integrazione produttiva. Va tenuto presente, in proposito, che l’importanza delle confezioni non si limita all’ambito promozionale, ma investe anche quello della conservazione del prodotto. L’incarto costituisce infatti il principale mezzo di conservazione degli articoli dolciari. L’alto costo dei materiali da confezione, la necessità di macchinari relativamente specializzati per la loro lavorazione, nonché i danni per la produzione che eventuali ritardi di consegna possono comportare, rendono insomma, anche sotto il profilo tecnico, assai conveniente la presenza di uno scatolificio direttamente all’interno della fabbrica18. I primi passi verso un ampliamento dell’azienda in questo senso si verificano già nel 1924. Nel marzo di quell’anno la corrispondenza tra i Buitoni e Gino Borrani, titolare della una tipografia fiorentina fornitrice da oltre dieci anni delle confezioni per i prodotti Buitoni e Perugina, prende infatti, ad intensificarsi. Ragione ne sono le gravi difficoltà in cui viene allora a trovarsi la ditta di cartonaggi, gestita probabilmente con una certa trascuratezza e fortemente indebitata. Borrani di conseguenza si rivolge ai suoi principali clienti, incontrando la disponibilità della Perugina che accetta 300.000 lire di sue cambiali. L’appoggio finanziario serve in realtà soltanto a tamponare momentaneamente le perdite. Già nell’estate successiva, infatti, Borrani propone a Giovanni Buitoni di rilevare la tipografia, che,

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Cfr. al riguardo Mario Spagnoli, L’organizzazione scientifica del lavoro nella grande industria alimentare, Roma, Enios, 1928, p. 64. Sull’importanza e convenienza della scelta dell’involucro per il cioccolato e la sua conservazione, in “Il Dolce”, VIII, 75 (maggio 1932), p. 172.

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afferma, può considerarsi quasi parte integrante della Perugina. Nella combinazione finisce poi col rientrare anche la Buitoni di Sansepolcro, benché solo qualche mese prima essa abbia scartato la possibilità di una simile partecipazione. Il 20 novembre 1924 si giunge così alla costituzione della S.a. Arti Poli-grafiche Italia Centrale (Apic). L’acquisizione della tipografia fiorentina da parte della Perugina si basa anche sulle buone garanzie tecniche che essa offre. La relazione dei periti incaricati di valutare la reale entità del patrimonio della ditta afferma al riguardo19: L’azienda Borrani [ha] dato in passato risultati poco soddisfacenti per la cattiva amministrazione, per la non giusta determinazione dei prezzi di vendita, nonché per le forti spese fatte (interessi passivi, spese di famiglia, ecc), mentre (i suddetti periti) possono affermare che la parte tecnica è molto curata e che gli operai danno il massimo rendimento.

L’impresa fiorentina ha dimensioni di una qualche consistenza: essa occupa 114 addetti (altre fonti ne indicano 150) e dispone di un macchinario considerevole anche se non modernissimo. I suoi utili agli inizi degli anni venti superano normalmente le 100.000 lire, salvo ridursi di due terzi nell’ultimo anno di esercizio, allorché l’indebitamento sale a 1.100.000 lire. Dopo aver scartato l’ipotesi di creare un’accomandita, l’Apic viene costituita in società anonima, con un milione di capitale sociale diviso in 10.000 azioni da 100 lire. Gino Borrani, contestualmente all’atto di creazione della società, cede 5.000 delle 8.000 azioni di cui è formalmente detentore alla Perugina. Poiché i restanti 2.000 titoli, che assicurano il rifinanziamento dell’impresa, sono divisi tra l’avvocato Pierfrancesco Serragli e i Buitoni, questi ultimi acquistano di fatto il controllo effettivo della società. Il Consiglio di amministrazione, di conseguenza, è composto da Silvio Buitoni, capo del pastificio di Sansepolcro, in qualità di presidente, Giovanni Buitoni, amministratore delegato, Gino Borrani, consigliere delegato tecnico, Bruno Buitoni, fratello di Giovanni, e l’avvocato Serragli, consiglieri. L’azienda viene inoltre dotata di una direzione artistica, affidata, come per la Perugina, a Federico Seneca. La centralità conferita dalla Perugina alle confezioni non si limita, tuttavia, solo alla costituzione del nucleo originario di quello che di lì a qualche anno sarebbe divenuto il Poligrafico Buitoni. Questa attenzione riguarda anche la realizzazione di tutta una serie di oggetti e contenitori da associa-

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Cfr. sulla vicenda ASBP, FP, DGAD, b. 5, fasc. 36 “Apic Pratica Borrani”. La citazione è tratta dalla Relazione sulla situazione dell’azienda Borrani del 6 novembre 1924, alle cc. 46-51.


Capitolo IV Le sfide degli anni venti

re ai prodotti dolciari, che ne esaltano la domanda quali beni di lusso e articoli da regalo. Per questa via, Giovanni Buitoni e la Perugina si collegano alle produzioni di ceramiche e maioliche che, dopo i fasti eugubini di età rinascimentale, cominciano a risorgere nella provincia di Perugia negli anni attorno al volgere del secolo20. Sin dal febbraio 1921 Buitoni e l’amico Biagio Biagiotti, dirigente e in futuro presidente della Cassa di risparmio di Perugia, sottoscrivono 13.000 delle 30.000 lire del capitale azionario della Società majoliche Deruta, un’azienda in cui Francesco Buitoni è probabilmente interessato già prima della guerra e che viene trasformata in società per azioni nel 1920 col concorso di vari esponenti del mondo degli affari locale. Dotata di uno stabilimento a Deruta e di un negozio a Perugia, la società trasferisce la sua sede nella primavera del 1923 nel capoluogo umbro. Parallelamente Buitoni e Biagiotti entrano anche ne La Salamandra - Fabbrica di majoliche artistiche in Roma, di cui è titolare Diego Fabbri, che viene a sua volta trasformata in anonima e trasferita a Perugia. Nel 1926, infine, dopo un ulteriore ampliamento delle loro partecipazioni alla S.a. Ceramica umbra (con opifici a Gualdo Tadino e a Gubbio e amministrata da Giuseppe Baduel), i due riuniscono tutte queste attività nella S.a. Maioliche Deruta & Consorzio italiano maioliche artistiche (Cima), che associa ben presto anche la S.a. Maioliche Zulino Aretini, costituitasi a Perugia nel 1926, l’abruzzese S.a. Maioliche Castelli e la ditta Santarelli di Gualdo Tadino21. Una lettera alla Banca d’Italia del 1927 indica che a quella data i Buitoni sono proprietari di tutto il pacchetto azionario del Consorzio, che viene da questi gestito in stretto raccordo con Biagiotti e soprattutto Giuseppe Baduel, che ne è il direttore. Le difficoltà della recessione della fine degli

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Per una panoramica della ripresa del settore delle ceramiche nel Perugino nella prima metà del Novecento si rinvia a Francesco Chiapparino e Renato Covino, Sistemi locali d’impresa e industrializzazione diffusa nella provincia di Perugia. Tre rami minori: carta, ceramica e tipografia, in Comunità di imprese. Sistemi locali in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di Franco Amatori e Andrea Colli, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 221-278, in part. pp. 256-267; Fabio Bettoni, Insediamenti produttivi, produzioni e mercati, in Il lavoro ceramico. Sintesi dell’arte, Artigianato in Umbria, a cura di Gian Carlo Bojani, Perugia, Electa Editori Umbri., 1998, pp. 45-63, nonché Giulio Busti e Franco Cocchi, Terrecotte e laterizi, Artigianato in Umbria, Perugia, Electa Editori Umbri, 1996. Si veda al riguardo Giulio Busti e Franco Cocchi, La Salamandra. Arte e industria della ceramica a Perugia, 1923-1955, Perugia, Volumnia, 2000; Idem, La Fabbrica Grande. Ceramiche della Società Maioliche Deruta dal 1920 al 1950, Perugia, Gramma, 1998. Una ricostruzione puntuale del rapporto tra la Perugina e queste aziende, con una vasta presentazione di lavori ceramici realizzati per l’azienda dolciaria è soprattutto poi contenuta nel volume: Idem, Dolce ceramica. Maioliche Cima per le confezioni di lusso Perugina, 1920-1950, Perugia, Gramma, 1999.

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anni venti indurranno a concentrare le lavorazioni in due impianti, quello di Deruta dalle caratteristiche più marcatamente industriali, e quello della Salamandra nel capoluogo. La S.a. Maioliche Deruta-Cima, riorganizzata anche dal punto di vista societario nel 1932, ha peraltro una buona fortuna commerciale durante tutto il periodo tra le due guerre, legando assai spesso le sue iniziative a quelle della Perugina ed appoggiandosi alla rete di interessi e di contatti di quest’ultima. Un rapporto dell’Unione provinciale dell’economia corporativa del capoluogo umbro indirizzato alla Camera di commercio italiana per la Svizzera nell’agosto 1936, indica nella Perugina e nella Maioliche Deruta “le due principali esportatrici della provincia”22. Il raggio delle esportazioni dell’impresa di ceramiche si estende, a quella data, dai paesi del Nord Europa, agli Stati Uniti, ai Balcani (Romania e Ungheria) all’America Latina (Venezuela ed Argentina) e all’Egitto. Verso la fine degli anni trenta il capitale sociale dell’impresa raggiunge un milione di lire, ripartito in 4.000 azioni da 250 lire ciascuna. Presidente del Consiglio di amministrazione è appunto Biagio Biagiotti, mentre Bruno e Giovanni sono consiglieri e Baduel è il vicepresidente, nonché responsabile tecnico-operativo dell’impresa. I due stabilimenti di Deruta e Perugia, ciascuno di oltre 3.000 metri quadrati, occupano all’epoca più di 300 operai e annoverano 18 forni elettrici, 50 motori, 30 torni e tutta una vasta serie di attrezzature specialistiche23. A partire dal 1926-1927, poi, in seguito cioè alla consistente contrazione del mercato causata dalla politica deflazionistica del regime, la strategia commerciale della Perugina e segnatamente i suoi due aspetti sin qui illustrati, la politica del prodotto e quella delle confezioni, fanno segnare una svolta ulteriore. Da allora infatti, e per tutto il periodo della recessione fino alla seconda metà degli anni trenta, Giovanni Buitoni decide di puntare esclusivamente sulle produzioni di alta qualità e prezzo elevato, rivolte al consumo di lusso e a quello di esportazione, che presentano margini più agevoli per affrontare la crisi. Questi ultimi due ambiti di mercato infatti sono relativamente al riparo dalla massiccia diffusione dei surrogati e dalla forte pressione al ribasso dei prezzi esercitata dalla concorrenza nazionale – e fondamentalmente, almeno nello scorcio del decennio, ancora una volta dall’Unica, impegnata in una sempre maggiore standardizzazione delle proprie lavorazioni per aumentare le economie di scala. Una comunicazione della Perugina degli inizi del 1931 afferma a questo proposito:

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ASCCPg, Carteggio amministrativo, b. 307, 27 sez. C/2. Su questi aspetti cfr. ASBP, FP, DGAD, b. 2, fasc. 13 “Deruta Salamandra Selles”; nonché ASBdI, Csvi, u.a. 82, Maioliche Deruta e Consorzio Italiano Maioliche Artistiche, cc. 1275-1278.

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Dato [...] l’indirizzo preso dalla Società negli ultimi anni, di tralasciare completamente la fabbricazione dei prodotti correnti, [e di orientarsi in modo] sempre più accentuato [verso quella] di prodotti finissimi fuori concorrenza [...], le possibilità di produzione si sono ridotte di quasi la metà [S]i può [...] fare sicuro affidamento sull’antuazione [?] del consumo dei prodotti di lusso ai quali la ns. industria si è dedicata in modo particolare. È di questi ultimi mesi la istituzione di un apposito reparto artistico per la creazione di scatolame di gran lusso che dovrebbe, nei ns. intendimenti [,] vantaggiosamente competere con quanto in materia si fa in Germania e soprattutto in Francia24.

Conseguentemente ad un tale riorientamento della politica commerciale si procede, da un lato, a drastiche decurtazioni del vasto campionario della prima metà degli anni venti e dall’altro, soprattutto, alla creazione nel 1929 in una sede distaccata a Bologna, di un reparto di confezioni di lusso rimasto in funzione fino alla seconda guerra mondiale e diretto dalla pittrice e disegnatrice Emma Bonazzi25. Il successo delle confezioni Perugina è descritto già nel 1928, per altro in una comunicazione privata, da un rappresentante torinese dell’azienda con il seguente quadretto di vita di corte: La scatola [della Perugina] giunse a S.a.R. [Sua Altezza Reale il Principe di Piemonte] durante una visita delle di Lui Auguste Sorelle, le Principesse Iolanda e Mafalda. Come nelle buone famiglie borghesi, i tre bravi ragazzi diedero l’assalto al Vs/ dono e poiché il sesso gentile minacciava di abusare della cortesia del Principe, Egli fece le parti del buon “Pater familias” e, dopo aver molto ammirata la scatola che conteneva i cioccolatini, ordinò che fosse recata nel di Lui appartamento privato, poiché desiderava conservarla26.

Connesso con la revisione della strategia commerciale della Perugina della fine degli anni venti è poi lo sviluppo della rete di negozi al dettaglio dell’azienda. Come si è già accennato i primi esercizi di questo tipo vengono aperti già a partire dal decennio precedente – quello di Perugia nel 1919 –, ma costituiscono inizialmente un’iniziativa di modesto rilievo nella

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ASBP, FP, DGAD, b. 2, fasc. 12 “Conto finale dei lavori eseguiti dalla Ditta Lavison e Lilli nelle proprietà del sig. cav. Francesco Buitoni”, cc. 217-219. La Bonazzi collabora per altro con la Perugina già negli anni precedenti. Cfr. Ivi, b. 15, fasc. 99 “Prof. Emma Bonazzi”, Relazione viaggi per campionaria Gran Lusso di Emma Bonazzi realizzata per la Perugina dal 1929 al 1942 delle scatole regalo; A. Storelli, Emma Bonazzi: un’artista bolognese tra liberty e art déco, in “Atti e memorie dell’Accademia Clementina di Bologna”, 1974, XI, pp. 133-137. ASBP, FP, DGAD, b. 10, fasc. 57 “Albo d’Oro 1926-1928”, c. 23, lettera del rappresentante Francesco Soldano a Giovanni Buitoni del 3 dicembre 1928.

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politica complessiva dell’impresa, oggetto tra l’altro di critiche all’interno della stessa direzione27. In realtà, al di là dei primi esperimenti in ambito locale, lo sviluppo della rete di distribuzione al dettaglio della Perugina segue la via già tracciata dal successo dell’imponente rete di distribuzione dell’Unica, che a fine anni venti può vantare oltre 300 punti di vendita al dettaglio contro appena i 4 della concorrente umbra. Vero è che il negozio Perugina di Napoli viene aperto già a metà gennaio del 1925, quando cioè il gruppo torinese sta ancora perfezionando il suo atto costitutivo, ma non è da escludere che quest’ultimo erediti già dalla Talmone l’embrione della sua futura catena di negozi. Del resto, il modello di un’organizzazione di distribuzione al dettaglio di generi voluttuari con catene di negozi di proprietà è già stato sperimentato con successo in vari paesi d’Europa, dalla Gran Bretagna alla Germania, già prima della Grande guerra. La logica con cui viene creata la rete di punti vendita dell’Unica è illustrata da Gerardo Gobbi, successore di Gualino alla guida del gruppo torinese dal 1934: nei centri dove c’era già una clientela fatta, che rispondeva bene, mi accontentavo di mettere un negozio; nei centri in cui la clientela si rivolgeva più alla concorrenza aprivo 3,4, 5 negozi ed il risultato era sicuro, perché i negozi diretti da noi avevano sempre la merce fresca28.

Nel caso della Perugina, tuttavia, per gran parte degli anni venti la struttura di vendita diretta è destinata a rimanere a livello embrionale. Nel 1929 i negozi dell’azienda umbra sono ancora solo quelli di Perugia, Foligno, Orvieto e Napoli. Quest’ultimo in particolare, è di gran lunga il più importante, in quanto prefigura la futura evoluzione della rete di vendita al di fuori dell’area locale umbra. Esso viene impiantato nel 1924 su suggerimento, ancora una volta, di Biagio Biagiotti. Già nel 1923 egli individua i locali, in piazza dei Martiri, che tuttavia vengono presi in affitto ed allestiti solo l’anno successivo. Il negozio viene inaugurato poi nel gennaio 1925 e il 23 febbraio viene costituita a Napoli la S.a. per il commercio prodotti Perugina, con 100.000 lire di capitale sociale, Giovanni Buitoni quale presidente, Biagiotti amministratore delegato e Bruno Buitoni consigliere29. La società sarebbe stata poi sciolta anticipatamente dall’assemblea straordinaria del 24

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Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 1), p. 46. Interrogatorio del rag. Gerardo Gobbi, presidente ed amministratore della Soc[ietà] Venchi-Unica. Torino (in Torino, 6 aprile 1946), in Ministero per la costituente, Rapporto della Commissione economica presentato all’assemblea costituente, II, Industria. Appendice alla relazione (interrogatori), Roma, Min[istero] per la Costituente, 1946, pp. 360-365. Sul negozio di Napoli si veda la lettera di Giovanni Buitoni a Canessa, direttore amministrativo della Digerini & Marinai di Firenze del 6 novembre 1924 in ASBP, FP, DGAD,

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febbraio 1929, nell’ambito della ristrutturazione e del potenziamento della rete di vendita diretta decisi in quella fase. Per completare il quadro delle iniziative della Perugina in ambito commerciale, è necessario almeno un cenno a due altri importanti settori di attività dell’azienda: quello della pubblicità, che sarà ripreso a proposito del concorso delle figurine del decennio successivo, e quello delle esportazioni, cui si è già in parte accennato illustrando lo sviluppo dell’impresa al momento della sua trasformazione in società per azioni. Quanto alla pubblicità, è il caso di ricordare che, accanto alle forme di reclame ormai normali negli anni tra le due guerre, come manifesti, inserzioni su giornali, ecc., e all’attività più genericamente promozionale, con le iniziative di diffusione del marchio o la partecipazione a fiere ed esposizioni, la ditta umbra inizia già negli anni venti a realizzare grandi manifestazioni a fini propagandistici. È il caso, in particolare, della “Coppa della Perugina”, una corsa automobilistica organizzata a Perugia, su un circuito suburbano, in collaborazione con il locale Automobil club, di cui Giovanni Buitoni, non a caso, è presidente. La gara ha quattro edizioni, dal 1924 al 1927, e costituisce un’iniziativa di rilievo notevole, tanto per lo sforzo organizzativo, quanto per l’immagine di dinamismo e modernità che trasmette e che si proietta ovviamente anche sulla ditta sponsorizzatrice. La sua preparazione richiede tra l’altro l’incatramatura temporanea del circuito di 16,4 chilometri con arrivo a Pian di Massiano, all’epoca appena fuori Perugia, l’allestimento di un cantiere per i box, le tribune, gli impianti di cronometraggio e le comunicazioni, nonché l’installazione di nove posti sanitari e di una ventina di stazioni telefoniche lungo il percorso per fornire un continuo aggiornamento sull’andamento della gara. Vengono inoltre realizzati collegamenti speciali con treni e pullman che permettono al pubblico convenuto di trovare alloggio nelle varie cittadine umbre, essendosi rapidamente esaurita la disponibilità di ricezione turistica del capoluogo. Benché coadiuvata dalle varie istituzioni locali, è di fatto la Perugina ad assumersi gran parte di questi oneri organizzativi: Mario Spagnoli dirige i lavori di preparazione del circuito e il gruppo sportivo degli operai dell’azienda fornisce gran parte del personale necessario allo svolgimento delle quattro corse. Il ritorno in termini pubblicitari è tale comunque da compensare questi sforzi. La manifestazione ha un’eco notevole, non solo, stando almeno a quanto affermano Buitoni e i resoconti dell’epoca, negli ambienti sportivi,

b. 6, fasc. 44 “Unica Bonatti Digerini & Marinai”, c. 34, nonché le notizie ulteriori ivi, fasc. 40 “R. Molinari”, c. 11 e “Il Messaggero” del 17-18 aprile 1925.

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né esclusivamente in ambito nazionale. Alla corsa partecipano infatti i piloti e le vetture più noti del momento: Materassi, Nuvolari, Brilli Peri, e, per le auto, la Bugatti, l’Itala, la Fiat, l’Ansaldo, la Citroen, l’Alfa, la Mercedes e la Steyr. Le edizioni del 1926 e del 1927 inoltre figurano tra le sei manifestazioni internazionali di prima categoria dell’Automobile club d’Italia. Nel 1925 la “Coppa della Perugina” può fregiarsi del patrocinio di Benito Mussolini, mentre nel 1927 è 1’atterraggio dell’idrovolante di Cesare Balbo sul Trasimeno a rappresentare l’avvenimento di particolare richiamo. Iniziative pubblicitarie del genere non sono probabilmente una novità assoluta, ma in genere il ruolo delle aziende coinvolte è più contenuto. All’inizio degli anni venti, ad esempio, la Cioccolato Bonatti sponsorizza le corse automobilistiche del circuito di Monza, limitandosi tuttavia soltanto a curare il servizio di ristoro. La “Coppa della Perugina” viene tuttavia interrotta nel 1928, quando già ne è fissata la quinta edizione. Quell’anno infatti l’Automobile club d’Italia decide di abolire tutte le gare provinciali, sostituendole con il Giro d’Italia. Nel caso particolare della manifestazione umbra, un certo peso sembra avere anche, in realtà, la priorità accordata all’Automobile club di Roma, impegnato a valorizzare le proprie iniziative nella capitale. Un ruolo direttivo in quest’ultima associazione ha, per altro, il conte perugino Romeo Gallenga-Stuart, che per l’occasione ha una violenta polemica con Buitoni, dimessosi nel frattempo dalla sua carica di presidente del club del capoluogo umbro. La vicenda, abbastanza confusa, tira in ballo rivalità personali, vecchie gelosie – Gallenga è stato, tra l’altro, avversario politico di Francesco Buitoni – e accesi campanilismi. Il tutto vale comunque a far definitivamente cessare l’iniziativa30. Anche il settore delle esportazioni, infine, fa registrare alcuni progressi rispetto alle posizioni raggiunte nella prima metà degli anni venti. Nel corso del quinquennio successivo le esportazioni della Perugina continuano a migliorare, fatta eccezione per il 1927 che segna una flessione delle vendite estere più marcata di quella interna per effetto della “battaglia della lira” e della rivalutazione che essa provoca nei corsi della divisa nazionale. In valori assoluti, la fase più favorevole per le esportazioni dell’azienda è quella compresa tra il 1928 ed il 1930, allorché esse superano la soglia dei 2.000 quintali annui. In questo periodo si cominciano ad avvertire gli effetti del processo di razionalizzazione produttiva avviato negli anni precedenti mentre, per altro verso, la recessione internazionale non

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Sulla “Coppa della Perugina” cfr. ASBP, FP, DGAD, b. 12, fasc. 71 “Archivio Segreteria B”, nonché i vari resoconti de “L’Assalto” del 17, 17 e 20 aprile 1924, del 26-29 maggio e 29 ottobre 1925, dell’1 e 2 giugno 1926 e del 28 e 31 maggio 1927.

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è ancora entrata nella sua fase più dura. Ciò non toglie che la capacità di penetrazione nei mercati esteri della ditta umbra si mostrerà appieno proprio nel quinquennio successivo, quando, a fronte del crollo delle esportazioni delle concorrenti per effetto della crisi, la Perugina, pur vedendo contrarsi in valori assoluti il proprio fatturato estero, giunge a coprire da sola la metà ed oltre dell’export italiano di cioccolato e confetture. Già nel periodo 1925-1929 comunque la sua percentuale sul fatturato estero del settore nazionale oscilla tra il 30% ed il 40%, un risultato questo apprezzabilissimo, se si considera che l’azienda di Buitoni consuma meno di un decimo del cacao importato in Italia (media 1929-1930) e la sua produzione è sei-sette volte inferiore a quella dell’Unica (dati 1927). I mercati in cui l’impresa è presente rimangono prevalentemente quelli mediterranei (Balcani, Medio Oriente, Africa Settentrionale), ma non mancano ampliamenti della sua area di commercializzazione in Africa (Congo, Sudafrica, Sudan, Kenia, Tanganica, Mozambico) e in Oriente (India, Persia, Singapore, Giappone), anche se in generale una tale presenza corrisponde spesso a quantità esportate estremamente contenute. Per contro, la penetrazione commerciale nei paesi a più alto reddito, come quelli nordeuropei o nordamericani, continua a presentare notevoli difficoltà. Di fatto progressi di qualche rilievo si registraro soltanto in Francia, dopo la rivalutazione del franco da parte del governo Poincaré, e in America del Nord. Negli Stati Uniti, in particolare, la Perugina arriva come si è visto attorno alla metà degli anni venti, impegnandosi tra l’altro in una costosa campagna pubblicitaria. La sua presenza su quel mercato rimane tuttavia abbastanza malferma, minata dalla soverchiante concorrenza dei prodotti statunitensi. A partire dal 1929, poi, in seguito alla crisi, le vendite negli USA subiscono per qualche anno, un grave crollo. Flessioni consistenti si registrarono anche in altri paesi latinoamericani (Colombia, Perù, Cile), nell’area balcanica (Grecia, Turchia, Jugoslavia in particolare) e in Egitto, che al contrario costituiscono sbocchi privilegiati dell’azienda. Di fronte a tali difficoltà, che giustificano il ribasso in valore assoluto delle esportazioni nel 1930-1935, la società umbra riesce nondimeno a mantenere le sue posizioni con efficacia molto maggiore, come dimostrano i dati in termini relativi, rispetto alle altre aziende italiane. IV.3. I nuovi assetti societari e l’acquisizione della Buitoni di Sansepolcro È essenzialmente sulla scorta del successo di queste iniziative promozionali e del complesso della sue strategie commerciali (di distribuzione, di prodotto, di marchio), che la Perugina non solo non soccombe nel confronto 105


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Tabella 8. Vendite Perugina 1925-1930

Fonte: ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3.

con l’Unica durante la seconda metà degli anni venti, ma anzi vede consolidarsi le sue posizioni di media impresa nazionale, con un’aggressiva presenza sul mercato e significative proiezioni verso l’estero. Del resto, ancora più significativo di questa sostanziale tenuta è il salto compiuto dall’azienda nella prima metà del decennio. Benché, infatti, per la fase 1920-1924 allo stato attuale delle ricerche si disponga solo di dati confusi, salta immediatamente all’occhio il balzo in avanti compiuto dal fatturato dell’impresa umbra, che dai circa 5 milioni del 1919 passa ai 26 del 1925, con un incremento di 4,6 volte se si considera la lira a valori costanti31. A proposito dei dati sopra indicati, va anche ricordato che le stime della produzione dolciaria italiana per il triennio 1929-1930 indicano una media annua di circa 60.000 quintali di prodotti contenenti cioccolato più 20.000 di cacao in polvere, rispettivamente per 90 e 16 milioni di lire, a cui vanno aggiunti 120.000 quintali di caramelle e confetture varie (cioè di prodotti prevalentemente a base di zucchero e non già anche di cacao) per altri 216 milioni di lire circa. Tali valori non comprendono poi i circa 80.000 quintali di prodotti da forno (biscotti, pasticceria varia) pari a circa 64

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Se si considera l’indice dei prezzi all’ingrosso, l’incremento del fatturato a valori reali rimane comunque di 3,6 volte nei sei anni considerati.

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milioni di lire correnti, che tuttavia costituiscono un sottocomparto in cui la Perugina non è attiva o è presente solo marginalmente32. Merita inoltre di essere sottolineato come, sebbene nei successi conseguiti dall’impresa umbra negli anni venti abbia un ruolo centrale il dinamismo commerciale che mostra la sua gestione, accanto al marketing un peso di rilievo abbia anche l’altro pilastro su cui poggia la strategia posta in atto da Giovanni Buitoni sin dal decennio precedente, quello tecnico-produttivo. Gli sviluppi della politica aziendale in questo ambito, per la verità, diventano decisivi soprattutto nella seconda metà degli anni venti, allorché, razionalizzazione produttiva, efficienza delle lavorazioni e contenimento dei costi diventano altrettanti cardini, accanto ai già ricordati orientamenti verso il mercato di lusso, della risposta della Perugina alla lunga stagione recessiva inaugurata dalla “battaglia della lira” e proseguita poi con la crisi internazionale. Prima di analizzare più nel dettaglio questo secondo perno della strategia aziendale di Buitoni, occorre tuttavia guardare all’evoluzione della situazione complessiva della società dolciaria e agli sviluppi del suo assetto di proprietà. Al riguardo, si è visto come il 16 ottobre 1923 nasca la nuova S.a. Perugina cioccolato e confetture, con un capitale sociale nominale di un milione di lire, interamente nelle mani del presidente, Francesco Buitoni, che ha riscattato le partecipazioni degli altri soci fondatori. Nella realtà, tuttavia, situazione patrimoniale ed equilibri di proprietà si presentano un po’ diversamente. Il controllo assoluto dell’impresa è, infatti, nelle mani di Giovanni Buitoni, che anche formalmente è fiduciario del padre. Sull’azienda inoltre gravavano, da un lato, i debiti cambiari con i vecchi soci, dall’altro, le partecipazioni, sia pure prive di ufficiali corrispettivi azionari, di Luisa Spagnoli e i figli, e del ramo toscano della famiglia Buitoni. Siffatta situazione patrimoniale è parzialmente rispecchiata dal bilancio di fine 1923, ove, tra i passivi, figurano 600.000 lire di “liquidazione gestione collettiva”, che probabilmente rappresentano le cambiali trasferite da Annibale Spagnoli a favore dei figli, e ben 4,7 milioni di “passivi gestione collettiva”, che stanno invece ad indicare i debiti con i soci del 1907. Nel complesso le due voci coprono, è utile ricordarlo, circa il 45% del totale di bilancio. I reali rapporti di forza, del

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Cfr. al riguardo “Il Dolce”, VI, 60 (febbraio 1931), pp. 35-41. Va notato tuttavia che si tratta di dati molto approssimativi, essendo oggettivamente difficile (ancora oggi, e a maggior ragione negli anni venti) censire la grande varietà di prodotti che rientrano nel comparto dolciario. I valori indicati, inoltre, costituiscono una media, poiché in realtà i dati riportati via via dalla stampa di settore sono molto volatili. Né è chiaro se e in che misura le forti variazioni che si registrano nei vari anni siano da attribuire all’approssimazione delle rilevazioni o a dinamiche reali del settore.

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resto, sono rispecchiati dalla composizione del nuovo Consiglio di amministrazione. Oltre al consigliere delegato, Giovanni Buitoni, ed al presidente, Francesco, siedono nel consesso Silvio Buitoni, presidente della società di Sansepolcro, e Luisa Sergentini Spagnoli, che vede così riconosciuto il ruolo avuto, già da prima della fuoriuscita del marito, tanto nella gestione che negli equilibri di controllo dell’azienda. In qualità di sindaco è poi presente l’avvocato spoletino Tullio Profili33. È questo Consiglio di amministrazione a nominare nella sua prima riunione, il 7 novembre 1923, Bruno Buitoni, fratello maggiore di Giovanni, alla direzione generale della Perugina, Mario Spagnoli, primogenito di Luisa ed Annibale, alla direzione tecnica e Federico Seneca a quella artistica, completando così l’organigramma dei vertici aziendale34. Un simile assetto delle cariche sociali e di quelle direttive rispecchia fedelmente, si è detto, gli equilibri societari ed indica gli specifici orientamenti della strategia imprenditoriale della Perugina per gli anni a venire. Quanto alle ragioni per cui l’aumento di capitale invocato nel 1922 viene rimandato, al pari della formalizzazione delle partecipazioni azionarie degli Spagnoli o dei Buitoni di Sansepolcro, esse sono probabilmente anche in parte di natura tecnico-fiscale. Nel 1938 una indagine svolta dalla Banca d’Italia in occasione della richiesta di un mutuo da parte delle aziende Buitoni, indica al proposito appunto “motivi di ordine fiscale”, e cioè: per superare la liquidazione dei sovrapprofitti di guerra e per far decorrere il periodo di prescrizione di 5 anni per l’atto di costituzione in Anonima, che al Registro poteva dar luogo alla liquidazione di una forte tassa35.

Al fondo tuttavia devono esservi più corpose difficoltà di ordine finanziario e con esse, comunque, la volontà di Giovanni Buitoni di lasciar decantare la situazione, unitamente alla decisione di non impegnarsi più di quanto abbia già fatto sul versante dell’indebitamento, all’indomani di un’operazione – la liquidazione dei vecchi soci – di per sé molto onerosa. La sistemazione dell’assetto della proprietà raggiunta nel 1923, ancorché

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34 35

Amico e stretto collaboratore dei Buitoni sino al secondo dopoguerra, questi era il vice presidente e comproprietario della S.a. Sangemini, della Ferrarelle, degli Oleifici di Spoleto, nonché presidente della Soc. Commerciale di Spoleto. Per i dati di bilancio del 1923 si veda ASBP, FP, DA, Registri, fasc. 567 “Società Perugina confetture, cioccolato e affini”. Perugia. Bilanci. Le notizie su Profili sono tratte da ASBdI, Csvi, u.a. 14, Aziende Buitoni, c. 2214. ASLB, Libro dei verbali del Consiglio di amministrazione della S.a. Perugina cioccolato e confetture dal 7 novembre 1923 al 25 giugno 1945, adunanza del 7 novembre 1923. ASBdI, Csvi, u.a. 14, Aziende Buitoni, c. 2336.

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temporanea, rimarrà così in vigore per ben quattro anni, per essere rivista, assieme alla questione dell’aumento del capitale sociale, solo nel 1927, quando tuttavia una simile evoluzione si intreccerà con le vicende legate al fallimento della Buitoni di Sansepolcro e al suo rilevamento da parte del ramo perugino della famiglia. La gestione della casa madre toscana, infatti, accusa un sempre maggiore appesantimento nei (per altro non facili) anni tra guerra e dopoguerra, rimanendo sostanzialmente incapace di risolvere i nodi di fondo che, come si è visto, ne indeboliscono la posizione sin dall’epoca giolittiana. Di dimensioni troppo consistenti per limitarsi a prodotti tutto sommato di nicchia, come quelli della pastina glutinata e delle paste speciali (la cui produzione viene per di più limitata durante il conflitto), l’azienda non è per contro in grado di compiere il salto di qualità che le permetta di concorrere alla pari con i grandi gruppi oligopolistici del settore. L’affermazione nei segmenti produttivi di più largo consumo, che pure in un comparto di base come quello pastario-molitorio fanno registrare una consistente espansione nei grandi centri urbani o nei mercati relativamente integrati dell’Italia Settentrionale, è preclusa alla Buitoni dalla mancanza di finanziamenti adeguati e dai limiti che l’assetto familiare della proprietà pone all’inserimento in compagini imprenditoriali più vaste o ad un massiccio ingresso di capitali esterni. Da questo punto di vista, il tentativo di “sfamiliarizzazione” che porta all’accordo con il pastificio Falasconi di Pesaro è soltanto una mezza soluzione. Esso frutta comunque la penetrazione nel mercato romano, ma con costi finanziari notevoli, data le dimensioni tutto sommato modeste delle due aziende. L’accordo inoltre, pensato nel 1920 come una fusione delle due imprese familiari in un’unica società per azioni, viene di fatto poi limitato solo alla creazione della nuova filiale di Roma, ove i Falasconi hanno già un piccolo impianto. Allo stabilimento centrale di Sansepolcro e alle modeste filiali di Perugia e Città di Castello, la Buitoni aggiunge così nel febbraio 1921 una partecipazione maggioritaria (il 78%) alla S.a. pastifici dell’Italia Centrale, una società per azioni appunto con 1,5 milioni di lire di capitale. Negli anni immediatamente successivi questo capitale viene poi progressivamente elevato fino a 4 milioni per costruire al quartiere Ostiense un impianto moderno, ma con oneri che ricadono in larghissima misura sulla famiglia toscana e che, non a caso, portano al cambiamento della ragione sociale in Pastifici Buitoni S.a. Roma36. Lo stabilimento di

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Per queste vicende e una lettura complessiva della crisi dei Buitoni di Sansepolcro e del passaggio delle loro attività al ramo perugino della famiglia si rimanda a Renato Covino, I Buitoni di Perugia, in “Proposte e ricerche”, XXIII (2000), 45, pp. 70-89, in part. pp. 77-80.

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Roma non verrà completato prima del 1924 e, pur essendo destinato a rivelarsi redditizio sul medio termine, comporta un consistente aggravio della situazione finanziaria dell’azienda. Altri oneri, si è visto, derivano alla casa madre toscana dal sostegno offerto alla Perugina e, nel 1924, dall’intervento nel capitale azionario dell’Apic. A fronte di queste attività, tuttavia, sta un andamento relativamente stagnante delle vendite, che non fa registrare particolari evoluzioni rispetto all’anteguerra. Parallelamente si registra anche un progressivo invecchiamento degli impianti di Sansepolcro, affollati da diverse linee di lavorazione e particolarmente obsolescenti in alcune sezioni del ciclo di produzione, come ad esempio l’essicazione. Il 20 novembre del 1923 la Buitoni viene trasformata in società per azioni, in parallelo con la Perugina perciò e con un percorso non meno accidentato, che apre aspri contenziosi con vari membri della quarta generazione della famiglia toscana – tra cui, quello ricordato con Aldo all’inizio di questo paragrafo. Ciò che ne emerge è una società dotata di 1,8 milioni di capitale sociale, diviso pariteticamente tra i tre fratelli maggiori superstiti della terza generazione, Silvio, Francesco (capostipite del ramo perugino) e Bindo, con il 21% ciascuno, i due eredi di Arnaldo (morto nel 1915), Guido e Fosco, con il 10,5% ciascuno, e per il restante 16% nelle mani di Antonio, del ramo collaterale della famiglia che gestisce il piccolo pastificio di Città di Castello. Consiglieri delegati dell’impresa divengono allora anche formalmente i membri della quarta generazione, cioè Guido e il secondogenito di Silvio, Gherardo. È difficile non notare l’assoluto equilibrio tra le varie componenti familiari che ci si sforza di mantenere e la forte tutela che la terza generazione esercita su figli e nipoti. Antonio, il titolare del pacchetto di minoranza scriverà lucidamente da Città di Castello allo zio Silvio e ai cugini che dirigono gli affari di famiglia nel marzo 192537: Credetelo miei cari consoci, noi siamo in troppi, troppi parenti, troppi Buitoni per respirare in uno spazio ristretto […]. Occorre seppellire il passato, occorre che un gruppo più esiguo di quello che non è oggi, rimanga alla testa della nostra Società, che per quanto anonima non potrà mai eliminare e redimere le nostre questioni.

L’appesantimento della gestione, i contrasti e l’assenza di una chiara visione delle strade da intraprendere per il futuro pesano insomma sull’impre-

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Cit. in Giampaolo Gallo, Dagli esordi alla seconda guerra mondiale, in “Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, contributi di Renato Covino, Paola Boschi e Daniele Orlandi, Electa Editori umbri associati, 1990, p. 22.

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sa toscana e vengono indirettamente confermati dallo stesso Giovanni Buitoni, che ricorda come la politica di bilancio dello zio Silvio sia basata sulla soppressione degli ammortamenti e [sulla] costante rivalutazione degli impianti e dei fabbricati: unica spiegazione, ancora e sempre, la svalutazione in corso della lira. E si volevano perfino distribuire dividendi su queste incredibili decisioni! [...] Le mie previsioni sul futuro di un’azienda così malamente condotta erano addirittura disastrose38.

È così che, dopo un primo biennio che sembra autorizzare qualche ottimismo circa il superamento delle difficoltà del dopoguerra e stante il nuovo assetto societario raggiunto con la creazione della società anonima, nel 1926 la situazione precipita. L’avvio della manovra di rivalutazione della lira voluta dal regime da poco instauratosi raffredda bruscamente l’effervescenza della congiuntura degli anni precedenti, mentre la stretta creditizia e la svalutazione delle scorte in cui la politica di “Quota 90” si manifesta provocano un repentino peggioramento dei conti dell’azienda toscana. Le parole di Silvio al nipote Giovanni della fine del 1926 suonano ad un tempo come un appello e una conferma del destino dell’impresa: Così è giunto il tempo di raccogliersi tutti d’accordo, ristringere i nostri affari a quelli proprio redditizi, ristringere i fidi più possibile ed accorciare le scadenze stando molto in guardia prima di spedire specialmente grosse partite […] [l]imitare tutte le spese di qualunque genere procurando la massima economia in tutte le voci […]. Infine sospendere qualunque idea d’impianti nuovi di ingrandimenti di nuovo macchinario ecc. anche quando ci si potesse vedere di ricavare un utile ed un vantaggio positivo39.

Vistisi chiudere i fidi bancari e impossibilitati a far fronte ai pagamenti più immediati, i Buitoni di Sansepolcro sono costretti nel 1927 a ricorrere al ramo umbro della famiglia, cedendo ad esso il controllo della società. L’assemblea straordinaria del 2 giugno di quell’anno, svoltasi nella residenza perugina di Giovanni Buitoni a Case Bruciate, sancisce la sostituzione dell’intero vertice dell’impresa: Silvio Buitoni viene rimpiazzato da Giovanni alla presidenza, mentre il nipote Guido e il figlio Gherardo, consiglieri delegati (il primo anche vicepresidente) sono sostituiti da Marco, fratello di Giovanni e sino ad allora rappresentante a Bologna della Perugina. I nuovi proprietari evitano di apportare ulteriori modifiche all’organigram-

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Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 1), p. 48-49. Cfr. Gallo, Dagli esordi alla seconda guerra mondiale cit. (a nota 37), p. 23.

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ma del pastificio, lasciando a Silvio e Guido Buitoni cariche onorifiche in seno al Consiglio, il che tuttavia non vale, poco dopo, a scongiurare il suicidio di quest’ultimo. La successiva vicenda della S.a. Gio. & f.lli Buitoni vede anzitutto il nuovo vertice societario impegnarsi per riorganizzazione delle varie attività dell’impresa. Le difficoltà finanziarie vengono superate grazie al fondamentale intervento di Biagio Biagiotti, che si è già visto essere consigliere del Consorzio maioliche, e che in quella fase è commissario straordinario della Cassa di risparmio di Perugia. Per questa via si procede ad un aumento del capitale sociale da 1,8 a 3 milioni di lire, sottoscritto formalmente dalla Perugina e dai membri della famiglia di Giovanni Buitoni, la definitiva cessione della filiale di Città di Castello al gerente, Antonio Buitoni, e il trasferimento della sede sociale nel capoluogo umbro. Di lì a breve, il 20 febbraio 1928, anche Gino Borrani cede alla Perugina le 3.000 azioni all’Apic ancora in suo possesso, ritirandosi dalla carica di direttore tecnico della tipografia40. Già da due anni, per altro, dal marzo 1926, l’impianto è stato trasferito a Perugia, in un’ala dello stabilimento di Fontivegge, con il conseguente licenziamento di tutto il personale fiorentino ad eccezione dei tecnici strettamente necessari a reimpiantare lo scatolificio nella sua nuova sede. Nel giugno 1928 l’intero pacchetto delle azioni Apic viene acquisito dalla Buitoni, a cui tre anni dopo, a ulteriore compensazione dei crediti da questa vantati nei confronti dell’impresa dolciaria, verranno ceduti anche 6.000 metri quadrati di terreno adiacente allo stabilimento della Perugina per la costruzione del Poligrafico41. Il 22 novembre 1928, infine, la società di Sansepolcro incorpora i Pastifici Buitoni di Roma, previa svalutazione del loro capitale sociale da 5 a 2 milioni. La conversione delle azioni della ditta romana in titoli Buitoni permette, tra l’altro, ai soci di minoranza di questa di entrare nella centrale perugina della società. Al termine di questa serie di trasformazioni, nel 1929, viene infine avviato il processo di ristrutturazione e specializzazione dei vari impianti della S.a. Gio. & f.lli Buitoni, il cui capitale sociale ha nel frattempo raggiunto i 5 milioni di lire. Questi avvenimenti, naturalmente, portano le due società, Buitoni e Perugina ad avviare una collaborazione ancora più stretta di quella, già cospicua, avuta in passato. Dal campo finanziario e valutario alla rete di distribuzione commerciale e alla pubblicità, esse intensificano iniziative comuni, sinergie e scambi, sulla base del collegamento sostanziale costituito dalla presenza dei fratelli Buitoni (del gruppo di Perugia) e dei loro fiduciari nei punti

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ASBP, FP, DGAD, b.5, fasc. 36 “Apic pratica Borrani”, cc. 101 e 104. ASLB, Libro dei verbali del Consiglio di amministrazione della S.a. Perugina cioccolato e confetture dal 7 novembre 1923 al 25 giugno 1945, adunanza del 6 luglio 1931.

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chiave delle due imprese e delle loro dipendenze. Nonostante il forte rafforzamento di questi legami, tuttavia, i Buitoni, e Giovanni in primo luogo, decidono di non procedere ad una fusione dei due organismi societari e ad un’integrazione delle attività delle due aziende, che restano formalmente solo “alleate”. Si tratta di una scelta non priva di significato, tanto più se si considera che proprio alla fine degli anni venti, sotto la spinta del peggioramento della congiuntura, si assiste ad una massiccia ondata di fusioni e incorporazioni, in Italia come in tutta l’economia occidentale. A sconsigliare un’evoluzione di questo genere contribuiscono probabilmente la consapevolezza dei costi che un’integrazione reale comporterebbe e l’estraneità delle due aziende ai mercati azionari, in funzione dei quali le fusioni vengono spesso realizzate. Ciò che sostanzialmente sconsiglia la creazione di un gruppo fortemente integrato, in ogni caso, sono le profonde differenze che sussistono tra le due società, tanto riguardo alla loro posizione sul mercato, quanto, almeno tra la fine degli anni venti e l’inizio del decennio successivo, in relazione allo sviluppo tecnologico delle rispettive strutture produttive: più compatta e avanzata la Perugina, rivolta ad un mercato di lusso ristretto; dispersa invece in vari stabilimenti in molti casi da ristrutturare, e facente capo ad un mercato interno molto più ampio come quello della pasta, la Buitoni. L’opzione per un collegamento informale ed elastico, del resto, benché non privo di costi sotto il profilo delle mancate economie di scala che il mantenimento di due strutture comporta, si rivelerà nella sostanza adeguata alla natura delle due aziende e, soprattutto, al contesto economico in cui esse saranno chiamate ad operare negli anni trenta. Nonostante il buon esito con cui è destinato a concludersi il rilevamento della Buitoni, il 1927 è un anno particolarmente difficile per la Perugina. Dopo l’aumento di capitale del 20 settembre, essa detiene direttamente un pacchetto azionario della società toscana di oltre due milioni di lire, somma a cui si aggiungono le partecipazioni personali dei vari membri della famiglia di Perugia. Da almeno un paio di anni poi, come si vedrà, l’impresa dolciaria è impegnata in un vasto piano di ristrutturazione e modernizzazione del proprio impianto di Fontivegge che, sebbene non comporti grandi investimenti in nuovi macchinari, implica comunque un certo impegno finanziario. Già quell’anno, per la verità, tale programma è giunto ad un discreto stato di avanzamento, consentendo ad esempio una riduzione di un quinto dei 600 addetti occupati in media nel 1925, e soprattutto permettendo di far fronte al ribasso dei prezzi connesso a “Quota 90”42. In ogni caso però il progetto prevede ancora un paio d’anni di spese per giungere a definitivo 42

Cfr. ASBP, FP, DP, b. 2, fasc. 4 “Riassunto statistica salari dal 1925 al 1955”, cc. 28 ss.

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compimento. Infine va tenuta presente la situazione congiunturale: la ricordata manovra deflazionistica del governo provoca restrizioni tanto sul versante degli approvvigionamenti finanziari che su quello degli sbocchi di mercato, mentre il perdurante rialzo dei prezzi del cacao aumenta le difficoltà del settore dolciario. Si comprende allora perché già il 4 giugno 1927, appena due giorni dopo l’Assemblea della Buitoni di Case Bruciate, Giovanni Buitoni prenda contatto con la rappresentanza perugina del Consorzio per le sovvenzioni sui valori industriali (Csvi) ed una decina di giorni dopo invii all’ente una richiesta di mutuo per la Perugina43: un finanziamento nella misura massima consentita, entro il limite di lire 5.000.000, da devolversi unicamente alla continuazione dell’organizzazione tecnica dei nostri Stabilimenti, al fine di ridurre ulteriormente i costi ed incrementare così l’esportazione dei nostri prodotti, molto ben avviata.

La richiesta tuttavia viene respinta, tanto, per la sproporzione della richiesta rispetto al capitale della società, quanto perché “le sovvenzioni del Consorzio sono destinate soltanto alle aziende già in piena efficienza... che hanno bisogno di superare una momentanea deficienza di circolante” e che quindi siano in grado di garantire un rapido rientro dei fondi44. La vicenda, oltre a rimarcare la necessità di fondi della Perugina, indica anche quanto improrogabile sia ormai l’aumento di capitale previsto già quattro anni prima. Il bilancio patrimoniale dell’esercizio 1927 infatti si chiude con oltre 9 milioni di indebitamento su un volume di passività complessivamente appena di 11 milioni. Il capitale proprio impegnato nell’impresa raggiunge il minimo storico del 9,7% sulle risorse complessivamente impiegate. Stante una simile situazione è gioco forza che l’assemblea straordinaria del 29 dicembre 1927 deliberi l’emissione di nuove 50.000 azioni, sempre del valore di 100 lire, portando così il capitale sociale da 1 a 6 milioni. In quell’occasione si istituiscono due categorie distinte di azioni: una, costituita dai 10.000 titoli originari di proprietà di Francesco Buitoni, aventi diritto a 10 voti ciascuno in sede assembleare, e l’altra, di azioni ordinarie, rappresentata appunto dalla serie di nuova emissione45. I fondi che la finanziano vengono reperiti per oltre tre quinti direttamente dalle voci di

43 44 45

ASBdI, Csvi, u.a.14, cc. 2207-2214. Ibidem. ASLB, Libro Verbali assemblee generali Perugina cioccolato e confetture S.a., registro n. 1 dal 20 marzo 1925 al 21 marzo 1934, Assemblea generale straordinaria del 29 dicembre 1927.

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Capitolo IV Le sfide degli anni venti

Tabella 9. Detentori delle azioni Perugina dopo l’aumento di capitale del 1927

* azioni da lire 100 per 6 milioni di capitale sociale. Fonti: ASBdI, Csvi, 14, c. 2336; ASBP, FP, DGAD, b. 1, fasc. 3ter, c. 12.

bilancio (riserve, rivalutazione impianti, cointeressenze dei dirigenti non prelevate, ecc.) e in parte costituiscono il riconoscimento, in termini azionari, di conferimenti già da tempo avvenuti (quello di Annibale Spagnoli a nome della moglie e dei figli o il contributo dei Buitoni di Sansepolcro alla costituzione dell’anonima). Almeno uno dei cinque milioni di aumento, e forse qualcosa di più, è versato ex novo, in gran parte dallo stesso Giovanni Buitoni e, in misura minore, da Mario Spagnoli e dagli altri membri della famiglia Buitoni di Perugia. A fine 1928, quando tutte le nuove azioni sono state pagate46, la proprietà della Perugina viene ad essere all’incirca ripartita come riportato nella tabella 9. Il prospetto è frutto del confronto tra la situazione della proprietà nel 1939 e una nota a mano, piuttosto confusa invero, redatta probabilmente prima del 1927. La partecipazione di Annibale Spagnoli (4.000 azioni) va probabilmente a rilevare parte del pacchetto di 5.000 azioni destinate ai Buitoni di Sanse46

Ivi, Assemblea generale ordinaria del 3 novembre 1928.

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polcro a copertura del credito che essi vantano nei confronti della Perugina dall’epoca della trasformazione di questa in anonima nel 1923. Una simile assegnazione andrebbe a saldare il debito che l’ex direttore tecnico continua a vantare nei confronti dell’azienda dolciaria fino alla metà degli anni trenta circa. È probabile, tuttavia, che tali azioni siano in realtà nelle disponibilità della moglie e dei figli di questi, visto che Annibale non compare più nelle vicende della società. Delle restanti 1.000 azioni destinate originariamente al ramo toscano della famiglia Buitoni e da questa non acquisite per il crollo dell’azienda di Sansepolcro, 400 sono rilevate da Francesco Buitoni e 600 da Luigi, responsabile del pastificio di Roma. Nel 1934, infine, alla scomparsa di Luisa Spagnoli, la sua quota verrà distribuita tra i figli. L’aumento di capitale impone in ogni caso notevoli sacrifici alla società, come testimonia il bilancio del 1928, privo di dividendi nonostante il – provvidenziale – buon andamento delle vendite e degli utili. Benché si tratti di un passo indilazionabile, come si è visto, la risistemazione degli assetti societari costituisce un’operazione tanto più azzardata se si considera che avviene in una fase di recessione quale quella del 1927. Nonostante il deciso peggioramento della situazione economica negli anni successivi, il successo che arride all’azienda negli anni trenta finirà tuttavia col dar ragione a Giovanni Buitoni. Al 30 novembre 1929 l’esposizione finanziaria delle aziende Buitoni assomma a 4,3 milioni di lire, stando almeno a quanto l’imprenditore umbro dichiarerà vari anni più tardi a Mussolini47. È interessante rilevare che, accanto all’appoggio finanziario della Cassa di risparmio di Perugia ottenuto attraverso Biagiotti, circa un quarto di questo importo (1,1 milioni di lire) provenga dalla Banca commerciale di Basilea, con cui Buitoni è in contatto sin dai primi anni venti in relazione alla costituzione della S.a. Elettricità umbra48. Siccome nel bilancio del 1929 figurano, solo per la Perugina, oltre 4 milioni di cambiali passive, si deve ritenere che tale cifra riguardi l’indebitamento consolidato, a medio e lungo termine, delle varie società “alleate”. Per

47 48

ASBP, FP, DGAD, b. 13, fasc. 78 “Relazione a S.E. il Capo del Governo sulle Società Perugina e Buitoni, aprile XIII (1935)”, cc. 34-41. ASBP, FP, DA, b. 50, fasc. 346 “Banca commerciale di Basilea dall’inizio al 31 dicembre 1934", cc. 49-50, 56, 81 e 83. Buitoni è infatti socio e membro del Consiglio di amministrazione della società di elettricità, cui si rimanda a Marco Penchini, Nascita e sviluppo del servizio di elettricità a Perugia: la Società Anonima Elettricità Umbra (1899-1929), in Uomini, economie, culture. Saggi in memoria di Giampaolo Gallo, a cura di Renato Covino, Alberto Grohmann, Luciano Tosi, Napoli, Esi, 1997, vol. II, pp. 217-241. Il rapporto con la banca elvetica viene avviato già nella prima metà del decennio con un fido di circa 500.000 lire per l’acquisto di semilavorati svizzeri (carta stagnola, burro e pasta di cacao), per essere successivamente sviluppato nel 1925, allorché la ditta umbra chiede un mutuo (non si sa bene in che misura accordato) di 2,5 milioni di lire per la ristrutturazione produttiva avviata in quel periodo.

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Capitolo IV Le sfide degli anni venti

Tabella 10. Le aziende Buitoni nel 1930

Fonti: ASBP, FP, DGAD, b. 10, fasc. 62, c. 4 e b. 13, fasc. 78, cc. 34-41.

contro le aziende controllate dai Buitoni dispongono di 12 milioni di capitale sociale e, nel successivo 1930, realizzeranno 1.753.000 lire di utile49. Tutto ciò, insomma, sta ad indicare come l’estinzione dei debiti contratti nel 1927 non sia stata particolarmente difficile grazie alla buona redditività che le aziende del gruppo, e tra di esse in particolare la Perugina, fanno registrare nello scorcio degli anni venti. Né, abbastanza sorprendentemente, questa situazione verrà compromessa più di tanto dalla successiva recessione internazionale se pochi anni dopo, all’inizio del 1933, Giovanni Buitoni può addirittura dichiarare a Mussolini di puntare “alla eliminazione dei finanziamenti bancari”, rifiutando un credito di 5 milioni che l’Imi è disposto ad accordargli, grazie anche al diretto interessamento del segretario particolare di Mussolini, Alessandro Chiavolini50. L’episodio non va troppo enfatizzato, sia perché la situazione economica del periodo sconsiglia nuovi investimenti e ampliamenti del giro d’affari, sia, probabilmente, per le implicazioni politiche e societarie che quel credito comporta. Ciò tuttavia costituisce sia pure indirettamente una prova di come nel giro di pochi anni la Perugina e le aziende Buitoni superino le difficoltà della seconda metà degli anni venti.

49 50

ASBP, FP, DGAD, b. 10, fasc. 62 “Avv. Profili”, c. 4. ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordinario, b. 1264, fasc. 5098221/1, Buitoni Giovanni, lettere del giugno 1932 e lettera di Buitoni a Chiavolini del 31 gennaio 1933.

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Capitolo V

Tra “Quota 90” e recessione internazionale V.1. L’organizzazione scientifica del lavoro a Fontivegge La nostra industria è forse una delle meno colpite in Italia dal movimento per la rivalutazione della lira, perché da due anni a questa parte è stato già iniziato un severo processo di revisione degli impianti e conseguentemente dei prezzi di costo. Si è fatto, in definitiva, a tempo opportuno, quello che il Governo ha raccomandato e comandato a tutti gli italiani di compiere nell’interesse della finanza pubblica e privata, da conseguirsi a qualunque costo con un regime di vita, di lavoro, diverso dal passato. [...] E le dirò ancora che la nostra Società prenderà parte in questi giorni al concorso bandito dall’Ente Nazionale per l’Organizzazione Scientifica del lavoro; e sarà una delle diciannove ditte nazionali che hanno disposto per la partecipazione1.

Con queste parole Giovanni Buitoni illustra la scelta di ristrutturare l’impianto di Fontivegge, che mette la Perugina in condizione di fare fronte alle difficoltà presentatesi nella seconda metà degli anni venti. Sin dal 19261927, infatti, l’impresa non solo deve confrontarsi con la concorrenza del gruppo di Gualino, ma deve affrontare anche il deterioramento della congiuntura innescato dalla “battaglia della lira”, allorché la contrazione dei consumi, il razionamento del credito e la perdita di competitività delle esportazioni italiane anticipano in Italia, salvo la parziale ripresa tra 1928 e 1929, la recessione degli anni trenta. Accanto al dinamismo commerciale di cui si è detto, la razionalizzazione produttiva, con l’aumento della produttività e il contenimento dei costi – inclusi quelli salariali – che le si accompagnano, costituiscono così il secondo versante della strategia imprenditoriale adottata da Giovanni Buitoni negli anni venti: una componente della linea gestionale della Perugina emersa più lentamente della prima, solo a metà decennio, e maturata poi nel contesto recessivo delle politiche deflazionistiche degli anni immediatamente successivi. L’opzione della Perugina per la radicale riorganizzazione del proprio apparato produttivo interviene infatti nel 1925, in una fase in cui l’azienda ha raggiunto il massimo grado di espansione produttiva possibile sulla base delle strutture di cui si è dotata tra il primo conflitto mondiale e l’immediato dopoguerra.

1

Il quadro dell’industria umbra in rapporto all’attuale situazione economica, intervista a Giovanni Buitoni, commissario della Camera di commercio di Perugia, in “L’Assalto” del 6 luglio 1927.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

Stanti tali impianti, l’aumento, o anche soltanto il mantenimento degli standard produttivi, rischia da quel momento in poi irrimediabilmente di accompagnarsi ad una perdita di competitività e all’incapacità di adeguarsi al taglio dei costi di produzione unitari che le economie interne rendono possibile per il gruppo di Gualino. L’aver accettato la sfida del gruppo piemontese rende insomma la scelta di aumentare la produttività una strada obbligata. Percorrerla richiederà tre o quattro anni di consistenti sforzi finanziari ed organizzativi, cui alla fine, tuttavia, arriderà un successo notevole. L’anticipo con cui la ristrutturazione venne avviata permette inoltre alla Perugina di giungere ben preparata all’appuntamento con la deflazione del 1927. Il che, oltre a consentirle di sfruttare al massimo la breve fase di ripresa successiva, viene utilizzato anche politicamente da Giovanni Buitoni, o quanto meno serve, come testimonia la citazione precedente, ad avvalorare l’immagine di una azienda modello, perfettamente allineata con la politica del regime nella “conquista di “Quota 90”2. A riprova del successo di questi sforzi, nel gennaio del 1928, l’Enios notifica a Mario Spagnoli, direttore tecnico della Perugina e artefice materiale della ristrutturazione, la vittoria del concorso per l’organizzazione scientifica del lavoro. La ristrutturazione produttiva presenta difficoltà tecniche non secondarie. Oltre alla scarsa diffusione che sino ad allora ha in generale avuto in Italia, l’organizzazione scientifica del lavoro è in certa misura più facilmente applicabile a settori che all’epoca sono più altamente meccanizzati e con più elevati livelli tecnologici, come ad esempio la meccanica o la chimica, piuttosto che all’industria alimentare. Un’eccezione in questo senso è rappresentata già in quegli anni dalla Cinzano, il cui ciclo produttivo è tuttavia estremamente più semplice e standardizzabile di quello di un’azienda di cioccolato e confetture3. Le prime esperienze formalizzate di razionalizzazione del processo di produzione in Italia risalgono per la verità alla prima guerra mondiale. Unitamente alla massiccia introduzione di macchinari, gli organi preposti alla

2

3

Sulle politiche economiche del regime nella seconda metà degli anni venti si rinvia alle già citate sintesi di Gianni Toniolo, L’economia dell’Italia fascista, Laterza, Bari, 1980, cap. III; Vera Zamagni, Dalla periferia al centro: la seconda rinascita economica dell’Italia, 1861-1981, Bologna, il Mulino, 1990, in part. cap. VII; Rolf Petri, Storia economica d’Italia : dalla grande guerra al miracolo economico, 1918-1963, Bologna, il Mulino, 2002, cap. III, nonché a Jon S. Cohen, La rivalutazione della lira nel 1927, L’economia italiana, 1861-1940, a cura di Gianni Toniolo, Roma-Bari, Laterza, 1978, pp. 313-336. Cfr. al riguardo M. Fossati, Lo sviluppo dell’organizzazione scientifica del lavoro nelle industrie vinicole della S.a. Francesco e C. Cinzano di Torino, relazione al III Congresso internazionale di organizzazione scientifica del lavoro, Roma, Enios, 1927, pp. 6 ss.

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mobilitazione industriale prestano allora una particolare attenzione all’organizzazione ed all’aumento della produttività del lavoro. Tali sforzi, del resto, da un lato, sono agevolati dall’inasprimento della disciplina connesso alla militarizzazione della manodopera e, dall’altro, si rendono in parte necessari per l’ampio ricorso a maestranze dequalificate. L’emergenza bellica costituisce così il precedente del dibattito e dei tentativi con cui, nel corso degli anni venti, si cerca di estendere l’applicazione dell’organizzazione scientifica del lavoro dal ristretto novero delle imprese di punta dei settori strategici all’insieme dell’apparato produttivo del paese4. La questione peraltro è ben più vasta dell’innovazione tecnico-organizzativa in sé, vale a dire, fondamentalmente, della codificazione dei movimenti compiuti dall’operaio, della loro misurazione e della loro retribuzione a cottimo. In primo luogo, infatti, per avere una reale vasta diffusione, essa rimanda ad una ristrutturazione generale del sistema industriale italiano, sulla scorta di principi di normalizzazione dei procedimenti tecnici, di unificazione dei materiali e dei tipi, di standardizzazione delle produzioni. Su di un altro versante, poi, la razionalizzazione del processo lavorativo investe in pieno le relazioni fra classi produttive, andando ad incidere immediatamente sui rapporti di fabbrica: la disciplina, i ritmi di lavoro, l’autonomia e l’identità stessa dell’operaio. È questo un elemento centrale dell’organizzazione scientifica del lavoro che, nei casi in cui viene applicata, costituisce spesso appunto la risposta del padronato alla conflittualità operaia del primo dopoguerra. Mediante la rigida pianificazione dei movimenti e dei tempi delle operazioni produttive, essa permette infatti di aumentare il controllo sulla forza-lavoro, la cui discrezionalità sul processo di produzione viene enormemente ridimensionata ed i cui ritmi di lavoro vengono ad essere strettamente regolati dalle disposizioni della direzione aziendale. Tutto ciò, peraltro, tende ad essere presentato nei termini neutrali delle pure esigenze tecniche della produzione, privo cioè, almeno nominalmente, di connotati coercitivi ed anzi, caso mai, volto ad una precisa e scientificamente oggettiva remunerazione del lavoro.

4

Sull’organizzazione del lavoro in Italia e la sua evoluzione si veda in generale Giulio Sapelli, Organizzazione, lavoro e innovazione industriale nell’Italia tra le due guerre, Torino, Rosenberg & Sellier, 1978; Duccio Bigazzi, Il Portello. Operai, tecnici e imprenditori all’Alfa Romeo, 1906-1926, Milano, FrancoAngeli, 1988; Id., La grande fabbrica. Organizzazione industriale e modello americano alla Fiat dal Lingotto a Mirafiori, Milano, Feltrinelli, 2000; Giuseppe Berta, Dalla manifattura al sistema di fabbrica: razionalizzazione e conflitti di lavoro, in Storia d’Italia, Annali I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, pp. 1079-1129; Id., L’Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell’industrialismo nel Novecento, Bologna, il Mulino, 2001, in part. cap. I; Germano Maifreda, La disciplina del lavoro, Milano, Bruno Mondadori, 2007.

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Su di un tale aspetto, sulla possibilità cioè di instaurare “un interesse comune tra padronato ed operai” tramite la diretta proporzionalità tra aumenti salariali e profitti, “senza sfruttamento e senza falcidie” dei salari, insiste del resto solo l’ala più avanzata e politicamente illuminata dell’imprenditoria italiana. Sono cioè solo Olivetti, Conti e pochi altri a mettere in risalto i temi della “cooperazione” tra produttori e della limitazione del potere assoluto ed arbitrario della direzione di fabbrica: compito dell’imprenditore era di creare un “regime, diremo così, di costituzionalità” nella fabbrica, la cui certezza d’applicazione risiedeva nella convinzione scientifica di poter superare gli “egoismi” sulla base del sopraccennato rapporto (proporzionale) salario-produttività5.

Con ciò, essi fanno riferimento ai modelli americani, tayloristi e fordisti, che tuttavia, già prima della guerra, coniugano gli incrementi di produttività con alti regimi salariali, nel quadro di politiche di sviluppo basate sull’incentivazione della domanda e sul consumo di massa. Le vicissitudini economiche degli anni venti dimostrano piuttosto rapidamente quanto esiguo sia il margine, in Italia come in gran parte d’Europa, per un simile “progetto partecipativo”. Crisi recessive e rivalutazioni monetarie lasciano di fatto spazio, nel Vecchio continente, alla sola applicazione del cosiddetto “sistema Bedaux”, dal nome della società di consulenza che se ne fa promotrice oltralpe, vale a dire alla riduzione dei costi di produzione attraverso la semplice intensificazione, pure “scientifica” a suo modo, dei ritmi di lavoro. Non a caso la razionalizzazione del processo produttivo comincia ad affermarsi in Italia solo a partire dalla seconda metà degli anni venti, quando ormai, con l’instaurazione della dittatura e l’eliminazione dei sindacati, si vengono a creare i presupposti politici per l’operazione. Merita di essere sottolineato, in ogni caso, che la diffusione dell’organizzazione scientifica del lavoro nell’Italia degli anni venti è limitata ad un ristretto numero d’imprese d’avanguardia: la Fiat, l’Olivetti, alcune altre aziende meccaniche, la Snia Viscosa e la Châtillion (in un settore, quello chimico-tessile, che per la qualità stessa del prodotto richiede una vasta meccanizzazione ed un accurato controllo delle lavorazioni), la Cinzano si è detto, e poche altre. Limiti fondamentali nella sua introduzione sono, accanto ad un certo ritardo culturale di buona parte dell’imprenditorialità della penisola, gli oneri economici che la razionalizzazione comporta, nonché lo scarso grado di meccanizzazione e tutta una serie carenze

5

Sapelli, Organizzazione, lavoro cit. (a nota 4), pp. 24-25. Tra virgolette nel testo sono le parole di Mario Fassio, dirigente della Fiat dei primi anni venti.

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tecnologiche che l’industria italiana riuscirà a sanare solo dopo la seconda guerra mondiale. La stessa creazione dell’Enios data solo al 1925, quando, per iniziativa spontanea della Confindustria, viene organizzato un comitato a cui facciano capo gli studi sull’organizzazione che da una decina d’anni vanno sviluppandosi più o meno isolatamente nel paese. Costituitosi come vero e proprio ente nel 1926 e guidato da Francesco Mauro e Gino Olivetti, l’Enios svolge un’intensa opera di stimolo e ricerca fino ai primi anni trenta, allorché la sua struttura viene burocratizzandosi e la sua funzione si esaurisce. È appunto in quel periodo, negli anni della crisi, che l’applicazione del sistema Bedaux viene più largamente diffondendosi quale strumento di contenimento dei costi di produzione. Ma a gestire tale fase operativa non sarà più un organo centralizzato quanto piuttosto una serie di società di consulenza sorte appositamente soprattutto nel triangolo industriale. Anche soltanto da un punto di vista cronologico, perciò, l’introduzione dell’organizzazione scientifica del lavoro alla Perugina costituisce un’iniziativa d’avanguardia nel panorama italiano. Ma l’elemento che più di ogni altro caratterizza l’esperienza dell’azienda umbra, e che probabilmente le vale il riconoscimento dell’Enios, sta nell’aver applicato i criteri della razionalizzazione del lavoro ad un settore di produzioni di lusso con un basso grado di standardizzazione. A questo proposito, la lettera di presentazione dei materiali per il concorso del 1927fa notare che il cioccolato nelle sue varie confezioni è un articolo di fantasia e quindi di lusso, che richiede un insieme di operazioni delicate e lunghe per poter essere presentato sotto la sua bella patina lucente, con eleganti scatole litografate, corredato di tutte le minuzie che lo rendono piacevole agli occhi ed al palato. Non si tratta di un articolo di serie e le attuali teorie della standardizzazione del lavoro non potrebbero a prima vista avere applicazione nel nostro ramo. Tuttavia questa meccanizzazione si è realizzata nel nostro Stabilimento pur ottenendo prodotti finissimi6.

Che tale “lavorazione ‘standardizzata’ di un articolo di lusso” costituisca un’innovazione di qualche rilievo, la cui messa a punto è tutt’altro che semplice, è indicato tra l’altro dal polemico articolo di un editorialista de “Il Dolce” del 1931 sulle “conseguenze della prostituzione della qualità alla quantità”7. L’intervento, se da un lato viene a coincidere con le critiche dei settori della piccola industria presenti nella Federdolce, d’altro canto

6 7

Mario Spagnoli, L’organizzazione scientifica del lavoro nella grande industria alimentare, Roma, Enios, 1928, p. 4. G. Arrò, Effetti dell’industrializzazione sulla qualità dei prodotti dell’industria dolciaria, in “Il Dolce”, VI, 62 (aprile 1931), pp. 132-135.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

pone in risalto una serie di problemi tecnici reali, che ostano a facili scorciatoie sulla via della meccanizzazione e della accelerazione delle lavorazioni. In massima parte tali critiche non sono tuttavia riferibili alla Perugina, in cui l’introduzione del sistema Bedaux e delle lavorazioni a catena rimangono comunque parziali, a macchie, limitandosi ai reparti in cui il livello tecnologico dell’epoca le rende possibili. Nella fabbrica umbra, le innovazioni tecniche in senso stretto si limitano ai sistemi di collegamento dei macchinari in catene di produzione continua e perciò, sostanzialmente, all’adattamento a nastri di trasporto, montacarichi e distributori pneumatici, di impianti già esistenti sul mercato e di per sé, in qualche caso almeno, neanche eccessivamente moderni. Il fulcro della ristrutturazione consiste, insomma, nell’introduzione del principio della catena di montaggio in accoppiata con la codificazione delle operazioni della manodopera, che vengono fissate in una serie di movimenti standardizzati e per questa via strettamente inquadrate nella linea di produzione e nei tempi con cui essa procede. Che si tratti di un innovazione fondamentalmente organizzativa anziché tecnologica è dimostrato, tra l’altro, dal fatto che è la stessa officina interna all’azienda a fornire gran parte delle soluzioni tecnico-meccaniche di cui ci si avvale. Dal punto di vista tecnologico, lo sforzo principale è costituito, in questa prospettiva, dalla messa in linea dei macchinari e nella ricerca della disposizione più funzionale di questi ultimi in relazione alle “operazioni che debbono svolgere, [...] [ai] collegamenti e trasporti tra le singole operazioni e [...] [all’]ambiente di cui [si] dispone”8. Accanto all’introduzione del sistema Bedaux – afferma Giulio Sapelli – era nell’instaurazione della produzione in serie e della catena di montaggio, [il] vero, reale passaggio a una fase superiore dell’organizzazione scientifica del lavoro, a una fase attuale e oggi presente del rapporto capitale e lavoro nelle fabbriche moderne. [Infatti] era [...] sbagliato presupporre una cooperazione degli operai alla perdita della loro autonomia marginale del lavoro. [...] Mediante una banale apparecchiatura di convogliamento, la somma di tanti micromovimenti individuali diventava un tempo generale e indipendente dal rendimento ottimo dei singoli; prioritario anche rispetto alle fasi a monte9.

