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uesti scritti di Gianfranco Canali, storico non accademico nel cui lavoro si intrecciano costantemente rigore documentario e passione civile, si muovono a metà tra storia sociale e storia del movimento operaio. Il libro rappresenta un momento significativo della storiografia su una questione di rilevanza nazionale: Terni e la sua classe operaia, i suoi antifascisti e resistenti. Ma i lavori contenuti nel libro sono anche l’occasione per fare il punto su un tema ancora scarsamente studiato: quello della Resistenza nel contesto umbro. Il volume è quindi non solo un omaggio doveroso al lavoro di uno storico prematuramente scomparso, ma anche un’opportunità per riprendere il filo di ragionamenti da troppo tempo interrotti, nella speranza che dalla conoscenza del lavoro di Canali possa ripartire una nuova fase di ricerche e di studi. Indice del volume Nota editoriale; GIACOMINA NENCI, Presentazione. Gli operai e il movimento operaio a Terni: Classi sociali, mutualismo, resistenza e cooperazione a Terni nella seconda metà del XIX secolo; Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953; La classe operaia ternana durante il fascismo; L’opposizione operaia a Terni dalla Liberazione ai licenziamenti del 1953; Classe operaia e società a Terni nel secondo dopoguerra; Sindacato, grande industria e società a Terni dalla Liberazione alla Costituente; Conflittualità operaia nella Società Terni dalla Liberazione alla svolta del 1948; I Consigli di Gestione alla Società Terni. L’antifascismo, la guerra e la Resistenza: Intervista a Gianfranco Canali. L’esperienza di un ricercatore; Una proposta. Storia dal basso; L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna; Una società rurale in guerra: note sulle campagne umbre durante la seconda guerra mondiale; Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria; La lotta partigiana in Umbria; Appunti su un “pellegrinaggio laico e sentimentale”; Appunti per la biografia di un antifascista; Il Movimento di Liberazione a Terni dalla lotta armata alla riorganizzazione della vita cittadina; Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione. ALESSANDRO PORTELLI, Postfazione. ROSANNA PICCININI, Nota bio-bibliografica. Apparati: Sigle e abbreviazioni; Sigle e abbreviazioni archivistiche; Indice dei nomi di luogo; Indice dei nomi di persona.
GIANFRANCO CANALI
strumenti & documenti
GIANFRANCO CANALI
OPERAI, ANTIFASCISTI E PARTIGIANI a Terni e in Umbria a cura di GIANNI BOVINI, RENATO COVINO, ROSANNA PICCININI
Realizzazione Centro Ricerche Ambiente Cultura Economia (CRACE) via Baldeschi, 2 - 06123 Perugia tel. 075 5728095 fax 075 5739218 http://www.crace.it e-mail: info@crace.it
Direzione e coordinamento editoriale Gianni Bovini
Copertina e progetto grafico Vito Simone Foresi
Editing, redazione e impaginazione Marusca Ceccarini, Cristina Saccia
in copertina Il I Maggio 1908 a Campomicciolo (Terni)
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CRACE 2004 Tutti i diritti riservati ISBN 88-87288-18-6
prima edizione maggio 2004
Sommario V
Nota editoriale
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Presentazione GIACOMINA NENCI Gli operai e il movimento operaio a Terni
3
Classi sociali, mutualismo, resistenza e cooperazione a Terni nella seconda metà del XIX secolo
37
Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953
77
La classe operaia ternana durante il fascismo
89
L’opposizione operaia a Terni dalla Liberazione ai licenziamenti del 1953
101
Classe operaia e società a Terni nel secondo dopoguerra
115
Sindacato, grande industria e società a Terni dalla Liberazione alla Costituente
143
Conflittualità operaia nella Società Terni dalla Liberazione alla svolta del 1948
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I Consigli di gestione alla Società Terni L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
169
Intervista a Gianfranco Canali. L’esperienza di un ricercatore
172
Una proposta. Storia dal basso
174
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
206
Una società rurale in guerra: note sulle campagne umbre durante la seconda guerra mondiale
229
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
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La lotta partigiana in Umbria
261
261
Appunti su un “pellegrinaggio laico e sentimentale”
264
Appunti per la biografia di un antifascista
266
Il Movimento di Liberazione a Terni dalla lotta armata alla riorganizzazione della vita cittadina
273
Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione
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Postfazione ALESSANDRO PORTELLI
333
Nota bio-bibliografica ROSANNA PICCININI
strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifasciti e partigiani a Terni e in Umbria
Apparati
IV
340
Sigle e abbreviazioni
341
Sigle e abbreviazioni archivistiche
343
Indice dei nomi di luogo
347
Indice dei nomi di persona
GIANFRANCO CANALI, Operai, antifasciti e partigiani a Terni e in Umbria
Nota editoriale
strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifasciti e partigiani a Terni e in Umbria
Rispetto ai testi originali, sempre riportati al piede della pagina (e nella nota bio-bibliografica), le modifiche apportate hanno riguardato, oltre alle questioni grafiche, quelle relative all’uso delle minuscole e delle maiuscole, il cui uso è stato limitato alle denominazioni proprie e uniformato anche all’interno delle citazioni, nonché le citazioni archivistiche, che sono state uniformate in sigla e quindi “sciolte” negli apparati. Nell’indice dei nomi di luogo e di persona l’ordine alfabetico delle varie voci è quello restituito automaticamente dal computer. Per tutte le località vengono indicati tra parentesi il Comune e la Provincia di appartenenza, almeno nei casi in cui esse stesse non siano Comune o capoluogo di Provincia.
Nota editoriale
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Presentazione GIACOMINA NENCI
GIACOMINA NENCI, Presentazione
strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifascisti e partigiani a Terni e in Umbria
Gli scritti qui raccolti rappresentano quasi la totalità dalla produzione di Gianfranco Canali. Una produzione che si stende su circa diciotto anni, da quando Gianfranco si laureò, già trentenne, alla sua morte, nel 1998. Benché questi scritti riguardino in parte anche l’Umbria nel suo insieme, non c’è alcun dubbio che il loro oggetto principale e sostanzialmente esclusivo sia la comunità operaia di Terni, quasi che il contesto fisico più prossimo, la regione, servisse soprattutto a esaltarne la specificità, le differenze. Così, in questa rappresentazione, Terni, per un verso, è in rapporto con la realtà rurale che la circonda, quando la fabbrica e la campagna si congiungono nell’esperienza e, si direbbe, quasi nella persona fisica di un operaio che abbia mantenuto in vario modo legami con la terra; per un altro verso, è parte non secondaria, e talora anticipatrice, di un movimento operaio non locale. Sono i nodi del passaggio dal fascismo alla Liberazione e alla ricostruzione quelli che maggiormente interessano l’autore. Il programma di lavoro di Gianfranco è tracciato immediatamente all’inizio dei suoi studi e a esso si terrà strettamente fedele. Nel 1981, alle prese con le prime interviste, gli sembra che la voce di chi è stato protagonista in momenti cruciali della storia della comunità sia il modo migliore per comunicare ai giovani non solo informazioni, ma valori nei quali egli stesso crede profondamente. Pensa che si debba stabilire un rapporto diretto e continuato tra la scuola e i partigiani, perché questi formino le nuove generazioni attraverso i loro racconti. Racconti “che hanno – sostiene, rispondendo a una breve intervista sulle sue ricerche – la capacità di creare interesse nei giovani sia perché vi si ritrova il ritmo, gradevole, della narrazione popolare, sia perché in essi la vicenda individuale si lega alla storia collettiva e la storia si fa letteratura, senza che per questo vi sia perdita di attendibilità dal punto di vista scientifico”. Nello stesso anno, scrivendo di un’escursione nella montagna nursina, a caccia di colloqui e di immagini, esprime tutta la sua ammirazione per le parole ascoltate: “ciò che mi colpisce è la straordinaria padronanza che questi uomini dimostrano di avere del proprio passato: i loro racconti, infatti, non contengono mai semplicemente il passato così come è stato vissuto, ma anche e soprattutto, un passato a lungo e criticamente rivissuto. Tornando, mi rendo conto che (come era inevitabile vista la mia ‘retorica’ formazione culturale) ho vissuto questa giornata, l’incontro con questi uomini e con quei luoghi, come un pellegrinaggio sentimentale, sia pure laico”. Tre anni dopo, a proposito della biografia di un capo partigiano morto nel 1944, riflette sull’importanza della famiglia come “elemento fondamentale di trasmissione di valori
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antifascisti” e del quartiere proletario urbano come “centro solidale di resistenza alla penetrazione ideologica fascista”. Da queste brevi citazioni si capisce che la sua adesione alla comunità, a come essa si esprime attraverso i suoi rappresentanti politici nella Resistenza, nel sindacato, negli organi amministrativi, nei Partiti, e nel Partito Comunista in particolare, è totale. Secondo una convinzione cardine della cultura di area marxista, Gianfranco riconosce l’importanza politica della ricostruzione storiografica, ma invera questa convinzione nella dimensione della storia locale, della memoria della comunità. La supremazia delle forze politiche operaie nella vita politica cittadina all’indomani della Liberazione va, a suo parere, ricercata nella “forte autorità morale”, oltre che politica, che “forze interne alla classe operaia”, pur assai ristrette, si erano conquistate negli anni di maggior vigore del regime. Esse – scrive – avevano assolto, con la loro attività cospirativa, “l’importante funzione di non far perdere ai lavoratori la memoria storica del proprio passato e delle proprie tradizioni di lotta” e da questa funzione sarebbe disceso il loro ruolo negli anni successivi. La difesa della memoria, quindi, per esigua che fosse stata all’epoca, soffocata dal controllo e scacciata dalla pervasività sociale del regime, gli appare inscindibile dalla lotta politica seguente. La lettura dei testi di Gianfranco lascia viva l’impressione di una storia partecipata, come se la sua tensione principale fosse quella di farsi anch’egli un testimone di ciò che narrava. Non superficialmente un vecchio partigiano ha detto ai suoi funerali: “Gianfranco era uno di noi”. Sembra che nel suo racconto storiografico sia riconoscibile soprattutto la figura retorica del “medesimo”, ossia dell’immedesimarsi, dell’assumere in sé il punto di vista dell’attore della scena storica in questione, piuttosto che la figura retorica dell’“altro”, ossia dell’estraneità e dell’alterità, necessaria a restituire, attraverso la distanza, la compiutezza di un processo storico. Figure retoriche in contraddizione tra loro, ma complementari nel racconto della storia. Canali dichiarava con molta onestà la parzialità del suo punto di vista. Faceva sue le parole di Guido Quazza sul confronto tra interpretazioni diverse come unica oggettività storiografica possibile. E sistematicamente rappresentava le vicende politiche e sindacali degli operai ternani dall’interno della dialettica tra posizioni di base, più radicali, e posizioni di dirigenza, più caute, schierandosi tendenzialmente sempre con le prime. Molte sono le ripetizioni, gli echi da un saggio all’altro, nel lento cumularsi della ricerca, com’è normale che sia, e forse le insistenze in questo caso sono rese più evidenti da quell’adesione che si diceva all’oggetto di studio, in una volontà di messa a punto di un’identità sentita anche come propria. Due probabilmente i saggi più levigati, più nitidi, forse i più amati dall’autore. Quello del 1989, pubblicato nel volume Umbria nella collana di storia delle regioni Einaudi, dove la Terni del Comitato di Liberazione Nazionale, del Partito Comunista, dei Consigli di gestione, del sindacato – sulla quale Gianfranco ha già lavorato
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GIANFRANCO CANALI, Operai, antifascisti e partigiani a Terni e in Umbria
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diversi anni – si colloca in un respiro temporale più lungo e si incorpora nella trama, un po’ reale e un po’ inventata, del sovversivismo, che è qui anche fatica all’indisciplinamento della grande fabbrica. E l’altro sulla Resistenza, messo a punto per il convegno Dal conflitto alla libertà, nel quale rimarca il ruolo determinante della famiglia e della comunità nel far maturare scelte individuali, e anche di gruppo, in parte significativa delle leve partigiane umbre. Colloca cioè le scelte politiche nel contesto primario, quello famigliare, nel quale la memoria della comunità trova la sua prima difesa e luogo di narrazione. Una memoria che Canali aveva scelto di evocare e di custodire.
GIACOMINA NENCI, Presentazione
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Gli operai e il movimento operaio a Terni
Classi sociali, mutualismo, resistenza e cooperazione a Terni nella seconda metà del XIX secolo Nel maggio del 1885 l’esponente repubblicano Domenico Benedetti Roncalli così descrive l’associazionismo mutualistico umbro:
In realtà la situazione del mutualismo ternano, che fino al decennio precedente sarebbe risultata parte integrante di questo quadro, proprio in questi anni si avvia ad assumere un’impronta particolare. L’intensa fase di industrializzazione, avviatasi in città alla metà degli anni settanta, ha infatti indotto un processo di modifica radicale delle caratteristiche strutturali della società ternana e dei suoi “caratteri originali”. In conseguenza di questa profonda trasformazione economicosociale, significativi riflessi si hanno anche sulla fitta rete di società di mutuo soccorso sviluppatasi nel contesto cittadino fin dai primi anni postunitari. Esse per un verso vedono crescere al proprio interno spinte e pressioni indirizzate a modificarne scopi ed indirizzi, per l’altro sono costrette a cedere il passo a forme di associazionismo e cooperazione contrassegnate da esplicite caratteristiche di classe. Scopo di questo saggio è di esaminare gli attori, le vicende e le fasi di questa transizione e dei suoi sviluppi.
1. Nella Terni postunitaria gli orientamenti politico-sociali dominanti appaiono su-
Il saggio è stato pubblicato con lo stesso titolo in Studi sulla cooperazione, a cura di G. Bovini e R. Covino, Protagon, Perugia 1990, pp. 31-74. 1
D. Benedetti Roncalli, Antonio Maffi e gli operai nell’Umbria, in “Spartaco”, 10 maggio 1885. Per maggiori ragguagli sulla stampa locale citata si rimanda soprattutto a G. Giani, Raccolta di voci bibliografiche su Terni e territorio, Perugia 1977, pp. 491-548; Id., Terni cento anni d’acciaio. Bibliografia dell’industrializzazione, Perugia 1984, pp. 187-249.
Classi sociali, mutualismo, resistenza e cooperazione a Terni nella seconda metà del XIX secolo
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Nell’Umbria quasi tutte le iniziative di solidarietà popolare partono dalla filantropia calcolata e spontanea delle classi dirigenti. In luogo della previdenza che innalza l’uomo, predomina la beneficenza che umilia e rassoda la preponderanza da una parte e la soggezione dall’altra. Fino ad oggi nessun tentativo con risultati decisivi, oltre i limiti della mutualità e del piccolo risparmio accentrata in casse che a tutti prestano fuorché a coloro che le riempono. Aggregazioni di credito, di produzione, di consumo, di costruzioni, di appalti sono altrettanti lontani orizzonti completamente inesplorati1.
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bito determinati dal ruolo attivo che alcuni settori della borghesia urbana hanno avuto nel movimento risorgimentale. All’indomani della liberazione dal potere teocratico sono infatti i patrioti di vecchia data che, insieme ad alcuni dell’ultima ora, si propongono come classe dirigente assumendo la guida dell’Amministrazione Comunale e lanciando, significativamente, un manifesto alla cittadinanza che si conclude con un plauso “all’era novella in cui l’ingegno, le arti, le scienze, i costumi, i commerci, la vita civile e religiosa rifioriranno di luce sublime e immortale”2. In realtà le cose non andranno proprio così. Cadute le barriere protettive dello Stato Pontificio, le industrie dell’Italia settentrionale, tecnicamente più avanzate, mettono in evidenza la debolezza strutturale dell’industria manifatturiera ternana, facendola entrare in uno stato di profonda crisi3. Nel dicembre 1861 in un manifesto di saluto che “la cittadinanza” rivolge al sottoprefetto Maury, che viene a ricoprire il suo incarico a Terni, si esprime preoccupazione in quanto
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per le miserie dell’annata, per il caro dei viveri, molte braccia chieggono in gran mercé lavoro, e questo paese che per il momento trovasi divenuto frontiera del Regno, sente svigorite le industrie, languenti i commerci, esaurite le risorse della agricoltura4.
Le due maggiori fabbriche cittadine – la Ferriera della Società romana delle miniere di ferro e sue lavorazioni, ed il Cotonificio Fonzoli, Guillaume & C. – accusano un incipiente stato di crisi, che le costringerà in seguito ad un sensibile ridimensionamento sul piano produttivo ed occupazionale. Peraltro, l’aumentata fiscalizzazione e la perdita del tradizionale mercato di Roma costituiscono fattori di aggravamento di questa già difficile situazione, anche perché i loro effetti negativi insistono pesantemente sulla già arretrata agricoltura ternana5. In questo incerto quadro gli esponenti più consapevoli della borghesia cittadina, in buona parte con all’attivo un passato di impegno nella lotta risorgimentale, si pongono subito l’obiettivo di creare nella nuova società uscita dalla rivoluzione nazionale, attraverso forme diverse, elementi di coesione ed integrazione sociale. Nelle loro intenzioni ciò è anche indirizzato ad evitare che – non esistendo ancora un pericolo “a sinistra” – lo stato di crisi economico-sociale venga strumentalmente usato da quanti erano rimasti fedeli al vecchio regime per intensificare i “pochi” episodi di contestazione del nuovo ordine di cose6.
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A. Pozzi, Storia di Terni dalle origini al 1870 con un cenno sulla formazione del centro industriale fino al 1900, Spoleto 1939, p. 333. A. Bortolotti, L’economia di Terni dal 1700 ai nostri giorni (Appunti per una storia dell’economia ternana), Terni 1960, pp. 65 sgg. Pozzi, Storia di Terni cit. (a nota 2), p. 344. G. Gallo, Ill.mo Signor Direttore... Grande industria e società a Terni fra Otto e Novecento, Foligno 1983, p. 17. Pozzi, Storia di Terni cit. (a nota 2), p. 344.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
Che poteva spettare – scrive il sindaco al deputato del collegio, Silvestrelli – a Terni la quale vede in sé racchiuse le sorti industriali per molta copia di forze motrici che possiede?
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Al riguardo cfr. E.J. Hobsbawm, Tradizioni e genesi dell’identità di massa in Europa, 1870-1914, in L’invenzione della tradizione, a cura di E.J. Hobsbawm e T. Spencer, Torino 1987, p. 272. AST, ASCT, b. 438, fasc. 1, documentazione diversa. La citazione è tratta dall’attestato a firma del sindaco del 3 giugno 1861. Su questo “caritatevole sussidio della classe dei poveri” in epoca pontificia cfr. Pozzi, Storia di Terní cit. (a nota 2), p. 301. Pozzi, Storia di Terni cit. (a nota 2), p. 341. Ivi, p. 346. Il Regio Istituto Tecnico “Caio Cornelio Tacito” in Terni. Relazione generale, Terni 1899, pp. 8-9.
Classi sociali, mutualismo, resistenza e cooperazione a Terni nella seconda metà del XIX secolo
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In questa operazione volta a dare ai cittadini una propria e coesa identità collettiva ha rilievo la creazione di un diffuso “bagaglio simbolico e rituale prefabbricato” (“invenzione” di tradizioni ufficiali, “statuomania”)7. Si creano nuove festività laiche: ad esempio, la festa dello Statuto, l’anniversario dell’ingresso delle truppe piemontesi a Terni, la commemorazione della battaglia di Mentana. Peraltro sono festività in cui il cerimoniale riproduce spesso quello delle feste religiose. Esemplare in questo senso la festa dello Statuto del 2 giugno 1861, il cui calendario delle iniziative prevede una tradizionale estrazione per il conferimento di una dote di 100 lire a sei “povere ed oneste zitelle”8. Vengono inoltre cambiati i nomi a piazze e vie: piazza e via Corriera diventano così piazza e corso Vittorio Emanuele; via del Sesto si muta in via Garibaldi, via di Porta Sant’Angelo in via Cavour, piazza San Francesco in piazza Palestro, piazza San Pietro in piazza Milazzo e così di seguito9. L’erezione di un gran numero di monumenti è poi parte di un fenomeno di più vasta portata come nota uno storico cittadino, spulciando tra le carte dell’archivio comunale. “Nel 1865 – scrive Pozzi – si inizia l’epoca della monumentomania, per cui si trovano agli atti una serie di circolari e richieste di oblazioni, per innalzare monumenti nelle diverse città d’Italia ai più insigni patrioti”10. La creazione di una scuola laica, la modernizzazione della città e l’industrializzazione sono, in particolare, gli obiettivi su cui i settori maggiormente avvertiti della nuova classe dirigente locale puntano per rispondere, contemporaneamente, sia alla più vasta esigenza di creare consenso sociale, sia alle particolari aspettative di sviluppo, da loro stessi alimentate nel corso della lotta nei confronti del passato regime. Per questa ragione, dopo che il commissario generale straordinario dell’Umbria, Gioacchino Pepoli – interprete di prestigio delle potenzialità di crescita economica ed industriale della conca ternana – promuove con un decreto del novembre 1860 la creazione di un istituto tecnico a Terni11, il sindaco, Bernardino Faustini, lo difende dalla volontà governativa di trasformarlo in scuola superiore di commercio e di amministrazione, portando le ragioni peculiari di una “benemerita popolazione” che “ha sete di meccanica, ha urgenza assoluta di principi di agricoltura”.
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Uno istituto il quale fecondasse tutti questi germi latenti, uno istituto che levasse fama di sé, e svolgesse teoricamente nel pensiero della generazione nascente il modo di usufruire le ricchezze che abbiamo e che restano infeconde per abitudini di apatia, per pregiudizi e ignoranza oltre ogni credere radicata nelle masse dalla corruttela di un governo che odiava la luce, e la sapienza12.
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Di uguale rilievo e spessore, come si è detto, appare inoltre l’impegno del gruppo dirigente ternano per individuare possibilità di modernizzazione e sviluppo della città. Sintomatica al riguardo è la richiesta fatta al Consiglio Comunale da parte della Giunta, nel maggio 1861, per ottenere l’autorizzazione a stipulare un sostanzioso prestito da impiegare, tra l’altro, per alcune importanti opere pubbliche cittadine e per aumentare la portata di alcuni canali artificiali, in modo da offrire “agli italiani intraprenditori”13 una potenza motrice tale da indurli a venire ad edificare le loro fabbriche nel territorio ternano. Altra testimonianza di questo impegno è il fitto carteggio che gli amministratori ternani inviano, a partire dal 1860, ad interlocutori di prestigio, in diverse occasioni, sempre comunque rivolto a caldeggiare l’insediamento a Terni di una fabbrica d’armi. Indici di un impegno individuale sono poi i progetti per lo sfruttamento dell’energia ricavabile dalle acque del Velino elaborati nei primi anni sessanta dall’ingegnere Ottavio Coletti14. Ma la situazione politica di Terni, per tutto il decennio, è tale da non consentire la realizzazione di alcun progetto di sviluppo. In questo era stato buon profeta Pepoli allorché nel gennaio 1861, rivolgendosi al Municipio di Terni, scriveva: Ma perché l’industria, il commercio ed il lavoro fioriscano è forza la stabilità della nostra sorte, e le nostre sorti non saranno mai stabili che quando Roma sarà libera ed italiana. Quel giorno soltanto scompariranno gli ostacoli che ancora inceppano fra voi la vita industriale! Al silenzio delle vostre campagne succederà il rumore dei telai ed il fischio del vapore, ai cadenti casolari sostituirà la speculazione solidi ed ampi edifici; all’ozio mantenuto dei conventi, succederà il lavoro, poiché quell’acqua che scende limpida e meravigliosa per le chine delle vostre montagne feconderà la vostra industria15.
Peraltro la “questione romana” e la particolare situazione di Terni “città di frontiera” si configurano in questi anni come le linee focali su cui convergono le diverse forme di malessere socio-politico presenti nella città. Se, infatti, l’intera Umbria negli anni sessanta assume l’importante funzione “di avamposto nella battaglia con la S[anta] Sede, di base di comunicazione, di ascolto e di dialogo
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La lettera, datata 26 febbraio 1864, del sindaco di Terni Bernardino Faustini al deputato Luigi Silvestrelli è riportata in P. Borzomati, Un centro dell’Italia in sviluppo industriale. Opinione pubblica, stato religioso, classe politica e sociale, stampa a Terni dal 1840 alla fine del sec. XIX, Perugia 1965, pp. 112-122. Gallo, Ill.mo Signor Direttore cit. (a nota 5), p. 16. Ivi, pp. 16-19. La lettera del marchese Gioacchino Pepoli è riportata in “Gazzetta dell’Umbria”, 25 gennaio 1861.
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F. Bartoccini, La lotta politica in Umbria dopo l’Unità, in Prospettive di storia umbra nell’età del Risorgimento, Atti dell’VIII convegno di studi umbri, Gubbio-Perugia, 31 maggio-4 giugno 1970, Perugia 1973, p. 187. Oltre ai diversi ritagli da stampa contenuti in ACS, Carte Crispi. Palermo, fasc. 166, cfr. I. Ciaurro, L’Umbria e il Risorgimento. Contributo dato dagli Umbri all’Unità d’Italia, Bologna 1963, pp. 212-214. Cfr. A. Mezzetti, I miei ricordi sulle campagne 1866-67, Terni 1901, pp. 51 sgg.; Ciaurro, L’Umbria e il Risorgimento cit., pp. 214-228. Cfr. l’elenco dei volontari riportato in Ciaurro, L’Umbria e il Risorgimento cit. (a nota 18), pp. 272-282. Secondo il sindaco di Terni, in città vi sono anche alcuni “rappresentanti” di una Società fra gli Artisti Cappellai, che risulta diffusa “presso che in tutta quanta l’Europa” e la cui “Direzione Generale per l’Italia esiste in Milano”. Cfr. AST, ASCT, b. 455, fasc. 10, lettera del sindaco al sottoprefetto, 21 ottobre 1863. Il sodalizio fondato nel 1847 aveva un carattere laico e si denominava Società di Mutuo Soccorso fra gli Artisti ed i Cittadini di Terni. Tra i suoi promotori vi erano alcuni esponenti della borghesia liberale come Paolo Garofoli e Domenico Giannelli che significativamente non sono presenti nella rifondazione del 1853. Cfr. ivi, b. 414, fasc. 7, Statuto della Società di Mutuo Soccorso fra gli Artisti e i Cittadini di Terni, 1 dicembre 1847. Per la citazione cfr. Statuti della Pia unione di beneficenza fra gli artisti e i cittadini di Terni, Terni 1853, pp. 4-5.
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con la città assediata”16, ciò vale particolarmente per Terni. La sua posizione geografica, la presenza in città di esponenti di primo piano del Partito d’Azione, la larga partecipazione di volontari ternani alle imprese garibaldine devono inevitabilmente produrre conseguenze17. Nel giugno 1867 una “banda” di oltre cento volontari parte da Terni alla volta di Roma per promuovere al suo interno l’insurrezione. L’intervento di reparti dell’esercito regio nella zona di confine fa però fallire questo colpo di mano”. Nel tentativo dell’autunno successivo, che si concluderà tragicamente a Villa Glori, Terni risulta ancora protagonista, configurandosi come sede “naturale” per il comitato insurrezionale esecutivo della spedizione18. Al riguardo merita di essere sottolineato come complessivamente, a partire dal 1848, siano stati più di 500 i ternani partecipanti come volontari alle guerre di indipendenza e, in particolare, alle diverse imprese garibaldine19. Ciò peraltro non manca di avere conseguenze importanti per la città, contribuendo in maniera determinante a consolidare in essa un humus fortemente permeato di patriottismo e anticlericalismo. Ed è per l’appunto l’ideologia laica, patriottica ed anticlericale a configurarsi, in questo decennio postunitario come il più importante terreno di incontro tra le classi cittadine. Essa viene usata dai ceti dirigenti moderati a sostegno del nuovo ordine politico e sociale. In questa operazione le società di mutuo soccorso si configurano come uno dei canali privilegiati di diffusione di questa ideologia. Al 1863, di fatto, in città risulta presente una sola società di mutuo soccorso, la Pia Unione di Beneficenza fra gli Artisti e Cittadini di Terni20. Tale associazione, fondata nel 1847, aveva subito nel 1853 una riorganizzazione, in seguito alla quale veniva stabilito che essa sarebbe stata “posta sotto la dipendenza, e speciale protezione di S.E.R. ma monsignor vescovo di Terni pro tempore, e presieduta dal capo del Municipio della città stessa”21.
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Lo scopo statutario di questa istituzione è quello di “soccorrere quelle persone ascritte alla medesima, le quali per malattia non avessero di che vivere”. E ciò vale “non solo [per gli] operai e lavoranti, ma anco [per i principali e padroni di bottega, maestri di arte, e cittadini tutti”22. Nel 1864 negli ambienti del ceto politico di estrazione risorgimentale viene invece promossa la costituzione di un nuovo sodalizio di mutuo soccorso: la Società degli Operai23. Tra i suoi soci promotori vi sono i patrioti Domenico Giannelli e Adriano Sconocchia, che ne saranno nominati, rispettivamente, presidente e vicepresidente24. L’associazione si dà come obiettivo primario “la fratellanza e la reciproca solidarietà e comunione degli uomini” e per questo si indirizza a “promuovere l’istruzione, la moralità, il benessere degli operai, affinché eglino pure possano cooperare efficacemente al miglioramento indefinito dell’umanità”. Al riguardo è significativo che i soci tra i loro doveri abbiano anche quello di promettere sul loro onore “alla presidenza di condurre una vita operosa, sobria ed onesta, di astenersi dall’abuso del vino, e bevande spiritose, non che dall’abuso del giuoco”25. Del resto i valori fondanti del sodalizio sono eloquentemente sintetizzati nella scritta posta sulla sua bandiera: “patria e lavoro”26. L’impianto paternalistico della società appare dunque trasparente. Esso risulta riassunto in maniera efficace anche dal presidente Giannelli in una sua lettera indirizzata alla Giunta Municipale: “Scopo principale dell’associazione è la moralizzazione dell’operaio, il quale nelle città soggette al clericale dominio è stato abbandonato a se stesso perché si amava demoralizzare la classe più numerosa della società”27. Al riguardo la prevista differenziazione dei soci all’interno del sodalizio costituisce un’ulteriore riprova dell’interessato ruolo di tutela che i ceti egemoni si riservano nei confronti delle classi subalterne cittadine. I soci vengono infatti distinti in effettivi ed onorari. I primi non possono essere che operai ed esercenti arte o professione liberale, o capi di negozio ed industria. I secondi sono tutti quei cittadini che dimostrando interessamento per questa associazione concorrono a provvederne ai bisogni col pagamento dei rispettivi contributi28.
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Statuti della Pia unione cit. (a nota 21), p. 3. Regolamento degli operai di Terni, [Terni 1864]. In seguito il sodalizio verrà correntemente definito Società Operaia o Società Generale Operaia. Per un breve profilo biografico di Domenico Giannelli e Adriano Sconocchia si veda A. Pozzi, Ternani del passato. Il grande, gli insigni, gli illustri, Terni 1942, rispettivamente p. 154 e p. 152. Su Domenico Giannelli cfr. supra nota 21. Regolamento cit. (a nota 23), pp. 3, 7. Società Operaia di Terni, Conto reso dal consiglio di amministrazione per l’anno 1878. Anno 15° di sua fondazione, Terni 1879, p. 14. AST, ASCT, b. 464, fasc. 13, lettera di Domenico Giannelli, 11 maggio 1864. Regolamento cit. (a nota 23), p. 4.
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Ma mentre, indistintamente, ogni socio è tenuto a pagare un contributo settimanale di trenta centesimi, il sussidio in caso di malattia od infortunio viene invece riservato ai soli soci effettivi. Alla svolta del decennio questo sodalizio arriva a contare 240 soci effettivi e 44 onorari29. D’altra parte in sensibile e costante crescita appare l’insieme dell’associazionismo mutualistico cittadino. Nel 1868 viene costituita la Società Generale Operaia fra gli Artieri, nel 1870 la Società di Mutuo Soccorso dei Cappellai30, tra il 1870 ed il 1877 si assiste all’istituzione di tre nuovi sodalizi: rispettivamente, tra i sarti, i calzolai e gli agricoltori31. Del resto negli anni settanta, sul versante economico e sociale, è l’intera situazione cittadina a mettersi in movimento.
Come previsto da Pepoli, nel 1870 la presa di Roma, facendo uscire Terni dall’angusta condizione di città di frontiera, schiude ad essa la via verso uno sviluppo industriale di tipo moderno. Il nuovo decennio si apre con un importante avvenimento per la città: la decisione presa dal governo nel 1872 – e ratificata successivamente dal Parlamento – di costruire a Terni una fabbrica d’armi. Le diverse tappe attraverso cui si giunge a questa deliberazione governativa sono ormai largamente note per doverle qui ripercorrere32. È invece doveroso precisare, come è stato già fatto, che se da un lato, “nel gioco complesso che aveva avuto come risultato la decisione di costruire nella città uno stabilimento militare, gli amministratori locali non si erano certamente dimostrati degli spettatori inerti”, dall’altro ciò non deve servire a non tener conto “della complessità degli interventi e dei fattori che furono alla base della nascita della grande industria e soprattutto del peso esercitato da alcuni centri decisionali, finanziari, economici e politici, esterni alla città”33. Nel 1873 viene impiantato lo stabilimento degli Alti Forni e Fonderia di Terni per la produzione di ghisa e, successivamente, di tubi. Nello stesso anno il Lanificio F. Gruber & C., sorto tra il 1869 e il 1870 dall’acquisizione e trasformazione del Cotonificio Fonzoli, Guillaume & C., avvia una ristrutturazione produttiva che gli consente agli inizi del 1877 di dare occupazione a 425 operai. Nel maggio del 1875 hanno inizio i lavori di costruzione della Fabbrica d’Armi. Questa apertura verso 29
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AST, ASCT, b. 525, fasc. 4, Rendiconto d’amministrazione della Società operaia relativo all’anno 1868, 20 marzo 1869. A. Grohmann, Primi momenti dell’associazionismo operaio in Umbria: le società di mutuo soccorso, in Prospettive di storia umbra cit. (a nota 16), p. 493. Lui, Corrispondenze, in “L’Eco dell’Umbria”, 6 e 12 maggio 1877. Per questo si rimanda soprattutto a Gallo, Ill.mo Signor Direttore cit. (a nota 5). Ivi, pp. 19, 20.
Classi sociali, mutualismo, resistenza e cooperazione a Terni nella seconda metà del XIX secolo
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una moderna economia industriale produce importanti riflessi sul piano demografico e sociale. Il censimento del 1861 rileva a Terni la presenza di 14.663 abitanti; nel 1871, a causa soprattutto del lungo periodo di stagnazione economica, il nuovo censimento registra 15.037 abitanti, con un incremento di appena 374 (+2,55%)34. Completamente diversa risulta invece la situazione nella seconda metà degli anni settanta. Secondo i dati forniti dall’ufficiale di statistica del Comune al giornale di Spoleto “La Nuova Umbria”, nel 1876 a Terni risultano immigrate 141 famiglie (contro 56 emigrate) e la popolazione complessiva è di 17.523 abitanti (di cui 16.515 stabili e 1.008 fluttuanti)35. In soli cinque anni si registra dunque un incremento di 2.486 abitanti, di cui la gran parte sono, verosimilmente, operai. Di fronte a questo avvio di trasformazione della struttura sociale cittadina, alla seria messa in discussione di ormai consolidati equilibri sociali e politici, le classi dirigenti cittadine, attive negli anni precedenti nel promuovere l’industrializzazione della conca ternana, appaiono colpite da quella che potrebbe essere definita come la “sindrome dell’apprendista stregone”, il timore, cioè, di non riuscire a controllare gli effetti del fenomeno da loro stesse evocato. Infatti, nella fase che va dalla metà degli anni settanta ai primi anni ottanta, i ceti dirigenti cittadini assumono un atteggiamento ambivalente nei confronti di questa classe sociale in espansione. I loro comportamenti rendono evidente come essi percepiscano all’interno del proletariato “due diversi gruppi – le classi laboriose e le classi pericolose – a seconda del loro modo di essere rispetto al processo produttivo: laboriosamente diligenti e partecipi, oppure pericolosamente oziose ed escluse”36. Se infatti nel vocabolario dei ceti dirigenti politicamente più avvertiti il proletariato viene “benevolmente” identificato come “classe laboriosa”, ciò spesso tradisce più una tendenza all’auto-rassicurazione, che un uso intimamente convinto dell’aggettivo. Le nostre società operaie, riunite in un fascio le loro bandiere – scrive il corrispondente da Terni de “La Nuova Umbria” nell’aprile del 1877 – nei giorni 29 e 30 del corrente [anniversario della difesa della Repubblica romana] celebrano delle feste [...] Noi siamo ben lieti di questa manifestazione dello spirito che anima la classe laboriosa di questa città; però che ci da l’idea del suo benessere, il quale non è certamente eguale in tante altri parti d’Italia, ove l’operaio trovasi in uno stato di degradazione morale, degradazione che ha origine specialmente dalla mancanza del lavoro. Noi quindi speriamo che le seduzioni con cui il così detto internazionalismo cerca di adescare il povero operaio, non travieranno i nostri al punto di farne leva di disordine. E poiché l’operaio ternano è amante del lavoro ed è dotato di molto buon senso; noi speriamo che in questi giorni di riposo e di festa trarrà profitto per dedicarsi poi con più lena a guadagnarsi quel pane di cui ha bisogno per vivere, e che è tanto più decoroso quanto lo è più sudato37. 34
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Oltre a Bortolotti, L’economia di Terni cit. (a nota 3), p. 169, cfr. Gallo, Ill.mo Signor Direttore cit. (a nota 5), p. 24. Corrispondenze, in “La Nuova Umbria”, 25 gennaio 1877. La costruzione sociale della devianza, a cura di M. Ciacci e V. Gualandi, Bologna 1977, p. 25. Corrispondenze, in “La Nuova Umbria”, 29 aprile 1877.
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Bollettino, in “Patatrac!”, 12 agosto 1876; Alba del Socialismo a Terni, in “La Turbina”, 22 gennaio 1910. F. Alunni Pierucci, Il socialismo in Umbria (dalle origini all’avvento del fascismo), Città di Castello 1985, p. 66. Su Gualtiero De Angelis cfr. ACS, CPC, b. 1636, fasc. “De Angelis Gualtiero”. Bollettino, in “Patatrac!”, 23 settembre 1876. Gli anarchici. Cronaca inedita dell’Unità d’Italia, a cura di A. Dejaco, Roma 1971, p. 281. Lui, Corrispondenze, in “L’Eco dell’Umbria”, 6 e 12 maggio 1877. Vostro, Corrispondenze, in “La Nuova Umbria”, 6 maggio 1877. Ibidem. Per il corrispondente dell’“Eco dell’Umbria” sono presenti le seguenti società: “de’ reduci, di mutuo soccorso,
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D’altro canto appare abbastanza normale che in questi anni a causa dell’affacciarsi sulla scena sociale del proletariato le classi dirigenti paventino lo spettro della Comune di Parigi o dell’Internazionale. Tra l’altro, a Terni non mancano segni ancora modesti, ma in grado di giustificare questo timore. Nell’agosto del 1876 si costituisce in città un “Circolo socialista” con una trentina di iscritti38. Quando il giorno 20 dello stesso mese si svolge a Jesi il II congresso della Federazione Umbro-Marchigiana aderente all’Associazione Internazionale dei Lavoratori, questo “circolo operaio” è rappresentato dall’ex volontario garibaldino delle campagne del 1866-1867, Gualtiero De Angelis39. Sempre nel settembre 1876, significativamente, gli scalpellini, che lavorano alla costruzione dello stabilimento della Fabbrica d’Armi, si mettono in sciopero “non potendo vivere per l’esasperato ribasso del prezzo del lavoro”40. Nell’aprile dell’anno successivo tra i componenti della “banda del Matese” è presente anche un tappezziere ternano di 26 anni, Carlo Pallotta41. Sono episodi che se pure hanno una relativa rilevanza, comunque possono contribuire ad aggiungere preoccupazione a chi preoccupato lo è già. Inoltre, da questo punto di vista anche la stessa crescita dell’associazionismo mutualistico operaio o, ancor meglio, il suo farsi portavoce di una domanda politica che sale dal basso può diventare un ulteriore elemento di inquietudine. Significativo al riguardo è quanto avviene nel corso delle ricordate feste popolari del 29 e 30 aprile 1877. In questa occasione gli operai, raccolti sotto le bandiere delle loro società, trasformano la commemorazione da “passatempo” in “fatto politico”42. Essi infatti, dando una esplicita dimostrazione della loro unità, rivelano – secondo la parafrasi da “La Carmagnola” usata dal corrispondente ternano de “La Nuova Umbria” – che “sono una forza, che è tempo che i piccoli diventino grandi”43. Ciò è sufficiente a far sì che a Roma si diffonda la voce, raccolta e pubblicata dal “Dovere”, che a Terni è stata proclamata la “Comune”44. In realtà, prescindendo dalla cattiva coscienza dei ceti egemoni, va detto che la “classe laboriosa”, nella sua grande maggioranza, non dimostra affatto in questa circostanza una particolare pericolosità politica. Rivelatori al riguardo sono non soltanto lo svolgimento del tutto ordinato della commemorazione patriottici dell’aprile 1877, ma anche il fatto che sostanzialmente le società operaie manifestanti sono ancora espressione dei livelli organizzativi – in buona parte indotti dalle classi dominanti – dei ceti popolari tradizionali45.
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Più in generale, poi, non è privo di significato il fatto che dai settori internazionalisti del nascente movimento operaio giungano aperte dichiarazioni di sfiducia ed avversione nei confronti dell’associazionismo mutualistico:
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La borghesia borsaiuola – scrive nel 1876 un corrispondente del “Patatrac!” – si vede seriamente minacciata nei suoi più vitali interessi dal progressivo sviluppo delle teorie rivoluzionarie e dall’incessante agitarsi delle masse popolari, e a salvaguardarsi, ma invano dall’estrema rovina, tenta di porre sul tappeto tutti i rimedi effimeri al lucro cessante ed al danno emergente che il desiderio della propria conservazione suggerisce. Di qui l’affannarsi continuo dei benpensanti a promuovere cucine economiche, magazzeni cooperativi, case di beneficenza ed altri simili cataplasmi dell’usurpazione, che rassomigliano ad altrettanti empiastri applicati su gambe di legno, affine di neutralizzare, se pure è possibile, il cozzo naturale degli estremi antagonismi46.
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In ogni caso quanto accade a Terni sulla fine dell’aprile 1877 costituisce un evidente segnale del fatto che in città si sono avviate dinamiche politiche e sociali nuove. Ed a ben guardare si evidenzia come a generare inquietudine tra i ceti dirigenti non sia tanto il costante aumento del peso specifico in città del proletariato di fabbrica, quanto piuttosto il fatto che esso dimostra in più occasioni di non possedere alcuna volontà di adattamento al nuovo ordine socio-economico profilantesi all’orizzonte. La stampa liberale cittadina rimprovera all’operaio i “suoi ozi di Capua pericolosi”, i suoi persistenti vizi: l’intemperanza (“quella trista smania della crapula e della gozzoviglia che fra gli operai tiene alta la bandiera”), la dissolutezza (“molti sciupano cinquantadue giorni di utile lavoro per ardere il loro granellino d’incenso alle ore bugiarde di Venere e di Bacco”), l’imprevidenza e il “San Lunedì” (“Una mano sulla coscienza e poi dite se è vero o no che anche da noi dopo il giorno di riposo della domenica viene per molti il lunedì che è il giorno dell’imprevidenza, dell’ozio e del vizio”)47. Se a ciò si aggiunge poi – scrive “L’Unione Liberale” – che, mentre il giorno di festa dovrebbe essere di un onesto riposo per chi sottostà ad una vita faticosa negli altri giorni, viene invece consacrato dai più alla crapula ed alla ubriachezza, non si può fare a meno di ravvisare come questo sistema di vita sia di indiscutibile nocumento all’esistenza materiale e morale di chi abbisogna di forza di muscoli e di robustezza d’animo per campare la vita. E quando si studia la moralità nelle bettole e nelle stamberghe fra una partita alla morra ed un giro alla briscola ed al fioco lume di una annerita lampada a petrolio, ma a quello assai più nutrito delle mezzine e dei litri, non è a farsi le meraviglie se il livello morale della moderna società operaia non è all’altezza delle nobili aspirazioni di questa classe di persone48.
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degli artieri, dei sarti, dei cappellai, dei calzolai e degli agricoltori”. Cfr. Lui, Corrispondenze, in “L’Eco dell’Umbria”, 6 e 12 maggio 1877. O. Vaccari, Dalla Valle del Po, in “Patatrac!”, 7 ottobre 1876. Cfr. la rubrica Corriere Operaio, in “L’Unione Liberale”, 23 gennaio 1881 e 13 marzo 1881. Ivi, 23 gennaio 1881.
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Per dei borghesi liberali, malthusianamente convinti delle responsabilità che il lavoratore ha per la sua misera condizione, logica conseguenza diventa quella di insegnargli le forme ed i modi per uscire dal suo stato di minorità e di abbrutimento. E soprattutto a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta che le classi superiori ternane mettono a punto ed avviano nei confronti del proletariato un’articolata operazione di indirizzo e controllo mirante ad ottenere la sua attiva partecipazione al processo di trasformazione economico-sociale in atto.
L’apertura delle Scuole Tecniche Popolari a Terni nel 1876 è un’iniziativa che va nella direzione di cui si è detto; come del resto in questo senso vanno anche le recriminazioni avanzate nel 1880 dai membri direttivi della Biblioteca Circolante di Terni nei confronti del disinteresse mostrato verso l’istituzione da parte di “coloro che per autorità o agiatezza di fortuna si possono più e meglio degli altri occupare di ciò che concerne il pubblico bene”50. Ciò peraltro avviene proprio nel momento in cui l’utenza della Biblioteca si avvia ad essere prevalentemente operaia51. Ed infatti, non a caso, da parte della direzione si ammonisce: Non basta mica l’allargarsi ed il diffondersi delle cognizioni positive della scienza per rialzare il livello della coltura popolare: è necessaria anche l’educazione del sentimento, è necessario trasfondere nelle vene di questo popolo nuove e più pure onde di sangue morale52.
Sono in particolare i valori smilesiani del self-help, a presiedere l’operazione pedagogica avviata dai più avveduti borghesi ternani. L’aspetto più insinuante di essa è l’insistente ripetizione, che viene fatta in discorsi ufficiali, opuscoli e giornali, di massime di facile apprendimento esortanti al lavoro (“il tempo è denaro”), alla previdenza (“un buon principio è metà dell’opera”), al risparmio (“coi centesimi si fanno gli scudi”)53. In questa cornice, per i ceti dominanti progressisti, lo sviluppo di istituzioni
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Discorso inaugurale pronunciato in occasione dell’apertura delle Scuole Tecniche Popolari di Terni dall’ingegnere Ottavio Coletti presidente del comitato direttivo, Roma 1876, pp. 7, 8. Biblioteca Circolante di Terni, Relazione della Direzione, Terni 1882, p. 4. Nell’anno 1876-77, su un totale di 239 lettori, si contano 49 operai; a tre anni di distanza, nel 1879-80, su un totale di 361, i lettori operai risultano 114. Ibidem, p. 5. Biblioteca Circolante di Terni, Relazione cit., p. 6. Sulla diffusione in Italia del “messaggio” di Samuel Smiles cfr., tra gli altri, G. Baglioni, L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Torino 1974, pp. 325 sgg.
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Fra voi uomini dei lavoro manuale, e noi uomini del lavoro intellettuale è necessario sussista quell’armonia portentosa che passa fra il cervello e gli altri organi del corpo – dice l’ingegnere Ottavio Coletti nell’inaugurare le Scuole Tecniche Popolari; ed aggiunge poi – [...] imperocché sia manifesto che a poco o nulla gioverebbero le immense risorse prodigateci dalla natura ove mancasse nelle classi operaie l’attitudine e la volontà di applicarle utilmente49.
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mutualistiche diventa fondamentale allo scopo di fugare il pericolo dello scontro di classe:
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Noi pure – scrive un redattore dell’“Unione Liberale” nel novembre 1880 – cominciamo la nuova vita, nella quale il diritto è sostituito alla violenza, e risplende il sole dell’associazione che feconda la giustizia e la libertà. Le vere società di mutuo soccorso che pensano a soccorrere i soci moralmente e materialmente, sono figlie delle antiche associazioni, ma appaiono rinnovate mercé un ben inteso spirito di amore fraterno. Intorno ad esse vi sono raggruppate istituzioni molteplici: sono scuole, sono circoli, sono prestiti d’onore, sono cooperative, basate tutte sul fondamento di mutuo soccorso54.
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Non a caso dunque nei primi anni ottanta a Terni si registra un’ulteriore sensibile crescita del mutualismo cittadino. Nel 1881 i sodalizi superano la decina e, in buona parte, appaiono saldamente egemonizzati dagli esponenti di maggior spicco dei partiti borghesi. Liberali, democratici e radicali danno forma ed indirizzo all’attività delle società operaie, facendo in modo che esse continuino a svolgere un ruolo attivo nell’agone politico cittadino. Nell’aprile 1881 è l’insieme dell’associazionismo di Terni e del circondario – in testa quello mutualistico – ad assicurare la riuscita di un comizio a favore del suffragio universale. “L’Unione Liberale” commenta che in questa occasione la popolazione operaia ternana ha evidentemente dimostrato che vuole ed è degna di esercitare tutti i diritti che godono gli altri cittadini”55. Nel giugno del 1883 la commemorazione della morte di Giuseppe Garibaldi vede presenti in corteo, insieme a molte associazioni e circoli democratici, dodici istituzioni mutualistiche cittadine56. Le nuove società, che si sono venute sin qui costituendo, continuano ad organizzare in prevalenza i tradizionali ceti urbani artigiani (barbieri, mugnai, pastai e fornai). Tra esse si comincia però a registrare anche la presenza di sodalizi esclusivamente formati da proletariato di fabbrica, come la Società di Soccorso tra gli Operai dello Stabilimento Gruber o la Società dei Tessitori dello stesso stabilimento. Essi si configurano come i primi significativi riflessi della trasformazione economica e sociale che sta subendo la città. In questo contesto di mutamento la tradizione democratica, repubblicana e radicale tende ad informare sempre più di sé il mutualismo ternano57. Alla fine del settembre 1886 si costituisce un comitato delle società democratiche che, “interpretando il sentimento dell’intera popolazione”, chiede ufficialmente le dimissioni del Consiglio Comunale a maggioranza moderato58. Il bersaglio è anche la legge 54 55 56 57 58
Le società di mutuo soccorso, in “L’Unione Liberale”, 14 novembre 1880. Faccende di casa. Il comizio di domenica, ivi, 10 aprile 1881. Ordine del corteo, ivi, 2-3 giugno 1883. Bruto, Dalla provincia, in “Spartaco”, 7 dicembre 1884. Cronaca di Terni. Ultimo corriere. Il manifesto delle società riunite contro l’Amministrazione Comunale, in “Il Messaggero”, 2 ottobre 1886.
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3. A Terni i fatti economici che contrassegnano il periodo più convulso dello sviluppo industriale sono essenzialmente tre65. Nel 1882, con molto ritardo sul previsto, entra in produzione la Fabbrica d’Armi; nel 1884 iniziano i lavori di costruzione degli impianti industriali della Società degli Alti Forni, Fonderie ed Acciaierie di Terni (SAFFAT), il cui avvio produttivo si ha nel 1886; tra il 1884 e il 1886 viene impiantato lo Jutificio Centurini. 59 60 61 62 63 64 65
Cronaca di Terni. Le faccende municipali, ibidem. ACS, Rapporti prefetti, b. 16, fasc. 46, Relazione del prefetto, 30 settembre 1887. Ivi, Relazione del prefetto, 31 maggio 1887. Storia retrospettiva dell’Amministrazione Comunale. IX, in “L’Avvenire di Terni e dell’Umbria”, 27 marzo 1890. Una curiosa statistica, ivi, 14 novembre 1889. Corriere operaio, in “L’Unione Liberale”, 5 giugno 1881. Su questo cfr. soprattutto Gallo, Ill.mo Signor Direttore cit. (a nota 5).
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sul voto amministrativo che consente ai consiglieri comunali di essere eletti “in media con tre o quattrocento voti in una città che supera i ventimila abitanti”, difatti “un numero così esiguo di elettori non rappresenta che la solita combriccola di amici, aderenti ed interessati”59. Nel settembre 1887 il prefetto dell’Umbria nota come sul territorio regionale i maggiori esponenti repubblicani stiano adottando una “nuova tattica [...] che consiste nella lenta e progressiva organizzazione del partito stesso e nel far convergere quest’unico fine tutte le forze del mutuo soccorso”60. E ciò, ovviamente, avviene soprattutto in quelle che sono considerate le due roccaforti dei repubblicani umbri: Terni e Foligno61. Nel 1888 è l’appoggio dell’insieme delle società democratiche – di cui larga parte sono quelle di mutuo soccorso – a consentire una vittoria alle elezioni parziali amministrative delle forze progressiste sui “clerico-moderati”62. Nel novembre del 1889 è sempre questo cartello di forze a far sì che nel rinnovato Consiglio Comunale si contino, secondo quanto riferisce “Il Messaggero”, 12 repubblicani, 6 socialisti, 4 liberali, 2 democratici e 2 di “color dubbio”63. Il tentativo della classe politica progressista – liberale e democratica – di contrapporre un programma di riforme graduale e controllato “alle utopie sovversive, ai conati anarchici, alle imprese dei tribuni temerari e delle turbe forsennate”64 è però destinato a scontrarsi con gli effetti prodotti in città dalla fase di intensa industrializzazione avviatasi negli anni ottanta. L’avvento della grande industria e la conseguente massiccia emigrazione operaia, che a partire dalla fine del 1882 si riversa su Terni, travolgono il graduale processo di evoluzione degli equilibri sociali, politici ed economici tra le classi cittadine. La presenza di un’aspra e persistente conflittualità sociale si avvia a diventare sempre più l’elemento caratterizzante della città.
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Sono soprattutto le possibilità di occupazione offerte da questi tre stabilimenti industriali a richiamare a Terni un continuo afflusso di immigrati, tanto massiccio che gli abitanti residenti aumentano dai 15.773 del 1881 ai 28.357 del 1889, anno in cui una stagnazione produttiva blocca temporaneamente questo formidabile trend di crescita66. Una discreta parte dei tecnici e della manodopera qualificata proviene dalla Francia e dal Belgio. Considerevoli quote di operai specializzati giungono anche dalle regioni italiane maggiormente industrializzate come il Piemonte e la Lombardia. Alto è l’afflusso di veneti, romagnoli e marchigiani67. Il circondario di Terni fornisce prevalentemente manovalanza generica (“uomini provenienti dai campi dove non fecero altro che arare la terra o guardare le vacche”)68 e manodopera femminile. La città viene bruscamente trasformata in un ammasso di uomini, “soverchiamente grande in confronto alla ristretta superficie del comune, all’ancor più ristretta superficie della città, e alla scarsezza delle case esistente”69. La condizione operaia di questi anni viene descritta con tinte fosche dai contemporanei. Nel 1886 Ottavio Angeli scrive a “Il Messaggero”:
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Andiamo a Terni! Andiamo a Terni! – grideranno in cuor loro chissà quanti operai. E veramente i poveretti allettati dall’idea del guadagno si vedono in gran numero arrivare ogni giorno da tutte le parti, ma non trovano che delusioni. In cambio del lucro che avevano sognato, non trovano che lo strozzino, l’affarista, il bagarinaggio, sanguisughe che succhiano il sangue dell’operaio. Sulla scarsezza delle abitazioni specula il proprietario, il quale non solo esige prezzi esorbitanti, ma un trimestre di anticipo ed una garanzia personale per ogni evento: mentre la giornata degli operai basta appena per sfamarli. [...] In tale deplorevole condizione al lavoratori non restano che due vie: o sottomettersi, se vi riescono, alle enormi pretese dei padroni di casa, e in questo caso devono assottigliare la razione del pane alla famiglia; o fare come tanti loro compagni vivere alla rinfusa come bestie70.
Di fronte a questa drammatica situazione, che inevitabilmente si carica di tensioni sociali, le tradizionali classi dominanti si rivelano impotenti. L’unico provvedimento che riescono a prendere – la promozione di una cooperativa per la costruzione delle case operaie nel 1883 – non porta a risultati di rilievo71. Una risposta – in realtà anch’essa molto limitata – alle difficili condizioni di vita e di lavoro del nuovo proletariato industriale sembra comunque venire dal 66
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R. Covino, G. Gallo e L. Tittarelli, Industrializzazione e immigrazione: il caso di Terni, 1881-1921, in SIDES, La popolazione italiana nell’Ottocento. Continuità e mutamenti, Bologna 1985, p. 418. Cfr. ibidem; nonché Cronaca di Terni. L’andata alle officine, in “Il Messaggero”, 27 agosto 1886; Le nostre cooperative, in “Il Maglio”, 25 dicembre 1887. Cronaca di Terni. La questione fra operai e contadini, in “Il Messaggero”, 15 settembre 1886. A. Fabri, Appunti di demografia e d’igiene sulla città di Terni e cenni sulle limitrofe stazioni idrologiche e climatiche, in Ricordo di Terni. MDCCCLXXXVI, a cura di L. Lanzi e R. Gradassi-Luzi, Terni 1886, p. 21. Cronaca di Terni. La prima casa operaia della società cooperativa, in “Il Messaggero”, 4 settembre 1886. Sulla Società Anonima Cooperativa per la Costruzione di Case Operaie in Terni si veda quanto detto in G. Bovini, La cooperazione di produzione e lavoro a Terni (1883-1922), in Studi sulla cooperazione, a cura di G. Bovini e R. Covino, Protagon, Perugia 1990, pp 75-127.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
mutualismo. In questa fase si assiste infatti ad un aumento dei sodalizi che organizzano il proletariato industriale. Nel 1883 si costituisce la Società di Mutuo Soccorso fra gli Operai della Fabbrica d’Armi72, nel 1887 è la volta della Società di Mutuo Soccorso fra Operai ed Operaie dello Jutificio Centurini73. Pur essendo espressione di settori operai omogenei, queste società appaiono però ancora improntate da una struttura sostanzialmente paternalista, che le rende incapaci di farsi portatrici di istanze rivendicative sul piano politico-sindacale. In altri termini, esse risultano appartenere a quel genere di istituzioni mutualistiche in cui la partecipazione operaia viene così descritta da Osvaldo Gnocchi Viani:
Ed è questa una situazione non di breve periodo, almeno se si considera quanto avviene nel 1890 all’interno del Sodalizio della Fabbrica d’Armi ad un socio “di principi repubblicani”75. Infatti quest’ultimo, per aver detto che la bandiera sociale, “essendo tricolore con relativo stemma sabaudo in mezzo”, non solo “non gli piaceva”, ma addirittura “si sarebbe vergognato di seguirla”, da parte del Consiglio Direttivo della Società viene colpito con un provvedimento di espulsione. Per di più tale deliberazione viene notificata “con servile compiacenza” al direttore dello stabilimento. In seguito a ciò, dopo la ratifica dell’esclusione da parte di un’assemblea societaria composta da “elementi racimolati fra [...] buoni amici campagnoli, fra ex guardie e fra ex carabinieri” (85 voti su 104), l’operaio è licenziato. A partire dalla seconda metà degli anni ottanta si assiste anche ad una crescita dell’interesse che le classi lavoratrici rivolgono verso la cooperazione di consumo. Per il suo sviluppo si rivelerà molto importante il lavoro di colportage di idee e di organizzazione dovuto alle correnti immigratorie di operai specializzati chiamati per l’addestramento della mano d’opera rurale”76. Alla SAFFAT si comincia a pensare di dar vita ad una cooperativa di consumo fin dal 1886. Diverse cause impediscono però che tale progetto venga realizzato. Da un lato “il poco affiatamento tra il personale allora occupato dalla Società degli Alti Forni”; dall’altra la manifesta ostilità di un dirigente aziendale belga, il quale, “a capo dell’amministrazione”, fa “comprendere, a chi di ragione, che dato il carat-
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Camera di Commercio e Industria dell’Umbria. Foligno, L’Umbria agricola, industriale, commerciale. Anno 1913, Foligno 1914, p. 47. ACS, Rapporti prefetti, b. 16, fasc. 46, Relazione del prefetto, 29 aprile 1888. O. Gnocchi Viani, Il Poi. 1882-85, Milano 1885, citato in S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano 1880-1900, Firenze 1976, p. 585. Cfr. anche per le citazioni che seguono, Per Terni. Giovedì..., in “La Valle del Nera”, 14 maggio 1890. Merli, Proletariato di fabbrica cit. (a nota 74), p. 808.
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L’operaio in esse non è che un infermo da sussidiare, un invalido da pensionare, un cadavere da trasportare al cimitero; tutt’al più un testatore che lascia un piccolo sussidio agli orfani e alle vedove. Non vi figura mai come uomo che vive e che lavora74.
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tere dell’operaio italiano, questo [attraverso la cooperativa] avrebbe avuto facile adito per organizzarsi e gli si avrebbe quindi facilitato e rafforzato le sue tendenze rivoluzionarie”77. Ciò che non riesce all’interno della grande industria siderurgica, si realizza però in città ad un anno di distanza. Agli inizi di maggio 1887 tredici operai, “quasi tutti [...] della Fabbrica d’Armi”, si costituiscono in comitato promotore per la fondazione di una cooperativa di consumo78. È significativo che si trovino insieme a promuovere l’iniziativa esponenti di primo piano della democrazia ternana come l’ex maggiore garibaldino Edoardo Barberini ed un gruppo di operai immigrati dal Piemonte, che si fanno portatori di una consolidata esperienza in fatto di cooperazione di consumo79. Una ben individuabile ispirazione mazziniana dà sostanza all’intero progetto e si configura come elemento di coagulo tra i promotori. Il manifesto che essi indirizzano agli “operai” appare al riguardo inequivocabile:
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Il prezzo ognor crescente dei generi, che servono all’alimentazione della vita, il credito non sempre accessibile a tutti e molto meno a chi giunge nuovo in una città ci hanno determinato a farvi un caldo appello per emanciparci da tanta angustia, pensando di provvedervi da noi e colle nostre forze esclusive. Sull’esempio di altri popoli e dei nostri fratelli di varie città d’Italia, specialmente dei previdenti operai di San Pier d’Arena, rivolgemmo la mente alla attuazione di un magazzino cooperativo di consumo, il quale mentre ci fornirà tutto ciò, che può occorrere al sostentamento delle nostre famiglie, ci metterà al coperto delle adulterazioni, e colla bontà del genere ci darà la mitezza dei prezzo e la non esigua compartecipazione agli utili sociali. Da qui la benefica azione del risparmio, che è di per se stesso la vita dei popoli civili e nel frattempo elimina dalla società, per via della previdenza, quella ognor crescente schiera dei nullatenenti. [...] Raccolti tutti sotto la nostra bandiera vi diciamo: avanti sempre con coraggio e l’avvenire è nostro; non disturbato da discordie e da aspirazioni che non abbiano il fondamento del bene per il bene, e senza deviare dal sentiero, che intendiamo percorrere, coraggiosi e fidenti. [...] Nell’unione delle piccole forze avremo una potente leva, che in questo secolo ha saputo risolvere tanti problemi economici, ed è stolto chi non li vede e non li apprezza80.
L’invito ad associarsi trova una discreta accoglienza tra gli operai, tanto che alla fine di maggio si contano già cinquanta adesioni. Del resto l’iniziativa viene ben accolta anche dagli ambienti moderati cittadini81. Il giornale ternano “Il Cuore d’Italia”, che di questi è espressione, fin dall’aprile del 1887 aveva iniziato a pubblicare una serie di articoli a favore delle cooperative di consumo. In uno di essi si legge:
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Le nostre cooperative, in “Il Maglio”, 25 dicembre 1897. Società anonima cooperativa di consumo, in “Il Messaggero”, 25 maggio 1887. Per Terni. In una adunanza..., in “La Valle del Nera”, 23 aprile 1890. Sull’ampia diffusione della cooperazione di consumo in Piemonte cfr. M. Degl’Innocenti, Storia della cooperazione in Italia. La Lega Nazionale delle Cooperative 1886-1925, Roma 1977, pp. 32-36. Cronaca di Terni. Società anonima cooperativa di consumo, in “Il Messaggero”, 25 maggio 1887. Le società cooperative di consumo, in “Il Cuore d’Italia”, 13 maggio 1887.
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Come appare evidente il ruolo pedagogico svolto da queste istituzioni continua ad essere ritenuto fondamentale dagli esponenti delle classi superiori. È soprattutto ciò a spingerli a dispiegare una costante opera di impegno e controllo all’interno dei diversi sodalizi. Quanto avviene alla cooperativa di consumo promossa dagli operai della Fabbrica d’Armi costituisce in questo senso un’ulteriore conferma. Quando alla fine di maggio del 1887 – dopo l’approvazione dello statuto da parte dell’autorità83 – si procede alla costituzione della Società Cooperativa di Consumo in Terni e, quindi, alle nomine dei componenti del consiglio di amministrazione, l’assemblea, in larga parte operaia, elegge “a pieni voti” quale presidente il professor Gaspare Blanc, collaboratore de “Il Cuore d’Italia”84. Alla fine di luglio 1887 la Cooperativa apre il proprio magazzino “a vantaggio dei soli soci”, che nel frattempo sono diventati “già più di trecento”85. È senza dubbio un numero rilevante, ma non eccessivo in una città la cui popolazione operaia ha raggiunto dimensioni ragguardevoli. Secondo una rilevazione statistica del Comune, aggiornata al giugno 1887, gli occupati nei diversi stabilimenti cittadini sono 4.958, “per la quasi totalità operai”. Essi risultano così divisi: 3.533 alla SAFFAT (compresi gli impiegati), 821 alla Fabbrica d’Armi, 282 allo Jutificio Centurini, 124 al Lanificio Gruber, 87 alla Ferriera, 86 alla Fornace Cianconi-Galassi e 25 alla Segheria Bizzoni86. In questo quadro appare importante sottolineare che la classe operaia della grande industria siderurgica, pur configurandosi come il nucleo più consistente dell’intera massa lavoratrice ternana, risulta essere l’unica non dotata di una propria istituzione mutualistica. Si tratta di una situazione in parte determinata – come è stato già accennato – da una politica aziendale indirizzata ad ostacolare il nascere di spontanee forme organizzative dei lavoratori. La dialettica che su questo versante si sviluppa tra dirigenza aziendale e classe operaia merita pertanto di essere esaminata con maggiore dettaglio, anche perché i suoi effetti investiranno l’intero contesto sociale cittadino. Nel luglio 1887, per evitare la costituzione di una autonoma società di mutuo soccorso da parte degli operai, è la stessa SAFFAT a promuovere la creazione di una Cassa Soccorso Malati87, dotata di un patrimonio da formarsi attraverso:
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Le società cooperative di consumo, in “Il Cuore d’Italia”, 6 maggio 1887. Cronaca di Terni. Società anonima cooperativa di consumo, in “Il Messaggero”, 30 maggio 1887. In Terni. La Società cooperativa di consumo, in “Il Cuore d’Italia”, 3 giugno 1887. Per urbem. La Società..., in “Cornelio Tacito”, 31 luglio 1887. Cfr. Gallo, Ill.mo Signor Direttore cit. (a nota 5), p. 67. Cfr. Cronaca di Terni. Cassa di soccorso tra gli operai dell’acciaieria, in “Il Messaggero”, 8 aprile 1888; nonché Dalle provincie. Ieri mattina..., ivi, 20 dicembre 1898.
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La società cooperativa non solo permette risparmi all’operaio, ma essa lo abitua al risparmio, glie ne fa capire tutti i vantaggi; gli insegna a credere nelle proprie forze, contribuisce in una parola a farne un cittadino energico ed utile82.
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1) il contributo che ogni operaio (esclusi gli avventizi) versa alla fine di ogni quindicina e che rappresenta una piccola percentuale del suo introito; 2) l’ammontare delle multe; 3) un annuo spontaneo contributo della società al pareggio88.
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Quale scopo precipuo di questa istituzione viene individuato quello di provvedere “medico e medicine agli operai che ne han bisogno per malattie [...] e ad un sussidio corrispondente alla metà della paga pei primi sei mesi di malattia e ad un quarto per altri 6 mesi”89. Per la SAFFAT la costituzione di questa Cassa Soccorso si configura come un’operazione ben studiata che, oltre a consentire di controllare, “tra le altre cose, anche l’assenteismo per malattia attraverso il medico di fabbrica”90, prevede un impegno economico non eccessivo. Le casse dell’istituzione vengono infatti in buona parte riempite dalle onerose multe frequentemente imposte attraverso condizioni normative vessatorie. Al riguardo, per fare un solo esempio, è sufficiente ricordare che alla Società degli Alti Forni, a differenza di quanto avviene in altri stabilimenti cittadini, “se un operaio arriva alla mattina [...] due, tre o cinque minuti in ritardo, oltre che pagar la multa deve perdere mezza giornata di lavoro”91. È sempre la preoccupazione di uno sviluppo autonomo dell’associazionismo operaio che motiva il comportamento della direzione aziendale dell’industria siderurgica quando di lì a poco, in seguito ad alcune particolari circostanze, torna a circolare tra i lavoratori l’idea di dar vita ad una cooperativa di consumo92. Nell’inverno 1888 si assiste ad un sensibile peggioramento delle condizioni di esistenza dei lavoratori. Prima la pioggia costante – scrive nel gennaio 1888 “Il Messaggero” –, poi il gelo, infine la neve obbliga centinaia di operai a un ozio forzoso. Il caro sempre crescente dei viveri, le continue maggiori pretese dei proprietari di case, mano a mano riducono la così detta Manchester d’Italia in uno stato miserevole, perché fanno più frutto due lire guadagnate in altre città che cinque ricevute qui. Ed intanto il Comune per aiutare meglio la classe operaia pubblica un nuovo supplemento alla tariffa daziaria aumentando [...] diversi dazi. Ed i commercianti alla lor volta si profittano di tali aumenti per vendere i loro generi a dei prezzi poco onesti, molto proficui per essi. La morale di tutto questo è che la vita a Terni si è resa ben difficile e che gli operai di altre regioni prima di venir qui è necessario facciano patti chiari assicurandosi di ricevere una paga da poter vivere onestamente93.
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La Società degli Alti Forni Fonderie ed Acciaierie di Terni ed i suoi stabilimenti. Monografia, Terni 1898, p. 28. Ibidem. Merli, Proletariato di fabbrica cit. (a nota 74), p. 345. Cronaca di Terni. Un lago degli operai degli Alti Forni, in “Il Messaggero”, 14 settembre 1886. Terni. La Cooperativa alti forni, in “La Turbina”, 8 ottobre 1898. Cronaca di Terni. La neve e la miseria, in “Il Messaggero”, 31 gennaio 1888.
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Con tal mezzo – sostiene il giornale ternano –, le classi lavoratrici e meno favorite dalla fortuna potranno provvedersi in modo economico ed al sicuro da ogni adulterazione e contraffazione, di quanto può loro occorrere nelle giornaliere esigenze della vita. E questo, a nostro credere, può invero appellarsi socialismo pratico, in quanto che spogliatosi di ciò che esso può contenere di nebuloso, ed astratto, tende a livellare per quanto è possibile le diverse classi di cui si costituisce la moderna società, almeno in quella parte che riflette la vita materiale101.
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Le nostre cooperative, in “Il Maglio”, 25 dicembre 1897. Terni. La Cooperativa alti forni, in “La Turbina”, 8 ottobre 1898. Le nostre cooperative, in “Il Maglio”, 25 dicembre 1897. L’Acciaieria, in “L’Avvenire di Terni e dell’Umbria”, 21 novembre 1889. MAIC, DGS, Annali di statistica. Statistica industriale. Fascicolo XLVI. Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Perugia (Umbria) con una carta stradale e industriale, Roma 1893, p. 14. Terni. La Cooperativa alti forni, in “La Turbina”, 8 ottobre 1898. Le nostre cooperative, in “Il Maglio”, 25 dicembre 1897 (da cui si cita); nonché L’Acciaieria, in “L’Avvenire di Terni e dell’Umbria”, 21 novembre 1889. Socialismo pratico, in “L’Avvenire di Terni e dell’Umbria”, 19 dicembre 1899.
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È soprattutto per sottrarsi a questa critica situazione che i lavoratori pensano di costituire una cooperativa di consumo. Nella scelta di questa soluzione risulta determinante il fatto che al 1889 “l’elemento operaio della Società Alti Forni [si è] arricchito de’ migliori operai d’Italia, di Francia e del Belgio”. Sono infatti questi ultimi a decantare, “e giustamente fra gli operai italiani, l’utilità delle cooperative dei loro paesi”94. Posta di fronte a questa spontanea mobilitazione, la dirigenza aziendale, nel timore che i lavoratori, “anche organizzandosi in cooperativa, scivol[ino] sul terreno della resistenza”95, cerca di contenere l’iniziativa, riconducendola “sotto gli alti papaveri della società”96. Si mostra perciò prodiga di aiuti, “offrendo un largo sussidio pecuniario, ed ogni altra maniera di appoggi”97. Ed infatti, quando nell’ottobre 1889 si costituisce la Società Anonima Cooperativa di Consumo fra il Personale della Società degli Alti Forni, Fonderie ed Acciaierie di Terni, l’obiettivo aziendale appare completamento raggiunto98. La cooperativa risulta infatti basata su “clausole statutarie” che la mettono “sotto l’alto patronato e protettorato dei padroni”, il che vuol dire, in altri termini, essere diretta da “amministratori più o meno servi ossequienti o portavoci della direzione”99. Per favorire le adesioni alla cooperativa l’azienda concede poi alcune importanti agevolazioni: da un lato si offre di fare “il servizio di cassa, facendo cioè anticipare o trattenere le spese sulle paghe degli operai e degli impiegati”; dall’altro apre un credito “a tutti i soci nel rapporto di due terzi dello stipendio o mercede”. Tutto ciò, insieme alla “lusinghiera speranza di un migliore benessere” consente di avere un larghissimo numero di adesioni tra operai ed impiegati: quasi 2.000100. La costituzione di questa cooperativa trova un consenso ricco di significato anche da parte dei settimanale monarchico – liberale, “L’Avvenire di Terni e dell’Umbria”.
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Una presa di posizione molto cauta nei confronti della nuova istituzione viene invece assunta da parte dei settori più consapevoli del movimento operaio. Nel maggio 1890 il settimanale socialista “La Valle del Nera” spiega con molta chiarezza il proprio atteggiamento: Non siamo troppo teneri per le cooperative di consumo così come vengono costituite da noi, perché non le crediamo un rimedio sovrano ai mali delle classi lavoratrici, né un rimedio capace di elevar le mercedi, o alleviare la povertà; ma crediamo, che, in casi isolati, esse possono migliorare sensibilmente le condizioni di coloro che vi sono interessati102.
Si tratta di un’affermazione che i successivi sviluppi della cooperazione di consumo – strettamente collegati con la fase di consolidamento del movimento organizzato dei lavoratori – tenderanno a confermare.
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La presa di coscienza del proletariato ternano è un processo lento che attraversa tutti gli anni ottanta ed approda nel decennio successivo a forme mature di organizzazione e di lotta. A partire dal 1884 lo sviluppo di una stampa operaia in cui si fa aperta propaganda della lotta di classe appare come un chiaro indicatore di questa fase di crescita103. È “Pronti!” il primo foglio operaio di tendenza anarchica a far la comparsa nel giugno 1884 sullo scenario cittadino. Ne escono quattro numeri, ma sono subito sequestrati. Ciò impedisce al giornale di avere una qualsiasi considerevole influenza104. Un diverso ruolo svolge invece il settimanale “Il Risveglio Operaio”, pubblicato a quattro anni di distanza. Uno dei primi problemi affrontati dal giornale è quello relativo a “operai e società operaie”105. E questo indubbiamente non può essere casuale, visto il ruolo ed il segno che l’associazionismo operaio si trova ad avere a Terni in quella fase. In ogni caso le posizioni assunte dal giornale al riguardo appaiono precise: Fino a che in grembo alle associazioni fra gli operai, governa il tipo estraneo, fino a che per la pessima abitudine di rispettare caste e posizioni finanziarie – peste d’ogni libertà d’azione – si affida il comando, la direzione, il governo delle associazioni a chi [...] non deve averlo – secondo i nostri principi – sarà umanamente impossibile raggiungere l’auge che
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L’adunanza dei commercianti, in “La Valle del Nera”, 14 maggio 1890. Cfr. R. Rossi, La stampa a Terni dal 1876 al 1900, Terni 1969. Cfr. U. Bistoni, Origini del movimento operaio nel Perugino, Perugia 1982, pp. 413-418. Cfr. i due articoli aventi lo stesso titolo Operai e società operaie, in “Il Risveglio Operaio”, 17 giugno e 8 luglio 1888.
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spetta per diritto a coloro che con il sudore delle proprie fatiche raddoppiano i milioni, nelle tasche degli speculatori che sanno accarezzarli per ottenere i loro intenti, ma che sanno anche abbandonarli quando l’hanno raggiunto106.
Per evitare ciò il giornale sollecita la costituzione di una “associazione unica di resistenza fra gli operai”, sottolineando il fatto che si tratta di un’istituzione “della quale Terni, più che le altre città d’Italia, ha strettamente bisogno”107. Ed è questo un invito che non cade nel vuoto. Nello stesso 1888 viene istituita una società di resistenza, che vede una larghissima adesione da parte degli operai dei diversi stabilimenti cittadini. Il suo statuto, in particolare, prevede
Per il suo carattere di classe questa istituzione “fin dal suo nascere” viene osteggiata da “coloro i quali non hanno altro officio che di vivere alle spalle del lavoro altrui”108. La sua costituzione rappresenta indubbiamente il primo “salto di qualità” che avviene all’interno dell’associazionismo operaio ternano109. Nel marzo 1890, in un periodo di stagnazione produttiva e di licenziamenti, vede la luce il settimanale socialista “La Valle del Nera”. Nelle sue pagine gli inviti all’organizzazione sono ricorrenti: La grande maggioranza che ai giorni nostri incomincia a contare se stessa, e sa di essere la più numerosa e la più forte, [...] unita in un vincolo di fraternità dagli stessi bisogni, dagli stessi ideali, solidamente organizzata, saprà opporre la propria resistenza, e la coscienza della fame, contro la tirannia di pochi speculatori e sfruttatori110.
Questi appelli servono anche a porre un freno agli sbandamenti indotti dalla crisi economica all’interno del movimento di classe. Nell’aprile 1890 è la Società di Resistenza a denunciare uno stato di grave difficoltà soprattutto perché dei “2.000 soci fondatori dell’anno 1888 soli 42 [rimangono] in pari con le tasse sociali”111. Il cronista del giornale socialista prende posizione su questo fatto, definendolo “una colpa ed una vergogna”. A questo commento egli aggiunge una considerazione altrettanto amara: “Al nome ribelle di Società di
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Ivi, 17 giugno 1888. Ibidem. La crisi della Società di resistenza, in “La Valle del Nera”, 9 aprile 1890. Sui mutamenti che su scala più vasta contrassegnano l’associazionismo operaio nella seconda metà degli anni ottanta dell’Ottocento cfr. C. Cartiglia, Alle origini della FIOM: note sulle prime società operaie, in “Rivista di storia contemporanea”, 4, 1983, p. 479. Organizziamoci, in “La Valle del Nera”, 26 marzo 1890. La crisi della Società di resistenza, in “La Valle del Nera”, 9 aprile 1890.
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di soccorrere i disoccupati, procacciar[g]li lavoro, sussidiarli, o rimpatriarli, aiutare gli ammalati ed i licenziati dalle officine, e tener testa all’occorrenza, al capitalista, allorché questi volesse strapotere, conculcando la mano d’opera.
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Resistenza verrà sostituito forse quello meno bellicoso di Associazione di Mutuo Soccorso e la borghesia dormirà più tranquilli i suoi sonni beati”112. La mancanza di fiducia, nutrita nei confronti dell’associazionismo mutualistico all’interno delle organizzazioni politiche socialiste ed anarchiche, appare dunque un fatto ormai consolidato e si affianca – come si è visto – ad un analogo atteggiamento da esse riservato alla cooperazione. A quest’ultima “La Valle del Nera” dedica una serie di articoli, che contengono alcuni giudizi poco lusinghieri, soprattutto sull’utilità della struttura cooperativa di produzione (“non costituisce, riguardo al progresso sociale, che un elemento d’ordine infimo”)113. Ciò che viene criticato di queste associazioni è il loro carattere interclassista. Di conseguenza, si fa riferimento con insistente frequenza alla necessità, che i lavoratori hanno, di dotarsi di autonome organizzazioni di classe:
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Ma gli operai tengano fitto in memoria che la loro emancipazione economica più che dai professori e dagli avvocati, debbono sperarla dalle loro forze e che fra loro avvi tutto il necessario, ed anco il superfluo, per dirigere qualsiasi associazione politica ed economica. Dunque operai, fiducia e stima in voi stessi ed il problema è risolto. Con l’unione – che è forza – voi farete tutto, purché abbiate sempre presente il motto: l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori medesimi114.