Attraverso un sistema di trasporti interni che mettono in linea le varie lavorazioni, diviene cioè possibile ridurre al minimo i margini di discrezio-

8 9

Spagnoli, L’organizzazione scientifica del lavoro nella grande industria alimentare cit. (a nota 6), pp. 7-8. Sapelli, Organizzazione, lavoro cit. (a nota 4), p. 243, nonché Aris Accornero, Dove ricercare le origini del taylorismo e del fordismo, in “Il Mulino”, settembre-ottobre 1975, pp. 678-693.

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nalità dell’operaio e, stante il sistema Bedaux “di misura [...], compenso [...] e controllo”10, porre la produttività e l’utilizzo degli impianti sotto il completo controllo della direzione tecnica. Nel caso specifico della Perugina, il collegamento automatico delle varie fasi di produzione permette inoltre una notevole riduzione del personale, con l’eliminazione del cospicuo numero di manovali addetti al trasporto dei materiali. In termini quantitativi la ristrutturazione comporta una riduzione della manodopera di oltre un quarto, dalla media annua di 600 unità del 1925 a quella di 436 del 1928. A fronte di ciò, si ha un aumento del 37% del rapporto produzione/ addetti, che passa nello stesso periodo da 23,6 a 32,4 quintali per occupato11. Tra le produzioni dolciarie, quella del cioccolato è sicuramente una delle più complesse ed articolate: essa implica un cospicuo numero di passaggi di lavorazione che, specie nelle fasi finali, si ramificano in una vasta serie di procedimenti specifici e danno luogo alla variegata gamma di generi di consumo. Schematicamente, la produzione del cioccolato si può suddividere in cinque fasi, escludendo la prima lavorazione del cacao nei luoghi di produzione: - lavorazione del cacao in grani e sua trasformazione in pasta di cacao (cacao macinato); - lavorazione ausiliaria (parallela alla precedente) del burro di cacao, ottenuto per estrazione dal cacao macinato e avente come sottoprodotto il cacao il polvere; - lavorazione della pasta (o liquore) di cioccolato, ottenuto unendo al cacao macinato quantità aggiuntive di burro di cacao, che rendono la pasta modellabile; - lavorazioni finali del liquore di cioccolato differenziate a seconda dei prodotti finiti da ottenere (cioccolato da copertura, cioè semilavorato per pasticceria, tavolette, cioccolatini, forme vuote, ecc.); - incarto e confezionamento. 10 11

Spagnoli, L’organizzazione scientifica del lavoro nella grande industria alimentare cit. (a nota 6), p. 9. Per questi dati si veda ASBP, FP, DP, b. 2, fasc. 4 “Riassunto statistiche salari 1925”, cc. 28 ss., salari 1925; ivi, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954. Quanto al numero di occupati, nell’introduzione del citato volume di Spagnoli si afferma che diminuisce da 700 a 500 unità circa tra 1925 e 1927, con riferimento, probabilmente, a tutto il personale dell’azienda, incluso quello di vendita, gli impiegati, ecc. Altre fonti, come A. Presenzini Mattioli, Un’industria gloria dell’Umbria moderna, in “L’industria umbro-sabina”, IX, 2 (31 maggio 1928), pp. 50-55, parlano addirittura di un migliaio di addetti impiegati nello stabilimento. Il dato produzione/addetto indicato è, inoltre, molto approssimativo, basandosi sulla media annua degli occupati e non, ad esempio, sulle ore lavorate.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

A queste lavorazioni principali vanno poi aggiunte altre collaterali, come la preparazione delle zucchero per i ripieni e per le addizioni alla pasta di cacao (il cioccolato in quanto tale è infatti una mescolanza di derivati del cacao in grani, come cacao macinato e burro di cacao, più zucchero, che ne costituisce una quota variabile fino ed oltre il 50%), i servizi generali specifici del settore (riscaldamento-refrigerazione, falegnameria per imballi, ecc), i procedimenti particolari e le linee ausiliarie di fabbricazione di cioccolato al latte, alle nocciole, al caffè, ecc. Alla produzione di cioccolato sono poi accoppiate, specie negli impianti meno specializzati, quelle delle caramelle e dei confetti, che possono avvalersi di semilavorati e servizi generali già in parte predisposti. La Perugina, sin dalla prima guerra mondiale, è in grado di svolgere tutto questo vasto complesso di lavorazioni, attivando anche, dalla metà degli anni venti come si è accennato, un suo proprio scatolificio interno. Bisogna tener presente tuttavia che molte aziende, non solo artigianali, realizzano spesso solo una parte del ciclo della produzione principale di cioccolato, escludendo il cacao in polvere (e ricorrendo al mercato per il suo sottoprodotto, il burro di cacao) o acquistando direttamente la stessa pasta di cioccolato e limitandosi così alle lavorazioni finali. Il grado di internalizzazione dei vari processi di produzione necessari per produrre cioccolato e l’associazione ad essi di altre lavorazioni dolciarie o di semilavorati lasciano in generale numerose alternative e ampie possibilità di scelta. In linea generale, le modalità e la natura voluttuaria del consumo italiano della prima metà del Novecento spingono a fabbricare una gamma di articoli il più possibile varia e differenziata, a detrimento della possibilità di realizzare vaste economie interne. Laddove, al contrario, la domanda assume già le caratteristiche del consumo di massa, è possibile una maggior specializzazione degli impianti. Dal punto di vista dell’organizzazione tecnica, infine, un’altra soluzione adottata dalle lavorazioni industriali è quella di attivare lavorazioni di biscotti e prodotti da forno, soprattutto per attenuare i problemi derivanti dalla stagionalità del consumo di cioccolato, concentrato nei mesi più freddi. È questo il caso di grandi gruppi come l’Unica, forte tra l’altro della presenza tra le sue controllate della Gallettine Biscuits, ovvero, su dimensioni più limitate, della ditta fiorentina Digerini & Marinai, a cui la Perugina fa riferimento per rifornire i propri negozi, prima di avviare a sua volta questo tipo di produzioni nel secondo dopoguerra12. Le varie fasi del processo di produzione sinora descritte, inoltre, si pongo-

12

ASBP, FP, DGAD, b. 6, fasc. 44 “Unica Bonatti Digerini & Marinai”, c. 34.

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no in maniera diversa in rapporto con la meccanizzazione. In linea generale, quelle iniziali concernenti il cacao permettono un largo e relativamente agevole uso di macchinari, mentre via via che si avanza verso i passaggi finali, le difficoltà di sostituire, o anche solo d’integrare, il lavoro a mano aumentano. Nel periodo tra le due guerre in particolare, i procedimenti iniziali relativi al cacao, quelli concernenti polvere e burro di cacao, e in parte anche quelli di mescolatura e raffinazione del cioccolato sono ormai ampiamente meccanizzati. La strozzatura interviene piuttosto nelle operazioni successive di trasformazione finale del prodotto, che sono poi anche quelle sulle quali si concentra la razionalizzazione del lavoro condotta alla Perugina. L’incarto e il confezionamento verranno per altro meccanizzati in modo soddisfacente solo nel secondo dopoguerra13. In tutte le prime fasi di lavorazione del cacao e del cioccolato (i primi due punti indicati sopra: nell’ordine pulitura, torrefazione, rompitura, molitura, mescolatura, raffinazione, concaggio, più il ciclo parallelo di estrazione del burro attraverso presse) i macchinari introdotti tra 1925 e 1929 a Fontivegge sono relativamente pochi. Nello stabilimento perugino, in particolare, il ciclo produttivo comincia a partire dai magazzini del cacao, collocati nei solai assieme alla pulitura, alla torrefazione e alla rompitura dei grani. Una simile dislocazione è tesa a proteggere la materia prima dall’umidità, che ne provocherebbe la germinazione, e dai rischi di una ripresa del processo di fermentazione per mancanza di areazione. Soprattutto, però, essa facilita l’alimentazione dei molini, che sono posti invece a piano terra e, sul modello di quanto avviene nella lavorazione delle farine, vengono appunto caricati dall’alto. La meccanizzazione di tutti questi procedimenti data in generale dalla seconda metà dell’Ottocento e gli operai che vi sono impiegati sono numericamente limitati, prevalentemente di sesso maschile e con una qualificazione piuttosto elevata, tanto più dopo che la meccanizzazione di molti degli spostamenti di materiali realizzata nello stabilimento nella seconda metà degli anni venti ha eliminato gran parte dei manovali. Le mansioni della manodopera riguardano soprattut-

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Per gli aspetti tecnici delle lavorazioni cioccolatiere dell’epoca si veda in generale Mario Spagnoli, La fabbricazione del cioccolato, Milano, Hoepli, 1926, nonché Heinrich Fincke, Handbuch der Kakaoerzeugnisse, Berlin, Springer, 1936 e più in generale a J. B. M. Coppock, Tecnologia dell’alimentazione, in Storia della tecnologia. Volume VII. Il ventesimo secolo. Le comunicazioni e l’industria scientifica, a cura di Charles Singer, Eric J. Holwyard, A. Rupert Hall, Trevor J. Williams, Torino, Boringhieri, 1965, pp. 701-759. Per ulteriori indicazioni si rimanda a Francesco Chiapparino, L’industria italiana del cioccolato nel quadro dell’evoluzione della tecnologia del cacao tra il tardo Ottocento e la prima metà del Novecento, in Innovazione tecnologica e industria, a cura di Daniela Brignone, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 81-124.

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to la sorveglianza di macchinari relativamente complessi e il controllo di processi piuttosto delicati, da cui dipende l’esito dell’intera produzione finale. Il momento più difficile della lavorazione, in particolare, rimane la torrefazione, in cui i grani di cacao vengono moderatamente abbrustoliti per esaltarne l’aroma e facilitarne la successiva decorticazione (l’eliminazione del rivestimento esterno). Errori di tostatura compromettono il gusto del cioccolato in modo difficilmente ovviabile, per cui sono necessari operai con molta esperienza. Di fatto la Perugina continua ad usare in questo reparto attrezzature degli anni dieci, forse addirittura precedenti, fino all’immediato dopoguerra, quando vengono introdotti impianti più perfezionati14. Alla torrefazione, dopo alcuni passaggi preparatori, fa seguito la macinazione del cacao nei molini, un’operazione che registra tra le due guerre una significativa evoluzione tecnologica con l’introduzione di molini a rulli cilindrici o a macine verticali regolabili, molto più veloci ed efficienti dei vecchi impianti a macine orizzontali. La Perugina tuttavia continua ad utilizzare quattro gruppi di questi ultimi e solo nel 1927, probabilmente, affianca ad essi un più recente molino a cilindri della ditta svizzera Buhler, il che in definitiva fornisce un’ulteriore conferma del carattere prevalentemente organizzativo, anziché che tecnologico, della ristrutturazione della seconda metà degli anni venti. La pasta di cacao che si ottiene dai molini costituisce la base tanto per le successive lavorazioni del cioccolato che per quella del cacao in polvere. Nel primo caso, in particolare, si ha una serie di passaggi molto delicati, che rappresentano il nucleo centrale del processo di fabbricazione e da cui maggiormente dipende la qualità del prodotto finale. La loro funzione è quella di mescolare le varie componenti del cioccolato (pasta di cacao, burro, zucchero, eventualmente latte, nocciole, aromi, ecc.) ed ottenere una pasta (liquore) il più possibile amalgamata ed omogenea. Era stata appunto la sostituzione, all’inizio dell’Ottocento, dei vecchi metodi di pestaggio e miscelatura a mano col melangéur – una vasca con molazze mosse meccanicamente, a cui tutte le operazioni del reparto, compresa la molitura, possono essere ricondotte – ad aprire la strada al successivo sviluppo industriale del settore. Il mescolatore, non solo aveva permesso di lavorare quantità e varietà di sostanze molto maggiori, ma aveva migliorato notevolmente la stessa qualità della miscela, la cui grana risultava enormemente più raffinata che in precedenza. La successiva estrazione del burro di cacao, che una volta isolato poteva poi essere aggiunto alla pasta di cacao e renderla modellabile senza l’aggiunta di

14

Cfr. la Testimonianza di Antonio Brozzi in Una lunga vita di lavoro. Esperienze di vecchi lavoratori, Roma, Ed. Gazzetta dei Lavoratori, 1952, pp. 95-97.

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altri semilavorati fuorché lo zucchero, avrebbe poi completato il passaggio al cioccolato solido entro la metà del XIX secolo. Dal melangéur evolvono nella seconda metà del secolo vari altri macchinari, in particolare le raffinatrici, apparecchiature a rulli sovrapposti che, ruotando a velocità differenti per ottenere un effetto di strappo, permettono di realizzare un liquore di cioccolato di grana minutissima, e le conche, introdotte nel tardo Ottocento dalla svizzera Lindt, che attraverso un prolungato rimescolamento in vasche a temperatura controllata inducono nel cioccolato le trasformazioni molecolari responsabili dell’effetto fondant. La Perugina nel 1924 dispone di sei mescolatori, sette raffinatrici (quattro a cinque cilindri e tre più piccole a tre cilindri) e nove gruppi di conche longitudinali. A queste attrezzature, nella seconda metà del decennio vengono aggiunti un nuovo melangéur, una raffinatrice a cinque cilindri e un gruppo di conche circolari di nuova concezione, con un incremento significativo ma non particolarmente consistente15. Ad un più rilevante ammodernamento di molini, mescolatori e soprattutto delle raffinatrici, l’impresa comincerà a provvedere solo verso la fine degli anni trenta, sull’onda del successo commerciale legato al concorso delle figurine del 1934-1937. Cambiamenti assai più significativi vengono invece introdotti nelle fasi di lavorazione finale del cioccolato, vale a dire in tutta quella serie di processi piuttosto differenziati con cui il liquore viene trasformato in una vasta gamma di articoli finiti, dalle tavolette, ai cioccolatini, ai bonbon ripieni, alle uova, ecc. Nel complesso, tali passaggi sono schematicamente riconducibili a due linee di produzione diverse, quella del modellaggio, per la realizzazione di cioccolati solido omogeneo, e quella della bonboneria, per la realizzazione di cioccolati con ripieno (come ad esempio i Baci). Salvo alcune eccezioni, i procedimenti che le riguardano non sono eccessivamente complessi, consistendo fondamentalmente nella modellatura del cioccolato attraverso stampi e processi termici, e sono agevolmente realizzabili, al contrario delle prime lavorazioni, in un contesto artigianale. Anzi, proprio questa loro natura fondamentalmente artigianale fa sì che tali sezioni del ciclo di produzione assorbano una grande quantità di manodopera. Ed è appunto in esse che la ristrutturazione realizzata alla Perugina nella seconda metà degli anni venti ottiene i risultati maggiori, introducendo il lavoro a catena e, nel reparto bonboneria ove l’intervento umano è più cospicuo, il sistema Bedaux di misurazione e controllo della produttività. Merita di essere sottolineato, ancora

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Cfr. al riguardo Chiapparino, Razionalizzazione produttiva e organizzazione scientifica del lavoro alla Perugina negli anni venti, in Uomini economie culture. Saggi in memoria di Giampaolo Gallo, a cura di Renato Covino, Alberto Grohmann e Luciano Tosi, Napoli, Esi, 1997, vol. II, pp. 250-251.

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una volta, che di per sé i macchinari utilizzati non sono avanzatissimi. Sin dagli anni dieci e a maggior ragione poi nel decennio successivo, i maggiori produttori tedeschi e francesi di macchinari per il settore dolciario realizzano infatti linee di modellaggio integrate e quasi integralmente automatiche. Si tratta tuttavia di impianti poco versatili, adatti a singole specifiche produzioni e soprattutto molto costosi. Alla Perugina, ove pure singoli macchinari di queste linee non mancano (ad esempio la glassatrice automatica Lehmann) si fa di necessità virtù, utilizzando in genere attrezzature più semplici e versatili, collegate in linea dall’officina meccanica interna secondo le specifiche esigenze degli ambienti e delle produzioni dell’azienda. Il risultato finale è in generale apprezzabile. Mario Spagnoli, sottostimando probabilmente un po’ la produttività della concorrenza, afferma che con tale nostro impianto [di modellaggio e smodellaggio] [...] necessitiamo di 15 operai capaci per produrre 100 quintali di cioccolato modellato in confronto ai 30 operai impiegati nelle migliori Fabbriche italiane ed estere più meccanizzate [...]. Se poi le fabbriche non fossero meccanizzate la produzione giornaliera di 100 quintali richiederebbe 110 persone16.

Con un analogo guadagno di produttività, nel reparto glassatura, ove vige il sistema Bedaux, 25 operai realizzano in 8 ore circa 2.500 scatole di bonbon17. Una razionalizzazione analoga, ma ancora più spinta viene realizzata nelle lavorazioni di confezionamento e incarto. Quest’ultima, in particolare, è l’operazione più importante: fondamentale per la conservazione del prodotto finito e basata su materiali – la stagnola – molto costosi, essa richiede ancora un grande numero di operaie, sia pure con bassa qualifica. Già da tempo, per la verità, esistono anche in questo ambito macchine avviluppatrici che consentono notevolissimi risparmi di forza-lavoro, facendo aumentare la produttività per addetto dalle 3 alle 8 volte; la loro applicazione tuttavia è però limitata agli articoli correnti meno raffinati poiché non assicura risultati del tutto soddisfacenti18. Alla Perugina, i reparti di

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Spagnoli, L’organizzazione scientifica del lavoro nella grande industria alimentare cit. (a nota 6), p. 50 Ivi, p. 61. In generale su questi aspetti si veda anche Mario Spagnoli, Il problema dei tempi e l’applicazione del sistema Bedaux, in “L’industria umbro-sabina”, II, n. 5 (agostosettembre 1929), pp. 191-195. Non di rado infatti l’incarto meccanico lascia scoperte parti del prodotto, provoca imperfezioni e sbavature nella distribuzione dei collanti o, esercitando eccessive pressioni, deforma gli articoli più delicati. Cfr. in proposito Spagnoli, La fabbricazione del cioccolato cit. (a nota 6), pp. 101-102.

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modellaggio e di glassatura, nonché quello delle caramelle, vengono tutti dotati tra 1925 e 1929 di avviluppatrici meccaniche, che passano così dalle undici della metà del decennio ad oltre una ventina, molte delle quali direttamente collegate alla catena di lavorazione. Accanto ad esse, tuttavia, il reparto d’incarto a mano viene non solo mantenuto ma anzi potenziato, specie quando ci si orienta verso produzioni di lusso a fine anni venti. Nonostante la massiccia introduzione del sistema di cottimo collettivo, questa fase rimane il principale punto debole dell’intero processo di fabbricazione, costituendo una strozzatura per superare la quale non si può fare altro che aumentare il numero degli addetti. Stanti i limiti tecnologici delle avviluppatrici, le uniche economie possono essere realizzate razionalizzando al massimo il rifornimento dei materiali, tanto cioè del cioccolato, con la collocazione del reparto in continuità con quello di lavorazione finale del prodotto, che delle scatole in cui, una volta incartati, i prodotti sono collocati. A questo fine venne installato un sistema di trasporto a bilico, sopraelevato, che, attraversando l’intero stabilimento, rifornisce direttamente la bonboneria dei cartonaggi preparati nello scatolificio. Quest’ultimo ha del resto problemi di meccanizzazione analoghi ed anche in questo caso, oltre all’introduzione del cottimo collettivo, si provvede ad istituire una lavorazione a catena su linee con trasporti automatici. Ristrutturata in funzione del ciclo produttivo nel 1926, per altro, la produzione di confezioni e cartonaggi viene poi spostata dallo stabilimento della Perugina e trasferita nel 1931-1932 nel contiguo impianto del neo costituito Poligrafico Buitoni. Interventi minori, sostanzialmente riguardanti la messa in linea dei macchinari, vengono poi realizzati nel reparto del cacao in polvere, mentre una ristrutturazione più massiccia, con l’introduzione di cottimi, la meccanizzazione dei trasporti interni e di vari passaggi produttivi, viene condotta sulla linea di produzione delle caramelle, sull’onda tra l’altro del successo delle Rossana nel 1926. La razionalizzazione, che segue più o meno i criteri adottati per il modellaggio e la bonboneria, porta tra l’altro al taglio della metà della manodopera del reparto. Soluzioni piuttosto originali vengono infine adottate per i trasferimenti interni di materie prime e semilavorati. Si è accennato al trasporto dei cartonaggi per le confezioni attraverso un sistema a bilico sopraelevato che taglia trasversalmente l’intero spazio della fabbrica. Lo zucchero, invece, viene diffuso dal molino di polverizzazione ai vari reparti attraverso una rete di tubi pneumatici ramificata per tutto lo stabilimento. In modo analogo è organizzato il sistema di refrigerazione, facente capo ad una coppia di compressori ad ammoniaca (passati dalle 180 chilo frigorie del 1920 alle 250 di cinque anni dopo e alle 380 degli anni trenta) e diramantesi ai numerosi impianti di raffreddamento richiesti dalle varie lavorazio130


Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

ni. La trasformazione più vistosa, anche se di per sé più semplice, riguarda per altro il modo con cui le due grandi caldaie Cornovaglia, di 50 mq ciascuna, vengono ad essere rifornite di carbone. Fino alla metà degli anni venti infatti le grandi quantità di combustibile necessarie sono scaricate nel piazzale al centro dell’opificio e da lì trasferite al deposito a mezzo di carriole. La semplice apertura di una saracinesca e l’installazione di un binario con vagoncini da miniera permettono di eliminare questo metodo dispendioso in termini di spazio e manodopera, oltre che poco consono agli standard d’igiene di una fabbrica alimentare. Si è indicato in precedenza come l’organizzazione scientifica del lavoro, ed in particolare il sistema Bedaux unito alle lavorazioni a catena, abbiano alcune delle loro principali conseguenze proprio sul terreno delle relazioni industriali, costituendo un’intensificazione della disciplina del lavoro. Per certi aspetti processi di razionalizzazione produttiva come quello realizzato alla Perugina costituiscono lo strumento con cui il padronato italiano fa fronte alle difficoltà derivanti dalla politica economica del regime, da “Quota 90” all’autarchia, scaricando una parte consistente dell’onere della riduzione dei costi di produzione sul ceto operaio, e avvalendosi per tale operazione degli ampi margini di controllo della conflittualità garantiti dalla dittatura. In un centro scarsamente industrializzato come il capoluogo umbro, naturalmente, le implicazioni politico-sociali della razionalizzazione del processo produttivo sono avvertite in modo molto più sfumato che non nelle grandi concentrazioni operaie del Nord Italia o, in Umbria, nello stesso polo ternano. Né, d’altra parte, alla Perugina, la direzione di fabbrica ha grossi problemi nel rapporto con una manodopera che, per la sua stessa composizione, non esprime una particolare pressione rivendicativa o una forte conflittualità. Quella di Fontivegge è infatti una forza-lavoro prevalentemente femminile, in molti casi assai giovane, con un’alta quota di lavoratrici stagionali (un quarto e, negli anni di maggior espansione, anche un terzo) per via della forte intensificazione delle produzioni a ridosso del periodo invernale. Le maestranze maschili, inoltre, più qualificate, sono prevalentemente concentrate nelle sezioni interessate dalla ristrutturazione solo in misura minore (cacao, cacao in polvere, prima lavorazione cioccolato, servizi generali). Estranei per lo più ai cottimi, gli operai di sesso maschile sono addetti a mansioni di tipo semiartigianale, gratificanti e ben retribuite, e sono spesso legati all’azienda da rapporti di lunga data, a volte addirittura risalenti agli anni del laboratorio di via Alessi. Le istanze immediatamente riconducibili al controllo della conflittualità operaia, insomma, devono avere un ruolo secondario nella razionalizzazione del 1925-1929, che appare invece più direttamente connessa all’obbiettivo di aumentare la competitività dell’azienda. Ciò non significa, evidentemente, che il controllo sulla forza-lavoro sia 131


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alla Perugina meno rigido che altrove, indicando, caso mai, soltanto che esso incontra minore resistenza nella componente operaia. Significativamente, Mario Spagnoli afferma nel volume che illustra i successi della razionalizzazione del lavoro introdotta in quegli anni19: Si sa, per esperienza, che la Direzione non da ordini se non giustificati, non emana disposizioni se non utili, non da punizioni se non meditate, e ciascuno obbedisce, eseguisce con zelo, diremmo quasi con entusiasmo, rimettendosi completamente alla volontà ed alla mente dirigente...

A proposito dell’introduzione del lavoro a catena e del cottimo collettivo nel reparto glassatura egli osserva che è nell’interesse delle operaie lavorare con celerità: l’una cerca di spronare l’altra affinché il lavoro sia compiuto con eguaglianza [...]. L’emulazione sorta in un primo tempo si è cambiata in gara, perché ciascuna operaia osserva la sveltezza della compagna, giudica e, se è il caso, da se stessa punisce con il rapporto che fa alla sorvegliante.

Tali passaggi indicano in modo abbastanza efficace il clima e gli effetti che accompagnano la ristrutturazione. Quest’ultima inoltre coincide con le riduzioni salariali varate in occasione della rivalutazione della lira: quella “spontaneamente accettata” dal sindacato fascista nel maggio 1927, nel contratto di lavoro stipulato alla Perugina il 14 giugno successivo si traducono in riduzioni salariali oscillanti tra il 7% e il 15%, ed il successivo ritocco imposto dal governo agli inizi del 1928, di cui al contrario non si ha al momento notizia per la fabbrica umbra20. Vera Zamagni afferma che si apre allora, per protrarsi fino al 1938, una lunga stagione di sostanziale stagnazione dei livelli dei salari, “frutto di una deliberata politica di intervento del regime ogni qualvolta [essi] mostravano la tendenza ad allontanarsi troppo da un certo livello considerato ‘acquisito’ – di sussistenza – e che si può indicare attorno alle 15 lire del 1938”21. Nella lettura dei dati sui salari presentati in tabella va considerato anche

19 20

21

Spagnoli, L’organizzazione scientifica del lavoro nella grande industria alimentare cit. (a nota 6), pp. 8 e 61. Cfr. “Il Dolce”, IV, 39 (maggio 1929), p. 129 e, per i salari precedenti, la lettera di Buitoni all’amministrazione della Digerini & Marinai di Firenze del 31 dicembre 1924, in ASBP, FP, DP, b. 1, fasc. 2, c. 44, e Il nuovo patto di lavoro agli operai de “La Perugina”, in “L’Assalto”, 27-28 novembre 1924. Vera Zamagni, La dinamica dei salari nel settore industriale, in L’economia italiana nel periodo fascista, a cura di Pierluigi Ciocca, Gianni Toniolo, il Mulino, Bologna, 1978, pp. 329-378. 15 lire del 1938 sono pari a 17 lire del 1924, 19 del 1925 e, per effetto della rivalutazione a 16,30 del 1926 e 15,70 del 1928.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

Tabella 11. Occupati e salari alla Perugina (1925-1940)

Per il 1925-27 si sono supposti 295 giorni lavorativi l’anno. Fonte: ASBP, FP, DP, b. 2, fasc. 4, cc. 38 ss.

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che nella seconda metà degli anni venti i tagli di manodopera utilizzata per i trasporti interni, cioè fondamentalmente di manovali con basse retribuzioni, hanno l’effetto di sostenere il livello medio delle retribuzioni. Considerando che il grosso della manodopera della Perugina è costituita da operaie, con un salario notevolmente inferiore a quella maschile, le retribuzioni della fabbrica dolciaria umbra si collocano nella fascia mediobassa delle paghe del settore nelle zone di provincia del Centro-Nord. I salari minimi femminili secondo l’accordo del giugno 1927 sono infatti di 8 e 8,8 lire al giorno rispettivamente per manovali e qualificate (cioè operaie comuni), che salgono poi con i cottimi attorno alle 10-11 lire. Per contro, ad esempio, a Torino, cioè in un grande centro industriale del Nord, la paga-base di un’operaia comune è di 12,40-12,80 lire al giorno22. Accanto ai livelli salariali, che costituiscono evidentemente un punto di forza per la Perugina nel confronto con le sue concorrenti dell’Italia Settentrionale, è opportuno poi illustrare le iniziative assistenziali e dopolavoristiche assunte dalla direzione aziendale a favore delle maestranze. È infatti questo un aspetto tutt’altro che secondario della politica della Perugina verso il proprio personale, con una forte valenza tanto ai fini del consenso all’interno della fabbrica che dell’immagine esterna dell’impresa. In proposito, si è già accennato alla, sia pure modesta, quota di cointeressenza alle vendite istituita sin dall’immediato dopoguerra. Accanto ad essa viene via via creata, o potenziata, tutta una vasta serie di previdenze e servizi economici, dalla cassa-mutua malattie, all’abbonamento all’assistenza sociale di fabbrica (tramite la quale si può accedere all’assistenza medica e pensionistica degli istituti parastatali), alla cassa interna di deposito dei risparmi, a infine, la possibilità di anticipi a favore dei dipendenti in particolari difficoltà economiche, sia pure a discrezione della direzione aziendale. Parallelamente alla ristrutturazione della seconda metà degli anni venti, inoltre viene potenziata la struttura dell’assistenza di fabbrica e del dopolavoro, che già negli anni precedenti annovera il servizio tramviario di collegamento col centro della città ad un quarto del prezzo del biglietto, i corsi serali di igiene domestica per le operaie e di lingue straniere per gli impiegati, una sezione sportiva (la palestra della fabbrica viene realizzata nel 1924) ed una filarmonica. Attorno alla metà del decennio si provvede anche a dotare lo stabilimento di un servizio mensa (1926), di cui esiste un forte bisogno e che nondimeno appare un po’ sottodimensionato, e soprattutto di una sala di allattamento (1927), ove le operaie lasciano i neo-

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Notizie sulle retribuzione del settore nelle varie province italiane sono periodicamente pubblicate, sia pure in modo spesso confuso, su “Il Dolce”. Uno specchietto riassuntivo è nel n. 39 dell’a. IV (maggio 1929), a pp. 122 ss.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

nati nelle ore di lavoro, senza doversi così assentare per lunghi periodi dopo la maternità. Sempre a partire dal 1925 infine vengono selezionate 30-40 dipendenti ogni anno, tra quelle condizioni di salute più precarie, per essere inviate, a spese dell’azienda, ad un soggiorno estivo di un paio di settimane nella colonia elioterapica di Porto Potenza Picena, sul litorale marchigiano23. A tutto ciò vanno poi aggiunti lo spaccio interno di generi alimentari, vari premi ed indennità (quella ad esempio “di fondazione” per i lavoratori assunti prima della guerra), gite, pellegrinaggi, iniziative e manifestazioni dopolavoristiche, nonché il “concorso suggerimenti”, con cui gli operai possono rendersi partecipi di innovazioni e migliorie tecnico-organizzative della fabbrica. Questo vasto complesso di iniziative ha come scopo primario quello di legare il più possibile il personale ad interessi, valori e obiettivi di produttività dell’azienda. Rigidamente ispirato a criteri classisti, basato cioè sulla marcata differenziazione tra i servizi forniti rispettivamente ad impiegati, operai di mestiere, cottimiste e avventizi, esso è, al pari della cointeressenza, concesso a totale discrezione della direzione di fabbrica e, almeno implicitamente, sempre revocabile. In determinate fasi di crisi questo insieme di forme di assistenza e di gratifica costituisce nondimeno uno strumento d’integrazione del salario di un certo rilievo, un sostegno assai utile del livello del reddito. Dal punto di vista aziendale, infine, questo complesso di iniziative, ed in particolare la mensa, la sala di allattamento, il concorso suggerimenti o anche certi aspetti della struttura dopolavoristica, rientrano a pieno titolo in quel processo di razionalizzazione del lavoro che si è visto operante nell’introduzione del sistema Bedaux e delle lavorazioni continue, estendendone l’applicazione anche ad ambiti della sfera privata e del tempo libero degli operai. La Perugina diviene, anche dal punto di vista delle relazioni industriali, una fabbrica modello: alla Perugina troviamo messi in atto da molto tempo, mentre nel nostro paese s’accaniva ancora la furia bolscevica, i principi del Sindacalismo Nazionale, per i quali il continuo sviluppo di un’azienda [...] deve essere accompagnato da un miglioramento progressivo e graduale delle condizioni economiche, morali ed intellettuali delle maestranze. In virtù

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Per questi aspetti si veda ASBP, FP, DP, b. 1, fasc. 2 “Federazione sindacale”, cc. 127170 e b. 7, cc. 14-19, Relazione sui provvedimenti assistenziali attuati a favore delle maestranze della S.a. Perugina del 28 agosto 1936, nonché Il Dopolavoro nelle industrie italiane, in “L’Assalto” del 4-5 novembre 1925 e La sala di allattamento alla “Perugina”, ivi, 7-8 dicembre 1927.

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di questa collaborazione, che chiameremo “Economica” gli elementi interessati alla produzione [...] si fondono, diventando un’anima sola vibrante di fede e di amore nella creazione continua di sempre più grandi ricchezze24.

Per quanto non privo di tracce del vecchio paternalismo tardo ottocentesco, che del resto impera in un ambiente dominato ancora da interessi e mentalità tradizionali, il rapporto dell’azienda umbra con le proprie maestranze è perfettamente in linea con quell’immagine di modernità che caratterizza anche tutti i suoi altri campi di attività. Le corse automobilistiche, l’audace grafica di Federico Seneca, la solerte adesione alla politica recessiva del governo del 1927 e la precoce introduzione dei principi di organizzazione scientifica del lavoro, trovano insomma un ulteriore coronamento nella puntuale applicazione delle indicazioni della politica sociale del regime di “collaborazione tra le classi”, facendo della Perugina, anche su questo versante, un’impresa d’avanguardia. V.2. L’industria dolciaria e la crisi Per cogliere gli effetti recessivi che la crisi dei primi anni trenta ha sul settore dolciario è necessario aver presente il generale basso tenore in Italia dei consumi di questo comparto dell’industria alimentare e la sua marginalità rispetto al percorso di sviluppo economico del paese. La possibilità di bruschi regressi del mercato e, in definitiva, la precarietà di industrie dedite alla produzione di generi di non prima necessità come quelli dolciari sussiste un po’ in tutto il mondo sviluppato della prima metà del Novecento, come dimostrano le crisi susseguitesi sullo scenario internazionale del settore negli anni tra le due guerre. Una tale precarietà è tuttavia particolarmente elevata in Italia, un paese in cui gli squilibri dello sviluppo relegano ancora fasce molto vaste della popolazione ad un tenore di vita più prossimo agli standard preindustriali che ai modelli di consumo di una società economicamente evoluta. L’elasticità della domanda nella penisola è inoltre accentuata, oltre che dalla relativa estraneità che generi dolciari di tipo industriale (cioccolato, caramelle, biscotti) fanno ancora registrare rispetto alla dieta tradizionale, soprattutto dall’imponente carico fiscale che gravava su questi prodotti. Un tale onere costituisce un costo non comprimibile da parte dei produttori ed è frutto dell’intreccio tra la pressione dell’erario, politiche di sviluppo incentrate sulla penalizzazione

24

Bonfatti, Visitando la fabbrica “La Perugina”, in “L’Assalto” del 20-21 aprile 1924.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

dei consumi interni e gli interessi delle potenti lobby che ruotano attorno all’industria dello zucchero25. La crescita del reddito nazionale in epoca giolittiana segna una prima timida affermazione di consumo dei generi dolciari di tipo moderno nel paese, ma in una fase di forte integrazione dei mercati e di stabilità del commercio internazionale tale domanda viene in larga misura soddisfatta dalle già sviluppate industrie estere, quella svizzera in primo luogo, ma anche quelle francese, olandese o austriaca. L’apparato industriale nazionale del settore riesce a compiere un passo ulteriore, come si è visto, allorché le vicende legate al conflitto mondiale provocano uno scompaginamento del traffico internazionale e un incremento della quota di reddito destinata ai consumi. Entro il 1926-1927, tuttavia, la rivalutazione della lira completa di fatto il riassorbimento della limitata espansione della domanda privata verificatasi nel primo dopoguerra, decretando la fine di quella che può essere definita la seconda falsa partenza del settore, come ha modo di constatare Riccardo Gualino che su di essa ha scommesso. Dopo un biennio di assestamento e moderata ripresa, tra 1929 e 1930 la contrazione dei consumi legata alla recessione internazionale investe frontalmente anzitutto il mercato dei generi voluttuari e le industriale del settore dolciario vengono così a trovarsi largamente sovradimensionate rispetto ad un mercato interno che torna a mostrare tutta la sua ristrettezza. Tale situazione, per altro, è resa ancora più difficile dalla politica economica del regime che nei primi anni della recessione rimane fondamentalmente legato alle scelte deflazionistiche di “Quota 90”, e quando poi avvia misure anticicliche, interviene tuttavia fondamentalmente a favore dei settori pesanti di beni strumentali. Coerentemente del resto con gli orientamenti che caratterizzano la politica economica italiana per tutta la fase compresa tra la svolta industrialista del tardo Ottocento e il boom del secondo dopoguerra, i consumi privati di beni di consumo continuano per questa via ad essere la componente della domanda più penalizzata. Di fatto, solo verso la fine del decennio essi verranno a beneficiare, indirettamente, della moderata ripresa generale dell’economia del paese, salvo poi ricadere nel baratro della guerra. Ancora nell’agosto del 1930, nonostante la congiuntura economica generale vada già deteriorandosi, una relazione della Federdolce segnala come

25

Oltre a Bianchi Tonizzi, L’industria dello zucchero, e Sabbatucci Severini, Il capitalismo organizzato, citati in precedenza, si veda al riguardo l’analisi di Roberto Tremelloni, L’industria dolciaria in Italia. Sue condizioni, sue prospettive, in Il problema industriale italiano, Milano, Università degli studi di Milano, Istituto di scienze economiche e statistiche, 1945, in part. pp. 254-255; Antonio Valeri, Problemi e prospettive dell’industria dolciaria italiana, in “L’industria”, 1948, 1, pp. 14-27; nonché Adrian Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Roma-Bari, Laterza, 1982, pp. 546-549.

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l’industria dolciaria italiana avverta solo in misura limitata gli effetti della crisi. In realtà una breve panoramica sui bilanci del 1929 delle varie aziende del settore indica una brusca inversione di tendenza, che tuttavia viene ricondotta ai postumi della rivalutazione del 1927 e al ritardo dell’apparato produttivo nella “conquista di ‘Quota 90’”. I vertici della Federazione si dilungano sugli effetti positivi dell’abolizione dei dazi comunali, sul discreto andamento delle esportazioni, sul favorevole lieve ribasso del corso del cacao a fronte della sostanziale tenuta, si afferma, dei prezzi del prodotto finito26. Al di là di questo ottimismo, tuttavia, già da qualche tempo ormai tutta l’attenzione è rivolta all’andamento dei prezzi, per sostenere i quali l’associazione sin dall’inizio dell’anno intraprende campagne di propaganda collettiva, iniziative contro i regali al consumatore, pressioni sul governo per accordi commerciali e per il varo di una normativa contro i surrogati27. Le iniziative di propaganda collettiva (un opuscolo “Cose Dolci” nelle scuole e 200 premi per studenti) e gli interventi per la regolamentazione del settore costituiscono, per altro, un insieme di attività estremamente blando e del tutto privo, sino a quel momento, di risultati concreti. Soltanto sul versante degli accordi commerciali si approda a qualche risultato, con gli accordi con Egitto, Turchia e Romania per la riduzione di dazi doganali su mercati che, almeno nel dopoguerra, costituiscono sbocchi di qualche rilievo per l’industria italiana. A partire dall’autunno del 1930, tuttavia, i toni cominciano a farsi allarmati e le analisi della Federazione diventano più puntuali nell’individuare le forme che la crisi assume per il settore, tutte fondamentalmente riconducibili alla brusca contrazione del potere d’acquisto diffuso. L’orientamento del consumo verso le fasce di prodotti a prezzo inferiore, l’acuirsi della concorrenza, la diffusione di surrogati ed articoli di bassa qualità divengono gli aspetti qualitativamente più significativi delle difficoltà del settore, da allora continuamente richiamati nei rapporti informativi e al centro di ogni iniziativa propagandistica, legislativa e sindacale28. Sotto il profilo quantitativo, i prezzi dei prodotti dolciari prendono in quella fase un abbrivio che presto si tramuterà in tracollo.

26

27 28

ASBP, FP, DGAD, b. 13, fasc. 83 “Federazione nazionale fascista dell’industria dolciaria”, cc. 119-124, Relazione trimestrale sulla situazione industriale a cura della Federdolce, 11 agosto 1930. Relazione della presidenza della Federdolce all’assemblea del 25 febbraio 1930, in “Il Dolce”, V, 49 (marzo 1930), pp. 51-61. ASBP, FP, DGAD, b. 13, fasc. 83 “Federazione nazionale fascista dell’industria dolciaria”, cc. 58-61, 79-85 e 91-95, Relazioni sulla situazione dell’industria dolciaria del 31 febbraio 1931, 10 novembre 1930 e 13 ottobre 1930.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

Tabella 12. Prezzi all’ingrosso di alcuni prodotti dolciari (1927-1936)

Fonti: Banca d’Italia, L’economia italiana nel sessennio 1931-1936, Roma, 1937, p. 647 e “Il Dolce”, VIII, 37, pp.145-147. Le serie provengono tutte da rilevazioni della Federdolce.

Come si può rilevare, la caduta dei prezzi comincia già negli anni precedenti alla crisi, per effetto della politica deflazionistica. Ad essa si aggiunge poi la progressiva contrazione della domanda dei primi anni trenta, che sbocca nel crollo del 1932-1934. La cronologia della crisi dei prezzi è differenziata in base al tipo di prodotto ed è anticipata per articoli più facilmente sostituibili con surrogati quali il cioccolato comune. In generale, inoltre, essa si protrae a lungo, raggiungendo il suo apice nel 1934 e nel 1935 con una riduzione del 40%-55% rispetto ai valori del 1928, il che è indicativo tanto delle gravità della depressione quanto dello scarso effetto che, almeno inizialmente, su di essa ha la successiva politica autarchica. Né 139


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bisogna dimenticare che nell’ambito di quest’ultima viene imposto il blocco dei prezzi dalla fine del 1936 alla primavera del 1937. Al crollo dei prezzi dei prodotti dolciari sul mercato interno si accompagna, come si è accennato, tutta una serie di fenomeni degenerativi, tanto sul lato dell’offerta che su quello della domanda. La richiesta di prodotti a basso costo e di qualità più scadente, in particolare, dà un forte impulso alla diffusone di surrogati, con danni notevoli per l’immagine è l’affidabilità di tutto il complesso della produzione nazionale e, in alcuni casi, con pericoli di tipo igienico-sanitario non irrilevanti. Nel 1932, ad esempio “Il Messaggero” scrive: Si nota una contrazione del consumo nell’ultimo anno con una diminuzione sul precedente di 229.000 chili [...]. La cioccolata piace in Italia quanto all’estero, le sue qualità nutritive sono altamente apprezzate dal consumatore, ma un essenziale fatto ne ostacola la diffusione: le scarse qualità delle cioccolate e polveri di cacao a modico prezzo. Nel nostro paese accanto alla grande industria vive una miriade di piccole fabbriche produttrici di cioccolata, ma che per poter prosperare superando la troppo energica reciproca concorrenza, offrono al rivenditore merce ad infimi prezzi. Il rivenditore non pensa certo a soddisfare il palato né tanto meno a curare la salute del consumatore [...]. Il prodotto genuino di qualità assai bene fornito da parecchie nostre industrie trova intoppi nella diffusione quantitativa per la concorrenza fatta dagli articoli che denomineremo surrogati della cioccolato; [...] è veramente difficile acquistare a modico prezzo una cioccolata che almeno abbia il corrispettivo valore della moneta spesa. – E, scambiando l’effetto con la causa, non senza un po’ d’ideologia, si aggiunge – il consumo della cioccolata è perciò diminuito non già per effetto della situazione economica generale, ma per la mancanza di requisiti tali da invogliare il consumatore ad acquisti [...]. II Governo fascista, sempre vigile in ogni campo dell’attività nazionale, è anche qui prontamente intervenuto, mirando con la provvida legge sulla fabbricazione del cioccolato a stroncare il male alla sua radice29.

È sulla base di una simile linea di ragionamento che si vara, nel 1931, la legge sulla produzione del cioccolato. D’altra parte la diffusione dei surrogati sta ad indicare anche come, in fondo, i prodotti dolciari industriali siano entrati abbastanza stabilmente nelle abitudini di consumo del paese e che, nonostante la crisi, ad essi non si rinunci con troppa facilità. In ogni caso, con la legge del 9 aprile del 1931 n.916 il ministro delle Corporazioni Bottai risponde alle sollecitazioni della grande e media industria dolciaria che sin dal 1927 reclama un intervento legislativo in materia. La nuova normativa colpisce non solo le frodi dannose alla salute del consumatore,

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L’articolo è riportato in L’industria e il consumo di cioccolato in Italia, in “Il Dolce”, VII, 73 (marzo 1932), pp. 71-73.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

per le quali esiste già una regolamentazione di polizia sanitaria, ma anche, e soprattutto, una vasta fascia di piccola industria che realizza prodotti di qualità inferiore, fornendo effettivamente a volte scarse garanzie igieniche, ma soprattutto esercitando una forte pressione competitiva per effetto della contrazione dei redditi di quegli anni30. Tecnicamente la legge introduce la distinzione tra cioccolato (e cacao in polvere) e “surrogati”, includendo nel primo solo i prodotti realizzati esclusivamente con semilavorati di cacao (pasta o burro) e zucchero e imponendo di dichiarare sugli involucri, accanto alla natura del prodotto, il nome della fabbrica e il luogo di produzione (ma non la data). La determinazione legale delle dosi delle varie componenti che vanno a formare il vero cioccolato si colloca all’interno dei valori medi stabiliti dalle legislazioni europee: in Germania ed Austria ad esempio la quantità massima di zucchero consentita è del 60%, in Italia, più liberalmente, del 65%, in Francia, Belgio e Svizzera del 68%. Molto meno particolareggiata è tuttavia la definizione dei “cioccolati speciali”, quali quello al latte, alle nocciole, ecc.31. L’entrata in vigore della legge, per altro, sarà molto dilazionata a causa del ritardo con cui viene emanato il regolamento ministeriale, pronto solo nel settembre 193332, e ciò finisce col limitare notevolmente il beneficio atteso dalla grande industria dalla sua applicazione. Paradossalmente infatti, di lì a poco, con le restrizioni autarchiche alle importazioni di materie prime, e quindi anche del cacao, il provvedimento mette con le spalle al muro l’intero settore industriale, inclusi coloro che lo hanno maggiormente caldeggiato. La fissazione delle quantità minime di cacao nel prodotto finito finisce con l’entrare in contraddizione con la politica di sostituzione delle materie prime d’importazione voluta dal regime, rendendo quanto mai impopolare la commercializzazione di un “cioccolato autarchico” necessariamente etichettato, a quel punto, con l’epiteto di surrogato. Una qualche scappatoia alla fine si trova, allentando i controlli sulla merce e, di fatto, facendo della legge lettera morta. Significativo è quanto afferma in proposito la relazione ufficiale sul triennio 1934-1937 la nuova Federazione nazionale fascista degli industriali dello zucchero, dei dolci, affini e derivati:

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31 32

Cfr. al riguardo Il cioccolato e il suo valore alimentare, in “Il Dolce”, VII, 80 (ottobre 1932), pp. 319-325, nonché Banca d’Italia, L’economia italiana nel sessennio 1931-1936, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, 1938, p. 638. Riassunto delle più importanti legislazioni straniere sul cacao e sul cioccolato, in “L’industria dolciaria”, IV, 4-7 (aprile-luglio 1939), pp. 78-82. Banca d’Italia, L’economia italiana nel sessennio 1931-1936 cit. (a nota 30), p. 640.

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Ci è stato rimproverato che il prodotto non ineccepibile doveva essere colpito inesorabilmente, ma noi abbiamo, invece, obbedito a criteri di maggior comprensione, essendo nostro obiettivo che, in momenti di ristrettezza, tutti abbiano la possibilità di vivere. La preferenza al prodotto ineccepibile, semmai, la stabilirà di per sé stesso il mercato. Quando interverrà una maggior larghezza di materie prime, anche l’Ufficio di Controllo [della Federazione] rientrerà in piena osservanza dei doveri attribuitegli. Deve però restare inteso che esso sarà inesorabile contro quegli industriali che, pur di far cifra, non si peritassero di fabbricare prodotti che fossero una frode per il pubblico. Per intanto ai fabbricanti di cioccolato noi diciamo ancora: fate fronte alla deficienza del cacao con un maggior impiego di latte, mandorle, nocciole ed abbiate il coraggio, piuttosto che uscire fuori con prodotti diffamanti per la vostra firma, di mettere sull’incarto tanto di parola “surrogato”33.

Il cambiamento di centottanta gradi rispetto alle posizioni della vecchia Federdolce è probabilmente in parte anche attribuibile alla posizione subordinata che nel nuovo organismo di categoria, creato dalla legislazione corporativa del 1934, i dolciari vengono ad assumere rispetto agli industriali dello zucchero, interessanti comunque a che il cioccolato, autarchico o meno, si venda. Ma al di là di ciò, le contraddizioni che emergono dal documento stanno ad indicare, una volta di più, la fondamentale marginalità degli interessi dell’industria del cioccolato nel quadro delle scelte autarchiche e la penalizzazione del consumo cui essa fa capo. Se la legge sul cioccolato, in parte anche per la sua intempestività, rimane ben lungi dall’arrecare vantaggi ai settori industriali da cui è stata richiesta, va tuttavia anche considerato che la questione dei surrogati è solo una delle conseguenze della contrazione generale del mercato interno, ricollegabile alla più complessiva esasperazione della concorrenza tra i produttori, di fronte alla quale tanto il governo che la stessa organizzazione degli industriali risultano alla fine impotenti. Riduzione del potere d’acquisto e contrazione del mercato accentuano la concorrenza al ribasso tra produttori, stimolando anche, accanto alle vendite sottocosto, allo scadimento della qualità dei prodotti e a pratiche di concorrenza sleale, nuove tecniche promozionali e innovazioni nel settore della commercializzazione e della pubblicità. All’organizzazione scientifica del lavoro, come si ama ripetere all’epoca, fa seguito quella delle vendite. Ed è in questo contesto che vanno collocate le pratiche di distribuire regali o associare alla vendita concorsi a premi, come farà la stessa Perugina con la fortunata campagna promozionale de “I Quattro Moschettieri” attorno alla metà degli anni trenta.

33

Relazione per l’assemblea della Federazione sul triennio 1934-XII/1937-XVI, Roma, 11 novembre 1937, in “L’industria dolciaria”, III, 1 (gennaio 1938), pp. 6-12.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

D’altra parte, i tentativi di porre un freno al crollo dei prezzi attraverso cartelli, consorzi e accordi sono votati al fallimento per la presenza di numerosi piccoli produttori e la relativa accessibilità del comparto. Appelli in questo senso compaiono quasi in ogni intervento della federazione di categoria e degli esponenti del governo almeno a partire dal 1927, ma ogni volta finiscono col registrare esiti deludenti. A fronte dei ripetuti inviti alla formazione di strutture consortili o di accordi sui prezzi è sempre facile, per i piccoli e medi produttori, invocare le difficoltà di coordinamento [... derivanti] dall’infinita varietà dei tipi e delle specializzazioni, dall’esistenza di marche che hanno un valore di avviamento di fronte al pubblico, e dalla difficoltà di graduare la bontà maggiore o minore dei vari prodotti34.

L’assenza di un accordo sui prezzi, tuttavia, non vuol dire che le maggiori aziende non trovino ampi margini di convergenza su altri aspetti della vita del settore, dalla ripartizione delle importazioni di cacao – contingentate dalla politica autarchica degli anni trenta – alle pressioni sull’azione governativa e legislativa, come del resto indica già la normativa sul cioccolato del 1931-1933. In altri termini, sebbene non si creino strutture consortili formalizzate35, la media impresa sopravvissuta alla crisi dà comunque vita ad una gestione oligopolistica e fortemente collusiva del comparto. Con ciò ci si sforza anche di compensare, d’altra parte, la crescente subordinazione del settore al cartello degli zuccherieri, alla cui associazione le aziende dolciarie vengono formalmente aggregate nel 1934. Quanto a queste ultime, i dati sulle società dolciarie per azioni offrono alcune indicazioni dell’andamento del settore. Se ancora il 1928, nonostante le difficoltà della rivalutazione della lira del biennio precedente, fa 34

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ASBP, FP, DGAD, b. 13, fasc. 83 “Federazione nazionale fascista dell’industria dolciaria”, cc. 91-95, Relazione della Federdolce sulla situazione dell’industria dolciaria del 13 ottobre 1930. La legislazione consortile viene introdotta in Italia nel 1932 su diretta istanza della Confindustria e delle spinte monopolistiche con cui i grandi gruppi reagiscono alla recessione. I consorzi obbligatori allora istituiti richiedono tuttavia comunque l’accordo volontario della maggioranza dei produttori di un settore. La legge sui consorzi volontari del 1937 attribuisce poi un ruolo di rilievo agli organismi corporativi, ma nel complesso tutta la normativa lascia un largo potere discrezionale alle associazioni confindustriali. Nel settore alimentare a fine 1938 sussistono consorzi nei comparti dei cereali, del vino, dell’olio, dello zucchero e della zootecnia. Direttamente in rapporto con l’industria dolciaria sono poi anche i consorzi di vendita del lattosio e del latte in polvere. Cfr. sull’argomento Gualberto Gualerni, Industria e fascismo. Per un’interpretazione dello sviluppo economico italiano tra le due guerre, Milano, Vita e pensiero, 1976, pp. 151-170; Necessità di un accordo tra i fabbricanti di prodotti dolciari, in “Il Dolce”, VIII, 23 (novembre 1933), pp. 319-32 e Accordi industriali, ivi, X, 109 (marzo 1935), pp. 67-68.

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registrare risultati in linea con la crescita degli anni venti, dall’anno successivo si verifica una brusca inversione di tendenza che culmina nei forti passivi degli anni 1931-1932, allorché per vari aspetti il comparto viene ridimensionato ai livelli della prima metà del decennio precedente. Così, per esempio, su 28 società per azioni con più di un milione di capitale sociale esistenti in Italia nel 1928, nel 1932 ne restano 17, che passano a 18 nel 1933, mentre il loro capitale (al netto di quello Unica che da 300 si riduce a 60 milioni) scende da 83 milioni a 52,4 e a 55,5 nel successivo 1933. Tra di esse inoltre quelle che realizzano utili si riducono progressivamente da 17 nel 1928 a 11 nel 1932 e a 9 nel 1933, mentre il saldo del settore, che ancora nell’ultimo biennio degli anni venti fa registrare una prevalenza dei profitti attorno ai 12 milioni, nel 1930 segna passivi netti per 4 milioni, nel 1931 per 88 (ma su questo dato pesa la svalutazione del capitale sociale dell’Unica) e nel 1932-1933 di circa un milione ogni anno. All’interno del quadro generale delle aziende del settore, un cenno meritano alcune vicende particolari, che alterano negli ani trenta gli equilibri concorrenziali in cui opera la Perugina. In primo luogo, infatti, la crisi porta con sé il sostanziale fallimento dell’Unica e l’eclisse del progetto di introduzione della grande impresa nel settore accarezzato dal suo fondatore. Dopo essere stata coinvolta, sullo scorcio degli anni venti, nel turbinoso giro di speculazioni borsistiche, fusioni e combinazioni d’affari con cui Gualino tenta di reagire alla rivalutazione della lira, l’azienda torinese viene direttamente coinvolta dal crollo dell’impero finanziario e industriale dell’imprenditore piemontese, arrestato nel gennaio del 1931 per danni arrecati all’economia nazionale e inviato al confino36. Sia pure fortemente ridimensionata nelle strutture e nelle risorse, l’Unica passa allora nelle mani dell’Istituto di liquidazioni e poi dell’Iri, che nel 1934 la rivenderà alla torinese Venchi, dando luogo ad un’impresa di dimensioni assai più modeste che in passato. La Venchi-Unica è destinata nondimeno a riacquistare un certo rilievo molti anni più tardi, all’epoca del boom economico del secondo dopoguerra, col marchio Talmone, prima di essere acquistata da Sindona, come si è detto, e venir risucchiata del crack di questi dei primi anni settanta. Dopo il declino del gruppo torinese, così, ai vertici del settore dolciario nazionale sta un ristretto novero di medie imprese, dalla Perugina, alle torinesi Baratti & Milano e Sirca, la stessa Venchi. Tra di esse in particolare spiccano poi due filiali di multinazionali svizzere, la Suchard di Varese e la Peter Cailler Kohler di Intra, costituite agli inizi degli anni venti dalle rispettive case-madri in risposta al reinnalzamento

36

Sulle vicende di Gualino e dell’Unica si rinvia alla bibliografia già citata nel capitolo precedente.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

Tabella 13. Perdite d’esercizio e capitale sociale delle principali società dolciarie italiane 1928-1934

Fonte: Rassegne mensili de “Il Dolce” sulle società per azioni del settore negli anni indicati.

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delle protezioni doganali del settore dolciario-cioccolatiero, dopo l’affermazione conosciuta dai due marchi elvetici nell’immediato dopoguerra. Al contrario della Tobler, tuttavia, le due multinazionali si guarderanno bene dal formulare programmi di grossa espansione nella penisola, preferendo mantenere filiali produttive piuttosto modeste, calibrate sulle dimensioni e le prospettive del comparto italiano. Va infatti tenuto presente, in proposito, che l’aumento di capitale da 7,6 a 10 milioni di lire della PCK del 1929 non è da attribuirsi a particolari investimenti produttivi quanto alla fusione con la Nestlé, a cui l’azienda cioccolatiera svizzera è strettamente legata sin dal 1905 e che in Italia ha una fabbrica per la produzione di latte condensato ad Abbiategrasso37. Una delle caratteristiche salienti della recessione internazionale degli anni trenta è la sua lunghezza. Arrivata in Europa e Italia nel 1930, i suoi effetti prolungano le difficoltà economiche per buona parte del decennio, specie per un settore poco interessato dalle politiche anticicliche e di rilancio con cui il regime interviene a favore dei settori di beni strumentali e a più alta intensità di capitale, prima con i salvataggi del 1930-1931 e poi con la spesa bellica per la campagna d’Etiopia a partire dal 1934. Accanto alla contrazione del mercato e alla cattiva congiuntura, gli operatori del settore dolciario devono confrontarsi a partire dal 1934-1935 anche con crescenti difficoltà sul versante degli approvvigionamenti di materia prima. Nei primi anni della crisi il crollo del prezzo del cacao permette in realtà notevoli risparmi sui costi di produzione, pur non essendo privo di aspetti negativi, sia perché si accompagna spesso ad un deterioramento della qualità sia in quanto comporta la svalutazione delle scorte di materia prima accumulate dalle aziende, abituate fino al 1927-1928 a riempire i magazzini nelle fasi di ristagno dei prezzi38. La situazione viene completamente a mutare, tuttavia, con il varo dei primi provvedimenti autarchici. Forme di controllo delle importazioni, o meglio del loro corrispettivo valutario, vengono introdotte sin dal periodo immediatamente successivo alla crisi del 1929, allorché la politica di sostegno alla parità aurea della lira impone una certa vigilanza sulle riserve valutarie di divise pregiate. È solo però

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Per queste vicende si veda Jean Heer, Nestlé. Centoventicinque anni dal 1866 al 1991, Vevey, Nestlé Ed. SA, 1991, pp. 142-148; Claire-Aline Nussbaum e Laurent Tissot, Suchard, Entreprise familiale de chocolat, 1826-1938. Naissance d’une multinationale suisse, Neuchâtel, Alphil, 2005, in part. pp. 163-164; Francesco Chiapparino, Tecnologie, capitali e mercati: I rapporti italo-svizzeri nel settore del cioccolato, in Il cioccolato. Industria, mercato e società in Italia e Svizzera (XVIII-XX sec.), a cura di Francesco Chiapparino e Roberto Romano, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 169-208. Cfr. ASBP, FP, DGAD, b. 13, fasc. 83 “Federazione nazionale fascista dell’industria dolciaria”, cc. 58-61.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

quando ci si appresta a lanciare il programma economico di supporto alla guerra d’Etiopia che diventa necessario aumentare il controllo sulle importazioni. Nel nuovo contesto, infatti, va scongiurato il rischio che l’aumento di liquidità connesso alla spesa bellica finisca con l’alimentare una crescita dei consumi e delle importazioni, incompatibile con la linea di gestione della crisi sino ad allora adottata. Quest’ultima, imperniata su deflazione, compressione dei salari e sostegno dell’accumulazione nei settori bellico-pesanti, verrebbe compromessa da un peggioramento della bilancia commerciale, già gravata peraltro dagli onerosi approvvigionamenti di materie prime strategiche. Agli accordi bilaterali di compensazione (clearing) ed al monopolio dell’Istituto nazionale cambi sulle operazioni in valuta estera (vigente dal 1934), si aggiunge così il contingentamento delle importazioni, che vengono ad essere congelate sulle quantità attestate dalle bollette doganali del 1934 e in certi casi soltanto su quote parziali di esse. Per questa via si opera una rigida selezione degli acquisti all’estero, attribuendo la priorità, ovviamente, agli approvvigionamenti di materie prime e macchinari di importanza strategica e penalizzando i settori importatori di beni di consumo. Dettate fondamentalmente dalla decisione di affrontare la recessione internazionale con gli strumenti della “battaglia della lira”, integrata poi dai salvataggi del 1931-1932 e dall’opzione bellica del 1934, tali scelte vengono razionalizzate e inserite nell’ideologia nazionalistica del regime solo ex post, con la proclamazione, in seguito alle sanzioni, del piano autarchico del marzo 1936. Con decreto del 15 febbraio 1935 del neo insediato ministro delle finanze Thaon de Revel l’importazione di cacao, burro di cacao e di tutti gli articoli dolciari è assoggettata al regime di contingentamento, che ammette approvvigionamenti in quote percentuali alle quantità importate nei vari trimestri del 193439. Tali quote, inizialmente fissate al 25%, vengono già nell’aprile 1935 elevate al 50%. Nonostante i trattati speciali con alcuni paesi (gli acquisti dall’Olanda ad esempio rimangono fissati al 100%) e nonostante i toni rassicuranti con cui il provvedimento venne accolto dalla nuova Federazione40, si tratta di misure fortemente restrittive, aggravate poi dalle pressioni speculative e degli interessi affaristici che rapidamente vengono ad innestarsi sulla distribuzione dei generi contingentati. Quest’ultima viene in larga misura gestita dalla Federzucchero (a cui come si è detto

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Banca d’Italia, L’economia italiana nel sessennio 1931-1936 cit. (a nota 30), p. 638; Toniolo, L’economia dell’Italia fascista cit. (a nota 2), p. 281. Problemi vitali dell’industria dolciaria. Importazioni ed esportazioni, in “Il Dolce”, X. 108 (febbraio 1935), pp. 35-38.

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la Federdolce viene aggregata) secondo criteri che, derogando in parte al decreto ministeriale secondo cui le assegnazioni devono basarsi esclusivamente sui quantitativi importati nel 1934, fanno ragionevolmente riferimento anche allo sviluppo delle varie aziende negli anni successivi. Ammessa anche la migliore buona fede degli organismi confindustriali, è tuttavia inevitabile che tali valutazioni siano sottoposte alla pressione dei gruppi maggiori, penalizzando le piccole imprese o gli interessi meno rappresentati. Che per il cacao, come in generale per i prodotti contingentati, si sviluppi un vasto mercato speculativo è dimostrato dal passo seguente, estratto da una lettera riportata nella prima pagina della rivista di categoria41: la proposta di correzione tecnica del regime di contingentamento formulata dallo scrivente sarebbe [...] una forma più equa di assegnazione (dell’attuale basata sulle bollette del 1934) che frenerebbe di molto la speculazione, colpendo, sia coloro che, anziché fabbricare, si sono rivenduti il cacao a prezzi astronomici, sia quelli che, specie nelle grandi città vendono il cioccolato con fatturazione di compiacenza.

Gli sforzi per raggiungere un equilibrio della bilancia commerciale, d’altro canto, oltre a dettare la necessità dei contingentamenti, sono anche alla base dell’intendimento di “assicurare alle aziende che esportano [...] una posizione di netta superiorità nei confronti delle ditte che amano adagiarsi sul mercato interno”42. E a questo fine perciò viene concesso, in deroga al decreto del febbraio 1935, il regime di compensazione privata per le importazioni, specie di materia prima, previa autorizzazione del Ministero delle corporazioni. Il provvedimento permette alle aziende esportatrici di utilizzare la valuta delle proprie vendite all’estero per acquisti di materie prime d’importazione, garantendo loro la possibilità di approvvigionamenti extra-contingente43. Una tale misura, varata pure agli inizi del 1935, sarà in particolare una delle condizioni permissive della crescita conosciuta nel corso degli anni trenta dalla Perugina, forte della sua posizione di principale esportatrice nazionale nel settore del cioccolato e, dal 1934, di una filiale francese della Buitoni. Al di là della particolare situazione dell’impresa umbra, tuttavia, le condizioni in cui il settore si trova ad operare nel corso degli anni trenta sono

41 42

43

Contingenti e distribuzioni, in “L’industria dolciaria”, IV, 3, (marzo 1939), pp. 38-40. La frase è ripresa dal discorso del Sovrintendente agli scambi e alle valute, Felice Guarnieri, alla Camera dei fasci e delle corporazioni del 12 maggio 1939 ed è citata in Toniolo, L’economia dell’Italia fascista cit. (a nota 2), p. 285. Le importazioni ed esportazioni in regime di limitazione, in “Il Dolce”, X, 109 (marzo 1935), pp. 70-72 ove si riporta la circolare I/31473 dell’Ice.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

sicuramente difficili. Un ultimo aspetto che merita di essere richiamato al riguardo è quello della politica doganale e fiscale. Gli elementi di novità in questo ambito non concernono tanto il regime daziario sui generi a base di cacao, che è in linea con quanto già visto per i contingentamenti. La protezione sui prodotti finiti, pur essendo del 20% inferiore a quella del 1921, è all’incirca uguale a quella dei tardi anni venti, anche se nel frattempo va tenuto presente che la moneta si è rafforzata. Un miglioramento della posizione dei produttori nazionali si verifica in realtà solo nel caso del burro di cacao, per cui alla fine del 1931 si introduce una soprattassa del 15% ad valorem, mantenuta poi fino alla svalutazione della lira del 1936, e il cui dazio viene poi ulteriormente elevato nel 1932, in seguito alla pressanti richieste in questo senso provocate dal dumping olandese. Questi provvedimenti vengono tuttavia compensati dall’aggiunta di un analogo dazio ad valorem del 15% alla tariffa base di 30 lire oro a quintale sul cacao in grani, che costituisce evidentemente un’ulteriore misura volta a scoraggiare importazioni ritenute non strategiche e a disincentivare il consumo di cioccolato44. Al di là di questi oneri, tuttavia, il principale ostacolo per l’industria dolciaria nazionale continua ad essere rappresentato dal regime fiscale sullo zucchero, che nel corso degli anni trenta tende a diventare ancora più penalizzante per i consumatori rispetto al passato. Anzitutto infatti, già all’approssimarsi della crisi la protezione doganale a favore della produzione nazionale viene elevata, passando dalle 36 lire oro (132 lire cartacee) al quintale del 1928 alle 45 del 1930, cui l’anno successivo viene anche in questo caso aggiunto il 15% ad valorem. A ciò va aggiunta la tassa di fabbricazione, una parte consistente della quale viene per altro devoluta allo stesso consorzio degli zuccherieri: portata a 400 lire al quintale nel 1924, essa viene abbassata a 380 solo il 9 luglio del 1935, mentre nel frattempo il prezzo della derrata sul mercato internazionale passa da 200 a 40 lire al quintale. A fronte del crollo generale dei prezzi, quello dello zucchero, di 640 lire circa al quintale nel 1928, si mantiene sino al 1935 tra le 610

44

Banca d’Italia, L’economia italiana nel sessennio 1931-36 cit. (a nota 30), p. 638. L’11 marzo 1932 Giovanni Buitoni scrive al segretario della Federdolce Luigi Sertorio riguardo alla protezione doganale sul settore cioccolatiero: “bisogna togliere dalle 352 lire la dogana che paghiamo sul cacao grezzo (lire 150-160 a quintale) e il maggior prezzo dello zucchero […]. La protezione […] si riduce effettivamente a meno di 200 lire e bisognerebbe tener conto degli interessi che l’industria nazionale deve sopportare per il maggior immobilizzo dei capitali cui è costretta dai dazi doganali e dalla tassa di fabbricazione. Ad essere ottimisti, si può quindi concludere che la protezione effettiva è di lire 180 circa a quintale, ciò che è ben poco davvero almeno per i prodotti fini!” (cfr. ASBP, FP, DGAD, b. 16, fasc. 110 “Fed[erazione] Naz[ionale] Industria dolciaria”, cc. 46-47).

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Tabella 14. Consumi medi di zucchero in alcuni paesi

Fonte: P. Luzzatto Fegiz, Il consumo di zucchero e i lavoratori italiani, in Società italiana demografia e statistica, Atti della V riunione dedicata alla statistica del lavoro, Città di Castello, 1940, p. 4, cit. in Paola Sabbatucci Severini, Il capitalismo organizzato. Il settore saccarifero in Italia, 1800-1945, Venezia, Marsilio, 2004, p. 267.

e le 620 lire, per diminuire a 595 nel biennio successivo . Mentre consumo e prezzi dei prodotti finiti fanno registrare una caduta verticale, in altri termini, le industrie dolciarie italiane devono sottostare a costi per quello che è di fatto il loro principale semilavorato sproporzionatamente alti e praticamente incomprimibili. La Federdolce fa continui appelli al potere politico perché riveda questo aspetto della politica fiscale, dimostrando tra l’altro che una riduzione del carico impositivo, stimolando il consumo, avrebbe effetti positivi tanto per i produttori, permettendo loro di smaltire le scorte che vanno ammassandosi per effetto della crisi, quanto per l’erario, con un aumento dell’introito complessivo della tassazione45. Tale azione di sensibilizzazione è tuttavia sempre votata ad un sostanziale insuccesso, sino a venire del tutto invalidata dalla fine dell’autonomia della Federdolce. In seguito alla nuova legislazione corporativa, infatti, il 16 agosto 1934, l’associazione sindacale vie45

Cfr. al riguardo, Banca d’Italia, L’economia italiana nel sessennio 1931-36 cit. (a nota 30), pp. 623-630; G. Burdese, L’industria dolciaria nell’economia nazionale, in “Il Dolce”, II, 14 (aprile 1927), pp. 69-78; Istat, Sommario di statistiche storiche, Roma, 1958, p. 135; La tassa di fabbricazione sullo zucchero e l’industria dolciaria italiana, Torino, Federdolce, 1932, in cui si calcola che negli anni della crisi il carico fiscale complessivo su cioccolato assomma a circa 4 lire al chilo e sui biscotti di 1,75 lire, a fronte di prezzi medi rispettivamente di 10-12 lire e 5 lire.