Da questo orientamento politico dichiaratamente operaista nascono gli entusiasmi con cui nel maggio 1890 il settimanale socialista comunica che “due brave ed intelligenti persone”, “due operai onesti ed attivissimi” Alfonso Dami ed Emilio Bicciolo, sono stati eletti rispettivamente presidente e vicepresidente della Società Cooperativa di Consumo. Ciò appare come il primo passo indirizzato “a demolire il vecchiume, su i rottami del quale si dovrà edificare il vero edificio della cooperazione di consumo”115. In questa fase comunque la collaborazione tra le associazioni controllate da esponenti demo-radicali e quelle sempre più orientate in senso operaista continua a dare risultati di rilievo. Dopo il provvedimento governativo di scioglimento del Consiglio Comunale pretestuosamente emanato allo scadere del 1889116, alle nuove elezioni amministrative del giugno successivo è di nuovo un comitato generale democratico, for112 113
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Ibidem. Cfr. i numeri della “Valle del Nera” pubblicati tra aprile e giugno 1890. Per la citazione si veda La cooperazione. VII, ivi, 26 giugno 1890. Per Terni. Domenica prossima..., ivi, 7 maggio 1890. Per Terni. Alla Società..., ivi, 14 maggio 1890. Storia retrospettiva dell’Amministrazione Comunale. XI, in “L’Avvenire di Terni e dell’Umbria”, 10 aprile 1890. A motivare il decreto regio di scioglimento “per gravi motivi d’ordine pubblico” è la commemorazione di Guglielmo Oberdan fatta nel corso della seduta consiliare dei 19 dicembre 1890. Cfr. M. Romagnoli, La Camera del Lavoro di Terni dalle origini alla prima guerra mondiale, tesi di laurea, Università di Roma, a.a. 19851986, pp. 49-50.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
mato da 28 associazioni, a consentire la vittoria dello schieramento progressista sulla base di un “programma democratico radicale”117. Nel febbraio 1891 la Giunta, espressione di questa maggioranza consiliare democratica, si fa promotrice dell’istituzione di una Camera del Lavoro, intesa come “filantropica istituzione” i cui obiettivi avrebbero dovuto, essere:
A tale scopo il sindaco invita 32 “società cittadine” (associazioni politiche, società di mutuo soccorso, cooperative) a collaborare all’iniziativa formando “una apposita e competente commissione”119. La mancata risposta di buona parte delle società operaie – sia “orizzontali” che “verticali”120 – evidenzia però come esse, in maggioranza, siano ancora incapaci di comprendere l’enorme importanza che per i lavoratori riveste la costituzione di “forme territorialmente stabili di organizzazione operaia e di controllo del merca-
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Per Terni. Il Comitato generale democratico..., in “La Valle del Nera”, 18 giugno 1890; La vittoria, ivi, 26 giugno 1890; Municipalia, in “L’Avvenire di Terni e dell’Umbria”, 7 febbraio 1891 (da cui si cita). AST, ASCT, b. 791, fasc. 1, lettera del sindaco, 25 febbraio 1891. Le 32 associazioni invitate sono le seguenti: Federazione Repubblicana, Circolo Fratelli Bandiera, Nucleo Operaio Mazziniano Intransigente, Circolo Scienza e Progresso fra Studenti, Circolo Radicale Indipendente, Società Democratica, Circolo Giovanile Democratico, Circolo degli Amici, Circolo Pro Patria, Federazione Socialista, Nucleo Socialisti Sbandati, Circolo Giovani Socialisti, Nucleo Lavoratori, Circolo Carlo Cafiero, Società dei Reduci delle Patrie Battaglie, Società dei Reduci Volontari, Società dei Veterani, Società Generale Operaia, Società degli Artieri, Società dei Cappellai, Società dei Calzolari, Società dei Mugnai, Pastai e Fornai, Società di Soccorso, Società di Sussidio, Società Agricola, Società di Soccorso tra gli Operai dello Stabilimento Gruber, Società dei Tessitori dello Stabilimento Gruber, Società delle Case Operaie, Società Cooperativa di Costruzione, Società Cooperativa di Consumo, Società Anonima Cooperativa di Consumo fra il Personale della Società Alti Forni, Fonderie ed Acciaierie di Terni; ibidem. Risultano non invitati alcune associazioni anarchiche presenti in città; al riguardo cfr. R. Manelli, Il movimento operaio a Terni nella seconda metà dell’Ottocento, Terni 1959, p. 41. Si intendono “orizzontali” quelle società che organizzano gli operai sulla base del mestiere e “verticali” quelle che, invece, organizzano tutti gli operai di una fabbrica, indipendentemente dal mestiere. Al riguardo cfr. Cartiglia, Alle origini della FIOM cit. (a nota 109), p. 475.
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l. facilitare il contatto fra gli operai dei vari mestieri, il loro collocamento e i contratti di lavoro; 2. togliere quel sistema di sfruttamento rappresentato da così detti mediatori del lavoro che vivono a tutte spese degli operai, dei loro interessi e della loro dignità; 3. organizzare un sistema di informazioni che permetta di valutare con sicurezza le condizioni del mercato del lavoro nei centri italiani ed esteri e di indicare agli operai quei luoghi ove l’opera loro abbia maggior probabilità di richiesta; 4. esercitare un oculato controllo fra proprietari e lavoratori per quanto ha rapporto alle mercedi, agli infortuni, al lavoro delle donne e dei fanciulli; promuovere la costituzione dei sindacati per la tutela dei lavoro presso lo stato e i comuni e quella non meno necessaria degli arbitrati fra padroni ed operai, e rendere finalmente possibili la formazione e l’applicazione delle tariffe della mano d’opera conciliando le esigenze dei proprietari colle legittime aspirazioni del lavoratore118.
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to del lavoro”121. Non è infatti casuale che tra i più solleciti ad aderire all’iniziativa della Giunta vi siano i diversi nuclei socialisti presenti in città122. Comunque questo primo tentativo di organizzare una Camera del Lavoro a Terni è destinato a fallire a causa di diversi fattori, tra cui agli inizi del 1892 un nuovo scioglimento per decreto del Consiglio Comunale123. Peraltro in questa fase a Terni la lotta elettorale amministrativa, il tradizionale ceto politico cittadino, le classi delle quali esso è espressione, appaiono ormai sempre più in subordine rispetto a quello che invece si viene configurando come il reale centro dello scontro politico: la fabbrica. In città, classe operaia e direzioni aziendali diventano i nuovi protagonisti politici collettivi. Nel conflitto di classe e nelle organizzazioni politiche ed economiche, nate in funzione di esso, si selezionano militanti ed esponenti politici nuovi. La scelta del socialismo evoluzionista da parte di alcuni attivi settori operai assume in questo quadro una considerevole importanza per la futura azione economica ed organizzativa del movimento di classe. Nel novembre 1891, sotto la spinta di alcuni seguaci di Andrea Costa, si forma a Terni il gruppo socialista “Armata dell’avvenire”. Nel luglio dell’anno successivo l’organizzazione può già contare su circa 90 aderenti124. In agosto l’operaio Enrico Rizzi viene inviato come rappresentante del gruppo al congresso di Genova125. Qui egli partecipa alla costituzione del Partito dei Lavoratori e ciò provoca, al suo ritorno a Terni, una scissione all’interno della sezione socialista. Lo svolgersi degli avvenimenti, dopo l’allontanamento dei dissidenti, viene così ricordato dall’operaio ternano: Venne decisa l’adesione al nuovo Partito Socialista. Si stabilì di scrivere subito al Comitato Centrale del partito per aver copia dello statuto. Fu nominato nell’attesa un comitato di propaganda composto di cinque membri, coll’incarico di porsi subito all’opera di diffusione fra gli operai degli ideali del socialismo allo scopo di portare nuove e più numerose forze alla sezione. A far parte del comitato furono nominati il compagno Valentino Battistoni, impiegato presso la Fabbrica d’armi, il compagno Agostino Pallotta, commerciante, il compagno Tullio Mariani, tornitore agli Alti forni, il compagno Dario Battistoni, falegname, ed io126.
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Z. Ciuffoletti, Le origini (1848-1891), in Storia del socialismo italiano, a cura di G. Sabbatucci, vol. I, Roma 1980, p. 166. In tempi diversi danno la loro adesione: la Società dei Mugnai, Pastai e Fornai, la Federazione Socialista, il Nucleo Socialisti Sbandati, il Circolo Giovani Socialisti, il Nucleo Lavoratori, la Società Generale Operaia, il Nucleo Mazziniano Intransigente, la Società di Mutuo Soccorso degli Artieri e il Nucleo Radicale Indipendente. Soltanto la Società dei Calzolai decide di non aderire. Cfr. AST, ASCT, b. 791, fasc. 1, documentazione diversa. Cfr. Romagnoli, La Camera del Lavoro cit. (a nota 116), pp. 67-69. E. Rizzi, Un diciannovenne al congresso, in Genova 1892. Nascita del Partito Socialista in Italia, Milano 1952, p. 25. Ibidem, pp. 25-26; nonché L. Cortesi, La costituzione del Partito Socialista Italiano, Milano 1962, p. 302. Rizzi, Un diciannovenne cit. (a nota 124), p. 28.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
Il gruppo dirigente che si forma in questa circostanza svolgerà anche in seguito un ruolo infaticabile per dare alle lotte dei lavoratori adeguati metodi, contenuti e strumenti organizzativi. Alla fine del 1892 sono, ad esempio, sempre questi uomini ad avviare la costituzione della Camera del Lavoro127. Si tratta però di un tentativo destinato ad un nuovo fallimento. Le ragioni vengono così spiegate da Gnocchi Viani:
Nonostante l’ostilità governativa, l’attività di organizzazione da parte degli esponenti socialisti continua. Nel novembre 1893 un gruppo di militanti sottoscrive “una circolare con cui si eccit[a] alla costituzione di sezioni dei Partito Socialista dei Lavoratori Italiani”. I sottoscrittori – secondo il prefetto di Perugia – sono: Alfonso Campagnoli, Alessandro Fabri, Luigi Riccardi, Dario Battistoni, Umberto Palmieri, Angelo Ridolfi e Antonio Tieri129. Ad un anno di distanza, in piena reazione crispina il gruppo socialista “Armata dell’avvenire” viene però sciolto con un decreto prefettizio130. Del resto il 1894 è da più versanti un anno nero per la classe operaia ternana. Considerevolmente accentuati risultano essere i livelli di sfruttamento e soggezione delle masse lavoratrici. Ed è, paradossalmente, la Cooperativa del Personale della SAFFAT ad avere in questo una larga parte di responsabilità. La denuncia contro questa istituzione, inviata dai commercianti ternani – preoccupati per le loro borse – al ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio consente di raffigurare con chiarezza la situazione determinatasi: Sui primordi la cooperativa si tenne nei limiti naturali [...], perocché restringeva la propria sfera d’azione a somministrare alcuni generi di prima necessità ai propri soci azionisti, che volontariamente volevano servirsi ai magazzini dell’associazione. Ma a mano a mano l’istituto della cooperativa venne in più modi snatura[nd]o a danno della stessa classe operaia e a danno del commercio libero [...] Oggi i clienti della cooperativa non sono clienti liberi e volontari, ma clienti obbligati, perché la Società degli Alti Forni, costituendo a favore esclusivo della cooperativa la garanzia di trattenere due terzi della paga quindicinale o mensile dei propri operai e dei propri impiegati, crea a favore dell’associazione un assoluto privilegio rispetto agli altri esercenti,
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Ibidem. O. Gnocchi Viani e G. Garibotti, Le camere del lavoro industriali e agricole, Cremona 1893, citato in Romagnoli, La Camera del Lavoro cit. (a nota 116), p. 72. ACS, CPC, b. 5096, fasc. “Tieri Antonio”, cenno biografico, 10 aprile 1897. Ivi, b. 414, fasc. “Battistoni Dario”, cenno biografico, 3 maggio 1897.
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Gli operai l’avevano chiesta [la Camera del Lavoro] al Comune, già si erano organizzati, e il Comune di Terni non si era rifiutato, e stanziava, parmi, 1.200 [lire] per la Camera del Lavoro; ma è sorto un veto e quel veto venne appunto dal governo, ma perché mai? Perché il governo che è solito fare il morto (e così lo facesse sempre) colle altre camere dei lavoro, si è fatto vivo per gli operai di Terni? È che gli operai di Terni sono quasi tutti addetti a stabilimenti governativi128.
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cui non è affatto garantito il rimborso del credito che essi reputassero di accordare agli operai. La cooperativa non limita oggi la propria azione ai soli addetti agli stabilimenti degli Alti Forni e alla sola classe operaia, ma esorbita con palesi sotterfugi anche dalla sfera naturale della propria azione. Ed esorbita nel seguente modo: alla categoria dei soci azionisti ha aggiunto una classe di soci aggregati che si è attirati tutti clienti dei propri magazzini, estendendo i così detti benefici anche agli operai degli altri stabilimenti industriali qui residenti, le cui amministrazioni si sono affrettate a dare alla cooperativa quella garanzia che mai vollero accordare agli esercenti liberi. Esorbita dal proprio istituto, giacché coi libretti dei singoli soci azionisti od aggregati, chiunque non socio in veruna guisa può accedere nei magazzini della cooperativa a fare acquisti. Ed è universalmente noto che ciò accade su larghissima misura, perché, l’operaio, non avendo altro mezzo per soddisfare una passività qualunque adotta l’espediente di cedere il proprio libretto cooperativo, fino alla concorrenza del suo debito. La cessione, ad esempio, avviene di frequente pel pagamento della pigione di casa, ed accade anche spessissimo che l’associato alla cooperativa acquista dalla medesima un determinato genere, e lo rivende a grandissimo ribasso di prezzo a non soci per procurarsi un poco di denaro, ovvero lo cambia con altra derrata che gli abbisogna131.
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Questo stato di cose consente alla cooperativa di allargare in modo tale “sfera della propria azione da assorbire intero, alla lettera intero, il commercio cittadino”132. A causa di ciò gli operai sono ridotti ad una vera e propria economia dello scambio, infatti “alla quindicina” la stragrande maggioranza di essi deve contentarsi di vedere “un semplice libretto”133. Rigidamente controllata dall’alto, la cooperativa finisce così per configurarsi come uno strumento utilizzato dalla direzione aziendale della SAFFAT per introdurre una forma indiretta di salario a truck-system134. Nella seconda metà degli anni novanta, passata l’ondata repressiva crispina, la ripresa politica e organizzativa dei movimento operaio sarà largamente influenzata da questa situazione di partenza. Per i lavoratori essa verrà ad assumere le caratteristiche di “una reazione elementare allo scopo di non perdere totalmente la ’libertà’ sul proprio salario e sulla propria vita privata e associata”135.
5. Nonostante i rigori della repressione poliziesca, tra le forze del socialismo ternano continua – sia pure con molta cautela – un importante processo di chiarificazione politica. Nel 1895 40 militanti socialisti, rompendo con gli esponenti della demo-
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AST, ASCT, b. 812, fasc. 3, Relazione indirizzata al ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio, [febbraio 1894]. Dalla relazione risulta anche che la cooperativa alla vendita di derrate aveva aggiunto quella di manifatture, calzature ed altro. Ibidem. La Cooperativa di consumo a Terni, in “L’Avvenire di Terni e dell’Umbria”, 2 gennaio 1894. Al riguardo cfr. Merli, Proletariato di fabbrica cit. (a nota 74), pp. 382-385. Ivi, p. 384.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
crazia radicale e con quanti ad essi fanno riferimento, danno vita alla sezione ternana dei Partito Socialista Italiano136. Tra i promotori di questa azione vi sono il farmacista Luigi Riccardi, l’impiegato Valentino Battistoni e l’operaio Tullio Mariani137. All’interno del movimento di classe questa fase di evoluzione chiarificatrice degli orientamenti politici si compenetra con l’avvio di un processo di considerevoli progressi organizzativi. Alla fine dell’estate del 1896 vengono costituite, quasi contemporaneamente, due importanti istituzioni operaie: la Camera del Lavoro e la Società Anonima Cooperativa di Consumo “La Previdente”. Esse presentano però evidenti diversità per quanto riguarda genesi ed indirizzo politico. Nell’impianto della Camera del Lavoro si registra ancora una pesante influenza dei “filantropi del paternalismo operaio” e ciò contribuisce non poco a dare ad essa un carattere ambivalente:
Già nel settembre 1894, nel corso di un congresso regionale indetto per dar vita a una federazione umbra delle società operaie di mutuo soccorso, tra gli altri oggetti posti all’ordine del giorno vi erano stati gli “studi per la istituzione di una borsa del lavoro” ed i “modi migliori” per porre i sodalizi operai in grado di sostenere gli sforzi delle società per la pace e per l’arbitrato139. Le risoluzioni del congresso non avevano però prodotto alcun effetto immediato. Nel luglio 1896 è invece la sottosezione ternana della Federazione Italiana dei Lavoratori del Libro a promuovere la costituzione di un comitato provvisorio cui affidare il compito di “gettare le basi di una camera del lavoro”140. A far parte di questo organismo vengono chiamati tre rappresentanti per ciascuna delle diverse associazioni economiche locali. Nell’ottobre successivo è “L’Unione Liberale” ad annunciare con una certa enfasi che “l’idea d’istituire in Terni una camera del lavoro, [la quale], a somiglianza di quelle già sorte in altri luoghi d’Italia, si propon[ga] lo scopo di patrocinare gli interessi dei lavoratori [...], è un fatto compiuto”141. L’entusiasmo espresso dal foglio liberale è senza dubbio giustificato dal fatto che il programma della neona-
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Oltre a G. Luzzi, I quattro monelli 1895-1899, in “La Turbina”, 5 agosto 1899, cfr. ACS, CPC, b. 1915, fasc. “Fabri Alessandro”, cenno biografico, 27 febbraio 1897. Su Valentino Battistoni e Tullio Mariani cfr. i rispettivi fascicoli in ACS, CPC, b. 415 e b. 3060. Al riguardo cfr. Merli, Proletariato di fabbrica cit. (a nota 74), pp. 631 sgg. Le citazioni sono tratte da p. 631. Il congresso operaio umbro, in “L’Unione Liberale”, 18-19 agosto 1894. Faccende di casa. Per una Camera del Lavoro, ivi, 11-12 luglio 1896. Faccende di casa. La Camera del Lavoro in Terni e circondario, ivi, 3-4 ottobre 1896.
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come strumento operaio in funzione della ricerca del lavoro e del collocamento, per far fronte alla crisi di depressione e sviluppo; come strumento capitalista per facilitare la mobilità della manodopera e per renderla merce trasportabile il più celermente e abbondantemente possibile sul luogo della produzione138.
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ta istituzione risulta completamente apolitico ed in larga parte determinato dal pacifismo interclassista di matrice mazziniana142. Non è infatti un caso che a distanza di poco più di un anno, nel dicembre 1897, in occasione di una protesta contro il progetto di legge del domicilio coatto, sulle pagine del giornale socialista “Il Maglio” si denunci il fatto che la Camera del Lavoro è tra “quelle associazioni operaie che si sono astenute, anziché pronunziate contro il progetto infame”.
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Fra esse – scrive infatti un socio “cordon[n]ier” – primeggia la “Camera del Lavoro”, associazione unitamente operaia. Il Consiglio Direttivo non aderì all’agitazione adducendo a scusa che in detta associazione non si fa politica. Quale politica van cercando questi democratici del Consiglio Direttivo. Forse le “camere del lavoro” di Milano, Bologna ed altre non sono uguali a quella di Terni perché hanno aderito all’agitazione! Ah, comprendo, uguali no! Perché mentre dette camere in caso di sciopero aiutano gli scioperanti (anche se non soci) questa nel grande sciopero di Rieti, se ne stava colle mani alla cintola senza iniziare una qualsiasi sottoscrizione. Ed ora domando, sono associazioni politiche la Società Operaia di M[utuo] S[occorso] di Aquila, di Orbetello; la Società di M[utuo] S[occorso] fra i Militari in Congedo di Aquila e tante altre che hanno aderito all’agitazione contro il progetto di legge?143
Del resto, in questa fase, la latitanza dell’istituzione camerale, anche per quanto riguarda importanti vertenze operaie cittadine, costituisce un fatto normale e contribuisce a confermare la sua inadeguatezza come strumento di classe144. Diverso è invece il ruolo che si trova a svolgere “La Previdente” anche perché più 142
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Secondo “L’Unione Liberale”, la Camera del Lavoro di Terni “si propone: a) di servire d’intermediaria tra l’offerta e la domanda del lavoro, facilitando o procurando un conveniente collocamento dei lavoratori d’ambo i sessi e stipulando all’occasione le relative contrattazioni, quando si tratti del lavoro degli apprendisti; b) di fornire ricorrendo anche ai comuni, alle camere di commercio ed alle altre camere del lavoro tanto nazionali che estere, informazioni sulle condizioni del mercato dei lavoro, segnalando i luoghi ove la mano d’opera sia richiesta o meglio retribuita; c) di compilare tariffe sulla mano d’opera, che siano rispondenti alle consuetudini dei mercato ed ai bisogni dei lavoratori; d) di promuovere la costituzione di sindacati per tutte le arti e mestieri, allo scopo di coadiuvare le camere dei lavoro nella compilazione ed applicazione delle tariffe di mano d’opera; e) di procurare la formazione di arbitrati tra proprietari e lavoratori, per appianare e risolvere le questioni di lavoro, la durata dell’applicazione giornaliera, la retribuzione, ecc.; f) di agevolare negli opifici la riammissione dei liberati dal carcere, vigilando a che si compia la loro riabilitazione; g) di rappresentare presso il Comune, la Provincia ed il governo, i bisogni e gli interessi dei lavoratori; h) di promuovere leggi efficaci che rispondano alle esigenze della previdenza, della sicurezza e della igiene dei lavoratori e segnatamente per i fanciulli; di aiutare la ricerca dei responsabili nei casi di infortunio sul lavoro; i) di procurare che il lavoro della donna sia, a parità di produzione, retribuito in eguale misura di quello dell’uomo; l) di promuovere e di svolgere l’insegnamento professionale per ogni arte e mestiere; m) di studiare ogni mezzo che giovi al carattere intellettuale dei lavoratori, mediante l’insegnamento dei loro doveri e dei loro diritti; istituendo anche a tale uopo, biblioteche, scuole e pubblicazioni periodiche; n) di sorvegliare alla esatta esecuzione di tutte le leggi d’indole sociale; o) di aiutare lo sviluppo dei sistema cooperativo, di consumo, di produzione, di credito; ed invigilando perché i pubblici lavori siano affidati alle società cooperative; p) di incoraggiare tutte le esposizioni di carattere operaio che si facessero in Terni o nel suo circondario; q) di procurare che per legge la Camera dei lavoro sia riconosciuta come la rappresentante della classe lavoratrice”. Ibidem. Cordon[n]ier socio della Camera del Lavoro, Contro il domicilio coatto, in “Il Maglio”, 12 dicembre 1897. Cfr. Romagnoli, La Camera del Lavoro cit. (a nota 116), pp. 91 sgg.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
precise sono le ragioni di difesa di classe che stanno alla base della sua fondazione. Esse vanno individuate nella necessità, sentita dai settori operai più coscienti, di far uscire la gran parte della massa lavoratrice dallo stato di totale soggezione in cui le direzioni aziendali erano riuscite a condurla attraverso la Cooperativa degli Alti Forni. La denuncia di questa situazione sulla stampa operaia è d’altra parte un fatto ricorrente. Nel novembre del 1895, ad esempio, sul settimanale “Il Martello” si legge:
Ed è appunto a partire da questa consapevolezza che, nel settembre 1896, all’interno del movimento operaio ternano matura la decisione di dar vita alla Cooperativa di Consumo “La Previdente”. I soci promotori risultano essere ottanta. Di essi. però, soltanto 54 partecipano all’assemblea di costituzione della società146. Per la totalità di questi ultimi nell’atto di fondazione vengono registrati la professione e il luogo di nascita. Ciò consente di avere dati ricchi di significato. Infatti tra i soci promotori intervenuti alla costituzione della cooperativa 52 risultano essere gli operai e 2 gli impiegati. Relativamente, poi, al luogo di nascita – che, con buona approssimazione, può essere utilizzato anche per individuare la provenienza di eventuali immigrati – si evidenzia che dei soci fondatori 19 risultano essere nati nel comune di Terni, 11 in diversi comuni umbri, 7 nel Veneto, 4 in Toscana, 3 nel Lazio e nelle Marche, 2 in Romagna ed in Campania, 1 in Puglia, in Piemonte ed in Lombardia. Ciò peraltro dimostra come questa nascente struttura cooperativa venga a costituire un importante terreno di incontro tra gli operai appartenenti ai diversi gruppi regionali e, conseguentemente, uno spazio privilegiato di superamento degli attriti originariamente determinatisi tra essi147. È poi importante sottolineare che tra questi uomini, i quali – per parafrasare la
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Che gazzarra!, in “Il Martello”, 2 novembre 1895. AST, TASC, b. 4, fasc. 94 A/56, verbale dell’assemblea di costituzione della Società Anonima di Consumo “La Previdente” 13 settembre 1896. Al riguardo si veda, tra gli altri, Gallo, Ill.mo Signor Direttore cit. (a nota 5), pp. 40-42.
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Per noi che abbiamo una idea molto diversa, è certo, delle ragioni commerciali che consigliano l’istituzione delle cooperative, non possiamo certamente parlarne, tanto più quanto ci troviamo di fronte a cooperative che sono una negazione assoluta d’ogni sentimento di cooperazione. Ma quando a tutto l’errore commesso nell’impiantare e sostenere una speculazione vestita da cooperativa, vediamo la cecità dei nostri operai spinta sino al punto di metter volontariamente la testa sul ceppo, col crearsi un padrone autocrate, che se non può vendicarsi in un modo ne ha un altro a sua portata, noi non sappiamo contenerci e gridiamo il badate come lo grideremmo ad un disgraziato che inavvedutamente cammina incontro ad un pericolo145.
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suggestiva frase di un cooperatore inglese – decidono di “mangiarsi la strada verso il futuro”148, vi sono, significativamente, alcuni tra i più attivi esponenti del socialismo ternano, come gli operai Dario Battistoni, Augusto Biagi, Guglielmo Cruciani, Pietro Filippi, Umberto Giannelli, Tullio Mariani, Romolo Perazzini, Enrico Rizzi, Antonio Tieri, o come l’impiegato Ambrogio Bedini149. Il modello di organizzazione cooperativa scelto dai soci promotori è quello di tipo inglese, il modello “rochdaliano”150. Infatti, secondo lo statuto (art. 3), lo scopo societario viene individuato nel
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creare depositi o sedi di operazioni o stabilimenti per provvedere ai suoi consumatori, soci e non soci, alle migliori condizioni [,] dei generi alimentari e mercanzie di consumo, come pure medicine ed altri oggetti di farmacia, in modo che i prezzi di vendita siano calcolati da poter permettere al compratori un beneficio immediato, e l’eccedenza dei benefici medesimi [sia] una parte devoluta a scopo di creare per i suoi membri fondi di previdenza per inabilità e disoccupazione di lavoro ed una parte divisa ogni anno fra i soci e non soci proporzionalmente all’importo degli acquisti da essi fatti durante il medesimo periodo151.
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Accanto a questo è poi indicata come altro fine de “La Previdente” quello “di creare in ogni modo il miglioramento economico e morale dei propri soci”. Relativamente alla ripartizione degli utili, l’art. 21 prevede che alla fine di ogni anno, dopo la stesura dei bilanci, gli avanzi netti risultanti ven[gano] divisi come segue: il 20% al fondo di riserva; il 30% al fondo di previdenza per l’inabilità al lavoro per i soci; il 15% al fondo di previdenza per la disoccupazione per i soci; il 5% a disposizione del consiglio a scopo di propaganda cooperativa, beneficenza e gratificazione; il 30% si restituisce al soci e non soci a titolo di risparmio in proporzione dei loro rispettivi acquisti.
La tassa di ammissione viene fissata in 4,5 lire “da pagarsi interamente all’atto di iscrizione salvo in casi speciali la diversa disposizione del consiglio di amministrazione” (art. 5). Per il capitale sociale si stabilisce poi che esso venga costituito “da un numero illimitato di quote e [sia] di comproprietà dei soci nella misura in cui hanno contribuito a formarlo” (art. 5). Al riguardo (art. 6) è infatti previsto che
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Citata in S. Yeo, Stato e anti-Stato: riflessioni su forme e lotte sociali in Gran Bretagna nella seconda metà del secolo, in Cultura operaia e disciplina industriale, a cura di M. Salvati, Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso, vol. VI, Milano 1983, p. 282. Per Dario Battistoni, Enrico Rizzi, Tullio Mariani e Antonio Tieri si rimanda alle note precedenti. Su Ambrogio Bedini, Augusto Biagi ed Umberto Giannelli si vedano i rispettivi fascicoli in ACS, CPC, bb. 433, 605 e 2390. Al riguardo cfr. F. Fabbri, Per una storia del movimento cooperativo in Italia, in Il movimento cooperativo nella storia d’Italia 1854-1975, a cura di Id., Milano 1979, p. 24; R. Zangheri, Nascita e primi sviluppi, in R. Zangheri, G. Galasso e V. Castronovo, Storia del movimento cooperativo in Italia. La Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue 1886-1986, Torino 1987, p. 49. Cfr., anche per le citazioni che seguono, AST, TASC, b. 4/ST, fasc. 94 A/56, verbale dell’assemblea di costituzione della Società Anonima di Consumo “La Previdente”, 13 settembre 1896.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
La valenza segnatamente politica che sta alla base della costituzione de “La Previdente” si riflette anche nella scelta dei soci che vengono designati a dirigerla. Dopo l’approvazione dello statuto, infatti, il voto assembleare, per quanto riguarda il consiglio di amministrazione, fa risultare eletti con 52 voti, rispettivamente, Pietro Filippi (operaio, nato a Treviso) e Salvatore Mancinelli (operaio, nato ad Ariano di Puglie), con voti 51, rispettivamente, Antonio Bernatti (operaio, nato a Fronte Canavese), Tullio Mariani (operaio, nato a Terni), con voti 50 Arduino Carini (operaio, nato a Terni), con voti 49 Dario Battistoni (operaio, nato a Perugia) ed infine con voti 44 Alessandro Coacci (operaio, nato a Roma). Quale presidente verrà designato Tullio Mariani. Come sindaci sono invece eletti Umberto Giannelli (operaio, nato a Terni), Ambrogio Bedini (impiegato, nato a Pergola), Ovidio Lucarelli (operaio, nato a Terni), Ercole Moscatelli (operaio, nato a Terni) e Alfredo Borzacchini (operaio, nato a Terni). Il carattere operaio e socialista che informa la cooperativa appare dunque inequivocabile. È infatti a partire dalla sua costituzione che si avvia a Terni la vicenda della cooperazione socialista, la quale sarà parte determinante della complessiva storia del movimento operaio. Peraltro è interessante sottolineare come, nel contesto ternano, la sequenza degli eventi, che porta alla fondazione de “La Previdente”, costituisca un’ulteriore conferma dell’incisivo giudizio” espresso da Rinaldo Rigola, secondo il quale “vi sono due età del cooperativismo separate tra di loro dalla comparsa dei socialismo”152.
6. Il fatto che “La Previdente” sia destinata a configurarsi come un momento centrale del consolidamento e dello sviluppo dei movimento operaio ternano viene subito reso evidente dagli avvenimenti che fanno seguito alla sua costituzione. Agli inizi del 1898, nel corso di un’assemblea generale dei soci – diventati nel frattempo 141 –, il presidente Tullio Mariani, volendo tracciare un rapido bilancio di poco più di un anno di vita della cooperativa, evidenzia come essa sorta per iniziativa di pochi, incoraggiata da pochissimi, osteggiata quasi da tutti, sia
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Citato in L. Trezzi, Sindacalismo e cooperazione dalla fine dell’Ottocento all’avvento del fascismo, Milano 1982, p. 81.
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ogni socio è in obbligo di concorrere per la formazione del capitale nel modo seguente: 1. con una o più contribuzioni fisse di l[ire] 50 [...]; 2. rilasciando tutti i risparmi che gli venissero assegnati, fino a che la quota di compartecipazione abbia raggiunto la somma di l[ire] 500.
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giunta ad acquistarsi la simpatia di buona parte della cittadinanza, la quale ha ben compreso che “La Previdente” non è sorta a scopo di lucro e di speculazione privata153.
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Scendendo su un piano più concreto, Mariani sottolinea inoltre che, pur essendo l’attività commerciale iniziata “entro limiti ristretti, in locali deficienti, senza il concorso di alcun personale dipendente” si era reso possibile portare in breve tempo la cooperativa “in condizioni di poter far fronte alle varie esigenze del pubblico, con discreto personale ed in locali abbastanza comodi”. L’impianto di una farmacia, affidata alla direzione di Luigi Riccardi, viene infine ricordato dal dirigente come uno tra i più importanti risultati economici raggiunti154. Peraltro è interessante sottolineare come questa fase di irrobustimento strutturale avvenga proprio negli anni critici di fine secolo, nel momento in cui sotto i colpi della repressione governativa stanno crollando una buona parte delle istituzioni politiche ed economiche del movimento operaio155. Infatti ciò contribuisce, inevitabilmente, a rendere “La Previdente” un fondamentale polo di irradiazione politica. I suoi dirigenti, i suoi soci, le sue potenzialità economiche finiscono così per diventare i punti di forza che consentono al movimento operaio di ottenere, anche in una fase di arretramento generale, alcuni importanti risultati. Nel marzo 1898 i socialisti riescono ad assumere la direzione della Società Generale Operaia, vincendo “completamente” nelle elezioni per il rinnovo delle cariche sociali156. In settembre viene fondato il settimanale “La Turbina”, che, ininterrottamente fino al 1921, costituirà un insostituibile strumento di lotta del socialismo ternano157. Nell’autunno dello stesso anno, infine, gli operai della SAFFAT danno vita ad un lungo periodo di mobilitazione volto ad ottenere un maggiore controllo sulla Cassa Soccorso e sulla Cooperativa di Consumo, riuscendo ad ottenere nel primo caso un parziale successo e nel secondo un completo raggiungimento dell’obiettivo158. La Cooperativa degli Alti Forni passa così sotto la direzione operaia e Tullio Mariani ne diventa il presidente. La diversa impostazione, che i nuovi dirigenti si avviano immediatamente a dare alla cooperativa, tende in particolare a dimostrare che “la cooperazione non deve essere solo azienda commerciale, con la semplice funzione bottegaia”, ma, piuttosto, che “dal suo organismo ritemprato da una fede nuova” i soci possono trarre “il principio della previdenza, il mezzo per educarsi, e la forza per combattere la lotta dell’esistenza”. L’immancabile rappresaglia padronale, at-
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AST, TASC, b. 4, fasc. 94 A/56, verbale dell’assemblea generale dei soci, 27 febbraio 1898. Ibidem. G. Giardinieri, Socialismo e socialisti a Terni tra Ottocento e Novecento, in “Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria”, vol. LXXV (1978), p. 65. ACS, DGAC, ctg. 15.846, b. 174, Rapporto del direttore generale della Pubblica Sicurezza, 24 marzo 1898. Cfr. Giani, Terni cento anni cit. (a nota 1), pp. 218-222. Oltre a Romagnoli, La Camera del Lavoro cit. (a nota 116), pp. 101-106, cfr. Dall’Acciaieria e altiforni. La Cassa soccorso, in “La Turbina”, 22 aprile 1899.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
Certo – scrive al riguardo un corrispondente dell’“Avanti!” – di quanti paesi ho io visitati quello che più ha in sé gli elementi dei movimento proletario è Terni; la città dei lavoratori servi dell’industria, del capitale associato. E difatti in questa città il socialismo, che si respira coll’aria pregna di vapori e gas, in poco tempo è sviluppato veramente colle proporzioni di un incendio. Forse di propaganda, appunto per il poco tempo e per le condizioni di ambiente, se n’è fatta più in larghezza che in profondità: ma certo è che la massa operaia pensa, discute, non si dà più come una volta alle irose baruffe che avevano sempre per movente il pregiudizio campanilistico e regionalista. Il socialismo ha dunque fatto molto qui. L’organizzazione politica del proletariato prospera, gli operai s’interessano alla vita pubblica come in niun’altro paese della centrale e meridionale Italia. Accanto alla organizzazione politica, e sorto quasi con essa, prospera il movimento cooperativo, e si allarga conquistando. Potrebbe sembrare dunque un piccolo Belgio se non mancasse l’organizzazione economica. Tolte quella dei lavoranti fornai, e quella dei lavoranti barbieri non esistono o non vivono altre associazioni di miglioramento e di resistenza. Tutto il movimento operaio s’è fermato alle cooperative ed al mutuo soccorso. È un fenomeno!160.
Ovviamente in seguito la situazione tornerà ad avere un maggiore equilibrio. A partire dai primi anni del secolo in un diverso clima di libertà politica si assisterà infatti al rinascere della Camera del Lavoro e, in generale, ad una nuova fase di sviluppo dell’associazionismo operaio161. Ciò comporterà in parte una perdita di peso politico dei sodalizi mutualistici, ma non intaccherà affatto il ruolo centrale ricoperto sin lì dalla cooperazione di consumo all’interno del movimento operaio ternano. La Cooperativa degli Alti Forni a guida operaia, “La Previdente” – e tutte le altre cooperative che andranno in seguito costituendosi – continueranno ad avere nel periodo della loro piena attività una funzione determinante sia come palestre di democrazia per dirigenti e militanti operai, sia come capisaldi economici di riferimento per le masse lavoratrici nelle ordinarie difficoltà quotidiane di esistenza ed in quelle straordinarie dei periodi di lotta. Pietro Farini, uno dei più
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Cfr. T. Mariani, Un po’ di storia della Cooperativa altiforni, in “La Turbina”, 17 ottobre 1903 (da cui si cita); Id., Un po’ di storia sulla Cooperativa alti forni, ivi, 31 ottobre 1903. Cfr. la corrispondenza da Terni dell’“Avanti!” (Socialismo imperfetto) riportata nell’articolo Organizzatevi, in “La Turbina”, 26 agosto 1899. Cfr. Giardinieri, Socialismo e socialisti cit. (a nota 155), pp. 73-74.
Classi sociali, mutualismo, resistenza e cooperazione a Terni nella seconda metà del XIX secolo
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traverso diverse forme, renderà però in seguito particolarmente travagliata la vicenda dell’istituzione, contribuendo non poco a vanificare gli sforzi di rinnovamento attuati dai dirigenti operai159. Ciononostante, di indubbio rilievo – e vale la pena di sottolinearlo – rimane il ruolo che complessivamente le cooperative di consumo si trovano a svolgere a Terni in questo scorcio di secolo. Esso determina in città una situazione particolare, una forma di “socialismo imperfetto”, comunque un “fenomeno”.
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prestigiosi dirigenti del movimento operaio ternano e della stessa “Previdente”162, così descrive il ruolo che avrebbero dovuto avere – e che senza dubbio ebbero – le cooperative di consumo:
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Perché le cooperative che noi amiamo; le nostre cooperative; le cooperative socialiste insomma, non sono spacci creati solo a titolo di vendita a buon mercato con tenui utili ai consumatori o per servir di calmiere; ma sono i nostri templi, sono la nostra casa, sono la nostra forza; sono la nostra arma, la cassaforte per la guerra nostra per combattere e per vincere163.
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Su Pietro Farini cfr., tra gli altri, Pietro Farini: una vita per il socialismo, supplemento al n. 3 di “Cronache Umbre”, Perugia 1959. P. F[arini], La lezione delle cose, in “La Turbina”, 10 ottobre 1903.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
Due sono gli elementi essenziali che contraddistinguono la vicenda ternana nel più generale quadro regionale. Da una parte – dopo gli anni ottanta del secolo scorso – il suo carattere di città industriale, dall’altra l’elemento di eccezionalità che ciò comporta per l’insieme della città e il livello di consapevolezza che di questo dato hanno i protagonisti della storia cittadina. In questo quadro il tentativo che si è fatto da più parti è stato quello di rendere permanente tale carattere di eccezionalità. Dall’ampia partecipazione al movimento risorgimentale nelle file garibaldine – quando non addirittura dalle rivolte popolari del Cinquecento – sino agli scontri di piazza del secondo dopoguerra, in un continuum indistinto, Terni è stata così rappresentata come città da sempre all’opposizione, sovversiva, ma anche progressista e capace di esprimere forze popolari, consapevoli e mature, in grado di mettere in campo, in ogni tempo, capacità di governo, oltre che di lotta. Si tratta di una tradizione in buona parte inventata che si costruisce riprendendo alcuni stereotipi nazionali, primo tra tutti quello della continuità tra tradizione garibaldina e repubblicana, da un lato, e socialismo anarchico e marxista, dall’altro. Tale continuità fa da pendant a quella che, in modo a volte ardito, si è cercato di costruire – accreditando una secolare vocazione “siderurgica” della città – tra la vecchia Ferriera pontificia e le moderne acciaierie sorte alla fine del secolo scorso1. Peraltro questa operazione può essere letta anche come una risposta data ad esigenze diverse: ad esempio, a quella, sorta nel passato, di costruire un’immagine pacificata, senza traumi, del mutamento in cui il nuovo nasce come sviluppo dal vecchio e non come rottura rispetto ad esso; oppure a quella, più recente, di conservare un’identità alla città in un momento di crisi in cui prospettive ed equilibri appaiono tutt’altro che solidificati. Terni è invece una delle città italiane in cui la rottura degli antichi equilibri a causa dell’industrializzazione avviene in maniera traumatica. L’inserirsi della grande industria in un ambito rurale determina infatti un mutamento radicale dell’econo-
Il saggio è stato pubblicato con lo stesso titolo in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Umbria, Torino, Einaudi, 1989, pp. 662-703. 1
Sul tentativo di accreditare una tradizione secolare alla siderurgia ternana, oltre a quanto detto in F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Torino 1975, p. 14, cfr. G. Gallo, Ill.mo Signor Direttore... Grande industria e società a Terni fra Otto e Novecento, Foligno 1983, p. 20.
Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953
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Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953
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mia, della società, degli assetti urbani, della dinamica politica. La localizzazione nella conca ternana della Fabbrica d’Armi (1881), della Società degli Alti Forni, Fonderie e Acciaierie di Terni, SAFFAT (1884), dello Jutificio Centurini (1886) e di altre imprese minori fa crescere a dismisura la popolazione operaia della città. Si assiste a un incremento demografico eccezionale. Sono migliaia gli operai che, in diverse tornate, si riversano su Terni richiamati dall’enorme domanda di lavoro. L’insieme delle strutture urbane viene sottoposto a una tensione crescente; case, fognature, strade, acquedotti risultano inadeguati e insufficienti. Si tratta di un fenomeno pressoché unico nella storia dell’industrializzazione italiana. Solo La Spezia e Piombino registrano fenomeni simili a cavallo tra i due secoli, ma le dimensioni dei due centri industriali risultano inferiori a quelle di Terni. La città, dopo aver visto stemperarsi i suoi caratteri originali, finisce così per assumere una fisionomia che la rende, da un punto di vista sociale ed economico, totalmente diversa dal resto della regione. Anche le dinamiche culturali e politiche finiscono per essere poste in un quadro nuovo.