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ne fatta confluire, come si è accennato, direttamente nella nuova Federazione nazionale fascista degli industriali dello zucchero , dei dolci, affini e derivati, ove ovviamente i rappresentanti del settore dolciario si trovano ad avere un ruolo subordinato. L’effetto principale del nuovo ordinamento sindacale è quello di rafforzare le tendenze monopolistiche in questo ambito del sistema produttivo e, almeno a giudicare dalle relazioni consuntive della Federzucchero, appunto quello di far cessare le già scarsamente ascoltate proteste contro la politica fiscale sullo zucchero, o quanto meno di ridurne notevolmente l’eco pubblica46. V.3. La “terapia anticrisi” della Perugina: prodotti di lusso, negozi ed esportazioni In ogni caso, per quanto dura, la crisi non mette mai seriamente in discussione la capacità di tenuta della Perugina, che nel complesso è una delle aziende dolciarie che meglio reagiscono alla lunga depressione degli anni trenta. Anche a prescindere dagli sviluppi successivi al 1934 ed al successo pubblicitario del concorso delle figurine, l’azienda umbra è una delle poche società che, dopo quattro anni di crisi, non ha fatto registrare emorragie di capitale sociale né gravi perdite di bilancio. Oltre che dalla torinese Venchi, cui non a caso verrà dato l’onere di rilevare ciò che resta dell’Unica, un tale risultato è condiviso dalla Suchard di Varese e da alcune ditte medio-piccole, in prevalenza genovesi, come la Elah, la Novi e in certa misura la stessa Saiwa, che operano su sezioni ristrette di mercato. Sui buoni risultati conseguiti dall’azienda umbra un peso decisivo assume, una volta completata la ristrutturazione produttiva della seconda metà degli anni venti, la nuova attenzione posta sulle strategie commerciali e la loro rimodulazione alla luce del peggioramento della congiuntura che si verifica in quella fase. Del resto, che il successo del concorso non sia soltanto il frutto estemporaneo di una fortunata combinazione, quanto piuttosto il coronamento di uno sforzo più articolato, è indicato dalla centralità che la commercializzazione e tutti gli aspetti ad essa correlati assumono nella politica aziendale della Perugina sin dagli anni venti e maggior ragione poi durante la crisi. La politica che ne emerge fa anzitutto perno, almeno fino alla metà degli anni trenta, sulla scelta per la produzione di lusso e, quali corollari di essa, sullo sviluppo della rete di negozi, delle esportazio-

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Si veda Relazione per l’assemblea della Federazione sul triennio 1934-XIII/1937-XVI, cit.; nonché Il nuovo ordinamento sindacale fascista dell’industria, in “Il Dolce”, IX, 103 (settembre 1934), pp. 247-252.

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Tabella 15. Utili e ammortamenti Perugina 1924-1942

Fonte: ASBP, DA, Bilanci S.a. Perugina, vari anni.

ni e della presenza pubblicitaria dell’impresa sul mercato italiano. Come si è già accennato, l’orientamento verso le produzioni di lusso matura ai primi evidenti sintomi della crisi, attorno alla fine del 1930. Parallelamente, si è visto, comincia a funzionare a pieno ritmo il reparto bolognese per le confezioni di lusso fatte a mano diretto da Emma Bonazzi e si intensifica la collaborazione col gruppo Cima – pure controllato dai Buitoni – per l’associazione a tali confezioni di prodotti ceramici e maioliche. All’assemblea del 23 aprile 1931 il Consiglio di amministrazione riferisce 152


Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

della soppressione del 20% degli articoli correnti, rilevando che, almeno per il momento, ciò non ha inciso particolarmente sul livello di fatturato dell’azienda. Si tratta in ogni caso di una scelta coraggiosa, in opposizione con gli orientamenti prevalenti nell’industria italiana del periodo che, al contrario, tende a reagire alla crisi attraverso un generale scadimento qualitativo della produzione. L’indirizzo assunto dalla Perugina implica infatti l’utilizzazione di materie prime e semilavorati pregiati e, soprattutto, il potenziamento delle fasi di lavorazione a mano di incarto e confezionamento, con tutti i costi aggiuntivi che ciò comporta per la forte incidenza della manodopera in tali comparti. Grazie anche alla ristrutturazione produttiva degli anni precedenti, con la massiccia introduzione del cottimo e l’organizzazione in linea anche dei reparti ad alta intensità di lavoro, l’impresa può tuttavia far fronte a questi costi aggiuntivi, collocandosi così in una fascia del mercato non insidiata dalla concorrenza dei surrogati e conferendo tra l’altro al suo marchio il prestigio che da una tale politica di prodotto deriva. Il mantenimento di un buon livello qualitativo della produzione, inoltre, e gli sforzi fatti sul versante della comunicazione pubblicitaria per valorizzare tale politica, pongono la Perugina in condizione di contrastare la progressiva riconquista della domanda di articoli di qualità da parte delle fabbriche straniere e ne agevolano la tenuta anche sui mercati di esportazione. Che, d’altra parte, la crisi lasci sopravvivere un ambito di mercato di lusso, e perciò dei margini di agibilità per simili orientamenti, trova un riscontro nella dinamica dei consumi italiani degli anni trenta e nella “forbice dei redditi delle categorie più basse e medio elevate” che si verifica in quella fase47. Più o meno parallelamente alla scelta di concentrare la produzione sugli articoli di lusso, si procede a dare un forte impulso alla rete di negozi per il commercio al minuto direttamente gestiti dalla casa madre. Dai quattro punti vendita di cui la Perugina dispone ancora nel 1930, si passa a 19 entro il 1934, a 22 nel 1935, a 32 nel 1936 a 39 nel 1937 e a 49 nel 1941. Nella seconda metà degli anni trenta questa rete di distribuzione realizza

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Sulla polarizzazione dei consumi in Italia tra le due guerre si vedano, tra gli altri, Emanuela Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla belle époque al nuovo millennio, RomaBari, Laterza, 2008, pp. 87-129; Vera Zamagni, L’evoluzione dei consumi tra tradizione e innovazione, in Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione, a cura di Alberto Capatti, Alberto De Bernardi e Angelo Varni, Torino, Einaudi, 1998, pp. 169-204, in part. pp. 182188, nonché, per quanto riguarda il reddito, Vera Zamagni, Distribuzione del reddito e classi sociali nell’Italia fra le due guerre, in La classe operaia durante il fascismo, Annali della Fondazione G. Feltrinelli, volume XX, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 17-50; Francesco Chiapparino e Renato Covino, Consumi e industria alimentare in Italia dall’Unità ad oggi, Perugia, Crace, 2002, pp. 22-25.

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il 18-20% delle vendite in Italia dell’impresa, salvo che nel 1936, quando questa quota scende comunque poco sotto il 15% per effetto del boom del fatturato legato al concorso delle figurine 48. Lo sviluppo della rete dei negozi riflette il cambiamento della logica con cui l’azienda si dedica alla distribuzione diretta. Sin al 1930, fatta eccezione forse per quello di Napoli, i punti vendita vengono aperti in centri umbri (Perugia, Foligno, Orvieto) vicini alla fabbrica, a seconda delle opportunità che anche casualmente vengono presentandosi. Successivamente, al contrario, si segue un coerente disegno di penetrazione commerciale dei principali mercati urbani e delle località turistiche di maggior richiamo, seguendo di fatto la strada indicata dall’Unica negli anni precedenti. La vendita diretta al pubblico è anzitutto un mezzo per ridurre i costi di distribuzione di efficacia non trascurabile, dal momento che esclude l’intermediazione commerciale e le dilazioni di pagamento ad essa connesse, tanto più onerose in un periodo di scarsa liquidità ed alti tassi d’interesse. Soprattutto però essa rappresenta un eccellente strumento promozionale sia per il prestigio conferito dal punto vendita in sé, sia per le garanzie di freschezza della merce che offre al cliente, sia, infine, in quanto permette di valorizzare l’intera linea dei prodotti dell’azienda. La catena di negozi ha insomma un ruolo centrale nella politica d’immagine della Perugina degli anni trenta: La signorilità, l’eleganza, la distinzione sono le caratteristiche dei negozi della Perugina. Ve ne sono cinquanta in Italia, tutti arredati dall’architetto Bega di Bologna [...]. Ogni gestore prima di vedersi assegnato un negozio, deve aver seguito un corso speciale di “vetrinista” nello stesso stabilimento [dell’azienda a Perugia]49.

Oltre che nelle zone più centrali ed esclusive delle grandi città, i negozi vengono collocati nei poli urbani di medie dimensioni soprattutto del Centro-Nord, come Padova, Brescia, Ferrara, Forlì o Gorizia, e non trascurano località alla moda, da Cortina a Capri, Montecatini, Viareggio, Sanremo o Riccione, che all’epoca sono oramai affermati centri di villeggiatura d’elite. L’arredamento, moderno e uniforme, è estremamente curato e tende ad avvalorare l’immagine di lusso dei prodotti venduti dall’azienda. Accanto all’organizzazione di vendita al dettaglio la Perugina non manca tuttavia di consolidare la più tradizionale rete della distribuzione all’ingrosso, basata su depositi e agenti. Gestita in comune con la Buitoni, che d’altra parte si appoggia se necessario anche ai negozi, anche l’organizzazione di

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ASBP, FP, DC, b. 1, fasc. 11 “Cifra Affari”, c. 9 e ss. G. Capogrossi, Visita alla Perugina, in “L’industria dolciaria”, VI, 3 (maggio-giugno 1941), pp. 151-160.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

vendita all’ingrosso dell’azienda dolciaria negli anni trenta si rivolge soprattutto al Nord Italia, ove spesso viene a disporre di un rappresentante di zona per ogni provincia, mentre al Centro e al Sud ne ha per lo più solo uno per regione. La struttura è poi completata da un numero variabile di “viaggiatori [...] forniti di ricchi campionari che si rinnovano due volte ogni anno con geniali sistemi di presentazione dei principali articoli”50. Si tratta insomma di una rete di commercializzazione estremamente ramificata e bene organizzata, inferiore, in Italia, solo a quella della Venchi-Unica, che nella seconda metà degli anni trenta continua ad avere di 200-250 negozi e 35.000 clienti, a fronte dei quali stanno i 15-20.000 ordini l’anno della Perugina51. Un ambito in cui l’azienda umbra ha una posizione di leadership incontrastata, almeno per tutto il periodo di sopravvalutazione della lira dal 1927 al 1936, è infine quello delle esportazioni. Il valore strategico della presenza sui mercati stranieri diviene evidente allorché, dal 1935, costituisce la condizione permissiva per accedere alle importazioni in regime di compensazione privata – cioè extra-contingentamento. Le vendite all’estero dell’intero gruppo Buitoni diventano così lo strumento per assicurare all’azienda umbra il cacao pregiato proveniente dai paesi tropicali dell’area della sterlina, del dollaro e del franco francese. Naturalmente anche la società umbra accusa le difficoltà connesse alla politica dei cambi del regime e non si può affermare che passi indenne attraverso le strettoie che per il commercio estero rappresentano “Quota 90” e la politica di ancoraggio al “blocco dell’oro” durante la recessione internazionale. Già nella relazione di presentazione del bilancio del 193052 si fanno notare le difficoltà delle vendite sui mercati esteri che da circa un decennio costituiscono i principali sbocchi esteri dell’azienda: Egitto, Perù, i paesi balcanici (Grecia, Jugoslavia anzitutto) e la Turchia. A quella iniziale contrazione, di circa l’8% (12% in valore), se ne aggiungeranno altre negli anni successivi, per cui complessivamente dal 1928 al 1934 le vendite all’estero della Perugina si riducono del 39% in quantità e del 55% in valore. Parallelamente però, la quota delle esportazioni della ditta umbra su quelle nazionali del settore del cioccolato e delle confetture passa dal 41% ad oltre il 60% in termini monetari, e dal 35% al 45% in quantità fisiche. Nell’aprile del 1935 Giovanni Buitoni può così recarsi a colloquio da Mussolini con una lista dei mercati riforniti dalle proprie aziende che com-

50 51 52

ASBdI, Csvi, u.a. 14, cit., c. 2345. Ivi, u.a. 106, Unica, c. 136 e ASBP, FP, DC, b. 1, fasc. 11 “Cifra Affari”, c. 1. Gli ordini, per altro, sono tendenzialmente superiori ai clienti. ASLB, Libro Verbali assemblee generali Perugina cioccolato e confetture S.a., registro n. 1 dal 20 marzo 1925 al 21 marzo 1934, Assemblea generale ordinaria del 23 aprile 1931.

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prende oltre 60 paesi, ivi inclusi quelli per cui si sono segnalate delle difficoltà nel 1931 e una dozzina di nuovi sbocchi esteri aggiuntisi proprio nel quadriennio precedente. Assieme a questi dati l’industriale umbro illustra le cifre del fatturato estero Perugina e Buitoni, indicando, accanto agli importi riportati in tabella 16, una partecipazione oscillante tra il 10% ed il 20% (1930-1934) della Buitoni alle esportazioni nazionali di pasta53. Dopo la fase più acuta della crisi internazionale sono poi le sanzioni a causare nuove ulteriori difficoltà. Le misure prese dalla Società delle nazioni nell’ottobre 1935 per l’aggressione all’Etiopia danneggiano anche l’interscambio della Perugina: in una rassegna dei principali mercati di esportazione della ditta umbra al luglio 1936, a pochi giorni dalla sospensione delle sanzioni54, mancano paesi importanti, specie europei, quali Jugoslavia, Grecia, Francia, Inghilterra e Belgio. Tali sbocchi vengono tuttavia in parte sostituiti dalle colonie, che giocano un ruolo non secondario nel sostenere l’importo del fatturato estero ma che però non assicurano gli introiti di valuta pregiata necessari al finanziamento delle importazioni di materia prima. Con 1,5 milioni di lire nel 1935 e addirittura 3,3 milioni nel 1936, la Perugina si assicura rispettivamente un terzo e un quarto del commercio di cioccolato e confetture con le colonie in quel biennio, pari al 46% e all’81% delle proprie vendite estere. Negli anni successivi non si ripete l’exploit del 1936, ma i valori restano comunque elevati (2,3 milioni nel 1937, 1,8 nel 1938, 2,4 nel 1939) e continuano comunque a coprire una quota oscillante tra il 54% e il 35% delle esportazioni dell’azienda55. A partire dal 1937 comunque l’azienda umbra viene rapidamente recuperando anche in valori assoluti le posizioni precedentemente tenute nell’ambito del mercato internazionale. Con la svalutazione della lira dell’ottobre 1936, la Perugina partecipa della generalizzata dinamizzazione dell’interscambio con l’estero dell’economia italiana, che nel suo caso fa aumentare le esportazioni, al netto del commercio coloniale, con una progressione quasi geometrica. Tale andamento ha anche ragioni specifiche più interne alla vicenda aziendale. A cavallo tra 1935 e 1936 infatti Giovanni Buitoni giunge ad un accordo col Ministero scambi e valute che consente un accesso della Perugina al regime della compensazioni privata a condizioni di favore, lasciando a disposizione della Perugina i cinque 53 54

55

ASBP, FP, DGAD, b. 13, fasc. 78 “Relazione a S.E. il Capo del Governo sulle Società Perugina e Buitoni, aprile XIII (1935)”, cc. 34-41. ASCCPg, Carteggio amministrativo, 1936, div. II, b. 307, 27, sez. C/2, Elenco delle ditte esportatrici inviato dall’Unione provinciale dell’Economia corporativa alla Camera di commercio italiana per la Svizzera del 7 luglio 1936. Ivi, b. 27, fasc. 220, c. 23 e ASBdI, Csvi, u.a. 14, cit., c. 2260, lettera della Perugina all’Ice del 17 gennaio 1940.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

Tabella 16. Vendite Perugina 1931-1942

Fonte: ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3.

sesti della valuta ricavata dalle esportazioni del gruppo delle aziende di famiglia. Nel 1937 l’impresa dolciaria è in grado di portare dalla media degli anni precedenti di 1,2-1,3 milioni a 2 milioni di lire gli acquisti di cacao sul mercato internazionale. Rinnovato annualmente fino al 1940, tale accordo garantisce anticipi di valuta pregiata contro l’impegno del gruppo a raggiungere determinati livelli di fatturato estero, il cui raggiungimento diventa così un obiettivo di importanza primaria. Dal canto suo, la Perugina gode anche della massima libertà nell’uso dei mezzi di pagamento internazionale, potendosi rifornire di materia prima senza dover sottostare a limitazioni e difficoltà poste dai trattati di clearing stipulati a livello governativo56. Ma l’importanza annessa da Buitoni alle esportazioni travalica il meccanismo specifico dei contingentamenti e le tendenze congiunturali di quegli anni, 56

Cfr. ASBdI, Csvi, u.a. 14, cit., cc. 2260-2270 e 2343-2344, carteggio Ice; ASCCPg, Carteggio amministrativo, 1936, cit. e 1937, div. II, b.324, 26, sez. C/2; Le importazioni ed esportazioni in regime di limitazioni, in “Il Dolce”, X, 109 (marzo 1935), pp. 70-72.

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per inserirsi in una progressiva presa di coscienza dei limiti che la ristrettezza del mercato italiano pone ad un reale sviluppo delle proprie imprese e, più in generale, ad un consistente processo di crescita economica e di modernizzazione dei consumi. Tale consapevolezza viene maturando nel corso di tutti gli anni trenta. Essa si accompagna ai sondaggi, compiuti sin dagli inizi del decennio, per la creazione di una filiale della Buitoni nel mercato francese e passa attraverso le conferme degli anni successivi, in primo luogo derivanti dalla brusca interruzione del concorso delle figurine, per concretizzarsi infine nell’emigrazione di Giovanni, nel 1939, negli Stati Uniti. La vicenda dell’apertura della filiale francese della Buitoni è in questo senso significativa, soprattutto per l’insistenza, la pervicacia quasi, con cui la multinazionalizzazione viene perseguita. Le due aziende “alleate” sono presenti da tempo in Francia, ove dal 1927 è attivo il giovane Armando Spagnoli. Giovanni Buitoni annette una grossa importanza ad un mercato ricco ed evoluto come quello d’oltralpe, in cui è soprattutto il pastificio di Sansepolcro ad essere radicato ormai da decenni. Sin dal 1931, con l’acuirsi della crisi internazionale, questa posizione è messa in discussione dal progressivo rialzo delle barriere doganali con cui il governo francese si sforza di contrastare la recessione, che peraltro sarà in quel paese relativamente più tenue ma anche più prolungata che nel resto dell’Europa occidentale o nel Nord America. Sin dagli inizi degli anni trenta gli uffici commerciali della Buitoni cominciano a prospettare l’idea di un investimento diretto, che consenta di aggirare le protezioni tariffarie producendo direttamente in Francia i prodotti dell’azienda. A fronte dell’ulteriore deteriorarsi della situazione commerciale, tuttavia, negli anni immediatamente successivi una simile opzione è anche ostacolata dal divieto imposto dal regime di esportare capitali dalla penisola. Nel 1933, nondimeno, Buitoni è sempre più convinto della necessità di “una soluzione radicale senza la quale non soltanto non sarà possibile guadagnare il mercato francese, ma sarà estremamente difficile mantenersi nelle posizioni raggiunte”57. Entro la fine dell’anno successivo, nel novembre del 1934, egli riuscirà a costituire la Société française des produits Buitoni con uno stabilimento vicino Parigi, a Saint-Maur-des-Fossés, e un capitale di 1,25 milioni di franchi di cui controlla direttamente i quattro quinti, grazie ad un accordo con un gruppo finanziario locale (che si incarica tra l’altro dell’emissione di un prestito obbligazionario di altri 1,25 milioni, collocato dalla Banque Paul Gers & Cie)e al conferimento da parte della casa-

57

Cit. in Giampaolo Gallo, Dagli esordi alla seconda guerra mondiale, in “Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, contributi di Renato Covino, Paola Boschi e Daniele Orlandi, Electa Editori umbri associati, 1990, p. 27, cui rimanda per tutta la vicenda.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

madre toscana di marchi, ricette, procedimenti tecnici, direzione commerciale, nonché al pagamento dall’Italia dell’affitto del nuovo opificio. Né tutti i problemi della filiale francese vengono risolti dal piccolo miracolo resosi necessario per la sua fondazione, poiché le difficoltà di avvio dell’azienda si prolungano sino allo scoppio della guerra e oltre. Esse, d’altro canto, non riguarderanno tanto gli aspetti commerciali o produttivi, per i quali la Buitoni France brilla per modernità degli impianti ed efficacia delle campagne pubblicitarie e promozionali, quanto per la sottocapitalizzazione di cui soffre l’impresa, frutto dei vincoli al movimento dei capitali imposti dalla situazione internazionale, vincoli che per converso rendono nullo qualunque beneficio per la casa-madre italiana in termini di dividendi fino al secondo dopoguerra. Alla luce di tutto ciò, emerge insomma piuttosto chiaramente come l’obbiettivo che Giovanni Buitoni ostinatamente persegue sia soprattutto quello, tutto difensivo per il momento, di preservare la presenza dell’azienda su di un mercato sviluppato come quello francese, e come sia disponibile a far fronte a tutti i sacrifici e le difficoltà che ciò comporta, pur di mantenere aperte le possibilità di crescita che quel mercato, al contrario di quello italiano, lascia intravedere. Nella sua percezione, in definitiva, dalla radicale e onerosa riorganizzazione produttiva della seconda metà degli anni venti, la Perugina ha tratto una breve fase – due o tre anni – di soddisfacente espansione del fatturato, più pronunciata all’estero che in Italia peraltro, nonostante l’apprezzamento della lira. Immediatamente dopo, la società ritorna ai livelli produttivi e nelle difficoltà degli anni precedenti. Al contrario della “battaglia della lira” (cui pure Buitoni aderisce senza le riserve espresse da altri industriali italiani) la crisi internazionale rappresenta certo un fattore indiscutibilmente oggettivo di peggioramento delle condizioni congiunturali, non imputabile al regime. Tuttavia, all’industriale perugino non devono sfuggire gli ostacoli che la politica economica italiana oppone alla ripresa, tanto in termini generali, con l’ancoraggio alla linea deflazionistica di “Quota 90”, quanto nello specifico dei settori dei beni di consumo e, in particolare, del comparto dolciario. La tassazione sullo zucchero, con i suoi effetti di compressione del mercato interno, è forse l’aspetto più macroscopico di una simile politica, ed è Buitoni stesso, sia a titolo privato che come rappresentante degli industriali dolciari, a farsi portavoce presso Mussolini a più riprese delle richieste di una sua riduzione58. Attraverso la pratica im58

Dopo l’incontro con Mussolini nell’ottobre del 1923, in occasione dell’anniversario della “marcia su Roma” e delle costituzione dell’anonima, Buitoni si mantiene sempre in contatto col capo del governo e la sua segreteria. Colloqui di un certo rilievo si verificano nel novembre del 1929, allorché Buitoni presenta il suo gruppo industriale a Mussolini, poi ancona nell’estate del 1932, quando egli viene ricevuto con Lazzaroni,

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prenditoriale, la presenza ai vertici dell’associazione di categoria e gli intensi – fino al 1935 almeno – contatti con il regime, egli ha modo di constatare, insomma, che la tassazione dello zucchero è solo un aspetto di una questione più generale, quella dei limiti che la politica economica italiana pone allo sviluppo dei consumi interni del paese. Egli finisce per toccare con mano, in altri termini, come la compressione del mercato interno, quello che è stato definito l’”equilibrio dei bassi consumi”59, costituisca un elemento strutturale del percorso compiuto dalla penisola verso l’industrializzazione. Un simile orientamento, che in definitiva costituisce una costante degli indirizzi politico-economici del paese dagli anni ottanta dell’Ottocento fino al “miracolo” del secondo dopoguerra, trova le sue motivazioni nella necessità di reperire risorse, attraverso l’intermediazione diretta o indiretta dello Stato, per l’accumulazione dei settori pesanti di beni strumentali e, sul versante della bilancia commerciale, di contenere qualunque forma di importazione di prodotti che non siano quelli strategici – materie prime e tecnologie – di cui abbisognano appunto i comparti ad alta intensità di capitale. Dopo il parziale sbandamento da questi binari nel primo dopoguerra, a partire dalla metà degli anni venti il fascismo restaura questi vincoli, con la tassazione dei consumi, la compressione dei salari, il protezionismo spinto progressivamente fino all’autarchia del decennio successivo, mentre per converso attua politiche favorevoli alle industrie di beni strumentali, che vanno dai salvataggi dei primi anni trenta al loro diretto sovvenzionamento da parte dello Stato e alle condizioni di monopolio in cui queste sono messe in condizione di operare negli anni successivi. Trovata un’ulteriore, definitiva conferma di questi indirizzi nell’interruzione del concorso, Giovanni Buitoni decide così infine di abbandonare l’Italia. Proprio nell’estate-autunno del 1937, mentre la Perugina sta contrattando col Ministero delle finanze una dilazione sulla data di cessazione della fortunata iniziativa pubblicitaria, una prima missione esplorativa dello Spagnoli negli Stati Uniti preparava un massiccio rilancio della strategia di esportazione. Dopo un ulteriore sondaggio di quel mercato, nell’anno successivo, in occasione del quale venne anche impostata una campagna

59

quali mandatari della Federdolce e ancora nell’aprile del 1935. Cfr. al riguardo Il Comm. Buitoni ricevuto dal Duce, in “L’Assalto”, n 4-5, 18 novembre 1929; ASBP, FP, DGAD, b. 13, fasc. 78 “Relazione a S.E. il Capo del Governo sulle Società Perugina e Buitoni, aprile XIII (1935)”, cc. 34-41 e b. 17, fasc. 120 “Fed. Naz. Dolciaria”, cc. 90-111, ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordinario, fasc. 509822/1 e Giovanni Buitoni, Storia di un imprenditore, Milano, Longanesi, 1973, pp. 132-135. Franco Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali d’interpretazione, in Storia d’Italia, Annali I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, p. 1224 e pp. 1236-1239.

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Capitolo V Tra “Quota 90” e recessione internazionale

Tabella 17. Destinazione delle esportazioni Perugina nel 1939

Fonte: ASBdI, Csvi, u.a.14, cc. 2262-2263, Prospetto riassuntivo merce esportata nel 1939.

promozionale, è infine lo stesso Giovanni Buitoni a recarsi oltre Atlantico, nel maggio 1939, rispondendo ad un invito della Hershey Corporation. Significativamente, egli non farà ritorno in patria che nel 1953, continuando anche dopo quella data a risiedere a New York e ad occuparsi principalmente dell’azienda nel frattempo impiantata negli Stati Uniti, la Buitoni Foods Corporation60.

60

Cfr. in proposito Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 58), pp. 87 ss.; ASLB, Libro Verbali assemblee generali Perugina cioccolato e confetture S.a., registro n. 2 dal 5 aprile 1935 al 31 maggio 1944, Assemblea generale ordinaria del 2 aprile 1940; ivi, assemblea generale ordinaria del 28 marzo 1941; ASBdI, Csvi, u.a. 14, cc. 2344 e 2260-2270, Carteggio Ice.

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Subito dopo il suo arrivo in Nord America, nell’agosto 1939 Buitoni costituisce una concessionaria commerciale della ditta dolciaria umbra, “La bomboniera”, che apre un lussuoso negozio nella Fifth Avenue, nel cuore di Manhattan. Benché i suoi sforzi si concentrino ben presto sullo sviluppo del giro d’affari della Buitoni, creandone un filiale produttiva americana in circostanze e con modalità ancora più fortunose di quelle a su tempo sperimentate per la Buitoni France, Giovanni non manca di far partecipare anche la ditta dolciaria all’esposizione universale di New York del 1939 e del 1940. Più o meno contemporaneamente la Perugina è presente con successo alla Fiera di Parigi e a quella di Lubiana. Sul finire degli anni trenta, insomma, la Perugina, o meglio il principale artefice dei suoi successi, Giovanni Buitoni, viene sempre più concentrando la propria attenzione fuori d’Italia. Poco influisce, su tutto ciò, la nomina a cavaliere del lavoro nel maggio del 194061. Vi siano o meno dietro la concessione di questa onorificenza intenti compensativi per la vicenda del concorso o un invito ad un suo rientro in patria, resta il fatto che Giovanni non ritorna in Italia né allora né l’anno successivo, quando il nostro paese entra direttamente in guerra con gli Stati Uniti. Con la scoperta del mercato americano egli guarda già al dopoguerra.

61

ASLB, Libro Verbali assemblee generali Perugina cioccolato e confetture S.a., registro n. 2 dal 5 aprile 1935 al 31 maggio 1944, Assemblea generale ordinaria del 3 aprile 1940.

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Capitolo VI Negli anni trenta

Capitolo VI

Negli anni trenta

VI.1. Giovanni Buitoni e il fascismo: dall’adesione al dissenso Durante la grande crisi, dunque, Giovanni Buitoni comincia ad avvertire che le difficoltà già sperimentate, anche se solo parzialmente, durante la “battaglia della lira” non costituiscono un una tantum, destinato a porre l’Italia su un piede di parità con gli altri paesi, ma un dato permanente della situazione economica nazionale. Conferme in questo senso gli vengono, non solo, come si è detto, dalla politica fiscale, ma anche dalla linea del governo in materia di protezioni doganali e politica monetaria, dalla puntuale subordinazione del settore alla pressione degli interessi monopolistici e dalle misure di contingentamento delle importazioni del 1934. La goccia che fa traboccare il vaso sarà, in questo senso, la brusca fine imposta dal regime al concorso delle figurine nel 1937, allorché, sulla scorta del successo di quella fortunata iniziativa, la Perugina e la sua “alleata” Buitoni sembrano essere sul punto di infrangere la “camicia di forza” imposta dall’autarchia ai consumi nazionali. Ma prima di descrivere quella vicenda, è opportuno richiamare brevemente un altro versante dell’itinerario compiuto da Buitoni, e dalla Perugina con lui, negli anni tra le due guerre: quello più direttamente attinente al ruolo pubblico avuto dall’imprenditore umbro, ai suoi rapporti col regime e alle funzioni che egli viene a svolgere in campo politico-amministrativo agli inizi degli anni trenta. Colui che a metà novembre del 1929 si reca a colloquio a Roma col capo dello Stato è ormai un imprenditore affermato, che in meno di una ventina d’anni ha radunato sotto il suo controllo un gruppo industriale di proporzioni notevoli. La Buitoni, con i suoi due stabilimenti di Sansepolcro e di Roma, e la Perugina, con annesse le Arti poligrafiche Italia Centrale, rappresentano, unitamente all’azienda agraria di famiglia di San Fatucchio, un complesso che raggiunge i 34 milioni di lire di capitale e riserve, occupa oltre 1600 persone e totalizza circa 75 milioni di fatturato1. Ad esse sono poi

1

Giampaolo Gallo, Dagli esordi alla seconda guerra mondiale, in “Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, contributi di Renato Covino, Paola Boschi e Daniele Orlandi, Electa Editori umbri associati, 1990, p. 24.

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destinati ad aggiungersi, come si è accennato, il Poligrafico Buitoni, frutto del trasferimento dell’Apic dallo stabilimento di Fontivegge in un opificio attiguo tra il 1932 e il 1933, la Buitoni France nel 1934 e una ramificata rete commerciale, all’interno della quale sin dai primi anni trenta spicca la prestigiosa catena di negozi Perugina, sparsa in tutta la penisola. Né la rete degli interessi che fa capo a Giovanni e alla famiglia Buitoni del capoluogo umbro si limita a queste attività, poiché ad essi, come pure si è accennato, è sostanzialmente riconducibile anche il Consorzio Italiano Maioliche Artistiche (a cui sono collegate tra le altre imprese di Gualdo Tadino, Ascoli e Castelli, in Abruzzo), che sotto la guida operativa di Giuseppe Baduel nel 1932 si trasforma in S.a. Maioliche Deruta - Cima e concentra le sue lavorazioni nei due stabilimenti di San Francesco delle Donne a Perugia e di Deruta, lavorando in stretto raccordo con le produzioni di confezioni di lusso della ditta dolciaria. Parallelamente, infine, tra il 1930 e il 1932 Luisa Spagnoli compie, all’interno dello stabilimento di Fontivegge i primi esperimenti di lavorazione della lana d’angora, cui faranno seguito entro il 1935, data della sua scomparsa a 58 anni in Francia per malattia, le prime realizzazioni nel settore dell’abbigliamento e l’allestimento del Giardino avicolo presso la villa di famiglia a Santa Lucia, poco fuori Perugia. Anche questa attività si sviluppa in stretto rapporto con la Perugina, tanto per quanto riguarda i contatti commerciali quanto, inizialmente, per i locali stessi ove si svolgono le lavorazioni. Sarà poi Mario Spagnoli, che è anche direttore tecnico dell’azienda dolciaria, a costituire due anni dopo la morte della madre la Luisa Spagnoli, che nel 1939 si dota di un proprio stabilimento sempre a Fontivegge, nei pressi della fabbrica di cioccolato, e che nel 1943, sull’onda dello sforzo bellico-autarchico, giungerà ad essere una dei maggiori produttori (non solo nazionali) di lana d’angora, con oltre 500 occupati e rapporti con 8.000 allevamenti in tutta Italia2. Nel suo insieme, insomma, i Buitoni e il gruppo di interessi che ad essi fa capo, dagli Spagnoli, a Baduel e a Biagiotti, costituiscono di gran lunga il nucleo imprenditoriale più dinamico del capoluogo umbro. Accanto ad un limitato novero di altre iniziative manifatturiere – il lanificio di Ponte Felcino, il pastificio di Ponte San Giovanni, la valigeria ex Vajani, la Saffa e poco altro –, di dimensioni comunque inferiori e a volte per altro non di proprietà locale, l’ambiente che fa capo a Giovanni Buitoni rappresenta il principale artefice degli sviluppi in senso industriale registratisi a Perugia nel periodo tra le due guerre. In definitiva, se esiste una qualche forma di vocazione per l’industria leggera dei beni di consumo del territorio perugino, essa è in

2

Valerio Corvisieri, Una famiglia di imprenditori del Novecento. Gli Spagnoli da Assisi a Perugia (1900-1970), Perugia, Salvi, 2001, pp. 74-83 e 111-143.

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buona misura da ascriversi all’attività dei Buitoni e delle loro aziende, o quanto meno al ruolo da essi svolto perché simili orientamenti, anziché inaridirsi e scomparire nel corso della crisi degli anni trenta, conoscano in quella fase un sostanziale irrobustimento e una proiezione verso il futuro. Una simile rilevanza ha nella vicenda di Giovanni Buitoni, che di quell’ambiente imprenditoriale è il vertice indiscusso, anche un corrispettivo politico-amministrativo, concretizzatosi nella carica di podestà di Perugia che a questi viene conferita tra la fine del 1929 e il 1934. Si è già accennato alle forti simpatie dell’imprenditore perugino per il movimento fascista nell’immediato dopoguerra. Iscrittosi al Pnf con Mario Spagnoli già nel 1921, un opuscolo del 1923, non si sa quanto dettato da intenti encomiastici, ricorda persino come egli disponga la distribuzione di cioccolato della Perugina alla partenza dei treni carichi dei partecipanti alla “marcia su Roma” dalla stazione del capoluogo umbro, antistante lo stabilimento di Fontivegge3. Questa adesione si traduce poi, già nel 1923, nell’elezione al Consiglio provinciale all’interno delle liste mussoliniane e viene evidentemente apprezzata dallo stesso capo del governo, che quello stesso anno, come si è anche ricordato, visita ufficialmente lo stabilimento dolciario umbro in occasione del viaggio a Perugia per l’anniversario della sua ascesa ai vertici dello Stato. Durante tutti gli anni venti, Buitoni consolida un’immagine di imprenditore modello del nascente regime: creatore di un gruppo industriale di successo in Italia e all’estero, capace di resistere alle pressioni monopolistiche dell’Unica, interprete esemplare del nuovo corso delle relazioni industriali, attraverso il dopolavoro e l’organizzazione scientifica del lavoro, e portatore di caratteri di forte modernità, come le corse automobilistiche, la cartellonistica pubblicitaria e in definitiva la stessa produzione del cioccolato. Né manca nella sua figura l’attenzione per la tradizione, con la valorizzazione dell’immagine della città attraverso il nome e il marchio stesso dall’azienda o con il ruolo determinante giocato dalle confezioni Perugina e dall’intervento finanziario dell’azienda nel revival della ceramica umbra. A queste scelte e a queste realizzazioni si accompagnano, per altro, prese di posizione in campo più direttamente politico estremamente decise ed esplicite. Nel febbraiomarzo del 1925, all’indomani del discorso del 3 gennaio e, in pratica, dell’avvio della creazione di un regime totalitario da parte di Mussolini, egli crea l’Unione economica umbra, che si inserisce attivamente nella rete di associazioni più apertamente schierate a sostegno della svolta dittatoriale4.

3 4

Giorgio Tiberi, Da Perugia a Roma. Ricordi, Perugia, Donnini, 1923, p. 18. Cfr. al riguardo Giuseppe Gubitosi, Forze e vicende politiche tra il 1922 e il 1970, in Perugia, a cura di Alberto Grohmann, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 213-272, in part. pp. 229-231.

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Sorta sul modello della consorella lombarda, l’Unione si ripropone di appoggiare l’azione del governo contro “la stampa denigratrice e diffamatrice, che raffigura la nostra Nazione, in preda al terrore”. Le Unioni economiche, afferma lo stesso Buitoni, consentono pienamente nell’opera svolta dal Governo Nazionale per restaurare la disciplina, per riorganizzare i pubblici servizi, ... per sviluppare ed incoraggiare ogni energia produttiva, [...]. Esse si propongono di dimostrare praticamente questo consenso, collaborando con il Governo Nazionale, per creare con tutti i mezzi acconci un’atmosfera di normalità ed equilibrio5.

Questo attivismo vale a Buitoni la nomina prima, nell’agosto 1925, a commissario governativo della Camera di commercio dell’Umbria, poi, nel 1926 a commissario straordinario della stessa istituzione, impegnata in quella fase nel trasferimento da Foligno a Perugia, ed infine nel 1927 a vice-presidente del nuovo Consiglio provinciale dell’economia, cioè in pratica a capo dell’organismo che quell’anno si sostituisce agli enti camerali e alla cui presidenza siede di diritto il prefetto6. In questa sua influente veste, l’imprenditore dolciario ha modo di schierarsi in modo molto netto a favore della politica di rivalutazione della lira condotta da Mussolini, che tanta perplessità suscita tra molti degli industriali italiani – a cominciare da Gualino – e che segna per vari aspetti una prima incrinatura del rapporto di questi col regime7. Due anni dopo, il regio decreto del 20 gennaio 1930 che lo nomina podestà del capoluogo umbro, carica per la quale il suo nome circola in verità già dal 1928, giunge perciò a coronamento di una ormai decennale ascesa negli ambienti politici ed economici locali, segnando l’apice della carriera pubblica di Buitoni8. Benché tale nomina

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6

7

8

Un importante convegno sulle forze produttrici: il discorso del dott. Comm. Giovanni Buitoni, in “L’Assalto”, 2-3 marzo 1925. Sull’attività di Buitoni nell’Unione economica si veda anche ASBP, FP, DGAD, b. 6, f. 48 “Unione Economica Nazionale”. Si veda l’Introduzione a L’archivio storico della Camera di commercio industria artigianato e agricoltura di Perugia (1835-1946). Inventario, Perugia, Camera di commercio, 1988, pp. 18-20. Si veda ad esempio Il quadro dell’industria umbra in rapporto all’attuale situazione economica, in “Rivista dell’economia umbra” XXXIX (1927), 7, pp. 172-174 (pubblicato anche ne “L’Assalto”, 5-6 luglio 1927). Sulle reazioni a “Quota 90”, cfr. tra gli altri Renzo De Felice, Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato fascista, 1925-1929, Torino, Einaudi, 1995, pp. 246-258; Piero Melograni, Gli industriali e Mussolini. Rapporti tra Confindustria e fascismo dal 1919 al 1929, Milano, Longanesi, 1980, pp. 208 ss., e più recentemente Alberto De Bernardi, Una dittatura moderna. Il fascismo come problema storico, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 199 ss. ASPg, ASCPg, Atti amministrativi 1871-1933, 1930, tit. 11, art. 2, pos. 3, pr. 1, Podestà. Oggetti vari.

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sia anche il risultato della situazione di stallo in cui versano gli equilibri tra le varie componenti locali del partito, che per altro vede molti dei suoi esponenti di maggiore spicco trovare incarichi a livello nazionale, il conferimento della carica podestarile all’artefice delle fortune della Perugina rappresenta sicuramente un atto di marcata rottura, non solo con la natura preminentemente agraria del fascismo perugino, ma con la tradizionale prevalenza dei ceti possidenti nel governo della città9. Con l’ascesa di Buitoni ai vertici del Comune il regime tende ad accreditare un’immagine di sé improntata al dinamismo e alla modernizzazione, in contrasto con l’attendismo e gli scarsi risultati conseguiti dalla precedente amministrazione guidata da Oscar Uccelli. Il quadriennio 1930-1934 è in effetti tutt’altro che privo di realizzazioni, da quelle maggiori, quali la costruzione del mercato coperto, il completamento dell’acquedotto della Scirca o la redazione del piano regolatore del 1931, a tutta una serie di ulteriori provvedimenti che vanno dalla soluzione del problema dell’energia elettrica, appaltata da Buitoni a privati, all’avanzamento dei lavori di riassetto della zona di Piazza d’Armi, alla costruzione di colonie, asili e strutture assistenziali. A ben vedere, tuttavia, il bilancio di quell’esperienza non è del tutto positivo. Il piano regolatore, ad esempio, messo a punto tra il 1931 e 1933, non viene approvato dalle gerarchie amministrative e resta di fatto lettera morta, tanto che fino al 1956 la città non disporrà un simile strumento urbanistico. L’allaccio dell’acquedotto apre il problema del sistema fognario e della gestione delle acque urbane, nel tentativo di risolvere il quale lo stesso podestà incorre nella vicenda delle forniture di tubi Eternit che gli varrà aspre critiche e accuse di favoritismo non prive di conseguenze giudiziarie. La stessa gestione finanziaria del Comune, lungi dall’essere risanata10, continua a presentare gravi scompensi, a fronte dei quali l’attesa opera di modernizzazione mostra limiti evidenti, se è vero che le “realizza-

9

10

Oltre a Gubitosi, Forze e vicende politiche (cit. a nota 4), si veda in proposito Renato Covino, Dall’Umbria verde all’Umbria rossa, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Umbria, a cura di Renato Covino e Giampaolo Gallo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 505605; Giacomina Nenci, Note di storia sociale: amministratori comunali in Umbria nella prima metà del Novecento, Orientamenti di una regione attraverso i secoli: scambi, rapporti, influssi storici nella struttura dell’Umbria, Perugia, Università di Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1978, pp. 313-330; Stefano Clementi, Le amministrazioni locali in Umbria tra le due guerre, in Politica e società in Italia del fascismo alla Resistenza. Problemi di storia nazionale e storia umbra, a cura di Giacomina Nenci, Bologna, il Mulino, 1978, pp. 275-292, in part. pp. 289 ss.; Renato Covino, Giampaolo Gallo, Luigi Tittarelli e Gernot Wapler, Economia, società e territorio, in Perugia, a cura di Alberto Grohmann, Bari, Laterza, 1990, pp. 59-168, in part. pp. 120 ss. Gubitosi, Forze e vicende politiche cit. (a nota 4), p. 231.

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zioni del periodo fascista non incidono profondamente sull’assetto urbanistico della città, né presentano opere di rilievo, se si eccettuano la costruzione del mercato coperto e l’allacciamento definitivo dell’acquedotto della Scirca”11 – ascrivibili appunto al quadriennio di Buitoni. L’impressione, insomma, è che questi, quando si impegna direttamente nei meccanismi politici e amministrativi, soffra nonostante tutto della sua posizione di outsider rispetto agli equilibri interni della gestione del potere locale e non riesca, anche per insofferenze e limiti propri, ad andare al di là di singole parziali realizzazioni. Qualcosa di analogo, del resto, deve avvenire nei suoi rapporti col regime a livello nazionale, allorché rimane invischiato negli attriti e nelle rivalità interne alla dittatura, di cui l’aperta ostilità di Starace a partire dal 1932 è l’espressione evidente, da egli stesso ricordata nelle sue memorie12. Due anni più tardi, in ogni caso, il suo mandato podestarile si chiude, ufficialmente con un richiamo al contrasto del celibato di Buitoni con le direttive demografiche del regime, il che tuttavia lascia intendere come i suoi rapporti con le gerarchie romane siano deteriorate. Poco dopo la sua sostituzione con Colombo Corneli, inoltre, nell’ottobre del 1934, egli viene accusato di aver “impegnato [il] Comune per [la] somma di 2.475.000 lire verso [la] Società Eternit senza che atti amministrativi precedenti fossero approvati e senza che fosse provveduto finanziamento”13. La comunicazione giudiziaria riguarda, come si è accennato, la sostituzione delle tubature fognarie della città, decisa nel 1932, sulla base di un finanziamento “concesso direttamente dal capo del governo” alla presenza del prefetto [...] e [...] confermato per lettera dall’Istituto Nazionale Assicurazioni e dal ministro delle Finanze”14. La vicenda si conclude con un violento scontro col sottosegretario agli Interni Buffarini Guidi e l’archiviazione del caso, privo di conseguenze per Buitoni sul piano legale ma imbarazzante, nonostante le successive smentite, per le accuse ricevute – che di fatto giungono ad ipotizzate la concussione. Al di là dei dettagli, in ogni caso, ciò che più interessa in questa sede è che anche sul versante politico, oltre che su quello imprenditoriale, il rapporto di Giovanni Buitoni col fascismo cominci a incrinarsi una volta che ha raggiunto il suo apice nei primi anni trenta. Se nel secondo di questi ambiti a giocare un ruolo è la constatazione degli scarsi spazi di crescita delle proprie aziende, in campo politico-amministrativo sono piuttosto i contra-

11 12 13 14

Alberto Grohmann, Perugia, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 165, e più in generale pp. 159-169. Giovanni Buitoni, Storia di un imprenditore, Milano, Longanesi, 1973, pp. 141-142. Cfr. ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordinario, b. 1264, f. 509822/1. Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 12), pp. 132-137.

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sti e le frizioni sperimentate sia a livello locale che nazionale, e probabilmente lo stesso risentimento personale per le accuse legate all’affare Eternit a determinare questo allontanamento. Sta di fatto che alla metà del decennio le relazioni di Buitoni con il regime si sono decisamente raffreddate. La chiusura d’imperio del concorso de “I Quattro Moschettieri”, nel 1937, sarà in questo senso solo l’ultimo atto di una divergenza che lo condurrà all’emigrazione e a rifarsi una vita – anche imprenditoriale – oltreoceano. VI.2. Il concorso de “I Quattro moschettieri” Alle 13,05 del 13 ottobre 1934, l’Eiar (l’Ente italiano audizioni radiofoniche, attivo ormai da una decina d’anni) manda in onda la prima delle Avventure dei Quattro Moschettieri, una libera riduzione in chiave parodistica di romanzo di Alessandro Dumas a cura di due giovani sceneggiatori, Angelo Nizza e Corrado Morbelli15. Il programma piace a Giovanni Buitoni: avevano introdotto, accanto ad un Arlecchino dalla cadenzatissima pronuncia veneta, decine di personaggi inediti, che strizzavano l’occhio alla cronaca ed al costume di quel tempo, sicché romanzo d’avventura e satira goliardica si mescolavano [...]; la formula era indovinata, ben calibrata com’era sull’ascoltatore medio italiano, collocata con astuzia nell’ora del pranzo domenicale, cioè nel momento più disteso della settimana16.

Così dalla domenica successiva I Quattro Moschettieri diventano una trasmissione Perugina. L’azienda abbina anche un concorso al programma radio, il “Regalo natalizio”, che mette in palio un centinaio di cassette di articoli propri e della Buitoni tra gli ascoltatori che inviino cartoline con giudizi di gradimento sulla trasmissione e tentino di indovinare il numero dei partecipanti al concorso stesso. Ad esso seguiranno altri due concorsi, il Radiosacchetto Perugina e il concorso Radio-Caramel, abbinati ai due successivi cicli di radio-avventure. Le trasmissioni proseguono con un crescente successo per fino al 4 luglio del 1935. Il primo luglio, qualche gior-

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Le informazioni sulla trasmissione sono contenute in una nota del dopoguerra conservata in ASBP, FP, DGAD, b. 19, fasc. 145 “Corrispondenza privata Ceccomori”, cc. 29-32. Al riguardo, oltre alle memorie di Buitoni, si veda anche La grande pubblicità di massa. Intervista n. 2: Buitoni Perugina, in “Pubblicità e vendita”, 1967, 26, pp. 6-25. Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 12), p. 58

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no prima della puntata conclusiva, la Perugina lancia il concorso a premi finale, “I Quattro Moschettieri”, dando vita ad una iniziativa di successo ancora maggiore delle precedenti. Il concorso, gestito dall’azienda dolciaria a nome anche della Buitoni, viene messo a punto, oltreché dallo stesso Giovanni Buitoni, da Aldo Spagnoli – fratello del responsabile tecnico dell’azienda dolciaria, Mario – e dal nuovo responsabile della pubblicità, Gianni Angelini, succeduto a Seneca nel 1932. Il meccanismo di funzionamento non è di per sé particolarmente originale, essendo basato, pur con qualche variante, su criteri già sperimentati in iniziative analoghe da parte, fra l’altro, della stessa ditta umbra. Esso consiste nella raccolta delle cento figurine raffiguranti i personaggi de I Quattro Moschettieri inserite nei prodotti Buitoni e Perugina. La raffigurazione dei personaggi di Nizza e Morbelli viene affidata ad Angelo Bioletto, pittore ed accreditato disegnatore de “La Stampa”. A seconda del numero di collezioni restituite agli organizzatori o in alternativa delle figurine alla rinfusa (400 equivalgono ad un album completo da 100) si ha diritto ad una serie di premi: da prodotti delle due aziende a copie del libro di Nizza e Morbelli, I Quattro Moschettieri, a oggetti di arredamento, macchine da scrivere e da cucire, sino ad una motocicletta Guzzi e alla Fiat 500 “Topolino”, il premio più ambito, per cui sono necessarie 150 collezioni (o 6.000 figure sparse) e che viene nondimeno distribuita in 200 esemplari. Il successo dell’iniziativa, che come si è detto è grandissimo, deriva in parte anche da un ben dosato ricorso al sistema delle “figurine-chiave”: i vari soggetti disegnati da Bioletto, cioè non sono messi in circolazione tutti nelle stesse quantità, per cui ve ne sono alcuni, come il famoso Feroce Saladino, più rari degli altri, che stimolano il gusto della collezione e danno vita ad un vero e proprio mercato delle figurine. Un simile meccanismo, attribuito successivamente alla lentezza del disegnatore e ad altre ragioni casuali, è in realtà studiato ad arte e, essendo di fatto vietato dalla legge sul lotto, viene nel corso del tempo temperato da correttivi volti a ridurre il peso della sorte e ad aumentare le possibilità di accedere ai premi. Buitoni stesso ne illustra il funzionamento in questi termini17: I Concorsi si basavano in passato o sulla raccolta di un numero X di figurine alla rinfusa (premio di consumo) o sulla raccolta, in un album apposito di un determinato numero di figurine (premio alla diligenza, alla abilità ed anche, se si vuole, alla fortuna del raccoglitore). Le Soc[ietà] “Buitoni Perugina ” fusero i due sistemi ed istituendo l’album di raccolta, riconobbero gli stessi premi con un determinato rapporto, anche a

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ASBP, FP, DGAD, b. 19, fasc. 142 “Memorandum del dr. Giovanni Buitoni sulla pubblicità premio”, cc. 13-19.

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coloro che non fossero riusciti nel completamento dell’album stesso. Innovazione quindi di carattere essenzialmente morale che, offriva ed offre ogni garanzia al consumatore. [...]. Qualunque premio, anche il più importante, può essere conseguito tanto con album che con figurine alla rinfusa. [...]. Le Società “Buitoni Perugina ” hanno creato poi la figurina “sintetica” destinata a sostituire qualunque altra e, recentemente, hanno riconosciuto il valore della figurina cosiddetta “chiave”, a qualunque certificato di nascita o di matrimonio [...]. Con questo [...] le società suddette [...] vollero compiere un doveroso atto di affiancamento alla politica del Regime in materia demografica [...] [e] dimostrare che [dal Concorso] esulava ogni mira speculativa.

L’iniziativa ha un eccezionale riscontro di pubblico, finendo per essere un fatto di costume di portata e diffusione non comuni. Il valore delle figurine supera ben presto quello degli stessi prodotti con cui esse vengono acquistate, ingigantendo la popolarità delle due ditte. La scena che segue è solo una delle tante che possono in cui ci si può imbattere nelle città italiane dell’epoca: È come una forma di epidemia collettiva [...] che dilaga, dilaga sempre facendo vittime e vittime. Naturalmente ci riferiamo all’ormai famoso gioco delle figurine. [...]. Sotto i portici (di piazza del Duomo, a Milano...) funziona la “borsa scambio” delle figurine. Lì [...] è facile barattare, in base ad una classificazione che dà come unità di misura una figurina comunissima, chiamata “scartina”, secondo il criterio generale seguito dai “borsisti”, illuminati fra l’altro da uno speciale “vademecum” fatto per loro uso e consumo, “Athos”, il cui valore è “15”, con un “policeman” che vale “12” e tre scartine; [...] il “Feroce Saladino” che è il più raro e vale “25” punti, ed il cui cambio è complicatissimo [...]. Le figurine formano un totale di 400 punti. Ma a barattare non ci sono solamente i ragazzi. Tutt’altro. Abbiamo visto fior di professionisti ... E così i portici nuovi di Milano sono diventati la più importante base di queste operazioni. Basti dire che la società che ha messo in circolazione le figurine ha dovuto far stazionare, a proprie spese, degli agenti che invitassero il pubblico a circolare. Orario: dalle nove del mattino alla mezzanotte. Le origini di tanto successo delle figurine non sono facili da scoprire. [...]. Uno dei motivi [...] va forse ricercato nella scelta dei tipi figurati. C’è di tutto, dalla storia al cinema, dai personaggi classici alle celebrità di oggi. Diciamo forse, poiché non c’è niente di più nascosto delle cause che producono effetti simili18.

Si noti che il passo, del 1936, non si riferisce ancora alla fase in cui la mania delle figurine è più acuta, quando cioè, l’anno successivo, l’annuncio dell’imminente chiusura del concorso porta al parossismo gli scambi e scatena una vera corsa al completamento delle collezioni. Nei poco più di due anni di svolgimento dell’iniziativa, dal luglio 1935 all’ottobre 1937, si innesca inoltre un effetto di imitazione che produce

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F. Poch, Per chi ancora ne fosse immune, in “La Lettura”, XXXVI, 9, 1 settembre 1936.

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una moltiplicazione delle campagne promozionali a premi, già piuttosto diffuse per la verità a partire dalla fine degli anni venti. Numerosissime aziende commerciali e di beni di consumo avviano iniziative analoghe, non di rado creando consorzi e collegandosi l’un l’altra nella gestione dei concorsi. La stessa Perugina riceve svariate proposte in questo senso, anche da imprese affermate, come la Invernizzi di Melzo o la Manifattura tabacchi di Zara, che chiedono di associarsi all’iniziativa promozionale, inserendo le figurine nei propri prodotti. Né mancano i casi di falsari che riproducono illegalmente gli esemplari più quotati19. Oltre che ad un formula concorsuale messa a punto con accortezza e sensibilità (strizzando l’occhio, ad esempio, alla campagna demografica del regime), tuttavia, l’enorme successo del concorso è legato soprattutto al crescendo di iniziative che, in parte anche spontaneamente, ad esso si collega, ingigantendone l’effetto presso il pubblico. Nel 1936 esce un primo libro di Nizza e Morbelli, edito dalle aziende Buitoni e illustrato da Bioletto, che raccoglie le avventure descritte dal radio-romanzo; ad esso seguono negli anni successivi i volumi Due anni dopo e I Quattro Moschettieri in Russia20, che in cinque edizioni venderanno centomila copie. Sempre nel 1936 viene poi girato Il feroce Saladino, un film con Angelo Musco ed Alida Valli, mentre un notevole successo fanno registrare il “fonolibro” Durium (tre dischi che riproducono la serie di avventure intitolata alla Russia) e le marionette del Teatro dei fratelli Colla a Milano. Un po’ dovunque insomma vanno moltiplicandosi spettacoli, motivi musicali, sketch d’avanspettacolo che si richiamano al soggetto di Nizza e Morbelli, mentre alla Perugina giunge una larghissima corrispondenza di lettere, poesie, suggerimenti sul concorso. Né mancano “eventi” quali la discesa in mongolfiera nell’aprile del 1935 alla Fiera di Milano, accanto agli stand Buitoni e Perugina, dei quattro moschettieri in persona, vale a dire gli attori della trasmissione radiofonica in costume seicentesco, tra cui il popolare Nunzio Filogamo. La coniugazione del concorso a premi con un largo ricorso ai nuovi mezzi di comunicazione – la radio e il cinema in primo luogo, ma anche il grammofono, oltre alle varie forme di spettacoli teatrali – prefigura le moderne tecniche pubblicitarie delle società dei consumi di massa ed ha un impatto fortissimo su di un contesto quale quello dell’Italia autarchica, che sino ad allora ha sperimentato tali strumenti solo nel campo della propaganda politico-ideologica e non in quello della promozione commerciale. D’altra parte, la reazione e la vasta rispondenza che il concorso dei

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ASBP, FP, DGAD, b. 30, fasc. 250 “I Quattro Moschettieri”, cc. 23 ss., nonché Sezione Pubblicità, Fondo Concorsi, fasc. 9. Ivi, fasc. 11.

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“Moschettieri” trova nel pubblico stanno ad indicare, probabilmente, quanto le aspettative, modelli e i comportamenti legati ai consumi di massa siano penetrati nella società italiana dell’epoca, nonostante gli appelli all’austerità del regime21. Accanto alla pubblicità più tradizionale, realizzata con annunci e manifesti, le promozioni basate su regali e premi cominciano anche in Italia a diffondersi probabilmente già prima della guerra. Giovanni Buitoni afferma che “la Perugina lanciò con successo una collezione di figurine rappresentanti di animali più comuni nel 1910, ai suoi primissimi inizi”22. È comunque tra la seconda metà degli anni venti e il decennio successivo, a seguito del deteriorarsi della congiuntura, che il metodo della vendita a premi viene a diffondersi massicciamente, differenziandosi in tutta una serie di sistemi particolari, spesso assai complicati e non di rado mossi da intenti puramente speculativi. Tale affermazione va inquadrata, come si è già accennato, nel più generale sviluppo delle tecniche commerciali e nell’intensificazione della concorrenza a fronte del restringimento dei mercati e del crollo dei prezzi che si verifica in quel periodo. Se per un verso, infatti, essa costituisce un efficace incentivo agli acquisti e, nel caso di iniziative come quelle della Perugina, anche ad acquisti continuativi nel tempo, per l’altro, la pubblicità a premio presenta un’ulteriore motivo di convenienza per i produttori, essendo “la sola pubblicità le cui spese sieno in diretta proporzione alle vendite”. Del resto, argomenta Buitoni al riguardo, “il consumatore, attraverso i premi, beneficia egli stesso dell’80% o 90% delle spese di pubblicità”, facendo di questa “l’unica forma di propaganda il cui costo va, in definitiva, a profitto del consumatore”23. Per porre un freno alle seguenti speculazioni, ma anche, e soprattutto, per 21

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Per una ricostruzione delle numerose iniziative legate al concorso si veda Paola Boschi, La pubblicità, in “Sulla bocca di tutti” cit. (a nota 1), pp. 91-98; Gian Paolo Cesarani, Perugina: comunicazione e pubblicità, in Perugina. Una storia di ingegno e passione, a cura di Gian Paolo Cesarani e Renato Covino, Milano, Silvana Ed. e Nestlé S.a., 1997, pp. 92-173, in part. pp. 109-128; Giuseppe Gubitosi, La pubblicità della Perugina e”I Quattro Moschettieri”, in Uomini economie culture. Saggi in memoria di Giampaolo Gallo, a cura di Renato Covino, Alberto Grohmann e Luciano Tosi, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1997, vol. I, pp. 213-240. ASBP, FP, DGAD, b. 19, fasc. 142 “Memorandum del dr. Giovanni Buitoni sulla pubblicità premio”, cc. 13-19. Una relazione presentata al Parlamento inglese in occasione di una proposta di legge sulla pubblicità-regalo del 1932, afferma che tale metodo di vendita veniva utilizzato in Gran Bretagna già almeno attorno al 1880 per articoli quali il tè o le saponette e dagli inizi del secolo per il cacao (cfr. ivi, cc. 1-12, Relazione del Consiglio dell’industria e del commercio al Parlamento inglese sui buoni-premio del luglio 1932). ASBP, FP, DGAD, b. 19, fasc. 142 “Memorandum del dr. Giovanni Buitoni sulla pubblicità premio”, cc. 13-19.

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la pressione delle associazioni degli industriali tese a disciplinare la concorrenza, tra gli anni venti e i primi anni trenta si ha tutta una serie di interventi legislativi, in Europa come in America, volti a porre rigidi freni a queste tecniche di vendita, se non, in alcuni casi, a proibirle tout court. In Italia il Testo unico della legge sul lotto, approvato con regio decreto n.1456 del 29 luglio 1925, all’art. 68, assimila alle lotterie, oggetto di monopolio dello Stato, l’attribuzione di beni mediante estrazione o qualsiasi “altra designazione che dipenda dalla sorte”. La legge indica al riguardo, peraltro, soltanto il caso particolare di concorsi realizzati attraverso giornali e periodici senza spingersi sul terreno di quelli collegati al commercio al dettaglio, sia perché probabilmente questi ultimi non costituiscono ancora un fenomeno di vaste proporzioni, sia perché l’oggetto specifico del provvedimento è la tutela del Lotto pubblico. Sulla base di questa reticente normativa, il Ministero delle finanze nel luglio del 1926 impone, ad esempio, la cessazione delle vendite di prodotti in involucri numerati, la cui restituzione in determinate serie numeriche dia diritto a premi. Simili disposizioni vengono inoltre ribadite nel settembre successivo, allorché la Federdolce invia al ministero un memoriale in cui si prendono le difese di questo metodo di commercializzazione. Il ricorso a simili metodi promozionali deve però continuare a diffondersi e, a dimostrazione della scarsa chiarezza esistente in proposito, viene riconosciuta come legittima dalla sentenza con cui la Corte di cassazione nel dicembre 1927 si esprime sul caso di un produttore di cosmetici che inserisce ogni cento confezioni di cipria un buono-premio che dà diritto ad un profumo in omaggio24. Della questione finisce poi per occuparsi direttamente il governo, che attorno alla metà del 1928 integra la legge del 1925, estendendo le proibizioni in essa contenute “ai concorsi a premi di qualsiasi forma intesa ad accreditare con mezzi e per fini reclamistici, determinati prodotti e ad eccitarne la diffusione”25 e vietando così, almeno sulla carta, tutte le iniziative promo-

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Per queste vicende si veda Vendita a premi di prodotti dell’industria dolciaria, in “Il Dolce”, I, 8 (ottobre 1926), pp. 147-150; I buoni premio nelle scatole di dolci, ivi, III, 25 (marzo 1928), pp. 76-77; La vendita con i “premi-regalo”, estratto del Congresso di Bruxelles (15-19 giugno 1938) della Lega internazionale contro la concorrenza sleale, in “Rassegna della proprietà industriale, letteraria e a artistica”, V (1938), n. 3-4. Leggi di regolamentazione di queste forme di pubblicità entrano in vigore nella seconda metà degli anni venti soprattutto nei paesi del Nord Europa (Norvegia, Danimarca, Cecoslovacchia, Lettonia), nel 1930 in Jugoslavia, nel 1931 in Svezia, nel 1932 in Germania. Nel 1932 tuttavia in Inghilterra la Camera dei comuni boccia la proposta di una Gift Coupons Bill, non ravvisando, in una relazione ampiamente diffusa in Italia da Buitoni e da altri industriali interessati, nel sistema dei buoni-premio elementi dannosi al pubblico ed al commercio. I buoni premio nelle scatole di dolci, in “Il Dolce”, III, 28 (giugno 1928), p. 140.

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zionali che elargiscono premi di consumo in misura non strettamente proporzionali alla quantità di merce acquistata. La legge tuttavia rimane in larga misura lettera morta, dal momento che tra il 1931 e il 1932 si verifica un piccolo boom di concorsi a premio. Notevole successo nel settore alimentare ha, ad esempio, quello della Nestlé-Pck che, basandosi su precedenti esperienze centro-europee, propone una raccolta di figurine di animali esotici particolarmente fortunata, così come una vasta rispondenza presso il pubblico hanno i buoni inseriti nei prodotti Cirio, la cui raccolta dà diritto a regali a scelta, come orologi, borsette, capi d’abbigliamento, ecc.26. Ma il sistema viene largamente usato soprattutto dalla piccola e media industria e dagli stessi commercianti al dettaglio, nonché da tutta una serie di altre industrie di beni di consumo, da quelle di saponi e cosmetici a quelle delle sigarette o dei fiammiferi. La stessa Perugina organizza nell’estate del 1932 un suo proprio concorso intitolato alla Crociera aerea con cui si celebra il decennale della “marcia su Roma”27. L’atteggiamento delle autorità, d’altro canto, appare incerto e non privo di ambiguità. Da un lato, infatti, sono da registrare sulla stampa tutta una serie di prese di posizione in linea con la legge del 1929, che stigmatizzano il sistema delle vendite con regalo come “taglieggiamento dei consumatori”, “subdola concorrenza”, “artificioso accaparramento del consumatore” o che, richiamandosi direttamente al corporativismo, affermano che in una nazione quale la nostra [...], non sono ammissibili quelle forme di dilaniante lotta interna, i cui fini si rivelano nettamente in contrasto con un postulato basilare dell’ordinamento corporativo: la collaborazione delle forze produttrici. – Per concludere poi – È da invocarsi un provvedimento che distrugga una delle più sfacciate [...] mascherate piattaforme erette dalla acrobazia commerciale-industriale sino ed oltre le leggi: il sistema dei premi e dei regali. Provvedimento che, per il suo spirito, se non altro servirà a distogliere, verso più ampi orizzonti, molti sguardi, volutamente miopi, fissi su formule da tempo sorpassate28.

In un ambito più riservato al contrario, le autorità non oppongono alcuna resistenza alla diffusione della pubblicità premio. Ad una richiesta di chiarimenti in materia da parte della Perugina, allorché questa si prepara al 26 27 28

Ancora della réclame-regalo, ivi, VII, 77 (giugno 1932), p. 239. ASBP, Sezione Pubblicità, Fondo Concorsi, fasc. 1, Concorso Perugina Crociera Aerea del Decennale. N. Mazza, I premi e i regali alla clientela da un punto di vista economico, in “Il Dolce”, VIII, 87 (maggio 1933), pp. 130-140. Si vedano anche Ancora della réclame-premio, ivi, VII, 77 (giugno 1932), p. 239; Ancora dei regali premio, ivi, VIII, 85 (marzo 1933), pp. 85-86 e La questione dei regali premio in Germania, ivi, V, 53 (luglio 1930), p. 177. La campagna contro la pubblicità a premio viene per altro aperta sul “Il Sole” del 25 luglio 1931.

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lancio del concorso del decennale, la Confindustria risponde che “il Ministero delle corporazioni [...] ha ritenuto che fare dei doni in aggiunta alla merce venduta rientra perfettamente nei diritti di ogni commerciante”29. Ed effettivamente l’azienda umbra riceve regolare autorizzazioni tanto dal Ministero delle finanze che da quello delle corporazioni e da quello dell’aeronautica30. Il 24 novembre 1932, la Divisione del lotto del Ministero delle finanze emette una circolare in cui si parla di “un temperamento nella interpretazione” della legge sui concorsi-premio del 1929 “nel senso che dovrebbero poter essere ritenuti e dichiarati vietati soltanto [quelli] […] nei quali l’aggiudicazione è dovuta a puro gioco della sorte”. Altrettanto ondivago è l’atteggiamento della Federdolce, che inizialmente appoggia i nuovi metodi di vendita e successivamente, al pari delle varie associazioni industriali, cerca una regolamentazione che ponga un freno all’acutizzarsi della concorrenza esasperata – lo si è visto a proposito della legge suo cioccolato – indotta dalla crisi. Nel luglio del 1933, dopo vari interventi parziali, essa giunge a promuovere un accordo federale “contro le vendite effettuate con contemporaneo regalo di merce”, sulla base di una bozza preparata dai dirigenti delle principali industrie del settore, Baratti & Milano, Perugina, Nestlé, Suchard, Venchi, Unica (all’epoca controllata ancora dall’Iri), Saiwa, Wamar e Lazzaroni, in pratica la rappresentanza della media – in mancanza oramai della grande – impresa che tenta di gestire gli equilibri del comparto. All’articolo 1 il documento parla di astensione da ogni forma di vendita che includa o comprenda il regalo di merce [...] fatta eccezione dei regali al pubblico collegati alla raccolta di almeno venticinque figurine o venticinque tagliandi31. Non a caso alla clausola, piuttosto bizantina, è strettamente subordinata l’adesione della Perugina, ancora impegnata nel concorso della Crociera del decennale. Su di essa, che limita ovviamente in modo rilevante il significato dell’accordo, si apre nel dicembre successivo una prima accesa disputa tra l’impresa umbra e la Federazione, che propone un inasprimento della normativa32. Tali intendimenti hanno tuttavia uno scarso seguito, poiché i concorsi-premio continuano a moltiplicarsi, già prima del boom legato a quello de “I Quattro Moschettieri”, mentre per contro l’ostilità

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ASBP, FP, DGAD, b.15, fasc. 103 “Controversia Figurine”, cc. 8 ss. Il carteggio risale al febbraio 1931. Ivi, cc. 44 sgg. Cfr. il Verbale della XXV seduta del Consiglio (della Federdolce), bozze di stampa della riunione del 29 luglio 1933, in ASBP, FP, DGAD, b. 15, fasc. 103 “Controversia figurine”, cc. 29-32. Ivi, cc. 49-53, lettera di Buitoni alla Federazione, del 18 dicembre 1933.

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delle organizzazioni di categoria continua ad accrescersi. Ancora nel gennaio 1935 la Confederazione del commercio attacca duramente i sistemi di vendita a premio e all’inizio del 1936 l’associazione dei fabbricanti di creme e lucidi ottiene che il proprio accordo sindacale abbia valore legale33. Tutta questa serie di posizioni sulla pubblicità-premio, per lo più di rifiuto e dettate ora da interessi monopolistici, ora da preoccupazioni di austerità autarchico-corporativa ovvero, più semplicemente, di natura fiscale, lungi dal fare chiarezza, non impediscono che un tale sistema di commercializzazione proliferi sempre più. Nella tarda primavera del 1935, alla vigilia del lancio del concorso dei “Moschettieri”, un perito della Corte d’appello di Milano, descrive bene questa situazione di generale confusione34: ci sono lampanti esempi di concorsi pubblicitari che si sono potuto svolgere e si svolgono quotidianamente, con pieno successo per chi li indice e con esonero da qualsiasi sanzione [...]. Citiamo solo [alcuni] [...] casi fra gli innumerevoli, perché sono di attualità e stanno svolgendosi con il massimo clamore possibile attraverso i maggiori organi di diffusione quali i giornali e la radio [...]. Tutta questa materia è ancora sprovvista di una regolamentazione di pratica applicazione, e tale da servire di precisa, chiara e non opinabile norma sia all’autorità amministrativa e giudiziaria, sia agli utenti della pubblicità, sia, infine ai consulenti di questa materia.

È questa la situazione in cui, l’1 luglio 1935, prende il via il concorso della Perugina. Non si tratta, si è detto, della prima iniziativa del genere per l’azienda: tre anni prima essa ha lanciato il concorso della “Crociera aerea del decennale”, nel 1933-1935 i “Premi Fedeltà”, il “Radiosacchetto Perugina” e il “Radio-Caramel Perugina”, pure legati a trasmissioni sponsorizzate dall’azienda. Il concorso dei “Moschettieri” non ha inizialmente alcuna ufficiale autorizzazione da parte governativa, che del resto non è prevista dalla normativa. Dal punto di vista legale esso fa riferimento alle disposizioni ministeriali del novembre 1932 e ai sondaggi presso il Ministero delle finanze e quello delle corporazioni compiuti dalla ditta in occasione delle precedenti iniziative. Nondimeno sarebbe presto giunta anche un’autorizzazione ufficiale, sia pure per via indiretta. L’1 gennaio 1936, infatti, l’amministrazione dei Monopoli di Stato dà esplicitamente facoltà alle Manifatture ta-

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La Confederazione del commercio contro i Regali Premi, in “Il Dolce”, X, 107 (gennaio 1935), p. 5 e La vendita con i “premi-regalo” cit. (a nota 24), p. 13. G.C. Ricciardi, L’articolo 68 della legge sul Lotto e la pubblicità, “Il Dolce”, X, 112, (giugno 1935), pp. 191-193.

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bacchi di Zara, associatesi nel frattempo al concorso Perugina, di inserire nelle confezioni delle proprie sigarette le figurine disegnate da Bioletto35. Su queste basi il concorso si svolge senza particolari difficoltà, ed anzi, si è visto, con un crescente successo del pubblico almeno fino alla metà del 1936. Per effetto della fortunata campagna pubblicitaria le vendite della Perugina in Italia salgono nel 1936 a più del doppio di quelle dell’anno precedente e sono, a prezzi correnti, tre volte superiori rispetto a quelle del momento più acuto della crisi, nel 1934. L’andamento delle quantità vendute mensilmente mostra che tale incremento è frutto di un’accelerazione relativamente lenta e che solo dalla tarda primavera del 1936 la crescita assume un ritmo molto sostenuto, priva di attenuazioni negli stessi mesi estivi, nonostante la tradizionale stagionalità del consumo di cioccolato. Questo trend culmina poi nel dicembre di quell’anno, quando vengono venduti 10.155 quintali di merce, cioè 74 in più di quelli dell’intero 1935. Livelli simili, tenendo conto però delle variazioni stagionali, si protraggono fino ai primi annunci di una possibile interruzione dell’iniziativa pubblicitaria da parte delle autorità, nel maggio-giugno del 1937. Ripercussioni analoghe il concorso ha sull’occupazione: nel biennio 1935-1936 la media annuale degli operai di Fontivegge aumenta del 45%, ma le variazioni mensili sono in realtà molto più sostenute, dal momento che la Perugina in certi momenti giunge a sfiorare i 2.000 dipendenti36. D’altra parte, l’impennata delle vendite crea notevoli problemi all’azienda dal punto di vista strettamente tecnico-produttivo, portando gli impianti al loro limite massimo di utilizzazione e mettendo a dura prova il sistema di organizzazione messo a punto sette anni prima. Tanto più che la direzione aziendale decide alla fine del 1936 di non procedere, almeno per il breve periodo, ad ampliamenti della capacità produttiva37, operando una scelta significativa sia riguardo ai dubbi che sussistono circa un consolidamento dei successi ottenuti sul piano commerciale, sia delle difficoltà che sin dall’inizio si percepiscono in ambito amministrativo e nei rapporti con la concorrenza. Gli investimenti in nuove attrezzature, che pure vengono in certa misura realizzati, riguardarono così piuttosto l’ammodernamento

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Memoria nell’interesse delle società anonime Gio. & f.lli Buitoni. Sansepolcro-Perugia, e Perugina cioccolato e confetture. Perugia, presentata il 20 novembre 1938 alla IV Sezione del Consiglio di Stato, in ASBP, FP, DGAD, b. 37, fasc. 338 “Memoria nell’interesse delle società anonime Gio. & f.lli Buitoni. Sansepolcro-Perugia, e Perugina cioccolato e confetture. Perugia, presentata il 20 novembre 1938 alla IV Sezione del Consiglio di Stato”. Cfr. ASBdI, Csvi, u.a. 14, cit., c. 2339. ASLB, Libro Verbali assemblee generali Perugina cioccolato e confetture S.a., registro n. 2 dal 5 aprile 1935 al 31 maggio 1944, assemblea generale straordinaria del 7 dicembre 1936.

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qualitativo del parco-macchine ed il miglioramento delle rete di negozi. La pressione a cui vengono sottoposti gli impianti, inoltre, finisce col riflettersi sulla stessa qualità del prodotto finale, che risente dell’aumentata velocità delle lavorazioni e del ricorso a personale non sufficientemente esperto. Una relazione conservata del Consorzio sovvenzioni valori industriali del 193838 al riguardo sottolinea: va messo anche in evidenza che la società, nel suddetto periodo di maggior lavoro, per effetto delle incalzanti commissioni, non fu più in grado di mantenere la qualità e la confezione dei suoi prodotti all’altezza di quella fama conquistatasi in tanti anni di lavoro. Infatti dovette ricorrere a maestranze improvvisate ed inesperte per lavorare a tre turni; ridurre a poche ore la lavorazione del cacao, che esige invece dai tre ai quattro giorni di trattamento, adattarsi a lavorare qualsiasi qualità, anche scadente, di cacao trovato sul mercato, avendo esaurito quello assegnatole in contingentamento; tutte cause queste che si ritiene abbiano accentuato la contrazione verificatasi nelle vendite in seguito alla cessazione del concorso. È evidente che lo scopo prefissosi di diffondere il prodotto è stato in parte frustrato dal peggioramento dello stesso che veniva ormai acquistato quasi unicamente per l’allettamento dei vistosi premi.

Ai problemi di approvvigionamento del cacao si fa fronte col già ricordato accordo col Ministero per gli scambi e le valute, stipulato appunto la prima volta tra fine del 1936 e l’inizio del 1937. Forti incrementi si verificano poi anche nel consumo di zucchero, che passa dai 4.573 quintali del 1935, agli 11.071 del 1936, e ancora ai 4.142 dei primi quattro mesi del 1937, dati questi largamente utilizzati da Buitoni per mostrare i guadagni derivanti all’erario dallo sviluppo della produzione dolciaria39. Se si guarda ai bilanci, poi, il 1936 fa registrare oltre un milione di lire di utili, destinati per più della metà agli ammortamenti, anche per recuperare quelli incompleti degli anni precedenti, e per un terzo circa alle azioni, che ottengono un dividendo del 6%. Non si può nascondere tuttavia che nonostante difficoltà e dubbi, il successo della iniziativa pubblicitaria per qualche tempo apre prospettive nuove per la Perugina, facendo balenare la possibilità di un significativo salto in avanti rispetto alle dimensioni di media impresa che l’azienda continua ad avere in quegli anni. La cautela riguardo a nuovi investimenti produttivi testimonia di come gli stessi vertici aziendali siano consapevoli dell’incertezza di un tale esito. Lo stesso aumento di capitale da 6 a 9 milioni deliberato dall’assemblea generale straordinaria del 7 dicembre 1936 ed in larga misura finalizzato ad adeguare il circolante dell’azienda al nuovo volume d’affari, si presenta come un’operazione

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ASBdI, Csvi, u.a.14 cit., cc. 2347-2348. ASBP, FP, DGAD, b. 15, fasc. 103 “Controversia figurine”, c. 77.

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non semplice. I contatti con “gruppi nazionali” e il prospettato trasferimento di sede a Roma o a Milano che tali rapporti richiederebbero, al pari per altro della stessa – già deliberata – nuova emissione azionaria, rimarranno in ogni caso lettera morta per via dell’interruzione del concorso nell’estate-autunno 1937. L’impressione, insomma, è che il successo della campagna promozionale, con l’impennata delle vendite che lo accompagna, sorprenda in qualche misura la stessa azienda e apra tutta una serie di problemi che la sua breve durata, per converso, non consente di risolvere. La stessa immagine della Perugina finisce con l’essere ingigantita dall’exploit pubblicitario al di là della sua reale consistenza commerciale e produttiva. Anche nel 1936, del resto, pur conseguendo il notevolissimo risultato di raddoppiare le proprie vendite, l’azienda umbra non giunge a sovvertire gli equilibri del settore. Nel comparto del cioccolato, ove in termini di quantità realizza il 5060% della sua produzione, l’impresa passa dai 5-6.000 quintali degli anni 1933-1935 a poco più di 13.700, che tuttavia non superano una quota del 10%-15% della produzione italiana40. Più in generale va tenuto presente che a fronte dei quasi 25.000 quintali di articoli lavorati a Fontivegge nel 1936, la Venchi-Unica non scende mai, anche negli anni peggiori della crisi, al di sotto dei 60.000 quintali di prodotto, fatto questo del resto abbastanza naturale per una società con un capitale che rimane, anche dopo la severa svalutazione del 1931, sei volte superiore a quello dell’azienda umbra. Nondimeno, al di là di tutte queste difficoltà e degli stessi risultati produttivi cui dà luogo sul piano strettamente quantitativo, il concorso dei moschettieri ha evidentemente riflessi molto rilevanti e duraturi sull’immagine della Perugina, sulla notorietà e sull’affermazione del suo marchio. Esso, inoltre, costituisce un grande successo di mercato, che finisce col travalicare la stessa dimensione puramente commerciale per diventare

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Per il resto, la produzione della Perugina si compone di un 20%-30% di prodotti a base di zucchero (caramelle), di un 5%-10% di confetti e di un 10%-15% di cacao in polvere (ASBdI, Csvi, u.a.14 cit., c. 2339). Le stime della produzione nazionale di cioccolato (e prodotti a base di cacao) negli anni trenta sono molto approssimative, ed oscillano tra i 70.000 quintali (più 20.000 di cacao in polvere) dei primi anni del decennio, i 140.000 del 1937 (più 25.000 di cacao in polvere) e i 180.000 del 1939 (incluso in questo caso il cacao). È probabile, per altro, che nel 1936 la produzione sia piuttosto inferiore a quella dell’anno successivo. Cfr. al riguardo ASBP, FP, DGAD, b. 17, fasc. 120 “Federazione nazionale dolciaria”, cc. 90-93, Relazione di Giovanni Buitoni e Carlo Lazzaroni, portavoce della Federdolce, a Mussolini del luglio 1932; Roberto Tremelloni, Il dolce nell’economia italiana, in “L’industria dolciaria”, V, 3 (maggio-giugno 1940), pp. 192199. Negli anni Quaranta, si stima attorno a 200.000 quintali la produzione di generi a base di cacao del decennio precedente (A. Valeri, Problemi e prospettive dell’industria dolciaria italiana, in “L’industria”, 1948, 1, pp. 14-27).

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un fenomeno di costume e provocare quanto meno un’incrinatura del rigido controllo sui consumi imposto dall’autarchia. Sarà proprio questo elemento, il fatto cioè di mal accordarsi col clima di mobilitazione nazionale voluto dal regime in quegli anni, unitamente alle pressioni della concorrenza (agevolate per altro dall’assetto oligopolistico delle istituzioni corporative), ad essere fatale all’iniziativa e a provocarne la chiusura. Al di là della retorica di circostanza, Giovanni Buitoni sembra almeno in parte essere consapevole del rilievo più generale assunto dal concorso quando il 20 maggio 1937 all’assemblea degli azionisti della Perugina afferma che la Vostra Società ha inteso quindi non di mettere in atto un’abile trovata per far denari, ma di sviluppare la geniale forma di propaganda destinata ad infrangere alla fine “il fronte dell’indifferenza” che la crisi aveva formato un po’ contro tutte le industri in genere e che era particolarmente resistente contro le industrie del dolce, la cui vitale importanza, sotto moltissimi punti di vista era ben lungi dall’essere stata compresa in Italia.

VI.3. La chiusura del concorso Gli ostacoli per il concorso de “I Quattro Moschettieri”, del resto, cominciano ad emergere dalla metà del 1936, poco dopo cioè che ha preso il via la fase di maggiore incremento delle vendite dell’azienda umbra. Già il 18 agosto infatti la Guardia di finanza di Perugia notifica all’impresa una diffida del Ministero a sospendere la campagna pubblicitaria, giudicata illegale almeno per quello che concerne la raccolta delle collezioni complete basata sul meccanismo delle “figurine chiave”41. L’episodio sul momento si risolve positivamente con la tacita revoca della diffida in seguito all’intervento dello stesso Buitoni, che si appella alle precedenti circolari ministeriali e alle autorizzazioni, sia pure indirette, ottenute dall’azienda. La vicenda tuttavia un seguito, poiché poco più di un mese dopo, il 25 settembre 1936, il Ministero delle finanze chiede alla Federzucchero un parere sugli effetti della pubblicità-premio nel settore dolciario. L’associazione di categoria, o meglio la sua componente afferente al settore dolciario, svolge anzitutto una indagine informativa nelle province “industrialmente più importanti”, escludendo tuttavia quella di Perugia. Attorno alla metà di ottobre il direttivo nazionale del sindacato risponde al Ministero di aver “all’unanimità […] fatto proprio il parere del Sindacato provinciale di Torino, che meglio riassume tutti gli altri, nel senso del rigetto di

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ASBP, FP, DGAD, b. 18, fasc. 127 “Concorso figurine”, cc. 6-7.

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qualunque forma di pubblicità a premio”42. Merita di essere sottolineato che cinque degli otto partecipanti alla riunione sono appunto dirigenti di fabbriche dolciarie torinesi: in particolare Matteo Ceirano (Baratti & Milano), Giovanni Dovi (Streglio), Arturo Cocchi (Stratta), Alfonso Marchisio (Wamar) e soprattutto Gerardo Gobbi, amministratore della Venchi-Unica e presidente del direttivo. Ad essi si aggiungono poi Paolo Nino Francioli della Nestlé-PCK di Intra, Carlo Lazzaroni e Achille Levi della Soc. Italiana di Milano. Buitoni, che in quel periodo si trova in Francia, reagisce immediatamente, accusando esplicitamente la Federzucchero di farsi interprete del “tentativo (delle) industrie concorrenti [...] di stroncare [...] la felice iniziativa della Perugina” e facendo pressioni sullo stesso Thaon de Revel perché non segua le indicazioni dell’associazione di categoria43. L’azione dell’imprenditore umbro si accompagna a quelle di altre importanti società di generi di consumo, quali la Cinzano, ed è momentaneamente coronata dal successo, anche se deve comunque accettare di apportare variazioni al concorso, escludendo per il futuro i premi di maggiore entità e riducendo il peso delle figurine rare44. Tutta la questione subisce in ogni caso un’ulteriore dilazione, venendo rimandata ad un più articolato intervento legislativo. La campagna pubblicitaria, dal canto suo, non risente particolarmente di queste vicende, facendo anzi registrare, nel dicembre del 1936, il grande successo di vendita della Perugina cui si è accennato e confermando così i timori esternati dalla concorrenza in ottobre. D’altra parte il confronto della ditta umbra con le avversarie nazionali si fa ulteriormente più serrato nei primi giorni del 1937, allorché Buitoni decide di non avvalersi della deroga al blocco dei prezzi concessa dal regime e lascia invariato il listino in vigore quattro mesi prima – cioè precedentemente alla svalutazione dell’ottobre 1936 in seguito alla quale vengono prese le misure di controllo dei prezzi45. Una simile linea di condotta

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Ivi, b. 29, fasc. 247 “I Quattro moschettieri”, cc. 110-111, lettera della Federzucchero al Ministero delle finanze del 21 ottobre 1936. Ivi, b. 21, fasc. 167 “Figurine copie lettere scritte a Roma”, cc. 7-14 e b. 29, fasc. 247 “I Quattro moschettieri”, cc. 141-143 e 185. Sulla complessa partita giocatasi tra il Ministero e varie grandi società, tra cui appunto Cinzano, ma anche Motta, Campari e Branca, attorno alla gestione dei concorsi a premi si vedano le considerazioni di Dino Villani, allora responsabile della pubblicità Motta, riportate da Gian Paolo Ceserani, Storia della pubblicità in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 141, secondo cui l’imposizione del Ministero delle finanze, preoccupato anche della concorrenza che i concorsi fanno al lotto, di ridurre i premi provoca un forte indebolimento dell’effetto promozionale di tali iniziative. ASBP, FP, DGAD, b. 21, fasc. 164 “Controversia figurine Moschettieri”, c. 91; sulla politica di controllo dei prezzi si veda Gianni Toniolo, L’economia dell’Italia fascista, Laterza, Bari, 1980, p. 295.

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viene poi riconfermata quando, in aprile, i prezzi vengono del tutto liberalizzati e la Perugina limita le sue variazioni di listino a rialzi molto contenuti. Nel frattempo, il 25 marzo 1937, viene varato il regio decreto n. 540, specificatamente dedicato alla “disciplina dei concorsi a premi”. Il testo della legge non è vieta iniziative quali quelle de “I Quattro Moschettieri”, pur prescrivendo che i concorsi-premio debbano ricevere un’esplicita autorizzazione da parte del “Ministero delle finanze previo concerto col Ministero delle corporazioni al quale spetta di pronunciarsi esclusivamente circa l’opportunità della concessione nei riguardi della produzione e del commercio nazionale” (artt. 1 e 6). Subordinatamente a ciò, il decreto autorizza concorsi a premio “quando siano effettuati mediante sorteggio o con qualsiasi altro sistema, in cui l’assegnazione del premio si faccia dipendere in tutto o in parte dalla sorte”, sottoponendoli ad una tassa di lotteria pari all’8% del valore del monte premi (art. 2). L’impressione diffusa è che il provvedimento, pur prevedendo un’autorizzazione e una tassazione, sostanzialmente legittimi la pubblicità-premio nella sua forma dei concorsi, tanto che “questo decreto indusse un centinaio di società industriali a seguire l’esempio della Società in esame (la Perugina appunto), con imitazioni che il più delle volte si rivelarono fraudolente”46. Ciò naturalmente non gioca a favore dell’iniziativa della Perugina, il cui aspetto più negativo agli occhi del governo è, al di là dell’aumento dei consumi di cioccolato, proprio quello relativo alla moda collettiva e al clima consumistico che il concorso ha instaurato nel pieno della campagna autarchica. Non a caso, l’editoriale de “L’industria dolciaria” dell’aprile 1937 parla della pubblicità a premio come di un “sistema in sé già condannato”47, manifestando per la prima volta pubblicamente l’”opinione recisamente contraria” della Federzucchero a questo tipo di iniziative promozionali. L’articolo tra l’altro, piuttosto ambiguamente nei confronti della Perugina, afferma: Parrà strano a qualcuno che la nostra rivista abbia aspettato tanto ad esprimere una sua opinione su questo importantissimo argomento, tanto più strano in quanto è stata

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ASBP, FP, DGAD, b. 37, fasc. 338 “Memoria nell’interesse delle società anonime Gio. & f.lli Buitoni. Sansepolcro-Perugia, e Perugina cioccolato e confetture. Perugia, presentata il 20 novembre 1938 alla IV Sezione del Consiglio di Stato, in cui si aggiunge che sorsero “così perfino concorsi di 15 o 20 ditte, le quali, pensando di poter affidare alle figurine la diffusione dei prodotti più disparati (dalle lame di rasoio agli aperitivi allo spumante alle cartine purgative), si organizzarono, senza che nessuna azienda desse il nome a tali concorsi […] vere e proprie ‘anonime figurine irresponsabili’”. Simili circostanze trovano conferma in ASBdI, Csvi, u.a. 14, cit., c. 2346. Pubblicità a premio, in “L’industria dolciaria”, II, 4 (aprile 1937), pp. 96-100.

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proprio l’industria dolciaria ad instaurare e a mantenere questa nuova, o meglio ringiovanita forma di pubblicità; ma il motivo del ritardo è [che] [...] abbiamo voluto di proposito lasciare che il fenomeno dilagasse in tutte le sue forme e le sue degenerazioni; abbiamo voluto osservare le reazioni dei consumatori [...]; e se oggi ci facciamo avanti a dire la nostra parola [è...] per difendere la buona fama dell’industria e gli interessi di quegli industriali che [...] non dovrebbero veder[si] stroncare (costosi programmi di pubblicità) da un momento all’altro. [...] [Poiché], in linea generale, dal primo, clamoroso, geniale e fortunato concorso della Perugia a tutti gli altri che si sono susseguiti, per la serietà delle ditte [...] e la forma con cui sono stati lungamente studiati e congegnati, non vi è proprio nulla da ridire.

Già ai primi di maggio, mentre si stanno realizzando i regolamenti attuativi della legge del 25 marzo, Buitoni invia un memoriale al Ministero delle finanze48, in cui si illustrano, oltre alla vasta diffusione delle vendite a premio nei paesi occidentali, i vantaggi che esse presentano per l’erario e per il consumatore e si propongono suggerimenti in materia di tassazione e garanzie per il pubblico. Di lì a breve, tuttavia, vengono rese note alcune direttive transitorie del Ministero che fanno esplicito “divieto [...] dell’uso di elementi chiave (figurine chiave) e conseguente obbligo della messa in distribuzione di figurine o buoni aventi tutti lo stesso valore ai fini della raccolta, in modo che sia decisivo [...] il numero dei buoni e non già la qualità di essi”49. La nota ministeriale vieta inoltre l’uso di concorsi per generi di largo consumo come la pasta (il che riguarda direttamente la Buitoni, associata alla campagna pubblicitaria Perugina), nonché iniziative organizzate per conto terzi e premi non proporzionati al valore delle merci, ammettendo sorteggi regolarmente controllati da notai ed assicurando un “congruo termine per lo smaltimento delle campagne già in atto”. Tali criteri vengono notificati all’azienda umbra il 23 giugno, una ventina di giorni dopo cioè che questa ha ufficialmente richiesto l’autorizzazione ministeriale per la prosecuzione delle proprie iniziative promozionali50. La risposta a quest’ultima istanza giunge infine il 2 luglio successivo e con essa l’organismo governativo comunica di non concedere il necessario permesso all’iniziativa “riscontrata in contrasto con i criteri di massima stabiliti”: Infatti – prosegue la comunicazione – nel piano dell’operazione si parla di raccolte complete per le quali è in funzione la figurina chiave. Né vale dire che 400 figurine

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ASBP, FP, DGAD, b. 19, fasc. 142 “Memorandum del dr. Giovanni Buitoni sulla pubblicità-premio”, cc. 13-19, Memoria del 7 maggio 1937. Concorsi a premi, in “L’industria dolciaria”, II, fasc. 5 (maggio 1937), pp. 133-134. ASBP, FP, DGAD, b. 18, fasc. 127 “Concorso figurine”, cc. 10-11 e b. 27, fasc. 219 “Concorso figurine”, c. 14.

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alla rinfusa, unica forma consentita equivalgono ad un album completo perché, ammettendosi anche multipli di quattrocento, i premi non sarebbero di modesto valore [...] pertanto poiché l’operazione è già in corso, la Commissione concede tre mesi per l’espletamento di essa51.

Il colpo per l’impresa è durissimo: la notizia, rapidamente trapelata sulla stampa, provoca un primo brusco crollo delle vendite, mentre i collezionisti cominciano ad intensificare gli scambi, facendo affluire all’azienda una crescente quantità di album. Immediatamente dopo la notificazione ministeriale, Buitoni avvia dal canto suo una vasta corrispondenza nel tentativo di mobilitare tutte le sue conoscenze e ottenere una revisione della decisione ministeriale o quanto meno una dilazione nei termini di liquidazione del concorso. L’industriale umbro, oltre a rivolgersi direttamente a Thaon de Revel e al ministro delle Corporazioni Latini, scrive a Bastianini, divenuto nel frattempo sottosegretario agli Esteri, al presidente dei sindacati fascisti Tullio Cianetti e a numerosi altri dirigenti di organismi statali e di partito52, illustrando le gravissime ripercussioni della decisione ministeriale per la propria azienda e avanzando delle proposte di modificazione del concorso. Queste ultime assumono una forma organica in una richiesta di compromesso inviata a Thaon de Revel il 10 luglio: la Perugina si dice disponibile ad emettere una nuova serie di figurine, contrassegnate da una barra diagonale, tutte di valore identico e inserite nei prodotti in misura strettamente proporzionale al prezzo di quest’ultimi, abolendo album – salvo la liquidazione di quelli già completati – e i premi più ricchi. Per tutta l’estate sembra che vi siano margini per un compromesso e a fine agosto Bastianini comunica a Buitoni che “la richiesta (sarebbe stata) esaminata dalla Commissione interministeriale con molta benevolenza”, mentre pochi giorni dopo l’Intendenza di finanza di Perugia concede una proroga per la chiusura del concorso alla fine di ottobre e chiede ulteriori informazioni su di un’eventuale correzione dell’iniziativa53. Ancora il 2 ottobre Buitoni scrive a Cianetti informandolo che in merito al problema della disciplina dei concorsi a premi [...] a tutt’oggi [...] nessuna novità e ritengo che con il 31 dicembre occorrerà o abbandonare definitivamente o ripiegare su di un sistema che non avrà alcuna attrattiva sulla massa dei consumatori54.

La sua è una percezione nonostante tutto ottimistica, poiché quello stesso giorno la Divisione del lotto del Ministero delle finanze emette la circolare

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Ivi, c. 18. Cfr. ivi, b. 18, fasc. 127 “Concorso figurine”; ivi, b. 27, fasc. 219 “Concorso figurine”. Ivi b. 27, fasc. 219 “Concorso figurine”, cc. 119-121. Ivi, c. 150.

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148.881 con la quale si concede alla Perugina e alla Buitoni “una tolleranza fino a tutto il mese di ottobre 1937 per l’espletamento del concorso”, indicando altresì l’obbligo di versare 32.000 lire di tasse di lotteria55. Il provvedimento, in pratica un’ingiunzione di chiusura immediata della campagna pubblicitaria, viene notificato ufficialmente solo il 17 ottobre e concede tredici giorni di termine, più altri dieci in via straordinaria per la presentazione degli album. Solo tra il 22 e il 26 di quel mese vengono recapitati alla Perugina 13.473 collezioni, che al 10 novembre risulteranno essere complessivamente 103.501. L’azienda e la sua “alleata” Buitoni impiegheranno mesi per smaltire la consegna dei premi dovuti, che, sia pure con forti dilazioni, ci si impegna comunque a distribuire56. Il 5 novembre Giovanni Buitoni tenta la via del ricorso contro il decreto del Ministero delle finanze al Consiglio di Stato, che tuttavia un mese più tardi respinge l’istanza, limitandosi a rivolgere un appello “[a]lla saggezza politica del Governo Fascista [...]” perché valuti “le conseguenze della denunciata crisi delle società ricorrenti, in rapporto agli interessi generali, per quei temperamenti che eventualmente ritenesse opportuni”57. Il 9 novembre, infine, l’imprenditore scrive una lettera a Mussolini, non priva dei toni recriminatori che seguono58: la situazione si aggrava di giorno in giorno: l’irritazione di una vasta massa di consumatori, si concreta in un arresto quasi completo delle vendite specie per la Perugina [...]. E per la prima volta la Buitoni dopo centoundici anni e la Perugina dopo trenta di onoratissima vita industriale, dovrebbero non poter fronteggiare i propri impegni [...]. Per la Buitoni ricorderò solamente la recente creazione di un’industria francese, finanziata per la maggior parte da capitali esteri, ma da noi controllata, dove

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Ivi, b. 18, fasc. 127 “Concorso figurine”, c. 27. Ivi, c. 32; b. 27, fasc. 220 “Materiale per l’Avv. Arangio”, c. 22; b. 30, fasc. 251 “Pratica figurine. Copia lettere scritte”, c. 51 e b. 45, fasc. 410 “Varie”, c. 176, nonché DA, b. 2, fasc. 12 “Varie”, c. 93, l’assemblea generale straordinaria della Perugina del 27 maggio 1938 e quella ordinaria del 30 giugno 1938. Unitamente alle oltre 11.000 raccolte alla rinfusa, tali collezioni comportano l’erogazione di premi per quasi 7 milioni di lire, quasi il doppio di tutti quelli distribuiti dall’inizio del concorso alla primavera del 1937. La liquidazione del concorso dei Quattro Moschettieri, unitamente a quella della sua riedizione del 1938, assorbe i 3 milioni di aumento del capitale sociale deliberato nel 1937 e si protrae fino al 1941 implicando l’esborso di 6,6 milioni di lire nel 1938, 1,8 nel 1939 e 1,6 rispettivamente nei due anni successivi, coinvolgendo ovviamente tanto la Perugina che la Buitoni. Ivi, DGAD, b. 37, fasc. 338 “Memoria nell’interesse delle società anonime Gio. & f.lli Buitoni. Sansepolcro-Perugia, e Perugina cioccolato e confetture. Perugia, presentata il 20 novembre 1938 alla IV Sezione del Consiglio di Stato”. e b. 30, fasc. 251 “Pratica figurine. Copia lettere scritte”, cc. 28-31 e sgg. Ivi, b. 21, fasc. 64 “Copia lettere presidenza Buitoni”, cc. 145 e sgg.

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gli italiani comandano e dirigono ed i francesi obbediscono e lavorano [...] [La] Perugina e la Buitoni insieme quando “circa i tre quarti dell’industria italiana erano sulle braccia dello Stato” (ivi compresa 1’Unica di Torino, che annuncia ora il suo Concorso, regolarmente autorizzato, dove un milione di premi saranno assegnati secondo la sorte che si vuol condannare, mentre non c’è nel Concorso Buitoni Perugina ), affrontarono e vinsero la battaglia economica da sole e non pesarono né direttamente, né indirettamente sulla pubblica finanza [...]. Oggi, allo stato dei fatti, ritengo che solamente una proroga del Concorso nella sua forma originaria, fino al 31 dicembre 1940, potrebbe rimediare, in qualche modo, all’attuale profondo sconvolgimento, andando incontro – è la pura realtà – anche al desiderio vivissimo di centinaia di migliaia di consumatori.

Lungi dal sortire la richiesta dilazione, la lettera deve piuttosto stizzire Mussolini, che non esiterà a definire i promotori delle vendite a premio “cagliostri degli affari”. Nondimeno, Perugina e Buitoni verranno autorizzate alla fine del gennaio 1938 a realizzare il nuovo concorso “Due anni dopo”, sempre basato sulle figurine dei personaggi di Dumas, da raccogliersi tuttavia alla rinfusa e con premi di modesta entità. La nuova campagna promozionale, lanciata inizialmente nei giorni del blocco del concorso dei “Moschettieri” per evitare il rientro immediato delle collezioni, verrà comunque realizzata l’anno successivo per riaffermare la propria presenza sul mercato. È facile comprendere come l’interruzione del concorso delle figurine provochi tra l’ottobre e il novembre del 1937 danni molto gravi all’impresa e alla sua alleata Buitoni. Le vendite delle due aziende, che già subiscono una flessione da giugno-luglio, all’epoca delle decisioni governative di blocco dell’iniziativa pubblicitaria, crollano nel mese successivo al 17 ottobre dell’84% per la società dolciaria e del 48% per quella pastaria rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Per la Perugina, in particolare, la contrazione è destinata ad investire tutto il successivo periodo invernale, protraendosi fino alla primavera successiva e facendo sì, in pratica, che si debba attendere la fine del 1938 per assistere ad una ripresa59. Parallelamente, anche l’occupazione subisce una riduzione. Nel mese successivo all’interruzione del concorso l’impresa vede scendere la sua forza lavoro complessiva (ivi inclusa quella avventizia e quella operante nel settore commerciale) da 1.665 a 1.387 addetti (-16%) mentre la Buitoni di Sansepolcro da 1.404 a 1.158 (-18%), il pastificio di Roma da 279 a 231 (-17%) e il Poligrafico da 395 a 325 (-18%)60. Alla Perugina, tuttavia, la contrazione è

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ASBP, FP, DGAD, b. 30, fasc., 251 “Pratica figurine. Copia lettere scritte”, c. 44. Solo il pastificio di Perugia (con 43 addetti) e, ovviamente, la Buitoni France (che passa da 309 a 315 impiegati) restano indenni. Per questi dati cfr., ivi, b. 18, fasc. 127 “Concorso figurine”, c. 98. Complessivamente gli occupati del gruppo passano da 4.095 a 3.469.

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destinata a interessare fino al 30% del personale durante il 1938, allorché la spesa per salari si riduce del 27% rispetto all’anno precedente e le giornate lavorative a 232. Problemi ancora maggiori sono rappresentati dalla liquidazione dei premi, che si protraggono fino al 1941 e a cui, tra l’altro, l’impresa deve devolvere i fondi accantonati per l’aumento di capitale previsto per il 19371938. A tali oneri si aggiunge il rifiuto di appoggio finanziario opposto alle due società “alleate” dalla Banca d’Italia61: Nel marzo del 1938, le aziende Buitoni hanno chiesto un finanziamento di due milioni, ma non è stato loro concesso, non tanto per considerazioni puramente economiche, quanto perché la Perugina era ancora in lite col Ministero delle finanze.

I contraccolpi delle vicende del 1937, che pure in certi momenti sembrano mettere in discussione la sopravvivenza stessa delle due aziende, vengono infine superati e dal marzo-aprile del 1938 la situazione comincia a stabilizzarsi. Dopo l’estate si hanno chiari sintomi di ripresa, mentre dal 1939 tutti gli indicatori cominciano nuovamente a salire. Nella relazione di presentazione del bilancio del 31 marzo 1939 Giovanni Buitoni, oltre a fornire dati rassicuranti sulla liquidazione dei premi, può già vantare la distribuzione di dividenti alle azioni del 6%. Nel triennio 1939-1941 la Perugina recupera buona parte della quota di mercato italiano perduta nel 1938, partecipando, sia pure con un certo ritardo, alla ripresa generale che l’economia italiana fa registrare nello scorcio degli anni trenta. Nel maggio 1939, in pratica non appena le due aziende “alleate” mostrano di essersi completamente riprese, Giovanni Buitoni parte per gli Stati Uniti. In quello stesso 1939 più di un quinto della merce prodotta a Fontivegge viene esportata e in generale la Perugina intensifica al massimo il suo impegno a imporsi sul piano internazionale, mentre parallelamente la Buitoni comincia a vedere i primi risultati positivi degli sforzi fatti attorno allo stabilimento di St.-Maur des Fossés. La strategia delle due aziende, insomma, fatto salvo il radicamento nel consumo voluttuario delle classi medie – l’unico ambito di mercato per loro agibile in Italia –, si orienta ormai verso il riferimento agli sbocchi esteri, primo fra tutti quello statunitense, l’affermazione nel quale rappresenta la scommessa a cui Giovanni Buitoni dedicherà il resto della sua vicenda imprenditoriale.

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ASBdI, Csvi, u.a. 14, cit., c. 2273.

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Capitolo VII Dalla guerra agli anni cinquanta

Capitolo VII

Dalla guerra agli anni cinquanta

VII.1. Crisi e ripresa. Il ruolo strategico delle esportazioni tra anni trenta e quaranta Tra le due guerre, in una situazione stagnante dell’economia della città e della provincia, la Perugina si configura – come del resto l’insieme del gruppo Buitoni – come un’azienda dinamica che non riesce tuttavia – per i vincoli imposti dalla politica del regime e da una congiuntura internazionale segnata dalla crisi – ad affermare pienamente tutte le sue potenzialità. Si sono già ricordate le difficoltà derivanti dalla brusca conclusione, frutto delle proteste dei concorrenti e delle misure prese dal Ministero delle finanze, del concorso “I Quattro moschettieri”. Le ripercussioni si fecero sentire, pour cause, soprattutto per quanto riguardava la Perugina, per il suo carattere di impresa produttrice di un prodotto considerato di lusso e da regalo e, quindi, costoso1. Ciò nonostante, la caduta riguarda soprattutto il 1938, quando si ha una forte contrazione delle vendite. Considerando pari a 100 il 1929, quest’ultime, che erano scese sul mercato interno a 77 nel 1934, erano raddoppiate nel 1936, flettendo a 142 nel 1937 per arrivare nel 1938 a quota 812. La situazione mostrava tutta la sua criticità

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“Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, contributi di Renato Covino, Paola Boschi e Daniele Orlandi, Electa Editori umbri associati, 1990, pp. 94-96; ASBP, FP, DGAD, b. 18, fasc. 127 “Concorso figurine”, cc. 1-6 e c. 98; ivi, b. 29, fasc. 247 “I 4 moschettieri”, cc. 110-111, cc. 141-143 e 185; ivi, b. 19, fasc. 142 “Memorandum del dr. Giovanni Buitoni sulla pubblicità premo”, cc. 13-19; ivi, b. 21, fasc. 167 “Figurine copie lettere scritte a Roma”, cc. 7-14; ivi, b. 37, fasc. 338 “Vittorio Arrangio-Ruiz, Memoria nell’interesse delle società anonime Gio & f.lli Buitoni. Sansepolcro-Perugina, e Perugina-Cioccolato e Confetture. Perugia, presentata alla IV Sezione del Consiglio di Stato il 20 novembre 1938, Perugia, s.d. [1938]”; I concorsi delle figurine e un ricorso al Consiglio di Stato, in “La Nazione”, a. LXXIX, n. 293, 9 dicembre 1937, p. 2; Concorsi a premio, in “L’industria dolciaria”, n. 5, II, maggio 1937, pp. 133-134; Pubblicità a premio, in “L’industria dolciaria”, a. 2, n. 4, aprile 1937, pp. 97-100. Giampaolo Gallo, Dagli esordi alla seconda guerra mondiale, in “Sulla bocca di tutti” cit. (a nota 1), Tabella sull’andamento delle vendite Buitoni Perugina 1934-1938, p. 26 e Tabella sull’andamento delle vendite Perugina 1938-1943, p. 30; Vedi pure: ASBP, FP, Direzione tecnica (DT), b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”.

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in quanto erano stati realizzati notevoli immobilizzi tecnici per rispondere al boom crescente delle vendite3. L’occupazione media su base annuale che aveva subito una evoluzione in ascesa, salendo dai 495 addetti del 1934 agli 842 del 1937 nel 1938 scenderà a 513 unità4. Il pagamento peraltro, dei premi, che continuerà fino al 1941, raggiungerà gli 11.639.778,04 lire5. In realtà, quella che sembra essere una situazione destinata a provocare il tracollo dell’azienda si configura piuttosto, come una congiuntura sfavorevole, ma niente affatto irrimediabile. Rapidamente gli indici tendono a salire verso l’alto, pur non raggiungendo i livelli del 1936-1937. Facendo ancora 100 il 1929, l’indice delle vendite raggiungerà 133 nel 1939, 134 nel 1940, ancora nel 1941 sarà pari a 116 e solo nel 1942 vedrà un tracollo raggiungendo 616. Anche l’occupazione vede una significativa crescita. Nel 1939 gli addetti raggiungeranno infatti i 6667 e ancora nel 1941 saranno 6158. La caduta del 1942 è dovuta, come vedremo, alle difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, soprattutto del cacao, che è legata all’andamento della guerra che rappresenta anch’essa un elemento congiunturale9. Quello che vale la pena evidenziare sono invece due dati destinati a diventare strutturali. Il primo è la capacità di penetrazione nel mercato nazionale, che avviene soprattutto a discapito delle aziende concorrenti, frutto della grande esposizione pubblicitaria realizzatasi nel periodo 1935-193710. Il secondo è rappresentato dalla proiezione nel mercato estero che, fino a quando la guerra non interromperà gli scambi, farà della Perugina l’impresa cioccolatiera italiana con maggiore capacità di esportazione. Sempre prendendo come base il 1929, nel 1939 le esportazioni

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ASBP, FP, DGAD, b. 18, fasc. 127 “Concorso figurine”; ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e Confetture S.p.a., elaborazione dati bilanci anni 1936-1938. ASBP, FP, DP, b. 1, fasc. 4 “Statistica salari operai dal 1925 al 1955”. Ibidem; ivi, DGAD, b. 18, fasc. 127 “Concorso figurine”; ivi, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”. Ivi, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”; Gallo, Dagli esordi alla seconda guerra mondiale cit. (a nota 2), p. 30. ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”; ivi, DP, b. 1, fasc. 4 “Statistica salari operai dal 1925 al 1955”. ASBP, FP, DP, b. 1, fasc. 4 “Statistica salari operai dal 1925 al 1955”. ASP, Prefettura di Perugia, Gabinetto, b. 90, fasc. 3 “Relazione mensile politico-economica della provincia, 1938-1941”. Vedi pure: ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”; ivi, DGAD, b. 51, fasc. 466 “Federzucchero dall’1 gennaio 1944 al 31 dicembre 1949”. Ivi, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”; Renato Covino, La Perugina: crescita e declino di un’impresa dolciaria, in Il cioccolato. Industria, mercato e società in Italia e Svizzera (XVIII-XX sec.), a cura di Francesco Chiapparino e Roberto Romano, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 127-128.

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raggiungeranno, infatti, quota 16811. Più semplicemente mostrano la loro fecondità le scelte maturate sotto la spinta di Giovanni Buitoni – aggressività sul mercato interno e attenzione ai mercati esteri – a partire dal 193512. Sarà proprio quest’ultima scelta quella su cui l’industriale perugino si impegnerà di più dopo la sua andata negli Stati Uniti nel maggio 193913. Buitoni motiva così la sua visita: Ero giunto all’estremo limite della resistenza. Non dormivo più che con svariate pillole calmanti, non mangiavo più che pastina glutinata e verdure passate, non potevo fare un passo senza sentirmi stanco, [...]. Mi era praticamente impossibile sopportare il costante ripetersi di quei dissensi familiari, sempre più intensi , che erano stati la causa principale del mio esaurimento nervoso14.

Quasi per sottrarsi a tale clima Buitoni accetta L’invito inviatomi dalla Hershey Corp., la più grande fabbrica di cioccolato del mondo, perché assistessi alle celebrazioni del trentesimo anno della sua fondazione15.

Rapidamente quella che doveva essere una visita di piacere, che coglieva come preteso l’Esposizione mondiale di New York dove erano presenti, sia la Buitoni che la Perugina, diviene occasione per rafforzare un’intuizione strategica, già maturata con l’esperienza della Buitoni francese. Buitoni apre un negozio della Perugina nella Fifth Avenue e all’inizio del 1941 trasforma la Buitoni spaghetti Inc., creata con esponenti della comunità italiana a New York per gestire i due centri degustazione e di vendita di

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Gallo, Dagli esordi alla seconda guerra mondiale cit. (a nota 2), Tabella sull’andamento delle vendite Perugina 1938-1943, p. 30; ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”. ASBP, FP, DGAD, b. 21, fasc. 164 “Controversia figurine moschettieri”; ivi, DC, b. 2, fasc. 18 “Statistiche varie”; ivi, b. 1, fasc. 7 “Agenti e rappresentanti”; Giovanni Buitoni, Storia di un imprenditore, Milano, Longanesi, 1973, p. 75-78; Marco Buitoni e Celestina Buitoni, I proficui risultati di una piccola industria, Sansepolcro, 1970, pp. 50-51. Gallo, Dagli esordi alla seconda guerra mondiale cit. (a nota 2), Tabella sull’andamento delle vendite Perugina 1938-1943, p. 30; ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”. Vedi pure: ASBP, FB, DGAD, b. 11, fasc. 197 “Comm. Giovanni Buitoni New York”; ivi, FP, DGAD, b. 39, fasc. 358 “Cav. Armando Spagnoli, dall’1 febbraio 1939 al 31 settembre 1939"; ivi, b. 31, fasc. 273 “Cav. Armando Spagnoli, dall’1 giugno 1937 al 31 dicembre 1937"; ivi, b. 34, fasc. 308 “Cav. Armando Spagnoli, dall’1 gennaio 1938 al 31 gennaio 1939"; ivi, b. 35, fasc. 321 “L, dall’1 gennaio 1938 al 31 dicembre 1939"; Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 12), p. 87-89. Ivi, p. 87. Ibidem.

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spaghetti posti nell’area dell’Esposizione, in Buitoni Products Inc., acquistando una piccola fabbrica di pasta, la ditta Santoro, ed iniziando la produzione, mentre il negozio “la Bomboniera” si trasformerà in Perugina Inc.16. Tale visione strategica viene esplicitata in una lettera ai fratelli. Io non mi trattengo in questo paese per sviluppare una modesta cifra di affari che non potrà mai essere aumentata, né in Egitto, né in Palestina, né in Siria et similia, ma sono qui per cercare di creare uno sbocco di eccezionale importanza e tale che in pochi anni possa sorpassare di gran lunga tutto il volume delle esportazioni anche in questo ultimo anno17.

È comunque importante “non trascurare nessuno dei mercati a divisa libera” perché, come scrive Giovanni al fratello Bruno nel settembre 1939, “il fortissimo lavoro in Italia lo possiamo fare proprio ringraziando l’esportazione”18 che consente di ottenere valuta per acquistare cacao19. Questo progetto viene nei fatti boicottato dal Ministero scambi e valute italiano che nega crediti in qualsiasi forma per lo sviluppo delle imprese americane del gruppo Buitoni Perugina20. Non a caso alla fine di agosto del 1941 Giovanni Faina comunicherà a Giovanni Buitoni che: Data la situazione generale e particolare, per ragioni forse evidenti che peraltro non potremmo nemmeno esporvi, nel loro ambiente considerano “morte prima di nascere” (queste sono le testuali parole dell’Ispettore Generale) iniziative del genere da quelle da Voi iniziate […]. Pertanto non verrà mai concessa nemmeno una lira (così sempre ha affermato lo stesso funzionario) per potenziare o comunque appoggiare o semplicemente incoraggiare iniziative del genere suddetto. È quindi inutile pensare a

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ASBP, FB, DGAD, b. 11, fasc. 197 “Comm. Giovanni Buitoni New York”; ivi, FP, DGAD, b. 35, fasc. 321, “L, dall’1 gennaio 1938 al 31 dicembre 1939"; ivi, b. 41, fasc. 371 “Federale/federazione, fasci rionali, partito, ecc. dall’1 ottobre 1939 al [1943]”, Lettera di Giovanni Buitoni ai fratelli del 31 gennaio 1940; ivi, b. 42, fasc. 383 “Miscellanea Perugina e Buitoni”. Vedi pure: ISUC, AG, fasc. 409 “Buitoni USA”; Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 12), pp. 89-90. ASBP, FP, DGAD, b. 41, fasc. 371 “Federale/federazione, fasci rionali, partito, ecc. dall’1 ottobre 1939 al [1943]”, Lettera di Giovanni Buitoni ai fratelli del 31 gennaio 1940. Copia della lettera è conservata pure in ISUC, AG, fasc. 409 “Buitoni USA”. ASBP, FB, DGAD, b. 11, fasc. 197 “Comm. Giovanni Buitoni New York”, Lettera di Giovanni Buitoni a Bruno Buitoni del 12 settembre 1939. Copia della lettera è conservata pure in ISUC, AG, b. 72, fasc. 409 “Buitoni USA”. Ibidem. Ibidem; ivi, FP, DGAD, b. 41, fasc. 371 “Federale/federazione, fasci rionali, partito, ecc. dall’1 ottobre 1939 al [1943]”.

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compensazioni, fideiussioni, propaganda da pagarsi in Italia, spedizioni di merci in Italia contro incasso di controvalore costi, ecc., perché tali operazioni non verranno mai autorizzate21.

La Perugina, insomma, riesce a crescere, nonostante gli ostacoli, ma i vincoli posti dalla guerra e dalle dominanti politiche protezioniste le impediscono il decollo definitivo, la trasformazione da media azienda, sia pure affermata in Italia e nota a livello internazionale, in grande impresa del settore22. E, tuttavia, anche durante la guerra, continuano gli sforzi per un sostanziale rinnovamento dello stabilimento di Fontivegge e la diffusione della rete commerciale che raggiunge quota di 50 negozi, di cui tre stagionali, al 31 dicembre 194323. VII.2. Ridimensionamento, blocco delle produzioni e ricostruzione Gli eventi bellici, in particolare quelli intervenuti durante l’occupazione tedesca, significano per la Perugina nuovi vincoli e difficoltà24. Divengono, anzitutto, complicati i rifornimenti sui mercati nazionali ed esteri. È un dato questo che comincia ad essere denunciato nell’aprile maggio del 1941 dal Consiglio provinciale delle corporazioni e che è puntualmente ripreso nella relazione prefettizia. Le carenze riguardano soprattutto lo zucchero e il cacao25.

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Ivi, FB, DGAD, b. 11, fasc. 197 “Comm. Giovanni Buitoni New York”, Relazione di Giovanni Faina a Giovanni Buitoni del 29 agosto 1941. Copia della relazione è conservata pure in ISUC, AG, fasc. 409 “Buitoni USA”. ASCCPg, Carteggio amministrativo, b. 1 “1941”, sez. I, fasc. 2. ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture, Assemblea generale ordinaria del 31 maggio 1944 e bilancio al 31 dicembre 1943, Perugia, s.d. [1944], pp. 9 e ss. Vedi pure: Renato Covino, Dalla ricostruzione agli anni ottanta, in “Sulla bocca di tutti” cit. (a nota 1), p. 35. ASLB, Libro dei verbali del Consiglio di amministrazione della S.a. Perugina cioccolato e confetture dal 7 novembre 1923 al 25 giugno 1945, adunanza del 4 marzo 1942; ivi, adunanza del 27 febbraio 1943; ivi, adunanza del 6 aprile 1943; ASP, Prefettura di Perugia, Gabinetto, b. 90, fasc. 3 “Relazione mensile politico-economica della provincia, 1938-1941”; ivi, b. 91, fasc. 1; ASCCPg, Carteggio amministrativo, b. 1 - 1943, sez. III, fasc. 1. ASPg, Prefettura di Perugia, Gabinetto, b. 90, fasc. 3 “Relazione mensile politico-economica della provincia, 1938-1941; Vedi pure: Bruno Buitoni, Pasta e cioccolato. Una storia imprenditoriale, intervista di Giampaolo Gallo, postfazione di Giulio Sapelli, Perugia, Protagon, 1992, pp. 61-63.

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[L]’azienda è pronta a compiere le corrispondenti riduzioni dell’occupazione e delle spese generali, mentre per converso, gode almeno fino alla metà del 1942 , di efficaci adeguamenti dei prezzi e di una disciplina del commercio dei prodotti dolciari non troppo penalizzante, specie se si tiene presente lo stato di guerra e la situazione tutt’altro che rosea degli approvvigionamenti alimentari italiani26.

È proprio a partire dall’aprile del 1941 che la Perugina accentua la sua riconversione verso prodotti autarchici. Le scorte di cacao saranno riservate al “misacacao”, una polvere in cui il cacao era presente solo al 20%27. Ci si dedicherà, inoltre, alla fabbricazione di cioccolato autarchico, un impasto composto per metà di zucchero, per un terzo di nocciole e mandorle e dell’olio dei due prodotti in alternativa al burro cacao e per un quinto di latte. Le caramelle saranno a basso contenuto di glucosio, non oltre il 40%28. Ciò porta a drastici ridimensionamenti della produzione nel 1942 e, a maggior ragione nel 1943, e dell’occupazione29. Nel 1943 gli addetti impiegati mediamente dall’azienda non supereranno i 21930. Dopo l’8 settembre e con l’occupazione tedesca la situazione si aggrava. Le merci uscite dallo stabilimento di Fontivegge almeno ufficialmente diminuiscono rapidamente, passando dalle 70 tonnellate del settembre 1943, alle 46 di ottobre a poco più di 5 di novembre, quasi totalmente acquisite dall’esercito tedesco31.

Gli operai impegnati in quella fase si aggirano tra i 100 ed i 15032. Il 10 dicembre 1943 la Perugina viene “posta sotto sequestro e controllo da parte delle Forze Armate” germaniche a causa dell’omessa denuncia “di una cospicua partita di cacao e burro cacao”. Formalmente la direzione dell’azienda viene assunta dal Reichsinspektor Kirchausen, in realtà re-

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ASPg, Prefettura di Perugia, Gabinetto, b. 90, fasc. 3 “Relazione mensile politico-economica della provincia, 1938-1941”. Ibidem. Francesco Chiapparino, La Perugina tra occupazione tedesca e liberazione, in Gli Alleati in Umbria (1944-1945), Atti del convegno “Giornata degli Alleati” (Perugia, 12 gennaio 1999), a cura di Ruggero Ranieri, Perugia, Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation, 2000, pp. 170-172. Ibidem; ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”; ASCCPg, Carteggio amministrativo, b. 12 “1943”, sez. XXII, fasc. 13. ASBP, FP, DP, b. 1, fasc. 4 “Statistica salari operai dal 1925 al 1955”, cc. 28 e ss. Chiapparino, La Perugina tra occupazione tedesca e liberazione cit. (a nota 28), pp. 171172. ASBP, FP, DP, b. 1, fasc. 4 “Statistica salari operai dal 1925 al 1955”, cc. 28 e ss.

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sterà sotto il controllo di Bruno Buitoni che ne aveva assunto la responsabilità dal 1938, dopo la nomina a presidente di Giovanni Buitoni sr33. Per quasi sei mesi la fabbrica rifornirà di cioccolato autarchico le truppe tedesche. Il comando di Verona ne riceverà 283 tonnellate, cui si aggiungeranno 4 tonnellate distribuite nei negozi di Perugia e del Lazio e 6 commercializzate entro giugno a Roma. Il peggio tuttavia si verificherà nel momento in cui inizia la ritirata tedesca34. Come recita una dichiarazione giurata prodotta dalla direzione in sede di istruzione della pratica di risarcimento dei danni bellici, fin dal 13 giugno inizierà la sistematica requisizione “di tutti i materiali asportabili presenti nell’azienda, dai prodotti finiti o in lavorazione, agli imballaggi, agli utensili, fino alla Fiat 508 del Direttore”. Verranno razziati anche due depositi esterni di zucchero, probabilmente segreti, localizzati in uno stabile preso in affitto nella villa del conte Carlo Faina ai “Murelli”. Il saccheggio di protrarrà per quattro giorni. Il 17 giugno i guastatori tedeschi faranno allontanare tutti i presenti nello stabilimento, compreso Bruno Buitoni, e mineranno e faranno saltare “parte degli immobili e macchinari dei reparti officina, essiccazione, torrefazione cacao, cacao in polvere, presse e frigoriferi, e cioè gli impianti basilari”, mettendo fuori uso tutti i reparti fondamentali della fabbrica. Nei giorni successivi l’area sarà interessata da scontri tra tedeschi e alleati e la Perugina sarà colpita da un centinaio di proiettili di artiglieria che ne danneggeranno gravemente le strutture edilizie. Infine il 19 giugno i tedeschi prima di abbandonare la città razzieranno il negozio della Perugina situato nel centro storico e lo daranno alle fiamme35. Mancano, inoltre, notizie di 17 negozi su 50. Degli altri 33, 11 risultano gravemente danneggiati o distrutti, 13 parzialmente danneggiati e solo 9 sono intatti36. A ciò si aggiunge la situazione ancora più grave degli stabilimenti del comparto pastario, in primo luogo quelli di Sansepolcro, dove l’attività dei guastato-

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Chiapparino, La Perugina tra occupazione tedesca e Liberazione cit. (a nota 28), pp. 171173. Ibidem. Ibidem; ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza dell’11 agosto 1944; ivi, adunanza del 2 agosto 1946; ivi, adunanza del 28 dicembre 1946. Ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza dell’11 marzo 1947; ASBP, FP, DGAD, b. 42, fasc. 379 “Varie, dal 20 maggio 1943 al 30 marzo 1947”, c. 146; ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture, Assemblea generale ordinaria del 31 maggio 1944 e bilancio al 31 dicembre 1943, Perugia, s.d. [1944], p. 9; ivi, Assemblea generale ordinaria dell’11 giugno 1945 e bilancio al 31 dicembre 1944, Perugia, s.d. [1945], p. 9; Come vennero distrutti gli impianti della Perugina, in “Giornale dell’Umbria” del 6 febbraio 1945.

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ri tedeschi durante il passaggio del fronte lascerà in piedi solo le mura esterne, travolgendo nella loro rovina tutto il materiale esistente37. L’esercizio 1944, per la Perugina, si chiude con una perdita di 397.954,62 lire, che si riduce a 361.318,23 lire, sottraendo gli utili residui degli esercizi precedenti38. È, peraltro, una situazione che la Perugina condivide con tutto l’apparato industriale della provincia. Nel 1943 come comunicava il prefetto Rocchi nelle sue relazioni al Ministero dell’interno della Repubblica sociale italiana l’attività produttiva era pressoché paralizzata39. Alla mancanza totale di mezzi di trasporto e carburanti si sommeranno poi, nell’inverno 1943-1944 e nella primavera successiva, la distruzione di molti impianti industriali e la disarticolazione del sistema delle comunicazioni provocate dai bombardamenti alleati, le requisizioni e le demolizioni operate dai tedeschi in ritirata, il caos amministrativo e il venir meno, nel caso di molte aziende, delle stesse direttive gestionali, nonché con la Liberazione, la requisizione degli stabilimenti ancora funzionanti da parte delle autorità alleate e il lungo periodo di interruzione dei rapporti con fornitori e mercati del Nord Italia40.

Solo a Perugia, oltre allo stabilimento di Fontivegge, risultano pressoché distrutti gli stabilimenti della Valigeria e il Lanificio di Ponte Felcino41. Totalmente distrutto è il Mulino e Pastificio di Ponte San Giovanni. Nell’immediato quello che rimane della Perugina viene occupato dalle truppe inglesi e utilizzato come ospedale da campo per il reggimento indiano. Successivamente – a partire dall’agosto – la parte agibile dello stabilimento viene ceduta alla manifattura tabacchi come magazzino per le scorte42.

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ISUC, AG, fasc. 374, Gio. & f.lli Buitoni S.p.a., Assemblea generale ordinaria dell’11 giugno 1945 e bilancio al 31 dicembre 1944, Perugia, s.d. [1945], pp. 7-9; ivi, Assemblea generale ordinaria del 30 ottobre 1946 e bilancio al 31 dicembre 1945, Perugia, s.d. [1946], pp. 7-8. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza dell’11 agosto 1944. ASPg, Prefettura di Perugia, Gabinetto, b. 91, fasc. 1. Fabrizio Cerella, Francesco Chiapparino e Stefano De Cenzo, Il sistema produttivo umbro dall’economia di guerra alla ricostruzione, in L’Umbria verso la ricostruzione, a cura di Renato Covino, Atti del convegno “Dal conflitto alla libertà” (Perugia, 28-29 marzo 1996), Perugia, 1999, pp. 149-150. ASCCPg, Biblioteca, Ufficio provinciale dell’industria e commercio di Perugia, Relazione sull’andamento economico della provincia di Perugia: aggiornamento 1938-1948 con particolare riferimento al bimestre novembre-dicembre 1948, dattiloscritto, s.d. [1949], allegato 31. Chiapparino, La Perugina tra occupazione tedesca e Liberazione cit. (a nota 28), pp. 171173. Vedi pure: ASBP, FP, DGAD, b. 52, fasc. 474 “M, dall’1 gennaio 1944 al 31 dicembre 1949”, Promemoria Società per azioni Perugina del 2 gennaio 1947.

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Già nell’autunno del 1944, tuttavia, comincia l’opera di ricostruzione dello stabilimento e di riparazione dei macchinari. A gennaio 1945 l’azienda ricomincia a produrre, pur scontando naturalmente, la carenza di materie prime, zucchero e cacao43. È quanto emerge da una relazione dell’Associazione provinciale degli industriali di Perugia del gennaio 1945 che recita: I lavori di ricostruzione dello stabilimento, gravemente danneggiato, sono stati proseguiti con ritmo accelerato e attualmente gran parte dei danni è stata riparata. Con eguale ritmo sono proceduti i lavori di riparazione degli impianti pur essi gravemente danneggiati […]. Grazie all’oculatezza ed alla larghezza di vedute dei dirigenti, quest’industria, malgrado i danni gravissimi subiti, è attualmente in grado di riprendere immediatamente la fabbricazione a ritmo normale di caramelle, confetti, torrone e, a breve scadenza, del cioccolato. Le occorrerà naturalmente l’assegnazione dello zucchero e del cacao che sono le materie prime indispensabili alle sue lavorazioni44.

È quanto affermano del resto le fonti aziendali. Le rompicacao risultano ricostruite dall’officina interna dello stabilimento. Entro febbraio si prevede la riattivazione dei compressori ad ammoniaca per la refrigerazione “una delle componenti nodali e di maggior complessità tecnica degli impianti di una fabbrica di cioccolato”; solo le presse destinate alla polvere di cacao e al burro cacao sono impianti talmente complessi da dover prevedere per la riparazione o la sostituzione l’apporto di produttori esteri o del Nord Italia. È ciò che consente a Bruno Buitoni, di annunciare nel marzo 1945 la ripresa dell’attività della Perugina45 con un biglietto dove compariva lo stabilimento ricostruito e il seguente messaggio: Caro cliente e amico, i nostri macchinari, parzialmente minati, sono in via di ricostruzione e lo stabilimento è già completamente in ordine tanto da permetterci di produrre alcuni articoli; sarà una prima ripresa di contatto in attesa di quella definitiva46.

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Chiapparino, La Perugina tra occupazione tedesca e Liberazione cit. (a nota 28), pp. 171173. ASPg, Fondo Monteneri, Comitato provinciale di liberazione nazionale di Perugia, Associazione fra gli industriali e gli artigiani della provincia di Perugia, Relazione al Presidente del Comitato provinciale di liberazione nazionale, Perugia, 26 gennaio 1945, dattiloscritto, p. 4. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 26 marzo 1945. Cit. in Boschi, La pubblicità, in “Sulla bocca di tutti” cit. (a nota 1), p. 96.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

Nell’elenco delle aziende industriali più importanti della provincia inviato l’8 marzo 1945 al Comitato provinciale di liberazione nazionale dall’Associazione fra gli industriali e gli artigiani della provincia di Perugia, la Perugina risulta avere in forza 58 impiegati e 160 operai47. A febbraio la produzione di prodotto autarchico sarà pari a 4 tonnellate che saliranno a 23 nel marzo e raggiungeranno le 228 alla fine dell’anno. E, tuttavia, ancora ad aprile il livello di riattivazione dell’industria dolciaria della provincia è pari solo al 20% dell’anteguerra. Giocano un ruolo fondamentale in questa lenta ripresa le priorità data ad altri settori di attività economica (laterizi, energia, trasporti, tessili) più nevralgici per l’opera di ricostruzione38. Occorrerà attendere la fine del 1945 perché si ristabilisca un’attività normale, anche se frenata dalle difficoltà di rifornimento e soprattutto dal regime di bassi consumi che rappresenta una delle costanti della società italiana, e che risulta aggravato dalla situazione postbellica49. D’altro canto, la stagnazione degli scambi internazionali, destinata a durare ancora alcuni anni, rende inefficace e per certi aspetti impossibile l’operazione sottesa alla “multinazionalizzazione” delle imprese del gruppo. Risulta, cioè, sempre più problematico disporre della valuta estera necessaria per garantire, soprattutto alla Perugina, le importazioni di materie prime, conseguentemente diviene un compito disperato assicurare la qualità del prodotto. Ciò determina la stagnazione produttiva e la necessità di rimandare quelle scelte, già ricordate, che Giovanni Buitoni aveva proposto a più riprese, ai fratelli sul finire degli anni trenta50. Tale situazione, però, non riguarda solo la Perugina. La stagnazione dei consumi coinvolge anche il comparto pastaio. Nel 1944 per la Buitoni la perdita è di 710.545,48 lire, compensata solo per 34.471,96 lire da utili indivisi, per un passivo totale di 676.073,52 lire51. 47

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ASPg, Fondo Monteneri, Comitato provinciale di liberazione nazionale di Perugia, Associazione fra gli industriali e gli artigiani della provincia di Perugia, Relazione al Presidente del Comitato provinciale di liberazione nazionale cit. (a nota 44), p. 46. ASPg, Prefettura di Perugia, Gabinetto, b. 91, fasc. 2 “Relazione della Camera di commercio di Perugia del 23 aprile 1945”. ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”; ivi, DGAD, b. 80, fasc. 689 “Promemoria della Direzione generale della Perugina al Consiglio di amministrazione della società sull’attuale orientamento produttivo e commerciale dell’azienda del febbraio 1960"; ivi, b. 95, fasc. 793 “Promemoria IMI”; ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 6 agosto 1947. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza dell’11 marzo 1947; ivi, adunanza del 6 agosto 1947. ISUC, AG, fasc. 374, Gio. & f.lli Buitoni Sansepolcro, Assemblea generale ordinaria dell’11 giugno 1945 e bilancio al 31 dicembre 1944, Perugia, s.d. [1945], p. 9.

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Capitolo VII Dalla guerra agli anni cinquanta

L’opera di ricostruzione va avanti con tempi diversi per i vari stabilimenti delle società controllate dalla famiglia Buitoni. Se la Perugina riprende la propria attività nel secondo trimestre dei 1945, ritornando entro quello stesso anno ad una normalità quasi completa negli uffici e nei servizi, più lenta è la riattivazione degli impianti di Sansepolcro. L’entità dei danni, infatti, è tale che occorreranno vari anni per garantire il pieno ripristino dell’attività produttiva. D’altra parte, fino alla fine degli anni quaranta, la carenza di materie prime rallenta l’opera di ricostruzione52. La direzione aziendale ritiene, infatti, inutile poter disporre d’una capacità produttiva maggiore che rischia di essere esuberante. Ciò nonostante l’impegno della Società nel 1945-1946 è notevole se si contrae, con l’avallo della Perugina, un prestito di 15 milioni con il Consorzio per sovvenzioni sui valori industriali53. Nel 1947, tuttavia, la Buitoni lavora in modo irrisorio rispetto alla potenzialità degli impianti. Ciò dipende in buona parte dal fatto che non vengono assegnati sfarinati per la produzione di pasta, mentre rimangono alti i costi di gestione aziendale54. Se a tutto questo si aggiungono anche i provvedimenti di limitazione dei fidi bancari, si capisce perché nel secondo semestre del 1947 vengano sospesi i lavori di ricostruzione a Sansepolcro. Essi riprendono in misura ridotta nel 1948 e ancora due anni dopo, in una fase di crescita generalizzata delle produzioni, non risultano completati55. Le difficoltà della ricostruzione sono, quindi, da correlare con la faticosa ripresa del settore alimentare, sia nel comparto dolciario che in quello della pasta, che per quello che concerne i mercati nazionali ed internazionali. Per quanto riguarda la pasta le difficoltà d’approvvigionamento dureranno sino alla fine degli anni quaranta, prolungando le limitazioni del periodo bellico. Le sovrastrutture annonarie impediranno alla Società di

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ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza dell’11 agosto 1944; ivi, adunanza del 2 agosto 1946; ISUC, AG, fasc. 374, Gio. & f.lli Buitoni Sansepolcro, Assemblea generale ordinaria dell’11 giugno 1945 e Bilancio al 31 dicembre 1944, Perugia, s.d. [1945], pp. 7-9; ivi, Assemblea generale ordinaria del 30 ottobre 1946 e bilancio al 31 dicembre 1945, Perugia, s.d. [1946], pp. 7-8. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 6 agosto 1947. Ibidem. Covino, Dalla ricostruzione agli anni ottanta cit. (a nota 23), p. 36.

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riacquisire quella preminenza che sul mercato nazionale le compete per il suo passato e per la rinomanza del suo nome56. Ugualmente la Perugina si troverà a confrontarsi prima con le concorrenti dell’alta Italia, che escono dalla guerra non solo con gli impianti intatti, ma anche con ingenti stock di materie prime d’anteguerra, mentre essa era stata costretta, a causa dei saccheggi, ad acquistare costose materie prime autarchiche, poi con la scarsità generalizzata di approvvigionamenti, infine con gli oneri fiscali sul cioccolato che impediscono uno sviluppo del settore e rendono le produzioni nazionali vulnerabili rispetto alla concorrenza estera. Questi ultimi aspetti riguardano in generale l’insieme dell’industria alimentare italiana. Quest’ultima aveva conosciuto un notevole incremento negli anni dell’autarchia, in buona parte derivante da uno sviluppo delle imprese tradizionali e dall’osmosi continua con il settore agricolo57. Nel dopoguerra si assisterà ad un ridimensionamento rilevante del settore e, tuttavia, i comparti che risultano più consistenti continuano a essere quelli tradizionali, mentre quelli più propriamente industriali tendono a assestarsi su livelli più bassi. È questo un indice di un processo di industrializzazione estremamente cauto, cui corrisponde una meccanizzazione insufficiente e un livello di concentrazione relativamente basso. In questi settori più moderni sono compresi, oltre all’industria dello zucchero, la pasticceria, i biscotti, il cioccolato e le confetture e la conservazione della frutta e della verdura58. 56

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Istituto Centrale di Statistica, III Censimento generale dell’industria e del commercio. 5 novembre 1951, in particolare: IV. Industrie alimentari e del tabacco, Roma, 1956; XVII. Dati generali riassuntivi, Roma, 1957. ASBP, FP, DA, b. 23, fasc. 153 “Contabilità industriale e commerciale”, c. 29 Alcune considerazioni sui risultati del bilancio, s.d. [1951]; La crisi dell’industria cioccolatiera, in “L’alimentazione dolciaria”, a. V, n. 3, marzo 1957, p. 72; A. Valeri, Problemi e prospettive dell’industria dolciaria italiana, in “L’industria”, n. 1, 1958, pp. 20-23; La localizzazione delle industrie dolciarie dopo la seconda guerra mondiale, in “Industria dolciaria internazionale”, a. X, 1960, pp. 578-580; Vedi pure i dati dei bilanci in ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 31 maggio 1944 e bilancio al 31 dicembre 1943, Perugia, s.d. [1944]; ivi, Assemblea generale ordinaria dell’11 giugno 1945 e bilancio al 31 dicembre 1944, Perugia, s.d. [1945]; ivi, Assemblea generale ordinaria del 30 ottobre 1946 e bilancio al 31 dicembre 1945, Perugia, s.d. [1946]; ivi, Assemblea generale ordinaria del 28 maggio 1947 e bilancio al 31 dicembre 1946, Perugia, s.d. [1947]; ivi, Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 29 maggio 1948 e bilancio al 31 dicembre 1947, Perugia, s.d. [1948]; ivi, Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 20 maggio 1949 e bilancio al 31 dicembre 1948, Perugia, s.d. [1949]; ivi, Assemblea generale ordinaria del 28 marzo 1950 e bilancio al 31 dicembre 1949, Perugia, s.d. [1950]; ivi, Assemblea generale ordinaria del 21 marzo 1951 e bilancio al 31 dicembre 1950, Perugia, s.d. [1951]. Vedi pure: Umberto Collesei, L’industria dolciaria, Milano, Etas Kompass, 1968, p. 17. Ivi, p. 17; Dimostrazioni statistiche della crisi del cioccolato in Italia, in “L’alimentazione dolciaria”, a. V, n. 3, marzo 1957, p. 75; L’industria dolciaria e la statistica, in “L’alimentazione dolciaria”, a. V, n. 2, febbraio 1957.

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Capitolo VII Dalla guerra agli anni cinquanta

Tutto ciò determinerà per molti aspetti una crescita graduale e senza salti, in linea sostanzialmente con quanto si era verificato nell’anteguerra. Solo a partire dalla metà degli anni cinquanta lo sviluppo si farà sostenuto ed impetuoso e imporrà una crescita dei processi di meccanizzazione, una rete commerciale più articolata e livelli di concentrazione e di aumento occupazionale sostenuti59. Questo dato emerge anche per quanto riguarda la Perugina. La società riuscirà a raggiungere la normalità solo nel 194760. In questo anno essa contribuirà per ben il 23% del valore delle esportazioni della provincia di Perugia, esportando quasi settanta tonnellate di prodotti. Accanto ad essi staranno 1.184 tonnellate di generi dolciari distribuiti sul mercato nazionale, più altre novanta circa lavorate per l’Unrra per un totale pari al 97% della media annua della produzione venduta dall’azienda in Italia nel triennio 1938-194061.

È interessante a questo proposito esaminare come l’azienda si collochi nel contesto provinciale nel 1948. Analizzando le industrie alimentari della provincia la Camera di commercio segnala come tutto il comparto del pane, della pasta e della molizione dei cerali sia, a quella data, al di sotto della sua potenzialità produttiva. Simile è la situazione per lo Zuccherificio di Foligno che, si sostiene, è “per la sua attrezzatura tecnica, uno tra i più importanti della Nazione”. E però, anche in questo caso, si segnala che, ancora nel 1948, “la sua attività è stata molto limitata, prima di tutto per la ricostruzione […], ed in secondo luogo per la ridotta coltivazione di zucchero in tutta la provincia”62. Unica eccezione viene indicata nella Perugina che dopo un inizio di attività non facile per la deficienza sul mercato nazionale delle materie

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Collesei, L’industria dolciaria cit. (a nota 57), p. 17 e p. 57; La localizzazione attuale delle industrie dolciarie, in “Industria dolciaria internazionale”, a. X, 1960, pp. 620-622; Retribuzioni e costo del lavoro nell’industria dolciaria, in “Industria dolciaria internazionale”, a. X, 1960, p. 739. ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”; ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 6 agosto 1947; ivi, adunanza del 10 aprile 1948. Vedi pure: ASPg, Prefettura di Perugia, Gabinetto, b. 91, fasc. 2; ivi, b. 162, fasc. 9a; ivi, b. 170, fasc. 1. Chiapparino, La Perugina tra occupazione tedesca e Liberazione cit. (a nota 28), p. 173. ASCCPg, Biblioteca, Camera di commercio, Industria e Agricoltura di Perugia, Ufficio provinciale dell’Industria e commercio, Relazione sull’andamento economico della provincia di Perugia: aggiornamento 1938-1948 con particolare riferimento al bimestre novembredicembre 1948, dattiloscritto, s.d. [1949], pp. 20-21.