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1. Tradizione e rottura A Terni nella fase risorgimentale e postunitaria le classi dirigenti appaiono contraddistinte da forme accentuate di radicalismo. Nel quadro generale dell’Umbria meridionale in cui più forte è il peso del garibaldinismo, del mazzinianesimo e in genere delle forze democratiche, Terni rappresenta il centro in cui tali caratteri si presentano più accentuati2. Nel giugno 1867 è il patriota ternano Pietro Faustini, forte dell’incoraggiamento di Garibaldi, a tentare con 105 volontari – in gran parte suoi concittadini – un colpo di mano su Roma; qualche mese dopo proprio da Terni parte la spedizione di Mentana3. Questa effervescenza deriva in buona parte dal fatto che nel decennio 1860-70 Terni si trova ad essere una città di frontiera. Il confine segnato dal Tevere passa a pochi chilometri da essa e ciò la fa divenire il luogo ideale in cui congiurare, organizzare e raggruppare volontari per una soluzione rapida della “questione romana”4. Dopo il 1870 i ceti dirigenti dirottano il loro radicalismo progressista in direzione della crescita economica della città e così, mentre richiedono al governo provvedimenti volti a favorire la localizzazione nella conca ternana di industrie, avviano la costruzione delle infrastrutture necessarie per favorire il processo di industrializzazione. A tale spinta industrialista essi affiancano anche generiche istanze sociali.
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F. Bartoccini, La lotta politica in Umbria dopo l’Unità, in Prospettive di storia umbra nell’età del Risorgimento, atti dell’VIII congresso di studi umbri, Gubbio-Perugia, 21 maggio - 4 giugno 1970, Perugia 1973, pp. 181269; F. Mazzonis, “Correnti politiche in Umbria prima dell’Unità (1849-1860)”, ibidem, pp. 109-180. A. Mezzetti, I miei ricordi nelle campagne 1866-67, Terni 1901. I. Ciaurro, L’Umbria e il Risorgimento. Contributo dato dagli Umbri all’Unità d’Italia, Bologna 1963.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
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Gallo, III.mo Signor Direttore cit. (a nota 1); M.R. Porcaro e P. Pentasuglia, Tessuto urbano, equilibri territoriali e industria a Terni nella seconda metà dell’Ottocento, Perugia 1986. L’Unione Liberale”, 26 settembre 1880 e 25 dicembre 1881 (da cui si cita). AST, ASCT, b. 615, fasc. 1, manifesto della Giunta Municipale, 20 settembre 1880. Ivi, lettera del comandante del presidio di Terni, 22 settembre 1880 (da cui si cita); “L’Unione Liberale”, 26 settembre 1880.
Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953
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Viene perciò posto il problema dello sviluppo urbanistico della città, si costruiscono nuovi assi viari, si progettano l’ampliamento della cinta urbana e la costruzione di case operaie. Tale programma è però realizzato solo in minima parte. La ristrettezza delle finanze comunali, dovuta, tra l’altro, alle forti spese affrontate per costruire un canale industriale derivato dal Nera, la pochezza dei capitali, la scarsa propensione al rischio, il disinteresse dei gruppi industriali impediscono la realizzazione di opere volte a diminuire i disagi sociali che si vengono a creare a Terni nella fase dell’industrializzazione. Vi è poi un altro elemento che impedisce alle tradizionali classi dirigenti di regolamentare e programmare la crescita della città. Sono le dimensioni del processo di industrializzazione: dimensioni fisiche, ma anche di peso politico ed economico. I gruppi industriali, che localizzano i loro stabilimenti nel territorio cittadino, hanno interessi, riferimenti, prospettive che trascendono un rapporto con Terni. La partita che giocano si svolge nei grandi centri nazionali, mentre i contraccolpi dello sviluppo industriale insistono direttamente sul tessuto urbano. Ed è questo fatto a produrre una profonda lacerazione in quello che possiamo definire il blocco urbano5. A Terni, come in altre città umbre, dopo l’Unità si è formata una cultura che cementa i diversi ceti sociali e che esclude la campagna, vista come possibile terreno di coltura di avventure restauratrici. Tale ideologia si basa sulla tradizione mazziniana e garibaldina, sulla fiducia nel progresso e nella scienza, sull’anticlericalismo e sul rituale laico che ne è il naturale corollario. Un fitto tessuto associativo costituito da società di mutuo soccorso, associazioni di mestiere, sodalizi di reduci, confraternite laiche, circoli anticlericali sono i luoghi dove classi dirigenti e ceti popolari si incontrano e mediano le contraddizioni interne alla città. Ciò consente un momento di contenimento dalle più acute forme di patologia urbana. L’esempio più evidente di ciò emerge da un fatto di cronaca. Il 19 settembre 1880 due sergenti del reggimento di artiglieria presente a Terni vengono l’uno ucciso e l’altro gravemente ferito da due fratelli operai, Odoardo e Giovacchino Bevilacqua. La stampa nazionale tende ad accreditare l’idea che la rissa sia dovuta a “spirito settario”6. La Giunta Municipale smentisce e invita a partecipare alle esequie del sottufficiale ucciso7. La risposta popolare, che secondo diverse fonti risulta “generale” e “spontanea”, viene interpretata – nel giusto senso crediamo – come un attestato di estraneità della comunità ternana a forme di odio classista8. Al di là del fatto specifico, ciò nella sostanza dimostra
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come gli antichi equilibri della città preindustriale riescano ancora a costituire un argine nei confronti di nascenti elementi di ribellione sociale. Del resto, fin dai primi anni postunitari, le classi dirigenti cittadine hanno intrapreso una serie di iniziative aventi come obiettivo la promozione di un’“educazione pubblica”, “rivolta a formare con un ben inteso sistema uomini robusti, religiosi, istruiti e civili”9. Una biblioteca circolante, le Scuole Tecniche Popolari sono alcune delle strutture entro le quali questo progetto pedagogico trova espressione10. Agli inizi degli anni ottanta le preoccupazioni derivanti dalla profonda trasformazione sociale in atto nella città inducono i ceti dominanti a intensificare e qualificare il loro sforzo pedagogico, dandogli contenuti specifici. Al riguardo è significativo l’interesse che “L’Unione Liberale”, settimanale fondato dai liberali progressisti ternani nel 1880, dimostra nei confronti della “questione sociale”. Nelle sue pagine viene infatti pubblicata la rubrica Corriere Operaio con lo scoperto intento di proporre un modello, ottimale quanto improbabile, di operaio “istruito”, “ordinato” ed “economo”. Da parte dei ceti liberali progressisti si insiste sul fatto che la “questione sociale” potrebbe essere risolta eliminando i tradizionali “vizi” dei lavoratori: l’intemperanza, la dissolutezza, l’imprevidenza. Secondo “L’Unione Liberale” il denaro lucrato [dagli operai] col sudore della propria fronte, e che erogato con regolarità e parsimonia, dovrebbe essere bastevole a provvedere di sufficiente vitto, di salubre abitazione e di decente vestiario la famiglia di un operaio, viene invece profuso a larga mano nei soli giorni festivi, in gozzoviglie, stravizzi ed ebbrezze11.
Ma di fronte alla nuova e convulsa realtà urbana che si sta profilando all’orizzonte questi tentativi di proporre alle classi popolari valori di elevazione morale e intellettuale devono apparire ben presto vani. Non è infatti casuale, nel corso del 1882, la progressiva rarefazione – fino alla definitiva scomparsa – del Corriere Operaio dalle pagine del periodico liberale. I gruppi dirigenti cittadini si rendono cioè conto che non è più possibile rispondere con la pedagogia alle nuove dinamiche sociali innescate dall’industrializzazione. A Terni gli abitanti salgono dai 15.773 del 1881 ai 28.357 del 188912. La classe operaia in formazione si presenta fortemente stratificata al suo interno. Gli operai immigrati sono quelli più qualificati, mentre sul mercato del lavoro locale vengono reclutati i lavoratori generici, la manodopera femminile e provvisoria. Le più forti correnti migratorie extraregionali risultano provenire dalle Mar9 10
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Programma d’un convitto nazionale in Terni, Terni 1861, p. 3. Discorso inaugurale pronunciato in occasione dell’apertura delle Scuole Tecniche Popolari di Terni dall’ingegnere Ottavio Coletti, presidente del comitato direttivo, Roma 1876; Biblioteca Circolante di Terni, Relazione della Direzione, Terni 1882. “L’Unione Liberale”, 23 gennaio 1881. R. Covino, G. Gallo e L.Tittarelli, Industrializzazione e immigrazione: il caso di Terni, 1881-1921, in La popolazione italiana nell’Ottocento, Bologna 1985, pp. 409-30.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
che e dalla Romagna. I lavoratori provenienti da stabilimenti militari (Brescia, Torre Annunziata, Genova, Roma e soprattutto Torino) si indirizzano ovviamente verso la Fabbrica d’Armi. Marchigiani, romagnoli e buona parte dei lavoratori provenienti da altre zone della regione si orientano verso la SAFFAT. Lo Jutificio Centurini occupa quasi esclusivamente manodopera femminile proveniente dal circondario ternano. Lungo la strada Valnerina, dove sono ubicati la gran parte degli stabilimenti ternani, lo spettacolo dell’“andata alle officine”, tra le cinque e le sei del mattino, è, secondo il cronista ternano de “II Messaggero”, “un quadro moderno grandioso, [...] che ricorda alcune pagine del Germinal”:
Oltre ad essere frammentato per quanto riguarda provenienza geografica e professionalità, il proletariato in formazione a Terni è sottoposto a brutali condizioni di lavoro. Miseramente pagato, deve sottostare a orari massacranti, che arrivano fino alle 14 ore di alcuni piccoli stabilimenti tessili, e a processi di produzione i cui livelli di pericolosità assumono dimensioni macroscopiche. Nella seconda metà degli anni ottanta il settimanale “Il Corriere Umbro-Sabino“ pubblica una rubrica sugli infortuni dal titolo Cronaca delle disgrazie e non vi è settimana in cui manchi “sventuratamente materia per questa rubrica”14.“Il Messaggero” invece, nello spazio riservato alla cronaca di Terni, dà loro rilievo quotidiano sotto il titolo La disgrazia del giorno – spesso Le disgrazie del giorno. Lo stabilimento in cui avvengono il maggior numero di incidenti sul lavoro è, secondo il giornale romano, quello della SAFFAT, e questo non solo per le dimensioni e la pericolosità propria della grande industria, ma anche perché “la massima parte degli operai adibiti a quello stabilimento sono stati scelti tra gente del contado, buonissima per coltivare un pezzo di terra, ma inabile a soddisfare le incombenze cui è addetta all’acciaieria”15. L’uscita dei contadini del circondario ternano dalla propria marginalità attraverso l’ingresso in fabbrica assume così caratteristiche cruente. L’infortunio mortale, la mutilazione, il licenziamento, il baratro della miseria sono alcune delle angosciose inquietudini che scandiscono l’esistenza del lavoratore salariato. Ad attendere gli immigrati c’è non solo un durissimo regime di fabbrica, ma anche una città. Il fatto che, alla fine del 1885, la popolazione presente in città superi i 21.000 abitanti, produce osservazioni preoccupate da parte dei contemporanei più avvertiti. 13 14 15
“Il Messaggero”, 27 agosto 1886. “Il Corriere Umbro-Sabino”, 22 settembre 1887. “Il Messaggero”, 27 giugno 1888.
Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953
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Quanta varietà di tipi, di lingue, di dialetti, dagli ingegneri e capi fabbrica stranieri e lautamente pagati, dagli operai italiani d’ogni provincia più abili, dagli intelligenti armaiuoli, dai bravi meccanici, discretamente ma più spesso troppo magramente pagati fino ai poveri ed ignoranti contadini dei dintorni i quali guadagnano appena di che sfamarsi13.
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La superficie dell’intero comune – scrive il medico Alessandro Fabri – raggiunge appena i 103 chilometri quadrati, onde per ogni chilometro quadrato possono calcolarsi 205 abitanti, che danno una densità più che doppia di quella generale d’Italia. E tale densità addiviene straordinaria se si consideri come soltanto i tre decimi della popolazione si trovino ad abitare la campagna e le piccole frazioni del comune, mentre gli altri sette decimi siano agglomerati nell’interno della città impreparata e inadeguata a contenere un massiccio afflusso di persone16.
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Si tratta dunque di un coacervo di uomini e donne che si trovano a vivere in un ambiente ristretto, dove tutto risulta insufficiente – abitazioni, infrastrutture, servizi, dove tutto si presenta con le caratteristiche della degradazione fisica e morale.
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È spettacolo straziante – scrive nel 1886 un addetto ai lavori, l’architetto Pier Gaetano Possenti – vedere in solai mal riparati e non sicuri ed in cantine umide giacere a decine i poveri operai nello stesso ambiente, privi di qualunque conforto, costretti a ritenere internamente le immondizie o gittarle sulle pubbliche vie. Se vi fosse una statistica esatta delle malattie e delle morti per ogni singola strada, l’eloquenza delle cifre mostrerebbe chiaramente quanto contribuisca sulla salute pubblica lo stato miserando delle località sopra descritte17.
Il proprietario di casa rapace finisce per essere l’omologo del direttore di fabbrica che impone condizioni di lavoro massacranti, malpagate e pericolose. Miseria e morte diventano le unità di misura prevalenti in questo degradato paesaggio urbano. Nel 1886 un’epidemia di vaiolo colpisce la città, trovando fertile terreno di coltura nelle sue pessime condizioni igieniche. I canali cittadini restituiscono sempre più spesso dei cadaveri, dietro cui non ci sono soltanto disgrazie, ma anche suicidi e omicidi. A scorrere le cronache giornalistiche su Terni in questo scorcio di secolo si ha l’immagine di una città in cui la violenza scandisce il trascorrere quotidiano della vita operaia. Limitandoci alla cronaca de “Il Messaggero”, emerge come, oltre alle disgrazie negli stabilimenti, vi siano altri fatti che hanno una scansione quasi quotidiana nella vita delle classi lavoratrici. Sono le risse che scoppiano improvvise tra operai in fabbrica, nelle bettole e nei postriboli; risse che a volte si concludono tragicamente con un colpo risolutore di coltello o di trincetto. Le risse della domenica sera nelle case di tolleranza di via degli Artieri sono poi un fatto ricorrente. Infatti “è impossibile che in luoghi siffatti, in mezzo a tanta gente che per lo più prima di andare a fare omaggio a Venere ha sacrificato lungamente a Bacco, non succeda qualcosa di deplorevole”18. Le liti sono spesso originate dal malanimo 16
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A. Fabri, Appunti di demografia e d’igiene sulla città di Terni e cenni sulle limitrofe stazioni idrologiche e climatiche, in Ricordo di Terni. MDCCCLXXXVI, a cura di L. Lanzi e R. Gradassi Luzi, Terni 1886, p. 21. Ampliamento e piano regolatore della città di Terni. Progetto del prof. Gaetano Possenti scultore architetto membro della Commissione Edilizia. Ai signori componenti il Consiglio Comunale, Terni 1885, p. 4. “Il Messaggero”, 15 dicembre 1886.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
2. Industrializzazione e rivolta Dei 1.314 ammoniti che agli inizi del 1883 si contano nei diversi comuni del circondario giudiziario di Spoleto, 809 sono residenti a Terni22. Ciò dimostra come l’autorità giudiziaria circondariale venga ormai definitivamente maturando la convinzione che Terni sia una città da sottoporre a “vigilanza speciale”. Del resto questa è un’idea che anche i tradizionali ceti dominanti dopo averla fortemente avversata – come si è detto – sembrano ora accettare e condividere. Essi, infatti, scontata la propria impotenza nel far fronte alla vorticosa urbanizzazione e ai suoi effetti “selvaggi”, si mostrano sempre più spaventati da una classe lavoratrice che
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Ibidem. “La Tribuna Illustrata della Domenica”, 2 luglio 1899. L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose Parigi nella rivoluzione industriale, Roma-Bari 1976, p. 541. “L’Unione Liberale”, 11 marzo 1883.
Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953
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esistente tra gli appartenenti ai diversi gruppi regionali o nazionali. È il caso dello scontro del 12 dicembre 1886 che ha come teatro un postribolo dove “ in mezzo all’asfissiante puzza del tabacco e del fumo, [mentre] operai di tutte le province, con diversi dialetti incoraggiavano le sciagurate agli atti più sconci, alle parole più indecenti”, scoppia una “baruffa terribile” determinata dal fatto che “alcuni romagnoli, inaspriti […], stavano sparlando dei ternani”19. Ma risse e baruffe non sono monopolio esclusivo del sesso forte, anche le donne mostrano di avere una spiccata tendenza allo scontro, alla cui base in genere stanno motivi di gelosia o di interesse. Nelle frequenti zuffe che le vedono protagoniste i mezzi d’offesa sono però meno cruenti (morsi, graffi, improvvisati oggetti contundenti), ma non per questo meno efficaci. Donne selvagge è il titolo che, il più delle volte, “Il Messaggero” riserva al resoconto di queste liti. Accanto a ciò crescono anche le forme estreme di patologia urbana. Esse concorrono nel far apparire il nome di Terni sulle prime pagine dei giornali nazionali. Nel luglio 1899 il “quadro” di prima pagina de “La Tribuna Illustrata della Domenica” è riservato a un operaio delle acciaierie, immigrato dalle Marche, che aveva tentato di scaraventare la moglie e le due figlie nel fiume Nera. Era morta soltanto una delle due bambine. Secondo il giornalista, all’atto dell’arresto l’operaio “dichiarò che a quell’orribile divisamento lo spinse la miseria”20. Ma la risposta che i lavoratori danno a questa durissima condizione materiale d’esistenza assume forme di diverso tipo e segno. Esse diventano sempre più spesso espressione manifesta di un latente antagonismo di classe. Si fanno collettive, evidenziano che il rispondere con la violenza a un’imposta situazione di violenza viene assunto dalle classi lavoratrici come “il miglior modo di affermare la propria esistenza, la propria diversità o la propria superiorità”21.
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ai loro occhi sta progressivamente assumendo caratteristiche socialmente pericolose. La paura nasce dalla contiguità anche fisica che sembra stabilirsi tra classe operaia e delinquenza comune. Non è infrequente infatti che i carabinieri debbano eseguire arresti “su pregiudicati che vengono a nascondere l’esser loro, la loro vita passata, in mezzo alla folla immensa degli operai”23. Agli inizi del nuovo secolo, in un opuscolo che caldeggia l’istituzione di una società di beneficenza, si constata come Terni in un quindicennio di industrializzazione si sia popolata “in maniera allarmante e disdicevole” di un consistente numero di mendicanti, “non tutti vecchi e inabili, per la maggior parte vagabondi e accattoni di mestiere”. Ai veri poveri che inevitabilmente sorgono, si può dire da un giorno all’altro, nella nostra come in tutte le città industriali, per effetto dei fenomeni ed atti inerenti alla sua feconda attività; agli infortunati, ai disoccupati, agli sventurati, tanto frequenti nella categoria dei lavoratori, si sono aggiunti a mano a mano in numero soverchiante e con continuo crescendo, accattoni di mestiere, per lo più convenuti qui da vicini e lontani paesi per vegetare come parassiti della generosità cittadina24. D’altra parte l’incapacità delle tradizionali classi dirigenti ternane di inserirsi da protagoniste nel processo di industrializzazione in atto fa sì che esse vadano incontro a una progressiva perdita di peso sociale e politico e, conseguentemente, della loro capacità di mediazione. Esse affidano sempre più spesso la propria tranquillità e la legittimazione del proprio potere ai tutori dell’ordine pubblico. La repressione viene invocata non soltanto contro gli aspetti più violenti della devianza operaia, ma anche contro i suoi “viziosi” passatempi quotidiani. Ed ecco che allora diventano bersaglio anche “quei crocchi di gente livida, oziosa, garrula e accoccolata come le ranocchie, nei quali si esercitano giochi più o meno fraudolenti e d’azzardo”25,“crocchi, ove numerosi operai si giuocano, appena intascate, le loro mercedi”26. Contro questa nuova realtà le classi dirigenti cercano di conquistare almeno il consenso dai vecchi ceti popolari cittadini in nome della difesa dei valori comunitari e interclassisti della città preindustriale. Il rifiuto della proletarizzazione trova espressione nella parola d’ordine “Terni dei Ternani”27 e nel considerare “corpi estranei” alla città i “forestieri”. Quando nel settembre 1884 viene rinvenuto nel fiume Nera il cadavere “crivellato di pugnalate” del direttore della Ferriera, l’ingegnere Andrea Della Volta – omici-
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“Il Messaggero”, 13 settembre 1886. Sull’istituzione di una Società di beneficenza in Terni, Terni 1904, citato in Gallo, Ill.mo Signor Direttore cit. (a nota 1), p. 93. “L’Unione Liberale”, 8 marzo 1885. “L’Annunziatore Umbro-Sabino”, 5 novembre 1885. Al riguardo si veda il giornale socialista “La Turbina”, 24 settembre 1898, in cui ci si scaglia contro questo “grido” del quale “certuni han fatto un programma, una bandiera, una parola d’ordine, una aspirazione, una idealità”.
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dio per cui si sospetta il portiere dello stabilimento, Luigi Paganotti – il cronista de “L’Annunziatore Umbro-Sabino” si affretta a precisare la provenienza del sospetto omicida da Montecarotto di Ancona e, quindi, l’estraneità dei “tranquillissimi Ternani” a simili “fatti brutti”. Al riguardo ricorda che la traduzione in caserma del sospetto omicida era avvenuta “tra gli urli di numeroso popolo che reclamava indignato giustizia sommaria”28. Il “buon nome” di Terni appare dunque salvo. Peraltro risulta ormai accertato come questa alzata di scudi contro i “forestieri“ abbia ottenuto un discreto seguito tra alcuni strati della piccola borghesia e dei tradizionali ceti popolari29. Riconosciuto esponente e portavoce di essi è il poeta dialettale Furio Miselli, i cui versi sono spesso testimonianza della reciproca avversione esistente tra ternani di vecchia data e immigrati:
Si tratta comunque di espressioni di una cultura destinata ad essere travolta dal processo di assimilazione in atto all’interno delle classi, subalterne cittadine. Le condivise condizioni di vita e di lavoro costituiscono per esse l’elemento aggregante di una nuova solidarietà. Un istintivo moto: di ripulsa verso un determinato ordine sociale ed economico, verso chi lo rappresenta e chi lo difende, sembra divenire sempre più di sovente espressione di una loro sensibilità collettiva. Le direzioni aziendali, i quadri di produzione, il corpo dei sorveglianti, il prefetto, il sottoprefetto, i carabinieri, insomma tutti i tutori dell’ordine costituito, in fabbrica e in città, diventano i bersagli di una rabbia che cresce, che scoppia improvvisa all’interno delle classi lavoratrici e popolari, e che, soprattutto, subisce sempre, meno condanne intestine. Quando, a un mese di distanza dall’assassinio dell’ingegner Della Volta, un giovane operaio della Società degli Alti Forni uccide con un trincetto da calzolaio il proprio capo-officina che ne aveva proposto il licenziamento “per insubordinazioni commesse”, non vi è alcuna violenta reazione da parte della Terni popolare31. A più di due anni di distanza, addirittura, il fatto che un altro operaio della SAFFAT aggredisca con un “affilato” coltello a serramanico un ingegnere ottiene un rilievo pressoché ordinario tra le notizie della cronaca cittadina32. E ciò non soltanto perché l’opinione pubblica sta ormai abituandosi a queste forme di criminalità. In
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“L’Annunziatore Umbro-Sabino”, 4 settembre 1884. R. Rossi, La stampa a Terni dal 1876 al 1900, Terni 1969, pp. 16-17; Gallo, Ill.mo Signor Direttore cit. (a nota 1), pp. 40-43; A. Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: 1830-1985, Torino 1985, pp. 110-13. F. Miselli, Le più belle poesie in dialetto ternano, Terni 1959, p. 39. “L’Unione Liberale”, 11-12 ottobre 1884. “Il Messaggero”, 24 gennaio 1887.
Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953
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Ma che ve spacchi un corbu. d’accidenti se po sapé se chi ve cià chiammatu? Non ve butta de stacce, e jete via!30.
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città si hanno infatti con sempre maggiore frequenza manifestazioni collettive di aggressività da parte dei ceti popolari. Esse sono però ora diversamente indirizzate. Nel settembre 1887 alcune guardie di pubblica sicurezza, che stavano arrestando per un futile motivo (“sedeva sopra di un muro da cui si godeva le corse senza pagare”) un operaio della Ferriera, vengono assalite da una folla minacciosa e sono salvate dall’intervento dei carabinieri33. Nell’aprile del 1888 una spontanea coalescenza di 500 persone, “composta nella massima parte di donne e di ragazzi”, si scaglia contro una proprietaria che, protetta dai carabinieri, stava facendo eseguire uno sfratto ai danni di una famiglia operaia. Per salvarsi i carabinieri sono costretti a sguainare le sciabole e “a menar piattonate a destra e a manca”34. A pochi giorni di distanza due guardie di città di scorta al carro dell’accalappiacani vengono circondate da una folla “compatta e minacciosa” e quindi aggredite perché non avevano voluto soddisfare la richiesta di rilascio di un cane avanzata dal proprietario. Ancora una volta è tempestivo l’arrivo di carabinieri e guardie di questura; ciononostante una delle due guardie esce da questa aggressione ferita alla mano sinistra “da un colpo di arma perforante” e “mezzo strozzata”35. È da tali episodi che nasce un’immagine di Terni di fine secolo come società in rivolta, in cui il connotato di classe dei comportamenti collettivi si fa sempre più evidente e radicato. La manifestazione di avversione verso il borghese, o comunque verso il benestante, entra a far parte del comportamento quotidiano delle classi subalterne e coinvolge anche le generazioni più giovani. Se ne accorgono a loro spese, nella primavera del 1887, gli studenti di buona famiglia delle scuole ginnasiali e tecniche, i quali nelle loro uscite dall’edificio scolastico, o nelle ore di ginnastica, vengono ripetutamente fatti bersaglio, senza apparente motivo, di fitte sassaiole da parte dei ragazzini del quartiere36.
3. La città popolare e la città proletaria Allo scadere del secolo il proletariato di fabbrica diventa dunque un protagonista collettivo della vita cittadina. Esso si presenta ancora come una realtà magmatica e frammentata; ma sono già in atto i complessi processi attraverso cui si sarebbero costruite una coscienza unitaria e una cultura operaia. È dalla riflessione sulla propria condizione in fabbrica che nasce il primo momento di coesione dei diversi spezzoni che compongono la classe operaia ternana. Grazie a tale riflessione si superano i particolarismi regionali e le divisioni tra gli operai
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17 settembre 1887. 15 aprile 1888. 25 aprile 1888. 31 maggio 1887.
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“Il Risveglio Operaio”, 16 agosto 1888. Al riguardo si veda la poesia di Alfredo Bemporad citata in G. Giani, Donne e vita di fabbrica a Terni, Perugia 1985, p. 35. ACS, MI, Gabinetto, Rapporti dei prefetti (1882-94), b. 16, fasc. 46, relazione del prefetto, 31 maggio 1887. Ivi, relazione del prefetto, 30 settembre 1887. Portelli, Biografia di una città cit. (a nota 29), p. 31.
Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953
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di mestiere e gli operai-contadini del circondario ternano. Nella prima metà del 1888 a Terni si costituisce il Nucleo Operaio Mazziniano Intransigente tra operai romagnoli e marchigiani. È chiaramente un’istituzione “esclusiva” creata dai settori più politicizzati dei due gruppi regionali in contrapposizione a un ambiente circostante ostile. Ciononostante nell’estate dello stesso anno i suoi locali accolgono un’assemblea eterogenea di operai determinati a opporsi alla decisione della direzione aziendale della SAFFAT di inasprire la punizione verso quanti si presentavano in ritardo al lavoro37. Tra le manifestazioni più evidenti della solidarietà che si sviluppa tra gli operai in fabbrica vi sono poi i funerali delle vittime degli infortuni e delle “malattie da profitto”. I giornali li descrivono come un insieme di profonda pietà umana e di rabbia, risentimento e solidarietà operaia. È indubbio comunque che per gli operai l’interruzione del lavoro per recarsi al funerale, i mesti e minacciosi cortei che attraversano la città dietro il feretro della vittima, la sottoscrizione a favore dei parenti finiranno per assumere sempre più le caratteristiche di un rito collettivo attraverso cui esprimersi “politicamente” in quanto classe38. A dare forma e coscienza politica al potenziale di rottura sociale che si viene accumulando tra le masse lavoratrici e popolari in questi anni intervengono poi i militanti dei gruppi politici repubblicani e internazionalisti. Secondo il prefetto di Perugia, “Foligno e Terni si possono considerare come le due r[o]cche del repubblicanesimo umbro e Terni anche del socialismo internazionalista”39. Rispetto a quest’ultimo l’autorità prefettizia successivamente sottolinea che il suo nucleo più consistente “è dato nella Provincia Umbra dagli operai forestieri addetti agli stabilimenti industriali di Terni”40. Accanto ad essi vi sono poi i militanti di quelle aggregazioni politiche sviluppatesi in città negli ambienti dell’estrema sinistra risorgimentale. Si tratta di artigiani, negozianti, gestori di esercizi pubblici i quali, in alcuni casi, hanno alle spalle un’esperienza di volontariato nelle fila garibaldine. A differenza dei nostalgici della Terni preindustriale, essi accolgono di buon grado quello straordinario referente sociale di massa portato in città dall’industrializzazione. Le loro botteghe, mescite, laboratori si trasformano in animati luoghi di discussione politica, in centri permanenti di agitazione e propaganda. Il ruolo svolto da alcuni pubblici locali cittadini, gestiti da esponenti di primo piano del garibaldinismo e dell’internazionalismo anarchico, nella diffusione tra la massa operaia di idee anticlericali e di riscatto sociale appartiene ormai alla memoria collettiva della città41.
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Sono, per ricordarne soltanto alcuni tra i più centrali, le osterie dei garibaldini Giovanni Garofoli in corso Vittorio Emanuele e Vincenzo Cruciani, in via Cavour, o ancora le caffetterie del difensore della Repubblica Romana Ubaldo Sconocchia o dell’internazionalista Alfredo Pazzaglia, rispettivamente in piazza e corso Vittorio Emanuele. La bottega di pasticciere dell’anarchico Fabio Pazzaglia è, per il prefetto, “il ritrovo di pregiudicati della peggiore specie coi quali [il proprietario] ben volentieri si intrattiene a parlare d’anarchia”42. Analogo centro di propaganda spicciola deve essere il laboratorio del calzolaio anarchico Giuseppe Negroni, che nel 1884 risulta dirigere il primo foglio operaio ternano, “Pronti!”43. La stampa operaia è il veicolo di trasmissione delle idee che questa prima generazione di “sovversivi“ della Terni industriale si avvia a usare con sempre maggior frequenza. I redattori, i gerenti responsabili delle testate operaie sono spesso anche i dirigenti delle formazioni politiche cittadine. Gli articoli, i comizi, le “chiacchierate” si indirizzano soprattutto a cementare un’unità sociale tra le masse lavoratrici, cercando di radicare in esse un forte senso del “noi” contrapposto a “loro” (i padroni, i borghesi, gli sfruttatori). Il passato, recente e remoto, il richiamo alla memoria popolare, a un patrimonio di esperienze condivise, tutto serve a legittimare la rivolta contro lo sfruttamento di classe. “Il nostro nemico è il nostro padrone” scrive un proletario sul “Pronti!”44. “Noi non vogliamo padroni” afferma la redazione del “Risveglio Operaio”. Per quest’ultima la lotta contro “quelle subordinazioni che rasentano la schiavitù” trova ragione nel fatto che non è possibile dimenticare che i figli di una generazione che sulle barricate, su i campi di battaglia, nelle cospirazioni e quindi fra le segrete delle prigioni del santo uffizio [...] lasciò averi e vita, debbano mai sottostare tacitamente alle sevizie di coloro che il censo – di qualsiasi provenienza – collocò in auge, sino a farli ritenere despoti di chi, per fortuite ragioni, è ad essi inferiore45.
Nel 1889 esce un nuovo giornale intitolato “Il Banderaro”. Banderari si chiamavano i popolani e i borghesi che nel 1564 si erano ribellati contro i nobili46. Il loro spettro sembra ancora turbare le classi dominanti e i rappresentanti dell’ordine costituito se nel 1886 la Sottoprefettura di Terni vieta la rappresentazione in un teatro cittadino del dramma intitolato, appunto, I Banderari. In particolare sono ritenute pericolose le parole pronunciate da uno dei protagonisti, un fabbro ferraio: “alla fin fine poi, il mondo è di chi lo abita, e [...] perciò tutto quanto vi è 42 43 44 45 46
ACS, CPC, b. 3796, fasc. “Pazzaglia Fabio”, cenno biografico, 29 giugno 1894. U. Bistoni, Origini del movimento operaio nel Perugino, Perugia 1982, pp. 413-18. Citato in ivi, p. 417. “Il Risveglio Operaio”, 17 giugno 1888. G. Canali e G. Giani, Evoluzione e involuzione nelle prime forme di democrazia municipale a Terni, in “Indagini”, 1983, n. 20, pp. 33-39.
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racchiuso di bello e di brutto dovrebbe essere di santa ragione diviso in parti eguali!”47. Queste affermazioni di uguaglianza, che servono a legittimare una rivolta cruenta, nel contesto locale devono apparire sicuramente come una miccia accesa in una polveriera. E che Terni si presenti come tale ormai non vi sono più dubbi, almeno per le autorità di pubblica sicurezza.
Uno di questi era stato nel novembre del 1886 il presidente del Consiglio dei Ministri, Depretis. Il suo comportamento risulta, del resto, facilmente spiegabile se si esamina alla luce di quanto avviene nel luglio dell’anno successivo, allorché anche il re manifesta il proposito di visitare gli impianti della SAFFAT. Alla notizia della probabile visita reale, il sottoprefetto si affretta infatti a comunicare al ministro Crispi che non avrebbe potuto “rispondere di nulla se fosse [stata] decisa la gita del re a Terni”49. Nel turbinio di idee che i gruppi più politicizzati fanno circolare tra le masse lavoratrici, l’anticlericalismo, costituisce comunque il denominatore comune. È però un anticlericalismo che appare, in parte, diverso da quello diffusosi negli anni postunitari. La confluenza di intenti stabilitasi tra una parte delle classi dominanti e la Chiesa fa si che esso assuma una marcata connotazione classista, divenga pratica quotidiana, quasi un gioco per i ragazzi delle classi popolari: Di preti se ne vedevano pochi in giro – scrive Ilario Ciaurro, ricordando Terni alla svolta dei secolo; qualcuno camminava rasente i muri delle case, pauroso della “manna” che poteva piovere da qualche finestra o infastidito dalle ragazzaglie che l’inseguivano facendo il verso della cornacchia50.
La tradizione popolare laica e risorgimentale perciò si configura sempre più come un terreno di incontro delle diverse culture regionali presenti in città. Alcune delle festività e ricorrenze appartenenti alla liturgia laica, creata all’indomani dell’Unità in alternativa a quella religiosa, finiscono per diventare precisi momenti di manifestazione di ostilità verso l’ordine sociale esistente e verso la sua espressione istituzionale, la monarchia. Le masse lavoratrici usano queste tradizionali commemorazioni della Terni risorgimentale per esprimere i nuovi contenuti classisti
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“Il Messaggero”, 28 agosto 1886. “Il Corriere Umbro-Sabino”, 16 giugno 1887. “Il Messaggero”, 15 luglio 1887. I. Ciaurro, La cara vecchia Terni, Foligno 1985, p. 15.
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Non mancarono – si denuncia su “Il Corriere Umbro-Sabino” – ministri, dignitari di Stato ed altri illustri personaggi che, recandosi ad ammirare le meraviglie dell’industria in questa nostra Terni, non si degnarono neppur di entrare in città quasiché quivi fosse raccolto un covo di nichilisti, di comunardi, di distruttori; quasi che il suolo di quest’industre e laborioso paese fosse minato!48
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della città industriale. Peraltro cosi viene inventata una continuità storica “forte” che servirà poi a legittimare una tradizione sovversiva di lunga data. Il primo violento scontro di piazza con un’evidente connotazione politica avviene il 5 maggio 1889 in occasione di un “bivacco repubblicano-socialista” organizzato per commemorare la Rivoluzione francese51. Sono “grida sediziose di ogni genere” dei manifestanti a sollecitare un primo intervento repressivo da parte delle forze dell’ordine52. Ciò provoca una reazione della massa che assume dimensioni particolarmente violente; per sedare i disordini deve essere richiesto l’intervento di unità del presidio militare. Alla fine degli scontri si contano diversi feriti tra i tutori dell’ordine, i più colpiti risultano essere ufficiali e sottufficiali; un vice brigadiere dei carabinieri riporta una ferita da pugnale al fianco destro. Vengono tratti in arresto circa quaranta dimostranti, in buona parte operai degli stabilimenti53. Le ostilità tra la città operaia e lo stato monarchico-borghese si sono aperte “ufficialmente”. D’ora in poi la rivolta, il tumulto, l’azione di protesta assumeranno con sempre maggior frequenza un carattere moderno, quello proprio della dimostrazione politica.
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4. Istinto di classe e organizzazione Nell’ultimo decennio del secolo a Terni si assiste a un consistente sviluppo del tessuto associativo; accanto ai tradizionali sodalizi di mutuo soccorso, proliferano associazioni politiche e di resistenza. Nel 1890 si contano 3 circoli socialisti, 5 repubblicani e 6 anarchici54. La crisi che in questi anni investe l’industria siderurgica produce drammatici effetti sociali e un acutizzarsi della conflittualità operaia. All’interno del nascente movimento di classe sono soprattutto le frange anarchiche a rendersi protagoniste attraverso la “propaganda del fatto”. Il 18 marzo 1890, anniversario della Comune, sulla torre del palazzo municipale viene issata una bandiera rossa e nera, recante due scritte: “Viva la Comune di Parigi”, “Viva l’anarchia”55. Nel maggio 1891 la paura delle bombe e della dinamite anarchiche induce le autorità di pubblica sicurezza a sciogliere il circolo “XVIII Marzo” e ad arrestare sedici affiliati56. A un anno di distanza una bomba viene
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ACS, Carte Francesco Crispi, Serie Roma, fasc. 337, relazione dell’ispettore generale P. Bertarelli, 11 maggio 1889. “L’Avvenire di Terni e dell’Umbria”, 9 maggio 1889. Cfr. il secondo “Supplemento straordinario” a “L’Avvenire di Terni e dell’Umbria” del 2 maggio 1889. R. Manelli, Il movimento operaio a Terni nella seconda metà dell’Ottocento, Terni 1959, p. 41. “L’Avvenire di Terni e dell’Umbria”, 20 marzo 1890. Cfr., tra gli altri, ACS, CPC, b. 2448, fasc. “Gironi Germano”, cenno biografico, 3 maggio 1897.
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Ivi, b. 1669, fasc. “Del Bigio Serrano”, cenno biografico, 3 maggio 1897, e b. 5601, fasc. “Zuccari Domenico”, cenno biografico, 9 maggio 1897. Cfr., tra gli altri, ivi, b. 125, fasc. “Androsciani Felice”, cenno biografico, 3 maggio 1897. Ivi, b. 4158, fasc. “Pulcini Emilio”, cenno biografico, 9 maggio 1897. Ivi, b. 4416, fasc. “Rosi Elviro”, cenno biografico, 7 dicembre 1896. Manelli, Il movimento operaio cit. (a nota 54), p. 51. Cfr., tra gli altri, ACS, CPC, b. 958, fasc. “Calori Antonio”, cenno biografico, 3 maggio 1897. Ivi, b. 4439, fasc. “Rossi Domenico”, cenno biografico, 29 giugno 1894. Ivi, b. 4117, fasc. “Predicatori Serafino”, cenno biografico, 6 maggio 1895. Ivi, b. 3159, fasc. “Mattiangeli Costantino”, cenno biografico, 3 maggio 1897. Cfr. tra gli altri, ivi, b. 1653, fasc. “De Angelis Ettore”, cenno biografico, 3 maggio 1897 e b. 2196, fasc. “Fulvi Gustavo”, cenno biografico, 23 luglio 1898.