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prime […] è andata migliorando sensibilmente sia nel campo della produzione, che in quello della organizzazione. Oggi, infatti, la sua attrezzatura commerciale è ritornata quella del periodo prebellico e il suo lavoro di esportazione è stato intensificato notevolmente con risultati ottimi63.

E, infatti, le esportazioni di cioccolato e confetture della provincia salgono da lire 16.369.156,85 del 1947 a 49.432.048,60 del 1948, raggiungendo il primo posto delle produzioni indirizzate verso l’estero64. La Perugina, insomma, riconquista alla fine degli anni quaranta del Novecento un suo ruolo preminente all’interno dell’industria della provincia, pur partecipando delle difficoltà già indicate dell’insieme del settore alimentare e, in particolare, del comparto dolciario nazionale. VII.3. Il vincolo dei bassi consumi Ciò consente di configurare un’impresa che, come nell’anteguerra è capace di produrre utili e di garantire processi di crescita produttiva. Le perdite d’esercizio registrate nel 1944 vengono infatti colmate rapidamente65. L’andamento degli utili netti alla Perugina (in valori a lire costanti 1950), nella seconda metà degli anni quaranta, è riportato nel grafico 1. Se si guarda poi alla quota che va a remunerare il capitale azionario, essa passa dal 44,4% del 1946 all’85,2% del 1947 e si mantiene su percentuali superiori all’80% fino al 1950 (1948:84,6%; 1949:81%; 1950: 85%). La quota destinata all’investimento non è particolarmente cospicua mentre, d’altra parte, non vengono fatte nuove emissioni di azioni. Il capitale sociale infatti rimane diviso in 60.000 azioni (10.000 di categoria A e 50.000 di categoria B). Ci si limita nel 1947 ad una rivalutazione delle azioni da 100 a 1.000 lire, portando il capitale da 6 a 60 milioni, operazione ripetuta l’anno successivo quando il valore di ogni azione aumenta a 3.000 lire, per un totale di 180 milioni66. Questa modestia degli investimenti deriva, per la Perugina, dal fatto che i danni di guerra, malgrado l’enfasi posta su di essi, non dovevano essere stati troppo elevati e che, d’altra parte, non si riteneva che ci dovessero essere particolari incrementi della capacità produttiva in un momento di sostanziale rigidità del mercato67. 63 64 65

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Ivi, p. 22. Ivi, allegato n. 14 ter. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza dell’11 agosto 1944; ivi, adunanza del 10 aprile 1948. Ivi, adunanza del 10 aprile 1948. Ivi, adunanza del 11 agosto 1944; ivi, adunanza del 6 agosto 1947.

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Capitolo VII Dalla guerra agli anni cinquanta

Grafico 1. Andamento degli utili netti della Perugina nella seconda metà degli anni quaranta

Fonte: elaborazione dati ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957; elaborazione dati bilanci a stampa 1945-1950 in ISUC, AG, fasc. 386.

A tale proposito, se si assume come indice dì riferimento il consumo medio di zucchero per abitante in Italia si vede come i valori del 1941 (kg 9,2) vengano di nuovo raggiunti solo nel 1948 (kg 9,6) e come negli anni successivi tale quantità non subisca variazioni di grande rilievo; ancora nel 1951 si avrà un consumo medio pari a kg 12,5. Ciò, per altro, fa pensare che moderati investimenti e, soprattutto, un uso più razionale della capacità produttiva fossero sufficienti a consentire alle aziende del settore una produzione adeguata alle esigenze del mercato68. Per la Perugina questo è confermato anche dal fatto che il numero dei negozi di vendita diretta – che nel 1947 erano 50 di cui 42 funzionanti, 2 totalmente distrutti, mentre per i rimanenti 6 si prevedeva la riapertura entro l’anno – non aumenta per tutto il resto degli anni quaranta e per i primi anni cinquanta. Segno che la rete commerciale è sostanzialmente adeguata all’ancora esigua domanda di prodotti dolciari69. 68 69

Istituto Centrale di Statistica, Sommario statistiche storiche 1926-1986, Roma, 1986, tabella 8.42, pp. 181-183. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza dell’11 marzo 1947; ivi, adunanza del 6 agosto 1947.

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Grafico 2 andamento dell’occupazione 1946-1950

Fonte: ASBP, FP, DP, b. 1, fasc. 4; Alfreda Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina dal 1945 al 1963, Tesi di laurea, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze politiche, Anno accademico 1989-1990, p. 69.

Se si passa, poi, ad analizzare i fatturati di alcune produzioni per gli anni cinquanta, ci si rende facilmente conto di come il regime di bassi consumi abbia inciso sugli andamenti produttivi dell’azienda. La produzione annua della Perugina supera solo nel 1949, con 21.210,39 quintali, i 18.344,48 del 1940 e solo nel 1951, con 25.796,13, la quota massima dell’anteguerra paria a 25.631,36 quintali raggiunta nel 1936 in corrispondenza del concorso delle figurine. Inoltre, se nel 1940 il 12,2% della produzione era destinato all’estero, nel 1949 tale valore raggiunge appena il 9,5% e nel 1951 l’11,8%, malgrado l’apertura dei mercati internazionali e la fine del protezionismo autarchico70. Infine, la crescita occupazionale risulta sostenuta, ma niente affatto impetuosa. Alla Perugina l’occupazione media annuale ha l’andamento riportato nel grafico 2. Ancora nel 1950 l’occupazione non raggiunge il massimo raggiunto nel 1936 con 842 addetti. Sarà questa una situazione destinata a durare per tutta la prima metà degli anni cinquanta. La relazione dell’Ufficio provinciale del commercio e

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ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”.

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industria di Perugia, relativa al primo semestre 1950, mette tuttavia in luce come, in una situazione caratterizzata dalla presenza di piccole e medie industrie, le uniche eccezioni siano rappresentate dal complesso lignitifero e cementiero della Terni, della Perugina e del cotonificio di Spoleto71. L’azienda, peraltro, mantiene il ruolo preminente nelle esportazioni che sono pari a 79.813.136 lire: il 70,11% del totale delle esportazioni della provincia72. Più semplicemente, in una realtà economica fondamentalmente agricola la Perugina mantiene i suoi caratteri di eccellenza nel comparto industriale. VII.4. I primi anni cinquanta Questo primato nel tessuto industriale della città e della provincia è in un qualche modo analogo a quello che si registra all’interno del comparto dolciario nazionale. La struttura occupazionale di questo ultimo vede nel 1951 solo due aziende con più di 2.000 dipendenti e sei con più di 500 dipendenti. Le altre 1.452 aziende del settore risultano avere un’occupazione inferiore ai 500 addetti e il grosso di esse si colloca nella fascia tra i 10 e i 30 dipendenti e tra i 5 e i 10 dipendenti73. D’altro canto gli addetti del settore sono pari, sempre al 1951, a 37.262 di cui 21.847 impiegati nella produzione di cioccolato e confetture e 15.415 in quella di biscotti74. In questo contesto la Perugina si configura già nel 1951 come una delle maggiori aziende nazionali. Il grosso della produzione e delle imprese, d’altro canto, si localizza nel triangolo industriale che arriva ad assorbire il 74% della produzione nazionale. Ciò indica come la Perugina si trovi a dover combattere nuovamente una battaglia di allargamento del mercato, nonostante sia una delle più agguerrite imprese presenti nel settore. Di ciò i vertici aziendali sono consapevoli e manifestano, fin dagli anni immediatamente successivi alla guerra, uno spirito aggressivo che si coagula in un programma industriale volto ad ampliare e accrescere le produzioni al fine di conseguire una maggiore diffusione del marchio e, conseguentemente, una maggiore capillarità delle vendite. Comincia a emergere l’idea

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ASCCPg, Biblioteca, Camera di commercio, Industria e Agricoltura di Perugia, Ufficio provinciale commercio e industria di Perugia, Relazione sull’andamento economico della provincia di Perugia: primo semestre 1950, dattiloscritto, s.d. [1950], p. 16. Ivi, allegato n. 8. La localizzazione attuale delle industrie dolciarie, in “Industria dolciaria internazionale”, a. X, 1960, pp. 620-622. Istituto Centrale di Statistica, III censimento generale dell’industria e del commercio 5 novembre 1951, Volume IV, Roma, 1951, pp. 66-67.

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che occorra superare la produzione di carattere semiartigianale, destinata per forza di cose a produrre quantità relativamente basse, sia pure con margini unitari elevati, e cominciare a sviluppare produzioni di massa75. Il 6 agosto 1947 Bruno Buitoni sr consigliere delegato della Società delinea questo indirizzo produttivo. A suo parere è necessario utilizzare il prestigio guadagnato sul mercato affermandoci e spingendo la vendita di quegli articoli che devono costituire la base di produzione di una fabbrica di cioccolato e principalmente: tavolette76.

Da ciò un programma di potenziamento e di modernizzazione degli impianti che inizia già nel 1948, che però non può portare, nell’immediato, allo sviluppo del cioccolato come prodotto alimentare. Lo impediscono i cresciuti dazi sul cacao e l’alto costo dello zucchero. Questo significa, nei fatti, una diversificazione della produzione che porta a privilegiare, per alcuni aspetti, i prodotti a base di zucchero, piuttosto che quelli a base di cacao77. È su tale presupposto che crescono fatturati e utili (tab. 18). Emerge come si sia di fronte ad una crescita sostenuta di produzione e utili di cui una quota è destinata alle riserve e agli investimenti e un’altra è volta a remunerare il capitale. Ma, già nel 1952, si osserva come tali utili abbiano un andamento percentuale decrescente rispetto ai fatturati. Processo questo che si accentuerà negli anni successivi e che deriva dal fatto che si aumentano le produzioni e la rete di vendita, si abbassa il prezzo unitario e, quindi, gli utili per unità di prodotto, ma soprattutto che i prodotti che riescono a penetrare il mercato sono, come si è accennato, caramelle e torroni. Il cioccolato ha invece un andamento stagnante78. L’azienda, a partire dal 1952, affronta un piano massiccio di ammodernamenti79. È un processo che riguarda l’insieme degli stabilimenti del grup75

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ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza dell’11 agosto 1944; ivi, adunanza del 6 agosto 1947; ivi, adunanza del 7 marzo 1950; ASBP, FP, DGAD, b. 80, fasc. 689 “Promemoria della Direzione generale della Perugina al Consiglio di amministrazione della società sull’attuale orientamento produttivo e commerciale dell’azienda del febbraio 1960". ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 6 agosto 1947. Ivi, adunanza del 10 aprile 1948; ivi, adunanza del 13 maggio 1948; ivi, adunanza del 31 gennaio 1948; ivi, adunanza del 12 settembre 1949; ivi, adunanza del 7 marzo 1950; ivi, adunanza del 27 febbraio 1951. Ivi, adunanza del 10 aprile 1948; ivi, adunanza del 27 febbraio 1951; ivi, adunanza del 27 febbraio 1952; ivi, adunanza dell’8 dicembre 1955; ivi, adunanza del 3 marzo 1953. Ivi, adunanza del 9 gennaio 1952; ivi, adunanza del 27 febbraio 1952; ivi, adunanza del 20 maggio 1952; ivi, adunanza del 3 marzo 1953; ivi, adunanza del 30 ottobre 1954.

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Capitolo VII Dalla guerra agli anni cinquanta

Tabella 18. Fatturati, utili lordi e netti della Perugina cioccolato e confetture S.p.A. 1950-1952

Fonte: ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957; elaborazione dati bilanci a stampa 19501952 in ISUC, AG, fasc. 386.

po Buitoni Perugina e che è volto al contenimento dei costi di produzione, attraverso l’aumento della produttività degli impianti e di quella dei singoli lavoratori80. Per la Buitoni, come del resto per la Perugina, si evidenzia l’urgenza di un completo rinnovamento dello stabilimento di Roma e di un ampliamento del Poligrafico di Perugia. Nel 1953 queste raccomandazioni trovano parziale accoglienza e gli investimenti crescono in modo consistente. Si avvia il potenziamento degli impianti dello stabilimento cartotecnico, si comincia a pensare ad un nuovo orientamento produttivo della fabbrica di Roma e si tende ad una maggiore specializzazione dell’attività di Sansepolcro. L’anno successivo si tenta la riorganizzazione dello stabilimento romano, soprassedendo per il momento al trasferimento nei terreni acquistati nel comune di Aprilia, e si investono 70-80 milioni nell’ampliamento della fabbrica di Sansepolcro, sacrificando il programma di ammodernamento del Poligrafico per evitare il ricorso al credito bancario81.

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Ivi, adunanza del 27 febbraio 1952; ivi, adunanza del 3 marzo 1953; ASBP, FB, DGAD, b. 43, fasc. 590 “Comm. Dott. Giovanni Buitoni, New York - Comm. Ing. Giuseppe Buitoni, Saint Maur des Fosses 1953 - I semestre”; ivi, b. 44, fasc. 606 “Comm. Dott. Giovanni Buitoni, New York - Comm. Ing. Giuseppe Buitoni, Saint Maur des Fosses 1953 - II semestre”; ivi, b. 45, fasc. 607 “Sede tecnica centrale anno 1954”; Buitoni, I proficui risultati di una piccola società, Sansepolcro, s.e., 1970, pp. 38-42. ISUC, AG, fasc. 374, Gio. & f.lli Buitoni Sansepolcro, Bilancio al 31 dicembre 1954 e assemblea generale ordinaria e straordinaria del 29 marzo 1955, Perugia, pp. 6-8; ASCCPg, Biblioteca, Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Perugia - Ufficio provinciale dell’industria, del commercio e dell’artigianato, Indici della ricostruzione, Perugia, Grafica, 1953, p. 31; ivi, Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Perugia - Ufficio provinciale di statistica, Perugia, Indici della vita economica

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Tra il 1953 e il 1955 viene attuato, insomma, un articolato piano d’investimenti82. Le 100.000 azioni che costituiscono il capitale sociale vengono rivalutate a titolo gratuito sia nel 1953 (quando passano da 2.000 a 5.000 lire] che nel 1954 (da 5.000 a 7.500 lire), mentre il 31 dicembre 1954 viene approvato l’aumento del capitale sociale a 720.000.000 rappresentato da 60.000 azioni nominali da lire 12.000 ognuna e diviso in due serie (10.000 azioni di serie A con diritto a 10 voti ciascuna e 50.000 azioni di serie B con diritto a un voto)83. A fine 1955 i nuovi investimenti sono pari a 327.407.126 lire e superano le nuove disponibilità determinatesi con l’aumento di capitale e un mutuo Efi di 187.461.584 lire, mentre si prospetta la necessità di nuovi finanziamenti per ulteriori investimenti84. Il 31 dicembre 1957, viene infatti nuovamente aumentato il capitale sociale, elevato in via gratuita a 1.020 milioni con l’emissione di 15.000 nuove azioni da distribuirsi tra i vecchi azionisti85. L’operazione viene ripetuta successivamente, per arrivare nel corso del 1961 a lire 2.040 milioni di lire di capitale sociale interamente versato86. A fine 1956 risultano investiti nel corso del l’anno 505.069.856 lire, in parte reperiti attraverso l’aumento di capitale, in parte attraverso l’indebitamento a breve termine con le banche. Il flusso degli investimenti prosegue nel 1957, con immobilizzi pari a 393.614.980 lire, e per tutti gli anni cinquanta, mantenendosi costantemente sui 400 milioni annui87.

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della provincia di Perugia: anni 1952-1957, Spoleto, s.d., p. 28; Buitoni, I proficui risultati di una piccola società cit. (a nota 80), pp. 38-42 e p. 169; Gio. & f.lli Buitoni S.p.a., Un’antica industria nella terra di Piero, dattiloscritto inedito e senza data [1963], pp. 2022. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 13 marzo 1954; ivi, adunanza dell’8 dicembre 1955. Ivi Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 13 marzo 1954; ivi, adunanza del 7 marzo 1955; ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e Confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria e straordinaria dei soci del 29 aprile 1954 e bilancio al 31 dicembre 1953, Perugia, s.d. [1954], p. 8 e ss.; ivi, Bilancio al 31 dicembre 1954 e assemblea generale ordinaria e straordinaria 29 marzo 1955, Perugia, s.d. [1955] p. 9. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 27 giugno 1955; ivi, adunanza dell’8 dicembre 1955; ivi, adunanza del 28 febbraio 1957; ivi, adunanza del 30 marzo 1957. ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e Confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 12 aprile 1958 e bilancio al 31 dicembre 1957, Perugia, s.d. [1958] p. 10. Ivi, Perugina cioccolato e Confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 18 aprile 1962, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1961, Perugia, s.d. [1962], p. 15 e ss. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 7 marzo 1957; ivi, Peru-

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Il programma d’ammodernamento della Perugina, per le caratteristiche dell’azienda, risulta solo anticipato rispetto alle altre aziende dei Buitoni. Ancora una volta l’impianto fa da battistrada all’insieme del gruppo. Come si è già accennato nei primi mesi del 1952, il Consiglio di amministrazione discute di stipulare, utilizzando alcune provvidenze governative, un contratto con l’Imi per l’acquisto di macchinari. L’obiettivo è l’abbattimento dei costi di produzione al fine di recuperare competitività nei confronti delle altre imprese nazionali ed estere. I reparti da ammodernare sono il modellaggio, lo smodellaggio, il cacao in polvere, il colaggio ecc.: in pratica i più importanti dal punto di vista produttivo88. Precedentemente si era già provveduto a rinnovare, meccanizzandoli, i reparti di incarto e delle confezioni. Il prestito Imi-Erp, dell’entità di 93.000 sterline (circa 162 milioni di lire), viene utilizzato per l’acquisto di macchinali nell’area della moneta inglese89. Nel 1955 viene, inoltre, contratto un prestito quinquennale con l’Efi per 150 milioni, avallato dalla S.p.a. Gio. & f.lli Buitoni e sempre destinato all’ammodernamento degli impianti90. Nel 1958, infine, è l’Istituto di credito delle casse di risparmio italiane a fornire fondi per 250 milioni di lire91. Non vi sono invece aumenti di capitale a titolo oneroso, anche se, nel periodo 1953-1957, tra rivalutazioni ed emissioni azionarie a titolo gratuito destinate ai soci, il capitale passa da 180 a 1.020 milioni di lire, e le azioni da 60.000 a 85.00092. L’investimento è garantito, così, dai capitali reperiti presso gli istituti di credito speciale. Tale liquidità viene utilizzata

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gina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 2, dal 6 gennaio 1958 al 28 dicembre 1958, adunanza del 15 marzo 1958; ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 12 aprile 1958 e bilancio al 31 dicembre 1957, Perugia, s.d. [1958], p. 14-15; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 30 marzo 1957 e bilancio al 31 dicembre 1956, Perugia, [1957], pp. 15-16; Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 7 aprile 1956 e bilancio al 31 dicembre 1955, Perugia, s.d. [1956], pp. 17-18; Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 29 marzo 1955 e bilancio al 31 dicembre 1954, Perugia, s.d. [1955], pp. 17-18. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 9 gennaio 1952; ivi, adunanza del 30 ottobre 1954. Ivi, adunanza del 27 febbraio 1953; ivi, adunanza del 20 maggio 1953; ivi, adunanza del 31 marzo 1953. Ivi, adunanza del 27 giugno 1955. Ivi, adunanza del 30 marzo 1957. Ivi, adunanza del 13 marzo 1954; ivi, adunanza del 7 marzo 1957; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 2 dal 6 gennaio 1958 al 28 dicembre 1958, adunanza del 15 marzo 1958.

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non solo per ristrutturare le installazioni produttive, ma anche per rinnovare la rete di vendita e le strutture di servizio, riducendo in tal modo l’onere dei costi dì distribuzione sul prezzo del prodotto93. VII.5. Produttività, occupazione e relazioni sindacali Appare ovvio come le innovazioni tecnologiche che si realizzano nei primi anni cinquanta se non risolvono il problema di superare, per quanto riguarda il cioccolato, le produzioni di lusso e da regalo, pure consentano una diversificazione rilevante per quello che concerne le produzioni che non prevedono l’uso di cacao. Solo nel 1951 si raggiungono i volumi di produzione di cioccolato del periodo prebellico. È anche l’anno in cui, mentre l’industria dolciaria nazionale vede contrarsi la produzione, dato segnalato dalla riduzione di cacao importato, la Perugina vede aumentare la propria rispetto all’anno precedente. Da quel momento inizia un trend in ascesa destinato a durare fino ad anni sessanta inoltrati94. I dati della produzione e il rapporto con il prodotto nazionale è da questo punto di vista eloquente (tab. 19). Accanto all’incremento della produzione si ha un analogo aumento dell’occupazione e della produttività, in un clima di relazioni sindacali in cui è basso il livello di conflittualità95. L’indirizzo che persegue l’azienda nei confronti dei dipendenti è quello di corrispondere buone retribuzioni, più alte di quelle nazionali, di contenere al massimo il numero del personale che deve essere selezionato e qualificato, ottenendo però da esso il massimo rendimento96.

Ciò emerge, peraltro, da un andamento del monte salari che ha l’andamento riportato nel grafico 3.

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ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza dell’8 dicembre 1955; ivi, adunanza del 4 febbraio 1956; ivi, adunanza del 5 luglio 1956; ivi, adunanza del 29 settembre 1956; ivi, adunanza del 28 febbraio 1957. ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3 “Riepilogo della produzione annua complessiva dal 1925 al 1954”. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 4 ottobre 1957. Alfreda Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina dal 1945 al 1963, Tesi di laurea, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze politiche, Anno accademico 1989-1990, p. 50.

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Capitolo VII Dalla guerra agli anni cinquanta

Tabella 19. Produzione della Perugina e suo peso su quella nazionale

Fonte: ASBP, FP, DT, b. 1, fasc. 3; ivi, DA, b. 6, fasc. 46; ivi, b. 23, fasc. 153; ivi, b. 28, fasc. 211. Vedi pure: Alfreda Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina dal 1945 al 1963, Tesi di laurea, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze politiche, Anno accademico 1989-1990, p. 67.

Grafico 3. Monte salari della Perugina 1950-1954.

Fonte: ASBP, FP, DP, b. 1, fasc. 4; Alfreda Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina dal 1945 al 1963, Tesi di laurea, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze politiche, Anno accademico 1989-1990, p. 69

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Il peso sul fatturato resta costante tra l’8% e il 9%97. La crescita dell’occupazione, nel periodo che va dal 1950 al 1954, va di pari passo con un incremento della produttività più sostenuto di quello dell’occupazione (tab. 20). Tali andamenti determinano, per tutti i primi anni cinquanta, l’atteggiamento della direzione aziendale nei confronti della forza lavoro e la stessa contrattazione sindacale. La Perugina è una delle poche fabbriche del settore dove vige costantemente un sistema di contrattazione aziendale che fa sì che stipendi e salari erogati dal’azienda siano notevolmente più alti di quelli delle industrie della città e della provincia98. Ciò è particolarmente significativo in quanto, a livello nazionale, la contrattazione aziendale sarà riconosciuta solo con il contratto nazionale collettivo del 1963. È proprio questa assenza di regolamentazione che fa sì che la pratica della contrattazione aziendale manifesti luci ed ombre e faccia emergere una discrezionalità dell’azienda che spesso decide unilateralmente aumenti salariali. È il frutto di una politica aziendale nei confronti del personale che si ispira al paternalismo organico tipico delle aziende italiane nel ventennio fascista in cui processi di workfare si coniugano con forme di controllo della forza lavoro. Durante il periodo fascista, infatti, politiche di contenimento della spesa salariale – la riorganizzazione aziendale del 1929 – si intrecciano con la politica delle gite aziendali, dell’asilo di fabbrica, delle vacanze organizzate per gli operai e i loro figli, con provvidenze nei confronti di operai e operaie ammalati99. Il tentativo è quello di costruire un’isola all’interno del mondo imprenditoriale umbro e di saldare una sorta di union sacré tra lavoratori e direzione aziendale100. La contrattazione aziendale del dopoguerra attraversa tre fasi distinte: la prima contraddistingue il periodo 1945-1948, nel quale la contrattazione si 97 98

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Ibidem. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 3 marzo 1953; ivi, adunanza del 5 luglio 1956; ivi, adunanza del 29 settembre 1956. Francesco Chiapparino, L’industria dolciaria in Italia dall’età giolittiana all’autarchia: il caso della Perugina 1907-1939, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia, tesi di laurea, a.a. 1987-1988, pp. 344-354; Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina cit. (a nota 96), pp. 315-324. Vedi pure: Il nido materno Buitoni, in “Risveglio ostetrico”, a. IX, n. 1, gennaio 1932, pp. 1318; Vita dopolavoristica e assistenza sociale alle maestranze della Soc. An. Buitoni, estratto da “Le industrie dei cereali”, a. XII, n. 2, febbraio 1940. Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina cit. (a nota 96), pp. 315-324; Buitoni, I proficui risultati di una piccola società, Sansepolcro, s.e., 1970, pp. 57-60, p. 145 e p. 155; ISUC, AG, fasc. 353, Ufficio stampa della Perugina S.p.a., Servizi e assistenza sociale di Fabbrica, s.d.

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Capitolo VII Dalla guerra agli anni cinquanta

Tabella 20. Occupazione e produttività alla Perugina 1950-1954

Fonte: Alfreda Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina dal 1945 al 1963, Tesi di laurea, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze politiche, Anno accademico 1989-1990, p. 69

caratterizza per la regolarità e per un rapporto tra pari tra sindacato e azienda. La seconda fase si apre con la stipulazione del contratto nazionale per gli addetti dell’industria dolciaria del 14 febbraio 1948 e si chiude nel 1956, in questo periodo, forte delle divisioni sindacali, la direzione si fa promotrice di una serie di provvedimenti che migliorano il trattamento economico dei dipendenti, ratificati poi dalla C[ommissione] I[nterna] ed a volta anche dai sindacati. Questi accordi vengono spesso stipulati prima degli scioperi per fiaccare così le lotte che le organizzazioni sindacali (soprattutto la Cgil) stanno conducendo. Con l’accordo aziendale sui cottimi (14 settembre 1957) si apre la terza fase della contrattazione, nella quale si cerca di regolamentare tutte le ripercussioni nelle condizioni lavorative derivanti dal progresso tecnico e dalle nuove forme organizzative101.

Fatto sta che i salari operai sono spesso superiori di oltre il 30% dei minimi contrattuali nazionali, situazione non da poco in un paese in cui vigeva la suddivisione in zone salariali e, l’Umbria era collocata nella III zona, con salari medi notevolmente più bassi di quelli del Nord Italia. Naturalmente la discrezionalità con cui l’azienda concede aumenti salariali suscita notevoli dissensi da parte sindacale, soprattutto della Cgil, anche per il fatto che essa si coniuga con forme più o meno dirette di intimidazione soprattutto delle operaie102. E così il sindacato di sinistra, spesso in contrapposizione alla Cisl, parla una volta di “metodi raffinati di supersfruttamento”103, un’altra mette in luce “la natura reazionaria e antioperaia del meto-

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Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina cit. (a nota 96), pp. 206-207. Ivi, pp. 207-236. Ivi, p. 216.

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do paternalistico caro al signor Buitoni”104. Per contro la direzione aziendale nel 1951 così spiega la sua politica delle concessioni unilaterali. Quando il personale è trattato male, la C[amera] d[el] L[avoro] trova il terreno ideale per le sue iniziative che troppo sovente di sindacale portano soltanto il nome. Se invece gli operai non hanno motivo di lamentarsi, viene a mancare alla C[amera] d[el] L[avoro] la situazione più adatta per realizzare i suoi programmi105.

Tali politiche, che rendono arbitra la direzione aziendale delle dinamiche interne alla fabbrica, derivano in buona parte dal clima economico che consente all’azienda di realizzare alti profitti con forme di utilizzazione della forza lavoro che non prevedono modificazioni sostanziali dell’organizzazione del lavoro. Quando questo avverrà comincerà a manifestarsi una dinamica più sostenuta della contrattazione106. Ciò si verificherà nel 1957, con l’introduzione del metodo Bedaux corretto, che renderà evidente lo scopo dell’ammodernamento degli impianti realizzato nella prima metà degli anni cinquanta e porrà il problema di come ripartire gli utili accumulati grazie allo sviluppo della produzione, delle vendite e dei profitti107. VII.6. Coordinare le aziende: la costituzione della International Buitoni Organization Il gruppo Buitoni Perugina aveva mantenuto un coordinamento grazie al controllo che fino al 1939 Giovanni, detentore delle azioni a voto plurimo, aveva esercitato sia sulla Perugina che sulla Buitoni. Gli anni della guerra avevano modificato profondamente tale quadro. Ognuno dei fratelli Buitoni inizia, cioè, a gestire le varie aziende come un proprio territorio personale, con la conseguenza che si vengono a costituire unità completamente

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Ivi, p. 218. Ivi, p. 220. Ivi, p. 206 e pp. 211-236; ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 27 giugno 1955; ivi, adunanza del 5 luglio 1956. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza dell’8 dicembre 1955; ivi, adunanza del 27 ottobre 1956; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 2, dal 6 gennaio 1958 al 28 dicembre 1958, adunanza del 12 aprile 1958. Vedi pure: Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina cit. (a nota 96), pp. 236-239 e pp. 258-286.

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Capitolo VII Dalla guerra agli anni cinquanta

autonome, prive di una guida e di un piano unificanti. Bruno è amministratore delegato della Perugina e del Poligrafico, Marco della Buitoni di Sansepolcro, Luigi di quella di Roma, Giuseppe lavora tra Sansepolcro e Parigi, mostrando però sempre più interesse per la consociata estera. Giovanni mantiene la carica di presidente sia della Buitoni che della Perugina, senza però più avere incarichi operativi nelle aziende europee, essendo ormai impegnato nella gestione della Buitoni americana108.

Fino a quando i mercati risultano impermeabili e statici la situazione non crea particolari difficoltà. Come inizia, proprio tra il 1952-1953, la sostenuta politica di investimenti che si è ricordata, la necessità del coordinamento tra le diverse aziende del gruppo risulta evidente. Da ciò nasce l’International Buitoni Organization (Ibo), un organismo consultivo di ricerca ed orientamento, che ha come scopo quello dì coordinare in modo migliore le attività delle due Società e delle consociate estere109. La costituzione dell’Ibo, viene proposta da Giovanni Buitoni fin dal 1950. Il suo obiettivo è quello di creare una struttura che possa con il tempo attuare “un controllo centralizzato delle attività, il loro coordinamento, piani di sviluppo e allocazione delle risorse altrettanto centralizzate”110. A ben vedere questa centralizzazione era stata assicurata nel passato da Giovanni. Essa aveva consentito alle aziende di prosperare ed è quello che in forma diversa egli propone ai fratelli. C’è nella proposta dell’imprenditore un duplice aspetto, per alcuni aspetti contraddittorio, il primo lato della questione è quello di riacquisire il controllo delle due aziende, il secondo avviare un processo di sfamiliarizzazione dell’impresa, di definizione di un management autonomo dagli equilibri proprietari e familiari. In altri termini, nel momento in cui non esiste più una figura forte nella famiglia e comincia a porsi il problema della scadenza delle azioni a voto plurimo [che avverrà nei primi anni sessanta] che garantivano il controllo e la gestione delle società, l’impresa si trova a dover affrontare non solo la questione del coordinamento, ma anche il problema di sottrarsi alle dinamiche familiari111.

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Roberta Pencelli, Capitalismo familiare e strutture organizzative: il gruppo Buitoni Perugina dall’Ibo all’Ibp, in Uomini economie culture. Saggi in memoria di Giampaolo Gallo, a cura di Renato Covino, Alberto Grohmann e Luciano Tosi, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1997, vol. II, p. 266. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 13 febbraio 1954; ASBP, FB, DGAD, b. 44, fasc. 602. Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 25), p. 110. Roberta Pencelli, Capitalismo familiare e strutture organizzative: il gruppo Buitoni Perugina dall’Ibo all’Ibp, in Uomini economie culture. Saggi in memoria di Giampaolo Gallo, a cura di Renato Covino, Alberto Grohmann e Luciano Tosi, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1997, vol. II, pp. 266-267.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

C’è un ulteriore elemento per cui Giovanni preme per la costituzione di un organismo di controllo e di direzione strategica. Esso consiste in una divergenza che lo dividerà dai fratelli per tutti gli anni cinquanta e che è riassumibile nella sua convinzione che la Perugina, ma anche la Buitoni, debbano collocarsi nella dimensione del mercato internazionale, data la rottura dei vincoli autarchici e la riapertura degli scambi. Per contro i fratelli non percepiscono con la stessa intensità questi mutamenti e cercano di resistergli. È una incomprensione culturale che attraversa tutto il decennio e che trae anche la sua ragione dal fatto che Giovanni, ormai residente stabilmente negli Stati Uniti, non percepisce l’arretratezza della situazione italiana, con la quale invece i fratelli sono costretti continuamente a fare i conti. È quanto emerge da un discorso alle maestranze della fabbrica, con il quale Bruno Buitoni sr fornisce un resoconto di un suo viaggio negli Stati Uniti fatto nell’aprile-maggio 1950112. Buitoni rimane ammirato per gli standard produttivi della fabbrica della Harshey Chocolate Corporation, dalle quantità prodotte, dalla disciplina che regna negli stabilimenti, dal macchinismo imperante. Poi cominciano le critiche: “la meccanizzazione raggiunge limiti sorprendenti”, però la qualità dei prodotti è correntissima” e “dentro la fabbrica regna un odore sgradevolissimo di rancido” la conclusione è, quindi, “nulla da imparare”. Ma quest’ultima è una osservazione confinata agli aspetti qualitativi della produzione: come dirà poi agli operai anche là producono dei “kisses” che sono “proprio un disdoro per i nostri Baci”113. D’altro canto, Buitoni prende atto che un colosso come Hershey non c’è altrove sia dal punto di vista dei volumi prodotti sia del macchinario utilizzato. La conclusione ha un doppio registro. Valeva la pena di dirvi questo perché è qualche cosa da cui uno esce – come potrei dire? – mortificato… perché si ha la sensazione di essere proprio la pulce vicino all’elefante. […] poi piano piano si riacquista il criterio di relatività: il mercato italiano è quello che è, le nostre miserie sono quello che sono di fronte a quelle ricchezza e bisogna contentarsi di quello che si ha, naturalmente e niente altro114.

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ASBP, FP, DGAD, b. 66, fasc. 584 “Sig. Bruno - Viaggio America”, Appunti sulla visita alla Hershey, 6 maggio 1950, ma soprattutto in Ivi, b. 67, fasc. 586 “Varie dall’1 giugno 1950 al 31 giugno 1951", Discorso del sig. Buitoni, ms., s.d. Giampaolo Gallo, Immagini dalla terra promessa. Impressioni di un imprenditore italiano sugli Stati Uniti (1950), in La storia e i suoi strumenti, a cura di Renato Covino e Francesco Chiapparino, Perugia, Foligno, Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea Editoriale umbra, 1997, p. 295. ASBP, FP, DGAD, b. 67, fasc. 586 “Varie dall’1 giugno 1950 al 31 giugno 1951", Discorso del sig. Buitoni, ms., s.d.

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Capitolo VII Dalla guerra agli anni cinquanta

D’altro canto, Bruno Buitoni ha presenti le difficoltà del momento e del contesto umbro, non a caso dichiarerà a Guido Piovene che lo intervista nel 1957. L’industria umbra è tuttora embrionale. Bisogna contrastare il vizio dei ceti borghesi, l’apatia, la lentezza, l’animo conservatore, la mancanza d’immaginazione, la pigrizia che si contenta di vivacchiare. Il cattivo stato di molte case è motivo di conflitto perpetuo tra contadini e proprietari115.

Intervistato, peraltro, proprio durante la sua visita americana, aveva dichiarato a “Il progresso italo-americano”: “Nel 1949 per assumere soltanto 300 operai, ho dovuto selezionare ben 3.000 domande. Queste cifre sono più eloquenti di molte parole”116. È a questi vincoli che non intende piegarsi Giovanni ed è su ciò che matureranno ulteriori elementi di conflitto con i fratelli. Dopo lunghe consultazioni l’Ibo viene costituita nel maggio 1953 a Parigi dove, sotto la presidenza di Giovanni Buitoni, si riuniscono “i fratelli, i nipoti e i più importanti collaboratori della Perugina”. In quell’occasione è eletto il primo Consiglio generale dell’organizzazione, formato da tutti i membri dei Consigli di amministrazione delle quattro Società collegate: la Buitoni italiana, quella francese, la Perugina e la Buitoni Foods Corporation di New York117. Il tempo che passa dalla proposta di dar vita all’organismo e la sua effettiva costituiscono nei fatti, il sintomo che si tratta di una soluzione di compromesso fra Giovanni che in questo modo cerca di ristabilire la sua leadership – anche se non direttamente, ma attraverso un organismo finanziato dalle società che dovevano essere controllate – e i fratelli, che in questa soluzione vedono la possibilità di continuare ad operare in modo autonomo118.

Che questo sia lo spirito è dimostrato dal fatto che l’Ibo è una società di fatto, senza forma giuridica e capitale sociale. Cosa questa che fa scrivere a Franco Buitoni, figlio di Bruno ed esponente della quinta generazione. Abbiamo dato vita ad un organismo che trovava la sua regione d’essere solo in una

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Guido Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 1957, pp. 253-254. La situazione dell’industria italiana è confortante, ha dichiarato Bruno Buitoni in “Il progresso italo-americano”, 7 maggio 1950. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 13 febbraio 1954; Buitoni, Storia di un imprenditore cit. (a nota 12), p. 107. Pencelli, Capitalismo familiare e strutture organizzative cit. (a nota 111), p. 268.

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manifestazione di buona volontà di un certo numero di persone, tutte qualificatissime e consce dell’importanza dei problemi che di volta in volta si affacciavano119.

Nella riunione successiva, il 29 ottobre 1953, viene nominato un comitato direttivo, composto da Giovanni, Marco e Bruno Buitoni, Mario Spagnoli e Francesco Lo Presti. Alla direzione del nuovo organismo è successivamente chiamato il ragioniere Arnaldo Ceccomori, membro del Consiglio di amministrazione della Perugina e del Collegio dei sindaci revisori della Buitoni120. È la sanzione di una ricomposizione familiare tra i fratelli Buitoni della quarta generazione. Giovanni rientrava in Italia, dopo quattordici anni di assenza. Tornava come riconosciuto leader delle aziende Buitoni, come il costruttore delle loro fortune. Dopo la riunione di Roma sempre a fine ottobre e a inizi novembre vennero organizzate sue visite agli stabilimenti di Perugia e di Sansepolcro. Perugia fu tappezzata di manifesti con la sua foto e con la scritta “Bentornato”, si mobilitarono le autorità cittadine e ben tremila persone si assieparono nel nuovo reparto torrefattori per ascoltare il suo discorso. Quando “Giovanni varcò la soglia della Perugina […] le sirene di tutti gli stabilimenti a Fontivegge, Sansepolcro e Roma salutarono contemporaneamente il suo rientro in sede”. Analoga fu l’accoglienza a Sansepolcro con autorità, cittadini, lavoratori e dirigenti venuti a rendere omaggio. Al di là dell’omaggio formale, del calore umano che circonda Giovanni Buitoni, restano però le differenze legate a visioni spesso contrapposte dell’impresa e del modo di gestirla121. Come si è già detto l’Ibo, nelle intenzioni di Giovanni Buitoni, ha la funzione di sprovincializzare le due Società. Tale progetto si correla con l’ipotesi – che prenderà corpo qualche anno dopo – di “sfamiliarizzazione” degli organismi di direzione. Non a caso alla riunione del maggio 1953 parteciperà l’avv. Pasquale Chiomenti, esperto in finanza, che nei fatti diverrà il fiduciario di Giovanni Buitoni. Su entrambi i terreni il ruolo dell’Ibo risulta abbastanza modesto. Il comparto italiano del gruppo, infatti, continuerà a mantenere il controllo dell’insieme delle attività, mentre il vero coordinamento tra Buitoni e Perugina è costantemente assicurato dalla contemporanea presenza dei cinque fratelli Buitoni nei due Consigli di amministrazione e negli incarichi operativi delle varie aziende. L’Ibo si trasforma rapidamente in

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ASBP, FB, DGAD, b. 77, fasc. 891, Lettera di Franco Buitoni allo zio Giuseppe Buitoni, 9 maggio 1962. Ivi, b. 49, fasc. 645, Verbale delle riunioni del comitato direttivo dell’Ibo, 4 e 5 marzo 1955. Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 25), p. 112.

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una struttura la cui funzione è fondamentalmente quella di raccogliere informazioni (vendite, pubblicità, investimenti)122, né, quando si cercherà di specificarne le funzioni dopo il 1956, si otterranno risultati diversi da quelli realizzati negli anni di avvio dell’organismo, che sopravviverà senza raggiungere nessuno dei risultati per cui era stato costituito fino al 1966. “Si risolveva tutto in gran riunioni, non c’erano decisioni finanziarie o tecniche, che in qualche modo incidessero nella direzione di una unicità della gestione”123. Occorrerà attendere la costituzione dell’Ibp, a cavallo tra anni sessanta e settanta del Novecento, perché la soluzione di una gestione unitaria delle aziende si realizzasse. Come sempre Giovanni Buitoni, che operava in un osservatorio privilegiato, anticipava i tempi, spesso nell’incomprensione del resto della famiglia. VII.7. Verso un mercato di massa del cioccolato È del resto quanto avviene anche in proposito delle politiche commerciali e dell’innovazione di prodotto e di processo, di cui si discute intensamente dei Consigli di amministrazione dei primi anni cinquanta. Come si è accennato la ripresa degli investimenti era avvenuta più per la necessità di abbattere i costi di produzione che a causa di ampliamenti reali delle dimensioni mercato. Per la Buitoni si puntava ad allargare la platea dei consumatori delle paste dietetiche e a collocarsi tra i principali produttori di paste comuni, differenziandosi al tempo stesso per prezzo, qualità e distribuzione, dalle ditte minori. Più complessa è invece, agli inizi degli anni cinquanta, la situazione della Perugina. In questo caso il problema che si pone è, anzitutto, quello della conquista di mercati più vasti, secondo la linea inaugurata da Giovanni Buitoni negli anni trenta. In questa direzione però il vincolo è costituito dagli ingenti oneri fiscali che gravano sul cioccolato (tasse sulle materie prime, dazi, ecc.)124. Esso in altri termini si configura come un prodotto di

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ASBP, FB, DGAD, b. 49, fasc. 645, Verbale delle riunioni del comitato direttivo dell’Ibo, 4 e 5 marzo 1955; ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 2 dal 6 gennaio 1958 al 28 dicembre 1958, adunanza del 6 gennaio 1958; ivi, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 21 dicembre 1960; Buitoni, Storia di un imprenditore cit., p. 80 e pp. 107-110. ISUC, AG, fasc. 425, Intervista a Paolo Buitoni, a cura di Giampaolo Gallo e Roberta Pencelli, 28 giugno, 2 luglio e 8 luglio 1993, p. 48. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 6 agosto 1947; ivi, adunanza del 7 marzo 1950; ivi, adunanza del 27 febbraio 1951.

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nicchia, più che come un bene alimentare “normale”, in contrasto “con ciò che avviene nei paesi più civili del mondo ove il cioccolato viene considerato, come è in realtà, un vero e proprio alimento”125. Tutto ciò pone alcune priorità alle politiche dell’azienda. In primo luogo occorre abbattere i costi, soprattutto per garantire la penetrazione nei mercati esteri, dove per altro, ancora negli anni cinquanta, viene reperita valuta pregiata per l’acquisto di materie prime e in alcuni casi, come si è visto, anche di macchinari. Inoltre, l’alto prezzo del cioccolato rispetto alle capacità di assorbimento del mercato interno, in cui la quota destinata ai consumi viene ancora nettamente compressa, pone il problema di differenziare le produzioni. Esiste, insomma, la consapevolezza di dover intervenire su mercati di massa, oltre a dover mantenere, col cioccolato, un mercato di lusso. Ciò spiega perché, oltre alla recriminazione continua nei confronti di una legislazione che oggettivamente impedisce la vasta diffusione dei prodotti a base di cacao, si insista ad attribuire una particolare importanza “alla fabbricazione e allo sviluppo della vendita delle caramelle, del torrone e delle creme”126. Tale politica di diversificazione del prodotto permette di mantenere alti gli utili, malgrado alcune cadute del cioccolato sul mercato. Costante è l’impegno per “la creazione di altri prodotti più economici [...] in maniera di compensare [...] la riduzione di consumo e quindi di vendita [...] nel settore dei cioccolato”127. L’aumento dei costi di produzione di quest’ultimo si ripercuote in maniera sensibile sull’andamento del mercato americano, dove emergono contemporaneamente i problemi dell’azione pubblicitaria, necessaria a mantenere e consolidare le posizioni raggiunte e della rete di distribuzione diretta128. Già nel 1954 si pone la questione dell’ammodernamento e dello spostamento del negozio di New York in una zona più centrale129. L’orientamento che si fa strada tra gli amministratori dell’azienda è sostanzialmente negativo. Si ritiene, infatti, opportuno applicare in tutti i campi una politica di prudente “raccoglimento”, seguendo del resto direttive convenute in sede Ibo130. In secondo luogo, nel 1956, l’ispettore Castellano, precisando i rapporti intercorsi dal 1946 tra la Perugina e la sua concessionaria negli

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Ivi, adunanza dell’8 dicembre 1955. Ivi, adunanza del 27 febbraio 1951; ivi, adunanza del 27 febbraio 1952. Ivi, adunanza del 26 maggio1955. Ivi, adunanza del 7 marzo 1950; ivi, adunanza dell’8 dicembre 1955; Buitoni, I proficui risultati di una piccola società cit. (a nota 100), pp. 51-52. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dall’11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 25 maggio 1954. Ibidem.

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Stati Uniti, la Gourmet Import Inc., rileva come le perdite relative alle importazioni ammontino a 48.848,90 dollari a cui si aggiungono quelle del negozio di New York per il 1951-1954, pari a 77.688,55 dollari, per una perdita totale di 126.537,45 dollari. Nonostante tali passivi, però, il Consiglio di amministrazione della Perugina, considerando l’estrema importanza del mercato americano, decide di sostenere la ditta importatrice con un abbuono di 80.000 dollari131. A fine 1955 la questione del negozio di New York viene risolta in una seduta di Consiglio cui partecipa anche Giovanni Buitoni. Egli sostiene, con tutta la sua autorità, la necessità di una struttura di vendita della Perugina nella città americana, dichiarando “al riguardo, che fino a che sarà a New York, egli desidera avere un negozio Perugina in quella città”132. Le motivazioni che egli porta sono di diverso tipo. C’è una questione d’immagine, che si collega anche alla necessità di avere negozi non solo nella metropoli americana, ma anche a Parigi, ma accanto a questi motivi Buitoni ne aggiunge uno di carattere personale, affermando che “trent’anni di attività spesi nella Perugina gli danno il diritto di avere la modesta soddisfazione di vedere i prodotti Perugina in quella che oggi è la città di gran lunga più importante del mondo”133. Infine rilancia, rimproverando alla direzione aziendale di essersi lasciata superare sul mercato americano dalla Motta, mentre ritiene che “il mercato degli Stati Uniti non solo non si debba perdere, ma si debba sfruttare in pieno”134. Il Consiglio di amministrazione del 4 febbraio 1956 accetta tale linea esprimendo tuttavia il suggerimento di cercare di limitare l’esportazione [...] ai prodotti che consentono una piena standardizzazione di produzione e comunque di non estendere la gamma attuale135.

Tra il 1955 e il 1956 in ogni caso la situazione tende a mutare. Giovanni Buitoni coglie che è finalmente possibile e realizzabile una politica rivolta, una volta di più, alla conquista di mercati più ampi. In altri termini egli si oppone, per la Perugina, ad una sorta di rassegnazione che, al di là delle dichiarazioni di principio, vede accettata l’idea del cioccolato come bene di lusso e si orienta in direzione dello sviluppo di produzioni alternative per il mercato di massa. Non a caso, oltre a difendere la politica di espor-

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Ivi, adunanza del 7 marzo 1955. Ivi, adunanza dell’8 dicembre 1955. Ibidem. Ibidem. Ivi, adunanza del 4 febbraio 1956.

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tazione negli Stati Uniti, nonostante la contrazione delle vendite nel 1954, egli sostiene anche che in Italia è troppo invalso il concetto che i cioccolatini siano un prodotto di lusso e non un alimento, come sono considerati in tutti i paesi del mondo, e noi rafforziamo questa errata e dannosa convinzione con le nostre esposizioni, che comprendono quasi essenzialmente oggetti o scatole chiuse e mai prodotti messi in piena evidenza136.

Ciò significa che per Giovanni Buitoni sarebbe necessario esporre cacao alla rinfusa, tavolette e cioccolatini nudi e scartati in parte o totalmente, nel negozio stesso o spediti direttamente da Perugia. [Questo] darebbe finalmente l’idea che il cioccolato o i cioccolatini Perugina non si comprano soltanto per fare regali, ma si comprano anche per mangiare. “Il dono delle ore liete” è indubbiamente uno slogan molto indovinato, ma i regali si fanno a Natale o in speciali ricorrenze, mentre il mangiare è cosa di ogni giorno. Bisognerebbe in conclusione convincere gli italiani [...] che il cioccolato si regala sì, ma si mangia anche137.

Sono evidenti dissensi e riserve sul modo di gestire l’azienda138. I fatti gli avrebbero dato ragione tanto più che, proprio a partire dal 1956, il corso del prezzo del cacao comincia a scendere. Questa linea innovativa, per altro, non vale solo per il settore dolciario. Anche per quanto riguarda la produzione delle paste alimentari l’imprenditore sostiene infatti la necessità di aumentare la gamma dei prodotti, uscendo dalla pura e semplice produzione ordinaria e proponendosi altresì di mettere allo studio la preparazione di alimenti precotti139, quasi a dimostrazione di quanto Giovanni Buitoni precorresse i tempi, proiettandosi nel futuro.

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Ivi, adunanza dell’8 dicembre 1955. Ibidem. Ivi, adunanza del 4 febbraio 1956. Ivi, adunanza dell’8 dicembre 1955; ivi, adunanza del 5 luglio 1956; ASBP, FB, DGAD, b. 50, fasc. 658 “Lettera a Giovanni Buitoni del 5 febbraio 1955”; ivi, “Lettera di Giovanni Buitoni al fratello Giuseppe del 14 febbraio 1955”; ivi, “President’s report to the stockholders of Buitoni Foods Corporation del 25 marzo 1955"; ivi, “Ai consiglieri di amministrazione della Perugina”. Lettera di Giovanni Buitoni del 16 maggio 1955 Vedi: Covino, Dalla ricostruzione agli anni ottanta cit. (a nota 23), p. 40.

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Capitolo VIII Dentro il boom

Capitolo VIII Dentro il boom

VIII.1. Crisi industriale, crisi agraria: migrazioni e urbanizzazione Nella seconda metà degli anni cinquanta si crea una forbice tra il trend di crescita della Perugina e la realtà economica circostante. Se nella prima parte degli anni cinquanta l’azienda si sviluppa con gradualità, sia per quanto riguarda la produzione, l’occupazione e i processi di modernizzazione tecnica, a partire dal 1957 tale sviluppo diventerà impetuoso, più accelerato di quanto si andava verificando sia a livello nazionale. In altri termini la Perugina si collocherà all’interno di quel ciclo positivo dell’economia italiana che verrà definito boom, mentre l’economia della provincia e della regione conosce un intenso periodo di difficoltà che coincide con la crisi delle strutture agrarie e con quello che da essa deriva. Non è certo questa la sede per analizzare nel dettaglio gli eventi e le politiche che si cercheranno di attivare per uscire dalla crisi1. Varrà, tuttavia, la pena di ricordare quali erano stati i fenomeni che avevano interessato la regione nei primi anni cinquanta e le loro ripercussioni nel passaggio tra i due decenni. V’è da sottolineare come si assista ad un’intensa smobilitazione di molte delle attività produttive, nate e sviluppatesi negli anni trenta ed incentivate dall’economia di guerra2. Spariscono o vengono fortemente ridimensionate le industrie aeronautiche, la Sai e l’Ausa Macchi, che erano giunte ad occupare, nel 1943, circa 5.000 operai. Comincia dopo il 1948, il decli-

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Cfr. in proposito Giacomina Nenci, Proprietari e contadini nell’Umbria mezzadrile, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. L’Umbria, a cura di Renato Covino e Giampaolo Gallo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 187-257 ed in particolare pp. 246-257; Enrico Mantovani, L’Umbria e la programmazione regionale (Un’ipotesi interpretativa per gli storici), ivi, pp. 793-822; Claudio Carnieri, Regionalismo senza regione. Considerazioni sull’Umbria negli anni cinquanta e sessanta, Perugia, Protagon, 1992; Renato Covino, Trasformazioni sociali ed economiche dell’Umbria ed evoluzione dei modelli analitici nell’ultimo cinquantennio, saggio introduttivo a Cinquant’anni di ricerche per la programmazione economica, sociale e territoriale in Umbria. Repertorio delle ricerche e indici dei periodici, Aur&s quaderni, n. 1, pp. 9-35. Cfr. Renato Covino e Giampaolo Gallo, Ipotesi e materiali per una storia dell’industria nella provincia di Perugia dal primo dopoguerra alla ricostruzione, in Politica e società in Italia dal fascismo alle resistenza. Problemi di storia nazionale e storia umbra, a cura di Giacomina Nenci, Bologna, il Mulino, 1978, pp. 227-264.

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no delle attività estrattive che porterà a fine anni cinquanta alla chiusura delle miniere di lignite, i cui addetti avevano raggiunto nel 1946-1947 le 6.166 unità3. Infine, nel 1952-1953, inizieranno i grandi licenziamenti alla Terni che comporteranno la perdita di oltre 2.700 posti di lavoro alle Acciaierie4. Tra il 1947 ed il 1953 i licenziati sono oltre 15.000. Per buona parte di essi – data l’assenza di prospettive occupazionali all’interno della regione – l’unica scelta è quella dell’emigrazione verso il nord Italia o all’estero5.

A ciò va aggiunta la disoccupazione che, nel 1952 viene stimata, in provincia di Perugia, tra le 15-18.000 e le 20-25.000 unità. Le statistiche degli uffici di collocamento, anche se incomplete, ci permettono di formulare un’idea orientativa sulla posizione economica dell’ammontare […] e ci indicano nel 90,77% i disoccupati appartenenti all’industria e al commercio, nel 5,91 quelli appartenenti all’agricoltura e nel 3,32 quelli appartenenti al altri settori economici6.

La crisi agraria aggrava la situazione. È noto come la causa scatenante della stessa derivi dalle cattive annate del 1956-1957. Vero è che le nuove possibilità derivanti dalla ripresa economica incentivano la spinta all’emigrazione verso altre aree del paese, in una situazione in cui la crisi si cumula con la sfiducia sempre più diffusa che la condizione delle campagne umbre sia suscettibile di cambiamenti7. Quasi tutti i comuni dell’Umbria perdono popolazione, tranne i capoluoghi di provincia e le realtà urbane maggiori. Si mettono in moto due fenomeni concomitanti: l’emigrazione verso altre aree del paese esterne alla

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Ivi, p. 252. Renato Covino, I licenziati di Terni (1952-1953), in Annali di storia dell’impresa, 15-16/ 2004-2005, Venezia, Marsilio 2005, pp. 119-139. Renato Covino, Giampaolo Gallo, Luigi Tittarelli e Gernot Wapler, Economia, società e territorio, in Perugia, a cura di Alberto Grohmann, Bari, Laterza, 1990, p. 141. ASCCPg, Biblioteca, Camera di commercio, industria e agricoltura di Perugia, Condizioni della disoccupazione e possibilità d’impiego della mano d’opera in provincia di Perugia, s.l. [Perugia], s.e. [Camera di commercio, industria e agricoltura], s.d. [1952]. Sulla crisi in generale cfr. Renato Covino, Umbria: dati e caratteri della grande trasformazione, in La grande trasformazione e la memoria. Fonti e tracce di ricerca per lo studio dell’economia e della società umbra e marchigiana nella seconda metà del XX secolo, Atti del convegno di Foligno del 28 maggio 2005, a cura di Franco Amatori e Renato Covino, in “Proposte e ricerche”, XXVIII (2005), 55, pp. 34-45. Sulla sfiducia crescente dei contadini che la situazione nelle campagne sia suscettibile di cambiamenti e sulle politiche della Cgil e del Pci si veda Giacomina Nenci, Sull’agricoltura, ivi, pp. 45-53.

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Capitolo VIII Dentro il boom

regione, e processi d’inurbamento di qualche rilevanza. Soprattutto il primo sarà destinato a pesare nel lungo periodo. La popolazione umbra che aveva raggiunto, nel 1951, 803.918 unità, calerà nel giro di venti anni a 775.783 abitanti8. I fenomeni di inurbamento riguarderanno, invece, i centri maggiori. A Perugia coinvolgeranno la città e le frazioni del comune dove si vanno addensando le attività industriali, determinando i processi di crescita urbana9. È noto come il primo piano regolatore urbano di Perugia – redatto da Bruno Zevi – risalga al 1956. Il piano si collocava in una prospettiva di crescita limitata della città. Ciò faceva leva sui dati demografici. Nel 1951 la popolazione urbana era pari a 46.900 abitanti, mentre quella delle frazioni raggiungeva le 48.410 unità10. Tutto lasciava prevede uno sviluppo demografico relativamente lento. Peraltro – tranne rilevanti eccezioni – si dava per scontato che non vi sarebbero stati fenomeni consistenti di industrializzazione. Non si ragionava, insomma, affatto sull’idea di una grande Perugia, ma si prendeva atto che la città conservava il carattere di grosso centro prevalentemente agricolo e di mercato di bestiame, pur se importante essa era sotto l’aspetto culturale ed amministrativo; debole rimaneva lo sviluppo industriale e l’urbanesimo non si era manifestato intensamente11.

I fenomeni di inurbamento della seconda metà degli anni cinquanta costringeranno nel maggio 1959 ad avanzare una richiesta di variante al piano che verrà autorizzata nello stesso anno e definitivamente adottata dal Consiglio comunale nel 1962. La variante allargava decisamente la pianificazione del capoluogo creando un vasto comprensorio urbano con le frazioni limitrofe facenti capo ai vecchi centri abitati sorti lungo il Tevere (Ponte San Giovanni, Ponte Felcino, Ponte Valleceppi) e con i centri di più recente sviluppo (San Sisto, Ferro di Cavallo, San Marco)12.

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Centro regionale umbro di ricerche economiche e sociali, Annuario 1975, Perugia, Crures, 1976, tab. 2, pp. 110-113. Covino, Gallo, Tittarelli, Wapler, Economia società e territorio cit. (a nota 5), tab. 12, pp. 150-151. Ibidem Alberto Melelli, Perugia. Profilo di geografia urbana, in Quaderni dell’Istituto policattedra di geografia, Università degli Studi di Perugia, 1979, p. 81. Ivi, p. 81. Sulla “variante” cfr. anche Paolo Ceccarelli, Appunti sull’urbanistica perugina dal secondo dopoguerra a oggi, in Enrico Antinoro, Paolo Ceccarelli, Loreto Di Nucci e Raffele Rossi, Mezzo secolo di urbanistica. Storia e società della Perugia contemporanea, Perugia, Protagon, 1993, pp. 59-102; Enrico Antinoro, Il problema storico dei Piani urbanistici generali del Comune di Perugia, ivi, pp. 103-141.

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La “variante”, è utile ricordarlo, “prevede che, nell’arco di un ventennio, Perugia abbia 200.000 abitanti in più, concentrati in una serie di nuovi poli sparsi nelle campagne” e affronta in termini nuovi anche il problema delle nuove aree industriali. […]. I nuovi insediamenti industriali sono spostati da Fonitivegge a San Sisto e ad Olmo, in due zone rispettivamente di 75 e 159 ettari13.

A ben vedere sono i centri che cresceranno più intensamente negli anni successivi e nelle vicinanze dei quali si collocheranno buona parte delle nuove industrie del comprensorio. L’andamento e la dislocazione della popolazione nel trentennio successivo fanno capire quale sia l’andamento dell’urbanizzazione. La popolazione urbana sale da 46.900 abitanti del 1951 a 62.545 del 1961 a 74.289 del 1971, mentre quella delle frazioni passa da 48.419 ai 49.966 del 1961 per raggiungere le 55.632 unità un decennio dopo. All’interno delle frazioni gli incrementi maggiori si registrano a Castel del Piano (+102%), L’Olmo (+61%), Ponte della Pietra (+83%), Ponte San Giovanni (+125%), San Sisto (+374%)14. VIII.2. Crescita urbana e Perugina: un percorso intrecciato Di questi processi la Perugina è partecipe e protagonista. Nel decennio compreso tra la metà degli anni cinquanta e degli anni sessanta, la città comincia a cambiare la sua fisionomia, a trasformarsi da centro dove affluisce la rendita agraria e in cui si organizza l’amministrazione del territorio a luogo dove le attività industriali e di servizio hanno un peso crescente, dato che questo si manifesterà in modo compiuto nel decennio 1971-1981. L’azienda accompagna tale trasformazione, è partecipe della discesa della città verso il piano. Ciò è dovuto non tanto a cause endogene, al suo essere parte del tessuto produttivo cittadino, ma per molti aspetti è frutto della sua diversità all’interno di esso, dal suo essere un’azienda in crescita che opera su mercati ampi, nazionali ed internazionali, dal suo carattere d’impresa competitiva e innovativa. Il suo contributo, peraltro, alla moderata crescita dell’occupazione industriale di Perugia tra il 1951 ed il 1961, è di rilevanza assoluta.

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Ceccarelli, Appunti sull’urbanistica perugina dal secondo dopoguerra a oggi cit. (a nota 12), p. 67. Covino, Gallo, Tittarelli e Wapler, Economia società e territorio cit. (a nota 5), tab. 12, pp. 150-151.

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Capitolo VIII Dentro il boom

L’industria nel suo complesso sale dalle 9.341 unità del 1951 alle 12.294 del 1961. Il comparto manifatturiero vede passare i suoi addetti da 7.495 a 9. 871. Ma l’elemento di novità è l’aumento delle attività alimentari e tessili, del vestiario e dell’abbigliamento che passano rispettivamente, sull’insieme dell’industria manifatturiera dal 21,1 per cento al 29,3 e dal 27,9 al 29,415.

L’azienda contribuisce per ben 977 unità a questa crescita, passando da 868 a 1.845 addetti nel decennio. Su un aumento di 2.376 addetti nel comparto manifatturiero essa ne assicura ben il 41,1%. Lo sviluppo della Perugina nella seconda metà degli anni cinquanta e nei primi anni sessanta appare più accelerata rispetto a quella delle altre imprese alimentari e dolciarie operanti a livello nazionale. Le sue produzioni hanno un’impennata che anticipa per alcuni aspetti il miracolo economico. Tra il 1953 ed il 1965 la produzione nazionale di cioccolato raddoppia, mentre quella Perugina aumenta di oltre sette volte. Allo stesso modo la produzione complessiva dell’azienda si quintuplica, mentre su base nazionale la stessa gamma di prodotti cresce poco più del doppio16.

Se ci si limita ad analizzare i dati dal 1957 al 1963, la crescita aziendale appare in tutta la sua evidenza (graf. 4). Allo stesso modo risultano evidenti gli scarti occupazionali e di produttività (tab. 21). La crescita dell’occupazione è dovuta anche all’aumento del ricorso al lavoro stagionale. Tra 1955 ed il 1961 gli occupati temporanei salgono, infatti, da 61 a 761 e la presenza di forza lavoro occupata solo nei periodi di maggior produzione resterà una costante ancora per alcuni anni. Si registra, cioè, un andamento oscillante della produzione nel corso dell’anno, legato alla ciclicità stagionale di gran parte del consumo dolciario, fatto questo che – in assenza di una sufficiente diversificazione della produzione – non consente un pieno sfruttamento degli impianti. Infine gli investimenti. Essi erano cresciuti progressivamente da 100.717.473 lire a 339.491.758 lire tra il 1948 e il 1953. Avevano conosciuto una flessione nel 1954 (142.839.974 lire) e nel 1955 (77.592.351), per risalire dal 1956 (202.091.620), impennandosi nel 1957 ed assumendo un andamento prima altalenante, alla fine degli anni cinquanta, e poi sostenuto nel primo triennio degli anni sessanta, almeno stando ai bilanci pubblicati (graf. 5).

15 16

Ivi, pp. 143-144. Renato Covino, Dalla ricostruzione agli anni ottanta, in “Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, contributi di Renato Covino, Paola Boschi e Daniele Orlandi, Electa Editori umbri associati, 1990, p. 41.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

Grafico 4. Produzione totale della Perugina, suo peso percentuale sul prodotto nazionale del settore dolciario e incidenza del cioccolato e delle caramelle Perugina su cioccolato e caramelle prodotte in Italia (1957-1963)

Fonte: ASBP, FP, DA, b. 6, fasc. 46; vi, b. 28, fasc. 211; ivi, FP, DGAD, b. 80, fasc. 689; Ivi, b. 95, fasc. 793.

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Capitolo VIII Dentro il boom

Tabella 21. Dipendenti e produttivitĂ oraria alla Perugina (1957-1963)

Fonte: ASBP, FP, DP, b. 1, fasc. 4; ivi, b. 24, fasc. 163; Ivi, b. 6, fasc. 46; Ivi, b. 80, fasc. 689.

Grafico 5. Investimenti alla Perugina (1957-1963)

Fonte: ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblee generali ordinarie e straordinarie e bilanci 1957-1963.

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Queste performance vanno collocate in una crescita del settore che durante gli anni cinquanta è tutt’altro che sostenuta. L’industria alimentare e, al suo interno, l’industria dolciaria crescono sì, ma senza salti. Tra il 1946 e la metà degli anni sessanta il consumo di dolci pro capite passa da 2 a 8,5 chilogrammi e il settore denuncia tassi d’incremento annui vicini all’8% tra il 1957 e il 196317.

In generale l’aumento del consumo di prodotti alimentari di origine industriale era frutto di un cambiamento di clima economico che aveva le sue ragioni in fenomeni nazionali ed internazionali. Abbiamo già accennato alla caduta delle barriere di carattere protezionistico e, quindi, al costo minore delle materie prime. L’apertura dei mercati, tuttavia, comporta anche una divisione internazionale del lavoro in cui l’Italia, caratterizzata da bacini di forza lavoro ampi e a basso costo, si sarebbe collocata nei settori ad alto valore aggiunto come quelli legati alla produzione di beni di consumo durevoli (automobili ed elettrodomestici). Ciò significò specie nella seconda metà degli anni cinquanta, una crescita industriale sostenuta, una richiesta costante di forza lavoro, migrazioni consistenti di popolazione dal Sud al Nord, dalla campagna alla città e, conseguentemente, un ricorso sempre maggiore al mercato, anche per quello che concerneva i beni alimentari. Si tratta, peraltro, di una fascia di consumatori prevalentemente giovani “che richiede continuamente prodotti nuovi in risposta alle mutevoli esigenze dei gusti e della moda”18. Nasceranno così nuovi prodotti destinati ad alimentare mercati sempre più ampi. Nel 1950 entrano in commercio gli ice cream di Algida e Motta, nel 1951 gli sticks della Motta, nel 1955 i crackers di Pavesi e Motta e l’elenco potrebbe continuare. La produzione dolciaria quasi raddoppia tra il 1953 ed il 1960. Tale crescita, tuttavia, si concentra soprattutto nel settore delle paste lievitate e dei biscotti, molto meno in quello delle caramelle e del cioccolato (tab. 22). È in questo contesto di progresso relativamente lento, in un settore in cui i cambiamenti più rilevanti si registreranno solo a metà degli anni sessanta, che acquista un valore emblematico l’esperienza della Perugina dove gli indicatori di crescita cominciano ad essere sostenuti già a metà degli anni cinquanta e si manterranno su questi livelli per tutto il quindicennio successivo. Questa maggior dinamicità si registra anche in rapporto con le altre socie-

17 18

Giancarlo Subbrero, L’industria dolciaria novese (1860-1885), in “Annali si storia d’impresa”, 1999, 10, p. 635. Umberto Collesei, L’industria dolciaria, Milano, Etas Kompass, 1968, p. 17.

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Capitolo VIII Dentro il boom

Tabella 22. Produzione dell’industria dolciaria italiana

Fonte: Istat, “Annuario di statistiche industriali, anni 1953-1960” e “Bollettino mensile di statistica”; Alfreda Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina dal 1945 al 1963, Tesi di laurea, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze politiche, Anno accademico 1989-1990, p. 17.

tà della famiglia. L’andamento produttivo della Buitoni risulta superiore a quello nazionale, pure esso è meno accelerato di quello di Perugina. Nel 1965 esso supera di quattro volte i valori del 1953, mentre il dato nazionale non risulta neppure raddoppiato. L’attività cartotecnica, sempre nel periodo 1953-1965, vede anch’essa quasi quadruplicare il volume delle quantità lavorate. Gli occupati alla Buitoni sono pari, nel 1960, a 1.296, circa cinquecento in meno rispetto all’azienda di Perugia, che si configura come l’azienda più dinamica del gruppo. Anche l’andamento degli utili, infine, riflette tale situazione. Prendendo in considerazione il periodo 19531965, la Perugina vede quintuplicare gli utili netti mentre per la Buitonì l’aumento è di circa due volte e mezzo19. Si tratta, naturalmente, dì andamenti oscillanti e, soprattutto nei 1963-1965, per effetto della congiuntura sfavorevole, si registreranno rilevanti contrazioni dei profitti in entrambe le aziende. Se si esamina, insieme, il coefficiente di redditività del capitale

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Covino, Dalla ricostruzione agli anni ottanta, in “Sulla bocca di tutti” cit. (a nota 16), p. 41.

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(il rapporto tra utile netto ed attivo immobilizzato) è possibile individuare i momenti di ripresa e caduta del processo di investimento. L’indice scende alla Buitoni ed alla Perugina in corrispondenza della costruzione dei rispettivi stabilimenti di Aprilia e San Sisto; mentre crolla nel 1964 per l’effetto congiunto dello sforzo d’investimento e della caduta dei profitti. VIII.3. Investimenti ed espansione immobiliare Particolare rilievo assume in questo quadro, per molteplici ragioni, la variabile degli investimenti. Per tutti gli anni cinquanta essi sono quasi interamente autofinanziati, secondo una tradizione inaugurata già negli anni venti da Giovanni Buitoni. Gli investimenti esterni sono in realtà limitati. È il caso del mutuo di 150.000.000 sottoscritto con l’Efi ed avallato dalla S.p.a. Gio. & f.lli Buitoni nel 195620. Gli investimenti sono tesi, soprattutto, a diminuire i costi di produzione, tant’è che la capacità produttiva accumulata, specie quella dei nuovi impianti del cioccolato, non viene pienamente utilizzata. È ciò che porta, sempre nel 1955, Giovanni Buitoni a proporre che per tre anni vengano sospesi sia l’espansione immobiliare che lo sviluppo degli impianti, ritenendo che la capacità produttiva esistente sia più che sufficiente a garantire l’andamento dell’azienda e che non sia una pratica conveniente quella di praticare sconti e premi ai clienti pur di aumentare il fatturato21. Nonostante il parere del presidente il Consiglio di amministrazione della Perugina accetta la proposta di Bruno Buitoni di acquistare l’area e gli immobili compresi tra viale Mario Angeloni, via Cortonese e via Fontivegge. Nel triangolo in questione di proprietà di Zuccacci e Galletti si vorrebbe trasferire il Poligrafico, lasciando libera l’area occupata da questo impianto per provvedere ad ulteriori ampliamenti della Perugina22. L’operazione di acquisto viene portata a termine nel 1957 e comporta la sottoscrizione di un prestito di 250.000.000 con la Cassa di risparmio di Perugia, concesso grazie alla fideiussione della S.p.a. Gio. & f.lli Buitoni23. Si pensa, così, di ovviare alla mancanza ormai preoccupante di spazio e di realizzare capacità produttiva che permetta di rispondere ad una domanda crescente. In realtà, l’aumento della produzione era divenuto di entità tale che anche gli ulteriori aumenti di produttività, dell’ordine del 25%-30%,

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ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dal 11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 27 giugno 1955. Ivi, adunanza dell’8 dicembre 1955. Ivi, adunanza del 4 febbraio 1956. Ivi, adunanza del 30 marzo 1957.