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fatta esplodere nel palazzo della Sottoprefettura57. Nel maggio 1893 alcuni esponenti anarchici vengono individuati dagli agenti di pubblica sicurezza come i “più caldi sobillatori” di uno sciopero delle operaie dello Jutificio Centurini che si conclude con l’intervento della truppa58. Ma è in particolare nel 1894 che la tensione fra anarchici e forze di polizia si fa più acuta, soprattutto a causa degli echi della drammatica repressione del movimento dei Fasci Siciliani e dei moti insurrezionali della Lunigiana. A gennaio, “in occasione della partenza dei richiamati sotto le armi per i moti di Sicilia” in tutta la città vengono affissi manifestini “inneggianti alla rivoluzione sociale ed incitanti i soldati alla rivolta”59. La ricorrenza del 18 marzo 1894 viene celebrata con un attentato alla vita del vice ispettore di pubblica sicurezza, Gaeta60. L’esplosione della tensione accumulata avviene nel giugno, allorché viene organizzata una manifestazione di protesta contro la condanna degli esponenti del movimento dei Fasci Siciliani. Mentre i manifestanti sfilano in silenzio con un vistoso garofano rosso all’occhiello, la forza pubblica interviene per sciogliere la dimostrazione. Ne seguono scontri aspri e prolungati61. Nel luglio successivo l’arresto di un nutrito gruppo di anarchici per associazione a delinquere interrompe l’organizzazione di un attentato al re e al presidente del Consiglio62. La schedatura sistematica dei sovversivi, avviata dall’autorità di pubblica sicurezza in questi anni, consente di dare un volto ad alcuni dei protagonisti di questo turbinoso decennio. Tra essi troviamo maturi militanti immigrati a Terni in cerca di lavoro come il riminese Domenico Rossi, operaio allo Jutificio Centurini (“Apertamente e senza alcun timore fa propaganda di principi anarchici”)63, o sradicati senza fissa dimora come Serafino Predicatori (“Per la sua vita girovaga e vagabonda l’autorità ha dovuto più volte occuparsi di lui”)64, o, ancora, membri del tradizionale ceto artigiano urbano come il calzolaio Costantino Mattiangeli (“Pregiudicati politici e penali sono i suoi abituali compagni”)65. Vi sono poi i più giovani che, nati intorno alla metà degli anni settanta, costituiscono il prodotto “politico” di quel condensato di miseria e disordine sociale che è Terni nella fase della sua industrializzazione66. Cresciuti in un clima di violenza diffusa, essi la assumono come codice espressivo privilegiato; il nemico di classe,
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una volta individuato, diventa per loro un obiettivo contro cui riversarla in maniera indiscriminata. Dalla convinzione che la guerra senza quartiere al capitale va condotta su tutti i fronti nascono anche forme di connivenza con la criminalità comune. Peraltro questi giovani rappresentano in forma esasperata quella che sarà una componente costantemente presente all’interno della classe operaia ternana. Un insanabile spirito di scissione verso il sistema capitalistico e i suoi valori, la tendenza a dar vita a forme di lotta puramente economicistiche, il ricorso frequente al regolamento dei conti con chi esercita o rappresenta l’oppressione, saranno i capisaldi dei suoi atteggiamenti mentali e comportamentali. Gli ambienti anarchici e gli strati più bassi della classe operaia, dove insicurezza del posto di lavoro e abiezione delle condizioni di vita sono più forti, ne costituiranno il prevalente, ma non esclusivo, terreno di coltura. Sul piano della trasmissione delle idee un’azione che assume caratteri di maggiore sistematicità viene invece avviata dal movimento socialista a partire dalla fase del suo consolidamento, intorno alla metà degli anni novanta67. Da un’analisi impostata a un crudo realismo, che evidenzia come larga parte delle masse popolari viva “in una spaventevole inconsapevolezza”, i socialisti derivano la necessità di dotarla di una maggiore capacità di raziocinio (“facciamone un popolo pensante”). Lo strumento è individuato nell’“apostolato educativo, ovunque e sempre, nelle riunioni, nei crocchi, uomo per uomo”68. Il linguaggio appare tipico dell’evangelismo socialista; l’estesa azione educatrice avviata ricorda l’analogo tentativo messo precedentemente in atto dai ceti dominanti. Di quello riprenderà – ovviamente per fini diversi – anche alcuni valori, ad esempio, l’etica del lavoro. Il progetto pedagogico socialista è contrassegnato dalla volontà di dare alla classe non solo elementi di distinzione ma anche di identificazione, attraverso l’enucleazione di una cultura imperniata su un proprio sistema di valori. Fede nella scienza, anticlericalismo, solidarietà, operosità, fierezza, dignità di sé, disciplina, austerità, coerenza sono i capisaldi che devono andare a comporre il sistema di riferimento etico e comportamentale del lavoratore socialista. L’obiettivo di fondo è soprattutto quello di poter esercitare un controllo sul comportamento operaio per indirizzarlo verso attività coscienti e organizzate. Ma questa è un’impresa che si rivela complessa e piena di contraddizioni, soprattutto laddove si tenta di eliminare le divisioni interne alla classe e alcuni suoi tradizionali “vizi”. La battaglia alla contrapposizione che divide operai di diversa provenienza regionale risulta relativamente facile per il socialismo ternano dato che – lo si è visto – in quegli anni la comune condizione di lavoro funge da importante fattore di unificazione della classe. Diverso appare il discorso per la divisione esistente tra 67
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G. Giardinieri, Socialismo e socialisti a Terni tra Ottocento e Novecento, in “Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria”, LXXXV (1978), pp. 63-122. “La Turbina”, 11 marzo 1899.
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“Il Messaggero”, 15 settembre 1886. “La Turbina”, 19 agosto 1911. P. Farini, In marcia con i lavoratori, dattiloscritto, pp. 109-110. L’autobiografia di Farini si trova in APC, 1937, fasc. 1537.
Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953
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operai di mestiere e operai di provenienza contadina, che si manifesta ad esempio alla SAFFAT fin dai suoi primi anni di attività. I contadini assunti dalla società con un salario più basso si trovano così a fare concorrenza “agli operai veri, a quelli che crebbero nelle officine”69. Questo antagonismo interno al proletariato della grande industria costituisce una contraddizione reale che si ripercuote sull’intera storia del movimento operaio ternano. Esso, trova paradossalmente un fattore di accentuazione proprio nell’orgoglio di mestiere, che è uno degli elementi su cui l’operaio qualificato socialista viene fondando in questi anni la sua identità sociale70. Quando nell’industria siderurgica ternana le ricorrenti crisi industriali pongono la necessità “oggettiva” dei licenziamenti, spesso si vede il movimento socialista consentire con coloro che propongono l’allontanamento di chi viene dalle campagne a “rubare” un posto di lavoro. Anche la lotta intrapresa dai socialisti contro alcune abitudini operaie ritenute viziose, come quella del bere o del gioco del lotto, ottiene risultati dubbi. I lavoratori dimostrano in più maniere di non voler rinunciare a quello che è un elemento fondante della loro socialità, la “bicchierata”. Essa infatti costituisce l’unico modo che l’operaio ha “per sfuggire al groviglio della stanzetta umida e nera nella quale, con la famiglia, [è] costretto a vivere”71. Anche sul fronte del lotto le cose non vanno molto bene per la pedagogia socialista. Questo gioco appare talmente radicato che i giornali operai ternani, in aperta contraddizione con i loro enunciati, sono costretti a pubblicare l’“estrazione di Roma“ per non perdere lettori. Tuttavia qualche risultato viene raggiunto. Per fare un solo esempio, negli elenchi dei sottoscrittori, pubblicati regolarmente dalla stampa operaia, non è infrequente trovare, rispetto alla provenienza della cifra versata, alcune specificazioni di questo genere: “invece di giocare al lotto”, “invece di un bicchiere di vino”, “avanzo bicchierata”. Del resto si tratta di reazioni abbastanza consuete, che sono parte integrante di quell’attivo rapporto dialettico che in questa fase si instaura tra le spesso soffocanti prescrizioni morali imposte dalle formazioni politiche e i consensi o le resistenze con cui ad esse rispondono le masse lavoratrici e popolari, seguendo proprie logiche interne. Da questo impasto tra spontanee germinazioni e influssi esterni scaturisce comunque un’autonoma cultura operaia urbana in cui, a secondo delle congiunture, si coniugano impazienze sovvertitrici e desiderio di riforme. Peraltro questa cultura trova espressione, attraverso un preciso apparato simbolico e rituale, degli ostentati segni di appartenenza, delle istituzioni e dei luoghi distinti.
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La necessità di ridisegnare un proprio calendario di solennità per dare ai lavoratori alcune “memorie sante” viene avanzata da “La Turbina” fin dal 1899, sottolineando al riguardo come si registri una straordinaria concentrazione di esse nel mese di marzo: “sei di marzo cadde di ferro codardo Felice Cavallotti”; “dieci di marzo si spense Giuseppe Mazzini”; “quattordici di marzo si spezzò la vita di Carlo Marx”; “diciotto di marzo il popolo di Parigi proclamò la Comune”72. In questa fase uno dei maggiori elementi distintivi del consolidarsi di una specifica cultura operaia è comunque la festa del Primo Maggio, con tutto il suo apparato rituale di bandiere rosse, inni, canti di protesta, ostentazione di simboli di lotta. Festeggiato la prima volta in sordina per non offrire pretesti alla repressione padronale e poliziesca73, a Terni il Primo Maggio finisce per assumere completamente le caratteristiche che gli sono universalmente attribuite. L’iconografia che rappresenta e ricorda la ritualità di questa festa operaia a Terni74 costituisce infatti una testimonianza inequivocabile del fatto che essa viene vissuta come “la regolare presentazione in pubblico di una classe, una dimostrazione di forza, addirittura, nel suo invadere lo spazio sociale dell’establishment, una conquista simbolica”75. Leghe, sindacati, cooperative sono poli di irradiazione e di consolidamento della cultura operaia. Nati principalmente per difendere o assicurare decenti condizioni di vita ai lavoratori, questi strumenti associativi diventano ben presto degli insostituibili centri di vita sociale intorno a cui si viene strutturando progressivamente l’esistenza dell’insieme delle classi subalterne. I quartieri e i borghi a composizione operaia, omogenea costituiscono poi una zona franca di questa cultura. In particolare le borgate, costruite spontaneamente “pietra su pietra” dagli operai al di fuori della cinta urbana76, già nei nomi che assumono (Garibaldi, Bovio, Cavallotti, Costa) sembrano voler fornire un’indicazione precisa in questo senso. All’interno di queste comunità i nuclei familiari si configurano come altrettante cellule elementari di resistenza e di trasmissione di valori di solidarietà e giustizia sociale. Ciò soprattutto in conseguenza della larga diffusione che a Terni si ha di un modello di famiglia operaia in cui tutti i membri si trovano a svolgere un ruolo produttivo in fabbrica. In una lettera inviata al “Messaggero” nel settembre del 1886 si denuncia che l’operaio immigrato, a causa delle “sanguisughe” (“lo strozzino, l’affarista, il bagarinaggio”) che trova ad aspettarlo a Terni, è costretto per sopravvivere a far impiegare tutti i suoi familiari (“Vi sono degli stabilimenti che per lire 3,50 al
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“La Turbina”, 11 marzo 1899. Manelli, Il movimento operaio cit. (a nota 54), pp. 43-45. Al riguardo cfr. Terni 1884-1984. Dalla storia al museo della città, Terni 1985, pp. 140 e 143. E.J. Hobsbawm, Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale, Roma-Bari 1986, p. 90. Farini, In marcia cit. (a nota 71), p. 109.
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“Il Messaggero”, 4 settembre 1886. AST, ASCT, b. 35, “Registro delle deliberazioni del Consiglio Comunale dal 13 marzo 1921 al 20 novembre 1921”, verbale dell’adunanza consiliare del 16 marzo 1921. M.R. Porcaro, Una lettera, una canzone, una storia. Le operaie di Centurini, in “Storia dell’Umbria dal Risorgimento alla Liberazione”, 1980, n. 3; Giani, Donne cit. (a nota 38). Citato in Portelli, Biografia di una città cit. (a nota 29), p. 108. M. Romagnoli, La Camera del Lavoro di Terni dalle origini alla prima guerra mondiale, tesi di laurea Università di Roma, a.a. 1985-86, pp. 270 sgg.
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giorno tengono al loro servizio marito, moglie e figlie”)77. E questa è una situazione che, se pure non più dettata da ragioni di mera sopravvivenza, rimarrà in seguito largamente invariata. Nel 1921 il sindaco socialista Tito Oro Nobili sottolinea al riguardo la “fisionomia tutta speciale sia come natura, sia come condizione sociale ed economica” della popolazione operaia formatasi in città in seguito all’industrializzazione: “Noi abbiamo delle intiere famiglie – e sono a centinaia – i cui membri sono tutti occupati negli stabilimenti industriali”78. L’uniformità dell’esperienza di lavoro in fabbrica e dei riferimenti culturali che da essa derivano contribuisce a cementare in tutti i membri della famiglia operaia una visione del mondo fortemente permeata di spirito classista. Da questo contesto familiare prende corpo una figura di donna operaia con caratteri del tutto originali. Protagonista di lotte proprie, portatrice di una netta ideologia di rifiuto del lavoro salariato, spesso essa assume un ruolo radicale e di punta nel conflitto operaio. Lo Jutificio Centurini, a prevalente occupazione femminile, costituisce un focolaio permanente di ribellione dalla sua fondazione fino agli anni del fascismo79. Nell’estenuante lotta di resistenza degli operai contro la serrata proclamata dalla SAFFAT nel 1907 il deciso intervento delle mogli dei serrati, che creano tumulti e reclamano lo sciopero generale, ha effetti risolutori e appare al corrispondente dell’“Avanti!” “un’ora di romanticismo rivoluzionario”, “una pagina d’istruttiva ribellione”80. Nel primo decennio del secolo anche l’aumento delle lotte a carattere offensivo costituisce un’ulteriore conferma del fatto che tra i lavoratori si sta consolidando la consapevolezza dell’insanabile conflitto di interessi che li vede contrapposti al “capitalista”81. Comunque l’aspro terreno di confronto, su cui il padronato conduce il rapporto di classe nelle maggiori industrie ternane, impedisce che tra la gran massa dei lavoratori coscienza di sé, gradualismo e crescita organizzativa si sviluppino e procedano in una progressione parallela, come invece avrebbe voluto la prevalente vocazione riformista delle varie correnti socialiste. Da questo punto di vista la vertenza avviatasi nel 1907 alla SAFFAT può essere letta come un tornante decisivo, sia perché rappresenta uno dei momenti di consapevolezza più alti espressi dal proletariato ternano, sia perché esiti e vicende ad essa successivi avranno un’influenza determinante nell’orientare la risposta operaia all’abuso e allo sfruttamento verso forme di lotta estreme, illegali, o addirittura criminali.
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Lo sciopero, trasformato subito in serrata dall’azienda, nasce dalla rivendicazione di un equo regolamento di fabbrica. La vertenza dura 93 giorni e assume il volto di un confronto globale tra direzione della SAFFAT e operai82. Il proletariato ternano spende in questa lotta l’insieme di quell’eterogeneo patrimonio organizzativo e, soprattutto, culturale sin lì accumulato. L’esito della vertenza, in parte favorevole ai lavoratori, trova un punto di forza decisivo proprio in quella vasta socializzazione di una cultura della resistenza, che a Terni nasce a partire dal nucleo familiare. Non a caso le donne dei “serrati” non si oppongono al fatto che, per aumentare le capacità di resistenza e di lotta, i loro figli vengano ospitati presso famiglie solidali in altre zone d’Italia. La lotta cioè non riguarda solo i lavoratori ma l’insieme del loro universo83. La composizione del conflitto comporta comunque alcuni elementi di compromesso anche sul fronte operaio e ciò scatena una violenta e prolungata polemica da parte dei settori estremi del movimento contro i “cedimenti” dei riformisti. Negli anni che seguono, il clima di polemiche e accuse reciproche prodottosi genera uno stato di sfiducia e scollamento tra i lavoratori e le proprie organizzazioni, di cui approfitta prontamente la direzione aziendale della SAFFAT per “a suo bell’agio incrudelire con stipendi di fame e con licenziamenti arbitrari sulla massa operaia”84. La vanificazione dei durissimi sacrifici sopportati nel corso della serrata fa inevitabilmente crescere e risultare prevalente tra i lavoratori uno stato d’animo contraddistinto da risentimento e rabbia85. È in questo clima che maturano alcuni di quegli avvenimenti “eccezionali”, i quali – come si è visto – per gli atteggiamenti e gli schieramenti che producono si configurano come degli attendibili rivelatori di orientamenti e stati d’animo collettivi. Nell’ottobre 1911 l’operaio di origine romagnola Fortunato Gazzoni viene licenziato da un dirigente dell’Ufficio Personale della SAFFAT, Antonio Campi, perché, sentendosi ingiustamente accusato di un’infrazione, era venuto a diverbio con il capo-officina Tranquillo Spadoni. Di fronte a ciò il fratello dell’operaio, Giuseppe, anch’egli dipendente dello stabilimento siderurgico, per solidarietà si licenzia. Da qui cominciano una serie controversa di scontri verbali, atti di sottomissione, risposte intransigenti e minacce reciproche di cui i quattro si rendono protagonisti in diverse occasioni. Fortunato Gazzoni avverte con insistenza i due dirigenti: “Voi avete il comando, noi la forza”. E sono due colpi di rivoltella a concludere la vicenda all’inizio del 1912. Il 20 gennaio Giuseppe Gazzoni spara contro Campi, ferendolo gravemente; a pochi giorni di distanza, l’1 febbraio, Fortunato attenta alla vita di Spadoni, procurandogli una ferita in seguito alla quale rimarrà paralizzato. Peraltro alle Acciaierie questi due attentati seguono di poco quello subito
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Farini, In marcia cit. (a nota 71), pp. 139-148. Portelli, Biografia di una città cit. (a nota 29), pp. 104-110. “La Turbina”. 25 aprile 1914. Ivi, 2 gennaio 1909.
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Un po’ di smeriglio in cuscinetti – si legge in un manifestino diffuso nel luglio del 1914, un piccolo pezzo di ferro in un motore, e tante altre cose che sono a nostra conoscenza bastano a paralizzare e devastare quelle macchine che sono produttrici della ricchezza altrui92.
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Cfr. gli atti istruttori del procedimento penale contro i due fratelli Gazzoni in AST, ASST, b. 133, fasc. 1. Per la citazione si veda la dichiarazione di Tranquillo Spadoni dell’1 febbraio 1912. Ivi, requisitoria del procuratore del re, 18 aprile 1913. Citato in “La Turbina”, 3 febbraio 1912. Ibidem. AST, ASST, b. 133, fasc. 1, lettera di Paolo Gazzoni, 23 agosto 1912. Portelli, Biografia di una città cit. (a nota 29), p. 116. ACS, MI, DGPS AGR, Polizia Giudiziaria 1890-1919, b. 21, fasc. 10085.43.49, rapporto del prefetto, 11 agosto 1914, e manifestino titolato “Compagni, lavoratori” (da cui si cita).
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dal caposquadra Allegretti il quale, invece, era stato accoltellato da un operaio86. La città rimane scossa da questa serie di avvenimenti. Il procuratore del re individua “in odio proletario ed in idee di vendetta” la causale degli attentati dei Gazzoni87. “Il Giornale d’Italia” li definisce “la diretta conseguenza della predicazione di odii che da anni viene impartita alle masse operaie”88. Il giornale socialista “La Turbina”, pur inserendoli in un contesto di denuncia del gesto individuale “anarcoide”, li considera “i primi deplorevoli effetti di quattro anni di arbitrii”89. Da parte della base operaia, invece, non si registra alcuna reazione e ciò di per sé è già eloquente. Questo silenzio si carica però di ulteriori significati se viene correlato ad alcuni fatti successivi. Nell’agosto 1912 Paolo Gazzoni, il maggiore dei fratelli, scrive a Fortunato, rassicurandolo: “io proprio oramai sono convinto come tutti dicono a piena voce che per essere padroni se ne approfittano troppo, rovinano gli operai ridendo cuor duro!”90. Contemporaneamente comincia a circolare tra la massa operaia la battuta “Allegre’ Campi Tranquillo”, che viene usata di sovente anche in maniera minacciosamente allusiva verso quegli elementi del personale di comando che dimostrano spiccate tendenze vessatorie91. In altri termini il metro di giudizio che viene applicato al gesto criminoso operaio appare in primo luogo basato su discriminanti di classe, soprattutto su un forte senso di solidarietà verso chi, di parte operaia, è indotto al crimine dagli arbitrii padronali. In assenza di più appropriati strumenti collettivi di difesa il gesto delittuoso – come nel caso dei Gazzoni – viene addirittura assunto e rivendicato dalla classe lavoratrice all’interno delle proprie tradizioni di lotta e di opposizione al sistema di fabbrica. Sono questi codici di comportamento che permettono negli anni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale, in una fase di ulteriore acutizzazione dello scontro di classe, ai sindacalisti rivoluzionari di porsi alla testa delle lotte operaie. Sono essi ad assumere la direzione della Camera del Lavoro e a proporre, alla classe primitivi metodi di lotta e di resistenza, legittimandoli ideologicamente. Scontata la complessiva debolezza delle loro organizzazioni, i lavoratori vengono invitati a rispondere agli arbitri padronali col “sabotaggio”.
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Questa accentuata cultura del conflitto è destinata ad allargarsi con lo scoppio della guerra. La necessità di incrementare la produzione dell’industria bellica e il richiamo al fronte di molti uomini provocano un consistente ingresso in fabbrica di donne, giovani e lavoratori provenienti da altri settori produttivi93. Alla fine del 1916 la direzione della Camera del Lavoro viene assunta da un’operaia dello Jutificio Centurini, Carlotta Orientale94. Ciò evidenzia in maniera eccellente come in questa fase siano appunto le donne, non ricattabili con la minaccia dell’invio al fronte, a proporsi quale combattiva controparte delle direzioni aziendali. Alla fine della guerra si inseriscono altri due fattori di inasprimento delle tensioni sociali: la disoccupazione e il mito nascente della rivoluzione russa. Esasperazione, patologie urbane, sovversivismo diffuso, coscienza di classe sono dunque questi gli elementi che vanno, a comporre il mosso quadro politico e sociale del dopoguerra95. Le elezioni politiche e amministrative del 1919 e del 1920 segnano una straordinaria affermazione del Partito Socialista, ma complessivamente è scarsa la partecipazione, operaia al voto96. Nel gennaio 1920 sono presenti in città due camere del lavoro, in cui si riflettono, dal punto di vista organizzativo, le due anime presenti all’interno della classe operaia ternana: una aderente all’Unione Sindacale Italiana con 29 leghe e 3.549 associati, l’altra aderente alla Confederazione Generale del Lavoro con 14 leghe e 3.302 associati97. Nonostante le forti divisioni politiche, esse riescono a suscitare nelle masse lavoratrici una straordinaria mobilitazione, attraverso cui si ottengono importanti conquiste normative e salariali. A fronte di una consistente mobilitazione sui luoghi di lavoro, la scarsa partecipazione elettorale è un segno inequivocabile della preferenza accordata da larga parte del proletariato temano alla fabbrica come terreno decisivo dello scontro sociale. E questa scelta è naturale non soltanto perché sul luogo di lavoro l’oppressione e il dominio di classe sono più fortemente sentiti, ma anche perché nella fabbrica essi assumono una dimensione individuabile, ravvicinata, contro cui potersi ribellare (ad esempio il dirigente detestato). Nel 1910 il partito socialista aveva compendiato il proprio intenso fervore pedagogico in sette “comandamenti” rivolti all’operaio: 1. 2. 3. 4.
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Tenersi lontano dall’alcoolismo; Leggere i giornali che difendono i diritti della classe proletaria; Istruirsi, organizzarsi ed essere disciplinato; Fuggire i demagoghi e coloro che per interesse ingannano chi lavora;
R. Covino e G. Gallo, La forza lavoro della Fabbrica d’Armi di Terni durante la prima guerra mondiale, in Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale, a cura di G. Procacci, Milano 1983, pp. 288-310. ACS, CPC, b. 3602, fasc. “Carlotta Orientale”, cenno biografico, 6 febbraio 1917. R. Covino, Classe operaia, fascismo, antifascismo a Terni, in G. Canali, Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione, Amministrazione Comunale Terni, ANPI Terni, Terni 1984, pp. 14-20. E. Ottaviani, Il Comune di Terni tra il 1920 e il 1922. L’amministrazione socialista, Terni 1987, pp. 33- 40. G. Masci, Le organizzazioni operaie nell’Umbria al I° gennaio 1920, Perugia 1920, p. 30.
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5. Nutrire la più profonda avversione verso i suoi sfruttatori; 6. Propagare sempre e sempre praticare la lotta di classe; 7. Combattere validamente e boicottare tutte quelle istituzioni (banche, casse rurali, cooperative di capitalisti) con cui la borghesia tenta rendere schiava la classe dei lavoratori!98
5. La città e la fabbrica Agli inizi degli anni venti attraverso “un aggiornamento ed un ampliamento del suo programma industriale” la SAFFAT si avvia a diventare un grande complesso polisettoriale99. Ciò consentirà alla nuova società guidata da Arturo Bocciardo di trasformarsi sul piano locale – e questo ci interessa particolarmente “dallo stadio di azienda più importante della città a quello di industria per antonomasia di Terni”100. In questo contesto il nascente fascismo ternano si presenta come un tentativo delle vecchie classi dirigenti, scalzate dal potere dall’irruzione sulla scena politica dei partiti operai, di riconquistare il controllo della città. Questa “riconquista” pone subito ai fascisti ternani il problema della ricerca di una base di consenso tra la classe operaia101. Tra il 1921 e il 1922 essi si inseriscono nelle lotte contro smobilitazioni e licenziamenti, riuscendo ad acquisire consensi tra quella “massa grigia [...] che, non essendo legata alla disciplina dei partiti, costituisce in ogni tempo una ondeggiante massa di manovra”102. Ma è un inganno che ha vita breve, dura infatti sino a quando il nuovo e aggressivo movimento politico non raggiunge il potere.
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“La Turbina”, 5 novembre 1910. Bonelli, Lo sviluppo cit. (a nota 1), p. 146. In seguito a questa “rifondazione” la SAFFAT assumerà la nuova denominazione di Terni Società per l’Industria e l’Elettricità. Gallo, Ill.mo Signor Direttore cit. (a nota 1), p. 2. Per la resistenza operaia al fascismo si veda F. Pierucci, 1921-22. Violenze e crimini fascisti in Umbria. Diario di un antifascista, Umbertide s.d.; G. Gubitosi, Gli arditi del popolo e le origini dello squadrismo fascista. Il caso umbro, in “Materiali di Storia”, n. 2, Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia, a.a. 1977-78, pp. 125-85. T. Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di R. De Felice, Milano 1983, p. 83.
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Alla fine del decennio però è soprattutto il quinto “comandamento” quello più favorevolmente accolto e rispettato in vasti settori della massa lavoratrice. In ogni caso non vi è dubbio che a questo punto sono principalmente il senso di appartenenza e l’avversione di classe a configurarsi come i fondamentali elementi aggreganti della coscienza di sé di larga parte degli operai ternani. Questa attitudine mentale, che porta a privilegiare lo scontro immediato piuttosto che il lavoro paziente di organizzazione e resistenza, pur costituendo per l’insieme del proletariato ternano un limite costante verso il raggiungimento di una coerente maturità politica, costituirà nel periodo fascista un inesauribile fomite di ribellione.
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Dopo la marcia su Roma la Terni e le altre imprese cittadine inaugurano una politica di ristrutturazione e licenziamenti. Il sindacalismo fascista dimostra la propria incapacità a resistere all’arbitrio delle direzioni aziendali. Ciò diviene la prova irrefutabile che i militanti antifascisti utilizzano per svelare ai lavoratori la natura classista del nuovo ordine. È questo un aspetto che viene frequentemente denunciato dal prefetto ai suoi superiori:
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Questione licenziamento operai fabbriche armi Terni – telegrafa nel giugno 1923 al sottosegretario all’Interno – ha assunto grave importanza politica e morale poiché quell[a] maestranz[a] è stata la prima a coordinare movimento nazionale e fascista in quel centro già quasi completamente sovversivo ed ess[a] rappresenta nucleo centrale composizione sindacati nazionali che risentirebbe grave danno se non venisse contemporaneamente migliorata attuazione decreto licenziamento103.
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La penetrazione del fascismo tra le masse operaie viene ricordata come “lenta e difficile” anche da Tullio Cianetti, che fino al 1925 si trova alla testa del sindacato fascista locale. Le ragioni sono individuate, da un lato, in “una diffidenza preconcetta [dei lavoratori], abilmente alimentata”, e, dall’altro, nella “ostilità sorda e garbata degli industriali”, nella loro assoluta mancanza di propensione a collaborare104. Non è casuale quindi il “risveglio dei sovversivi”, che si manifesta – come scrivono gli organi di polizia – a partire dalla seconda metà del 1923 “con propaganda subdola: non con reati comuni”105. Infatti i militanti antifascisti si attrezzano per affrontare un rafforzato apparato burocratico poliziesco e ricercano nella propria tradizione forme espressive tanto efficaci quanto poco compromettenti. La trasformazione del funerale di una vittima di infortunio sul lavoro in manifestazione collettiva di protesta è una di esse. Nell’agosto del 1923 “un centinaio di socialcomunisti” traendo pretesto dal funerale del ferroviere Peloso Cesare, fulminato in servizio dalla corrente elettrica, occultamente, in modo che nulla trapelasse né ai fascisti né alle autorità, organizzarono una manifestazione politica, che avrebbe dovuto concretarsi in un corteo al seguito del feretro106.
L’antifascismo militante è dunque mantenuto in vita da profondi contenuti di classe. Ciò consente ai suoi esponenti di tenere desta tra le masse operaie una latente ostilità, o per lo meno un’aperta estraneità, nei confronti del regime. Dopo il delitto Matteotti questi atteggiamenti raggiungono tali livelli di evidenza che lo
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ACS, DGPS AGR 1923, ctg. C I, b. 59, fasc. “Perugia-Ordine pubblico”, telegramma del prefetto, 21 giugno 1923. Cianetti, Memorie cit. (a nota 102), p. 101. ACS, DGPS AGR 1923, ctg. C 2, b. 64, fasc. 64 “Perugia-Movimento sovversivo”, telegramma del prefetto, 5 luglio 1923. Ivi, telegramma dei prefetto, 12 agosto 1923.
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ACS, SPD CR, b. 21, fasc. 138 “Cianetti Tullio”, cenno biografico, 21 dicembre 1927. ACS, DGPS AGR 1924, ctg C 1, b. 54, fasc. “Perugia-Ordine pubblico”, documentazione diversa e ctg. C 2, b. 59, fasc. “Perugia-Movimento antifascista”, telegramma del prefetto, 11 dicembre 192[4]. ACS, DGPS AGR 1925, ctg. K 1, b. 137, fasc. “Perugia-Partito Comunista”, documentazione diversa. Cfr. Gallo, Ill.mo Signor Direttore cit. (a nota 1), pp. 133-42; Covino, Classe operaia cit. (a nota 95) p. 25.
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stesso fiduciario di zona dei sindacati fascisti, Tullio Cianetti, destinato a una brillante carriera di gerarca, sembra colpito da una profonda “crisi di coscienza”, che lo porta a rassegnare le dimissioni dalla milizia e – si mormora – a tenere “segrete intese con i sovversivi del luogo [...], al fine di dare al movimento sindacale la impronta delle cessate organizzazioni rosse, e di realizzare il passaggio del sindacato dei lavoratori nella Confederazione generale del lavoro”107. Alla fine del 1924 una mobilitazione operaia riesce in alcune fabbriche a ottenere forti aumenti salariali. Protagoniste di tali lotte sono – come spesso è avvenuto a Terni in periodi di forte repressione – le operaie dello Jutificio e di altri stabilimenti a prevalente occupazione femminile. Successivamente il prefetto viene informato che alcune di queste azioni di protesta avevano carattere politico ed erano istigate da militanti comunisti108. Proprio a partire dal 1924 inizia l’identificazione tra antifascismo politico e organizzazione comunista. Ancora nel corso del 1925 si registrano risultati ragguardevoli in questa paziente opera di riaggregazione, anche organizzativa, messa in atto dall’opposizione. Allo stabilimento siderurgico della Terni la ricostituita sezione della FIOM riesce a raccogliere il consenso del 25 per cento della forza-lavoro, tra l’altro in una situazione in cui soltanto il 5 per cento degli operai aderisce ai sindacati fascisti109. L’azione di propaganda antifascista trova un aiuto inaspettato anche nell’aspro dissidio che in questa fase si apre all’interno del fascismo ternano e regionale. L’oggetto del contendere è il passaggio alla Terni della concessione di sfruttamento delle forze idrauliche del bacino Nera Velino posseduta dal Comune110. Elia Rossi Passavanti, podestà e deputato, si oppone a tale operazione. Egli si presenta come l’alfiere delle tradizionali classi dominanti che si oppongono al potere della grande impresa. Mussolini appoggia le pretese della società, tacitando la protesta municipalista con l’erezione di Terni a capoluogo di provincia ed elim[inando] Passavanti dalla scena politica. Dal 1927 il fascismo delega nei fatti alla Terni la gestione della città, spiazzando così completamente la borghesia cittadina. Il nuovo equilibrio politico può così essere letto come una semplificazione del conflitto e del controllo sociale: da una parte la grande impresa, dall’altra gli operai. Tale dialettica comincia a rendersi evidente tra gli anni venti e trenta. Per l’azienda ternana si tratta di un periodo di crisi dovuto al sommarsi di più fattori: gli esiti della politica deflazionistica mirante “a quota novanta”, problemi interni di investimenti, ristrutturazioni e “razionalizzazioni”, e, infine, gli effetti ritardati della “grande crisi”. Coperta sul fronte operaio dall’ormai operante stato di polizia, la Terni può però far fronte alle sue difficoltà attuando le decurtazioni salariali
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autorizzate dai decreti governativi e avviando un consistente piano di licenziamenti111. Peraltro questi ultimi sono utilizzati non solo per ottenere un consistente risparmio salariale, ma anche per allontanare il personale “indesiderabile”, quello “meno idoneo o esuberante, allo scopo di rinnovare gradualmente il [...] personale operaio”112. Alla svolta del decennio la disoccupazione cittadina fluttua tra le 2.000 e le 2.500 unità ed è destinata a aumentare113. Intensificazione dei ritmi, ampio ricorso a manodopera dequalificata – in larga misura donne e ragazzi – estrema mobilità della forza-lavoro, frammentazione dei livelli retributivi sono mezzi ulteriori di cui si serve la Terni per garantire i propri profitti e, nel contempo, per creare all’interno della classe motivi di divisioni che ne impediscano qualsiasi tentativo di organizzazione e resistenza114. Al sindacato fascista che si fa portavoce del malcontento operaio per i drastici tagli salariali, l’azienda risponde accusandolo di mantenere un atteggiamento non “certamente improntato a quello spirito di collaborazione voluto dalle [...] superiori gerarchie politiche e sindacali”115 e affermando che “l’operaio può benissimo ritornare ai guadagni precedenti, ma a questo però deve corrispondere una effettiva maggiore produttività”116. Il peso della fabbrica sull’intera città sta del resto diventando schiacciante. Nel 1930 un funzionario fascista in visita ispettiva così descrive la situazione ternana: Sul posto, come è noto, esistono gli stabilimenti della Società Terni che dà lavoro a quattromila operai negli impianti metallurgici e siderurgici della città, e ad altri tremila circa negli impianti di Papigno e Nera Montoro e nei lavori di Val di Nera. La Terni, complesso capitalistico imponente, invade la città intera, poiché non molte sono le famiglie che attraverso qualcuno di loro non abbiano rapporti di dipendenza con la Terni. È opinione quasi concorde di coloro che ho interrogato non esservi uomo finora che nella vita politica e amministrativa, salga, duri o precipiti senza l’occhiuto volere della Terni. Se anche ciò è esagerato, è però sintomo di uno stato d’animo117.
Negli anni trenta, in un contesto di rapido esaurimento di esperienze industriali, l’IRI assume il controllo della Terni, fatto questo che le consente di vedere “riconfermato il suo ruolo tradizionale, primario e privilegiato, di fornitrice di prodotti bellici speciali” per lo Stato118, ma soprattutto di divenire definitivamente l’elemento connettivo e unificante del tessuto produttivo ternano, assorbendo la
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Bonelli, Lo sviluppo cit. (a nota 1), pp. 167 sgg. AST, ASST, b. 112, fasc. 13, promemoria dei direttore centrale amministrativo, 17 novembre 1930. ACS, Archivi fascisti, PNF, Situazione politica ed economica delle province, b. 24, fasc. “Terni”, lettera del segretario federale, 22 febbraio 1932. M. Ilardi, Ristrutturazione aziendale e classe operaia sotto il fascismo: la Società Terni (1928-1932), in “Il movimento di liberazione in Italia”, 1973, n. 112, pp. 31-53. AST, ASST, b. 112, fasc. 13, lettera all’Unione Industriale Fascista dell’Umbria, 19 novembre 1930. Ivi, fasc. 7, promemoria per la Direzione Centrale Amministrativa, 3 settembre 1931. Ibidem. Bonelli, Lo sviluppo cit. (a nota 1), p. 212.
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Ilardi, Ristrutturazione cit. (a nota 114) p. 45. ACS, DGPS AGR 1932, Sez. 2, ctg. C 1, b. 52, fasc. “Terni-Agitazione metallurgici”, promemoria 9 febbraio 1932. Ilardi, Ristrutturazione cit. (a nota 114), p. 50. AST, ASST, b. 298, fasc. 12, lettera del direttore centrale amministrativo, 28 giugno 1931. ACS, DGPS AGR 1932, sez. II, ctg. C 1, b. 52, fasc. “Terni-Agitazione metallurgici”, relazione del prefetto, 4 febbraio 1932. ASCF, Ufficio Sindacale della Società Terni, b. 55, fasc. 602, verbale di accordo, 12 gennaio 1948. L’accordo prevede che la Società Terni adotti nei confronti dei 37 licenziati “un provvedimento di favore e di ristoro dei danno subito”.
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quasi totalità della forza-lavoro operaia ed erogando buona parte della massa salariale. Il processo di consolidamento del potere aziendale, dentro e fuori dagli stabilimenti, corre dunque parallelo alla fase di consolidamento del regime. Ciò porta inevitabilmente le masse lavoratrici a identificare i due poteri e a correlarli sempre più con il rincrudimento delle proprie condizioni di vita e di lavoro. A partire dalla fine degli anni venti un clima di tensione e di fermento sembra diventare endemico tra le masse operaie ternane. All’attacco concentrico del padronato esse rispondono adottando forme di autodifesa diverse. In alcuni casi si tratta di reazioni spontanee ed elementari, ma più di sovente la risposta operaia attinge a un patrimonio ormai consolidato di memoria storica e di tradizioni di lotta. Le punte elevate di assenteismo che si hanno, soprattutto nello stabilimento siderurgico della Società Terni, costituiscono una prima risposta alla dura condizione di fabbrica119. I sabotaggi sono un’altra. Tra il settembre 1930 e il febbraio 1932 più volte si scopre “in locomotive depositate nell’apposito, reparto per le riparazioni, la esistenza in parti vitali, di corpi estranei”120. Vi sono poi le aperte manifestazioni di protesta. Il 7 novembre 1930 una diminuzione salariale provoca la fermata spontanea delle maestranze di alcuni reparti121. Nel giugno 1931, in una fase di intensi licenziamenti, 20 operai del reparto “treno bidoni” delle Acciaierie si portano davanti all’abitazione di un dirigente aziendale, “inscenando una dimostrazione ostile a base di improperi e minacce”122. Alla luce delle passate esperienze, la Società Terni si affretta a chiedere al prefetto la “protezione” dei suoi funzionari. Quest’ultimo, pur dando tutte le rassicurazioni del caso, raccomanda alla dirigenza aziendale “come al solito di licenziare a preferenza operai di campagna”123. Nel dicembre 1931, sempre alle Acciaierie, “a causa di un aumento di cottimo, imposto dalla società” un gruppo di operai della sezione proiettili sospende il lavoro per venti minuti “riunendosi in rumoroso assembramento”; alcuni di essi lasciano intendere di voler compiere “atti di sabotaggio verso le turbine motrici delle Acciaierie”. Nel gennaio 1932, infine, gli operai del Reparto “getti acciaio” scioperano per un’ora e mezzo per rivendicare il pagamento, con la quindicina, anche “del cottimo per il lavoro non ancora ultimato”124. A causa di ciò 37 operai
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vengono “sottoposti a procedimento penale sotto l’imputazione del reato di ‘sciopero’, e quindi licenziati”125. Ma non basta la repressione a domare l’inquietudine che attraversa i lavoratori e di cui gli episodi prima descritti sono solo sintomi. Non a caso il prefetto scrive in un rapporto inviato nel febbraio 1932 al Ministero dell’Interno:
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Tali sporadiche manifestazioni, che considerate isolatamente non hanno alcuna importanza, debbono, peraltro, essere messe in relazione fra loro, per la forma con la quale si appalesano e per il fatto che esse si verificano in un ambiente dove si addensano migliaia di operai che non hanno ancora raggiunto un compiuto grado di comprensione fascista e che offrono quindi facile presa ad eventuali mire politiche126.
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È poi il rinvenimento, in un gabinetto di uno stabilimento, di iscrizioni inneggianti al comunismo – il cui contenuto appare molto simile “a quelle che normalmente formano l’invariato ritornello dei manifestini sovversivi” – a costituire per il funzionario governativo un’ulteriore riprova della “situazione poco tranquillante” che si sta creando a Terni127. E bisogna riconoscere che i fatti non sembrano dargli torto. Le possibilità di penetrazione del fascismo all’interno della classe operaia si mantengono estremamente ridotte. Nel 1930 tra i lavoratori della Società Terni si contano soltanto 130 iscritti al PNF, in città sono complessivamente 450128. In crescita appare, invece, l’organismo clandestino comunista, ormai divenuto l’unico punto di riferimento organizzato di tutti gli “irriducibili” avversari del regime. Una sensibile intensificazione della sua attività di agitazione e propaganda gli consente infatti di arrivare ad avere fino a 200 simpatizzanti nel 1932, quando, in aprile, la rete clandestina viene scoperta e smantellata129. Comunque la costante e metodica opera di prevenzione e repressione, esplicata dall’autorità di polizia, contribuisce non poco a selezionare un attivo gruppo di “sovversivi irriducibili” di fede comunista che, se pure esiguo e obbligato a un raggio d’azione limitato, assolverà con ricorrenti gesti dimostrativi l’importante funzione di tener desta tra la classe operaia una tradizione politica e, più in generale, la memoria storica di un passato di opposizione e di lotta130.
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ACS, DGPS AGR 1932, sez. II, ctg. C 1, b. 52, fasc. “Terni-Agitazione metallurgici”, relazione del prefetto, 4 febbraio 1932. Ibidem. ACS, Archivi fascisti, PNF, Situazione politica ed economica delle provincie, b. 24, fasc. “Terni”, relazione di F. Bianchi, 3 novembre 1930. P. Secchia, L’azione svolta dal Partito Comunista in Italia durante il fascismo 1926-1932. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, in Annali dell’Istituto G.G. Feltrinelli, Milano 1970, p. 467; Covino, Classe operaia cit. (a nota 95), p. 43. Contributo dell’antifascismo nel Ternano 1921-1943, a cura di R. Righetti e B. Zenoni, Terni 1976. Oltre ad A. Dal Pont e S. Carolini, L’Italia al confino. Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, vol. III, Milano 1983, pp. 1235-36. cfr. ACS, CPC, b. 3849, fasc. “Peruzzini Luciano”, cenno biografico, 17 maggio 1932 (da cui si cita).
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ACS, DGPS AGR 1934, ctg. C 2-A, b. 8, fasc. “Terni-Movimento sovversivo antifascista”, documentazione diversa. Per la citazione si veda la relazione del prefetto del 25 febbraio 1934. ACS, CPC, b. 2063, fasc. “Filippi Mario”, documentazione diversa. Per le citazioni si vedano la relazione del prefetto del 9 novembre 1933 e la relazione del reggente la Questura del 17 settembre 1936.
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Peraltro a questo relativo declino dell’antifascismo politico e militante si affianca un’intensificazione di fenomeni di dissidenza che traggono origine in maniera immediata da quella trama diffusa di sovversivismo e coscienza di classe che si è visto permeare la sensibilità collettiva delle masse lavoratrici ternane. Si tratta di un diverso tipo di antifascismo, istintivo e spontaneo, che in ogni caso non nasce da un retroterra organizzato. Nella fattispecie il gesto dissidente può essere prodotto da un subitaneo risveglio di coscienze su cui agiscono profonde convinzioni etico-politiche. Di sovente sono occasioni particolari, come la morte di un “compagno”, a generare in antifascisti, apparentemente rassegnati, dei sussulti della coscienza. Per essi organizzare il funerale dell’amico secondo un cerimoniale ormai collaudato, che ricordi la sua e la propria appartenenza politica, diventa il modo migliore, non solo per onorarne la memoria ma anche per dimostrare i propri sentimenti di avversione al regime. Nel febbraio 1932 due “sovversivi”, Ribelle Perazzini e Tiberio Gaj, si recano al funerale del repubblicano Aurelio Comandini portando una corona di fiori “sulla quale era stata apposta una vistosa coccarda rossa con la scritta ‘Gli amici al caro estinto’”. Per il prefetto l’intenzione di “inscenare una manifestazione sediziosa” è evidente, ne segue pertanto una condanna a un anno di confino per entrambi. Nel febbraio del 1934 il funerale di Arturo Luna, noto socialista, mette sull’avviso le autorità di pubblica sicurezza che vietano al corteo funebre di percorrere le principali vie cittadine. La risposta sono le scritte “sovversive” che compaiono “su parecchi muri levigati del centro della città”. La repressione, anche in questo caso, non si fa attendere. Cinque organizzatori del funerale vengono assegnati per un anno al confino, altri quattro vengono ammoniti131. A volte, invece, è un improvviso impeto contro un pesante e insopportabile stato di costrizione a produrre episodi di dissenso individuale. Nell’ottobre 1933 Mario Filippi, operaio della Società Italiana Ricerche Industriali, che dal 1922 aveva mantenuto “un contegno molto riservato sulle sue idee politiche”, si rifiuta di scortare il gagliardetto del dopolavoro aziendale. Sottoposto a inchiesta, rivendica come una delle ragioni del suo comportamento il fatto di essere “cresciuto in un ambiente di famiglia le cui teorie contrastavano con quelle fasciste”. Viene diffidato. Nel settembre 1936, ancora Filippi volta le spalle “sorridendo beffardamente” a un corteo di fascisti che si reca a deporre una corona al monumento dei caduti. Il gesto gli costa tre anni di confino132. Dopo oltre un decennio di regime e malgrado i condizionamenti ideologico-sociali da esso messi in atto, la città presenta ancora ampie sacche di resistenza.
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L’accentuazione da parte della Società Terni dell’attività a favore dei dipendenti, proprio negli anni trenta, appare perciò non casuale. In questo contesto spacci aziendali, abitazioni operaie, istituzioni assistenziali, dopolavori, attrezzature sportive e del tempo libero si configurano come il frutto di un paternalismo aziendale consapevolmente esercitato dalla dirigenza della società sia per accreditare una mistificante ideologia di collaborazione tra le classi, sia per ottenere un controllo globale sulla vita economica e sociale dell’intera comunità operaia cittadina133. Comunque queste coinvolgenti e molteplici iniziative, anche se produrranno – come vedremo – degli effetti di lungo periodo, non riescono nell’immediato e far ottenere alla Terni e al fascismo larghi margini di consenso all’interno delle masse operaie. Tradizione sovversiva e durezza della condizione di fabbrica sono i due poli su cui cresce e si articola la Resistenza. È la consapevolezza del contrasto tra realtà e propaganda del regime a generare l’estraneità di consistenti settori operai al messaggio aziendale e fascista. Nel ventennio più nette si fanno le differenze di classe, le distanze tra i vari ceti sociali. A un ceto medio che raggiunge discreti livelli di consumo corrisponde una classe operaia che non vede aumentare per tutto il periodo il potere di acquisto dei propri salari. Condizioni di vita, abitazione e di reddito per la gran parte degli operai rimangono immutate, quando non peggiorano134. Sono in particolare queste le ragioni per cui i nuovi e, soprattutto, i vecchi quartieri operai riescono a conservare e riprodurre forme di cultura e di socialità in cui il senso di appartenenza di classe ha un forte peso. Le condivise e difficili condizioni di vita e di lavoro continuano a costituire il cemento di aggregazione privilegiato delle reti di solidarietà che si sviluppano tra vicini, parenti e amici. Anche i funzionari statali preposti a “forgiare” le nuove generazioni fasciste, i maestri, sono costretti a prendere atto di questa coesa realtà culturale e del carattere “formativo” che essa esercita sui più giovani135. D’altra parte i segnali del malumore operaio e popolare, se si esclude un significativo arresto nel 1935, anno di maggior vigore del regime, continuano a crescere per tutti gli anni trenta. Alla teatralità del potere fascista, fatta di adunate, parate, tradizioni “inventate”, nuovi cerimoniali e nuove festività, la classe operaia oppone un proprio “controteatro”136 che trova moduli espressivi diversi e particolari: dal foglietto volante contenente frasi contro il fascismo alla vignetta pornografica, che ne rappresenta gli esponenti, graffita sui muri. Tra queste singolari forme espressive comunque un posto di crescente rilievo lo assume il mes-
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Gallo, Ill.mo Signor Direttore cit. (a nota 1), pp. 143-45. Portelli, Biografia di una città cit. (a nota 29), pp. 165-74. Al riguardo cfr. la testimonianza di Alvaro Valsenti, ivi, p. 206. Sul concetto di “controteatro,” cfr. E.P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Torino 1981, pp. 299-303.
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saggio o la lettera anonima di minacce che, d’altro canto, costituisce da sempre
Sono soprattutto i muri dei gabinetti delle fabbriche, dei cinema, della stazione a farsi latori di messaggi minacciosi nei confronti dei gerarchi del fascismo aziendale e cittadino. Di sovente, però, le minacce sono indirizzate più in alto. Dopo l’introduzione della settimana lavorativa di quaranta ore, nel dicembre 1934 sul muro di una latrina dello stabilimento elettrochimico di Papigno una mano anonima scrive: “Se Mussolini manda in vigore le 40 ore di lavoro è un cornuto e vada alla forca; vogliamo 48 ore di lavoro; se Mussolini ne volesse 40 abbasso e fucilato; non si può più vivere, avviso a chi serve”138. Per gli operai quello dei graffiti o, comunque, degli scritti anonimi diventa dunque uno dei mezzi più frequentemente usati per far conoscere il proprio pensiero senza incappare nella repressione. Ne ha coscienza anche un informatore dell’OVRA, il quale nell’aprile 1937 comunica ai suoi superiori che per sapere “chiaramente quali siano i bisogni degli operai” occorre rivolgersi alle scritte che appaiono ricorrentemente negli stabilimenti139. E non è un caso che l’avvertenza venga fatta proprio nel 1937. A partire da questa data, il malcontento operaio contro la dittatura sembra infatti dilagare. Le relazioni dei fiduciari dell’OVRA danno un quadro della situazione che preoccupa molto i tutori dell’ordine pubblico. In esse, non senza esagerazione, si insiste infatti sulla necessità di “guardare a vista” una città come Terni dove ormai non solo si impreca “senza eufemismi” contro i dirigenti aziendali e contro il regime, ma addirittura “si parla di rivoluzione antifascista come di cosa probabilissima”140. D’altra parte fino allo scoppio della guerra le segnalazioni dell’OVRA manterranno lo stesso tono. La guerra e il suo esito disastroso faranno crescere su scala ancora più vasta la sensibilità antifascista tra le classi popolari e, in parte, tra gli altri ceti sociali della città141. Appare dunque evidente come per tutto il ventennio fascista risulti presente a Terni, un iceberg sovversivo, che affiora periodicamente attraverso forme diverse
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Ivi, p. 181. ACS, DGPS AGR 1934, ctg. C 24, b. 16/A, fasc.“Terni-Iscrizioni e disegni sovversivi”, telegramma del prefetto, 13 dicembre 1934. ACS, Archivi fascisti, PNF, Situazione politica ed economica delle province, b. 24, fasc. “Terni”, relazione fiduciaria, 12 aprile 1937. ACS, MI, DGPS, Divisione Polizia Politica 1927-45, Affari divisi per materia, ctg. B 7912, b. 7, fasc. “Ternicomunismo”, relazioni fiduciarie diverse. ACS, DGPS AGR 1942, ctg. K I-B, b 76, fasc. “Terni-Movimento comunista”, documentazione diversa e DGPS AGR 1943, ctg. C 2-F, b. 63, fasc. “Terni-Offese al capo del governo”, documentazione diversa.
Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953
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una forma caratteristica di protesta sociale in ogni società che ha raggiunto un certo grado di alfabetismo, in cui le, forme di difesa collettiva organizzata sono deboli, e in cui gli individui che possono essere identificati come organizzatori di proteste sono destinati a divenire immediatamente vittime sacrificali137.
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di contestazione sociale e politica. E sono proprio i livelli di repressione, con cui la sua punta emergente viene colpita, che consentono di avere con buona approssimazione una caratterizzazione socio-politica dell’antifascismo ternano142. Complessivamente nella provincia di Terni, tra il 1927 e il 1943, vi sono 93 antifascisti deferiti al Tribunale Speciale. Di essi 62 vengono qualificati come comunisti, 2 come socialcomunisti e 2 come socialisti; i rimanenti 27 sono genericamente indicati come disfattisti oppure non hanno qualifica politica. Per la gran parte (62,3%) sono operai, vi è comunque anche una consistente componente artigiana (12,9%). Elevato è pure il numero degli assegnati al confino. Tra i 96 colpiti da questo provvedimento compaiono 51 comunisti, 8 anarchici, 7 socialisti, 2 sovversivi, 1 socialcomunista, 1 sindacalista rivoluzionario, 16 antifascisti generici, 3 disfattisti e 7 apolitici. Anche i confinati risultano essere in prevalenza operai (64,5%) e in buona parte artigiani (13,5%). Emerge anche un alto numero di ammoniti e diffidati difficilmente quantificabile data la frammentarietà dei dati, tra cui, tuttavia, risulta ancora prevalente la componente operaia e comunista.
6. Terni operaia: illusione di potere e sconfitta I primi anni del secondo dopoguerra rappresentano nella storia della città il momento in cui la classe operaia esprime il livello più incisivo di egemonia sia politico che sociale. Ciò deriva da due elementi concomitanti. Il primo è rappresentato dal fatto che le classi dominanti tradizionali, compromesse con il regime, non riescono ad esprimere un ceto dirigente alternativo proprio mentre la caduta del fascismo fa venir meno il modello di relazioni sociali imposto dalla Terni e, di conseguenza, le basi su cui i dirigenti della grande impresa avevano costruito il proprio potere143. Il secondo è conseguente al fatto che il ruolo svolto dalla classe operaia nella lotta al nazifascismo è tale da candidare i suoi partiti al governo della città144. Comunisti e operai sono i dirigenti politici e militari della brigata partigiana “Gramsci”, la stessa sopravvivenza formale del CLN per tutto il periodo della lotta armata viene garantita dal PCI, sono ancora i comunisti che nei primi giorni dopo la Liberazione (13 giugno 1944), in una Terni distrutta da 108 bom-
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Per i dati che seguono sono state utilizzate fonti diverse; in particolare A. Dal Pont e S. Carolini, L’Italia dissidente e antifascista. Le ordinanze, le sentenze istruttorie e le sentenze in camera di consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputatiti di antifascismo dall’anno 1927 al 1943, 3 voll., Milano 1980; Id., L’Italia al confino cit. (a nota 130), pp. 1234-44; ACS, UCP, ctg. 710/80, b. 40, fasc. “Terni-Confino; ivi, ctg. 710/82, b. 109, fasc. “Terni-Ammoniti e diffidati”. R. Covino, Politica e società in Umbria 1944-1946, L’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, a cura di N. Gallerano, Milano 1985, pp. 107-20. L’Umbria nella Resistenza, a cura di S. Bovini, vol. 1, Roma 1972, pp. 201 sgg.
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Per le vicende politiche, sociali ed economiche dei primi anni postbellici cfr. G. Canali, I Consigli di gestione alla Società Terni, in “Indagini”, 1982, n. 18, pp. 33-38;. Id., Terni 1944 cit. (a nota 95); Id., Classe operaia e società a Terni, in L’altro dopoguerra cit. (a nota 143), pp. 121-34; Id., Sindacato, grande industria e società a Terni dalla liberazione alla Costituente, in “Sindacato e Società”, 1986, n. 2, pp. 167-82 e n. 3-4, pp. 189208.
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bardamenti e in assenza delle altre forze politiche, garantiscono il funzionamento della città145. Si tratta di una situazione destinata però a scontrarsi con le autorità tradizionalmente preposte alla tutela dell’ordine pubblico e con il governo militare alleato, entrambi preoccupati delle potenzialità eversive che si venivano creando. Nell’estate del 1944 emerge una tensione pericolosa tra forze alleate e partigiani, smussata solo dall’intervento dei dirigenti dei partiti di sinistra. Si cominciano a confrontare nel movimento operaio due tendenze che continueranno a operare anche negli anni successivi. Da un lato i settori più irrequieti, che non intendono concedere nulla e sono disposti a rintuzzare immediatamente gli attacchi dell’avversario di classe, sotto qualsiasi veste esso si presenti; dall’altro i settori, dotati di una maggiore esperienza e preparazione politico-culturale, in cui la fedeltà e la disciplina all’organizzazione politica – o sindacale – e alla sua linea appaiono fortemente radicate. La novità è che queste due “anime”, che sono il riflesso di radicate stratificazioni interne alla classe operaia, convivono in una sola organizzazione politica, o comunque hanno essa come punto di riferimento. I livelli plebiscitari di consenso che il Partito Comunista ottiene tra la classe operaia – per le ragioni che si sono dette – lo portano ad assolvere un difficile ruolo di coagulo e mediazione di questi due contrastanti orientamenti ideali, proprio mentre è in corso la trasformazione del vecchio partito strutturato secondo il modello bolscevico staliniano in uno “nuovo”, che segue una politica di unità nazionale e di collaborazione interclassista. Ciò sarà la ragione principale per cui si produrranno forti tensioni, larghe incomprensioni e, soprattutto, molte illusioni all’interno delle masse lavoratrici. La storia di questa “doppiezza” diventa perciò parte fondamentale della storia della classe e del movimento operaio nel primo decennio postbellico. Tuttavia nell’immediato dopoguerra forti livelli di sintonia sembrano stabilirsi tra gruppi dirigenti di sinistra e l’insieme della classe operaia sul terreno specifico della lotta di fabbrica, tanto che i processi di rinnovamento profondo, che gli alleati riescono a bloccare sul piano dei rapporti politici generali, possono invece essere attuati su quello dei rapporti interni ai luoghi di lavoro. Per comprendere i processi sociali e politici che si innescano bisogna però partire dallo scenario di desolazione e di morte che caratterizza la città alla fine della guerra. In questa situazione di disperazione e di rabbia ai lavoratori, che si presentano ai cancelli della Terni a reclamare la ripresa produttiva, i dirigenti, prevedendo la fine della siderurgia bellica, prospettano per il futuro una parziale
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smobilitazione degli impianti, per l’immediato la stasi produttiva. Significa aggiungere miseria a miseria, disperazione a disperazione. La richiesta della ripresa immediata della produzione diventa perciò, da parte operaia, perentoria. L’unica transazione a cui i rappresentanti dei lavoratori sono disponibili prevede il temporaneo allontanamento delle maestranze a paga intera a tempo indeterminato. Contemporaneamente è posta sotto accusa una dirigenza non solo compromessa col fascismo, ma che viene ritenuta incapace di proporre una politica di riconversione produttiva. Intorno ai lavoratori si coagula l’insieme della città, si innesca un momento di tensione che induce gli alti vertici dell’amministrazione alleata e del governo a trovare una rapida soluzione. Tecnici alleati, insieme a quelli aziendali, varano con sollecitudine piani specifici di ricostruzione e riconversione per i diversi comparti della Terni. Ne scaturisce un programma complessivo di ripresa produttiva che, se pure di breve respiro, permette l’occupazione di consistenti quote di lavoratori. Superando difficoltà enormi dovute a mancanza di materie prime e di attrezzature adeguate, grazie anche allo sforzo dei lavoratori – definito in seguito “eroico” – il complesso industriale ternano riesce già nei primi mesi del 1945 a far registrare un’intensa attività ricostruttiva e produttiva. Oltre a ciò, sul piano più strettamente politico-sindacale, i lavoratori riescono a ottenere una vasta epurazione di alti e medi dirigenti aziendali, l’immissione di rappresentanti di operai e tecnici nel consiglio di amministrazione della società e, infine, l’attribuzione della presidenza dell’azienda a un esponente di prestigio del movimento socialista ternano e nazionale, Tito Oro Nobili146. In generale la situazione di fabbrica sembra contraddistinta da una sorta di contropotere operaio diffuso. Forme di controllo e partecipazione alle scelte economiche e produttive dell’azienda, maggiore attenzione alle richieste e necessità operaie, sono obiettivi che in questi anni appaiono raggiunti soprattutto alla Terni. Il rapporto totalizzante che l’azienda aveva instaurato con la città durante il ventennio fascista viene utilizzato – con segno cambiato – dai lavoratori per affermare la propria forza. La politica sociale della Terni, orientata durante il regime a organizzare e controllare l’intero ciclo di vita operaia, viene ora richiesta dalla stessa classe operaia e l’azienda non può facilmente sottrarsi a tale onere. Così parte delle produzioni serve a rispondere alle esigenze di vita dei lavoratori. Si destinano ai dipendenti mattoni e cemento per ricostruire le proprie case, si fabbricano i mobili in ferro per arredarle, si assumono reduci anche se la manodopera è già esuberante. Tale situazione non andrà oltre la primavera del 1947. Appare tuttavia importante rilevare come essa contribuisca in modo determinante a consolidare nei lavoratori un diverso modo di sentire se stessi e la Terni. Da un lato infatti matura in loro la
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F. Bogliari, Tito Oro Nobili. Biografia critica con appendice documentaria, Perugia 1977.
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“Avanti!”, 3 febbraio 1946. Per tutti i dati elettorali qui riportati cfr. Ministero dell’Interno, Divisione Servizi Elettorali, I risultati delle elezioni dal 1946 al 1952. Assemblea Costituente, Camera dei Deputati, Elezioni regionali, provinciali, comunali, vol. I, Roma 1953; Ministero dell’Interno, Direzione Generale dell’Amministrazione Civile, Servizio Elettorale, Consultazioni popolari. Umbria 1946-1960, vol. 1, Roma 1961.
Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953
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consapevolezza della propria combattività come strumento per rovesciare rapporti di forza sfavorevoli; dall’altro sviluppa un attaccamento particolare al modello di città-fabbrica costruitosi durante il fascismo. Controllare la struttura produttiva ternana per gli operai significa controllare anche la città, che da essa dipende da un punto di vista economico. Dopo il 1947 la vicenda ternana diviene la storia della “restaurazione” dei vecchi rapporti in fabbrica e nella società, della trasformazione di certezze e aspettative in illusioni, ma anche della dura resistenza degli operai perché ciò non avvenga. Le prime elezioni delle commissioni interne nel 1946 vedono prevalere ovunque in modo netto il PCI. Nel febbraio allo stabilimento siderurgico della Terni risultano eletti, tra gli operai, sei comunisti, due socialisti e un repubblicano147. Analogo è il risultato alle elezioni comunali di marzo148. Il PCI raggiunge il 43% dei consensi (16.692 voti), mentre a PSIUP, DC e PRI vanno rispettivamente il 20,7, il 18 e il 15,2%. Alle elezioni per l’Assemblea Costituente del giugno, in cui si registra un numero maggiore di liste e di elettori, il PCI cala al 39,4% (16.904), la DC va al 18,9, PSIUP e PRI entrambi al 15,8. Al calo percentuale comunista corrisponde – per quanto limitato – un ulteriore incremento di voti, che comunque sancisce una fiducia dei lavoratori nel partito. La prevalenza dei partiti popolari viene inoltre confermata dal referendum istituzionale in cui 34.397 voti vanno alla repubblica, contro 9.523 favorevoli alla monarchia. Il credito dato dai lavoratori alle proprie organizzazioni, in particolare al PCI, impone loro un difficile ruolo di direzione e orientamento. Le stesse direzioni aziendali riconoscono alle forze operaie questo ruolo e ad esse si rivolgono per ottenere un’attenuazione del clima di insofferenza verso la disciplina produttiva e la gerarchia aziendale largamente presente sui luoghi di lavoro. La diffusa propensione con cui i lavoratori sembrano affidare le proprie aspirazioni di rinnovamento e giustizia sociale alle organizzazioni politiche e sindacali di sinistra non deve far credere però che tra loro si stabilisca un rapporto lineare, senza problemi. Sono in particolare gli strati operai più giovani, per lo più ex partigiani, la cui educazione politica è avvenuta in tempi di ferro e di fuoco, a creare non poche difficoltà al quadri politico-sindacali del movimento operaio, dando vita a forme di lotta incontrollate o passando a vie di fatto con avversari politici e dirigenti aziendali. Le improvvise impazienze e, ancor meglio, l’endemico “sovversivismo” del proletariato ternano sembrano trovare nuova espressione nei loro comportamenti. Sono in particolare questi inquieti settori operai a contrappuntare con la loro azione tutte le tappe che scandiscono, con l’affermarsi del processo di restaurazione politica, il progressivo esaurirsi dell’illusione operaia di potere.
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Alla caduta del governo Parri l’autorità prefettizia segnala che “inaspettatamente [...] pochi scalmanati e facinorosi giovani ex partigiani” danno vita ad alcuni “episodi di violenza” che hanno come bersaglio un ex fascista e alcuni dirigenti dello Jutificio149. La duplice campagna elettorale del 1946 viene contraddistinta da aperte manifestazioni di avversione verso i partiti di destra che costringono da un lato il prefetto ad “adottare misure straordinarie di polizia” in occasione dei comizi tenuti da queste forze politiche150, dall’altro il PCI a emanare una singolare direttiva: “E opportuno che i compagni disertino i comizi monarchici e anticomunisti al fine di evitare incidenti”151. Tra il 1946 e il 1947 vi sono “quotidiane manifestazioni di proteste popolari”. È lo stesso prefetto ad annotare “come giorno per giorno i segretari delle camere del lavoro, i capi-lega ecc. non riescano più a tenere in pugno le masse operaie”152. È la situazione politica nazionale che si incarica di riequilibrare il rapporto tra il “sovversivismo operaio” e la linea politica delle organizzazioni di classe. La rottura dell’unità tra le forze politiche antifasciste, e la conseguente estromissione delle sinistre dal governo, nel maggio 1947, servono infatti a far assumere al PCI e al resto delle forze operaie, un deciso ruolo di opposizione e di lotta contro il processo di restaurazione moderata in corso nel paese. Nel luglio del 1947 sui muri cittadini vengono affissi dei manifesti abusivi recanti un significativo titolo: “Il doppio giuoco, è finito: la, maschera è caduta”153. Essi contengono le fotografie e le biografie dei nuovi ministri “con particolari relativi [alla loro] passata attività politica antidemocratica”154. A partire dall’autunno del 1947 si avvia una fase di lotte, mobilitazioni e manifestazioni di piazza, a cui la classe operaia partecipa compatta. Anche i responsi che nel 1948 vengono dalle consultazioni di massa sono precisi. La classe operaia dello stabilimento siderurgico nelle elezioni della Commissione Interna riserva un consenso quasi plenario alla corrente socialcomunista: il candidato più votato di questa corrente ottiene 953 consensi a fronte della qualche decina di voti che ricevono i candidati maggiormente votati delle altre liste, ad esempio rispetto ai 53 di quello democristiano155. Alle elezioni politiche il Fronte Democratico Popolare riesce ad avere in città il 56,7 per cento dei suffragi (26.632 Voti), mentre la DC ottiene il 25,9.
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ACS, MI, DGPS AGR, serie 1931-49, (1946), ctg. C 2-I, b. 74-B, fasc. “Terni-Rapporti dei prefetti”, relazione mensile del prefetto, 10 gennaio 1946. Ivi, relazione mensile del prefetto, 1 giugno 194[6]. APC, Materiale Federazioni, (1945-48), b. “Terni 1945-1948”, fasc. MF 113, verbale della riunione del Comitato Federale, 26 maggio 1946. Cfr. le relazioni mensili del prefetto in ACS, MI, DGPS AGR, 1931-49, (1946), ctg. C 2-I, b. 74-B, fasc. “TerniRapporti dei prefetti”, e ivi, (1947), ctg. C 2-I, b. 80 B, fasc. “Terni-Rapporti dei prefetti”. Per le citazioni si veda la relazione del 6 maggio 1947. ACS, MI, Gabinetto, Archivio Generale, 1947, b. 27, fasc. 1266, rapporto del prefetto, 30 luglio 1947. Ivi, telegramma del prefetto, 20 luglio 1947. ASCLT, Organismi operai di fabbrica, b. 1, fascc. 4 e 5, documentazione diversa.
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Questi risultati favorevoli non servono però ad attenuare lo sconcerto e la rabbia che i lavoratori provano di fronte al responso elettorale nazionale, che assegna alla DC una vittoria di proporzioni non previste. Il periodo postelettorale a Terni è infatti carico di tensione e viene vissuto dagli strati moderati della popolazione con il persistente timore “che il Fronte Democratico Popolare sarebbe ricorso ad espedienti o disordini per opporsi al risultato delle urne”156. In realtà niente di clamoroso avviene fino al 14 luglio, giorno dell’attentato a Togliatti. In questa occasione, allo sciopero di protesta si affiancano sabotaggi alle linee telegrafiche e telefoniche e al tratto ferroviario Terni-Orte, il disarmo di qualche agente di polizia e, in generale, “atti di violenza” che definiscono un clima di carattere pre-insurrezionale, cui seguirà aperta amarezza quando lo sciopero si conclude con un nulla di fatto157.
Alla frustrazione qualche mese dopo si aggiungono i primi licenziamenti di massa. Il 7 ottobre 1948 Tito Oro Nobili si dimette da presidente della Terni per non trovarsi “di fronte ai lavoratori in lotta”159. Viene rimessa in discussione l’esperienza produttiva postbellica, cui i lavoratori avevano dato un contributo, sostanziale, e inizia quella che Bonelli definisce “la terapia dei licenziamenti”160. Si apre così una fase nuova di cui politica aziendale restauratrice, repressione statale, mobilitazione operaia sono i dati costanti. Nonostante l’esaltazione – che viene fatta sulla stampa operaia e nei comizi – della capacità di resistenza della “cittadella proletaria”161 la realtà viene scandita da una serie ininterrotta di parziali sconfitte. Il 17 marzo 1949, nel corso di una manifestazione contro l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, la polizia spara sugli operai, uccidendone uno – Luigi Trastulli – e ferendone altri162 . Ai funerali partecipano, secondo “l’Unità”, trentamila persone163. La memoria operaia ha ricordi vividi di un corteo funebre che, in un’atmosfera carica di tensione, sfila nelle principali vie cittadine, passando anche sotto il
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ACS, MI, Gabinetto, Archivio generale, 1948, b. 84, fasc. 14882, relazione mensile del prefetto, 31 maggio 1948. Ivi, b. 47, fasc. 12033/81, documentazione diversa. Ivi, b. 84, fasc. 14882, relazione mensile del prefetto, 26 luglio 1948. Citato in Bogliari, Tito Oro Nobili cit. (a nota 146), p. 85. Bonelli, Lo sviluppo cit. (a nota 1), p. 259. “l’Unità”, 28 ottobre 1948. L’espressione viene usata dal dirigente sindacale Alessandro Pizzorno. A. Portelli, L’uccisione di Luigi Trastulli. Terni 17 marzo 1949. La memoria e l’evento, in “Segno critico”, 1980, n. 4, pp. 115-42. “l’Unità”, 20 maggio 1949.
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Presso le Acciaierie – riferisce il prefetto – vivi dissensi sorsero in seguito alle disposizioni emanate dalla CGIL per la ripresa del lavoro tra i dirigenti sindacali e gli elementi più accesi ai quali era stato in precedenza fatto intendere che lo sciopero si sarebbe protratto sino a determinare la caduta del Governo158.
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“palazzo del governo” – la sede della prefettura – presidiato da agenti in assetto di guerra164. Gli anni cinquanta si aprono dunque in un contesto di aspra e crescente acutizzazione dello scontro politico e sociale. Se pure la congiuntura “coreana”, facendo salire la richiesta e i prezzi dei prodotti siderurgici, comporta un periodo di relativa stasi dei licenziamenti165, la mobilitazione sociale “contro il piano della fame”, “perché Terni non muoia”166 non si attenua. Nel 1951 i disoccupati in provincia sono 7.900, i protesti cambiari e i fallimenti degli esercizi commerciali subiscono un sensibile aumento167. Nell’agosto 1952 il prefetto nota una “inquieta situazione, che va giornalmente sempre più preparandosi e delineandosi, particolarmente per la sottile ed allarmistica propaganda delle organizzazioni del PCI in dipendenza di altri licenziamenti previsti [...] nel complesso Terni”168. A dicembre infatti altri 700 licenziamenti vengono annunciati dalla direzione aziendale. A questo punto è l’intera città a mobilitarsi e, per usare ancora la prosa prefettizia, “anche da parte sana vengono indirizzate critiche ai dirigenti dell’industria italiana e non sono risparmiati neppure gli alti responsabili della vita pubblica”169. Un’intera città sembra stringersi intorno alla lotta dei “700” in un clima di crescente eccitazione sociale, a cui corrisponde una repressione poliziesca che raggiunge in quegli anni livelli notevoli. Nell’aprile del 1953 “l’Unità” ricorda al ministro dell’Interno Scelba che dal 1948 a quella data, tra i lavoratori ternani, i colpiti da denuncia, fermo di polizia o arresto ammontano a circa 1.500170. Nonostante ciò appare ancora notevole la capacità di mobilitazione e la volontà di resistenza dei lavoratori tra cui i sintomi di una montante esasperazione si fanno sempre più evidenti; fatto questo che non sfugge alle superiori autorità di polizia. Nell’ottobre 1953 il ministro dell’Interno, informato che la Società Terni ha proceduto a un’ulteriore notifica di licenziamento nei confronti di duemila operai, commenta preoccupato che il provvedimento risulta in contrasto “con precedenti impegni interministeriali” e si affretta a chiedere l’intervento dei “ministeri interessati ad evitare gravi turbamenti”171. Ma a ben vedere un “grave turbamento” dell’ordine pubblico appare ormai nell’ordine delle cose. In questo ennesimo licenziamento collettivo, largamente e deliberatamente colpiti dalla direzione aziendale sono infatti i militanti e gli iscritti 164 165 166 167
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Portelli, L’uccisione cit. (a nota 162), p. 131 Bonelli, Lo sviluppo cit. (a nota 1), pp. 258-59. Si tratta di slogan che in questo periodo ricorrono frequentemente sulle pagine de “l’Unità”. Cfr. le diverse relazioni mensili relative all’Umbria dell’Arma dei Carabinieri in ACS, DGPS AGR 1930-55 (1951), ctg. 2-I, b. 67, fasc. “Terni-Relazioni mensili”. Ivi, (1953), ctg. C 2-I, b. 122, fasc. “Terni-Relazioni mensili”, relazione mensile del prefetto, 1 settembre 1952. Ivi, relazione mensile del prefetto, 31 dicembre 1952. “l’Unità”, 26 aprile 1953. ACS, MI, Gabinetto, Archivio generale, 1953-56, b. 152, fasc. 3326/I, appunto s.f., 20 ottobre 1953.
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“l’Unità”, 24 ottobre 1953. Portelli, Biografia di una città cit. (a nota 29), pp. 309-312.
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dei partiti e dei sindacati di sinistra. Per di più, il pesante numero di licenziamenti effettuati – che si aggiunge allo stillicidio degli anni precedenti – appare ai lavoratori come parte di un disegno predeterminato, volto a mettere in discussione la sopravvivenza di un’intera classe sociale e di una città. Pertanto, contro quella che è vissuta come una “manovra combinata fra la Società Terni e gli organi di governo, centrali e provinciali, tendenti a realizzare i piani di smobilitazione delle Acciaierie e di affamamento della città” si genera una rivolta spontanea, cui partecipa in maniera corale la gran parte della popolazione lavoratrice ternana; a scatenare i disordini è un intervento delle forze di polizia indirizzato a impedire una manifestazione di piazza contro i licenziamenti172. Al di là dei documenti ufficiali o dei resoconti giornalistici, sono le ricorrenti convergenze della memoria collettiva operaia a scandire con maggior precisione descrittiva le diverse fasi di quell’evento: i reparti di polizia imbottigliati nella principale piazza cittadina, le cui vie d’uscita sono state ostruite con delle barricate; il fitto lancio di pietre e mattoni contro di essi, cui partecipano, oltre agli operai, donne e ragazzi; i primi colpi di moschetto sparati dalla polizia e lo spuntare di qualche arma tra le mani degli operai; la voce che si diffonde a proposito dell’arrivo di unità di carabinieri da Roma; i contatti che intervengono tra i responsabili dell’ordine pubblico e i dirigenti del movimento operaio per scongiurare il rischio che sopravvenga la notte in una città in rivolta; la difficile decisione del segretario provinciale della FIOM di farsi accompagnare da una camionetta della polizia a convincere i dimostranti a smontare le barricate; il defluire dalla piazza dei reparti di polizia tra due ali di folla che li accompagnano con urla, fischi e pietre173. Nell’immediato lo sconforto e la delusione sono i sentimenti prevalenti con cui i lavoratori escono da questa esperienza; in seguito sopraggiungerà anche un senso di impotenza, che avrà effetti di lungo periodo. Soprattutto per questo il moto popolare del 1953 – che, in una certa misura rappresenta l’ultima fiammata della città “sovversiva” – può essere considerato come una svolta nella storia contemporanea di Terni. Con esso si conclude una fase storica determinata, si esaurisce una tradizione politica e culturale. Le vicende, che immediatamente seguono, caratterizzano un periodo di passaggio in cui sono presenti più cose: i drammi individuali dei numerosissimi licenziati – e delle loro famiglie – che per sopravvivere si vedono costretti ad arrangiarsi in mille mestieri o, addirittura, a riprendere la via dell’emigrazione; la sotterranea resistenza operaia a uno sfruttamento che sui luoghi di lavoro si fa sempre più intensivo; la caparbia volontà di lotta dei pochi attivisti rimasti occupati; la paura di molti a dichiararsi, apertamente, comunisti in una città che continua a dare un largo consenso politico al PCI; l’ingresso di nuova manodopera “addomesticata”
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nelle fabbriche, in ordine a un preciso disegno padronale di ricomposizione della forza-lavoro; il consistente e progressivo ridimensionamento del peso strutturale della tradizionale classe operaia all’interno della città174. Da tutto ciò scaturisce una situazione sensibilmente diversa, un amalgama politico e sociale i cui segni si rendono evidenti già alla fine del decennio, ma le cui caratteristiche precise attendono ancora di essere decifrate. È comunque certo che, quando negli anni sessanta riparte lo scontro sociale, al fianco dei “vecchi” militanti portatori di una tradizione e di una memoria storica si vedono scendere in lotta nuovi protagonisti, giovani operai sulla cui identità di classe agiscono fattori di diversa natura, spesso apparentemente contrastanti. La loro “visione del mondo” riesce infatti a far convivere gli echi mitizzati di un passato di lotte operaie con le aperture culturali che derivano dai maggiori livelli di scolarizzazione, dall’attrazione verso nuovi modelli di vita, dalla fruizione dei moderni beni di consumo. In altre parole, e molto semplicemente, ciò che rende diversa la loro formazione politica e culturale è il fatto di non essere avvenuta a esclusivo contatto con la tradizione e la mentalità della “cittadella proletaria”.
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L. Bellini, I licenziati della Terni nel 1952: la loro situazione dieci anni dopo, Perugia 1966; G. Gallo, Organizzazione del lavoro e condizione operaia a Terni alla metà degli anni cinquanta, in “Segno critico”, 1979, n. 1, pp. 97-112; Id., L’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavoratori a Terni 13-16 novembre 1956, ivi, 1979, n 2-3, pp. 151-74; Portelli, Biografia di una città cit. (a nota 29), pp. 312 sgg.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
La classe operaia ternana durante il fascismo
Nel corso del primo conflitto mondiale, il forte incremento delle produzioni belliche fece crescere notevolmente il fabbisogno di manodopera delle industrie ternane. A causa di ciò un massiccio afflusso di immigrati si riversò sulla città, precipitandola in una condizione di degrado che ricordava gli anni più vorticosi dell’industrializzazione. Al riguardo il sindaco Setacci, in una relazione del 1916, contestava con preoccupazione come a Terni si fosse ormai presumibilmente stabilita una popolazione di oltre quarantacinquemila abitanti che viveva “accatastata” tra la vecchia città ed i sobborghi circostanti in condizioni igieniche dannose “alla moralità e alla salute”. Nell’ottobre 1917 una carenza di beni di prima necessità faceva addirittura temere il peggio alle autorità preposte alla tutela dell’ordine pubblico. Il comandante della divisione militare di Perugia, nel riferire in proposito ai propri superiori, usava i seguenti preoccupati toni: Si vuole che dalle persone del popolino, stanche del prolungarsi dell’attuale lotta, si siano manifestate espressioni di minaccia e propositi di ribellione che, considerato l’ambiente sovversivo che costituisce la maggioranza della classe operaia di Terni, non fa escludere la probabilità che possano avverarsi fatti dolorosi. [...] Data la grave e prospettata situazione dell’attuale ambiente, allo scopo di scongiurare ogni possibilità di tentativo di sommosse, non si ritiene possibile altro provvedimento che il dichiarare Terni in stato di guerra nella considerazione anche, che fra gli altri cantieri, vi è quasi la più importante fabbrica d’armi, il cui personale operaio, la maggior parte composto di militari ed esonerati, finirebbe forse – in caso di disordine – per far causa comune con i rivoltosi, e ciò con danno incalcolabile della disciplina dell’esercito al fronte.
Alla fine della guerra, in questo già convulso tessuto sociale, si inserirono altri due fattori di inasprimento delle tensioni di classe: la disoccupazione ed il mito nascente della rivoluzione russa e del socialismo realizzato. Esasperazione, patologie urbane, sovversivismo diffuso, crescita della coscienza di classe furono dunque questi gli elementi che andarono a comporre il mosso quadro politico e sociale del dopoguerra. Sul fronte sindacale, al gennaio 1920, risultavano attive in città due camere del L’articolo è stato pubblicato con il titolo La classe operaia, in Storia illustrata delle città dell’Umbria, a cura di R. Rossi, Terni, a cura di M. Giorgini, Sellino, Milano 1994, t. II, pp. 465-474.