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non risolvono la situazione. Si innescano, anzi, diseconomie dovute a sempre più frequenti strozzature logistiche, fatto questo che provoca cali significativi della produttività24. Nel 1956-1957 la situazione arriva al limite, l’intera struttura è saturata, anche e soprattutto quella del cioccolato su cui si erano attuati i maggiori investimenti. Si pone così per i dirigenti dell’azienda il problema di programmare l’ampliamento dello stabilimento. Sempre nel 1957 si affida “lo studio di un piano regolatore dello stabilimento suscettibile di permettere di fronteggiare il crescente sviluppo dell’azienda [ad] un attrezzatissimo studio di architettura industriale”25, lo studio RusconiClerici di Milano. “L’improcrastinabile necessità di provvedere al più presto ad un organico ampliamento dello stabilimento”26, per usare le parole di Bruno Buitoni sr, viene sottolineata a più riprese, a tal fine si istituisce un ufficio “nuovi impianti” con il compito di raccoglie e coordinare elementi e materiali per lo studio e la realizzazione del nuovo stabilimento. La Perugina non è l’unico stabilimento del gruppo Buitoni dove la crescita della domanda e della produzione pone il problema dell’ampliamento dei vecchi stabilimenti o la costruzione di nuovi. Nel 1960-1961 assumerà carattere di urgenza la questione dello stabilimento di Roma. Quest’ultimo, localizzato nel quartiere Ostiense, realizza da anni notevoli perdite a causa di una scarsa specializzazione, che non può essere superata a causa della sua collocazione all’interno del circuito urbano. Irrealizzabile si rivela, ben presto, anche l’ipotesi di avviarvi produzioni di paste speciali. Si decide, infine, di costruire un nuovo impianto ad Aprilia, in provincia di Latina, ove peraltro è possibile beneficiare degli incentivi offerti dalla Cassa per il Mezzogiorno. In esso si sarebbero concentrate le nuove produzioni che nel frattempo la società aveva messo allo studio: gli omogeneizzati ed in generale le specialità dietetiche. La costruzione del nuovo impianto si protrae dal giugno del 1961 al 196327. Negli stessi anni si provvede alla concentrazione della produzione di pasta nello stabilimento di Sansepolcro e all’acquisto, in collaborazione con la Perugina, di aree ed edifici da destinare a depositi nelle varie zone d’Italia. Il potenziamento della rete dei magazzini avrebbe consentito, infatti, il tempestivo rifornimento dei rivenditori, circa 100.000 agli inizi degli anni sessanta, con notevoli guadagni di efficienza dell’intero sistema di distribuzione28. Nonostante che la questione del nuovo stabilimento di Perugia si collochi 24 25 26 27 28

Ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 2 dal 6 gennaio 1958 al 28 dicembre 1958, adunanza del 15 marzo 1958. Ivi, adunanza del 9 dicembre 1957. Ivi, adunanza del 15 marzo 1958. Covino, Dalla ricostruzione agli anni ottanta, in “Sulla bocca di tutti” cit. (a nota 16), p. 41. Ibidem.

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all’interno di un quadro di difficoltà determinate dalla crescita di tutto il gruppo, pure emerge rapidamente come si tratti di una questione destinata a coinvolgere più interlocutori e a disegnare, alla fine, gli equilibri urbani di una vasta area della città nuova, contribuendo a configurare, in parte, i nuovi equilibri disegnati dalla già ricordata variante al piano regolatore che sarà approvata dal Consiglio comunale del 1962. Agli inizi del 1958, per altro, si dibattono due ipotesi: l’ampliamento della fabbrica sui terreni di Fontivegge e, in alternativa, l’acquisto di una vasta area di terreno ove trasferire “quei reparti dell’attuale stabilimento che sono e saranno nell’impossibilità di fronteggiare lo sviluppo del lavoro”29. In ogni caso si decide di far redigere entrambi i progetti: quello di ampliamento degli impianti esistenti e l’altro di costruzione dei nuovi, tra cui scegliere in un secondo momento e lo studio Rusconi Clerici si muoverà sia nell’ipotesi di ampliare Fontivegge che in quella di un eventuale stabilimento. Nell’aprile 1958 comunque, l’ipotesi che ha più possibilità di realizzazione sembra essere la prima. E, infatti, nella riunione del Consiglio di amministrazione del 12 aprile 1958 si deciderà all’unanimità di rinunciare a spostare lo stabilimento e di predisporre un progetto per l’ampliamento di quello esistente, in modo di rispondere alle esigenze produttive per almeno 15-20 anni30. Quello che modifica la situazione è una relazione dello studio Rusconi Clerici di fine 1959, secondo cui il costo del nuovo stabilimento sarebbe stato superiore di 300-400 milioni di lire rispetto all’ampliamento/ristrutturazione del vecchio impianto, cifra facilmente recuperabile attraverso la vendita dell’area su cui sorge lo stabilimento esistente. Si sottolineano anche le economie di scala che un nuovo stabilimento avrebbe consentito di realizzare e le ulteriori possibilità di espansione31. Il dibattito in Consiglio di amministrazione si sposterà, allora, su dove costruire il nuovo stabilimento. In un primo tempo quest’area viene individuata nella zona di Ponte San Giovanni, ove la vicinanza del Tevere rendeva disponibile l’acqua necessaria per la refrigerazione degli impianti. Successivamente si pensa ad Assisi, per via della legge speciale per quel comune che garantiva considerevoli esenzioni fiscali e doganali sulla base della legge speciale n. 947 del 9 ottobre 195732.

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ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio esecutivo dal 9 dicembre 1957 al 5 dicembre 1967, adunanza del 9 dicembre 1957. Ivi, adunanza del 12 aprile 1958. ISUC, AG, fasc. 363 “Giovanni Faina. Memorie e documenti”, La storia e i consigli del nonno, dattiloscritto s.d., nota 37, telegramma di Giovanni Buitoni all’avvocato Pasquale Chiomenti, 18 gennaio 1960. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 2 dal 4 aprile 1958 al 18 giugno 1962, adunanza del 18 dicembre 1959.

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Capitolo VIII Dentro il boom

La legge all’articolo 15 prevedeva che allo scopo di agevolare il trasferimento o il nuovo impianto delle imprese artigiane o industriali […], sarà concesso alle imprese che istituiranno […] i loro impianti nel periodo di cinque anni dalla presente legge, l’esenzione da ogni imposta erariale provinciale e comunale e relative sovrimposte, per la durata di dieci anni dall’istituzione dell’impianto medesimo33.

La situazione, tuttavia, non è così lineare come può apparire. Già nei primi mesi del 1960 il vecchio stabilimento perugino non è più in grado di evadere buona parte delle richieste della clientela e si profila l’urgenza di disporre di nuovi locali e di macchinari più efficienti. D’altra parte, le pratiche per la nuova costruzione risultano essere solo agli inizi. Tutto ciò crea problemi produttivi che rendono difficile persino garantire la qualità del prodotto. Alla base di tutta questa situazione stanno le divisioni interne al Consiglio di amministrazione, tra chi ritiene opportuno spostare l’azienda ad Assisi e chi pensa che sarebbe preferibile rimanere nel comune di Perugia, tra questi ultimi vi sono Mario Spagnoli ed il presidente Giovanni Buitoni che, addirittura, inizialmente non è solo contrario ad una localizzazione diversa esterna al comune di Perugia, ma anche all’ampliamento dello stabilimento di Fontivegge. Al centro di questo dissenso si pone il modo di condurre la politica delle vendite che secondo Giovanni Buitoni si fonda “su artificiose procedure et mezzi svisanti esatta situazione et danneggianti gravemente prestigio autorità et nome industria”34. È ragionevole pensare che dietro alle motivazioni ufficiali ci sia da parte di Giovanni il timore che lo scadere delle azioni a voto multiplo, che sarebbe avvenuto proprio nel 1960, oltre a togliergli il controllo sia pure formale delle due società, avrebbe aumentato lo stato di frantumazione dei processi decisionali. A seguito di ciò si preferisce soprassedere a qualsiasi decisione sino a che non si sia raggiunta l’unanimità e continuare la discussione. Nel frattempo si adottano soluzioni temporanee come quella di trasferire alcuni reparti, a metà del 1960, nell’area ex Galletti, nelle adiacenze di Fontivegge, nei magazzini del Consorzio agrario, dopo l’acquisto di sette conches, tre raffinatrici ed una modellatrice35. Il dibattito contemporaneamente si sposta a livello delle forze politiche, amministrative e sindacali della città e della regione. Tutti, sindacati e partiti, si dichiarano contrari

33 34 35

Cit. in Francesco Cavallucci, San Sisto da territorio a quartiere, Perugia, Protagon, 1990, p. 47. ASLB, adunanza del 25 maggio 1960; ASBP, FP, DGAD, b. 80, fasc. 689 “Promemoria della Direzione generale”. ASBP, FP, DGAD, b. 80, fasc. 689 “Promemoria della Direzione generale”.

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allo spostamento dello stabilimento ad Assisi. Cgil e Cisl sottolineano i disagi che il trasferimento comporterebbe per i lavoratori soprattutto per quanto riguarda i trasferimenti. La Cisl addirittura si spinge ad avanzare la richiesta non solo del rimborso per i viaggi, ma anche la concessione di un’indennità di disagio36. La Cgil, per contro, ritiene valida la prospettiva di uno sviluppo dell’azienda basata sulle produzioni di massa37. In ciò la posizione appare simile a quella del Pci, che tuttavia valuta un errore il trasferimento ad Assisi, per le ripercussioni economiche sociali che comporterebbe, mentre si oppone alle riserve di Mario Spagnoli e Giovanni Buitoni, che giudica come un prolungamento della scelta delle produzioni di lusso che avrebbero precluso lo sviluppo dell’azienda e una sostanziale stagnazione della occupazione38. La stessa Dc si dichiara contraria allo spostamento ad Assisi. Tutti i gruppi presenti in Consiglio comunale, infine, dichiarano la loro contrarierà alla scelta del trasferimento ad Assisi dello stabilimento e decidono all’unanimità di concedere tutte le possibili agevolazioni per permettere all’azienda di perseguire il suo programma di espansione nel Comune di Perugia39. La mozione votata dal Consiglio comunale è successiva alla decisione dell’azienda. La situazione di impasse dell’azienda si era, infatti, sbloccata nel Consiglio di amministrazione del 22 febbraio 196140. Precedentemente, nell’Assemblea dei soci del giugno 1960 Giovanni Buitoni, come presidente dimissionario aveva mandato un messaggio, poi pubblicato sulla stampa locale, che recitava: Durante questi ultimi mesi, le acque di solito tranquille della mia cara città natale sono state in costante agitazione a causa di un possibile trasferimento della Perugina nel territorio del comune di Assisi […]. Ritengo che si possa nel momento presente, considerare chiusa definitivamente la vicenda trasferimento della Perugina ad Assisi. Le ragioni mi parvero sempre molto evidenti e le enumero: la Perugina è nata, è sorta, si è sviluppata a Perugia; è stata fatta dai perugini; la grande fabbrica cittadina è legata al cuore di tutti i perugini41.

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Decisamente contrario l’esecutivo della Cisl al trasferimento della Perugina ad Assisi, in “Il Tempo”, 16 febbraio 1960. La CdL precisa la sua posizione sul trasferimento della Perugina, in “l’Unità”, 23 febbraio 1960. Il trasferimento della Perugina ad Assisi confermato dalle dimissioni di Buitoni, in “l’Unità”, 14 febbraio 1960; La Federazione del Pci di Perugia precisa la sua posizione sul trasferimento della Perugina e sulla legge speciale, in “l’Unità”, 28 febbraio 1960. Voto unanime del Consiglio di Perugia contro il trasferimento della Perugina, in “l’Unità”, 30 marzo 1960. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3 dal 4 aprile 1958 al 18 giugno 1962, adunanza del 22 febbraio 1961. Cfr. “La Nazione”, 12 giugno 1960.

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Capitolo VIII Dentro il boom

La scelta è quella di acquistare un terreno di circa 91.000 mq a San Sisto, nei pressi di Perugia. Viene firmato il compromesso e si sottoscrive con l’EfiBanca un prestito di un miliardo di lire con scadenza decennale per integrare i mezzi finanziari occorrenti per costruire il nuovo stabilimento. Il 12 aprile dello stesso anno si ratifica la bozza di convenzione votata all’unanimità dal Consiglio comunale di Perugia che garantisce alla Perugina la fornitura minima di 20 litri/secondo di acqua potabile per 30 anni, e la costruzione gratuita della rete fognaria e delle infrastrutture stradali42. Il 10 giugno 1961 si pone la prima pietra della nuova fabbrica. Sempre in giugno si provvede ad un aumento di 1.020 milioni di lire del capitale sociale, per due terzi a pagamento e per il resto a titolo gratuito. Le 85.000 azioni sociali da 12.000 lire ciascuna vengono infatti trasformate in 510.000 da lire 2000, cui se ne aggiungono 170.000 da distribuirsi gratuitamente (1 ogni 3 vecchie azioni possedute) e altre 340.000 a pagamento, offerte in opzione ai soci in ragione di 1 ogni 2 possedute43. Contemporaneamente si richiedono 500 milioni di prefinanziamento alla Cassa di risparmio di Perugia e si avvia la contrattazione con l’Imi per un prestito di 1,5 miliardi44. L’attività produttiva nel nuovo stabilimento prende il via il 31 luglio del 1963, mentre gli ultimi lavori di costruzione si protrarranno sino all’anno successivo. La nuova fabbrica si articola in un primo piano dove sono collocati i reparti di produzione, i magazzini per le materie prime e la mensa; al piano rialzato si localizzano i magazzini per gli imballaggi e cartonaggi a cui si accede facilmente grazie ad una rampa elicoidale, vi trovano posto anche ampi parcheggi, piazzali di manovra per autocarri e carri ferroviari ed il raccordo che collega lo stabilimento alla rete ferroviaria. Uffici, strutture ricettive per i bambini dei dipendenti, per le attività sportive, ricreative ed assistenziali sono distaccate dal corpo centrale dello stabilimento. Complessivamente l’area coperta della fabbrica raggiunge quasi 10 ettari, un consumo d’acqua pari a 80 litri/secondo e di energia pari a 12 milioni circa di kWh l’anno, un personale di 2.000 persone e una capacità produttiva di 537.900 quintali annui contro i 132.800 del vecchio stabilimento45. Il problema dei nuovi impianti è direttamente correlato alla necessità di aumentare la produzione e di strutturare in modo migliore i processi distributivi46. La questione della massificazione e della standardizzazione della produzione, in rapporto con la tradizionale qualità del prodotto e con

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Ivi, adunanza del 12 aprile 1961, Allegato A. Ivi, adunanza del 14 giugno 1962. Ibidem. Il nuovo complesso Perugina, in “L’Alimentazione dolciaria”, a. IX, n. 6, giugno 1961. ASBP, FP, DGAD, b. 95, fasc. 793 “Promemoria Imi”.

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l’accuratezza delle confezioni, impegna dirigenti ed amministratori in un grosso dibattito, in cui è costante la preoccupazione per gli eventuali effetti di scadimento qualitativo a seguito di aumenti della scala e della gamma delle lavorazioni. È, appunto, in tale quadro che si pone la questione del se e dove costruire lo stabilimento. Gli scontri interni e le conseguenti strozzature produttive testimoniano il timore che l’immagine tradizionale di raffinata accuratezza, costruita dalla Società nel corso dei decenni, sia destinata a venire meno con l’approdo alla produzione di massa47. A tali critiche la maggioranza del Consiglio di amministrazione replica, sostenendo che tutte le iniziative devono mirare alla qualità ma mantenendo alto il prestigio e il nome dell’azienda o, per dirla con Aldo Spagnoli, “con una politica commerciale che non screditi l’azienda con l’immissione sul mercato di prodotti di bassa qualità ma che garantisca miglior prodotto al prezzo più conveniente”48. Ma non sono solo la soluzione del dibattito interno al Consiglio di amministrazione, i processi endogeni e le esigenze tecnico produttive che presiedono allo sviluppo dell’azienda che spiegano la rapidità con la quale, dopo due anni di dibattito, si giunge a compiere la scelta di costruire il nuovo stabilimento. Gioca un peso determinante nell’accelerazione della scelta il fatto che i maggiori concorrenti della Perugina – Motta, Alemagna e Pernigotti – avevano già potenziato i loro impianti e cominciato a costruirne di nuovi: Motta a Napoli, in Perù e in Germania; Alemagna in Francia e in Germania; la Pernigotti, infine, aveva completamente ricostruito lo stabilimento della Sperlari a Cremona e iniziato la costruzione di un nuovo impianto in Uruguay49. Resta da sottolineare il peso che assume la scelta aziendale negli equilibri territoriali del comune di Perugia. In realtà essa incentiva, come si è già osservato, alcune delle scelte maturate della variante al piano del 1959, ossia lo sviluppo dell’abitato all’interno dei vecchi poli insediativi rafforzando l’area dei Ponti e la direttrice San Sisto, Olmo con sconfinamento ad Ellera nel comune di Corciano. Tale direttrice, inoltre, si rafforza come area industriale in collegamento con via Settevalli all’epoca ancora non edificata. Da questo punto di vista va messa in evidenza la crescita di San

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48 49

ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3, dal 4 aprile 1958 al 18 giugno 1962, adunanza dell’8 aprile 1960; ivi, adunanza del 10 dicembre 1962; ivi, registro n. 4 dal 10 dicembre 1962 al 9 marzo 1968, adunanza del 28 ottobre 1964; ivi, adunanza del 10 dicembre 1962; ivi, adunanza del 21 settembre 1963. Ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali delle riunioni del comitato esecutivo dal 9 dicembre 1957 al 5 dicembre 1967, adunanza del 23 gennaio 1960. ASBP, FP, DGAD, b. 80, fasc. 689 “Promemoria della Direzione generale”.

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Sisto che passa dagli 832 abitanti del 1951 ai 6.215 del 198150. Non è, tuttavia, solo questo che spiega l’incidenza che l’azienda gioca sulla struttura e sul contesto sociale urbano. Gli effetti sono molteplici anche se, per molti aspetti, non così fisicamente percepibili come quelli fin qui descritti. Effetti per così dire immateriali, ma non per questo meno rilevanti. VIII.4. I lavoratori della Perugina: una nuova classe operaia Il più importante è la modificazione della composizione sociale all’interno della realtà cittadina, la nascita di una nuova figura di lavoratore di fabbrica e di un nuovo sistema di relazioni industriali. Abbiamo già accennato come nella seconda metà degli anni cinquanta si avvii un processo di automazione della fabbrica e si introduca largamente il metodo Bedaux corretto51. Il processo di automazione verrà rallentato dalle strozzature logistiche che abbiamo ampiamente descritto, esso riuscirà a realizzarsi solo dopo l’apertura del nuovo stabilimento. Fino a quel momento la struttura produttiva vede coesistere fasi automatizzate, ad esempio la catena dei Baci, con fasi artigianali. Tuttavia già l’avvio dell’automazione provoca mutamenti consistenti non solo nell’utilizzo della forza lavoro, ma anche nella sua composizione. Tra il 1948 e il 1959 il peso dell’occupazione femminile passa dal 74% al 55%. Si modifica anche l’età media degli occupati che per il personale maschile scende da 36 a 31 anni52. Ma, quello che è più importante, è la percezione che ne hanno coloro che entrano in quelli anni a lavorare nell’azienda, anni – è bene ricordarlo – segnati da una crisi agraria i cui effetti sulla regione assumevano caratteri dirompenti. È scontato […] che, in un contesto simile, una grande fabbrica, una delle poche, con solide basi e in forte espansione, dotata di una straordinaria capacità di innovazione,

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Covino, Gallo, Tittarelli e Wapler, Economia società e territorio cit. (a nota 5), tab. 12, pp. 150-151. Sul tema si veda Alfreda Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina dal 1945 al 1963, Tesi di laurea, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze politiche, Anno accademico 1989-1990. Ricerca sugli aspetti igienici (ambiente fisico e sociale) dei processi di trasformazione tecnologica e organizzativa in una’azienda industriale nell’Italia Centrale, a cura di Alessandro Seppilli, in Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, Il progresso tecnologico e la società italiana. Aspetti medico-biopsicologici, Milano, Giuffrè, 1960, pp. 151-152.

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rappresentasse per le donne e gli uomini di Perugia e dintorni un’oasi nel deserto, il luogo di approdo più ambito, un luogo quasi mitizzato nell’immaginario collettivo. Lavorare alla Perugina era trovare la prospettiva della vita per molti53.

Anche la dimensione della crescita impetuosa di quegli anni era nettamente percepita. Sono arrivato in Perugina nel luglio 1960, insieme ad altri 600 giovani. Entrammo come stagionali, in una fabbrica che tra impiegati ed operai contava almeno 2.400 lavoratori54.

Concordi sono anche le testimonianze relative ai buoni salari che percepivano i lavoratori della fabbrica. I livelli salariali erano buoni rispetto ad altre aree lavorative. Bisogna anche considerare che in quegli anni non era ancora esploso il consumismo e c’erano esigenze minori rispetto ad oggi. Gli stipendi alla Perugina sono sempre stati più alti che in altre aziende del territorio. Credo che, rapportandolo al costo della vita di oggi e all’odierno potere d’acquisto dei salari un operaio di allora arrivasse a prendere anche duemila euro al mese di stipendio55.

Se la testimonianza di Francesco Mandarini mantiene un tono pacato, più entusiastiche sono, in proposito, le testimonianze di altri lavoratori entrati in fabbrica in quel periodo. A San Severino prendevo 8.000 lire ogni quindicina. Lavoravo dodici, tredici anche 15 ore al giorno. […]. Per questo la mia prima paga alla Perugina non la dimenticherò mai. Presi 52.000 lire. Era il 1963. Ero così entusiasta che tornai a casa e da solo in camera comincia a stendere sul letto quelle banconote da 10.000, grandi come fogli da disegno. Le appoggiavo con cura sopra il lenzuolo, e le guardavo incredulo e felice, come un bambino davanti all’albero di Natale56.

Ancora: Il salario era poi straordinario. Ricordo ancora la mia prima busta paga nel 1960: 83.700 lire, che rispetto a uno stipendio medio di allora di 25-30.000 lire al massimo, era una cifra eccezionale. Certo, va anche detto che in quel periodo facevo la notte e

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Francesco Mandarini, Testimonianza, in La Perugina è storia nostra. I lavoratori raccontano i cento anni della fabbrica, a cura di Fabrizio Ricci, Roma, Ediesse, 2007, p. 31. Ivi, p. 32. Ivi, p. 37. Giuseppe Sgalla, Testimonianza, ivi, p. 177.

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quindi prendevo una maggiorazione del 45%, ma comunque quella era una cifra importante57.

Se le paghe sono buone, se l’azienda sviluppa forti elementi di coinvolgimento nei confronti dei lavoratori, resta il fatto che l’organizzazione del lavoro derivante dall’introduzione dei processi di automazione propone una spaccato drammatico della condizione lavorativa. Gli alti salari erano il frutto di un cottimo alto per raggiungere il quale bisognava sostenere ritmi elevati e notevoli sforzi fisici. Come primo lavoro facevo lo scivolista al reparto spedizioni. […]. Oggi tutto il processo è automatizzato, ma allora, per raggiungere il cottimo, dovevo alzare – se non ricordo male – circa 28 quintali di merce al giorno. Se non si raggiungeva l’obiettivo, oltre allo stipendio base, la squadra prendeva solo una quota del cottimo a seconda della percentuale di lavoro svolta58.

All’inizio mi trovai male e come me molti altri. la glassatura poi era uno dei lavori più duri. Sempre in piedi, vincolato alla macchina, con questo nastro che ti scorreva davanti con sopra i baci da controllare, da mettere a posto, da aggiustare. Forse, non sarà stato uno dei lavori più duri, ma di certo era massacrante59. Tirare i pallet da dentro i camion era una cosa impressionante… anche se utilizzavamo un carrettino, il “traspallet”… era comunque durissima, anche perché il lavoro era continuo, senza sosta. Poteva succedere che quando stavamo per finire, venisse da noi il capoturno, […] che a mezzanotte meno un quarto ti faceva: “Oh Darena, domattina bisogna stare qui alle quattro, perché i camion cominciano ad arrivare a quell’ora”. E noi dovevamo ubbidire e presentarci poche ore dopo aver finito il turno precedente60.

VIII.5. Un nuovo sistema di relazioni industriali È sui temi dell’organizzazione del lavoro e della sua flessibilità che si concentra l’attività sindacale in fabbrica. Su ciò nasce un nuovo interesse, so-

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Sergio Grassi, Testimonianza, ivi, p. 164. Mandarini, Testimonianza cit. (a nota 53), p. 36. Grassi, Testimonianza cit. (a nota 57), pp. 163-164 Aldo Darena, Testimonianza, in La Perugina è storia nostra cit. (a nota 53), p. 121. Sui mutamenti di indirizzo della Cisl Perugina cfr. Giancarlo Pellegrini, L’unione sindacale provinciale di Perugia tra il 1955 e il 1962: un’esperienza di autonomia, in Itinerari sindacali. Organizzazione e politica: storia della Cisl nelle realtà territoriali, a cura di Ettore Santi e Angelo Varni, Roma, Edizioni Lavoro, 1982, pp. 319-429.

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prattutto della Cgil, per la dimensione aziendale, che non rappresenta solo un’autocritica della principale organizzazione sindacale o un cedimento all’aziendalismo della Cisl; ma invece rappresenta il terreno su cui costruire un programma di rivendicazioni attraverso il quale trasformare il progresso tecnico in progresso sociale, dato questo che avanza nella riflessione nazionale del sindacato di sinistra e che verrà sancita dal V Congresso nazionale della Cgil61. In questo quadro le organizzazioni sindacali si batteranno per ottenere il riconoscimento della Commissione interna come reale controparte della Direzione aziendale e, quindi, per il superamento delle forme di paternalismo aziendale e del sistema delle concessioni unilaterali dell’azienda. Sempre più puntuali e unitarie diverranno le piattaforme rivendicative di fabbrica, volte ad eliminare le ripercussioni negative sulla condizione operaia delle nuove forme di organizzazione del lavoro. Non è qui possibile ricostruire puntualmente l’attività rivendicativa e le forme che assume il conflitto in fabbrica62. Quello che è certo è che diviene costante una battaglia per concordare il tempo del punto di cottimo e dei criteri che ad esso presiedono. Il 14 settembre 1957 si andrà ad un primo accordo in cui “l’azienda si impegna a comunicare ai lavoratori il metodo per la misurazione e la determinazione dei premi d’incentivo e i tempi assegnati ai lavoratori per ogni singolo compito”63, l’accordo prevede, inoltre, che in caso di reclami o controversie la Commissione interna sia controparte riconosciuta, abilitata a trattare con l’azienda. È quel riconoscimento della funzione di controllo della Commissione interna che la Cgil proponeva da mesi. Nel periodo successivo si insisterà sempre più perché il sindacato sia l’interlocutore dell’azienda, perché cessino i rapporti individuali con i lavoratori e si apra una fase in cui lavoratori e sindacati vengano chiamati a discutere e concordare le forme di organizzazione del lavoro. Il 1958 è un anno di accordi separati che vede la Cgil più disponibile della Cisl alla collaborazione con la Direzione aziendale, che si manifesta in una serie di accordi sottoscritti da Cgil e Commissione interna e fortemente criticati dalla Cisl. Essi vertono soprattutto sul recupero delle ore di sciopero e sulla cosiddetta “banca delle ore”, ossia sul pagamento di 48 ore di lavoro in periodi di bassa produzione con recupero nei periodi di più intenso

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Cfr. Si è costretti a raddoppiare la produzione se si vuol guadagnare lo stesso cottimo, in “l’Unità”, 7 marzo 1957; Temi per il V congresso della Cgil, in “Rassegna sindacale”, novembre 1959, p. 945 e ss. Cfr. a proposito Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina cit. (a nota 51), pp. 236-286. Motivi e significato di un accordo, in “Sindacalismo umbro”, a. 1, n. 11, settembre 1957.

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lavoro64. L’accordo aziendale del 12 gennaio 1959 riguarda ancora la determinazione dei cottimi, in cui acquistano ancora più peso la Commissione interna e il sindacato65. Progressivamente il cottimo assume per le organizzazioni sindacali il ruolo di una voce fissa del salario e si richiede “di estendere anche nel pagamento delle ferie la corresponsione di un premio di incentivo”. Si giunge, così, all’accordo del 9 giugno 1959 che recepisce nei fatti la proposta sindacale66. Il contratto nazionale del 1960 e lo sciopero del 17 novembre che vede l’astensione compatta dei lavoratori e una sostanziale unità tra i sindacati in vista del suo rinnovo, sanciscono l’entrata in campo di un nuovo protagonista delle manifestazioni operaie… l’operaio giovane che si è posto alla guida di questa lotta sindacale. Esso assume, con caratterizzazioni diverse il ruolo che negli anni cinquanta era stato dell’operaio qualificato67.

Interverranno con forza nella vertenza l’Associazione industriali di Perugia e la Direzione aziendale al fine di diminuire l’impatto dello sciopero successivo, quello del 25 novembre, cercando di utilizzare, per rompere l’unità dei lavoratori, gli operai stagionali. La sigla del contratto nazionale significa un ulteriore miglioramento delle condizioni salariali, la Direzione infatti prevede per il 1961 un aumento degli oneri salariali pari al 15% rispetto all’anno precedente, pari a 746 milioni di lire68. Ciò provoca una battuta d’arresto della contrattazione aziendale, rivendicata con forza dalla Cisl e rifiutata con altrettanta forza dall’azienda, contraria alle ipotesi partecipative della confederazione cattolica e che vuole, invece, riaffermare il potere dell’azienda. Bisognerà attendere i primi mesi del 1962, quando la sola Cisl sottoscriverà l’accordo sulla valutazione delle mansioni, la job evaluation, che prevede paghe a secondo delle responsabilità che ogni lavoratore assume per la mansione ricoperta, su cui la Cgil mostra fin dall’inizio riserve e contrarietà, per avere un nuovo contratto tra azienda e sindacato69. Il passaggio successivo è l’accordo del 29 ottobre 1962, firmato con tutte organizzazioni sindacali, che dà soluzione all’annosa questione del premio di bilancio corrisposto

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Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina cit. (a nota 51), pp. 251-254. Ivi, pp. 254-257. Ivi, pp. 265-268. Ivi, p. 271. Archivio Unione provinciale Cisl, Perugina 1960-1963, “Accordo 8 dicembre 1960”. Sulla job evaluation alla Perugina si veda Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina cit. (a nota 51), pp. 135-150.

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unilateralmente dalla Direzione, il quale viene sostituito da un’indennità di vestiario, di cui partecipano anche i lavoratori stagionali. In quella sede viene assunto anche l’impegno a discutere degli scatti di anzianità e a definire un nuovo mansionario. Su quest’ultimo la discussione si intreccerà con il nuovo contratto nazionale, dove non vi sarà, di fatto, anche per divisioni tra le diverse sigle sindacali, una partecipazione agli scioperi dei lavoratori della Perugina. Ad un nuovo mansionario provvisorio, comunque, si andrà solo nell’ottobre 196370. Si stabilisce anche che i contributi sindacali vengano – a chi ha rilasciato una delega alle organizzazioni – trattenuti direttamente dall’azienda, anche se quest’ultima recederà dall’accordo a causa delle pressioni ricevute dalla Confederazione generale dell’industria che aveva rifiutato il sistema delle deleghe a livello nazionale71. Se si guarda l’alternarsi di contratti nazionali e di accordi aziendali emergono alcuni dati costanti che vanno al di là dell’intrecciarsi delle tematiche e delle rivendicazioni. Essi sono: il nuovo ruolo del sindacato, la fine del paternalismo aziendale e un nuovo, moderno, sistema di relazioni sindacali destinato a durare nel tempo. Come ha dichiarato uno dei protagonisti: [S]econdo me si può dire che con la Perugina nacque a Perugia il sindacato industriale, visto che prima non c’era nulla del genere. Fummo noi per primi a discutere di organizzazione del lavoro. Di ritmi e salari, facendo passi giganteschi sotto il profilo della forza contrattuale dei lavoratori72.

Ciò determina anche un lento processo di conquista di un’egemonia che premia, nel lungo periodo, l’impostazione del “controllo” dell’organizzazione del lavoro attraverso il “condizionamento contrattuale-conflittuale” della Cgil contro quella “partecipazionista” della Cisl73. Quest’ultima aveva conquistato la maggioranza della commissione interna nel 1952, strappandola alla Cgil e mantenendola fino al 1957, quando le elezioni decreta-

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Cfr. ASBP, FP, DGAD, b. 80, fasc. 696 “Comunicato a tutti i lavoratori della Perugina”, volantino della Cisl, s.d. [24 ottobre 1963]; “Lavoratrici e lavoratori della Perugina”, volantino Camera del lavoro - Filziat Cgil, 24 ottobre 1953; “Operai e impiegati della Perugina!”, volantino Uil 23 ottobre 1963; Archivio dell’Unione provinciale Cisl, Perugina 1960-1963, “Comunicato” della sezione aziendale Cisl, s.d. [ottobre 1963] . Cfr. ASBP, FP, DGAD, b. 80, fasc. 696 “Espresso della Confindustria all’Anied e all’Associazione industriali della provincia di Perugia”, 7 novembre 1963. Grassi, Testimonianza cit. (a nota 57), p. 158. Sul tema si veda Franco Momigliano, Sindacati, progresso tecnico, programmazione economica, Torino, Einaudi, 1966, pp. 49-51.

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rono 3 seggi alla Cgil, 3 alla Cisl e 1 alla Cisnal. È significativo che proprio nel momento in cui l’azienda sperimenta nuove forme di organizzazione del lavoro la Cgil segni una ripresa74. Da quel momento in poi la Cgil avrà sempre la maggioranza in Commissione interna, mantenendosi su una percentuale di suffragi superiore al 60, fino a raggiungere nel 1963 il 72,4%, conquistando tutti i posti nella commissione interna75. Più semplicemente in un periodo in cui frana a causa della crisi agraria, il forte impianto contadino del sindacato socialcomunista, esso si afferma come il principale sindacato industriale della città e della provincia. La crescita di consenso alla Perugina, fabbrica moderna, con alti salari, diviene quindi un fatto emblematico destinato a pesare negli anni successivi. VIII.6. Il ruolo dei mercati internazionali Collegato con l’ampliamento e con il rinnovo degli impianti e della rete distributiva, è lo sforzo della Perugina di incrementare la propria presenza sui mercati internazionali. Era stata una preoccupazione presente già negli anni cinquanta, nonostante la scarsa remuneratività che ne derivava. Alla base dì tale atteggiamento c’erano due elementi significativi. Il primo, già presente nelle politiche aziendali fin dagli anni trenta, deriva dall’esigenza di assicurarsi valuta pregiata per l’acquisto delle materie prime. Il secondo, più recente, è la convinzione sempre più radicata che la proiezione su mercati più ampi sia un volano essenziale per la cresciuta dell’impresa, un terreno su cui ampliare l’influenza dell’azienda. Non è questo, peraltro, un atteggiamento che riguarda solo un comparto come quello dolciario, in forte espansione degli anni a cavallo tra i decenni cinquanta e sessanta, ma si tratta di una visione e di una strategia che si afferma con più o meno forza e con una ispirazione unitaria in tutti i rami dell’attività delle aziende della famiglia. Così, negli anni cinquanta, la Buitoni continua a puntare sul mercato francese e su quello americano, seguendo gli orientamenti tradizionali della sua politica di esportazione. La Buitoni France, di cui la società di Sansepolcro controlla la maggioranza del pacchetto azionario, cerca di resistere ad una concorrenza sempre più agguerrita. Nel 1958 si rende necessario un aumento del capitale sociale, da 200 a 300 milioni di franchi, per per-

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Cfr. Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina cit. (a nota 51), pp. 287-314. Ivi, p. 314.

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mettere l’ammodernamento dello stabilimento di St. Maur ed un conseguente consistente aumento delle vendite76. Alla metà degli anni sessanta tuttavia si procede, per far fronte alla crescente domanda, alla costruzione di nuovi impianti a Camaret, specializzati nella produzione di piatti pronti, e all’introduzione di linee automatizzate per la pasta a St. Maur77. Tali investimenti impongono un ulteriore aumento del capitale sociale che raggiunge i 9 milioni di nuovi franchi: circa 1.143.000.000 lire. La nuova fabbrica, la cui costruzione inizia il 5 gennaio del 1965, già nell’anno successivo risulta essere in grado di avviare la produzione, incrementando le vendite della Buitoni France del 35%78. L’altro sbocco tradizionale, quello statunitense, viene coperto dalla Buitoni Foods Corporation. Nel 1954 la casa madre di Sansepolcro aliena la sua quota di partecipazione nella Società americana e la sostituisce con un accordo che prevede la corresponsione di royalty sulle vendite. Il fatturato dell’alleata cresce fino al 1962, allorché si registra una battuta d’arresto, seguita da un biennio di riorganizzazione. Nel 1966 infine la Perugina e la Buitoni ne acquisiscono il controllo79. Oltre che in questi due mercati, per così dire già consolidati, tra la fine

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ISUC, AG, fasc. 399, Proces Verbaux des reunions du Conseil d’Administration de la Societè Francaise Buitoni, 27/11/1934-10/7/1967, registro manoscritto, adunanza del 18 dicembre 1957; ivi, adunanza del 5 giugno 1958; ivi, adunanza del 24 ottobre 1958; ivi, adunanza del 27 gennaio 1959; ivi, adunanza del 29 settembre 1959; ivi, adunanza del 25 novembre 1959; ASLB, Gio. & f.lli Buitoni S.p.a., Verbali del comitato esecutivo, dal 9 dicembre 1957 al 7 novembre 1969, adunanza del 7 febbraio 1958; ivi, adunanza del 12 aprile 1958; ivi, adunanza del 30 settembre 1959; ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3 dal 6 aprile 1969 al 10 febbraio 1962, adunanza del 6 aprile 1959; ivi, adunanza dell’8 aprile 1960; ivi, adunanza del 18 luglio 1960; ivi, adunanza del 25 ottobre 1960; ivi, adunanza del 18 giugno 1962. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del comitato esecutivo Perugina, dal 9 dicembre 1957 al 7 novembre 1969, adunanza del 12 aprile 1958; ivi, adunanza del 24 marzo 1962; ivi, adunanza del 25 giugno 1962; ivi, adunanza del 6 novembre 1962; ivi, adunanza del 10 maggio 1963. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 12 aprile 1965; ivi, adunanza del 16 novembre 1965; ivi, adunanza del 22 marzo 1966; ivi, adunanza del 3 maggio 1966; Ivi, Gio. & f.lli Buitoni S.p.a., Verbali del comitato esecutivo dal 9 dicembre 1957 al 7 novembre 1969, adunanza del 14 giugno 1963. Ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 2 dal 6 gennaio 1958 al 28 dicembre 1958, adunanza del 6 gennaio 1958; ivi, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 18 luglio 1960; ivi, adunanza del 25 ottobre 1960; ivi, registro n. 4 dal 10 dicembre 1962 al 9 marzo 1968, adunanza del 10 dicembre 1962; ivi, adunanza del 18 aprile 1963; ivi, adunanza del 20 ottobre 1966.

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degli anni cinquanta e l’inizio del decennio successivo si assiste al tentativo di conquistarne di nuovi. Di quel periodo sono infatti la ricerca di un accordo con la House of Manji, volto a garantire una maggiore penetrazione in Africa, ed i rapporti con ditte americane per introdurre sui mercato europeo nuovi prodotti alimentari80. Del 1966 poi è l’apertura a Londra di una filiale per le vendite nel Regno Unito, nonché la costituzione dì una Società a Barcellona per l’esportazione dei prodotti Buitoni in Spagna81. L’andamento della Perugina è notevolmente più accelerato per quanto riguarda le politiche orientate verso l’estero. La società, peraltro, non si limita solo ad incentivare la penetrazione nei mercati internazionali, ma anche, e soprattutto, opera per predisporre strumenti adeguati per far fronte alla concorrenza internazionale. Fino alla fine degli anni cinquanta le quote di prodotto Perugina destinate all’esportazione risultano relativamente stabili: contro i 4.021 quintali del 1954 stanno i 4.108 del 1959, il che significa una riduzione percentuale sulla produzione complessiva dal 10,5% al 7,3%82. Tale rigidità delle esportazioni va ricondotta a vari motivi. In primo luogo essa è connessa alle difficoltà del commercio internazionale nel suo complesso, spesso derivanti dall’effervescenza della congiuntura politica della seconda metà degli anni cinquanta. Non è casuale, infatti, che le contrazioni delle vendite estere del 1956 coincidano con la tensione internazionale derivante dalla crisi di Suez e dall’invasione sovietica dell’Ungheria, così come quelle del 1958 in Africa, Medio Oriente ed America Latina siano parimenti da imputare a motivi politici83. In secondo luogo, però, la mancata crescita dell’esportazioni deriva dalle peculiarità della politica commerciale dell’azienda in questo settore e, in particolare, dalla scelta di assumere come mercati privilegiati quello statunitense e quello comunitario. Tale indirizzo implica la costituzione di società commerciali e di consociate estere che permettano la penetrazione ed, al tempo stesso, garantiscano il contenimento dei costi di distribuzione ed una

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Ivi, Gio. & f.lli Buitoni S.p.a., Verbali del comitato esecutivo dal 9 dicembre 1957 al 7 novembre 1969, adunanza del 19 maggio 1959. Ivi, Gio. & f.lli Buitoni S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione dal 30 aprile 1964 all’11 giugno 1969, adunanza del 20 ottobre 1966. Ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dal 11 agosto 1944 al 4 ottobre 1957, adunanza del 28 febbraio 1957; ivi, adunanza del 13 maggio 1957; ivi, adunanza del 4 ottobre 1957. Vedi pure: Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina cit. (a nota 51), p. 101. Ivi, Gio. & f.lli Buitoni S.p.a., Verbali del comitato esecutivo dal 9 dicembre 1957 al 7 novembre 1969, adunanza del 7 febbraio 1958.

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rapida circolazione dei capitali. È in tale quadro che va considerata la proposta formulata nel luglio del 1960 dall’avvocato Chiomenti, a quella data presidente delle due aziende, di un intervento della Perugina nella società con cui Giovanni Buitoni sostituisce la Gourmet Import Inc.: la Perugina Chocolate & Confections Inc.84. L’elemento interessante di questa proposta, al di là di una formulazione che in realtà è volta ad assicurare il controllo pressoché assoluto della nuova società da parte di Giovanni Buitoni e della sua Buitoni Foods Corporation, sta nel fatto che la partecipazione Perugina sarebbe stata gestita da una controllata: la Perugina International Finance Corp., con sede a Curacao (Antille olandesi) e un capitale di 150.000 dollari. A tale finanziaria avrebbe fatto capo anche la costituenda Perugina France che avrebbe dovuto curare la penetrazione del marchio oltralpe85. Gli sviluppi successivi della vicenda vedranno sostanziali varianti al progetto originario ed in generale si registreranno modalità di realizzazione molto graduali. Nell’ottobre 1960 viene costituita la Perugina France, diretta filiazione della Perugina cioccolato e confetture, che ne detiene 3.350 azioni da 100 nuovi franchi l’una (il 97% del capitale sociale)86. L’anno successivo la casa madre italiana acquisisce il 49% della Perugina Chocolate & Confections (New Jersey) per l’importo di 24.000 dollari, sottoscrivendo un accordo che prevede la concessione del marchio di fabbrica e di un credito di 100.000 dollari al 3% annuo contro una royalty simbolica di 100 dollari87. In quello stesso 1961 iniziano poi le trattative con un gruppo tedesco interessato alla commercializzazione dei “Baci” in Germania88. Solo nel settembre

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Ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali delle riunioni del comitato esecutivo dal 9 dicembre 1957 al 5 dicembre 1967, adunanza del 6 giugno 1960; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 2 dal 6 gennaio 1958 al 28 dicembre 1959, adunanza del 28 dicembre 1958; ivi, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 18 luglio 1960; ivi, adunanza del 25 ottobre 1960. Ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali delle riunioni del comitato esecutivo 9 dicembre 1957 al 5 dicembre 1967, adunanza del 6 giugno 1960; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 18 luglio 1960. Ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 29 aprile 1959; ivi, adunanza del 25 ottobre 1960. Ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali delle riunioni del comitato esecutivo 9 dicembre 1957 al 5 dicembre 1967, adunanza del 6 giugno 1960; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 18 luglio 1960. ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 18 aprile 1962, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1961, Perugia, s.d. [1962], p. 8.

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1963 viene avvertita la necessità che: “tutte le attività all’estero vengano svolte attraverso una Società all’uopo costituita delle cui partecipazioni sociali sia titolare al 100% la S.p.a. Perugina cioccolato e confetture”89. Tale Società è la Perugina International Corporation con sede a Panama che, oltre alle già citate partecipazioni estere della casa madre, sottoscrive l’intero capitale sociale della Perugina Schokoladen und Suswaren di Colonia. Nell’ottobre del 1964, inoltre, essa impegna 500.000 nuovi franchi a favore della Perugina France, destinati ad un aumento del capitale sociale e ad una campagna pubblicitaria e promozionale90. Anche per effetto dell’entrata in funzione di questi nuovi strumenti le esportazioni Perugina passano dai 5.217 quintali del 1960 ai 13.191 del 1966, incremento questo cui – tuttavia – corrisponde la stabilità del dato percentuale sul totale della produzione, che oscilla dal 6,3% del 1960 al 6,9% del 1961, fino a raggiungere la punta del 7,3% del 1965, per calare infine al 6,3% del 196691. Quella che cambia è però la destinazione del flusso di esportazioni: tra il 1960 ed il 1966 il prodotto destinato all’America Settentrionale scende dal 38,2% del complesso delle vendite estere al 25,4%, mentre quello commercializzato nell’Europa occidentale passa in soli tre anni dal 23,3% (1961) al 43,3% (1963) e, nel 1966, Francia e Germania da sole assorbono il 50,1% delle esportazioni Perugina92. Quote queste di tut-

89 90

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92

ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 21 settembre 1963. Ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 18 luglio 1960; ivi, adunanza del 21 settembre 1963; ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 24 aprile 1965, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1964, Perugia, s.d. [1964], pp. 12-13. Vedi anche Covino, Dalla ricostruzione agli anni ottanta, in “Sulla bocca di tutti” cit. (a nota 16), p. 44. Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina cit. (a nota 51), p. 102. Elaborazione dati ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 18 aprile 1962 e bilancio al 31 dicembre 1961, Perugia, s.d. [1962], pp. 5-8; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 18 aprile 1963, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1962, Perugia, s.d. [1963], pp. 4-9; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 30 aprile 1964 e bilancio al 31 dicembre 1963, Perugia, s.d. [1964], pp. 5-12; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 24 aprile 1965 e relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1964, Perugia, s.d. [1965], pp. 5-10; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 30 marzo 1966 e bilancio al 31 dicembre 1965, Perugia, s.d. [1966], pp. 10-11; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale del 20 marzo 1967, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1966, Perugia, s.d. [1967], pp. 8-10. ASLB, Gio. & f.lli Buitoni S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione dal 15 marzo 1958 al 30 aprile 1964, adunanza del 25 maggio 1962. Elaborazione dati ISUC, AG,

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to rispetto se si tiene conto che le vendite estere della Società rappresentano, nel 1962, il 22% dell’export italiano del settore, valore che salirà negli anni successivi fino al 26%93. VIII.7. Le evoluzioni del capitalismo familiare A partire dai primi anni sessanta la Perugina, ma anche la Buitoni, si presentano come aziende dinamiche e aggressive, con problemi di ulteriore sviluppo, dato questo che implica nuovi investimenti e il consolidamento del capitale sociale delle due aziende Nel 1962 la Buitoni ne aumenta l’importo da 1.050 milioni di lire a 2.352. Le 140.000 vecchie azioni da 7.500 lire ciascuna, rivalutate a 8.000 lire, vengono convertite in 560.000 nuove azioni da 2.000 lire. Sono, inoltre, emesse 616.000 nuove azioni, 56.000 a titolo gratuito (1 ogni 10 già possedute) mentre le restanti vengono offerte in opzione agli azionisti, una per ogni titolo posseduto prima dell’emissione gratuita. Il capitale sociale Buitoni risulta, così, suddiviso in 1.176.000 azioni del valore nominale di 2.000 lire l’una94.

93

94

fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 18 aprile 1962 e bilancio al 31 dicembre 1961, Perugia, s.d. [1962], pp. 5-8; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 18 aprile 1963, relazioni e bilancio al 31 dicembre 1962, Perugia, s.d. [1963], pp. 4-9; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 30 aprile 1964 e bilancio al 31 dicembre 1963, Perugia, s.d. [1964], pp. 5-12; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 24 aprile 1965 e relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1964, Perugia, s.d. [1965], pp. 5-10; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 30 marzo 1966 e bilancio al 31 dicembre 1965, Perugia, s.d. [1966], pp. 10-11; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale del 20 marzo 1967, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1966, Perugia, s.d. [1967], pp. 8-10. Billi, Struttura produttiva, organizzazione del lavoro e relazioni industriali alla Perugina cit. (a nota 51), p. 104. Elaborazione dati ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 18 aprile 1963, relazioni e bilancio al 31 dicembre 1962, Perugia, s.d. [1963], pp. 5-8; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 18 aprile 1963, relazioni e bilancio al 31 dicembre 1962, Perugia, s.d. [1963], pp. 4-9; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 30 aprile 1964 e bilancio al 31 dicembre 1963, Perugia, s.d. [1964], pp. 5-12; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 24 aprile 1965 e relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1964, Perugia, s.d. [1965], pp. 5-10; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 30 marzo 1966 e bilancio al 31 dicembre 1965, Perugia, s.d. [1966], pp. 10-11; ivi, Assemblea generale del 20 marzo 1967, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1966, Perugia, s.d. [1967], pp. 8-10. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 14 giugno 1961.

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Capitolo VIII Dentro il boom

Nel 1963 è la volta della Perugina che raddoppia il proprio capitale sociale, elevandolo da 2.040 a 4.080 milioni dì lire, attraverso l’emissione di 1.020.000 nuove azioni, sempre da 2.000 lire ciascuna, da offrire ai soci con un rapporto di una per ogni azione già posseduta95. Tali operazioni se, per la loro portata, permettono di affrontare gran parte degli anni sessanta in modo relativamente tranquillo, non significano tuttavia un ampliamento della base degli azionisti. Gli assetti della proprietà e dei Consigli di amministrazione si rinnovano con estrema lentezza. La stessa entrata in campo della nuova generazione Buitoni, la quinta, risulta tutt’altro che celere. Nei Consiglio di amministrazione della Perugina i cinque fratelli Buitoni, Giovanni, Luigi, Bruno, Giuseppe e Marco, e i due Spagnoli, Aldo e Mario, sono presenti per tutto il periodo 1944-1967, la sola eccezione è Giovanni Buitoni, dimessosi nel 195996. I giovani compaiono solo 95 96

Ivi, Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 4 dal 10 dicembre 1962 al 9 marzo 1968, adunanza del 21 settembre 1963. Ivi, Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 21 dicembre 1960. Vedi anche: ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 31 maggio 1944 e bilancio al 31 dicembre 1943, Perugia, s.d. [1943], p. 17; Ivi, Assemblea generale ordinaria dell’11 giugno 1945 e bilancio al 31 dicembre 1944, Perugia, s.d. [1945], p. 15; ivi, Assemblea generale ordinaria al 30 ottobre 1946 e bilancio al 31 dicembre, Perugia, s.d. [1946], p. 18; ivi, Assemblea generale ordinaria del 28 maggio 1947 e bilancio al 31 dicembre 1946, Perugia, s.d. [1947], p. 17; ivi, Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 29 maggio 1948 e bilancio al 31 dicembre 1947, Perugia, s.d. [1948], p. 19; ivi, Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 20 maggio 1949 e bilancio al 31 dicembre 1948, Perugia, s.d. [1949], p. 23; ivi, Assemblea generale ordinaria del 28 marzo 1950 e bilancio al 31 dicembre 1949, Perugia, [1949], p. 20; ivi, Assemblea generale ordinaria del 21 marzo 1951 e bilancio al 31 dicembre 1950, Perugia, s.d. [1951], p. 19; ivi, Assemblea generale ordinaria del 2 aprile 1952 e bilancio al 31 dicembre 1951, Perugia, s.d. [1952], p. 19; ivi, Assemblea generale ordinaria del 31 marzo 1953 e bilancio al 31 dicembre 1952, Perugia, s.d. [1953], p. 20; ivi, Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 29 aprile 1954 e bilancio al 31 dicembre 1953, Perugia, s.d. [1954], p. 21; ivi, Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 29 marzo 1955 e bilancio al 31 dicembre 1954, Perugia, s.d. [1955], p. 23; ivi, Assemblea generale ordinaria del 7 aprile 1956 e bilancio al 31 dicembre 1955, Perugia, s.d. [1956], p. 20; ivi, Assemblea generale ordinaria del 30 marzo 1957 e bilancio al 31 dicembre 1956, Perugia, s.d. [1957], p. 19; ivi, Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 12 aprile 1958 e bilancio al 31 dicembre 1957, Perugia, s.d. [1958], p. 23; ivi, Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 29 aprile 1959 e bilancio al 31 dicembre 1958, Perugia, s.d. [1959] p. 19; ivi, Assemblea generale ordinaria del 25 maggio 1960 e bilancio al 31 dicembre 1959, Perugia, s.d. [1960], p. 19; ivi, Assemblea generale ordinaria del 12 aprile 1961 e bilancio al 31 dicembre 1960, Perugia, s.d. [1961], p. 23; ivi, Assemblea generale ordinaria del 18 aprile 1962 e Bilancio al 31 dicembre 1961, Perugia, s.d. [1962], p. 19; ivi, Assemblea generale ordinaria del 18 aprile 1963, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1962, Perugia, s.d. [1963], p. 23; ivi, Assemblea generale ordinaria del 30 aprile 1964 e bilancio al 31 dicembre 1963, p. 25; ivi, Assemblea generale ordinaria del 24 aprile 1965 e relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1964, Perugia, s.d. [1965], p. 23; ivi, Assemblea

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nel 1967, senza però intaccare la compatta presenza della vecchia guardia nella struttura direzionale. Ugualmente alla Buitoni il nucleo centrale del Consiglio di amministrazione è rappresentato con continuità dal 1943 al 1966 dai fratelli Buitoni (sempre con l’eccezione di Giovanni dimessosi, anche in questo caso, alla fine degli anni cinquanta) e da Mario Spagnoli, cui si aggiungono esponenti di altri rami della famiglia e personaggi, quali Falasconi e Lo Presti, entrati nel novero degli azionisti nel periodo tra le due guerre. Unica variante è l’ingresso, con qualche anticipo rispetto alla Perugina, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, della quinta generazione all’interno delle strutture decisionali. In ogni caso, comunque, il controllo della famiglia resta pressoché incontrastato nelle due aziende. Non sono infatti da considerarsi significative le presenze di svizzeri e tedeschi, come Pasche e Kuhnlein, né quelle di tecnici e dirigenti come Faina alla Perugina e Arnaldo Ceccomori alla Buitoni. L’unico tentativo di “sfamiliarizzazione” è quello tentato con l’innesto di Pasquale Chiomenti nei due Consigli di amministrazione nella seconda metà degli anni cinquanta. Entrato in entrambi nel 195497, Chiomenti diviene vice presidente della Perugina nel 195598 e della Buitoni nel 195699. Con il ritiro di Giovanni Buitoni, nel 1959, diviene presidente di entrambe le Società, ma è destinato a mantenere tale incarico solo un anno. Viene infatti fortemente contrastato sia dai Buitoni che dagli Spagnoli. La sua autorità sembra derivare solo dal fatto di essere il fiduciario di Giovanni Buitoni proprio a fine del 1960, con la scadenza delle azioni a voto plurimo, perderà il controllo delle due società. Così, dopo vari tentativi di mediare opposizioni e spinte contrastanti, Chiomenti si dimette il 21 dicembre del 1960, uscendo da entrambi i Consigli di amministrazione100. Con l’uscita di scena di Giovanni, per quasi un quarantennio vero pivot delle aziende dei Buitoni, si apre il problema di un riassetto complessivo delle due società volto a garantirne il controllo e la direzione.

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generale ordinaria del 30 marzo 1966 e bilancio al 31 dicembre 1965, Perugia, s.d. [1966], p. 5. Ibidem. Vedi pure: ASLB, Gio. & f.lli Buitoni S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, dal 15 marzo 1958 al 30 aprile 1964, adunanza del 12 aprile 1961; ivi, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 4 dal 30 aprile 1964 all’11 giugno 1969, adunanza del 16 giugno 1966. ISUC, AG, fasc. 386, Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 29 marzo 1955 e bilancio al 31 dicembre 1954, Perugia, s.d. [1955], p. 23; ivi, Assemblea generale ordinaria del 30 marzo 1957 e bilancio al 31 dicembre 1956, Perugia, s.d. [1957], p. 19. Ivi, fasc. 374, Gio. & f.lli Buitoni S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 29 marzo 1957 e bilancio al 31 dicembre 1956, Perugia, s.d. [1957], p. 18. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 3 dal 6 aprile 1959 al 10 febbraio 1962, adunanza del 25 maggio 1960; ivi, adunanza del 21 dicembre 1960.

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Capitolo IX Verso un nuovo inizio: la nascita delle Industrie Buitoni Perugina

Capitolo IX Verso un nuovo inizio: la nascita delle Industrie Buitoni Perugina

IX.1. Anni sessanta: la Perugina nell’industria dolciaria italiana Con il nuovo stabilimento e lo sviluppo delle produzioni, degli investimenti, dell’occupazione e degli utili la Perugina entra a pieno diritto nel novero delle grandi imprese dolciarie del paese. Essa nel 1961 è per fatturato, più di 10 miliardi di lire l’anno, tra le prime cinque imprese del settore insieme a Ferrero, Motta, Alemagna, Pavesi. Complessivamente queste aziende incidono sull’insieme del fatturato dell’industria dolciaria per il 37%1. Nel 1965 le imprese con più di 10 miliardi di fatturato divengono sei e raggiungono una percentuale pari al 42% del fatturato del comparto2. Significative sono anche le quote che nel 1965 le prime cinque industrie dolciarie realizzano per ogni ambito produttivo a livello di quote di mercato: il 20% delle caramelle, il 32% dei biscotti, il 41% delle paste lievitate, il 44% dei gelati ed il 68% del cioccolato3. Quanto più il prodotto prevede, insomma, l’estensione di processi industriali, tanto più le grandi imprese riescono a conquistare posizioni preminenti. Ciò è particolarmente evidente per la produzione del cioccolato che “presenta il più alto grado di concentrazione” cosa questa che “dipende, in larga misura, dall’elevatezza degli investimenti richiesti da questa produzione che è certamente […], la più industrializzata tra le dolciarie”4. Per dare l’idea dello sviluppo dell’azienda nel corso degli anni sessanta può bastare analizzare l’evoluzione di alcuni indicatori quali il fatturato, gli investimento e gli utili. Il fatturato cresce tra il 1960 ed il 1968 di più di tre volte, con andamenti che superano, negli ultimi anni del periodo, il 30% annuo (graf. 7). Ancora più sostenuto risulta essere l’andamento degli investimenti (graf. 8). Crescente, infine, anche l’andamento degli utili (graf. 9).

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Umberto Collesei, L’industria dolciaria, Milano, Etas Kompass, 1968, p. 57. Ibidem. Ivi, tab. 19, p. 58. Ivi, p. 60.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

Grafico 7. Fatturato della Perugina dal 1960 al 1968.

Fonte: ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria e bilancio, per tutti gli anni considerati.

Grafico 8. Investimenti della Perugina dal 1960 al 1968

ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a, Assemblea generale ordinaria e bilancio, per tutti gli anni considerati.

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Capitolo IX Verso un nuovo inizio: la nascita delle Industrie Buitoni Perugina

Grafico 9. Utili netti della Perugina dal 1960 al 1968

Fonte: ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a, Assemblea generale ordinaria e bilancio, per tutti gli anni considerati.

L’immagine che si ricava dai dati è quella di una azienda dinamica e in piena ascesa, che si colloca ai primi posti nel settore di appartenenza, con una capacità innovativa – testimoniata dal trend degli investimenti – di tutto rispetto, superiore a quella dell’insieme delle altre imprese del comparto dolciario. IX.2. Il ruolo della Perugina nel decollo industriale cittadino Se l’impresa esalta negli anni sessanta il suo ruolo di azienda leader nel settore, una delle poche che si collochi nel novero delle grandi per fatturato, capacità innovativa e occupazione, pure tutto ciò avviene in una fase in cui iniziano i primi, timidi processi di sviluppo industriale all’interno della provincia di Perugia e della città. Il decennio 1961-1971, da questo punto di vista, segna l’inizio di una fase di diffusione dell’industria che raggiungerà il punto più alto nel decennio successivo. L’andamento dell’attività manifatturiera e le sue dimensioni assumono i caratteri evidenziati nella tabella 23. 255


Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

Tabella 23. Imprese manifatturiere nella provincia di Perugia (1961 e 1971)

Fonte: Centro regionale umbro di ricerche economiche e sociali, Annuario 1975, tab. 3 e 4, pp. 644-645.

Nel corso del decennio, insomma, si assiste ad una relativa diminuzione delle microimprese a carattere artigianale, ad una crescita del peso delle aziende con più di 100 addetti, dove peraltro si concentra la crescita dell’occupazione. Se si guarda più in profondità ai dati relativi al comparto manifatturiero, prendendo in considerazione le aziende con più di 5 addetti in anni diversi nel periodo 1961-1970, sia per la provincia che per il comprensorio Perugino (Perugia, Corciano, Deruta, Torgiano), tali caratteri escono rafforzati (tab. 24). Il comprensorio Perugino, in realtà, cresce in questa fase in modo meno accelerato della media della provincia e, tuttavia, è proprio in esso che si concentrano gli episodi più significativi e dinamici della industrializzazione della provincia: la Perugina e l’Angora Spagnoli. Più semplicemente si inaugura una fase in cui cominciano ad essere individuate alternative alla depressione derivante dalla crisi agraria, l’industria acquista un suo corpo nella città e si affianca alle attività burocratiche e di servizio, sostituendo il ruolo della rendita fondiaria. Dal punto di vista economico e sociale 256


Capitolo IX Verso un nuovo inizio: la nascita delle Industrie Buitoni Perugina

Tabella 24. Imprese manifatturiere sopra i 5 addetti nella provincia di Perugia e nel comprensorio Perugino (1961, 1965, 1968, 1970

Fonte: Centro regionale umbro di ricerche economiche e sociali, Annuario 1975, tab. 8 pp. 650-651 e tab. 12, pp. 658-659.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

la forte crescita dell’occupazione alla Perugina crea una classe operaia giovane e nuova, i cui comportamenti […] si pongono su un terreno completamente diverso da quelli del passato. [… L]a dimensione internazionale dell’impresa permette la crescita di una imprenditorialità e di una dirigenza di dimensioni sconosciute in una città come Perugia. Si prefigurano cioè processi che matureranno negli anni successivi, costruendo – nel bene e nel male – gli equilibri degli anni settanta e ottanta, quelli cioè di una città in cui servizi, impieghi e industria giocheranno un ruolo fondamentale, mentre tramonterà definitivamente il ruolo delle campagne e il potere condizionate della rendita fondiaria5.

IX.3. Nuovi prodotti e messaggio pubblicitario La trasformazione, durante gli anni cinquanta e sessanta, in grande impresa orientata verso mercati di massa e la costante innovazione tecnologica che ciò comporta, significa anche una modificazione ed una standardizzazione delle linee tradizionali di prodotto e l’immissione nel circuito commerciale di prodotti nuovi. Fino a buona parte degli anni cinquanta la Perugina aveva mantenuto un’ampia gamma di cioccolatini e caramelle, tutti improntati al vincolo della qualità superiore. Era questo il naturale corollario di una scelta del prodotto dolciario come articolo da regalo, indirizzato verso una clientela selezionata. Anche l’entrata dell’azienda nel settore dei prodotti da forno si gioca su questo teorema e, infatti, la Perugina si specializza nel settore della biscotteria fine e di qualità. Lo slogan pubblicitario che caratterizza questa fase è “Il dono delle ore liete” che comprende l’insieme dei prodotti dell’azienda. La standardizzazione, all’inizio, riguarda soprattutto le produzioni tradizionali di maggior successo, prima tra tutte quella del “Bacio”, con una prima linea automatizzata nel 1956. Il cioccolatino conoscerà diverse variazioni nel corso del tempo: al liquore con ciliegia, più piccolo senza nocciola (il Bacetto), al pistacchio. Fatto sta che il “Bacio” tradizionale rimarrà il prodotto di maggior durata superando negli anni sessanta i 30.000 quintali venduti6. Più lenta è invece l’evoluzione di un altro prodotto tradizionale come le uova di cioccolato, che avevano la loro proiezione di mercato soprattutto nel periodo pasquale. Per avere evoluzioni significative biso-

5 6

Renato Covino, Giampaolo Gallo, Luigi Tittarelli e Gernot Wapler, Economia, società e territorio, in Perugia, a cura di Alberto Grohmann, Bari, Laterza, 1990, p. 147. Roberta Pencelli, “Il Bacio”, in Perugina. Una storia d’azienda, ingegno e passione, a cura di Gianpaolo Cesarani e Renato Covino, Milano, Silvana editoriale - Nestlé, 1997,pp. 162-163.

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Capitolo IX Verso un nuovo inizio: la nascita delle Industrie Buitoni Perugina

gnerà attendere gli anni settanta. Quello che caratterizza, però, soprattutto gli anni sessanta è l’ideazione di nuovi prodotti, con linee di confezione del tutto innovative, destinati alla rete distributiva diffusa, soprattutto bar e negozi alimentari. È il caso del “Carrarmato”, il primo esempio di questa linea. È una barretta di cioccolato, la cui forma ricorda appunto i cingoli di un carrarmato, e che viene prodotta in pezzi di 17, 30 e 60 grammi sia al latte che fondente. Il “Carrarmato” entra in produzione nell’agosto 1965, nel 1966 – che è l’anno in cui avviene la sua commercializzazione diffusa – esso raggiunge il 26.485 quintali, secondo solo al “Bacio” (28.470 quintali)7. In rapida successione, nel 1967-1968, entrano in produzione i blocchetti di cioccolato bianco, con la stessa forma del “Carrarmato”, denominati “Cingolato”8. Il ritardo deriva dalla necessità di dover allestire una linea destinata esclusivamente a tale produzione, che per la tipologia di materie prime adoperate, burro cacao in primis, non è compatibile con quella del “Carrarmato”. Sempre nel 1967 entra in produzione il “Sibon”, una tavoletta di cioccolato al latte e riso soffiato, che rappresenterà il prototipo delle future merendine per ragazzi messa in circolazione da altre aziende negli anni successivi9. Anche nel settore delle caramelle si va ad un mutamento dei prodotti e delle confezioni. La Perugina aveva in questo settore registrato un successo di inaspettate proporzioni a metà anni venti con una caramella denominata “Rossana”, con un ripieno di rhum, mandorle e latte, che aveva costretto l’azienda, che già pensava di impegnarsi soprattutto sul settore del cioccolato, ad investire anche nel comparto delle caramelle. Alla “Rossana” si affiancherà la “Cinzia”, con il ripieno di nocciola e ricoperta di cioccolata10. Entrambe le caramelle conosceranno una eclisse, fino al rilancio della “Rossana”, a partire dal 1960, giocata sulla sua aura di classicità. Ma dalla metà degli anni sessanta le caramelle cominciano ad essere prodotte con forme e confezioni diverse. Si lancia la linea stick, le “Don”, che hanno gusti diversi, tra cui quello della “Rossana”11. Si trattava di un prodotto per molti versi opposto alle caramelle tradizionali, estremamente semplice nella forma e nelle modalità di fabbricazione, facile da portare

7 8 9 10 11

David Madery, Carrarmato, Cingolato, Sibon, in Perugina. Una storia d’azienda, ingegno e passione cit. (a nota 6), p. 146 Ibidem. Ibidem. Francesco Chiapparino, Dalla Rossana al Don, in Perugina. Una storia d’azienda, ingegno e passione cit. (a nota 6), p. 147. Ibidem.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

in tasca e di prezzo assai contenuto, pensato in altre parole per un consumo meno ritualizzato di quello delle “Rossana” e più continuato durante l’arco della giornata. Concepite per un mercato di massa ancora ai primi passi, le “Don” vennero sospese nel giro di quindici venti anni da pastigliaggi simili, ugualmente consumabili in ogni situazione, ma assai più elaborati e di gusto più sofisticato12.

In rapporto alle nuove dimensioni del mercato cambiano anche i caratteri della pubblicità. Tradizionalmente la pubblicità Perugina, se si esclude la campagna “I Quattro moschettieri”, aveva utilizzato soprattutto i mezzi tradizionali: cartellonistica, inserzioni in giornali e riviste e la radio. Nel dopoguerra si aggiungono a tali canali i tabelloni negli stadi e la pubblicità sulle schedine del totocalcio13. Il mezzo pubblicitario viene sempre più curato e specializzato e spesso affidato “ad agenzie specializzate italiane, come lo studio Sigla, ma anche straniere, come l’anglosassone J.Walter Thompson”14. Il salto, tuttavia, si avrà soprattutto con l’inizio delle trasmissioni televisive nel 1954. In una prima fase ci si affiderà soprattutto ai testimonial. Il primo sarà Vittorio Gasmann che aveva raggiunto una celebrità di massa grazie al programma televisivo “il mattatore” e che nel 1960-1961 girerà una serie di “Caroselli” incentrati sulla pubblicità del “Bacio”15. Nel 1962 sarà la volta di Frank Sinistra, tornato dopo un periodo di eclisse, un personaggio di spicco nello star system e nella vita pubblica americana. In ogni scatola di confezioni di “Baci” fu anche inserito un disco del cantante americano16, preludio ad una grande campagna in cui nelle scatole di “Baci” verrà inserito il libro Love story e il disco con la colonna sonora del film tratto dal romanzo. Nel 1966 sarà il turno di Jean Sorel e di Valeria Ciangottini, che aveva raggiunto il successo con il film “La dolce vita”, infine nel 1970 testimonial dei “Baci” sarà il presentatore Corrado17. Il messaggio televisivo negli anni successivi si affinerà ulteriormente con grandi campagne volte a diffondere il carattere di regalo del prodotto (“Arrivi e partenze”), con eventi spettacolari (“La nave dei baci”), con spot in cui il messaggio veniva

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Ibidem. “Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, contributi di Renato Covino, Paola Boschi e Daniele Orlandi, Electa Editori umbri associati, 1990, p. 97. Ibidem. Roberta Pencelli, I testimonial, in Una storia d’azienda, ingegno e passione, a cura di Gian Paolo Ceserani e Renato Covino, Milano, Silvana, 1997, p. 147-148 Ibidem. Ibidem.