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All’indomani del primo conflitto mondiale
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lavoro, in cui si riflettevano, dal punto di vista organizzativo, le due anime presenti all’interno della classe operaia ternana: una aderente all’USI con 29 leghe e 3.549 associati, l’altra aderente alla CGdL con 14 leghe e 3.302 associati. Nonostante le forti divisioni politiche, esse riuscirono a suscitare nelle masse lavoratrici una straordinaria mobilitazione, che permise di ottenere importanti conquiste normative e salariali. Anche sul versante più strettamente politico gli avvenimenti sembravano volgere a favore del movimento operaio. Le elezioni amministrative dell’ottobre 1920 confermarono a Terni la straordinaria affermazione che il Partito Socialista aveva ottenuto nella consultazione politica dell’anno precedente. In città, nonostante che si fosse registrata una ridotta partecipazione operaia al voto, il PSI ottenne il 73 per cento dei suffragi. In questa fase la scarsa fiducia riservata dai lavoratori allo scontro elettorale, se raffrontata all’ampia disponibilità alla mobilitazione da loro dimostrata sui luoghi di lavoro, apparve un inequivocabile segno della preferenza accordata da larga parte del proletariato ternano alla fabbrica come terreno decisivo dello scontro di classe. Ciò peraltro avveniva non soltanto perché sul luogo di lavoro l’oppressione e il dominio di classe erano più fortemente sentiti, ma anche perché nella fabbrica essi assumevano una dimensione individuabile, ravvicinata, contro cui potersi rivoltare (ad esempio il dirigente detestato). Senso di appartenenza e avversione di classe si configurarono pertanto, agli inizi degli anni venti, come i fondamentali elementi aggreganti della coscienza di sé di larga parte degli operai ternani. Questa attitudine mentale, tesa a privilegiare lo scontro immediato piuttosto che il lavoro paziente di organizzazione, risultava essere un inesauribile fonte di ribellione contro qualsiasi forma di oppressione di classe. Ed è con essa che dovrà cimentarsi fin dalle sue origini il fascismo.
Fascismo e antifascismo nei primi anni venti Il Fascio Ternano di Combattimento venne costituito nell’ottobre 1920. I fondatori appartenevano in prevalenza alla piccola e media borghesia ternana ed, in alcuni casi, avevano un passato da interventisti e combattenti. I tradizionali ceti possidenti, scalzati dalle sedi del potere locale agli inizi del secolo dall’irruzione sulla scena politica delle masse lavoratrici organizzate, ne erano i finanziatori. Oltre alla più diffusa volontà di reagire al crescente “sovversivismo rosso”, nel novero delle motivazioni che spinsero alla mobilitazione gli appartenenti a questi gruppi sociali andava messo anche il loro desiderio di tornare a contare nell’agone politico della città. Un obiettivo imprescindibile su questa strada apparve perciò immediatamente quello di crearsi una base di consenso tra la classe operaia. Infatti ciò che il nascente movimento fascista vide subito ergersi davanti a sé fu una popolazione lavoratrice che al suo interno comprendeva – come si è detto – ampi settori politicizzati ben disposti ed allenati al “combattimento”.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
Questione licenziamento operai fabbriche anni Terni telegrafava nel giugno 1923 al sottosegretario all’interno – ha assunto grave importanza politica e morale poiché quell[a] maestranz[a] è stata la prima a coordinare movimento nazionale e fascista in quel centro già quasi completamente sovversivo ed essa rappresenta nucleo centrale composizione sindacati nazionali che risentirebbe grave danno se non venisse contemporaneamente migliorata attuazione decreto licenziamento.
La penetrazione del fascismo tra le masse operaie veniva ricordata come “lenta e difficile” anche da Tullio Cianetti, che a Terni fino al 1925 si trovò alla testa del sindacato fascista. E le ragioni erano individuate, da un lato, in “una diffidenza preconcetta [dei lavoratori], abilmente alimentata”, e, dall’altro, nella “ostilità sorda e garbata degli industriali”, nella loro assoluta mancanza di propensione a collaborare. Il “risveglio [dei] sovversivi”, che – come denunciavano gli organi di polizia – a partire dalla metà del 1923 si manifestò prevalentemente “con propaganda subdola non con reati comuni”, non fu dunque casuale. I militanti antifascisti infatti si attrezzarono per affrontare un rafforzato apparato burocratico-poliziesco, che ormai colpiva senza remore, e lo fecero ricercando nella propria tradizione quelle forme espressive tanto efficaci quanto poco compromettenti. La trasformazione del funerale di una vittima di infortunio sul lavoro in manifestazione collet-
La classe operaia ternana durante il fascismo
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Nella sua prima fase di attività lo squadrismo venne pertanto costretto a vivacchiare quasi clandestinamente ed i pochi attacchi, che poté portare al movimento organizzato dei lavoratori ed alle sue istituzioni, ebbero sempre il sostegno del più nutrito e forte fascismo perugino. Comunque tra il 1921 ed il 1922 il fascismo ternano riuscì ad inserirsi nelle lotte apertesi contro smobilitazione e licenziamenti in alcuni dei maggiori stabilimenti cittadini ed a dispiegare una spregiudicata e fruttuosa opera demagogica tra la classe operaia. Ciò consentì ad esso di aprire delle brecce all’interno delle masse lavoratrici e di ottenere così alcune importanti – anche se ridotte – fasce di consenso tra i settori operai meno politicizzati. Comunque questo fu un inganno che ebbe vita breve, durò infatti sino a quando il nuovo e aggressivo movimento politico non raggiunse il potere. Infatti, all’indomani della marcia su Roma, alcune aziende ternane, rassicurate dal mutato clima politico generale e dal conseguente sbandamento prodottosi nelle organizzazioni operaie, diedero il via senza remore a piani di ristrutturazione e licenziamenti. Due tra le maggiori industrie cittadine – la Società Terni e la Fabbrica d’Armi – furono tra queste. Ne conseguirono gravi effetti sul piano sociale e ciò fece sì che “era fascista” e peggioramento generalizzato delle condizioni di vita e di lavoro delle masse operaie si presentassero a Terni immediatamente e strettamente correlate. L’assoluta libertà di manovra riacquistata dalle direzioni aziendali e il suo abuso furono le prove testimoniali di cui si avvalsero i militanti antifascisti per svelare ai lavoratori la natura classista del nuovo establishment. Ciò veniva frequentemente denunciato dal prefetto ai suoi superiori:
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tiva di protesta era una di esse. Ciò fecero nell’agosto del 1923 “un centinaio di socialcomunisti”. Essi, per usare la prosa prefettizia,
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traendo pretesto dal funerale del ferroviere Peloso Cesare, fulminato in servizio dalla corrente elettrica, occultamente, in modo che nulla trapelasse né ai fascisti né alle autorità, organizzarono una manifestazione politica, che avrebbe dovuto concretarsi in un corteo al seguito del feretro.
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Profondi contenuti di classe continuavano dunque ad alimentare e sostanziare l’antifascismo militante ternano. E fu questa la ragione che consentì ai suoi esponenti di riuscire a mantener viva tra le masse operaie una latente ostilità, o per lo meno una aperta estraneità, nei confronti del regime. L’ostilità comunque si manifestò in maniera inoppugnabile a seguito del delitto Matteotti. Essa raggiunse livelli talmente elevati di evidenza da provocare sbandamenti anche in personaggi destinati ad una brillante carriera nel ventennio fascista come Tullio Cianetti. Infatti in questa occasione il fiduciario di zona dei sindacati fascisti sembrò essere colpito da una profonda “crisi di coscienza” che lo portò a rassegnare le dimissioni dalla milizia e – si mormorò – a tenere “segrete intese con i sovversivi del luogo [...] al fine di dare al movimento sindacale l’impronta delle cessate organizzazioni rosse, e di realizzare il passaggio del sindacato dei lavoratori nella Confederazione Generale del Lavoro”. Negli ultimi mesi del 1924 si assistette addirittura ad una forte mobilitazione operaia, che in alcuni stabilimenti costrinse le direzioni aziendali a concedere sensibili aumenti salariali. In queste agitazioni si distinsero – come spesso era avvenuto nella storia delle lotte operaie a Terni in periodi di forte repressione – le lavoratrici dello Jutificio Centurini e di altri stabilimenti a prevalente occupazione femminile. Successivamente il prefetto veniva informato del fatto che alcune di queste azioni di protesta avevano un “carattere prettamente politico”, essendo state istigate da militanti comunisti. Non a caso infatti proprio a partire dal 1924 si avviò quel processo che portò ad una sempre più stretta identificazione delle vicende dell’antifascismo politico con quelle dell’organizzazione comunista.
Società Terni e fascismo: la “fabbrica totale” Ancora nel corso del 1925 si registrarono risultati ragguardevoli nella paziente opera di riaggregazione, anche organizzativa, messa in atto dall’opposizione antifascista. Allo stabilimento siderurgico della Terni la ricostituita sezione della FIOM riuscì a raccogliere il consenso del 25 per cento della forza lavoro, tra l’altro, in una situazione, che vedeva soltanto il 5 per cento degli operai aderire ai sindacati fascisti. L’azione di propaganda antifascista trovò un aiuto inaspettato anche nell’aspro dissidio che in questa fase si apri all’interno del fascismo ternano e regionale. L’oggetto del contendere era il passaggio alla “Terni” della concessione di sfrutta-
Gli operai e il movimento operaio a Terni
La “Terni”, complesso capitalistico imponente, invade la città intera, poiché non molte sono le famiglie che attraverso qualcuno di loro non abbiano rapporti di dipendenza con la “Terni”. E’ opinione quasi concorde di coloro che ho interrogato non esservi uomo finora che nella vita politica e amministrativa, salga, duri o precipiti senza l’occhiuto volere della ‘Terni’. Se anche ciò è esagerato, è però sintomo di uno stato d’animo.
In seguito questo stato di subordinazione della città nei confronti della sua maggiore industria era destinato a subire una progressiva accentuazione. Nei primi
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mento delle forze idrauliche del bacino Nera Velino posseduta dal Comune. Elia Rossi Passavanti podestà e deputato, contrastò tale operazione. Egli si presentava come l’alfiere delle tradizionali classi dominanti che si opponevano al potere della grande impresa. Mussolini appoggiò le pretese della società, tacitando la protesta municipalista con l’erezione di Terni a capoluogo di provincia ed imponendo a Passavanti di uscire dalla scena politica. Dal 1927 il fascismo delegò nei fatti alla “Terni” la gestione della città, spiazzando così completamente la borghesia cittadina. Il nuovo equilibrio politico risultò così una semplificazione del conflitto e del controllo sociale: da una parte la grande impresa, dall’altra gli operai. Tale dialettica cominciò a rendersi evidente tra gli anni venti e trenta. Per l’azienda ternana si trattò di un periodo di crisi dovuto al sommarsi di più fattori: gli esiti della politica deflazionistica mirante a “quota novanta”, problemi interni di investimenti, ristrutturazioni e “razionalizzazioni”, ed, infine, gli effetti ritardati della “grande crisi”. Coperta sul fronte operaio dall’ormai operante stato di polizia la “Terni” poté però far fronte alle sue difficoltà attuando le decurtazioni salariali autorizzate dai decreti governativi e avviando un consistente piano di licenziamenti. Peraltro questi ultimi vennero usati dall’azienda anche per allontanare “il personale indesiderabile”, quello “meno idoneo od esuberante, allo scopo anche di rinnovare gradualmente il [...] personale operaio”. Alla svolta del decennio la disoccupazione cittadina fluttuava tra le duemila e le duemilacinquecento unità ed era destinata ad aumentare. Intensificazione dei ritmi, ampio ricorso a manodopera dequalificata – in larga misura donne e ragazzi –, estrema mobilità della forza lavoro, frammentazione dei livelli retributivi furono gli ulteriori mezzi di cui si servì la “Terni”, in questa fase, per garantire i propri profitti e, nel contempo, per creare all’interno della classe motivi di divisione che ne impedissero qualsiasi tentativo di organizzazione e resistenza. Alle rimostranze del sindacato fascista che si faceva portavoce del malcontento operaio per i previsti tagli salariali, l’azienda rispondeva accusando l’organizzazione dei lavoratori di mantenere un atteggiamento non “certamente improntato a quello spirito di collaborazione voluto dalle […] superiori gerarchie politiche e sindacali” ed affermando che l’operaio avrebbe potuto “ritornare ai guadagni precedenti” mediante “una effettiva maggiore produttività”. Il peso della fabbrica sull’intera città stava del resto diventando schiacciante. Nel 1930 un funzionario fascista in visita ispettiva così descriveva la situazione ternana:
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anni trenta, in un contesto di rapido esaurimento di esperienze industriali, la Società Terni riuscì, invece, a salvarsi da un grave dissesto finanziario grazie all’assunzione da parte dell’IRI del suo controllo azionario. Ciò le consentì di diventare l’elemento connettivo ed unificante del tessuto produttivo temano, non solo assorbendo la quasi totalità della forza lavoro operaia, ma anche erogando larga parte della massa salariale. Il processo di consolidamento del potere aziendale, dentro e fuori dagli stabilimenti e quello del regime ebbero un’evoluzione pertanto parallela. Ciò portò inevitabilmente i lavoratori ad identificare i due poteri ed a correlarli sempre più con il rincrudimento delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Essi, anche se privati di una propria autonoma forza organizzativa, non lasciarono comunque trascorrere questo duro e travagliato periodo senza mettere in campo un considerevole potenziale di opposizione e resistenza.
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L’antifascismo militante
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A partire dalla fine degli anni venti un clima di tensione e di fermento sembrò diventare endemico tra le masse operaie ternane. All’attacco concentrico del padronato esse risposero adottando forme di autodifesa diverse. In alcuni casi si trattava di reazioni spontanee ed elementari, ma più di frequente la risposta operaia faceva parte di un ormai consolidato patrimonio di memoria storica e di tradizioni di lotta. Le punte elevate di assenteismo che si ebbero, soprattutto nello stabilimento siderurgico della Società Terni, costituirono una prima risposta a questa dura condizione di fabbrica. I sabotaggi furono un’altra. Tra il settembre 1930 ed il febbraio 1932 più volte si scoprì “in locomotive depositate nell’apposito reparto per le riparazioni, l’esistenza in parti vitali, di corpi estranei”. Vi furono poi le aperte manifestazioni di protesta. Il 7 novembre 1930 una diminuzione salariale provocò la spontanea fermata delle maestranze di alcuni reparti. Nel giugno 1931, in una fase intensa di licenziamenti, venti operai licenziati del reparto “treno bidoni” delle Acciaierie si portarono davanti all’abitazione di un dirigente aziendale, “inscenando una dimostrazione ostile a base di improperi e minacce”. Nel dicembre dello stesso anno, sempre nello stabilimento siderurgico, “a causa di un aumento di cottimo imposto dalla società” furono un gruppo di operai della sezione “proiettili” a sospendere il lavoro per venti minuti “riunendosi in rumoroso assembramento”; alcuni di essi lasciarono intendere di voler compiere “atti di sabotaggio verso le turbine motrici delle Acciaierie”. Nel gennaio 1932, infine, gli operai del reparto “getti acciaio” diedero vita ad uno sciopero di un’ora e mezzo allo scopo di rivendicare il diritto di avere pagato, con la quindicina, anche il cottimo per il lavoro non ancora ultimato. A causa di ciò trentasette operai vennero sottoposti a procedimento penale e, quindi, licenziati.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
La repressione, messa in atto prontamente ed in ogni occasione, non riuscì tuttavia a fermare la crescita all’interno della classe operaia di un’inquietudine collettiva, di cui gli episodi appena descritti rappresentavano soltanto alcuni dei sintomi. Ciò veniva avvertito anche dal prefetto che, in un rapporto inviato nel febbraio 1932 al Ministero dell’Interno, sosteneva:
Fu poi il rinvenimento, in un gabinetto di uno stabilimento industriale, di iscrizioni inneggianti al comunismo – il cui contenuto appariva molto simile “a quelle che normalmente forma[va]no l’invariato ritornello dei manifestini sovversivi” – a costituire per il funzionario governativo un’ulteriore riprova della “situazione poco tranquillante” che si stava creando a Terni. E bisogna riconoscere che i fatti non sembravano dargli torto. Il plebiscito del 1929 aveva messo in evidenza a Terni l’esistenza di un consistente numero di oppositori. Dei 753 voti contrari espressi in tutta la provincia (1,7 per cento dei votanti), 503 appartenevano ad elettori ternani. Contemporaneamente le possibilità di penetrazione del fascismo all’interno della classe operaia continuavano a mantenersi estremamente ridotte. Nel 1930 tra i lavoratori della Società Terni si potevano contare soltanto 130 iscritti al Partito Nazionale Fascista; in città gli iscritti erano complessivamente 450. In crescita appariva, invece, l’organismo clandestino comunista, ormai divenuto l’unico punto di riferimento organizzato di tutti gli “irriducibili” avversari del regime. Una sensibile intensificazione della sua attività di agitazione e propaganda gli consenti infatti di arrivare a contare nel 1932 su di una rete clandestina di circa duecento simpatizzanti. Nell’aprile dello stesso anno però l’uscita allo scoperto con una larga diffusione di manifestini antifascisti in tutta la provincia permise alla polizia di scoprire le trame dell’organizzazione clandestina comunista e di assestare ad essa un duro colpo, che ebbe effetti di lungo periodo. Nell’immediato la struttura organizzativa, che aveva visto i suoi maggiori esponenti colpiti con carcere e confino, si dissolse. In seguito l’aver conosciuto non solo gli aspetti più duri degli istituti di repressione fascisti, ma anche l’opera deleteria di informatori prezzolati, infiltrati e provocatori portò i più attivi militanti del movimento a farsi più guardinghi e, in una certa misura, a ripiegarsi su se stessi. Del resto essi vennero sottoposti ad una strettissima sorveglianza. Nel gennaio del 1933 sei comunisti, condannati l’anno precedente per “associazione e propaganda sovversiva” ed amnistiati in occasione del decennale del regime, soltanto per essersi trovati insieme in un’osteria con altri tre incensurati furono nuovamente arrestati e diffidati. Il prefetto era stato informato da “fon-
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Tali sporadiche manifestazioni, che, considerate isolatamente non hanno alcuna importanza, debbono peraltro, essere messe in relazione fra loro, per la forma con la quale si appalesano e per il fatto che esse si verificano in un ambiente dove si addensano migliaia di operai che non hanno raggiunto un compiuto grado di comprensione fascista e che offrono quindi facile presa ad eventuali mire politiche.
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te confidenziale” che la riunione doveva servire “per mantenere saldo l’affratellamento dell’idea comunista e per onorare la memoria di Lenin il cui anniversario della morte era ricorso il giorno prima”. Comunque questa costante e metodica opera di prevenzione e repressione contribuì non poco a selezionare un attivo gruppo di “sovversivi irriducibili” di fede comunista, che se pure obbligati ad un raggio d’azione limitato e numericamente ristretti, assolsero con ricorrenti gesti dimostrativi l’importante funzione di tener desta tra la classe operaia una tradizione politica e, più in generale, la memoria storica di un passato di opposizione e di lotta.
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L’antifascismo sociale
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Alla fase di relativo declino dell’antifascismo politico e militante se ne affiancò un’altra in cui, al contrario, si dovette registrare una intensificazione di fenomeni di dissidenza che traevano origine in maniera immediata da quella trama diffusa di sovversivismo e coscienza di classe, che permeava la sensibilità collettiva delle masse lavoratrici ternane. Si trattava di un diverso tipo di antifascismo, un antifascismo istintivo, spontaneo, che in ogni caso non nasceva da un retroterra organizzato. Nella fattispecie il gesto dissidente poteva essere prodotto da un subitaneo risveglio di coscienze su cui agivano profonde convinzioni etico-politiche. Di sovente erano occasioni particolari, come la morte di un “compagno” a generare in antifascisti, apparentemente rassegnati, dei sussulti della coscienza. Per essi organizzare il funerale dell’amico secondo un cerimoniale ormai collaudato che ricordasse la sua e la propria appartenenza politica diventava perciò il modo migliore non solo per onorarne la memoria ma anche per dimostrare i propri sentimenti di avversione al regime. Nel febbraio 1932, due “sovversivi”, Ribelle Perazzini e Tiberio Gaj, si recarono al funerale del repubblicano Aurelio Comandini portando una corona di fiori “sulla quale era stata apposta una vistosa coccarda Rossa con la scritta ‘Gli amici al caro estinto’”. Per il prefetto l’intenzione di “inscenare una manifestazione sediziosa” risultava evidente, ne seguì pertanto una condanna ad un anno di confino per entrambi. Nel febbraio 1934 doveva essere il funerale di un noto esponente del socialismo ternano, Arturo Luna, a mettere sull’avviso le autorità di Pubblica Sicurezza che vietarono al corteo funebre di percorrere le principali vie cittadine. Ciò provocò una risentita reazione nel campo antifascista. Il giorno seguente su alcuni muri del centro cittadino furono rinvenute “scritte sovversive a carattere stampatello visibilissime”: “La questura ha vietato: onoriamo il compagno Luna”; “Viva il socialismo”; “Viva Luna”; “Viva Lenin”; “Morte al Duce”; “Abbasso il fascismo”. La repressione, anche in questo caso, non si fece attendere. La polizia non riuscendo ad individuare gli autori delle scritte, se la prese con gli organizzatori del funerale: cinque di essi furono assegnati per un anno al confine ed altri quattro vennero ammoniti.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
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A volte, invece, era un improvviso impeto contro l’insopportabile stato di coazione politica e sociale a produrre episodi di dissenso individuale. Nell’ottobre 1933 Mario Filippi, operaio della Società Italiana Ricerche Industriali, che dall’avvento del fascismo aveva sempre mantenuto un “contegno molto riservato sulle sue idee politiche”, si rifiutava di scortare il gagliardetto del dopolavoro aziendale. Sottoposto ad inchiesta, rivendicò come una delle ragioni del suo comportamento il fatto di essere “cresciuto in un ambiente di famiglia le cui teorie contrastavano con quelle fasciste”. Ma, nonostante le sue proteste, venne diffidato. Nel settembre 1936, ancora Filippi voltò le spalle “sorridendo beffardamente” ad un corteo di fascisti che si recava a deporre una corona al monumento dei caduti. Il gesto gli costò tre anni di confino. Dopo oltre un decennio di regime e malgrado i condizionamenti ideologico-sociali da esso messi in atto, la città presentava ancora ampie sacche di resistenza, o comunque di impermeabilità, agli imperativi fascisti. L’accentuazione da parte della Società Terni dell’attività a favore dei dipendenti, proprio negli anni trenta, non avveniva perciò casualmente. In questo contesto spacci aziendali, abitazioni operaie istituzioni assistenziali, dopolavori, attrezzature sportive e del tempo libero vennero configurandosi come il frutto di un paternalismo aziendale consapevolmente esercitato dalla dirigenza della società sia per accreditare una mistificante ideologia di collaborazione tra le classi, sia per ottenere un controllo globale sulla vita economica e sociale dell’intera comunità operaia cittadina. Comunque queste coinvolgenti e molteplici iniziative, anche se produssero degli effetti di lungo periodo, non riuscirono nell’immediato a far ottenere alla “Terni” ed al regime larghi margini di consenso all’interno delle masse operaie. Tradizione sovversiva e durezza della condizione di fabbrica erano i due poli intorno a cui cresceva e si articolava la resistenza. Era la consapevolezza del contrasto tra realtà, e propaganda del regime a generare l’estraneità di consistenti settori operai al messaggio aziendale e fascista. Il ventennio mussoliniano fu infatti un periodo in cui la distanza tra le classi sociali diventò in città ancor più evidente; essa assunse addirittura, un risalto fisico e topografico. Alla crescita di un benestante ceto medio, di negozi lussuosi ed, in generale, ad un sensibile aumento dei consumi voluttuari fece infatti riscontro l’economia di penuria in cui furono costretti a vivere la gran parte dei lavoratori; allo sviluppo di eleganti e centrali zone residenziali per i ceti medio-alti corrispose il permanere delle squallide condizioni abitative nei borghi operai nati spontaneamente o il sorgere di villaggi operai deliberatamente costruiti lontani dal centro cittadino. Furono in particolare queste le ragioni per cui i nuovi e, soprattutto, i vecchi quartieri operai riuscirono a conservare e riprodurre forme di cultura e di socialità in cui il senso di appartenenza classista aveva un forte peso. Le condivise e difficili condizioni di vita e di lavoro continuarono a costituire il cemento di aggregazione privilegiato delle reti di solidarietà che si sviluppavano tra vicini, parenti e amici. Pertanto i segnali del malumore operaio e popolare verso il fascismo, se si esclude
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un significativo arresto nel 1935 – anno di maggior vigore del regime –, seguitarono a crescere per tutti gli anni trenta. Alla teatralità del potere fascista, fatta di adunate, parate, tradizioni “inventate”, nuovi cerimoniali e nuove festività, la classe operaia oppose un proprio “controteatro” che trovava moduli espressivi diversi e particolari, dal foglietto volante contenente frasi contro il fascismo alla vignetta pornografica, che ne rappresentava gli esponenti, graffita sui muli. Tra queste singolari forme espressive comunque un posto di crescente rilievo lo assunse il messaggio o la lettera anonima di minacce. Furono soprattutto i muri dei gabinetti delle fabbriche, dei cinema, della stazione a farsi latori di messaggi minacciosi nei confronti dei gerarchi del fascismo aziendale e cittadino. Di sovente, però, le minacce erano indirizzate più in alto. Dopo l’introduzione della settimana lavorativa di quaranta ore, nel dicembre 1934 sul muro del gabinetto dello stabilimento elettrochimico di Papigno una mano anonima scriveva: “Se Mussolini manda in vigore le 40 ore di lavoro è un cornuto e vada alla forca; vogliamo 48 ore di lavoro; se Mussolini ne volesse 40 abbasso e fucilato; non si può più vivere, avviso a chi serve”. Per gli operai quello dei graffiti o, comunque, degli scritti anonimi divenne dunque uno dei mezzi più frequentemente usati per far conoscere il proprio pensiero senza incappare nella repressione. Ne aveva coscienza anche un informatore dell’OVRA, il quale nell’aprile 1937 comunicava ai suoi superiori che per sapere “chiaramente” quali fossero “ bisogni degli operai” occorreva rivolgersi alle scritte che apparivano ricorrentemente negli stabilimenti. E non è un caso che questa comunicazione avvenisse proprio nel 1937. A partire da questa data, il malcontento operaio contro la dittatura mussoliniana sembrò infatti dilagare. Le relazioni dei fiduciari dell’OVRA davano un quadro della situazione cittadina che preoccupava molto i tutori dell’ordine pubblico. In esse si insisteva infatti sulla necessità di “guardare a vista” una città come Terni dove ormai non solo si imprecava “senza eufemismi” contro i dirigenti aziendali e contro il regime, ma addirittura “si parla[va] di rivoluzione antifascista come di cosa probabilissima”. Non vi è dubbio che queste affermazioni contenessero molta esagerazione, ciò comunque non escludeva un loro sostanziale fondo di verità. Significativo al riguardo appare il comportamento del dirigente della IV Zona OVRA che, in un suo rapporto del febbraio 1938, se da un lato cercava di rassicurare un preoccupato capo della polizia ridimensionando sensibilmente le asserzioni degli informatori sull’umore della classe operaia ternana, dall’altro era costretto a riconoscere che la massa non [era] ancora spiritualmente conquistata alla causa fascista; le teorie comuniste professate per lo passato [facevano] affiorare ogni tanto sentimenti nostalgici; il disagio economico ostacola[va] l’opera di penetrazione fascista mentre agevola[va] la propaganda degli elementi antinazionali.
D’altra parte fino allo scoppio della guerra le segnalazioni dell’OVRA mantennero lo stesso tono. La guerra ed il suo esito disastroso fecero crescere su scala ancora
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più vasta la sensibilità antifascista tra le classi popolari ed, in parte, tra gli altri ceti sociali della città. Appare dunque evidente come per tutto il ventennio fascista risultasse presente a Terni un iceberg sovversivo, che affiorava periodicamente attraverso forme diverse di contestazione sociale e politica. Peraltro i livelli di repressione, con cui la sua punta emergente venne colpita, consentono di avere con buona approssimazione una caratterizzazione socio-politica dell’antifascismo ternano. Complessivamente nella provincia di Terni, tra il 1927 ed il 1943, vi furono novantatre antifascisti deferiti al Tribunale Speciale. Di essi sessantadue vennero qualificati come comunisti, due come socialcomunisti e due come socialisti; i rimanenti ventisette furono genericamente indicati come disfattisti oppure non ebbero qualifica politica. Per la gran parte (62,3 per cento) furono operai, vi fu comunque anche una consistente componente artigiana (12,9 per cento). Elevato fu pure il numero degli assegnati al confino. Tra i novantasei colpiti da questo provvedimento comparivano cinquantuno comunisti, otto anarchici, sette socialisti, due sovversivi, un socialcomunista, un sindacalista rivoluzionario, sedici antifascisti generici, tre disfattisti e sette apolitici. Anche i confinati risultavano essere in prevalenza operai (64,5 per cento) ed in buona parte artigiani (13,5 per cento). Le carte di polizia fanno emergere inoltre un alto numero di ammoniti e diffidati, la cui esatta quantificazione è resa impossibile dalla frammentarietà dei dati. Tra essi, tuttavia, risulta ancora prevalente la componente operaia e comunista. Si tratta dunque di un vasto universo “sovversivo” che, proprio grazie alla repressione ed alla scuola del carcere e del confino, usci dal ventennio fascista politicamente ben temprato e, quindi, in grado di svolgere un ruolo di primo piano nelle successive vicende della lotta partigiana. Dal suo interno, infatti, provenirono quegli uomini che, a partire dall’autunno del 1943, sarebbero divenuti un punto di riferimento e di orientamento per l’antifascismo spontaneamente maturato – soprattutto tra i giovani – nel corso della guerra. Furono essi a spingere per una rapida e palese ricostituzione delle organizzazioni politiche, ad essi si dovette la nascita di un comitato di opposizione tra le forze antifasciste ed un rapido avvio di un movimento armato di liberazione nazionale.
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Gli operai e il movimento operaio a Terni
L’opposizione operaia a Terni dalla Liberazione ai licenziamenti del 1953
A Terni, nel corso del ventennio fascista, il movimento clandestino di opposizione risultò costantemente sorretto da profonde motivazioni di classe. Ciò consentì ad esso di resistere alla dura repressione fascista e di essere sempre presente, anche se in forma particolarmente ristretta nelle fasi di maggior vigore del regime. All’indomani dell’8 settembre l’esistenza di consolidati nuclei di opposizione permise così di organizzare prontamente il movimento di liberazione. Furono i rappresentanti dei partiti più strettamente legati alla classe operaia (PCI, PSIUP e PRI) a dar vita ad un incompleto Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che solo in un secondo tempo poté integrarsi con la presenza di un esponente democristiano. Tra le principali funzioni assunte dal Comitato ternano ci furono quelle di organizzare e dirigere la lotta partigiana e di provvedere alle sue necessità logistiche. Le prime bande costituitesi nella zona di Terni furono quasi esclusivamente formate dagli antifascisti militanti del ventennio, per lo più operai comunisti. Questi primi nuclei di combattenti scelsero come teatro delle proprie operazioni le zone montane comprese tra la Valnerina ed il Reatino. Qui entrarono in contatto con numerosi prigionieri politici slavi, evasi dai campi di concentramento della zona, i quali misero a disposizione del nascente movimento di liberazione la loro larga esperienza di lotta armata. Alla fine del 1943, la consistenza delle forze partigiane – la cui base sociale, inizialmente in larga parte operaia, si era allargata anche a contadini, giovani e militari sbandati – raggiunse livelli ragguardevoli. Ciò permise di costituire la brigata garibaldina “Antonio Gramsci” che nei primi mesi del 1944 – periodo di sua massima espansione – arrivò ad avere un organico di circa mille uomini. Di questa più ampia formazione gli esponenti dell’originario gruppo di partigiani comunisti andarono a comporre in buona parte l’apparato direttivo, sanzionando così l’egemonia del PCI sul movimento di opposizione e resistenza al fascismo nella provincia ternana. Inoltre il fatto che alla fine della guerra di liberazione la “Gramsci”, per l’ampiezza e l’intensità delle operazioni militari attuate, fosse apparsa – per usare l’espressione dello storico Roberto Battaglia – come “la formazione più attiva e persistente nella lotta forse di tutta l’Italia centrale”, fece sì che le forze partigiane e, di conseguenL’articolo è stato pubblicato con il titolo L’opposizione operaia, in Storia illustrata delle città dell’Umbria, a cura di R. Rossi, Terni, a cura di M. Giorgini, Sellino, Milano 1994, t. II, pp. 711-720.
L’opposizione operaia a Terni dalla Liberazione ai licenziamenti del 1953
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Il movimento di liberazione
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za, il partito, con cui esse venivano identificate – il partito comunista - si trovassero a godere di un enorme prestigio tra le masse lavoratrici. Va tuttavia ricordato che la “Gramsci”, pur configurandosi come un’eccezione rispetto alla stipulazione normale di debolezza che caratterizzò il movimento di liberazione nelle regioni del centro, condivise della lotta armata dell’Italia centrale la maggior deficienza, e cioè quella di non essere avanguardia di un movimento di massa. Per diverse ragioni – la maggiore delle quali è riconducibile al fatto che i frequenti e massicci bombardamenti su Terni produssero il crollo produttivo delle fabbriche e la conseguente dispersione della massa operaia urbana nei centri della provincia – le forze partigiane non riuscirono a mantenere e sviluppare uno stretto collegamento d’azione con l’intera classe operaia. Comunque anche se ciò non consentì che tra le masse lavoratrici si venissero diffondendo livelli profondi e generalizzati di maturità politica, di certo non costituì una remora per quanto riguarda il loro futuro orientamento in senso antifascista e fortemente antagonista rispetto al sistema di fabbrica. Non a caso infatti a Terni la congiuntura politica postbellica risultò caratterizzata in maniera determinante dalla carica profondamente innovativa con cui la classe operaia investì le strutture politiche ed economiche cittadine. Si trattò di una spinta classista in cui risultò presente in maniera decisiva l’influenza di quella consistente avanguardia formatasi nella lotta prima clandestina, poi armata al fascismo. L’obiettivo della mobilitazione operaia apparve subito, senza equivoci, quello di giungere ad un profondo rinnovamento politico e sociale e, soprattutto, ad un sostanziale mutamento dei rapporti di forza tra le classi. Furono le tradizionali autorità preposte alla tutela dell’ordine pubblico a denunciare in maniera preoccupata nelle loro relazioni la situazione “eversiva” venutasi a creare a Terni in seguito al fatto che le forze politiche e sociali, a suo tempo ricondotte dal fascismo al “proprio posto”, apparivano ora regolare, nonostante la presenza delle truppe alleate, ogni aspetto della vita cittadina. A pochi giorni dalla Liberazione in un allarmato rapporto al Ministero dell’Interno, il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri avvertiva il ministro che “il potere civile è virtualmente caduto nelle mani di elementi privi di quelle doti spirituali che la delicatezza e la gravità del momento esigevano” e di conseguenza esprimeva il timore che, allorquando gli Alleati [avrebbero lasciato] ai [ndr suoi] organi tutti i poteri per il mantenimento dell’ordine pubblico, si [sarebbero avute] a deplorare azioni inconsulte di gruppi isolati, rappresaglie private, lesioni dei più elementari diritti di libertà, lesioni dei diritti di proprietà e simili.
L’azione che intraprese il governo militare alleato, fin dai suoi primi atti, fu però tale da far apparire infondate le preoccupazioni dell’alto ufficiale dei carabinieri. Essa si rivolse subito a normalizzare la situazione sia da un punto di vista militare che politico: nel primo caso imponendo il disarmo e lo scioglimento della brigata, nel secondo limitando pesantemente il potere dei comitati di liberazione nazionale e la loro proliferazione.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
L’opposizione operaia a Terni dalla Liberazione ai licenziamenti del 1953
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Questi provvedimenti che gli alleati accompagnarono a pretestuosi interventi repressivi, suscitarono una decisa opposizione delle forze della Resistenza, in seguito alla quale si crearono acuti e, soprattutto, pericolosi momenti di tensione. Per attenuare gli atteggiamenti maggiormente intemperanti dei più accesi gruppi partigiani, e tenere sotto controllo la situazione, dovettero intervenire con molto realismo i dirigenti dei partiti di sinistra. Ad essi doveva di certo apparire evidente come la mobilitazione delle masse in difesa degli organismi politico-militari nati nel corso della lotta armata avesse richiesto dei livelli di consapevolezza e consistenza organizzativa ancora non raggiunti dall’insieme della classe operaia, anche a causa della mancanza di una strategia politica largamente condivisa che avesse presentato, in maniera esplicita ed aperta, tali organismi come gli istituti di governo locale su cui basare la rifondazione dello Stato. Al riguardo appare comunque opportuno sottolineare come in questa occasione tornarono a confrontarsi all’interno del movimento operaio due tradizionali e contrastanti orientamenti. Da un lato i settori più irrequieti, che, mossi da uno spontaneo ed ingenuo desiderio di rivoluzione, non intendevano concedere nulla ed erano disposti a rintuzzare immediatamente gli attacchi dell’avversario di classe, sotto qualsiasi veste esso si presentasse; dall’altro i settori, dotati di una maggiore esperienza e preparazione politico-culturale, in cui la fedeltà e la disciplina verso l’organizzazione politica e la sua linea apparivano fortemente radicate. La novità di questo dopoguerra fu che queste due “anime”, riflesso di radicate stratificazioni interne alla classe operaia, si trovarono ora a convivere dentro una sola organizzazione politica, o comunque ad avere essa come punto di riferimento. I livelli plebiscitari di consenso che il Partito Comunista ottenne tra la classe operaia – per le ragioni ricordate – lo portarono ad assolvere un difficile ruolo di coagulo e mediazione di questi due contrastanti orientamenti ideali. Per di più tutto questo avvenne proprio mentre era in corso la trasformazione del vecchio partito strutturato secondo il modello bolscevico staliniano in un “partito nuovo”, di massa, che seguiva una politica di unità nazionale e di collaborazione interclassista. A causa di ciò si produssero forti tensioni, larghe incomprensioni e, soprattutto, molte illusioni all’interno delle masse lavoratrici. La storia di questa “doppiezza” diventò perciò parte fondamentale della storia della classe e del movimento operaio del primo decennio postbellico. Nell’immediato dopoguerra comunque forti livelli di sintonia sembrarono stabilirsi tra gruppi dirigenti di sinistra e l’insieme della classe operaia sul terreno specifico della lotta di fabbrica, tanto che i processi di rinnovamento profondo, che gli alleati riuscirono a bloccare sul piano dei rapporti politici generali, poterono invece essere attuati su quello dei rapporti interni ai luoghi di lavoro.