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giocato sulla suggestione di luoghi e di situazioni (“il Ponte degli innamorati”). Al centro saranno, per buona parte degli anni settanta, i prodotti di massa (le “Don” e il “Carramato”), quelli legati alle occasioni (le uova di Pasqua) e, soprattutto, il “Bacio”18. IX.4. Gli operai Si è già visto come, con l’inizio degli anni sessanta, inizi a cambiare il sistema delle relazioni industriali sviluppatosi tradizionalmente nell’azienda. A fronte dell’impetuoso sviluppo tecnico e delle conseguenti modificazioni dell’organizzazione del lavoro, la direzione aziendale continua, nei confronti del personale, a mantenere fermo un rapporto basato su salari mediamente buoni e superori a quelli in vigore non solo nelle fabbriche della provincia, ma anche nel settore dolciario, asse fondamentale di una politica che ha come elemento caratterizzante forme di “paternalismo organico” sperimentate già negli anni trenta. La situazione cambia nel momento in cui vengono assunti centinaia di giovani e aumenta progressivamente il numero dei lavoratori impiegati. Quello che era possibile nel quadro di un’azienda attiva in un mercato di nicchia, con poche centinaia di addetti, con lavorazioni spesso semi artigianali, non è più realizzabile in una fabbrica di grandi dimensioni, completamente automatizzata. In questo quadro va registrato un migliorato clima tra le diverse organizzazioni sindacali che assumono le nuove forme di organizzazione del lavoro come terreno di confronto e di scontro e, pur nelle differenze che le contraddistinguono, cominciano a trovare significativi terreni di unità di azione. Si tende al superamento del vecchio sistema di relazioni, cosa che provoca, dopo la firma del contratto del 1963, l’abbandono di un atteggiamento di disponibilità dell’azienda, di quella forma di paternalismo illuminato che aveva caratterizzato la fase precedente e che porterà nel 1964 alla denuncia, da parte della Direzione, degli accordi aziendali. Questo mutamento di indirizzo si verifica nel 1964-1965, complice la crisi congiunturale in cui si ha una battuta di arresto della crescita economica italiana19. Si sostenne, allora, che la “congiuntura” fosse usata ad arte dalla direzione che diminuì l’orario di lavoro a 32 ore, ridusse la durata di per-

18 19

Ibidem. Cfr. in proposito Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2003, pp. 32-39.

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manenza in fabbrica degli stagionali e non ne riassunse 200, mentre razionalizzava il lavoro degli impiegati attraverso l’entrata in funzione del centro elettrocontabile e intensificava i ritmi di lavoro20. D’altro canto la relazione all’Assemblea dei soci nell’aprile 1965 fa osservare come “l’aumento della produzione e delle vendite della Società sia stato nel 1964 ugualmente notevole, e quindi particolarmente lusinghiero”21. In realtà, si tratterà di una battuta d’arresto temporanea. Nel 1965 si rafforza il rapporto unitario tra i diversi sindacati in fabbrica e le trattative cominciano a venire condotte da tutti e tre le sigle confederali. Il contratto degli alimentaristi del 1966-1967 rappresenterà un nuovo momento di svolta: vi furono decine di giornate di sciopero. Ad esempio i lavoratori delle conserve animali, quelli che ruppero per primi la resistenza confindustriale, fecero 78 giorni di sciopero. Un grande sacrificio, uno sforzo economico immenso. Alla fine ottenemmo il contratto per questi lavoratori […]. Con quella firma – siamo a giugno del 1966 – ottenemmo il riproporzionamento del salario a 44 ore settimanali, con una riduzione di 4 ore, un aumento salariale del 20%, la parificazione dell’indennità di licenziamento tra operai e impiegati, le ferie uguali per tutti, permessi sindacali e diritto d’assemblea. Un mese dopo firmammo il contratto dei dolciari che aveva pressappoco gli stessi contenuti […] in questa grande vertenza il ruolo della Perugina fu molto importante22.

È su questo che si costruisce la nuova contrattazione aziendale. Divengono centrali problematiche nuove, come ad esempio la democrazia, il cottimo e l’ambiente di lavoro. Se prima le trattative vertevano sostanzialmente sui livelli di salario e sulle retribuzioni, ora si entrava invece nelle dinamiche dell’organizzazione del lavoro e questo comportava prima di tutto l’esigenza di arrivare al tavolo della trattativa preparati. Per potersi confrontare con gli ingegneri e i tecnici della proprietà, noi operai scarsamente secolarizzati avevamo bisogno di approfondire le cose23.

In questo quadro gli anni del grande cambiamento, il 1968 ed il 1969,

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Francesco Mandarini ed Enrico Mantovani, I comunisti e la Perugina, in I comunisti umbri. Scritti e documenti (1944-1970), Perugia, Edizioni di “Cronache umbre”, 1977, p. 408. ISUC, AG, fasc. 386, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Assemblea generale ordinaria del 24 aprile 1965, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1964, Perugia, s.d. [1964], p. 21. Andrea Gianfagna, Testimonianza, in La Perugina è storia nostra. I lavoratori raccontano i cento anni della fabbrica, a cura di Fabrizio Ricci, Roma, Ediesse, 2007, p. 64-65. Francesco Mandarini, Testimonianza, in ivi, p. 35.

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assumono un peso determinante. Due sono i temi su cui si concentra l’attenzione in questa fase. Il primo è l’organizzazione del lavoro e in particolar modo il cottimo, il secondo è rappresentato dalle forme di organizzazione all’interno dell’azienda con il superamento della Commissione interna e la costituzione del Consiglio di fabbrica. Essi sono in un qualche modo collegati e testimoniano un’esigenza funzionale: di fronte ad una fabbrica divenuta più grande, più moderna e strutturata i lavoratori individuano la necessità di forme capillari e democratiche di rappresentanza sindacale. Mutano anche le forme di lotta. Dagli scioperi esterni, che significavano soprattutto interruzione per alcune ore del lavoro, si passa agli scioperi interni, con fermate di reparto ed assemblee in fabbrica. La vertenza per il cottimo si sviluppa alla fine di settembre del 1968. La Filziat Cgil apre la vertenza con un volantino del 23 settembre che recita: Ci sono macchine dove da mesi gli operai, pur facendo l’impossibile, non raggiungono il cottimo, altri, per raggiungerlo, sacrificano il tempo destinato alla consumazione della colazione e all’espletamento dei propri bisogni fisiologici, magari non accorgendosi del rischio di pagare, prima o poi, questi assurdi sacrifici con il deperimento della propria salute24.

La conclusione della vertenza, che si svolge sostanzialmente attraverso scioperi interni all’azienda, porterà alla costituzione dei delegati di cottimo, eletti per reparto e su scheda bianca che precederanno solo di qualche mese la già ricordata sostituzione della commissione interna con il Consiglio di fabbrica, uno dei primi in Italia, anch’esso eletto per reparto e su scheda bianca. Si trattava di 82 delegati, tra cui molti giovani. Il 50% di essi erano donne25. Parallelamente con le elezioni amministrative del 1970 il peso raggiunto dai lavoratori all’interno della fabbrica, diviene anche peso politico nelle rappresentanze istituzionali, soprattutto in quelle espresse dal Pci. Nelle liste di quest’ultimo partito era stata tradizionalmente assicurata una presenza della Perugina, che normalmente vedeva eletto un suo rappresentante nel Consiglio comunale. Questa presenza nel 1970 si moltiplica e si tramuta in partecipazione agli esecutivi, dato destinato a durare almeno un paio di decenni26. Allo stesso modo si assicura un rappresentante, sia nel Consiglio che nella Giunta, alla Regione, istituzione che decollerà proprio nel 197027. È il segno di un riconoscimento di ruolo nella realtà poli24 25 26 27

Citato in Giuliano Mancinelli, Testimonianza, in ivi, pp. 90-91. Ivi, p. 98. Ivi, pp. 97-98. Mandarini, Testimonianza cit. (a nota 23), p. 40

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tica e sociale della città e della regione. Quella che fa affermare ad una lavoratrice: Il nostro Consiglio di fabbrica era l’emblema di Perugia e dell’Umbria. Gli altri lavoratori guardavano sempre a noi quando c’erano diritti da rivendicare o lotte da portare avanti. E le nostre delegazioni erano sempre presenti nelle vertenze delle altre fabbriche28.

La fabbrica, insomma, come luogo del lavoro, ma anche momento di acquisizione di diritti, di consapevolezza politica, di assunzione di responsabilità sociali ed istituzionali. Il 23 febbraio 1971 d’intesa con l’azienda verrà sancito il passaggio di tutte le funzioni sindacali all’esecutivo del Consiglio di fabbrica29. IX.5. L’azienda verso nuovi equilibri Quanto avviene tra la seconda metà degli anni sessanta ed i primi anni settanta dal punto di vista rivendicativo è, tuttavia, difficilmente comprensibile senza un’analisi attenta di ciò che si verifica a livello generale dell’azienda e del gruppo. Si sono già analizzati in precedenza i dati relativi a fatturati, utili ed investimenti della Perugina nel corso degli anni sessanta. Essi mostrano un’azienda in crescita dove tutti gli indicatori indicano una fase accelerata di sviluppo. Lo stesso si verifica per quanto riguarda la Buitoni, anche se con indici che mostrano un andamento più contenuto della crescita dell’azienda. Esistono, cioè, margini consistenti per una mediazione con rivendicazioni che solo un decennio prima sarebbero state considerate immotivate ed irragionevoli. In sostanza si cerca, da parte dell’azienda, di ricreare – sulla base di un sistema di fabbrica più evoluto e con un’azienda in espansione – quella comunità d’impresa in cui possano riconoscersi imprenditori, manager e lavoratori. Ciò spiega per un verso il senso di appartenenza e il giudizio positivo nei confronti dell’azienda che si ritrova in tutte le testimonianze di chi ha lavorato in Perugina e, contemporaneamente, il rispetto nei confronti sia della proprietà che della direzione aziendale, pur nella contrapposizione degli interessi. Se alcuni sostengono, ad esempio, a proposito della vertenza sul cottimo che

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Elsa Ciucarelli, Testimonianza, in La Perugina è storia nostra cit. (a nota 22), p. 173. Mancinelli, Testimonianza cit. (a nota 24), p. 95.

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L’azienda inizialmente reagì molto male, ma presto prese atto della situazione che si era venuta a creare e soprattutto del peso che come sindacato avevamo assunto in fabbrica. E allora scese a patti30.

Altri accentuano la duttilità e riconoscono la qualità del management e della direzione aziendale. Durante le trattative, dall’altra parte del tavolo sedeva un gruppo imprenditoriale, supportato da “tecnici di grande qualità (Modena, Grassi, ecc.)”, su cui mi sento di dare un giudizio positivo, soprattutto rispetto alla gestione del conflitto sociale di altre realtà industriali della provincia di Perugia31.

Fuori dal linguaggio cifrato dei dirigenti sindacali, ancora più esplicite sono le testimonianze dei sindacalisti di base. Una volta venne in fabbrica Bruno Trentin, segretario generale della Cgil nazionale, […]. Finita l’assemblea venne a porgere il saluto, […], Franco Buitoni, che teneva le relazioni esterne del gruppo. Salutò Trentin, mi vide […], si avvicinò e mi chiese con molta cordialità come stavo e come stavano i miei […]. Franco Buitoni mi conosceva da una vita e mi salutava sempre, ma Trentin rimase molto colpito da quel gesto [… m]i chiamò da una parte e mi chiese spiegazioni. Io gli risposi che loro erano fatti così, che quello era il loro modo di rapportarsi con i lavoratori e che non lo facevano solo con me, ma con molti altri32.

Un gruppo dirigente moderno, proiettato verso una dimensione internazionale, attento alle novità e allo sviluppo dell’impresa e, a tal fine, disponibile ad un atteggiamento di mediazione, di governo condiviso con il sindacato di una conflittualità in crescita. D’altro canto, il compito che si pone sullo scorcio degli anni sessanta in particolare ai giovani Buitoni che esordiscono come dirigenti, sia delle imprese alimentari che della Perugina, è quello dì organizzare tanto le società italiane che quelle estere in un grande gruppo integrato. Era la strategia che aveva perseguito Giovanni Buitoni negli anni cinquanta e che, come si è visto, non aveva raggiunto con l’Ibo grandi risultati. La questione si ripropone con forza negli anni sessanta, non fosse altro per le dimensioni crescenti del gruppo. La costruzione di nuovi impianti, il massiccio sviluppo di investimenti, infat-

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Ivi, pp. 94-95. Mandarini, Testimonianza cit. (a nota 23), p. 34. Gianfranco Sportolari, Testimonianza, in La Perugina è storia nostra cit. (a nota 22), pp. 104-105.

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ti, non aveva comportato la predisposizione di un piano di finanziamenti adeguato di fronte ad un impegno di assoluta rilevanza. La situazione delle diverse aziende conosce così, a metà anni sessanta un appesantimento tale dell’esposizione finanziaria da imporre una riorganizzazione unitaria del gruppo33. Viene, quindi, deciso di costituire una holding tra Buitoni e Perugina, che avrebbe dovuto rappresentare un organo di controllo e di finanziamento34. Tale organismo viene formalmente costituito il 16 giugno 1966 e prende il nome di Finanziaria Buitoni S.p.a., di cui diventa presidente Marco Buitoni35. La Finanziaria è il frutto di una complicata operazione, studiata da Bruno Visentini, del cui studio era socio Vittorio Ripa di Meana, marito di Isabella Buitoni, figlia di Bruno sr36. Lo schema predisposto tiene conto dell’apporto dei titoli dei diversi rami familiari alla holding, a cui sono connessi problemi relativi al valore delle azioni e questioni di carattere fiscale. Non si procede ad una valutazione delle azioni della Buitoni e della Perugina, ad essa viene attribuito un valore sulla base di criteri fiscali. Si decide, inoltre, che la partecipazione alla Finanziaria sia stabilita in modo tale che per raggiungere la maggioranza siano necessari almeno tre gruppi familiari. Indipendentemente dal valore nominale, il valore attribuito alle azioni Buitoni è fissato a 2.500 lire l’una, mentre per la Perugina a 5.00037. Ne deriva lo schema riportato nella tabella 25. Trasformando le azioni in valori monetari ne deriva una società il cui capitale sociale è costituito per 5.100 milioni da azioni Perugina, per 1.470 milioni da azioni Buitoni e per 30 milioni in contanti. Ogni ramo della famiglia avrebbe posseduto le quote della finanziaria riportate nella tabella 26. In sintesi se i due maggiori azionisti, Bruno e Luigi, avessero cumulato le loro azioni avrebbero raggiunto il 49,9% del capitale azionario. È su questa base che viene approvato lo Statuto della Finanziaria ed eletto il Consiglio di amministrazione. La nuova società aveva come scopi statutari assumere partecipazioni in imprese alimentari, coordinare tecnicamente le società, fornire assistenza finanziaria38.

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Roberta Pencelli, Capitalismo familiare e strutture organizzative: il gruppo Buitoni Perugina dall’Ibo all’Ibp, in Uomini economie culture. Saggi in memoria di Giampaolo Gallo, a cura di Renato Covino, Alberto Grohmann e Luciano Tosi, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1997, vol. II, p. 273. ASBP, FP, DGAD, b. 96, fasc. 804 “Holding”, Riunione di Chianciano 4 ottobre 1965. Ivi, b. 94, fasc. 783, Statuto della Finanziaria Buitoni S.p.a., 16 giungo 1966. Ivi, b. 92, fasc. 763 “Holdings”, Relazione di Bruno Visentini, 19 ottobre 1965. Ibidem; Ivi, Relazione di Bruno Visentini, 16 novembre 1965. Ivi, b. 92, fasc. 783, Statuto della Finanziaria Buitoni S.p.a., 16 giugno 1966.

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Capitolo IX Verso un nuovo inizio: la nascita delle Industrie Buitoni Perugina

Tabella 25, Ripartizione delle azioni di Buitoni e Perugina tra i diversi rami familiari e quote di conferimento alla Finanziaria Buitoni prevista dallo “schema Visentini”

Fonte: ASBP, FP, DGAD, b. 92, fasc. 763 “Holdings”, Relazione di Bruno Visentini, 16 novembre 1965.

Tabella 26. Capitali conferiti dai diversi rami della famigliaBuitoni secondo lo “schema Visentini”

Fonte: ASBP, FP, DGAD, b. 92, fasc. 763 “Holdings”, Relazione di Bruno Visentini, 16 novembre 1965, nostra elaborazione .

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Le esigenze che portano alla Finanziaria Buitoni sono sostanzialmente due: assicurare il possesso unitario della maggioranza del pacchetto azionario da parte della famiglia e garantire alla stessa, anche in futuro, il controllo dell’azienda. Si tratta di una sorta di cassaforte familiare che tuttavia non garantisce un indirizzo unitario di gestione. Più che costituire una holding, a cui apportare i diversi pacchetti azionari, si dà vita ad un patto di sindacato formalizzato in un’azienda. In pratica gli azionisti di maggioranza della Buitoni e della perugina, che erano i vari membri della famiglia Buitoni, invece di avere un’intesa informale, la formalizzano con la creazione di una società. Infatti di per sé, la costituzione di una Finanziaria non porta ad una unicità di indirizzo dell’azienda; essa non aveva né ruolo né un contenuto di attività39.

La Finanziaria Buitoni non rappresenta in altri termini lo strumento di cui il gruppo ha bisogno per gestire una nuova fase di crescita. È in questo contesto che matura, sempre su parere di Bruno Visentini, l’ipotesi di andare alla fusione tra le due società40. Il pivot dell’operazione è Paolo Buitoni, figlio di Bruno sr che riesce a coagulare intorno all’idea della fusione sia l’insieme degli azionisti che il management delle due aziende41. La proposta di una sola società consente, infatti, per un verso di avere una forza competitiva maggiore delle due società originarie grazie alle dimensioni, alla forza finanziaria, alla capacità di penetrazione nei mercati; dall’altro raccoglie esigenze che erano già mature negli anni cinquanta, a cui si è costretti a dare solo a fine anni sessanta una risposta a causa della necessità di liquidità delle imprese. Si tratta, insomma, di una risposta che nasce quando i margini di autofinanziamento non appaiono più corrispondenti alle dimensioni di aziende che avevano ormai allargato il loro impegno in molti settori dell’industria alimentare, certamente più ampi degli originari segmenti produttivi di attività. Il progetto di Paolo Buitoni – che si giova della consulenza del Mc Kinsey & Co, una delle principali società di consulenza industriale degli Stati Uniti, specializzata in aziende alimentari-dolciarie42 – ha il merito di strutturarsi 39 40 41

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Pencelli, Capitalismo familiare e strutture organizzative cit. (a nota 33), p. 276. ASBP, FP, DGAD, b. 127, fasc. 989, Nota del prof. Bruno Visentini, 14 novembre 1966. Paolo Buitoni viene nominato amministratore delegato della Perugina a soli 31 anni nell’autunno del 1967. Sulla sua figura cfr. Ivi, b. 118, fasc. 928 “F. Famiglia e Dott. Profili”, Dati Personali di Paolo Buitoni, s.d. ASBP, FP, DGAD, b. 132, fasc. 1016 “Divisione alimentare Italia”, Memorandum sulla collaborazione della Mc Kinsey & Co., 2 aprile 1969.

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come un percorso graduale che evita di provocare traumi nella struttura e tra gli azionisti. Il primo atto in tale direzione è del novembre 1967. In quella data si procede all’aumento del capitale sociale della Perugina da 4.080 a 6.120 milioni di lire ed alla trasformazione della ragione sociale dell’azienda, estesa alla produzione ed alla commercializzazione dei prodotti alimentari in genere43. Tutto ciò consente l’integrazione con la Buitoni, che in quello stesso periodo aumenta il proprio capitale sociale da 2.352 a 4.000 milioni, incremento sottoscritto quasi interamente dalla Perugina nella seconda metà dei dicembre 196744. Si preannunciano così i processi che consentiranno la fusione per incorporazione della Buitoni nella Perugina. Bruno Buitoni jr, dal 1961 amministratore delegato della Buitoni, nel 1967 diviene vicepresidente della Perugina, dove Paolo Buitoni assume l’incarico di amministratore delegato. È il segno di un cambio di mano di cui sono protagonisti i due rami familiari (Bruno e Luigi) che detengono il maggior numero di azioni delle due Società, alla quale corrisponde un massiccio ingresso dei Buitoni della quinta generazione in tutti gli incarichi operativi. Durante il 1968 si da vita ad una struttura centrale di coordinamento e controllo, il cui compito è stabilire i rapporti tra le due Società, le fonti di finanziamento, la definizione di un sistema informativo unificato. Vengono inoltre costituiti gruppi di lavoro misti Buitoni Perugina a tutti i livelli. La fusione per incorporazione della Buitoni nella Perugina viene decisa dai Consigli di amministrazione delle due Società l’1 giugno 196945; la ratifica avviene nelle due assemblee straordinarie di Buitoni e Perugina del 15 e il 16 luglio46. Si stabilisce che ogni due azioni Buitoni debba venir corrisposto un titolo Perugina, mentre il capitale sociale di quest’ultima aumenta da 6.120 a 7.140 milioni di lire. Vengono emesse 510.000 azioni a 2.000 lire l’una da offrire in opzione ai soci (1 ogni 6 possedute). Sono, inoltre, annullate senza sostituzione le 500.000 azioni Buitoni possedute dalla Perugina e, le restanti 1.500.000, vengono sostituite da 750.000 titoli

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ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 4 dal 10 dicembre 1962 al 9 marzo 1968, adunanza del 18 ottobre 1967. Ivi, adunanza del 18 dicembre 1967. Ivi, adunanza del 4 marzo 1968; Ivi, Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 5 dal 9 marzo 1968 all’11 agosto 1969, adunanza dell’11 giugno 1969; Ivi, adunanza del 3 aprile 1968. ASBP, FB, b. 98, fasc. 1031, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali delle assemblee straordinarie degli azionisti dal 18 giugno 1963 al 15 luglio 1969, relazione del Collegio sindacale all’assemblea straordinaria dei soci del 15-16 luglio 1969, dattiloscritto. Conservato pure in ISUC, AG, fasc. 384.

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Perugina. Il capitale sociale raggiunge così 8.640 milioni, ulteriormente aumentati poi di 360 milioni con un prelievo dalla riserva (180.000 azioni: 1 ogni 24 possedute)47. Il 15 dicembre, dopo tre mesi dalla data di iscrizione delle delibere nel registro delle imprese, Marco Buitoni e Bruno Buitoni sr, rispettivamente legali rappresentanti di Buitoni e di Perugina, firmano l’atto di fusione48. La nuova società assumerà la denominazione Ibp Industrie Buitoni Perugina. La nuova realtà ha un capitale di 9 miliardi di lire, suddiviso in 4,5 milioni di azioni49. Essa opera nei settori dell’alimentazione di base e di quella infantile, nel comparto degli alimenti preparati, in quello dei dolciumi per l’alimentazione, dei dolciumi per uso voluttuario e da regalo. A ciò si affianca l’attività nel settore cartotecnico. L’Ibp ha stabilimenti, a San Sisto per le produzioni dolciarie; a San Sepolcro per la pasta alimentare, per quella speciale, per i prodotti da forno e per gli alimenti per l’infanzia venduti con i marchi Buitoni e Nipiol, a Foggia per le paste comuni, ad Aprilia per gli omogeneizzati venduti con marchio Nipiol. Possiede il Poligrafico di Perugia dove si producono imballaggi in cartone per le altre aziende Buitoni e per terzi. La presenza all’estero viene realizzata tramite le consociate: per la Francia con la Buitoni S.a. e i due stabilimenti uno storico a Saint Maur e l’altro costruito negli anni sessanta a Camaret; negli Usa con la Buitoni Foods Corporation e la fabbrica di South Hackensack del New Jersey e in Germania con la Perugina GmbH. Si tratta di una struttura multinazionale divisionalizzata con un’unità centrale formata dall’amministratore delegato, Paolo Buitoni, e da quattro uffici di staff : la tesoreria centrale, il controllo, la ricerca e controllo dei nuovi prodotti e le relazioni esterne, a cui si affiancano alcune divisioni operative: la Divisione alimentare Italia, articolata in Buitoni e Perugina; il Poligrafico, la Francia e gli Stati Uniti50. Questa struttura dovrebbe rispondere a tre esigenze: le decisioni strategiche riguardanti aree geografiche, prodotti e risorse vengono accentrate; le decisioni operative (vendita, produzioni e sviluppo in linee e paesi dove esiste già la presenza dell’impresa), per contro, ven-

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ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 5 dal 9 marzo 1968 all’11 agosto 1969, adunanza dell’11 giugno 1969. ASBP, FP, DGAD, b. 132, fasc. 1019 “Consiglio di amministrazione”, Atto di fusione, 15 dicembre 1969. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 5 dal 9 marzo 1968 all’11 agosto 1969, adunanza dell’11 giugno 1969. Per la struttura dell’Ibp e le forme di organizzazione cfr. ASBP, FP, DGAD, b. 132, fasc. 1019 “Consiglio di amministrazione”, Dichiarazioni dell’amministratore delegato, 16 luglio 1969; ivi, Sezione Stampa, b. 121, fasc. 5, Notizie Ibp, ottobre 1972.

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gono decentrate; infine si specializzano strutture operative per linee di prodotto o per paesi. In sintesi, all’unità centrale sono riservate le decisioni strategiche, mentre alle divisioni sono affidate quelle operative, che a loro volta sono suddivise tra le varie divisioni a seconda dell’area geografica (Francia e Usa) e nell’ambito della stessa area (Italia) per linea di prodotto51.

In realtà la costituzione della Ibp non avviene senza contrasti. Bruno Buitoni jr ne ha dato un quadro ampio nella sua intervista a Giampaolo Gallo. In essa accenna ad un suo progetto che avrebbe previsto il mantenimento di due rami di attività: quello alimentare-dietetico (Buitoni) e quello dolciario (Perugina) rispettivamente pilotati dalle due capogruppo italiane, dotate entrambi di staff di direzioni centrali. In questo modo i due rami di attività avrebbero avuto finalità e problemi ben distinti ed ogni capofila avrebbe dovuto organizzare e controllare lo sviluppo delle rispettive emanazioni e la conquista dei propri mercati. I risultati dell’attività integrata delle due società capofila sarebbero stati evidenziati da un bilancio a livello di holding52.

Quest’ultima avrebbe dovute essere costituita apportando l’insieme delle partecipazioni azionarie sia di minoranza che di maggioranza. In questo modo la holding avrebbe controllato il cento per cento delle due società capofila Buitoni e Perugina, che a loro volta avrebbero dovuto riacquistare tutte le quote minoritarie delle controllate estere di reciproca spettanza53.

Ma le divergenze non si limitano alle ingegnerie societarie esse riguardano in primo luogo il rapporto tra le due imprese capofila, il ruolo che nella nuova compagine avrebbero dovuto avere Perugina e Buitoni. Giocano, in questo caso, un ruolo non secondario i particolarismi aziendali. A ciò vanno aggiunte le frizioni tra manager cresciuti con la quarta generazione e la quinta generazione dei Buitoni che nel 1968-1969 è saldamente al comando dell’azienda. Sono, infatti, i giovani Buitoni che ormai dirigono la società54. Della precedente generazione resta solo Marco Buitoni, che

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Pencelli, Capitalismo familiare e strutture organizzative cit. (a nota 33), p. 283. Bruno Buitoni, Pasta e cioccolato. Una storia imprenditoriale, intervista di Giampaolo Gallo, postfazione di Giulio Sapelli, Perugia, Protagon, 1992, p. 260. Ibidem. ASLB, Perugina cioccolato e confetture S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 5 dal 9 marzo 1968 all’11 agosto 1969, adunanza dell’11 giugno 1969.

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ricopre la carica di presidente onorario55. Nel Consiglio di amministrazione siedono ancora Mario e Aldo Spagnoli, quest’ultimo con l’incarico di vice presidente. D’altro canto la costituzione della Ibp si configura come un processo destinato a non realizzare alcuni obiettivi centrali: la sfamiliarizzazione dell’azienda e la costituzione di un management unitario. Il rifiuto infatti della famiglia a cedere il controllo gestionale dell’azienda, e l’esistenza nell’alta direzione di una classe di vecchi manager, per lo più amici di famiglia, come Giovanni Faina, impedisce la […] costituzione di un vertice unitario in grado di assicurare un controllo centralizzato delle attività e il loro coordinamento e un’allocazione altrettanto centralizzata delle risorse56.

Più semplicemente manca quella suddivisione tra alti manager che si occupano delle decisioni strategiche e di dirigenti di livello intermedio cui spettano le decisioni tattiche che caratterizza il capitalismo manageriale57. Il passaggio ad una impresa nella quale il peso della famiglia venga ridotto e si adottino i criteri che guidano le forme di azienda gestite da manager – pensata già negli anni cinquanta da Giovanni Buitoni e adombrata nella costituzione dell’Ibp – sarà destinata a rimanere sulla carta. Troppo forte sarà il peso della famiglia sia nella compagine azionaria che nella gestione. Ciò determinerà negli anni successivi tensioni che saranno tra le cause non secondarie della crisi dell’azienda e dell’uscita dei Buitoni dalla scena dell’imprenditoria nazionale.

55 56 57

Ivi, adunanza del 23 marzo 1969. Pencelli, Capitale familiare e strutture organizzative cit. (a nota 33), p. 279-280. Cfr. sul tema Alfred D. Chandler jr, Strategia e struttura. Storia della grande impresa americana, Milano, FrancoAngeli, 1993 e Idem, Dimensione e diversificazione. Le dinamiche del capitalismo industriale, Bologna, il Mulino, 1994.

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Capitolo X Gli anni dell’Ibp

Capitolo X Gli anni dell’Ibp

X.1. Il contesto Con la costituzione dell’Ibp – Industrie Buitoni Perugina la vicenda dell’azienda di San Sisto si integra all’interno di quella del gruppo e gli andamenti del comparto dolciario vanno descritti nel quadro del più complessivo trend societario. Al tempo stesso gli sviluppi dell’Ibp non possono essere letti a prescindere dai diversi contesti in cui si colloca. Quello internazionale, con i riflessi delle ripercussioni che hanno nell’azienda le due crisi petrolifere del 1973 e del 1979; il quadro nazionale con un’attenzione specifica ai processi che attraversano l’industria alimentare nel quindicennio che va dall’inizio degli anni settanta alla metà del decennio ottanta, quando i Buitoni escono di scena; e quello locale con la crescita dell’apparato industriale, le sue modificazioni e il suo repentino ridimensionamento, di cui la Perugina è parte non secondaria. In primo luogo il contesto internazionale. Esso vede l’esaurirsi della lunga fase di espansione economica che aveva caratterizzato il dopoguerra, proiettandosi fino ai primi anni settanta. La fine dell’espansione post bellica può essere fatta risalire all’impennata della disoccupazione e dell’inflazione degli anni 1968-1970 o attribuito all’esplosione dei prodotti primari nel 1972. In quell’anno la pressione della domanda causata dalla ripresa dell’inflazione in tutti i paesi industrializzati rovesciò improvvisamente la tendenza al peggioramento della ragione di scambio tra manufatti e prodotti primari. L’aumento del costo delle derrate alimentari e delle materie prime intaccò il potere di spesa dell’Occidente1.

La fine dello sviluppo diviene evidente nel 1973-1974 con la prima crisi petrolifera, derivante dalla guerra arabo-israeliana, dall’embargo nei confronti dei paesi sostenitori di Israele da parte dei produttori medio orientali e dal conseguente aumento del prezzo del petrolio. Ciò provoca un processo inflattivo che si coniuga con una crescente disoccupazione. Superata la prima crisi petrolifera e stabilizzato il prezzo del petrolio, si realizza con la caduta dello scià di Persia e l’avvento al potere degli ayatollah una

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Sidney Pollard, Storia economica del Novecento, Bologna, il Mulino, 1999, p. 241.

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seconda crisi petrolifera, derivante dall’interruzione delle forniture iraniane che innesca una nuova spirale inflattiva. Gioca peraltro un ruolo di moltiplicatore della crisi la denuncia degli accordi relativi alla convertibilità del dollaro, che assicurava il regime di cambi fissi, deciso nel 1944 a Bretton Woods. La novità rispetto alle crisi precedenti è che si coniuga un alto tasso di inflazione e un alto indice di disoccupazione, in contraddizione con quello che si riteneva normalmente, per cui un’alta inflazione conviveva con un potenziale regime di crescita dell’occupazione. Per tale situazione si conia addirittura un nuovo termine, stagflazione, che comincia ad essere usato correntemente nella pubblicistica economica. L’Italia viene colpita dalla prima crisi petrolifera con un anno di ritardo rispetto agli altri paesi industrializzati. Ciò determina una caduta consistente del reddito nazionale che “diminuì del 3,6%”2. La fluttuazione dei cambi, frutto della scelta statunitense del 1971 che decreta la fine del dollaro come moneta di riferimento e del regime di cambi fissi, accentua la crisi. L’Italia sceglie, per ricostituire margini di profitto, la strada pericolosa dell’inflazione, carta su cui gioca fino alla costituzione nel 1978 del Sistema monetario europeo, un sistema di cambi fissi negoziabili tra le monete europee , di cui l’Italia entra a far parte nel marzo 1979. L’insieme di queste vicende provoca una caduta del tasso di crescita dell’economia nazionale che scese tra il 1973 ed il 1980 al 3,7%3. Seguirono tre anni di stagnazione (1981-1983), in cui il tasso di crescita medio del reddito nazionale italiano fu solo dello 0,6%. Furono anni molto difficili per le grandi imprese italiane, che da un lato subivano i guasti di una seconda crisi petrolifera e dall’altro non potevano più contare sul recupero dei profitti concesso dall’inflazione4.

In questi anni inizia un processo di profonda ristrutturazione industriale, con l’introduzione di sempre più massicci processi di automazione, la conseguente fuoriuscita di lavoratori dalle fabbriche e l’aumento della produttività. È in tale quadro che si collocano le vicende dell’industria alimentare italiana e, in particolare, dell’industria dolciaria. Gli effetti della crisi economica si pongono in rapporto dinamico con le necessità di riorganizzazione complessiva del settore, derivanti dalla crescita della domanda interna,

2 3 4

Vera Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica del’Italia. 18611981, Bologna, il Mulino, 1990, p. 424. Ivi, p. 425. Ibidem.

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dalla necessità di una rete distributiva moderna e dalle potenzialità dei mercati esteri, che favoriscono uno sviluppo delle lavorazioni più direttamente industriali. Si assiste al crearsi di una forbice sempre più accentuata: l’agricoltura italiana, risulta fortemente inadeguata a coprire le esigenze del mercato nazionale, per contro l’industria alimentare raggiunge standard di dimensione che le permettono, almeno nel corso degli anni sessanta, di competere con le altre imprese del settore del resto d’Europa. Ne sono un esempio, per un verso, la costituzione di holding familiari finalizzate a garantire liquidità alle società, per l’altro le crisi industriali che sono il frutto dell’inadeguatezza delle strutture produttive, commerciali e finanziarie a rispondere alle nuove sfide imposte dal mercato. Non a caso è proprio nella seconda metà degli anni sessanta che lo Stato inizia ad impegnarsi nel settore alimentare, acquisendo aziende alimentari in crisi attraverso la Società meridionale di elettricità (Sme)5. Si cerca insomma di guidare processi di concentrazione e di razionalizzazione volti a garantire la competitività crescente al settore. Ciò incide, sia pure marginalmente, sulla bilancia commerciale. Se nel 1965 per i prodotti primari si registra al 1965 un deficit (in lire 1985) di 4.785 miliardi, per i prodotti trasformati i conti con l’estero hanno un, sia pur modesto, saldo positivo, pari a 75 miliardi (sempre in lire 1985)6. Il censimento industriale del 1971 mette bene in luce tali aspetti. Aumenta il peso degli addetti al comparto pastario nei confronti dell’insieme del settore. Cresce in modo costante il dolciario, che raggiunge il 16,0% per cento dell’occupazione dell’industria alimentare; si accentua la rilevanza della lavorazione e macellazione delle carni, che aumenta, sempre in termini di mano d’opera impiegata, dal 6,4 al 10,4%. Per il resto si registra una sostanziale stabilità, ferma restando una flessione degli occupati (dalle 396.947 unità del 1961 a 379.564) cui corrisponde una diminuzione del numero degli esercizi (a 56.792 a 49.032)7. Si scremano, insomma, le imprese che non appaiono in grado di garantire una presenza su un mercato in progressivo ampliamento, che impone la costruzione di strutture sempre meno improvvisate. Sono sempre i settori più “industrializzati” (dol5

6

7

Cfr. in proposito Renato Covino, Giampaolo Gallo e Roberto Monicchia, Crescita, crisi e riorganizzazione. L’industria alimentare dal dopoguerra a oggi, in Storia d’Italia. Annali, 13. L’alimentazione, a cura di Alberto Capatti, Alberto De Bernardi e Angelo Varni, Torino Einaudi, 1998, pp. 312-324. Si veda anche Lucio Sicca, Strategia d’impresa. La formazione di un gruppo italiano: la Sme, Milano, Etas libri, 1987. Istituto centrale di statistica, V Censimento generale dell’industria e del commercio 25.X.1971, II. Dati sulle caratteristiche strutturali delle imprese e delle unità locali. Italia. Dati riassuntivi, Roma, 1975. Ivi, tav. 7, pp. 28-31, elaborazioni nostre.

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ciario, zuccheriero, macellazione e lavorazione carni, conservazione di frutta e verdure e produzione di oli e grassi), quelli dove si registra la maggiore concentrazione si va da percentuali pari al 30-35 fino al 70-75% e oltre8. Le direttrici di sviluppo sono le stesse del periodo 1951-1961, anche se si registra un momento di stasi rispetto ai fenomeni di ristrutturazione-modernizzazione, più accentuati nel decennio precedente. Inoltre, nelle grandi e medie imprese, quelle con più di 200 addetti, è occupato il 35,3% degli addetti, meno che nell’industria manifatturiera nazionale, dove il tasso percentuale è pari al 41,7%9. Infine, i settori che realizzano i fatturati maggiori (individuando quindi una ripartizione basata sulla scala dei consumi), sono quelli del burro e dei formaggi, del pane, dell’olio d’oliva, del latte, della paste alimentari. Essi assorbono Oltre il 52 per cento del totale valore dei consumi commercializzati di prodotti lavorati [...] Come si vede si tratta essenzialmente di prodotti derivati dal cosiddetto ciclo zootecnico (formaggi e burro, latte, linea bianca e conserve di latte) per i quali il paese è fortemente deficitario; di prodotti strettamente legati all’attività agricola (olio d’oliva, vino); e di prodotti tipicamente artigianali (pane); per cui si può ben dire – se si esclude la sola industria pastaria – che più della metà dei consumi di alimenti trasformati riguarda prodotti lavorati essenzialmente dalla stessa agricoltura nazionale ed estera e dall’artigianato10.

In conclusione: l’industria vera e propria trova scarsi motivi di affermazione, trattandosi di lavorazioni che o non comportano l’adozione di tecnologie che consentano di conseguire decisi miglioramenti di produttività rispetto alle produzioni artigiane, o che meglio si adattano al diretto impiego della manodopera agricola, la quale trova così un’importante occasione aggiuntiva di lavoro11.

I primi cento gruppi per fatturato, nel 1974, commercializzano globalmente il 36,1% per cento della produzione12. Il processo di concentrazione, insomma, è ancora insufficiente, la polverizzazione delle imprese continua a prevalere, incidendo soprattutto sulle capacità di conquista del mercato. Questo dato va in controtendenza rispetto alla situazione euro-

8 9 10 11 12

Ibidem. Nostre elaborazioni da Giovanni Somogyi, La bilancia alimentare in Italia, Bologna, il Mulino, 1966, e in particolare pp. 62-72. Lucio Sicca, L’industria alimentare italiana, Bologna, il Mulino, 1977, p. 40. Ivi, p. 42. Ivi, p. 40.

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pea. Se in Gran Bretagna le prime 63 imprese realizzano una quota di mercato pari a circa l’80%, in Olanda le prime 40 imprese del settore se ne attribuiscono il 53%, in Francia la situazione è analoga, per contro in Italia le prime 40 imprese o gruppi realizzano una quota pari a circa il 27%13. Un discorso a parte merita la penetrazione del capitale estero nelle imprese italiane. Nel 1974 le aziende e i gruppi alimentari controllati da società estere sono circa 40, con un fatturato di 880 miliardi e con una quota di mercato pari al 9 per cento. È un peso modesto, che evidenzia – ancora a metà del decennio – la scarsa attrazione del mercato italiano per le grandi imprese del settore operanti a livello internazionale. Tra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni settanta – in coincidenza con le già ricordate difficoltà dell’insieme dell’industria italiana – il settore alimentare vive, insomma, un momento di difficoltà. È in questi anni che aziende affermate e con proiezioni verso l’estero vengono assorbite da gruppi pubblici come l’Efim e la Sme. I casi più rilevanti sono quelli della Motta, dell’Alemagna e della Cirio14. D’altro canto si cercano di individuare nuove possibilità di mercato, indirizzando le produzioni verso settori scarsamente incentivati nel periodo precedente (precotti, surgelati, ecc.). Questi processi si cumulano nel corso del decennio, divenendo evidenti nei dati censuari del 198115. Gli occupati raggiungono i 390.472 addetti, un piccolo incremento lo registra anche del numero degli esercizi, che salgono a 52.47216. I settori che assorbono più occupazione, registrando una crescita consistente rispetto al 1971, sono quelli della pastificazione (che totalizza il 14,52% dell’occupazione del settore) e della macellazione e lavorazione carni (che sfiora il 13%), mentre nell’insieme gli altri comparti si mantengono sostanzialmente stabili17. Per altro, i processi di concentrazione continuano a seguire sostanzialmente le direttrici già individuate, con un dato inedito rappresentato da settori nuovi e ancora relativamente poco consistenti, quali quelli della lavorazione degli amidi e dei surgelati, dove il processo di affermazione delle imprese di maggiori dimensioni appare rilevante. In generale, invece, l’occupazione nelle aziende con più

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16 17

Ibidem. Adele Perenze e Lucio Sicca, Crisi e ristrutturazione d’impresa. Il caso Motta-Alemagna, Milano, Etas libri, 1991; Maria Rosaria Napoletano, Crisi, ristrutturazione e rilancio d’impresa. Il caso Cirio, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1992. Istituto centrale di statistica, VI Censimento generale dell’industria, del commercio, dei servizi e dell’artigianato 21.XI.1981, I. Primi risultati sulle imprese e sulle unità locali. Dati provvisori, t. I. Dati nazionali, regionali e provinciali, Roma 1983. Ivi, tab. 3, pp. 12-13, nostre elaborazioni. Ibidem.

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di 99 addetti rimane sostanzialmente stabile rispetto al 1971. La quota è all’incirca il 34%, anche se emergono, in concomitanza con processi di diffusione della piccola impresa che coinvolge l’insieme dell’industria italiana, fenomeni di decentramento produttivo18. L’industria alimentare italiana non riesce, cioè, a fare il balzo necessario per porsi in concorrenza con le altre imprese del settore operanti a livello internazionali, d’altro canto le dimensioni del mercato italiano sono ancora asfittiche e lasciano spazio ad imprese artigianali che si collocano a fianco di concentrazioni industriali più o meno ampie. Il terzo dato di contesto è rappresentato dall’Umbria. Il decennio compreso tra il 1970 ed il 1980 è caratterizzato nella regione da una crescita industriale accelerata che fa addirittura parlare di un “miracolo umbro”. Essa, misurata in termini di occupazione, è pari a 28.664 unità, più alta in termini percentuali di quella delle regioni limitrofe e del paese. Nel corso del periodo si compie, sia pure in ritardo, la trasformazione da un sistema economico agricolo-industriale ad uno di tipo industriale-terziario-agricolo. Aumentano, inoltre, i livelli di istruzione, mentre ricomincia a crescere la popolazione che al censimento del 1981 risulta pari a 807.552 residenti, 31.789 in più rispetto al 1971. Per contro si registrano tassi d’invecchiamento superiori a quelli italiani. Tali processi sono il frutto di molteplici fattori. In primo luogo l’istituzione nel 1970 della Regione e la consapevolezza maturata nel decennio precedente da parte dell’insieme delle forze politiche, sociali ed istituzionali “della necessità di determinare uno scatto ed una discontinuità nella vita regionale, inducendo un diverso modello di sviluppo”19. L’ipotesi su cui si attesta il nuovo ente è quella di scommettere sul ruolo trainante della grande impresa, pubblica e privata, si costruisce un quadro permissivo allo sviluppo dell’impresa minore, diminuendone gli oneri salariali attraverso un decoroso sistema di servizi (scuola, sanità, trasporti, assistenza agli anziani, ecc.) capace di assicurare le forme di salario indiretto, si moderano le dinamiche sindacali. L’obiettivo è quello di indurre processi virtuosi in grado di selezionare una più solida e dinamica classe imprenditoriale20.

L’immagine che la regione costruisce nel corso degli anni settanta è quella di una società e di una economia che si avviano a uscire definitivamente

18 19 20

Ibidem. Renato Covino, Tra due secoli. L’Umbria dell’ultimo ventennio, Perugia, Crace, 2007, pp. 17-18. Ivi, pp. 18-19.

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dalla crisi degli anni cinquanta, raggiungendo i livelli delle altre regioni italiane. In realtà, il “miracolo umbro” è meno solido di quanto appaia, peraltro proprio nel corso del decennio cominciano a scricchiolare le strutture portanti su cui si contava di solidificare il mutamento, in primo luogo i comparti di grande industria sia pubblica che privata che costituivano, secondo il parere e le speranze dei gruppi dirigenti politico-istituzionali, l’asse che avrebbe dovuto garantire innovazione e sviluppo. Se si assume come parametro l’occupazione le unità locali con più di 1.000 addetti scendono da 15.111 unità del 1971 a 12.208 del 1981. Per contro la crescita dell’occupazione nelle piccole e medie imprese, a fine decennio, conosce una fase significativa di ristagno. Giocano su questi fenomeni diverse determinanti su cui vale la pena di soffermarsi. La prima è rappresentata dal fatto che non si verifica il passaggio delle piccole e medie imprese a forme di “quarto capitalismo”, ossia caratterizzato da “l’internazionalizzazione dell’impresa, la ricerca di assetti organizzativi policentrici e flessibili, la specializzazione tipica del made in Italy”21. Non nascono, insomma, nuove dinastie imprenditoriali, né distretti industriali e neppure forme di integrazione tra produzione, distribuzione e terziario. Un secondo fenomeno è rappresentato dal fatto che il sistema produttivo umbro si espande in settori maturi (moda e settori della meccanica con specializzazione minore), ha tassi di investimento ed una dimensione occupazionale più bassi di quelli italiani. Più semplicemente, la crescita dell’occupazione industriale in Umbria era “fondata sull’utilizzazione di manodopera a buon mercato, liberata in abbondanza dall’agricoltura, e sulle produzioni tecnologicamente meno esigenti e a minor valore aggiunto”22. Il terzo dato da sottolineare, infine, è costituito dall’impatto delle crisi energetiche del 1973 e del 1979 sulle imprese più grandi e, infine, dagli effetti distruttivi, sul sistema produttivo regionale, della crisi italiana del 19811983. Il capoluogo regionale è, per molti aspetti, il luogo dove più accentuati sono i processi prima descritti. La città si caratterizza come realtà di servizi, momento di centralizzazione e coordinamento amministrativo, ma anche come realtà in cui l’industria assume un ruolo più “centrale” che nel passato. Continuano cioè ad operare e ad accentuarsi i fenomeni già ma-

21 22

Nicola Crepax, Storia dell’industria italiana. Uomini, imprese e prodotti, Bologna, il Mulino, 2002, p. 355. Bruno Bracalente, Il sistema industriale dell’Umbria, Bologna, il Mulino, 1986, p. 101.

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Tabella 26. Popolazione, addetti all’industria e tasso di industrializzazione nei comuni del comprensorio di Perugia (1971 e 1981)

Fonte: Istituto regionale di ricerche economiche e sociali - Sergio Sacchi, Il comprensorio Perugino in cifre. Perugia, Corciano, Deruta, Torgiano, Perugia, Protagon, 1989, tab. 1, p. 33; p. 63 elaborazioni degli autori.

nifestatisi nel periodo precedente. Crescono le frazioni e le periferie, diminuisce la popolazione residente nella cittĂ . Se nel 1971 risiedevano nel centro storico 14.770 persone che calano nel 1981 a 9.322; nel continuum sono presenti, alle stesse date, rispettivamente 51.203 e 47. 671 abitanti, nel resto del comune la popolazione aumenta percentualmente dal 49% del 1971 al 62% del 1981. Si spostano cioè i carichi della popolazione sul territorio. Continua a crescere l’area collocata a ovest del comune, San Sisto passa da 3.974 abitanti a 6.213, processo che investe le aree comunali vicine e, soprattutto, il comune di Corciano. 280


Capitolo X Gli anni dell’Ibp

Se si guarda il tasso d’industrializzazione del comune si scopre che esso cresce nel 1981 in modo contenuto rispetto al 1971, se però si prende in considerazione l’insieme dei comuni del comprensorio, che già in quegli anni divengono parte del conurbazione urbana di Perugia, il quadro cambia come emerge dalla tabella 26. Come si vede è proprio la zona a ovest di Perugia, Corciano, che vede il maggior balzo del tasso di industrializzazione, caratterizzandosi come ampliamento della zona industriale del capoluogo. I settori dove si realizza la crescita maggiore sono il vestiario abbigliamento e calzature e le aziende meccaniche, mentre resta sostanzialmente stabile l’industria alimentare. Segno di come anche nell’area perugina operino e si accentuino gli stessi meccanismi che andavano sviluppandosi a livello regionale. X.2. Dal successo alla crisi: gli anni di Paolo Buitoni La Perugina si inserisce in questa realtà con indubbie specificità derivanti dai suoi caratteri. È una delle maggiori imprese tra quelle italiane del settore alimentare, con sede a Perugia, con numerose proiezioni multinazionali, con un management che ha dimostrato sul campo, ed in base ai risultati, le sue qualità. L’impresa definisce proprio nei primi anni settanta una strategia aggressiva e innovativa nel settore ed ha costruito un sistema di relazioni industriali indubbiamente all’avanguardia rispetto alle altre imprese umbre. Essa diviene rapidamente uno degli interlocutori obbligati della neonata Regione, uno dei poli industriali di qualità su cui puntare per garantire quello sviluppo industriale dell’Umbria che rappresenta uno degli obiettivi del nuovo ente. Crescono, peraltro, le imprese che fanno capo al gruppo grazie all’attivazione di nuove società o all’acquisto di antichi marchi. Nel 1972, quando la Società viene quotata in borsa, l’Ibp ha un fatturato di 134,5 miliardi di lire, 7.269 dipendenti, 6 stabilimenti in Italia, 3 in Francia, 2 in America (Stati Uniti e Brasile). In Francia controlla la Società Amieux, in Italia la Pepi ed inoltre le neocostituite Sat, Super e Ultra, cui sono affidate le produzioni da forno e di pasticceria industriale. Se si esaminano i dati di bilancio per quanto riguarda fatturati, utili e occupati appare evidente come nei primi anni settanta si prolunghi il trend positivo degli anni sessanta, destinato ad interrompersi nel 1974, quando cominceranno a manifestarsi i contraccolpi della crisi petrolifera (tab. 27). Tutti gli indicatori economici continuano a segnalare una crescita consistente. Il fatturato, a prezzi costanti, cresce dal 1969 al 1973 del 30%, sia pure con forti disparità tra il giro d’affari italiano, aumentato del 13%, e quello delle controllate estere, salito quasi del 95%. Parallelamente anche 281


Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

Tabella 27. Fatturato, utili e occupati in Italia dell’Ibp (1969-1973)

Fonte: IBP - Industrie Buitoni Perugina S.p.a., elaborazione dati Esercizi 1969-1973.

gli utili conoscono forti incrementi, ferma restando la differenziazione tra componente italiana e consociate estere del gruppo. Nel 1972 infine l’occupazione nelle imprese italiane raggiunge il suo punto massimo con 6.634 addetti E, tuttavia, proprio in quegli anni maturano alcuni degli elementi che, cumulandosi con gli effetti dell’inflazione e delle crisi internazionali, renderanno prima difficile e poi insostenibile la vita della Società. In primo luogo il management è sottoposto ad uno choc determinato dai nuovi metodi di conduzione dell’impresa e dagli aggiustamenti dell’organizzazione aziendale. All’inizio la struttura come si è già accennato, era costituita da un’unità centrale formata dall’amministratore delegato, da quattro uffici di staff (tesoreria centrale, controllo, ricerca e controllo dei nuovi prodotti e relazioni esterne) e da divisioni operative: la Divisione alimentare Italia, articolata in Buitoni e Perugina; il Poligrafico, la Francia e gli Stati Uniti. Un ruolo importante è ricoperto da Giovanni Faina che è direttore generale della Divisione alimentare Italia. Faina è un personaggio importante nella vita del gruppo e soprattutto della Perugina, dove anche in quel caso aveva avuto il ruolo di direttore generale. Entrato giovanissimo con mansioni di magazziniere nell’azienda, aveva via via assunto incarichi sempre più rilevanti, affermandosi come uomo di fiducia della famiglia23. Nei fatti l’incarico che ricopre in Ibp era quello di una sorta di vice amministratore delegato. Tale formula organizzativa subirà molteplici mutamenti nel tempo. In pri-

23

Bruno Buitoni, Pasta e cioccolato. Una storia imprenditoriale, intervista di Giampaolo Gallo, postfazione di Giulio Sapelli, Perugia, Protagon, 1992, p. 289.

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Capitolo X Gli anni dell’Ibp

mo luogo viene sciolta la Divisione alimentare Italia mentre contemporaneamente venne costituita una Divisione America Latina di cui è nominato direttore responsabile proprio Faina. Si tratta di un ridimensionamento di funzioni, dietro il quale si cela uno scontro di strategie e di personalità. Faina tendeva ad aumentare il livello delle vendite, mentre Paolo Buitoni puntava a costruire forme di integrazione delle diverse aziende e a definire un più ordinato assetto finanziario del gruppo. Tali scontri portano alle dimissioni di Faina nel maggio 197124. Il secondo momento di scontro si ha con Lino Spagnoli che si dimette dal Comitato esecutivo dell’Ibp nel Consiglio di amministrazione del 15 gennaio 197225. I motivi delle dimissioni sono spiegati in una lettera che Spagnoli lesse in quell’occasione e sono legati ai continui cambi di struttura, al non rispetto delle regole finanziarie fissate dal Comitato esecutivo e, infine, alla politica di espansione della Società. Infine, si dimette, nel Consiglio di amministrazione del 12 gennaio 1973, Mario Spagnoli, padre di Lino, con motivazioni analoghe a quelle del figlio26. Nell’ottobre 1972 il titolo Ibp viene quotato in borsa, dove registra un buon successo27, mentre nel 1973 si aumenta il capitale sociale da 9 a 12 miliardi28. La Finanziaria Buitoni, tuttavia, mantiene il controllo della società con il 60-65% delle azioni29. Per comprendere le critiche fatte all’amministratore delegato Paolo Buitoni è utile analizzare i mutamenti della forma organizzativa del gruppo e, soprattutto, quali siano le soluzioni definitive adottate sulla base della consulenza sempre della McKinsey nel corso del 1973. A fine del 1972 il gruppo si presentava con la seguente struttura: un’unità centrale costituita dall’amministratore delegato e da sei uffici di staff (tesoreria centrale, relazio24

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ISUC, AG, fasc. 363, Giovanni Faina. Memorie e documenti, “Lettera di Paolo Buitoni a Giovanni Faina del 13 maggio 1971”; ivi, “Lettera di Giovanni Faina a Paolo Buitoni del 24 maggio 1971”; ivi, “Memorandum dell’amministratore delegato Ibp Paolo Buitoni del 16 settembre 1971: Giovanni Faina lascia la Ibp”; ASLB, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dal 15 dicembre 1969 al 3 gennaio 1975, adunanza del 26 ottobre 1971. Cfr. Ivi, Giovanni Faina, La storia e i consigli del nonno, dattiloscritto s.d. ASLB, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dal 15 dicembre 1969 al 3 gennaio 1975, adunanza del 15 gennaio 1972. Ibidem; ivi, adunanza del 12 gennaio 1973. ISUC, AG, fasc. 396, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1972. Convocazione assemblea ordinaria del 7 aprile 1973, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1972, Perugia, s.d. [1973], p. 4. Ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1973. Convocazione assemblea ordinaria dell’8 aprile 1974, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1973, Perugia, s.d. [1974], pp. 20-21. Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), p. 299.

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ni interne, controllo amministrativo, sviluppo, controllo piani, ricerca, relazioni esterne). Le divisioni operative erano otto: Buitoni Italia, Perugina Italia, Poligrafico Buitoni, negozi diretti Perugina, Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Brasile30. La struttura rimane quella della multinazionale divisionalizzata dell’inizio, con un aumento degli uffici di staff e delle divisioni dovuta alla crescita dell’azienda di cui parleremo in seguito. La formula organizzativa che verrà adottata nel 1973 modifica in modo sostanziale la struttura del gruppo, ciò comporta la scomparsa delle due vecchie divisioni Buitoni e Perugina, sostituite da una nuova struttura al vertice del quale vi erano quattro funzioni che prescindevano dai vecchi marchi, e precisamente: produzione, distribuzione, amministrazione, relazioni industriali, Seguivano quattro dipartimenti di marketing e promozione orientati sulla distribuzione dei prodotti e cioè: pasti principali, infanzia, occasioni sociali, colazione e merenda. Rimanevano gli staff centrali […]: finanza, controllo di gestione, relazioni esterne. affari generali e legali. […]. I quattro raggruppamenti per categoria di prodotto erano stati impostati dall’angolo visuale del consumo finale, non sotto l’aspetto della tecnologia e dei marchi31.

Tale struttura risponde a due esigenze, la prima è l’attività di acquisizione di marchi e di apertura di nuove aziende, la seconda è rappresentata da una strategia aziendale volta a caratterizzare la società come un’impresa alimentare a tutto tondo, capace di proiettarsi nei mercati internazionali, ampliando i settori tradizionali di attività. La politica di ampliamento del gruppo rappresenterà un ulteriore elemento di frizione. Le acquisizioni e le nuove strutture vengono realizzate sia all’estero che in Italia. Nel 1970 decolla la Ibp brasiliana con base a San Paolo e con uno stabilimento a Campinas, alle porte della città, per la produzione di pasta. Sempre nel 1970 si realizza un accordo con la Mead Corporation di Atlanta per la commercializzazione dei prodotti del Poligrafico Buitoni e l’acquisizione del pacchetto azionario della Buitoni francese ancora posseduto da Giuseppe Buitoni; nel 1970 sempre in Francia viene acquisita la società Corbez Lecointe di Bailleul in Bretagna che faceva prodotti a base di pesce viene assunta una partecipazione del 50% di una società di ricerche belga operante nel settore dell’imballaggio e si decide la partecipazione ad un consorzio di imprese cartotecniche per l’esportazione di prodotti.

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ISUC, AG, fasc. 396, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1972. Convocazione assemblea ordinaria del 7 aprile 1973, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1972, Perugia, s.d. [1973], pp. 6-10 e p. 25. Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), pp. 314-315.

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Più intensa è l’attività di investimenti e di espansione nel 1971. È reso operativo il progetto di ampliamento del pastificio di Foggia e richiesto all’Isveimer di un mutuo di 770 milioni di lire, si propone, inoltre, un insediamento produttivo a Castiglione del Lago, per i lievitati32. Intorno a questo investimento il dibattito è vivace e riguarda soprattutto l’opportunità di investire in un nuovo impianto piuttosto che a Sansepolcro, dove esistevano già le infrastrutture (tecnologie, professionalità, laboratori di analisi e ricerca). Le perplessità vengono superate nell’aprile del 1972 con un compromesso. Si decide di costruire un nuovo stabilimento a Castiglione del Lago destinato a produrre lievitati grandi (panettoni e colombe), mentre le altre produzioni (i sostituti del pane) vengono delegate all’impianto di Sansepolcro. Si attivano finanziamenti per sei miliardi a tasso agevolato e si ottenne l’esenzione fiscale per le nuove linee produttive. Si costituiscono tre società per gestire il flusso d’investimento, l’Ultra per Castiglione del Lago, la Super per Sansepolcro e la Sat33. Della fine del 1972 viene acquistata la Pepi, mentre del 1973 è la volta della Princess Food Limited inglese che consente di avere un’efficiente rete di commercializzazione in Gran Bretagna. Sempre nel 1973 viene acquisita la Amieux che produceva prodotti tipici della cucina francese. Ancora nello stesso anno vengono costituite una società in Scandinavia per la commercializzazione dei prodotti della Buitoni e della Perugina ed una in Olanda denominata Buitoni che doveva provvedere alla collocazione in quel mercato dei prodotti Buitoni34. Il livello di autofinanziamento della società scende, grazie al flusso accelerato di investimenti, dallo 0,72 allo 0,40, mentre cresce l’esposizione nei confronti di istituti finanziari e banche, fatto questo che influirà pesantemente nel momento in cui cominceranno a crescere, per effetto della crisi, i tassi d’inflazione e quindi quelli d’interesse. Il terzo dato che prelude alla crisi della società e soprattutto spiega le frizioni interne al Consiglio di amministrazione e al Comitato esecutivo, è rappresentato dai contrasti sulle strategie industriali. Paolo Buitoni, nella riunione del Consiglio di amministrazione in cui Lino Spagnoli aveva dato le sue dimissioni, il 15 gennaio 1972, aveva fissato in un documento le sue

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Ivi, pp. 300-304. ISUC, AG, fasc. 396, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1972. Convocazione assemblea ordinaria del 7 aprile 1973, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1972, Perugia, s.d. [1973], pp. 4-8. Ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1972. Convocazione assemblea ordinaria del 7 aprile 1973, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1972, Perugia, s.d. [1973], pp. 8-10; Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), pp. 308-309.

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priorità che erano rappresentate sostanzialmente da una politica aggressiva d’investimenti e dall’individuazione di un ruolo diverso dal passato dell’imprenditore. Nel prossimo futuro riusciranno a sopravvivere e ad avere successo quelle società che riusciranno a formulare programmi in accordo con le forze politiche e sociali dei paesi nei quali lavorano. Il tempo del potere unilaterale degli imprenditori è tramontato per sempre. Il nostro problema ed il nostro programma, è prendere l’iniziativa per conciliare gli obiettivi dell’azienda con gli obiettivi delle istituzioni alle quali la gente ha affidato il compito di rappresentare il suo interesse35.

Tale linea aveva un corollario: quello di costruire un’azienda che per un verso era proiettata verso una dimensione multinazionale, ma per l’altro aveva le sue radici in Umbria con un accordo virtuoso con sindacati ed istituzioni. A ciò corrispondono alcune scelte, dalla costruzione dell’impianto di Castiglione del Lago all’acquisizione della Pepi, segno di un tentativo di realizzare un’impresa saldamente ancorato alla realtà del centro Italia. Non v’è dubbio, peraltro, che la Regione punti con forza al rapporto con la Ibp, nella convinzione che possa divenire un volano importante per lo stesso sviluppo dell’agricoltura, pensando – come del resto avveniva a livello nazionale – alla costruzione d’una filiera che avrebbe dovuto collegare ripresa dell’agricoltura e produzione industriale. D’altro canto è questo il periodo in cui alla Perugina raggiunge il punto massimo la capacità di mobilitazione del sindacato, che avrà come risultato più rilevante il significativo ridimensionamento degli operai stagionali (tab. 28). Su 3.722 operai stagionali assunti periodicamente dall’azienda ben 1.156 entrarono a far parte dell’organico, il 31,1%. Il ricorso alla stagionalità sembrò destinato ad essere limitato al minimo. Solo per fare un esempio può valere la pena di riportare i dati relativi alla stagionalità al 30 settembre 1973 (tab. 29). Ciò non poteva non comportare frizioni nel management. Se ne fa portavoce a posteriori, nella sua intervista a Giampaolo Gallo. Bruno Buitoni jr, quando afferma che la sua opinione rispetto alle proposte di Paolo Buitoni era Assolutamente opposta, proprio giorno e notte. Intanto contesto che gli imprenditori operassero unilateralmente. […]. Quindi non […] condividevo [la posizione di Paolo]. E questa non era soltanto la mia posizione: era anche quella della famiglia36.

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ASLB, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Verbali del Consiglio di amministrazione registro n. 1 dal 15 dicembre 1969 al 3 gennaio 1975, adunanza del 15 gennaio 1972. Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), pp. 319-320.

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Capitolo X Gli anni dell’Ibp

Tabella 28. Operai stagionali alla Perugina e loro passaggi a operai fissi (1967-1973)

Fonte: La Perugina è storia nostra. I lavoratori raccontano i cento anni della fabbrica, a cura di Fabrizio Ricci, Roma, Ediesse, 2007, p. 149.

Tabella 29. Situazione degli operai stagionali al 30 settembre 1973

Fonte: La Perugina è storia nostra. I lavoratori raccontano i cento anni della fabbrica, a cura di Fabrizio Ricci, Roma, Ediesse, 2007, p. 149.

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Tali elementi – le scelte strategiche, il programma di investimenti con il conseguente calo del tasso di autofinanziamento e, infine, i mutamenti della struttura familiare – impattano con la crisi energetica del 1973-1974. Non è solo la Ibp ad entrare in crisi, molte altre aziende dolciarie ed alimentari si trovano in difficoltà. È il caso della Barilla, che dopo aver costruito lo stabilimento di Pedrignano, il cui costo raggiungerà i 18 miliardi (il fatturato annuo all’epoca si aggirava intorno ai 41 miliardi), si troverà in difficoltà e sarà costretta a cedere nel 1971 l’azienda alla multinazionale america Grace, da cui lo riacquisirà definitivamente nel 197937. Accanto alla Barilla si collocano numerose altre imprese soprattutto nel settore dolciario dalla Motta alla Alemagna38, al gruppo Alivar (Pavesi, Bertolli, De Rica, Bellentani, Cipas), a quello Star – che cede il 50% del pacchetto azionario e ottiene una partecipazione nell’Alivar – e alla Mellin39. In queste aziende buona parte del capitale azionario passa alla Sme che dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica e grazie agli indennizzi pubblici aveva cominciato una intensa attività di rilevamento prima di aziende meridionali in difficoltà, poi di aziende agricole e infine, a partire dal 1968, di imprese industriali alimentari. Contemporaneamente la Sme comincia a vedere al suo interno una presenza consistente di capitale Iri che raggiungerà nel 1975 il 41,6%, per divenire maggioritaria negli anni successivi40. I motivi della crisi del settore alimentare sono molteplici. La rapida crescita delle aziende, che però, non riescono a passare da lavorazioni ancora semi artigianali a produzioni industriali a tutti gli effetti; una crescente diversificazione delle produzioni che non sempre riesce ad inserirsi in una strategia unitaria; un flusso consistente di investimenti che provoca spesso indebitamenti rilevanti. A ciò si aggiungono la modificazione dei consumi interni, gli interventi a partire dal 1973 del Comitato interministeriale dei prezzi sui generi di prima necessità, soprattutto pane e pasta, al fine di contenere i processi inflattivi, dato questo che diminuirà la redditività delle imprese, e per converso la debolezza della rete distributiva e la crescita dell’inflazione che provoca l’aumento esponenziale dei tassi di interesse. Per quanto riguarda l’industria dolciaria, in particolare, si aggiungerà

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Renato Covino, Giampaolo Gallo e Roberto Monicchia, Crescita, crisi e riorganizzazione. L’industria alimentare dal dopoguerra a oggi, in Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione, a cura di Alberto Capatti, Alberto De Bernardi e Angelo Varni, Torino, Einaudi, 1998, p. 290. Ivi, p. 314. Ivi, p. 313. Ivi, p. 316.

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Capitolo X Gli anni dell’Ibp

La caduta, per la prima volta dal dopoguerra, della domanda di prodotti dolciari, a partire dalla seconda metà del 1974, con una tendenza ad una vera e propria modificazione dei consumi alimentari degli italiani41.

Si tratta, in altri termini, di una situazione di difficoltà generale in cui dal 1974 si inserirà anche la Ibp e che acuirà le difficoltà che abbiamo descritto in precedenza. A partire proprio dal 1974 la vicenda dell’Ibp comincia ad assumere una piega negativa. I dati del fatturato sono stagnanti e, tranne che per il biennio 1976-1977, vedono progressivamente crescere il peso delle controllate estere, che nel 1980 giungono ad eguagliare il contributo italiano al volume d’affari complessivo del gruppo. Per tutta la seconda metà degli anni settanta inoltre la Società è costretta a chiudere i suoi bilanci senza utili e solo nel 1980 si tornano ad avere 1.287 milioni di profitti. Gli stessi risultati di pareggio degli esercizi 1975, 1976, 1978 e 1979 sono il frutto di accorgimenti contabili. Costantemente in perdita dal 1973 è il risultato complessivo delle attività italiane, solo in parte coperte dal crescente contributo di quelle estere. Anche l’occupazione, infine, subisce forti riduzioni, se si considera che solo le imprese italiane riducono di circa 1.300 unità il proprio personale in meno di dieci anni (passando dai 6.634 addetti del 1972 ai 5.376 del 1980). Concentrandosi, però, sugli anni 1974-1976, quando Paolo Buitoni si dimette da amministratore delegato e viene sostituito da Bruno jr. la situazione si presenta contrassegnata da un calo dei fatturati al netto dell’inflazione, cui corrisponde una caduta degli utili d’esercizio e una stagnazione dell’occupazione. In un quadro di questo genere tendono a venire esaltati tutti gli elementi di frizione presenti nella famiglia e nel management. Essi tenderanno a crescere nel biennio 1975-1976 e porteranno alle dimissioni di Paolo Buitoni nel settembre 1976 da amministratore delegato e dal Consiglio di amministrazione. La situazione di difficoltà, infatti, creava disagio sia all’interno della famiglia che nell’alto management. D’altro canto esse venivano amplificate da bilanci non del tutto trasparenti. Nel, 1974, non vennero, infatti, contabilizzati tutti gli ammortamenti dovuti; nel 1975 il pareggio del bilancio venne raggiunto iscrivendo 2 miliardi e 129 milioni di aumento gratuito di capitale della società francese e con un riallineamento dei valori delle partecipazioni estere per 8 miliardi e 250 milioni, mentre contemporanea-

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Perenze e Sicca, Crisi e ristrutturazione d’impresa. Il caso Motta-Alemagna cit. (a nota 14), p. 1.

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Tabella 30. Fatturato, utili e occupati in Italia dell’Ibp (1974-1976).

Fonte: ISUC, AG, fasc. 396, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Elaborazione dati Esercizi 1974-1976

mente si distribuiva un dividendo agli azionisti42. Perplessità suscitavano anche decisioni come la linearizzazione della produzione alla Perugina e il rimpiazzo del turn over che significava nei fatti mantenere inalterati i carichi salariali da alcuni anni in crescita43. Ciò comportò una presa di posizione di Amos Grassi, dirigente di antica data, in Consiglio di amministrazione che auspica una maggiore chiarezza e trasparenza del bilancio44. Ritornavano in discussione le modalità con cui era stata definita la struttura della società, mentre nel Consiglio di amministrazione del 6 giugno 1975 in un lungo rapporto Paolo Buitoni metteva in luce come nella parte italiana del gruppo vi fossero ai livelli superiori difficoltà interpersonali “che ostacolano l’ordinato svolgimento dei processi organizzativi, attraverso i quali si deve raggiungere il consenso sulle cose da fare per rilanciare l’attività industriale secondo le sue possibilità”. Ciò si ripercuoteva sui livelli

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Buitoni, Pasta e cioccolata cit. (a nota 23), p. 324. Ivi, p. 322. ASLB, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Verbali del Consiglio di amministrazione, registro n. 1 dal 15 dicembre 1969 all’8 gennaio 1975, adunanza del 4 aprile 1975.

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Capitolo X Gli anni dell’Ibp

operativi per il quale v’era “un chiaro processo di delega” e si dimostrava “l’incapacità di assegnare ruoli specifici e misurati”45. V’era, tuttavia, anche una incertezza, se non un aperto dissenso, sulle proposte di Paolo Buitoni per uscire dalla crisi. La soluzione veniva, infatti, individuata nello spostamento dell’attività della società in direzione di nuovi settori e mercati. Si erano promosse, a partire dal 1974, iniziative volte a reimpostare la strategia della divisione alimentare; si erano sperimentati nuovi prodotti, mirando al contenimento dei prezzi, si erano ricercati accordi di vendita del know how a Società operanti in mercati esterni al raggio d’azione dell’Ibp46. Ci si orienta “verso prodotti ad alto grado di preparazione che contribuiscano a soddisfare le esigenze di un’alimentazione bilanciata al minimo costo”47. In altri termini si punta su una domanda nuova di prodotti alimentari da parte delle famiglie, delle comunità, delle “convivenze”. Su questi terreni l’Ibp imposta la sua attività negli anni successivi: del 1975 è la concessione del know how per la costruzione di industrie dolciarie in Kenya e in Messico, di pastifici in Guatemala e di un impianto cartotecnico in Algeria. Viene avviato, allo stesso tempo, un programma triennale di studio per l’identificazione di prodotti e servizi alimentari per comunità, con il fine di pervenire all’”ottimizzazione della ristorazione collettiva’’48. Nel 1976 la Società stipula accordi con Ecuador, Costa Rica, Unione Sovietica, Iraq, Venezuela e fornisce 18 milioni di refezioni scolastiche all’Arabia Saudita, per un valore di 2.816 milioni di lire, in base ad una commessa dì 8 milioni di dollari49. D’altro canto, le proposte che avanzano da parte sindacale e politica si muovono lungo la stessa lunghezza d’onda. Le ipotesi definite nel 1975 alla conferenza di produzione promossa dal Consiglio di fabbrica della Perugina, e tenutasi alla Sala dei Notari con la partecipazione delle istituzioni e dell’azienda, hanno più di un’assonanza con il progetto dell’amministratore delegato e pongono al proprio centro una ipotesi di diversificazione della produzione. 45 46 47 48

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Ivi, adunanza del 6 giugno 1975. Ivi, Esercizio 1974. Convocazione assemblea ordinaria del 30 aprile 1975, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1974, Perugia, s.d. [1975], pp. 2-8. Ivi, p. 4. ISUC, AG, fasc. 396, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1975. Convocazione assemblea ordinaria del 29 aprile 1976, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1975, Perugia, s.d. [1976], pp. 5-6. Ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1976. Convocazione assemblea ordinaria del 29 giugno 1977, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1976, Perugia, s.d. [1977], pp. 6-8.

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Le proposte avanzate furono molteplici. Oltre all’ipotesi di puntare su surgelati e precotti, suggerimmo anche un diverso approccio nella produzione della cioccolata. […]. Alcune di quelle idee passarono. Qualcosa si mosse, soprattutto sui prodotti da banco. […] Ma molte altre proposte vennero respinte dall’azienda. I surgelati costavano troppo, perché oltre ai macchinari c’era da mettere su da zero una rete di distribuzione e commercializzazione del tutto nuova. Mentre i precotti, secondo l’azienda, erano buoni per l’estero, ma non in Italia non avrebbero funzionato50.

Iniziano quindi dal settembre 1975 numerose riunioni di famiglia che escludono il ramo familiare costituito dai figli di Bruno Buitoni sr (Paolo, Franco e Isabella). La soluzione che si prospetta è quella di mantenere nel suo ruolo di amministratore delegato Paolo a cui affiancare un secondo amministratore delegato – individuato in Marco Buitoni, che all’epoca dirigeva la Ibp americana – per le operazioni italiane. Messo a conoscenza della proposta Paolo Buitoni dichiara il suo dissenso e presenta in Consiglio di amministrazioni le sue dimissioni. Verrà nominato amministratore delegato Bruno Buitoni jr, che resterà tale fino alla cessione dell’azienda a De Benedetti51. X.3. Dai tentativi di risanamento alla cessione È difficile dare un giudizio compiuto sul periodo in cui Paolo Buitoni è amministratore delegato. Le molteplici contraddizioni in cui fu costretto ad operare, i processi di crescita e di crisi che intervennero sulla società di nuova costituzione, le divisioni permanenti e le resistenze della famiglia e dell’alto management che si trovò a fronteggiare, non consentono una valutazione univoca. In generale si può osservare che le sue proposte erano in anticipo sulla fase sia dal punto di vista delle scelte produttive sia da quello delle forme organizzative. Sinteticamente si può dire che Paolo era un innovatore non realizzato che si trovava a dirigere una società troppo grande e diversificata per ritagliarsi uno spazio limitato di mercato e al tempo stesso troppo piccola per aspirare ad un ruolo di grande multinazionale, dati questi che giocheranno potentemente anche nella fase successiva.

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Grassi, Testimonianza, in La Perugina è storia nostra. I lavoratori raccontano i cento anni della fabbrica, a cura di Fabrizio Ricci, Roma, Ediesse, 2007, p. 159. Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), pp. 334-338; ASLB, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Verbali delle riunioni del Consiglio di amministrazione, registro n. 2 dal 10 dicembre 1975 al 29 settembre 1978, adunanza del 20 settembre 1976.

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Capitolo X Gli anni dell’Ibp

D’altro canto le sue capacità di proposta e di comando sono bene messe in evidenza da testimonianze non sempre benevole. Per il suo successore Paolo Buitoni era certamente intelligente e con grande volontà che sconfina[va] con la cocciutaggine. Almeno a quell’epoca era anche presuntuoso e aveva l’atteggiamento di chi ne sa più di tutti, anche di quelli che stavano in azienda da oltre venti anni. […]. Era un timido aggressivo e devo riconoscere che nell’insieme e per certi aspetti assomigliava allo zio Giovanni, senza però averne il carisma. Era molto razionale e forte argomentatore, facile ad arrabbiarsi se non si condividevano le sue idee. Come lo zio Giovanni, e un po’ lo zio Marco, era megalomane e non dava molto peso al denaro, ma alle iniziative, ai nuovi progetti52.

Il giudizio viene confermato da una testimonianza meno animosa e più equanime. Paolo Buitoni affrettò troppo il passo verso quel progetto di multinazionale che non decollò mai realmente. Lui era un grande ingegnere, ma non doveva prendere la cazzuola in mano e fare il muratore. Voglio dire che, anche se le idee ce l’aveva e spesso buone, non era un uomo d’azione. E poi non tutti quelli che gli gravitavano attorno erano buoni consiglieri53.

Fatto sta che con la scomparsa di Paolo Buitoni dal vertice dell’azienda lo sforzo di diversificare l’impresa e di proiettarla verso nuovi prodotti e mercati, tende dal 1977 ad allentarsi. Nella relazione di bilancio di quell’anno si legge: I risultati dell’esercizio [...] non possono certo considerarsi soddisfacenti. Essi rappresentano in termini economici [la situazione] in cui la vostra Società ha dovuto operare in Italia, al di fuori delle regole fondamentali dell’economia e dei mercati54.

Il 1977 per il rinnovato gruppo dirigente dell’Ibp avrebbe dovuto essere l’anno della rifondazione, di tutta un’opera cioè di rinnovamento generale capace di far ritrovare all’azienda efficienza e produttività. [La proposta è] accentrare la definizione degli indirizzi strategici e di controllo; decentrare la responsabilità operativa

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Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), p. 262. Sportolari, Testimonianza, in La Perugina è storia nostra cit. (a nota 50), p. 105. ISUC, AG, fasc. 396, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1977. Convocazione assemblea ordinaria del 26 giugno 1978, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1977, Perugia, s.d. [1978], p. 8.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

affidandola a manager di sicura esperienza ed orientati ai risultati. [L’obiettivo è] ridare la giusta prevalenza agli indirizzi economici e commerciali riportando a tutti i livelli operativi il concetto di economia e profitto55.

Il nuovo gruppo dirigente si propone, così, più di ristrutturare l’organizzazione interna della Società che orientarne l’attività verso le nuove produzioni strategiche precedentemente individuate. Questa svolta, che più che puntare sull’innovazione cerca di realizzare recuperi di efficienza e alleggerimenti finanziari, si basava su una idea di ristrutturare il gruppo facendo della Ibp una holding a tutti gli effetti, restituendo identità ed autonomia alle diverse imprese. L’ipotesi era quella di una struttura più agile e di unità più piccole56. La scelta di fondo è quella di mantenere i settori tradizionali, promuovendo al tempo stesso caute trasformazioni delle produzioni. Naturalmente l’impegno in nuove attività, soprattutto tra il 1975 e il 1977, costringe a ritardare e a scaglionare nel tempo i processi di modernizzazione delle produzioni dolciarie, cartotecniche e della pasta, con conseguenti perdite di terreno rispetto alla concorrenza. L’impresa ha andamenti differenziati nei diversi settori di attività, in particolare si crea una forbice – destinata a permanere fino alla fine della gestione dei Buitoni – tra il settore dolciario, che riesce a mantenersi competitivo, e quello della pastificazione che subisce l’iniziativa delle aziende più forti. Vale la pena di ricordare a questo proposito che per produzioni mature, a basso valore aggiunto, come quella pastaria, le possibilità di garantire utili rimangono strettamente legate al volume del fatturato e al grado dì controllo che le varie imprese riescono a raggiungere sul mercato, fatto questo che penalizza fortemente i produttori minori e quelli che non riescono ad abbattere i costi di produzione. La prima questione che viene affrontata dal nuovo vertice aziendale è quella dell’alleggerimento del peso della forza lavoro. Si cominciò a fine 1977, aprendo una vertenza alla Perugina per 1.270 licenziamenti57. Non sarà la prima riduzione di forza lavoro. Sarà solo un primo passo destinato ad essere seguito da altri nel corso degli anni, portando i 6.647 addetti in Italia (dirigenti, impiegati e operai) del 1974 ai 3.578 di fine 1984, tagliando 1.067 posti a livello di impiegati (-58% rispetto al 1974) e 2.013 delle categorie intermedie e degli operai (-42%)58.

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Ibidem. Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), passim. Grassi, Testimonianza cit. (a nota 50), p. 159. Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), pp. 396-397.

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Capitolo X Gli anni dell’Ibp

La vertenza del 1977 si chiude con la mediazione del ministro del lavoro dell’epoca, Carlo Donat Cattin59. La soluzione concordata è quella della cassa integrazione sia per operai che per impiegati e prepensionamenti con indennizzo per i lavoratori giunti almeno a tre anni dalla pensione con un indennizzo in denaro pari all’indennità di cassa integrazione “per il periodo mancante alla scadenza naturale del pensionamento”60. La contropartita era costituita da nuovi investimenti che per i sindacati dovevano riguardare le nuove produzioni, mentre per noi occorreva investire nell’efficienza, cioè automazione e meccanizzazione, sia in produzione che in amministrazione61.

I motivi per cui la riduzione di mano d’opera inizia proprio dalla Perugina è dovuta, in primo luogo, all’alto livello di sindacalizzazione della fabbrica di San Sisto e quindi dalla necessità di saggiare nel punto di maggior forza e capacità di resistenza la struttura sindacale. Il secondo motivo viene descritto da Bruno Buitoni jr con franchezza quando sostiene che per portare avanti il suo programma industriale “dovevo ritrovare la gallina delle uova d’oro che era la Perugina perché questo ci avrebbe consentito di lavorare con maggior tranquillità sul resto”62. Accanto alla riduzione di addetti si colloca il tentativo di definire con maggior precisione un management specifico per ogni funzione e settore, ciò continuerà a provocare una rotazione relativamente alta di dirigenti, la comparsa e rapida eclissi di manager63. Contemporaneamente si inizia a delineare quella politica di unità più contenute che ha una prima realizzazione nel 1978 con la costituzione della Ibp-Europe una holding cui vennero conferiti i pacchetti di maggioranza delle consociate estere europee64. Del 1980 è lo scorporo del Poligrafico e, l’anno successivo, quello del ramo dolciario, il cui pacchetto di controllo viene passato ad una società controllata, l’Ultra S.p.a., che poi cambierà nel 1982 il suo nome in Perugina S.p.a.65. Si tratta di un’ope59 60 61 62 63 64 65

Grassi, Testimonianza cit. (a nota 50), p. 160. Ivi, p. 161. Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), p. 394. Ibidem. Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), pp. 370-399 Ivi, p. 400. ISUC, AG, fasc. 396, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1980. Convocazione assemblea ordinaria e straordinaria del 30 giugno 1981, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1980, Perugia, s.d. [1981], pp. 4-16; ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1981. Convocazione assemblea ordinaria del 28 giugno 1982, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1981, Perugia, s.d. [1982],

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razione ad un tempo industriale e finanziaria, ì cui motivi sono da individuare nel trend positivo sempre più marcato di queste attività e la loro consolidata e crescente capacità di produrre reddito; [nel]la loro possibilità, per altro, come ibernata, in assenza di una specifica struttura societaria66.

Ciò porta nel 1982 ad un aumento a titolo oneroso del capitale della nuova Società da 30,5 miliardi di lire a 42,5, mediante l’emissione di 12 milioni di azioni ordinarie del valore nominale di 1.000 lire67. Nel 1980 l’Ibp viene ricapitalizzata, passando da 12 a 20 miliardi di capitale sociale, con l’emissione dì 2 milioni di azioni di risparmio del valore nominale di 2.000 lire68. Nel 1981 si raggiungono 36 miliardi di lire con un aumento gratuito da 20 a 24 miliardi e con uno oneroso consistente nell’offerta in opzione di 6 milioni di azioni ordinarie e di risparmio a 3.000 lire ciascuna, di cui 1.000 di sovrapprezzo, interamente assorbite dal mercato69.

Il terzo elemento utilizzato, nell’intenzione di garantire il risanamento dell’azienda è la politica di alienazioni di settori produttivi e di proprietà immobiliari e di terreni. Viene ceduta la Pepi ad una società inglese. I negozi vengono chiusi, gli immobili – di cui solo alcuni erano di proprietà della Società – venduti come pure le licenze di commercio. Complessivamente si tratta di un disinvestimento che fruttò cinque miliardi. Nel 1982

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pp. 2-9; ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1982. Convocazione assemblea ordinaria del 27 giugno 1983, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1982, Perugia, s.d. [1983], pp. 4-12. Ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1981. Convocazione assemblea ordinaria del 28 giugno 1982, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1981, Perugia, s.d. [1982], p. 4. Ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1982. Convocazione assemblea ordinaria del 27 giugno 1983, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1982, Perugia, s.d. [1983], pp. 13-26; Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1983. Convocazione assemblea ordinaria del 29 giugno 1984, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1983, Perugia, s.d. [1983], p. 16. Ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1983. Convocazione assemblea ordinaria del 29 giugno 1984, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1983, Perugia, s.d. [1983], p. 16; Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1980. Convocazione assemblea ordinaria e straordinaria del 30 giugno 1981, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1980, Perugia, s.d. [1981], p. 2 e pp. 6-12. Ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1981. Convocazione assemblea ordinaria del 28 giugno 1982, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1981, Perugia, s.d. [1982], p. 3.

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si cede a un membro della famiglia Signorino, proprietaria dell’ex Cirio, e alla ditta Pezzullo il conservificio di Ponetecagnano. Viene infine, alienata a favore della Plasmon la linea Nipiol70. Ma la dismissione più importate è quella dell’area di Fontivegge dove sorgevano gli uffici e lo stabilimento del Poligrafico. Per quest’ultimo si provvide a costruire una nuova unità produttiva a San Sisto, liberata l’area del Poligrafico, si costruì a Fontivegge la sede degli uffici, che rappresenta il primo nucleo del nuovo centro direzionale progettato da Aldo Rossi e la cui costruzione, almeno della parte più ragguardevole degli edifici si realizza tra il 1982 ed il 1989. L’area su cui sorgeva la Perugina era stata interessata da un ambizioso progetto agli inizi degli anni settanta, quando la nascente Ibp appariva vincente sia sul piano nazionale che come capacità di penetrazione nei mercati internazionali. D’altro canto, la nascita della Regione esalta il ruolo di Perugia “capitale dell’Umbria”, punto nevralgico di una struttura di gerarchie urbane che dovrebbe vedere la città preminente rispetto agli altri centri della regione. È l’asse del progetto “Perugia 80”, applicazione cittadina del “Progetto 80”, che esprime in quegli anni la filosofia su cui avrebbe dovuto strutturarsi l’intero sistema urbano italiano71. Dal dinamismo dell’Ibp e dalle ambizioni degli amministratori locali Nasce l’idea di un concorso per il nuovo centro direzionale a Fontivegge, simbolo della nuova dimensione e del nuovo ruolo della città, posto a giuntura della città storica e quella dell’avvenire. […]. Vince un progetto giapponese, nel più tipico linguaggio internazionale di quegli anni con soluzioni tecnologiche alla moda, …72.

È un’ipotesi che rompe con la storia della città, che prospetta una soluzione totalmente nuova73. Le sopraggiunte difficoltà economiche (la crisi petrolifera e le avvisaglie delle difficoltà della Società) fanno accantonare sia il progetto giapponese che l’idea di un nuovo centro direzionale a Fontivegge e spingono le autorità municipali a invitare l’azienda ad occuparsi della “riconversione, piuttosto che alla costruzione di monumenti sia pure ad elevato livello tecnologico”74. Il progetto viene ripreso, con forti ridi70 71

72 73 74

Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), pp. 405-409. Paolo Ceccarelli, Appunti sull’urbanistica perugina dal secondo dopoguerra a oggi, in Enrico Antinoro, Paolo Ceccarelli, Loreto Di Nucci e Raffele Rossi, Mezzo secolo di urbanistica. Storia e società della Perugia contemporanea, Perugia, Protagon, 1993, p. 84. Ivi, p. 85. Ibidem. Sulle caratteristiche del progetto cfr. Il nuovo centro direzionale di Perugia nello studio di una “equipe” giapponese, in “La Nazione”, 26 novembre 1971. Il concorso per il centro direzionale di Fontivegge. Intervista a Fabio Ciuffini, in “Quaderno di Cronache umbre”, [1975], p. 93 e ss.

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mensionamenti alla fine degli anni settanta, ed affidato ad Aldo Rossi. Il piano particolareggiato presentato dal progettista viene approvato dal Consiglio comunale nel dicembre 198175. A fronte di un Prg vigente che prevedeva la realizzazione a Fontivegge di 401.550 mc per residenze e di 570.500 mc per direzionalità, con la variante n. 33 le volumetrie furono ridotte rispettivamente a 344.000 e 418.300 mc, con una riduzione complessiva di 209.700 mc76.

Esso subisce notevoli modifiche sia per iniziativa dell’Ibp77 che per intervento di gruppi di cittadini e sarà realizzato a pezzi. Da soluzione del problema della cerniera tra centro e nuova città, Fontivegge rischia di divenire un ulteriore problema, luogo di addensamento di funzioni e di congestionamento urbano. Non c’è dubbio tuttavia che, anche in questo caso, sia pure attraverso una dismissione, la Perugina determina i nuovi equilibri urbani, con una bipolarità tra il centro storico e il centro direzionale sorto nell’area della Perugina, attualmente in via di completamento, dello stabilimento rimane, completamente decontestualizzata, segno minimo di un’antica tradizione produttiva, la sola ciminiera. Alleggerimenti occupazionali, ricapitalizzazioni e cessioni provocarono un momentaneo beneficio alla società. E tuttavia, il difficile percorso di contenimento delle difficoltà avrebbe comportato, nel periodo di crisi industriale italiana che comprende il periodo 1981-1983, nuovi fenomeni di aggravamento della situazione complessiva dell’Ibp che innescheranno quel processo che porterà alla cessione dell’azienda. È questo il quadro in cui vanno analizzate le difficoltà finanziarie del gruppo. Tra il 1974 ed il 1980 il fondo ammortamenti si mantiene su quote elevate, anche se in flessione, segno di un flusso di investimenti che continua ad essere consistente. Lo stesso andamento segue l’indebitamento a medio e lungo termine, anche se con maggiori oscillazioni. Se poi si guarda agli oneri passivi sostenuti nel periodo si ha il seguente trend. Come si vede l’indebitamento appare tutt’altro che lieve. Esso tende a con75

76 77

Delibera del Consiglio Comunale di Perugia, anno 1981, vol. II, pp. 280-406, atto del 9 dicembre 1981, n. 1379, “Variante al piano regolatore generale n. 33 per la zona di Fontivegge”, p. 1862. Enrico Antinoro, Profilo storico dei Piani urbanistici generali del Comune di Perugia, in Mezzo secolo di urbanistica cit. (a nota 71), p. 132. Delibera del Consiglio Comunale di Perugia, anno 1983, col. II, pp. 225-329, atto del 30 marzo 1983, n. 324.

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Capitolo X Gli anni dell’Ibp

Tabella 31. Fatturato, utili e occupati in Italia dell’Ibp (1977-1981)

Fonte: ISUC, AG, fasc. 396, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, elaborazione dati Esercizi 1977-1981.

Tabella 32. Fondi di ammortamento, finanziamenti a medio e lungo termine, oneri passivi (1974-1980)

Fonte: ISUC, AG, fasc. 396, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Elaborazione dati Esercizi 1974-1980.

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centrarsi soprattutto nel periodo 1975-78, nel momento cioè in cui la Società si sforza di abbozzare una politica senza però essere in grado di sostenerla, ma anche negli anni successivi, nonostante gli sforzi, esso continua a mantenersi su livelli elevati, mentre l’aumento degli oneri passivi, dovuto ai tassi di interesse applicati dalle banche, grava pesantemente sull’azienda. Il già ricordato reperimento di nuovi capitali attraverso l’emissione di nuove azioni non risolve la situazione, mentre lo scorporo dei settori, in particolare della Perugina, evidenzia un dato preoccupante. Si rafforza, infatti: Una tendenza […] di sempre maggior peso delle consociate estere e del settore dolciario, sia dal punto di vista del fatturato che della produzione di profitti. Più semplicemente, di fronte a un utile complessivo del gruppo che nel 1981 è di 2,2 miliardi, v’è un utile della Perugina S.p.a. pari a 11,1 miliardi: si guadagna con il cioccolato e si rimette con i prodotti alimentari, mentre nel settore pastario – che rappresenta una delle quote più consistenti della produzione del gruppo – si deve affrontare di gruppi italiani e stranieri come la Bsn-Danone e la Barilla78.

Nonostante ciò l’andamento complessivo del gruppo tende a peggiorare. È interessante osservare come la Perugina ricostituita non sia solo la più grande impresa per fatturati ed utili del gruppo, ma che la sua presenza come occupati nel gruppo sia ampiamente prevalente e come a Perugia sia collocata buona parte dell’occupazione della Ibp e la direzione strategica della società. Nel 1983 l’intero gruppo risulta gravato da 39 miliardi di oneri finanziari contro un fatturato di 963 miliardi79. L’Ibp è sempre più soffocata dagli oneri da indebitamento. Questo perché – spiegano gli amministratori – negli anni difficili, susseguenti alla crisi energetica, la Società [...], anziché regredire e ritirarsi da certi mercati per salvaguardare un risultato immediato, ha preferito continuare ad investire [...], ed in presenza di un mercato finanziario povero e di insufficienti risorse finanziarie proprie, è ricorsa anche a finanziatori terzi80.

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Covino, Gallo e Monicchia, Crescita, crisi e riorganizzazione. L’industria alimentare dal dopoguerra a oggi cit. ( a nota 37), p. 310. ISUC, AG, fasc. 396, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1983. Convocazione assemblea ordinaria del 29 giugno 1984, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1983, Perugia, s.d. [1983], pp. 6-13. Ivi, p. 7.

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Capitolo X Gli anni dell’Ibp

Tabella 33. Fatturato, utili e occupati in Italia dell’Ibp (1982-1984)

Fonte: ISUC, AG, fasc. 396, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, elaborazione dati Esercizi, 1981-1983. Il dato dell’occupazione Italia derivano dai dati di esercizio sommati ai dati dell’occupazione alla Perugina rilevabile dalla tabella successiva.

A fine 1984 l’Ibp con un capitale di 37,4 miliardi di lire ha un indebitamento complessivo di circa 300 miliardi, 29,9 miliardi di oneri finanziari netti e 47,7 miliardi di perdite d’esercizio. Indebitamento e la scarsità di risorse finanziarie sono ormai insostenibili e matura l’idea di cedere il pacchetto di controllo della Società81. Che l’Ibp dovesse trovare un partner era già chiaro nei primi anni ottanta, quando i bilanci non presentavano la drammaticità del 1984. Il 1981-1982 – come racconta Bruno Buitoni jr – vennero avviate trattative, grazie ai buoni uffici di Mediobanca, con il gruppo farmaceutico francese Midy.

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ISUC, AG, fasc. 397, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1984, Assemblea ordinaria e straordinaria del 15 aprile 1985, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1984, Perugia, s.d. [1985], pp. 6-10.

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Tabella 34. L’occupazione del gruppo Ibp in Umbria (1982-1984)

Fonte: La Perugina è storia nostra. I lavoratori raccontano i cento anni della fabbrica, a cura di Fabrizio Ricci, Roma, Ediesse, 2007, p. 216.

L’ipotesi su cui avrebbe dovuto realizzarsi il coinvolgimento del gruppo d’oltralpe era la seguente: Bisognava procedere ad un aumento di capitale dell’Ibp riservato al nuovo gruppo secondo una percentuale prestabilita. Insieme avremmo avuto il controllo, mentre loro avrebbero avuto una quota superiore alla nostra. […]. Il punto d’arrivo sarebbe stato un patto di sindacato di gestione, sulla base del quale io [Bruno Buitoni jr] sarei stato confermato alla presidenza, mentre Philippe Midy sarebbe divenuto amministratore delegato. I Consigli di amministrazione avrebbero rispecchiato i nuovi rapporti azionari82.

La trattativa si arenò per difficoltà poste dagli altri azionisti della famiglia Buitoni, ma anche perché Midy, alla fine, si ritirò preoccupata per le dimensioni dell’affare e per i problemi dell’Ibp. Si bruciò, sempre per l’op-

82

Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), pp. 438-439.

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Capitolo X Gli anni dell’Ibp

posizione della famiglia, anche il possibile apporto di capitali del finanziere Gaith Pharaon, da alcuni anni azionista della società. Del 1983 sono i primi contatti con Antoine Riboud, presidente della Bsn-Danone e all’inizio del 1984 comincia la trattativa che venne condotta per la Danone dalla banca Lazard e per l’Ibp da Mediobanca. L’ipotesi su cui ci si assestò fu quella della cessione del pacchetto di controllo della società83. Nel settembre – ottobre 1984 la Danone accetta le condizioni finanziarie poste dai Buitoni per cedere le proprie quote azionarie. Sembrava che l’accordo potesse essere concluso rapidamente quando si inseriscono due elementi di turbativa: venne richiesto di consolidare il debito con le banche – cosa questa che avrebbe comportato mesi di trattativa – e alcuni istituti di credito, in particolare la Banca commerciale italiana, richiedono il rientro nei limiti dei fidi concessi entro il 1984, concedendo poi una proroga fino al 31 gennaio 198584. Intanto la firma dell’accordo con la Bsn-Danone viene continuamente rinviata. In questo quadro tra novembre e dicembre attraverso la Euromobiliare, la merchand bank di Roberto Vitale, si concretizza l’offerta della Cir di Carlo De Benedetti di acquisto senza condizioni del pacchetto azionario di controllo che diviene definitiva a fine gennaio. Non vengono poste condizioni e si garantisce metà pagamento alla firma dell’accordo e l’altra metà a un mese. L’offerta della Cir era del 20% superiore a quella della Danone, all’epoca si parlò di 16 miliardi di lire. Il 2 febbraio 1985 si ha l’annuncio dell’acquisizione della quota di controllo del pacchetto azionario da parte della Cir. Il 4 febbraio si ha la firma definitiva dell’accordo. Il 14 febbraio si ha il passaggio delle consegne: quasi tutti i membri della famiglia Buitoni escono dai Consigli di amministrazione della Finanziaria Buitoni e delle controllate Ibp, Perugina e Poligrafico85. Nell’aprile 1985 le Industrie Buitoni Perugina S.p.a. cambiano il loro nome in Buitoni S.p.a.86. “L’era Buitoni era finita”87.

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Ivi, pp. 457-461. Ivi, pp. 462-463. Ivi, pp. 464-467 ISUC, AG, fasc. 397, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1985. Convocazione assemblea ordinaria e straordinaria del 16 maggio 1986, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1985, Perugia, s.d. [1985], pp. 7-8 e pp. 11-19; ASLB, Buitoni S.p.a., Verbali del Consiglio di amministrazione registro n. 4 dal 18 settembre 1984 al 16 marzo 1987, adunanza del 10 maggio 1985; ivi, adunanza dell’8 giugno 1985; ivi, adunanza del 17 settembre 1985; ivi, adunanza del 28 gennaio 1986. Bruno Buitoni, Pasta e cioccolato cit. (a nota 23), p. 467.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

Capitolo XI L’ultimo ventennio: una conclusione provvisoria

XI.1. La nuova Buitoni di De Benedetti Un’analisi delle vicende della Perugina dal 1985 ad oggi non può non essere provvisoria. Le trasformazioni dell’azienda sono ancora in corso, l’evoluzione del settore è contrassegnata da molteplici mutamenti, le fonti sono molto più viscide di quelle finora utilizzate. Esse non sono più rappresentate da un archivio organizzato, ma da un insieme di analisi congiunturali, di dati statistici, d’indagini di settore, di articoli di giornale in cui la congiunturalità di giudizio e gli elementi di battaglia politica e sindacale sono prevalenti e non favoriscono un giudizio ponderato. I cambiamenti avvenuti, peraltro, nell’economia nazionale hanno provocato un dimagrimento occupazionale dell’insieme delle grandi imprese in tutti i comparti industriali, compreso quello dolciario. Le scelte imprenditoriali non sono più valutabili all’interno dell’impresa, ma vanno considerate nel contesto di una strategia internazionale globale e della politica di una grande multinazionale alimentare, dato questo che complica ancor più il quadro e che rischia – se non maneggiato con cautela – di accentuare la parzialità della valutazione. Ciò non vale solo a livello generale, di settore e di impresa, ma anche in riferimento al contesto regionale e cittadino, dove gli anni, ottanta innescano mutamenti di indubbia rilevanza, destinati a modificare radicalmente la società e l’economia perugina ed umbra. Ci si deve, quindi, limitare a mettere ordine nella congerie di dati disponibili e nei fatti che si susseguono nel tempo, non avendo l’ambizione o la presunzione di dare degli stessi un’interpretazione univoca e/o definitiva, assumendo fino in fondo le ambiguità del presente. Un primo elemento di riflessione è la fine della dinastia imprenditoriale dei Buitoni. I motivi di questa eclisse derivano in buona parte da quanto abbiamo già scritto. Non si tratta solo di un affievolimento dello spirito imprenditoriale, degli scontri interni ai diversi gruppi familiari, dell’incapacità di cogliere i mutamenti intervenuti nell’industria alimentare nazionale ed internazionale, ma di dati di carattere strutturale. La Perugina, come la Buitoni, “è stata sempre troppo grande per essere piccola per la sua immagine, per la sua storia, la sua tradizione, ma al tempo stesso è troppo piccola per essere 304


Capitolo XI L’ultimo ventennio: una conclusione provvisoria

grande”1. In altri termini l’Ibp non era e non poteva essere per sua struttura un’azienda specializzata in alcune specifiche produzioni e al tempo stesso non aveva la dimensione, la proiezione geografica, la forza finanziaria per trasformarsi in una global corporation. Emblematiche da questo punto di vista sono le gestioni aziendali di Paolo Buitoni, per un verso, e di Bruno Buitoni jr, dall’altro, per molti aspetti contrapposte, che entrambe, però, non riescono ad invertire lo stato di crisi dell’impresa. Il secondo elemento su cui soffermarsi è rappresentato dal ruolo della Perugina nel gruppo. Essa è fonte di profitti, è la maggiore impresa del conglomerato Ibp in termini di occupazione, fatturato e profitti e, tuttavia, nelle strategie del gruppo, assume una rilevanza strategica relativa. Ciò, a lungo, ha alimentato il dibattito se la Perugina dovesse essere sganciata dai destini delle altre aziende ex Ibp, oppure se tutto il gruppo dovesse essere trasferito ad un diverso imprenditore, dibattito ancora in corso e che può trovare risposta solo dal concreto dispiegarsi delle strategie complessive dell’attuale proprietà, tenendo però conto che il quadro è cambiato, che il vecchio gruppo non esiste più e che il riferimento è semmai l’universo Nestlé, più complesso e articolato della vecchia impresa. Ritornando alla vicenda della Società dopo la cessione alla Cir vale la pena di esaminare le valutazioni che portarono quest’ultima ad acquisire il gruppo. Le motivazioni d’investimento sono state così riassunte da Carlo De Benedetti nel 2001. Nel 1984 […] era maturata in me la convinzione che l’industria alimentare […] sarebbe stata uno degli elementi trainanti in termini di creazione di valore negli anni a seguire. Avevo peraltro constatato che la più parte dell’industria alimentare italiana era stata ceduta in quegli anni ad aziende multinazionali estere dalla Galbani, alla Kraft, alla Simmenthal, tanto per nominare qualche nome. E proprio prima che la Buitoni venisse venduta al gruppo Danone avvicinai Bruno Buitoni […] e acquisì tramite la Cir il controllo della Buitoni. La Buitoni era un’azienda […] con circa mille miliardi di fatturato all’epoca e circa… quattromila dipendenti2.

Il primo compito che si pone la nuova società è quello del risanamento. Carlo De Benedetti diviene immediatamente il presidente del gruppo, l’incarico di amministratore delegato è affidato a Felice Roberto Villa e il capi-

1 2

Michele Di Toro, Testimonianza, in La Perugina è storia nostra. I lavoratori raccontano i cento anni della fabbrica, a cura di Fabrizio Ricci, Roma, Ediesse, 2007, pp. 240-241. Carlo De Benedetti, Testimonianza, Atti stenografici del processo Sme-Ariosto, 25 giugno 2001, in Peter Gomez e Marco Travaglio, Lo chiamavano impunità: la vera storia del caso Sme e tutto quello che Berlusconi nasconde all’Italia e all’Europa, Roma, Editori Riuniti, 2003, p. 309.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

tale sociale subisce un primo aumento da 37.447 milioni di lire a 149.786, con l’emissione di 33.280.000 azioni ordinarie e 22.889.290 azioni di risparmio del valore nominale di 2.000 lire ciascuna3. Nel 1986 si ha poi il secondo aumento del capitale, che raggiunge 180.140 milioni di lire, mediante 14.653.852 nuove azioni offerte sempre al valore nominale di 2.000 lire4. Tra il 1985 ed il 1986, il capitale sociale della capogruppo quasi si quadruplica. Parallelamente il capitale della Perugina passa prima a 68 (1984) e poi a 84,9 miliardi (1985)5. Tuttavia il progetto di De Benedetti per quanto riguarda il settore alimentare non si limita solo alla Buitoni. Seguendo sempre il filo della sua testimonianza emerge che: Mi resi abbastanza rapidamente conto che non si poteva pensare di costruire un gruppo alimentare su quella attività [della ex Ibp] e quindi mi guardai in giro su […] quale poteva essere un’acquisizione che ci avesse consentito di fare un salto di qualità in termini sia di gamma di prodotti sia dimensionale. La cosa che appariva evidente è che la Sme, che allora aveva circa 20 mila dipendenti e faceva circa 3 mila miliardi di fatturato era chiaramente uno degli attori potenziali dell’industria italiana6.

Inizia così la trattativa con l’Iri per la cessione della Sme, in cui interviene Mediobanca, che si concluderà con la vendita per 497 miliardi alla Cir. L’accordo prevede che l’Iri, che deteneva il 64,36% della Sme, avrebbe ceduto il 51% alla Buitoni, e il 13,36% a Mediobanca e all’Imi. Si stabilisce anche una rateazione dei pagamenti: 150 miliardi a fine giugno 1985, 75 miliardi il 31 marzo 1986, altri 75 al 30 giugno e 197 a fine dicembre dello stesso anno il 29 aprile 1985, a poco più di un anno dall’acquisto7. Il progetto sotteso all’acquisizione è costruire un grande gruppo privato italiano, con consistenti proiezioni estere, in grado di affermare con forza la sua

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ISUC, AG, fasc. 397, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1984, Assemblea ordinaria e straordinaria del 15 aprile 1985, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1984, Perugia, s.d. [1985], p. 3. Ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1985. Convocazione assemblea ordinaria e straordinaria del 16 maggio 1986, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1985, Perugia, s.d. [1985], pp. 7-8. Ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1984, Assemblea ordinaria e straordinaria del 15 aprile 1985, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1984, Perugia, s.d. [1985], p. 38; ivi, Ibp - Industrie Buitoni Perugina, Esercizio 1985. Convocazione assemblea ordinaria e straordinaria del 16 maggio 1986, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1985, Perugia, s.d. [1985], p. 78. De Benedetti, Testimonianza cit. (a nota 3), pp. 309-310. Cfr. Osvaldo De Paolini, L’Iri cede alla Buitoni il controllo della Sme, in “Il Sole-24 Ore”, 1 maggio 1985; Gomez e Travaglio, Lo chiamavano impunità cit. (a nota 3), pp. 287-288.

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presenza sui mercati internazionali. È noto che come la vendita viene resa nota si scateni, soprattutto da parte politica e segnatamente dal presidente del Consiglio dell’epoca, Bettino Craxi un fuoco di sbarramento, sostenendo che la decisione spetta non all’Iri ma al Governo. Il 7 maggio il Consiglio di amministrazione dell’Iri ratifica all’unanimità l’accordo. Il 9 maggio si chiede una proroga dell’entrata in vigore dell’accordo dal 10 maggio al 28 maggio. Il 24 maggio l’avvocato Italo Scalera fa una offerta di 550 miliardi a nome di alcuni sconosciuti imprenditori. Il 27 maggio il Comitato interministeriale per la politica industriale da parere favorevole alla cessione alla Buitoni, il 28 maggio la Commissione bilancio del Senato dà anch’essa parere favorevole: a fine giornata – infine – si materializza l’offerta di una cordata di imprenditori che comprende Barilla, Ferrero e Fininvest che hanno dato vita ad una nuova società la Iar, che offre 600 miliardi di lire per la Sme8. La privatizzazione si blocca e con essa la cessione della Sme alla Buitoni. Gli esiti successivi sono noti. La Buitoni avvierà una causa civile contro l’Iri, chiedendo addirittura il sequestro delle azioni, richiesta che verrà respinta il 25 giugno 19859. Il 17 gennaio 1986 l’Iri ritira la delibera a favore della cessione alla Buitoni10. La sentenza del 19 luglio 1986 della prima sezione del Tribunale civile di Roma respinge il ricorso presentato da De Benedetti. Il dispositivo della sentenza afferma che la prevista cessione non “possa essere qualificata , come sostiene la Buitoni, come contratto di vendita”11. Resterà solo il ricorso in Cassazione che verrà discusso il 19 aprile 1988. La sentenza sarà depositata l’11 luglio dello stesso anno, essa confermerà la decisione del Tribunale di Roma12. Da lì partirà il processo Sme – Ariosto, destinato a durare anni e a concludersi, solo recentemente, con qualche condanna, prescrizioni di reato ed assoluzioni. Non è questa la sede per ricostruire le vicende giudiziarie che fanno da coda alla cessione della Sme e le relative responsabilità di persone, gruppi imprenditoriali, forze politiche. Quello che vale la pena di valutare è invece il senso del blocco del passaggio della Sme alla Buitoni che, in parte, si collega al tentativo della Bsn Danone di acquisire l’Ibp. Emerge infatti la convergenza

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Ivi, pp. 291-301. Della vicenda si occuparono i commentatori economici dei quotidiani specializzati e non, in particolare “Il Sole-24 Ore” e “Mondo economico”, cui si è fatto riferimento per la ricostruzione dei fatti. Gomez e Travaglio, Lo chiamavano impunità cit. (a nota 3), pp. 67-68. Ivi, p. 67. Il dispositivo della sentenza è riportato integralmente in I giudici hanno ragionato così, in “Il Sole-24 Ore”, 20-21 luglio 1986. Gomez e Travaglio, Lo chiamavano impunità cit. (a nota 3), pp. 68-69.

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di interessi diversificati: da una parte, i grandi gruppi multinazionali già operanti nel mercato italiano, e in particolare la Bsn, cercano di impedire che si strutturi un gruppo capace di intervenire aggressivamente sui mercati internazionali; dall’altra, i gruppi operanti in … mercati di nicchia si sentono minacciati nelle loro posizioni di leader di settore; infine, grandi gruppi finanziari agiscono per impedire che si mettano in atto sinergie capaci di attrarre finanziamenti e risparmio. Sono questi i soggetti che impediscono la riuscita del progetto di De Benedetti, e che costringeranno la Sme ad una privatizzazione più articolata e complessa13.

Nonostante il piano appaia già a metà 1985 compromesso, ciò non impedisce, comunque, alla nuova Buitoni di aumentare il proprio fatturato, che nel 1986 raggiunge i 1.623 miliardi di consolidato e nel 1987 supera i 2.00014. Nel 1986 il gruppo dispone di ben 24 stabilimenti (17 in Italia, 5 in Francia, 1 in Gran Bretagna e 1 negli Stati Uniti) e di una serie di organizzazioni commerciali dirette in Francia, Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Stati Uniti, e collegate in Arabia Saudita, Argentina, Australia, Belgio, Canada, Giappone, Svizzera. Con numerosi paesi, inoltre, vengono stipulati contratti per la cessione dì tecnologie e di marchi di fabbrica (Buitoni, Perugina, Princess, Amieux, Trecs, Davigel, Curii, Berni, Gioppini, Olio Sasso, Vismara)15. La filosofia del nuovo gruppo continua ad essere quella che abbiamo prima ricordato attraverso le parole di Carlo De Benedetti, riaffermata in un’intervista del giugno 1987 da Roberto Villa, amministratore delegato della Società. Nell’industria alimentare i margini sono relativamente bassi, di conseguenza diventano preminenti i volumi. [Si] deve vendere moltissimo quotidianamente ma anche i concorrenti perseguono lo stesso obbiettivo con la stessa decisione. Con un prodotto indovinato, e ben sostenuto, [si] può guadagnare in brevissimo tempo una larga quota del mercato per poi perderla altrettanto rapidamente a favore di un prodotto nuovo della concorrenza Semplificando molto il problema, [si] deve vendere volumi elevati

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Renato Covino, Giampaolo Gallo e Roberto Monicchia, Crescita, crisi e riorganizzazione. L’industria alimentare dal dopoguerra a oggi, in Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione, a cura di Alberto Capatti, Alberto De Bernardi e Angelo Varni, Torino, Einaudi, 1998, pp. 320-321. ISUC, AG, fasc. 397, Buitoni, Esercizio 1986, Assemblea ordinaria degli azionisti del 13 aprile 1987, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1986, Perugia, s.d. [1987], p. 12; ivi, Buitoni. Esercizio 1987, Assemblea ordinaria e straordinaria degli azionisti dell’11 maggio 1988, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1987, Perugia, s.d. [1988], p. 33. Ivi, Buitoni, Esercizio 1986, Assemblea ordinaria degli azionisti del 13 aprile 1987, relazione del Consiglio di amministrazione e bilancio al 31 dicembre 1986, Perugia, s.d. [1987], p. 4, pp. 11-19.

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per potersi permettere investimenti in marketing, ricerca, innovazioni necessarie per guadagnare competitività e spazi. Il tutto lavorando su un mercato che reagisce con estrema rapidità a qualsiasi stimolo. [Inoltre] le alternative che si presentano ad un’industria alimentare che voglia crescere sono due. La prima è quella di scegliere una politica dì nicchia: fare sufficienti volumi con uno, due prodotti e diventare leader di un mercato ‘regionale’ come potrebbe essere l’Italia o l’Italia e la Svizzera. La seconda alternativa è quella di internazionalizzarsi, di conquistare, anche by acquisition, quote di mercato, diventando così grandi e diversificati da poter competere con quelle che oggi sono le global corporation, come la Unilever, la Nestlé, la Nabisco16.

Detto in pillole l’ipotesi di costruire una multinazionale a base italiana, senza l’acquisizione della Sme appare impossibile. Solo in questo caso, con un fatturato che supererebbe i 4.000 miliardi, verrebbe a ridursi il gap con le grandi multinazionali del settore (con volumi d’affari sui 20-30.000 miliardi), e soprattutto entrerebbero in funzione effetti moltiplicativi tali da garantire, oltre che profitti crescenti, ulteriori dinamiche di sviluppo aziendale. Ma nell’intervista è presente anche l’ipotesi di entrare in competizione solo in alcuni settori con i colossi dell’industria alimentare mondiale, tentando successivamente combinazioni con essi. Infine, benché non esplicitata, si adombra una terza opzione: dato che non esiste una possibilità di crescita veloce dell’azienda e date al tempo stesso la sua struttura, le produzioni in cui è impegnata, i settori in cui opera, che rendono difficile ritagliarsi una leadership “di nicchia”, la soluzione più conveniente è quella di cedere l’impresa risanata ad un concorrente più forte. È quanto avviene il 18 marzo 1988, allorché la Buitoni viene acquistata dalla Nestlé per 1.600 miliardi di lire17, esito per altro legato alla consapevolezza che la Sme rimarrà all’Iri. Dopo un’attesa di tre anni di un pronunciamento positivo dei tribunali italiani, nella consapevolezza che si sta profilando un esito non favorevole, si preferisce cedere l’azienda piuttosto che continuare a coltivare il sogno di una grande impresa alimentare italiana privata. XI.2. Settore alimentare e le multinazionali estere L’acquisto della Buitoni da parte della multinazionale svizzera è frutto di due movimenti convergenti che coinvolgono l’industria alimentare italiana e che 16

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Citato in Renato Covino, Dalla ricostruzione agli anni ottanta, in “Sulla bocca di tutti”. Buitoni e Perugina una storia in breve, a cura di Giampaolo Gallo, Perugia, contributi di Renato Covino, Paola Boschi e Daniele Orlandi, Electa Editori umbri associati, 1990, p. 50. Cfr. Francesco Cavallucci, La società Perugina per la fabbricazione dei confetti, in Idem, San Sisto da territorio a quartiere, Perugia, Protagon, 1990, p. 56.

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si sviluppano negli anni ottanta del Novecento. Il primo è la modernizzazione dei consumi alimentari nazionali frutto dell’adeguamento degli standard italiani a quelli dei maggiori paesi europei. D’altro canto, “la dieta mediterranea diviene un elemento di attrattiva, persino riesportabile nel resto del mondo occidentale” anche se il dato dominante è quello dell’omogeneizzazione e “della mercantilizzazione dei consumi, degli stili di vita, di cambiamento delle abitudini alimentari”. Il mercato italiano, insomma, è sempre più assimilabile a quello dei paesi occidentali sviluppati, diviene appetibile “dal punto di vista dei grandi gruppi internazionali”18. Parallelamente emergono le difficoltà “del settore alimentare nazionale ad adeguarsi alla modernizzazione dei consumi e all’affermarsi di una domanda di massa”, che genera un processo di crisi e ricomposizione del comparto derivante dalla mancata integrazione con l’agricoltura, peraltro legata alla sua mancata modernizzazione e alle carenze della distribuzione commerciale italiana segnata da politiche volte più a privilegiare l’assorbimento di manodopera che a garantire efficienza e riduzione dei costi19. Alla disordinata espansione degli anni settanta, durante la quale le imprese non erano riuscite a dotarsi di adeguate strutture produttive e finanziarie, segue così una severa scrematura. La ristrutturazione degli anni ottanta, se consente il recupero delle situazioni aziendali meno compromesse. Solo episodicamente – Ferrero, Barilla, Parmalat e pochi altri – porta all’emergere di gruppi nazionali capaci di competere alla pari con la concorrenza straniera20.

Ciò permette l’inserimento di imprese multinazionali straniere in Italia, che era già iniziato nel periodo compreso negli anni sessanta e settanta e che si accentua nel decennio successivo. Quando, nel 1992, si giungerà alla vendita frazionata della Sme le imprese multinazionali estere deterranno “i 2/5 del fatturato delle prime 50 aziende del settore italiano ed oltre la metà dei 67.500 dipendenti da esse occupati”21.

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Francesco Chiapparino e Renato Covino, Consumi e industria alimentare in Italia dall’Unità a oggi, Perugia, Crace, 2000, pp. 149-150. Ivi, p. 150, sul settore alimentare begli anni ottanta del Novecento cfr. Claudio Alò e Romano Bedetti, Il business in tavola. Come cambia l’industria alimentare, Roma, Edizioni del Sole 24 Ore, 1988; Ministero dell’agricoltura e delle foreste, L’industria agro-alimentare italiana. Primo rapporto annuale, a cura di Umberto Bertelé e Dario Casati, Roma, Ministero dell’agricoltura e delle foreste, 1992; Annuario dell’industria alimentare in Italia, Roma, Agra, 1994. Ibidem. Chiapparino e Covino, Consumi e industria alimentare in Italia dall’Unità a oggi cit. (a nota 18), p. 151.

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Per restare solo alla Nestlé italiana, se essa nel 1984 registra un fatturato di 271,6 miliardi di lire22, nel 1994 il fatturato della multinazionale svizzera in Italia raggiunge 2.759 miliardi, dieci volte di più23. Ciò deriva da successive acquisizioni e fusioni avvenute nel corso dei decenni. Presente in Italia con una filiale negli anni dieci del Novecento, con la fusione con la Maggi nel 1948, “una delle maggiori aziende europee di dadi da brodo e minestre in polvere”24 acquisisce un’ulteriore postazione in Italia, infatti la Maggi ha uno stabilimento a Sesto San Giovanni. Nel 1961 assume il controllo della Locatelli, nel 1988 quello della Buitoni e infine nel 1993 quello di Itagel (Motta, Alemagna, Surgela, ecc.) e del Gruppo dolciario italiano, Società acquisita dalla Sme25. Nel 1994 è la terza azienda del settore dopo l’Unilever e la Barilla26. XI.3. La città e la Nestlé Perugina Qual è la reazione ai passaggi di proprietà che maturano nella seconda metà degli anni ottanta tra le forze sociali e politiche della città e della regione? C’è un elemento di quadro da tenere presente ed è la situazione di crisi strisciante dell’industria regionale che comincia a manifestarsi proprio nella seconda parte degli anni ottanta del secolo scorso e che si cronicizzerà fino alla seconda metà del decennio successivo. Peraltro il processo che investe la Perugina nel 1988 coinvolgerà anche altre imprese, come la Società Terni che verrà ceduta alla multinazionale tedesca Krupp e le imprese del polo chimico ternano27. Quelli che erano stati considerati i volani di uno sviluppo dell’Umbria – l’impresa pubblica e il capitale privato autoctono – cambiano fisionomia e natura. Ciò provoca un relativo sconcerto e disorientamento nella società locale. Se, infatti, il passaggio dai Buitoni alla Cir di De Benedetti si realizzava all’interno del contesto italiano, sostituendo una famiglia imprenditoriale al tramonto con un dinamico finanziere, la successiva cessione alla Nestlé mutava sostanzialmente il

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Le prime 200 aziende. Alimentare e bevande, in “Il Sole-24 Ore”, 25 ottobre 1985. Chiapparino e Covino, Consumi e industria alimentare in Italia dall’Unità a oggi cit. (a nota 18), p. 153. Ivi, p. 155. Ibidem. Chiapparino e Covino, Consumi e industria alimentare in Italia dall’Unità a oggi cit. (a nota 18), p. 153. Sulla presenza delle multinazionali in Umbria vedi: Agenzia Umbria Ricerche, Umbria multinazionale. Attrattiva e competitività delle imprese e del territorio, Rapporto di ricerca, maggio 2007.

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quadro di riferimento. La cessione da parte di De Benedetti avveniva peraltro “senza essere stata neanche preannunciata, se non, forse, agli organi di governo”28. In realtà la questione dell’uscita di scena di De Benedetti era nell’aria e a Perugia si era aperto un grande dibattito […]. C’erano due correnti di pensiero che si contrapponevano: la prima che voleva mantenere salda a tutti i costi l’unità del gruppo, la seconda che al contrario propendeva per uno sganciamento e una gestione autonoma della Perugina, magari con il sostegno di imprenditori umbri in grado di rilevare la singola azienda29.

Era un dibattito in realtà ozioso. Le scelte non erano in mano alla città e, peraltro, risultava difficile pensare ad una vendita a pezzi del gruppo. L’acquisizione, inoltre, avverrà puntando più che sul marchio Perugina su quello Buitoni, che era il marchio di punta della Società, quello più spendibile nel contesto internazionale, simbolo di cibo italiano e di cucina mediterranea, terreno su cui la multinazionale svizzera si stava impegnando a specializzare settori importanti delle sue produzioni italiane. Per dirla sempre con le parole dell’allora segretario della Filia: La città in ogni caso visse questa fase di passaggio con timore e preoccupazione. Anche perché nel paese, soprattutto a Nord, erano in atto una serie di ristrutturazioni aziendali molto consistenti e l’occupazione nell’industria alimentare continuava a calare al ritmo del 5% annuo30.

Non era solo la situazione dell’industria alimentare che creava allarme. Era la stessa economia cittadina che si trovava in una situazione di stallo e di regresso. Se si guarda la situazione delle imprese manifatturiere con più di 5 addetti nel corso degli anni ottanta emerge un calo diffuso degli occupati. Se questi nel territorio comunale erano pari nel 1980 a 10.816, nel 1983 calavano a 9.681, nel 1987 scendevano 9.012 con un saldo negativo di 1.804 unità31. Dato questo che tenderà ad accentuarsi negli anni successivi. Era entrata in fase di difficoltà la strategia impostata dalle istituzioni e si

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Di Toro, Testimonianza cit. (a nota 1), p. 238. Ivi, p. 237. Il dibattito sul tema rimane sempre vivo; si vedano in proposito Il Grifone di Perugia, La commemorazione del centenario della “Perugina” perduta, in “Diomede”, n. 5, 2007, pp. 59-66 e Siro Pollacci, La Nestlé rimarrà in Umbria? Requiem per la Buitoni di Sansepolcro e allarme per lo stabilimento Perugina, in “Diomede”, n. 9, 2008, pp. 15 -31. Ivi, pp. 238-239. Istituto regionale di ricerche economiche e sociali - Sergio Sacchi, Il comprensorio Perugino in cifre. Perugia, Corciano, Deruta, Torgiano, Perugia, Protagon, 1989, p. 176.

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determinava una battuta di arresto per le organizzazioni sindacali. Nell’immediato, fino all’acquisto dell’Italgel e del Gruppo dolciario da parte della Nestlé la situazione dell’ex gruppo Buitoni non mutò significativamente. Ciò indusse alcune pigrizie e soprattutto l’abitudine a ragionare come se tutto fosse rimasto immutato, senza comprendere che la logica multinazionale dell’azienda comportava strategie diverse da quelle tradizionali, anche se le prime avvisaglie di cambiamento di passo si ebbero con la cessione nel 1989 del Poligrafico alla Saffa32. Il primo vero contraccolpo avvenne tuttavia in seguito alle acquisizioni dalla Sme (tra cui i marchi Motta ed Alemagna) ed è rappresentato dalla chiusura dell’Ultra di Castiglione del Lago – uno stabilimento, lo ricordiamo, per la produzione dei grandi lievitati – che in una logica di gruppo non aveva più ragione di esistere. Buona parte del personale venne impiegato alla Perugina, il resto (11-12 lavoratori) costituì una cooperativa di lavoro l’Euroservice srl, che aveva come scopo la fornitura di servizi alla Nestlé e che nel tempo è cresciuta come occupati e come giro di affari33. È la nuova situazione che si sviluppa a partire dalla riorganizzazione del gruppo e dalla fine del carattere di centralità della Perugina che provoca frizioni interne al sindacato, un dibattito vivace che porta addirittura alla nascita da una costola della Cgil di un nuovo sindacato autonomo, il Sual, che conquisterà posizioni di un certo rilievo nell’azienda, scissione che verrà recuperata solo alcuni anni dopo, nel 1996-199734. XI.3. L’ultimo decennio: la fabbrica flessibile Nell’ultimo decennio si manifesta in modo significativo la logica della grande impresa multinazionale. La questione che si pone non è quella della sopravvivenza dell’azienda, quanto l’affermazione della dinamica di un gruppo vocato, per le sue stesse dimensioni, a produzioni di massa linearizzate, ad una sinergia tra diversi stabilimenti esistenti e, semmai, localizzati in paesi diversi. È proprio in questi anni che si supera anche culturalmente l’idea di un’autonomia della Perugina e di un suo ruolo di preminenza nell’universo Nestlé. Per molti aspetti il punto di svolta è rappresentato dalla vertenza di fine 1996 che riguarda tutto il gruppo italiano della Nestlé. Nell’ottobre del 1996 era stata chiusa la palazzina degli uffici

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Cfr. Cavallucci, La Società Perugina per la fabbricazione dei confetti, in Idem, San Sisto da territorio a quartiere cit. (a nota 17), p. 60. Ivi, p. 239 e 241-242. Salvatore Paladino, Testimonianza, in La Perugina è storia nostra cit. (a nota 1), p. 250.

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e le figure apicali che in essa lavoravano furono trasferite a Milano, dove si disloca il centro nazionale delle aziende del gruppo. È un fatto che preannuncia una svolta importante, adombrata da qualche anno in Perugina avanza una grande trasformazione: si va concretizzando a passi misurati, ma inesorabili la volontà di Nestlé di unificare sotto un’unica direzione e con una strategia unitaria tutte le sue aziende. Anche la Perugina, che fino ad allora aveva conservato ampi margini di autonomia, si prepara a rientrare nei ranghi35.

Nel novembre inizia il confronto sul “Piano di rilancio Nestlé Italia” presentato al coordinamento sindacale nazionale del gruppo il 24 ottobre36. Per la Perugina si prevedono 320 esuberi su 1.500 per l’intera Nestlé italiana gruppo. Ciò che propone l’azienda è una fabbrica fortemente automatizzata, in grado di avere linee destinate a realizzare diversi prodotti e una standardizzazione degli stessi. Si prevedono, peraltro, scelte organizzative tese ad esternalizzare servizi logistici, centri di elaborazione dati e reti di vendita. Ciò provocherà resistenze, mobilitazione della città e delle istituzioni e due scioperi di 4 ore, il 6 e il 22 novembre37. Si giungerà ad un primo accordo per il centro elaborazione dati il 2 dicembre 1996, garantendo a 14 unità su 18 l’occupazione presso la società Issc del gruppo Ibm e a 4 il riassorbimento “nell’ambito dell’unità di San Sisto”38. La trattativa nazionale si concluderà il 13 dicembre con un accordo che prevedeva “un piano triennale di investimenti pari a 500 miliardi”, un ridimensionamento occupazionale di circa 1.000 unità contro le 1.500 previste e un centinaio di nuove assunzioni39. La Perugina viene scorporata dall’accordo per 35 36

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Di Toro, Testimonianza cit. (a nota 1), p. 245. Archivio Renato Covino, fasc. “Nestlé-Perugina”, Piano di rilancio Nestlé, 24 ottobre 1996 e Proposta della Rsu della Nestlé Perugina sul “Piano di rilancio”, 28 ottobre 1996. La questione ebbe ampia eco di stampa cfr. in proposito: Perugina, la Regione chiede un incontro alla Nestlé: “Rispetti tutti gli impegni, in “Il Messaggero”, 20 novembre 1996; Lucia Baroncini, “Ci ribelliamo alla Nestlé”. Bucherelli, segretario della Cgil spiega cosa chiedono i sindacati, in “Corriere dell’Umbria”, 22 novembre 1996; Roberto De Meo, “Perugina amara”. Oggi per 4 ore si ferma il lavoro, in “La Nazione”, 22 novembre 1996. Lo sciopero del 6 novembre viene convocato contestualmente alla discussione sul “piano di rilancio”, cfr. in proposito Archivio Renato Covino, fasc. “Nestlé-Perugina”, Proposta della Rsu della Nestlé Perugina cit. (a nota 36). Ivi, Verbale di accordo tra Nestlé italiana S.p.a., Assindustria Perugia e Fat-Cisl, FlaiCgil, Uila-Uil, Rsu, 2 dicembre 1996. Ivi, Comunicato sindacale Nestlé della Fat-Cisl, Flai-Cgil, Uila-Uil, 16 dicembre 1996. Per i motivi dello scorporo della Perugina dalla trattativa nazionale cfr. Ivi, Documento della delegazione trattante dell’Umbria nel Coordinamento sindacale nazionale della Nestlé Italia per l’assemblea di mandato del 19 dicembre 1996, firmato da Rsu NestléPerugina e da Flai, Fat, Uila, Sual.

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un dissenso delle rappresentanze sindacali. Come avrebbe detto Michele di Toro, all’epoca segretario della Filia, la proposta complessiva maturata, per quanto riguarda la gestione dei 320 esuberi, non coglieva appieno il mandato scritto dei lavoratori e noi, per un bisogno di trasparenza, di democrazia nei loro confronti, poiché il Coordinamento sindacale non ha accettato una sospensione, abbiamo preferito uscire dal tavolo, tornare a Perugia per riposizionare le nostre rivendicazioni40.

Le ragioni della delegazione nazionale trattante vengono invece esposte da Silvano Silvani della segreteria nazionale Filia-Cgil. La premessa è brutale: non aver fatto ora le cose – […] - non libera dalle cose, la situazione resta appesa, la Perugina dovrà affrontare da sola i problemi e rischiare di subirne passivamente la soluzione, perché la Nestlé, è certo, il processo annunciato lo porterà avanti anche in questa fabbrica.

Silvani giudica un’occasione persa l’essere usciti dal negoziato e aggiunge: Potevano entrare 110 occupati nuovi,che non ci saranno, potevamo tenere sotto controllo il processo di terziarizzazione, che forse avverrà comunque in maniera mascherata, potevamo invertire la tendenza alla precarizzazione del lavoro, mettere in chiaro i progetti industriali, gli investimenti, governare i processi e questo ora sarà più difficile.

Infine sostiene che la delegazione umbra si è trovata tra l’incudine e il martello, da una parte il mandato rigido dei lavoratori, dall’altra il peso delle strutture regionali, che sarebbe più opportuno si riservassero un ruolo di valutazione politica, più che entrare nel merito della vertenza41.

Si aprirà una fase convulsa che porterà dapprima ad un accordo siglato il 19 marzo 1997 che prevede un impegno di 50 miliardi in tre anni di investimenti, la dismissione delle produzioni considerate non strategiche (zuccheri, confezioni) e il potenziamento di produzioni strategiche ed esuberi per 320 unità42. Si manifesta, inoltre, l’impegno per 85 nuovi assunti e la riconferma, con un aumento di 15 unità, di tutti gli stagionali. L’assemblea di fabbrica tenutasi il 25 marzo si dichiara contro l’accordo, tale 40 41

Lucia Baroncini, Accordo senza Perugina, in “Corriere dell’Umbria”, 16 dicembre 1996, la dichiarazione è di Michele Di Toro, segretario regionale della Flai-Cgil. Ibidem.

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contrarietà è ratificata dal referendum tenutosi il giorno successivo con 790 voti contrari, 241 favorevoli, 7 schede bianche e 10 nulle43. Il 28 marzo l’azienda dichiara 385 esuberi, 65 in più di quelli previsti dall’accordo44. La chiusura definitiva della vertenza si avrà il 9 aprile e sarà formalizzata l’11 aprile. Gli esuberi torneranno 320, gli investimenti saliranno a 60 miliardi, le scelte produttive saranno riconfermate. La fabbrica che ne emerge è più flessibile, più aderente alla strategia della Nestlé, più adeguata alle dinamiche del mercato globale, ma soprattutto rappresenta un taglio con la realtà precedente. Questo perché avevamo costi elevati e basso valore aggiunto, eravamo una fabbrica poco snella, macchinosa, oserei dire artigianale. E loro invece volevano una fabbrica non solo linearizzata, ma in grado di dare risposte rapide ed efficaci a un mercato che si stava globalizzando a ritmi vorticosi. In parole povere la Perugina era un elefante a confronto di altre realtà45.

Di nuovo durante la trattativa e successivamente emerge il timore che la Nestlé voglia procedere alla chiusura della Perugina, ad un disimpegno nei confronti del territorio, ciò appare smentito dall’accordo siglato l’11 aprile che, a proposito delle produzioni che si intende ridimensionare e/o dismettere, afferma: Il nuovo bilanciamento produttivo verrà realizzato privilegiando la collaborazione con soggetti imprenditoriali locali che, grazie alla contiguità geografica con la fabbrica possano favorire il recupero di competitività delle produzioni e lo sviluppo – sul territorio – di nuove occasioni occupazionali. Ciò anche in relazione all’interesse espresso dagli Enti e le istituzioni locali relativamente all’avvio di iniziative che comportino positive ricadute nell’economia della zona46. 42

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Archivio Renato Covino, fasc. “Nestlé-Perugina”, Verbale di accordo tra la Nestlé italiana S.p.a. e la Rsu dell’Unità di Perugia - San Sisto, quest’ultima era assistita dalle segreterie nazionali e regionali dei sindacati di categoria, 19 marzo 1997; Perugina: ecco il perché di quella firma, comunicato dei segretari Regionali e provinciali di Cgil e Cisl, 21 marzo 1997. Perugina, il giorno della verità. Assemblee infuocate, qualcuno minaccia denuncie, in “Corriere dell’Umbria”, 26 marzo 1997; Roberto Sabatini, I lavoratori stracciano il patto. Alla Perugina in 790 votano contro l’accordo di Cgil e Cisl, in “Corriere dell’Umbria”, 27 marzo 1979; Cfr. Archivio Renato Covino, fasc. “Nestlé-Perugina”, Perugina: ecco il perché di quella firma, comunicato dei segretari Regionali e provinciali di Cgil e Cisl, 21 marzo 1997. Partono i licenziamenti. Durissimo colpo dell’azienda Nestlé alla Perugina. Dichiarati 385 esuberi: 65 in più dell’accordo bocciato, in “Corriere dell’Umbria”, 29 marzo 1997. Cristiano Alunni, Testimonianza, in La Perugina è storia nostra cit. (a nota 1), p. 264. Archivio Renato Covino, fasc. “Nestlé-Perugina”, Verbale d’accordo tra Nestlé italiana S.p.a. e Rsu dell’Unità di Perugia -San Sisto quest’ultima era assistita dalle segreterie nazionali e regionali dei sindacati di categoria, 11 aprile 1997.

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Capitolo XI L’ultimo ventennio: una conclusione provvisoria

Non si tratta di un disimpegno, ma di un cambio di passo e di fisionomia. L’ingresso definitivo nell’universo Nestlé viene favorito dall’uscita di scena dei manager di origine Buitoni e dall’ampio ricambio di forza lavoro, dall’entrata di molti lavoratori giovani che interiorizzano gli equilibri della rinnovata realtà produttiva. D’altro canto di fronte all’attuale Perugina sta un settore alimentare che ha visto notevoli riduzioni occupazionali ed in qualche caso (Parmalat) è stato al centro di vicende tutt’altro che edificanti. Pur ridimensionata l’occupazione alla Perugina si è attestata intorno a 1.300 unità, ulteriori elementi di semplificazione e flessibilizzazione della produzione, ad esempio la chiusura del torrefattore, di cui si comincia a parlare dal gennaio 200447, non hanno comportato cali significativi dell’occupazione. Si è anzi evitato lo smantellamento trovando una soluzione analoga a quella adottata per altri siti europei, ossia l’affidamento a terzi della torrefazione, con l’impegno della Barry e Callebaut, una multinazionale produttrice di semilavorati per l’industria cioccolatiera, evento che addirittura ha fatto parlare ai più ottimisti di Perugia come distretto di multinazionali. Il sistema di relazioni sindacali appare migliore rispetto ad altre realtà della provincia e della regione. La Perugina è ancora una delle grandi realtà del settore alimentare, uno tra i cinque stabilimenti che superano i mille addetti. Questo sembra appagare il nuovo gruppo dirigente sindacale di fabbrica, che si dichiara abbastanza soddisfatto della realtà attuale dell’azienda. Penso che chi oggi rimpiange il passato in modo acritico, magari facendo raffronti con i numeri di venti o trenta anni fa, commetta un errore… la rivoluzione tecnologica del terzo millennio […] ha imposto scenari diversi. E se è vero che gli organici si sono ristretti fortemente, è anche vero che è cambiata la qualità del lavoro. Un tempo alla Perugina c’erano molti più stagionali, oggi la nostra fabbrica è fatta al 90% di lavoratori a tempo indeterminato. E poi abbiamo contratti che difficilmente si trovano in altre realtà. Alla Perugina lo stipendio minimo di un part-time, che è fisso e quindi ha una copertura previdenziale per tutto l’anno, è di 800 euro netti, che moltiplicati per 14 mensilità più il Son (premio a obiettivo) fanno una cifra di tutto rispetto per un operaio che arriva al massimo a lavorare otto mesi l’anno48.

E ancora Abbiamo attraversato negli ultimi dieci anni dei cambiamenti così radicali che spesso hanno fatto pensare che questa azienda fosse destinata a morire. Ma così non è stato, […]. Questo centenario non è la fine di una storia e i fatti sono lì a dimostrarlo. A San

47 48

Cfr. Alunni, Testimonianza cit. (a nota 45), p. 270. Ivi, p. 265.

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Francesco Chiapparino, Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007

Sisto c’è la scuola del cioccolato, […], ci sono contratti di lavoro che limitano la precarietà, c’è in Cip, c’è un Museo storico, ci sarà un asilo nido tra i più importanti del paese49.

Più semplicemente, al di là delle voci che periodicamente sostengono la fine della Perugina, quest’ultima sia pure dimagrita di funzioni e di occupati, profondamente trasformata nella sua filosofia dall’inserimento in un grande gruppo multinazionale, continua nell’immaginario collettivo ad essere la fabbrica della città, oggetto di attenzione, nostalgia e di speranza.

49

Vincenzo Sgalla, Postfazione a La Perugina è storia nostra cit. (a nota 1), p. 293.

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Capitolo XI L’ultimo ventennio: una conclusione provvisoria

Abbreviazioni archivistiche

ACS ACSs ADSs ANDAr ANDPg ASAr ASBdI ASBP

ASCCPg ASF AscF ASLB ASPg ISUC

Archivio Centrale dello Stato (Roma) Archivio Storico Comunale di Sansepolcro Archivio Diocesano di Sansepolcro Archivio Notarile Distrettuale di Arezzo Archivio Notarile Distrettuale di Perugia Archivio di Stato di Arezzo Archivio Storico della Banca d’Italia (Roma) Csvi Consorzio Sovvenzioni Valori Industriali Archivio Storico Buitoni Perugina, Stabilimento Nestlé di San Sisto (Perugia) FP Fondo Perugina FB Fondo Buitoni DGAD Direzione Generale Amministratore Delegato DP Direzione del Personale DA Direzione Amministrativa DC Direzione Commerciale DT Direzione Tecnica Archivio Storico della Camera di commercio di Perugia Archivio di Stato di Foligno Archivio Storico del Comune di Foligno Archivio Segreteria Legale Buitoni, Stabilimento Nestlé di San Sisto (Perugia) Archivio di Stato di Perugia AscPg Archivio Storico del Comune di Perugia Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea AG Archivio Giampaolo Gallo

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Quaderni storici del Comune di Perugia

Mario Roncetti (a cura di), La fiera dei morti (gia di Ognissanti): lineamenti storici di un’antica tradizione perugina. Luigi Bonazzi, Storia di Perugia dalle origini al 1860. Giovanni Forni, Riflessioni intorno al combattimento punico-romano al Trasimeno nel 217 a.C. Mario Roncetti, Pietro Scarpellini e Franco Tommasi (a cura di), Templari e ospitalieri in Italia: la chiesa di San Bevignate a Perugia. Giorgio Brugnoli, Il Germanicus di Ludovico Aureli perugino. Walter Binni, La tramontana a Porta Sole: scritti perugini ed umbri. Ettore Franceschini sindaco di Perugia, 1920-1921, atti del Convegno “Riflessioni nell’80. Anniversario” (Perugia, 23 dicembre 2000). Alberto Grohmann (a cura di), Urbs ipsa moenia sunt: le mura di Perugia alla fine dell’Ottocento. Fulvio Mariottelli, Ragguaglio intorno alla Libraria Podiani. Alfredo Serrai, Il perugino Fulvio

Mariottelli primo teorizzatore della Biblioteca Pubblica. Paolo Bartoli (a cura di), Parole di pietra: le lapidi commemorative di Perugia dal 1860 al 2004. Benedetta Pierini, Una famiglia di litografi a Perugia: da Girolamo a Brenno Tilli tra otto e novecento, prefazione di Raffaele Rossi. Gianluca D’Elia, Storia della cremazione a Perugia: 1884-2005. Tommaso Rossi, Il difficile cammino verso la democrazia: Perugia 19441948. Michele Bilancia, Il muro nascosto: alla scoperta delle mura antiche di Perugia. Alberto Galmacci, Perché Perugia: un storia sull’origine ed evoluzione della citta e del suo territorio attraverso il confronto e l’interpretazione dei segni storici sulle mappe. Franco Bozzi, Giovanna Chiuini e Stefania Petrillo, Il Teatro Morlacchi di Perugia: lo scenario di un cambiamento. Francesco Chiapparino e Renato Covino, La fabbrica di Perugia. La Perugina 1907-2007.




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