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Dalla Liberazione alla svolta del 1947
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Per comprendere la dinamica politica e sociale che si innescò a Terni all’indomani della Liberazione bisogna partire dallo scenario di desolazione e di morte che caratterizzava la città alla fine della guerra. Essa era stata l’obiettivo di 108 bombardamenti aerei, gran parte del suo patrimonio edilizio era andato distrutto, largamente danneggiato risultava anche il suo apparato produttivo, oltre mille morti costituivano il tributo pagato dalla popolazione civile. In questa situazione di disperazione e di rabbia, ai lavoratori che si presentarono alle porte delle fabbriche a reclamare la ripresa produttiva, i dirigenti della Società Terni, consapevoli delle incerte prospettive del settore siderurgico del complesso industriale ternano – da sempre adibito a produzioni belliche – prospettarono come inevitabile un piano che prevedeva per il futuro una parziale smobilitazione degli impianti siderurgici e per l’immediato la stasi produttiva. Comprensibilmente la gravità della presa di posizione aziendale, che non si preoccupava di aggiungere ad un tessuto sociale drammaticamente provato disoccupazione di massa e miseria, provocò una energica reazione da parte dei lavoratori. Nella vertenza che venne aperta apparve subito chiaro come per essi il momento rivendicativo si dovesse saldare al momento politico: l’obiettivo era il rifiuto del rapporto salario/produttività. L’unica forma di transazione a cui le rappresentanze operaie, nel corso delle trattative, si dimostrarono disponibili prevedeva il temporaneo allontanamento di una parte delle maestranze, a patto che venisse loro corrisposta la paga a tempo indeterminato. Contemporaneamente un’ondata contestativa dal basso investì la dirigenza aziendale accusata non solo di essere largamente compromessa con il fascismo, ma anche di voler procedere alla liquidazione del comparto siderurgico del gruppo ternano. Alla forte pressione con cui la classe operaia appoggiò le diverse fasi dello scontro si aggiunse poi una larga mobilitazione e solidarietà dei diversi strati sociali cittadini. In seguito a ciò si produsse una preoccupante situazione che spinse gli alti vertici dell’amministrazione alleata e del governo a trovare una rapida soluzione. Furono infatti gli stessi tecnici alleati, insieme a quelli aziendali, a varare con sollecitudine dei piani specifici di ricostruzione e riconversione per i diversi comparti della “Terni”. Ne scaturì un complessivo programma di ripresa produttiva che, se pure di breve respiro, consentì l’occupazione di consistenti quote di lavoratori. Anche in questa occasione, con uno slancio che in seguito venne frequentemente ricordato come “eroico”, gli operai rivendicarono un ruolo da protagonisti. Superando difficoltà enormi a causa della mancanza di materie prime e di adeguate attrezzature, essi riuscirono infatti già nei primi mesi del 1945 a far registrare in tutto il complesso industriale ternano un’intensa attività ricostruttiva e produttiva. Oltre a ciò, sul piano più strettamente politico-sindacale, i lavoratori riuscirono ad ottenere, a conclusione di un intenso periodo di mobilitazione, una serie di importanti conquiste e posizioni di potere: una vasta epurazione di alti e medi dirigenti
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aziendali, l’immissione di rappresentanti di operai e tecnici nel consiglio di amministrazione della società e, infine, l’attribuzione della presidenza dell’azienda ad un esponente di prestigio del movimento socialista ternano e nazionale, Tito Oro Nobili. In fabbrica, pertanto, sembrò instaurarsi una vera e propria situazione di contropotere operaio. Controllo e partecipazione degli operai alle scelte economiche e produttive dell’azienda, una maggiore attenzione alle richieste e alle necessità dei lavoratori furono obiettivi che in questa fase apparvero raggiunti. La classe lavoratrice poté così ribaltare quel rapporto totalizzante che la Società Terni aveva instaurato durante il ventennio fascista nei confronti dell’intera comunità cittadina. Le concessioni e gli interventi prodotti in campo sociale dalla ‘‘Terni’’ negli anni della dittatura, in ordine a una politica aziendale mirante ad organizzare e controllare l’intero cielo di vita dei lavoratori, divennero nel mutato clima politico del dopoguerra precise richieste della classe operaia, che non potevano essere facilmente eluse. Tutto ciò ebbe l’effetto di consolidare nei lavoratori una nuova maniera di sentire se stessi e la ‘‘Terni’’. Da un lato sviluppò in loro una grande fiducia nelle proprie capacità di lotta e di resistenza agli attacchi padronali; dall’altro produsse un attaccamento particolare al modello di città-fabbrica che si era venuto costruendo nel corso del ventennio fascista. Controllare il complesso industriale ternano per i lavoratori significava, in una certa misura, esercitare un controllo anche sulla città che da un punto di vista economico dipendeva largamente da esso. Nel 1946 poterono finalmente quantificarsi con precisione gli orientamenti politici ed ideali delle masse operaie e popolari urbane. Le elezioni delle commissioni interne di fabbrica fecero registrare dappertutto una nettissima prevalenza del Partito Comunista. Per fare un solo esempio, in febbraio alle elezioni della Commissione Interna dello stabilimento siderurgico risultarono eletti sei comunisti, due socialisti, un repubblicano, tra gli operai, e due socialisti, un comunista ed un repubblicano, tra gli impiegati. Un’analoga superiorità del PCI si manifestò poi nelle elezioni amministrative e politiche. Infatti, nella consultazione elettorale amministrativa di marzo il Partito Comunista ottenne il 43 per cento dei consensi espressi in città (16.692 voti), mentre a PSIUP, DC, PRI andarono, rispettivamente, il 20,7 per cento, il 18 per cento ed il 15,2 per cento. Le elezioni politiche del giugno successivo, che fecero registrare un maggior numero di elettori e di liste, diedero invece risultati percentualmente diversi: 39,4 per cento il PCI (16.904 voti), 18,9 per cento la DC e 15,8 per cento rispettivamente il PSIUP ed il PRI. Il dato elettorale favorevole al Partito Comunista, anche se con un sensibile decremento, risultò comunque sostanzialmente confermato. Al referendum istituzionale lo schieramento repubblicano ottenne poi un consenso quasi plebiscitario: 34.397 voti contro 9.523. Erano risultati dunque che la dicevano lunga sul credito dato dalle masse lavoratrici ai partiti di sinistra, in particolare al PCI. Ad essi ne derivò un determinante e difficile ruolo di direzione ed orientamento, un ruolo che peraltro venne loro
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riconosciuto in più occasioni anche dalle direzioni aziendali, allorché si accorsero come in questa fase i dirigenti politici e sindacali del movimento operaio erano gli unici in grado di attenuare il clima di insofferenza verso la disciplina produttiva e la gerarchia aziendale largamente presente sui luoghi di lavoro. La diffusa propensione con cui i lavoratori sembrarono affidare le proprie aspirazioni di rinnovamento e giustizia sociale alle organizzazioni politiche e sindacali di sinistra non deve far credere però che tra loro si stabilì un rapporto lineare, senza problemi. Al contrario, il fatto che le istituzioni operaie continuassero a seguire una politica di collaborazione di classe e di contenimento delle lotte, anche in presenza dell’avanzare di un generale disegno restauratorio condotto dal padronato e dalle sue espressioni politiche, divenne causa di non pochi momenti di frizione, soprattutto tra PCI e base operaia. Erano in particolare gli strati operai più giovani, per lo più ex partigiani, la cui educazione politica era avvenuta in tempi di ferro e di fuoco, a creare non poche difficoltà ai quadri politico-sindacali del movimento operaio, dando vita a forme di lotta incontrollate o passando a vie di fatto con avversari politici e dirigenti aziendali. Le improvvise impazienze e, ancor meglio, l’endemico “sovversivismo” del proletariato ternano sembrarono trovare nuova espressione nei loro comportamenti. Furono in particolare questi inquieti settori operai a contrappuntare con la loro azione tutte le tappe che scandirono, con l’affermarsi del processo di involuzione democratica, il progressivo esaurirsi dell’illusione operaia di potere. Alla caduta del governo Pani l’autorità prefettizia segnalava che: “Inaspettatamente [...] pochi scalmanati e facinorosi giovani ex partigiani” avevano dato vita al alcuni “episodi di violenza” che avevano avuto come bersaglio un ex fascista ed alcuni dirigenti dello Jutificio. La duplice campagna elettorale del 1946 venne contraddistinta da aperte manifestazioni di avversione verso i partiti di destra che costringevano, da un lato, il prefetto ad “adottare misure straordinarie di polizia” in occasione dei comizi tenuti da queste forze politiche, dall’altro, il PCI ad emanare una singolare direttiva: “È opportuno che i compagni disertino i comizi monarchici e anticomunisti al fine di evitare incidenti”. Nel maggio del 1946 lo stesso presidente del Consiglio, De Gasperi, venne più volte interrotto nel corso del suo comizio da alcuni presenti – identificati in seguito come militanti comunisti – i quali gli chiedevano insistentemente di dichiarare quale sarebbe stato il suo voto per il referendum. Nell’inverno 1946-1947 l’intensificarsi del processo inflattivo, che rendeva sempre più precarie le condizioni materiali di vita dei salariati, e l’alto tasso di disoccupazione furono le cause di un costante fermento tra le classi lavoratrici e di “quotidiane manifestazioni di proteste popolari”. Era lo stesso prefetto ad annotare “come giorno per giorno i segretari delle camere del lavoro, i capilega ecc. non [riuscissero] più a tenere in pugno le masse operaie”. A questo punto comunque fu la situazione politica nazionale che si incaricò di riequilibrare il rapporto tra le tendenze espresse da larghi settori della popolazione lavoratrice e la linea politica delle organizzazioni di classe. La rottura dell’unità tra le forze
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politiche antifasciste e la conseguente estromissione delle sinistre dal governo, nel maggio 1947, servirono infatti a far assumere al PCI ed al resto delle forze operaie un deciso ruolo di opposizione e di lotta contro il processo di restaurazione moderata in corso nel paese. A partire dalla primavera del 1947, a causa dell’avvio di un vasto processo di “restaurazione” condotto dalle tradizionali forze dominanti sia nella fabbrica che nella società, la vicenda ternana divenne la storia della trasformazione in illusioni delle certezze e delle aspettative operaie, ma anche e soprattutto la storia della dura resistenza che i lavoratori misero in campo perché ciò non avvenisse.
Nel luglio del 1947 la città veniva tappezzata di manifesti abusivi recanti un significativo titolo: “Il doppio gioco è finito: la maschera è caduta”. Essi contenevano le fotografie e le biografie dei nuovi ministri “con particolari relativi [alla loro] passata attività politica antidemocratica”. Si trattava di uno dei primi segnali – se ne ebbero altri e numerosi – di quella che sarebbe stata una progressiva presa d’atto da parte operaia del carattere illusorio delle speranze innescatesi tra il 1944 e il 1945. Del resto ormai evidenti ed inequivocabili si andavano facendo i comportamenti con cui il padronato e l’apparato statale palesavano una crescente ostilità verso i lavoratori: ad esempio la sempre maggiore rigidità con cui la direzione aziendale della Società Terni accoglieva le loro richieste o il chiaro atteggiamento ostile che gli organi statali manifestavano nel corso della campagna elettorale del 1948, riempiendo di reparti di polizia la città e facendola pattugliare da poliziotti con il moschetto alla spalla. Alla classe operaia non tutto però sembrava perduto e la speranza di poter rovesciare la situazione mettendo in campo la propria forza permaneva. A partire dall’autunno del 1947 venne avviata una fase di lotte, mobilitazioni e manifestazioni di piazza, a cui la classe operaia partecipò compatta. Anche i responsi che nel 1948 vennero dalle consultazioni di massa apparvero precisi. La classe operaia dello stabilimento siderurgico – “punta avanzata del popolo lavoratore ternano”, come era definita dai giornali di sinistra – nelle elezioni della Commissione Interna riservò un consenso quasi plenario alla corrente social-comunista: il candidato più votato di questa corrente ottenne 953 voti a fronte della qualche decina di voti che ebbero i candidati maggiormente votati delle altre liste, ad esempio rispetto ai 53 di quello democristiano. Alle elezioni politiche il Fronte Democratico Popolare riuscì ad avere in città 56,7% dei suffragi (26.632 voti), mentre la DC ne ottenne il 25,9%. Questi favorevoli risultati non servirono però ad attenuare lo sconcerto e la rabbia che i lavoratori provarono di fronte al responso elettorale nazionale, che assegnava alla DC una vittoria di proporzioni non previste. Il periodo postelettorale a
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La ripresa dello scontro politico e sociale
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Terni fu infatti carico di tensione e venne vissuto dagli strati moderati della popolazione con il persistente timore “che il Fronte Democratico Popolare sarebbe ricorso ad espedienti o disordini per opporsi al risultato delle urne”. In realtà niente di clamoroso avvenne fino al 14 luglio, giorno dell’attentato a Togliatti. In questa circostanza, “al primo giungere della notizia”, si ebbe una spontanea reazione delle masse operaie, che abbandonarono il posto lavoro e si riversarono, in cerca di direttive, presso le sedi del sindacato e dei partiti. Dai più prestigiosi esponenti politici e sindacali cittadini, i lavoratori furono invitati ad eseguire gli ordini che sarebbero stati impartiti dalla CGIL ed a tornare a presidiare gli stabilimenti. Ma non vi è dubbio che molti intesero questo momento come il preludio della rivoluzione. Rispuntarono infatti le armi nascoste nel 1944, furono sabotate alcune linee telefoniche e telegrafiche, venne fatto saltare un tratto della ferrovia TerniOrte, si ebbero alcune aggressioni e tentativi di disarmi nei confronti di isolati agenti di polizia. Accanto a questi si registrarono poi una serie di “atti di violenza” meno gravi, i quali comunque contribuirono a definire con precisione lo stato d’animo di rivalsa con cui da parte operaia venne vissuto questo evento, uno stato d’animo che si trasformò in aperta amarezza quando lo sciopero venne concluso con un nulla di fatto. Presso le Acciaierie – riferiva al riguardo il prefetto – vivi dissensi sorsero in seguito alle disposizioni emanate dalla CGIL per la ripresa del lavoro tra i dirigenti sindacali e gli elementi più accesi ai quali era stato in precedenza fatto intendere che lo sciopero si sarebbe protratto sino a determinare la caduta del governo.
La frustrazione, procurata ai lavoratori dall’esaurirsi della speranza rivoluzionaria, non durò però a lungo. Già in autunno la dirigenza aziendale della società scuoteva le masse operaie annunciando lo stato di crisi di diversi comparti produttivi e l’improrogabile necessità di dar corso a numerosi licenziamenti. Le dimissioni dalla presidenza della Società Terni presentate da Tito Oro Nobili nel consiglio di amministrazione del 7 ottobre 1948 – per non trovarsi “di fronte ai lavoratori in lotta” – sanzionarono definitivamente la fine dell’utopia operaia nata nell’immediato dopoguerra. Dai vertici societari vennero messi in discussione il modello di impresa polisettoriale ed, in particolare, l’esperienza industriale, affermatasi sulla spinta di circostanze eccezionali all’indomani della Liberazione. L’avvio della “terapia dei licenziamenti” aprì pertanto un lungo periodo in cui il movimento operaio venne costretto sulla difensiva. Agli occhi dei lavoratori la Società Terni tornò ad essere l’avversario di classe ed il “governo nero”, un suo fedele alleato. Sul finire degli anni quaranta le rappresaglie verso gli scioperanti o i caroselli della celere volti a sciogliere gli assembramenti operai diventarono in città cose abituali. I dirigenti nazionali del movimento operaio che venivano a tenere i comizi a Terni esaltavano le capacità di resistenza della “cittadella proletaria”; gli
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stessi toni si ritrovavano nella stampa operaia. Ma quando il linguaggio massimalista si attenuava, non poteva non apparire evidente come fosse ormai distante
La realtà appariva costituita infatti da una serie ininterrotta di parziali sconfitte, di bocconi amari da ingoiare. Il 17 marzo 1949, nel corso di una manifestazione contro l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, la polizia sparò sugli operai, uccidendone uno – Luigi Trastulli – e ferendone diversi. I funerali videro una larga partecipazione popolare; “l’Unità” riferiva di trentamila persone. La memoria operaia mantiene ricordi vividi di un corteo funebre che, in un atmosfera carica di tensione, sfila nelle principali vie cittadine, passando anche sotto il “palazzo del governo” – la sede della Prefettura – presidiato da agenti in assetto di guerra. Gli anni cinquanta si aprirono dunque in un contesto di aspra e crescente acutizzazione dello scontro politico e sociale. Se pure la congiuntura “coreana”, facendo salire la richiesta ed i prezzi dei prodotti siderurgici, comportò un periodo di relativa stasi sul fronte della lotta contro i licenziamenti, la mobilitazione sociale – “contro il piano della fame”, “perché Terni non muoia” – non si attenuò. Del resto la situazione economica in cui versava la città era veramente drammatica. Nel 1951, in tutta la provincia, si contavano oltre settemila disoccupati, di cui più della metà potevano essere considerati indigenti. Le possibilità di occupazione per i giovani risultavano azzerate. L’aumento dei protesti cambiari e dei fallimenti degli esercizi commerciali sembrava non dover finire. Nell’agosto 1952 il prefetto notava una inquieta situazione, che andava giornalmente sempre più preparandosi e delineandosi, particolarmente per la sottile ed allarmistica propaganda delle organizzazioni del PCI in dipendenza di altri licenziamenti previsti […] nel complesso “Terni”.
A dicembre infatti altri settecento licenziamenti vennero annunciati dalla direzione aziendale. A questo punto però si ebbe uno spontaneo moto di solidarietà dei diversi strati sociali cittadini a favore degli operai colpiti dal provvedimento e, per usare ancora la prosa prefettizia, “anche da parte sana vennero indirizzate critiche ai dirigenti dell’industria italiana e non furono risparmiati neppure gli alti responsabili della vita pubblica”. Un’intera città sembrò stringersi intorno alla lotta dei “700” in un clima di crescente eccitazione sociale, che venne così efficacemente espresso da un poeta dialettale: Hai sinditu fraté l’avvinimendu? So settecento in tutti co lu Cippe
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l’epoca durante la quale i membri delle commissioni interne e dei sindacati, che andavano a discutere in Direzione Generale della Terni, vedevano sotto il vetro che ricopriva il grande tavolo centrale una foto di Stalin.
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Tra pocu giocheremo tutti a lippe E camberemo sola co la vendu! Hai sinditu fraté? Nun si condendu Se nun te piace arriono le gippe Arria un Cummissariu piantapippe “Carrecate” e vai sotto in un momendu! Che cortei, che cumizzi! Circolate In nome de la Legge tutti a nanna Le proteste nun servono! Pregate!
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E portate rispettu a chi commanna ! Volete lu lavuru? C’iarifate? Sona trombetta! Avanti! Ve le manna De Gasperi ste sande tortorate!
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In effetti la repressione poliziesca contro le lotte operaie raggiunse in quegli anni livelli notevoli. Nell’aprile del 1953 “l’Unità” ricordava al ministro dell’Interno, Scelba, che dal 1948 a quella data tra i lavoratori ternani i colpiti da denuncia, fermo di polizia o arresto ammontavano a circa 1.500. Nonostante ciò, tutt’altro che battuta appariva la capacità di mobilitazione e la volontà di resistere di una classe operaia, al cui interno i sintomi di una montante esasperazione si facevano sempre più evidenti, fatto questo che non sfuggiva alle superiori autorità di polizia. Quando nell’ottobre 1953 il ministro Scelba venne informato che la Società Terni aveva proceduto ad un’ulteriore notifica di licenziamento nei confronti di duemila operai, ebbe un moto di contrarietà contro il provvedimento che risultava in contrasto “con precedenti impegni interministeriali” e si affrettò a chiedere l’intervento dei “ministeri interessati ad evitare gravi turbamenti”. Ma a ben vedere un “grave turbamento” dell’ordine pubblico appariva ormai nell’ordine delle cose. In questo ennesimo licenziamento largamente e deliberatamente colpiti dalla direzione aziendale furono infatti i militanti e gli iscritti dei partiti e dei sindacati di estrema sinistra. Per di più, il pesante numero di licenziamenti effettuati – che si aggiunse allo stillicidio degli anni precedenti – apparve ai lavoratori come parte di un predeterminato disegno volto a mettere in discussione la sopravvivenza di un’intera classe sociale e di una città. Pertanto contro quella che venne vissuta come una “manovra combinata fra la Società Terni e gli organi di governo, centrali e provinciali, tendenti a realizzare i piani di smobilitazione delle Acciaierie e di affamamento della città” si generò una spontanea rivolta, cui partecipò in maniera corale la grande parte della popolazione lavoratrice ternana. A scatenare i disordini fu un intervento delle forze di polizia indirizzato a impedire una manifestazione di piazza contro i licenziamenti. Al di là dei documenti ufficiali o dei resoconti giornalistici, sono le ricorrenti convergenze della memoria collettiva operaia a scandire con maggior precisione descrittiva le diverse fasi di quell’evento: i reparti di polizia imbottigliati nella prin-
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cipale piazza cittadina, le cui vie d’uscita erano state ostruite con barricate; il fitto lancio di pietre, selci e mattoni contro di essi, cui partecipavano, oltre agli operai, donne e ragazzi; i primi colpi di moschetto sparati dalla polizia e lo spuntare di qualche arma tra le mani degli operai; la voce che si diffuse a proposito dell’arrivo di unità di carabinieri da Roma; i contatti che intervennero tra i responsabili dell’ordine pubblico ed i dirigenti del movimento operaio per scongiurare il rischio che sopravvenisse la notte in una città in rivolta; la difficile decisione del segretario provinciale della FIOM di farsi accompagnare da una jeep della polizia a convincere i dimostranti a smontare le barricate; il defluire dalla piazza dei reparti di polizia tra due ali di folla che li accompagnavano con urla, fischi e pietre. Lo sconforto e la delusione furono, nell’immediato, i sentimenti prevalenti con cui i lavoratori uscirono da questa esperienza; in seguito sopraggiunse anche un senso di impotenza, che ebbe effetti di lungo periodo. Soprattutto per questo il moto popolare del 1953 può essere considerato come un tournant decisivo nella storia contemporanea di Terni. Con esso si concluse una determinata fase storica, si esaurì una tradizione politica e culturale, formatasi attraverso fiammate “sovversive” e speranze di rivoluzione. Le vicende, che immediatamente seguirono, caratterizzarono un periodo di passaggio in cui furono presenti più cose: i drammi individuali dei numerosissimi licenziati – e delle loro famiglie – che per sopravvivere si videro costretti ad arrangiarsi in mille mestieri o, addirittura, a prendere la via dell’emigrazione; la sotterranea resistenza operaia ad uno sfruttamento che sui luoghi di lavoro si fece sempre più intensivo; la caparbia volontà di lotta dei pochi attivisti rimasti occupati; la paura di molti a dichiararsi, apertamente, comunisti in una città che continuò a dare un largo consenso politico al PCI; l’ingresso di nuova manodopera “addomesticata” nelle fabbriche, in ordine ad un preciso disegno padronale di ricomposizione della forza-lavoro; il consistente e progressivo ridimensionamento del peso strutturale della tradizionale classe operaia all’interno della città.
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Bibliografia
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Gli operai e il movimento operaio a Terni
Classe operaia e società a Terni nel secondo dopoguerra
Ciò che caratterizza in maniera determinante la congiuntura politica postbellica a Terni è la carica fortemente innovativa con cui la classe operaia, guidata da una consistente avanguardia formatasi nella lotta clandestina al fascismo e in quella di liberazione, investe le strutture politiche ed economiche cittadine. Questa spinta classista puntava a raggiungere un profondo rinnovamento politico e sociale e, soprattutto, un sostanziale mutamento dei tradizionali rapporti di forza tra le classi. A tale volontà, per il suo carattere “eversivo”, si opposero però – in forme diverse – prima gli alleati e poi i settori politici moderati del governo e dell’imprenditoria di stato, entrambi preoccupati di salvaguardare i rapporti di potere esistenti. Per meglio comprendere il serrato confronto politico che da questa contrapposizione prese vita, è però opportuno fornire alcune preliminari indicazioni relative alla pluralità delle componenti, politiche, economiche, sociali, protagoniste di questa fase storica e, in particolare, al complesso intreccio dei loro rapporti in un arco di tempo più prolungato1. Conviene perciò ricordare che Terni è una città cresciuta e sviluppatasi in stretta dipendenza economica dal complesso produttivo della Società Terni. Infatti “la Società delle Acciaierie, fondata nel 1884 [...], crebbe sul piano locale dallo stadio di azienda più importante della città a quello di industria per antonomasia di Terni: assorbita nel 1922 la SICCAG (Società Italiana per il Carburo di Calcio ed Altri Gas), assunta la nuova denominazione di Terni-Società per l’Industria e l’Elettricità, essa divenne il motore propulsivo e il fattore condizionante della vita economica e sociale cittadina”2. Il lavoro è stato pubblicato per la prima volta con il titolo Classe operaia e società a Terni, in L’altro dopoguerra. Roma e il Sud. 1943-1945, a cura di N. Gallerano, Milano 1985, pp. 121-134. 1
2
Per brevità ho ridotto all’essenziale l’apparato di note e, in esse, i riferimenti bibliografici. In ogni caso, per una più ampia trattazione delle vicende esaminate e per una più accurata segnalazione di testi e fonti d’archivio, rimando al mio Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione, Amministrazione Comunale Terni, ANPI Terni, Terni 1984, di cui questa comunicazione costituisce una sintesi. Sulle vicende industriali della Società Terni cfr. F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Einaudi, Torino 1975; sul rapporto città-fabbrica sino agli anni trenta cfr. G. Gallo, Ill.mo Signor Direttore... Grande industria e società a Terni fra Otto e Novecento, Editoriale Umbra, Amministrazione Provinciale Terni, Foligno 1983; sulla lotta antifascista cfr. Contributo dell’antifascismo nel Ternano 1921-1943, a cura di R. Righetti e B. Zenoni [ANPPIA Terni], Terni 1976, e il saggio introduttivo di R. Covino, Classe operaia, fascismo, antifascismo a Terni, in G. Canali, Terni 1944 cit.; sulla lotta di liberazione cfr. L’Umbria nella Resistenza, a cura di S. Bovini, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1972. Gallo, Ill.mo Signor Direttore..., cit. (a nota 1), p. 2.
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In effetti la riorganizzazione industriale avviata negli anni venti, che portò la “Terni” a diventare una grande impresa polisettoriale basata sul massimo dell’integrazione tra i suoi maggiori settori produttivi – il siderurgico, l’elettrico, il chimico – contribuì sensibilmente ad aumentare il peso dell’azienda sull’economia cittadina. Fu comunque a partire dagli anni trenta che la città si trovò sempre più a vivere in funzione della sua maggiore industria. Negli anni della grande crisi, in un contesto di rapido esaurimento di esperienze industriali, la Società Terni, uscita da un grave dissesto finanziario attraverso l’assunzione da parte dell’IRI del suo controllo azionario, “vide riconfermato il suo ruolo tradizionale, primario e privilegiato, di fornitrice di prodotti bellici speciali”3 per lo Stato. Fu così che la Terni finì per divenire l’elemento connettivo ed unificante del tessuto produttivo ternano, non solo assorbendo la quasi totalità della forza lavoro operaia, ma anche erogando la quota maggiore della massa salariale della provincia. La posizione di dipendenza della città nei confronti della Terni venne poi resa pressoché “totale” dall’accorta politica di intervento in campo sociale realizzata dall’azienda. Infatti, soprattutto negli anni trenta, la costruzione di villaggi operai, di attrezzature sportive e dopolavoristiche, l’organizzazione di spacci aziendali, furono tutte realizzazioni con cui da parte della società si cercò di ottenere, principalmente, un controllo globale sulla vita economica e sociale dell’intera comunità operaia cittadina. Nonostante queste molteplici e coinvolgenti iniziative, alla Società Terni non fu però possibile ottenere per sé e per il regime larghi margini di consenso all’interno delle masse operaie. L’affermazione assoluta dell’arbitrio aziendale e della gerarchia di fabbrica, il peggioramento delle condizioni di lavoro, la caduta dei salari e, con essi, del livello di vita – che furono i dati caratterizzanti la condizione operaia negli anni della dittatura – resero evidente ai lavoratori la scelta classista che si nascondeva dietro l’ideologia corporativa ed il largo uso di forme di paternalismo aziendale. Ed infatti, non a caso, l’opposizione al fascismo nella provincia ternana fu tenuta viva, prevalentemente, da operai aderenti all’organizzazione clandestina comunista. Peraltro la lotta antifascista a Terni, proprio perché sorretta da profonde motivazioni di classe, riuscì a sopravvivere alla dura repressione fascista e, se pure condotta da un’avanguardia particolarmente ristretta negli anni di maggior vigore del regime, fu sempre presente nell’arco del ventennio. Questa continuità – che fu soprattutto una continuità di uomini – costituisce la ragione principale del fatto che, dopo l’8 settembre, nella provincia ternana si ebbe una rapida formazione del movimento partigiano. Infatti le prime bande armate che si formarono nella zona di Terni furono essenzialmente costituite da esponenti dell’antifascismo operaio comunista. Inoltre quando, alla fine del 1943, la considerevole crescita numerica del movimento – la cui base sociale però rimase 3
Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa cit. (a nota 1), p. 212.
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Cfr. la relazione, datata 1 febbraio 1944, sulla situazione politica e militare in provincia di Terni, in P. Secchia, Il Partito Comunista Italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Feltrinelli, Milano 1973, p. 285. R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana (8 settembre 1943-25 aprile 1945), Einaudi, Torino 1953, p. 238.
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prevalentemente operaia – permise la costituzione della brigata garibaldina “Antonio Gramsci”, larga parte del suo apparato direttivo venne formato dagli esponenti di maggior prestigio dell’originario gruppo di partigiani comunisti. Ciò rappresentò la definitiva sanzione dell’egemonia del PCI sul movimento di opposizione e resistenza al fascismo. Del resto non poteva essere altrimenti visto che nel corso della lotta armata si registrò la quasi totale assenza delle altre formazioni politiche. In realtà a Terni, all’indomani dell’8 settembre, da parte dei rappresentanti dei partiti più strettamente legati alla classe operaia (PCI, PSIUP e PRI) si diede vita ad un incompleto Comitato di Liberazione Nazionale, che solo in un secondo tempo poté integrarsi con la presenza di un esponente democristiano. Tra le principali funzioni assunte dal Comitato ternano ci furono quelle di guidare il nascente movimento armato e di provvedere alle sue necessità logistiche. Ma, a causa della aumentata pericolosità della situazione cittadina, in cui si intensificavano i bombardamenti e i rastrellamenti delle SS, gli esponenti non comunisti del CLN provinciale “credettero bene appartarsi da un’attività concreta”, limitando anche in seguito il loro contributo ad un “aiuto finanziario e non altro”4. Permanendo questo stato di cose sino alla liberazione della città, la formale sopravvivenza del CLN ternano venne assicurata – e fu questa, di certo, una maniera singolare – dai soli rappresentanti comunisti. Tale situazione consentì però al PCI di condurre la lotta armata senza intralci moderati e, probabilmente, non fu estranea al fatto che la brigata “Gramsci” risultò essere – secondo la nota definizione di Roberto Battaglia – “la formazione più attiva e persistente nella lotta forse di tutta l’Italia centrale”5. In ogni caso è indubbio che l’alto grado di sviluppo raggiunto dalla formazione partigiana umbra, l’ampiezza e l’intensità delle operazioni militari da essa attuate, la forte presenza operaia alla sua base, resero la “Gramsci” un’eccezione rispetto alla situazione normale, di debolezza e discontinuità, che caratterizzò il movimento di liberazione nelle regioni centrali. Nonostante ciò, essa condivise la maggior deficienza della lotta partigiana in questa zona, e cioè quella di non essere avanguardia di un movimento di massa. Per diverse ragioni – la maggiore delle quali è riconducibile al fatto che i frequenti e massicci bombardamenti su Terni avevano prodotto il crollo produttivo nelle fabbriche e la conseguente dispersione della massa operaia urbana nei centri della provincia – alla “Gramsci” non fu possibile mantenere e sviluppare uno stretto collegamento d’azione con l’intera classe operaia ternana. Ciò se anche non costi-
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tuì una remora per il futuro orientamento antifascista della massa dei lavoratori, non mancò di influenzare i comportamenti soggettivi. Nel dopoguerra soltanto la parte più avanzata e consapevole della classe operaia che aveva partecipato alla lotta di liberazione, mostrò di avere acquisito una compiuta coscienza politica. Infatti il resto della massa operaia, pur dimostrando la più larga disponibilità a dar vita a forme di lotta che assumevano una precisa valenza anticapitalistica, tese per lo più a limitare il proprio impegno ai luoghi di produzione, mostrando di non avere piena coscienza della necessità della lotta politica graduale e, soprattutto, delle mediazioni che una difficile congiuntura come quella del dopoguerra rendeva spesso inevitabili6. È comunque questo un fenomeno che si manifestò con indubbia evidenza soprattutto all’indomani della Liberazione dell’intero territorio nazionale, quando più forte si fece l’influenza del quadro politico complessivo sulle organizzazioni periferiche della classe. Al contrario, nell’immediato dopoguerra – come si dirà più ampiamente in seguito – i quadri politici formatisi nella lotta clandestina e armata al fascismo, divenuti i dirigenti politico-sindacali del movimento operaio, riuscirono, calibrando le loro rivendicazioni sullo specifico delle esigenze primarie della classe ed interpretandone correttamente la profonda ansia di rinnovamento, a legittimarsi come avanguardia naturale e, contemporaneamente, a divenire avanguardia di un movimento di massa, ruolo questo che non avevano potuto assumere nel corso della lotta di liberazione.
2. Il forte contenuto classista che aveva costantemente influenzato le scelte politico-militari della resistenza ternana risultò determinante anche nel modo in cui venne impostata la liberazione della città e negli avvenimenti successivi. Le forze partigiane, fin dal primo delinearsi della probabilità della ritirata delle truppe di occupazione tedesche, avevano cominciato ad operare predisponendo i loro piani in modo da imprimere alla liberazione della città il segno di un profondo rinnovamento e, quindi, poter trattare con gli alleati da posizioni di forza. In questo senso vanno infatti interpretate sia l’iniziativa del movimento armato ternano di insediare nei primi giorni del giugno 1944, dopo la fuga delle autorità repubblichine al nord, un organismo democratico di potere popolare con il compito di amministrare Terni nella fase di trapasso; sia la volontà di precedere ad ogni costo le truppe alleate nella liberazione della città7. Questo però si rese possibile 6
7
A tale proposito cfr. G. Canali, Il movimento operaio a Terni dalla Liberazione alla Costituente, tesi di laurea, Università di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1982-83. Cfr. la relazione, datata 25 giugno 1944, di Aladino Bibolotti, dirigente comunista inviato dal centro in Umbria, in I comunisti umbri. Scritti e documenti (1944-1970), Edizioni di “Cronache umbre”, Perugia 1977, pp. 9-12.
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Per la consegna delle armi e la smobilitazione dei partigiani, ora adibiti al servizio d’ordine, Filipponi ha fatto presente che è troppo presto per prendere tale provvedimento. Egli ha insistito che rimangano in servizio e quando il popolo italiano si eleggerà il proprio governo allora sarà questo a decidere. A questo punto il comandante [è] scattato e si è pronunciato con queste parole: “Qui comando io e nessun’altro. Voi come capo della polizia civile dovete soltanto ubbidire”. Filipponi a questa imposizione ha risposto con forza ed ha 8
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Cfr. la relazione, datata 16 agosto 1944, sul movimento partigiano della zona di confine umbro-marchigiana di Celso Ghini, ispettore delle brigate Garibaldi nelle Marche e nella Umbria, in Secchia, Il Partito Comunista cit. (a nota 4), p. 495. Sull’intera vicenda cfr. la citata relazione di Aladino Bibolotti, in I comunisti umbri cit. (a nota 7), pp. 12-13.
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soltanto il 13 giugno 1944, allorché alcuni raggruppamenti della brigata “Gramsci”, dopo aver sostenuto aspri combattimenti con reparti delle forze tedesche in ritirata, riuscirono ad entrare a Terni “in pieno assetto di guerra”, precedendo di qualche ora l’arrivo degli alleati8. Pertanto, quando le avanguardie dell’8a Armata inglese giunsero a Terni trovarono insediati ed operanti sia il CLN – ancora largamente incompleto nella sua rappresentanza – sia la Giunta Municipale provvisoria. Ma il fatto che entrambi gli organismi mostrassero apertamente di derivare la loro autorità dal movimento di liberazione suscitò l’immediata reazione delle autorità alleate. Fin dall’inizio l’atteggiamento del governo militare alleato nei confronti delle istanze “autonomiste” del movimento di liberazione non diede luogo ad equivoci. Venne rifiutata l’offerta dei partigiani di continuare l’opera di tutela dell’ordine pubblico, da essi intrapresa all’atto della liberazione della città; al contrario, si ordinò l’immediato scioglimento della brigata e la consegna delle armi. Le disposizioni alleate – in assenza di accordi che regolamentassero i rapporti tra le due parti – vennero però ignorate dalle forze della resistenza. In seguito a ciò si crearono acuti momenti di tensione sempre sull’orlo di degenerare9. Attraverso complesse trattative e mediazioni, cui dovettero accondiscendere anche gli alleati, fu comunque possibile evitare il deteriorarsi della situazione. Pertanto, vista la totale assenza a Terni delle forze di polizia, le autorità alleate consentirono che 40 partigiani con alla testa il comandante della brigata, Alfredo Filipponi, assumessero il servizio di tutela dell’ordine pubblico. Di converso, la “Gramsci” accettò di deporre le armi a patto che la loro custodia fosse affidata agli stessi partigiani. Tuttavia lo stato di cose che aveva permesso al movimento partigiano di far recedere il governo militare alleato dai suoi propositi era destinato a finire con il ripristino a Terni del corpo dei carabinieri. Infatti, dopo che in città si verificò il ritorno di un contingente di circa 100 carabinieri, da parte delle autorità alleate venne immediatamente richiesto lo scioglimento della brigata e la definitiva consegna delle armi. Ma anche in questa occasione il diniego partigiano non si fece attendere. Alfredo Filipponi nelle sue memorie, scritte in terza persona, ci da una lucida descrizione – precisa anche nel suo senso politico – della propria reazione di fronte a questa intimazione da parte del comandante militare alleato:
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domandato al comandante se loro sono in Italia, e quindi anche a Terni, come alleati o come occupanti. A questa domanda il comandante non ha risposto10.
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La situazione, come risulta evidente da questo sintetico ricordo di Filipponi, non poteva essere forzata ulteriormente. Pertanto un funzionario del PCI ed un ufficiale che aveva l’incarico di tenere il collegamento tra il ricostituito esercito italiano e le autorità alleate vennero precipitosamente inviati a Terni. Le loro argomentazioni tese ad evidenziare i rischi della posizione assunta dai partigiani – e, probabilmente, larghe di assicurazioni per il futuro – ebbero l’effetto voluto. Il 28 giugno 1944, a 15 giorni dalla liberazione della città, la brigata venne sciolta e le armi furono consegnate11. Normalizzata la situazione dal punto di vista militare, da parte alleata si puntò a fare altrettanto sul piano politico. Pertanto l’azione del governo militare alleato, mosso dalla preoccupazione di salvaguardare l’autorità e la continuità del vecchio apparato statale, si indirizzò a limitare pesantemente il potere acquisito dai comitati di liberazione nazionale ed a bloccarne la rapida proliferazione. L’intervento repressivo degli alleati era sollecitato oltre che dalla loro diffidenza nei confronti degli organismi nati nel corso della lotta armata, anche dal fatto che nella provincia ternana molto spesso i comitati di liberazione nazionale denunciavano al loro interno una situazione di netta supremazia dei partiti operai – in particolare del PCI. Largamente indicativa a tale riguardo appariva la situazione interna allo stesso CLN provinciale12. Il Comitato ternano si ricostituì all’indomani della Liberazione con l’effettiva partecipazione degli esponenti di tutti i raggruppamenti politici presenti in città: PCI, PSIUP, DC, PRI e DDL. Al suo interno tutti i partiti ebbero una duplice rappresentanza, tranne quello demolaburista che, meno consistente numericamente, dovette accontentarsi di un solo rappresentante. La presidenza venne poi riservata ad Alfredo Filipponi che, dopo lo scioglimento della brigata “Gramsci”, aveva assunto la carica di segretario provinciale del partito comunista. Questo fatto – unito alla diseguale ripartizione delle rappresentanze politiche – dava l’esatta misura della supremazia delle forze di sinistra all’interno del comitato ed, inoltre, rifletteva – come si è detto – la situazione interna di molti degli organismi periferici presenti nella provincia. Di fronte a questo stato di cose gli alleati tennero un atteggiamento molto accorto dal punto di vista politico. Dapprima, per non creare ulteriori tensioni non conoscendo le diverse situazioni locali, tesero a ratificare tutte le designazioni effettuate dai comitati di liberazione nazionale per le diverse cariche pubbliche. In 10 11
12
A. Filipponi, Diario, dattiloscritto, s.d., p. 376. Cfr. l’intervista ad Alfredo Filipponi, in “La Turbina”, settimanale delle federazioni provinciali comunista e socialista, numero unico, 13 giugno 1945. Sulla complessiva vicenda del CLN provinciale cfr. la ricca documentazione contenuta in ACS, CCLN, b. 10, fasc. 145.
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La lettera del commissario provinciale alleato è conservata presso l’Archivio Storico della Sezione Provinciale Ternana dell’ANPI. ACS, CCLN, n. 10, fasc. 145, verbale della riunione del CLN provinciale temano, 7 luglio 1944. Ivi, verbale delle attività svolte dal CLN provinciale ternano, 7 luglio 1944. Per un’ampia ricostruzione – effettuata anche attraverso l’uso di testimonianze orali – della vicenda dell’arresto di Filipponi si veda Canali, Terni 1944 cit. (a nota 1), pp. 100 sgg.
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seguito però, posti di fronte ad una rapida crescita del peso politico dei comitati e ad un incontrollato allargamento del loro ambito di intervento, che rischiava di mettere apertamente in discussione i tradizionali istituti dello stato, gli alleati si videro costretti ad intervenire bruscamente. Con una lettera del 5 luglio 1944 il commissario provinciale alleato, tenente colonnello Cooper, informava il presidente del CLN provinciale, Filipponi, che “le autorità alleate [avevano] stimato ed apprezzato il buon lavoro fatto in passato [dai] comitati, cionostante ora però si rendeva necessario comprendere “che la loro attività esecutiva e direttiva [era] finita”. Pertanto l’ufficiale alleato, dopo aver sottolineato che soltanto “prefetto”, “sindaci”, “CCRR” e “GGFU’ erano autorizzati a “dare istruzioni ed impartire ordini”, intimava a Filipponi di informare gli esponenti del CLN che d’ora in avanti sarebbero stati considerati dal Comando Alleato “cittadini qualsiasi e come tali [avrebbero dovuto] agire”, perché “lo sforzo degli alleati non [poteva] essere diminuito o arrestato in nessun modo né da false idee, né per qualsiasi altro motivo”13. Comunque il tono esplicito e perentorio usato dal commissario non impressionò affatto i membri del CLN provinciale. Anzi, essi nella riunione del 7 luglio, preso atto del contenuto della lettera, decidevano, seduta stante,“di andare dal colonnello per chiedere maggiori chiarimenti”14. E, verosimilmente, anche in questa occasione il tono della discussione tra l’ufficiale alleato e i rappresentanti dei partiti democratici ternani non dovette essere dei più pacati. È certo comunque che il resoconto di questo incontro venne verbalizzato dal segretario del CLN nella seguente – laconica, ma significativa – maniera: “dopo aver interpellato il colonnello militare alleato, il comitato non [ri]tiene sufficienti le spiegazioni da lui date nel non riconoscere i comitati comunali”15. Ma queste continue prove di forza tra le due parti erano destinate a concludersi con una pesante provocazione portata avanti dagli alleati nei confronti delle più conseguenti forze democratiche ternane. Subito dopo l’incontro del 7 luglio, il presidente del CLN, Filipponi, accusato di maltrattamenti nei confronti di soldati inglesi per un episodio irrilevante avvenuto nel corso della lotta di liberazione, venne arrestato dalle forze di sicurezza alleate e internato, nonostante il rischio non peregrino di un linciaggio, in un campo di concentramento alla periferia di Terni dove erano reclusi fascisti e collaborazionisti16. Appena in città si sparse la notizia dell’arresto, i dirigenti politici del movimento operaio dovettero esercitare tutta la loro influenza per frenare i partigiani che, esasperati per l’oltraggio politico cui il loro comandante era stato
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sottoposto, volevano passare all’azione. Del resto l’accusa che aveva motivato l’arresto di Filipponi fu senza dubbio considerata pretestuosa dall’insieme dello schieramento antifascista ternano. Il vero scopo dell’azione repressiva venne piuttosto inteso come un avvertimento con cui da parte alleata si intendevano far pesare i reali rapporti di forza. E a tale proposito bisogna riconoscere che la consequenzialità degli avvenimenti che si conclusero con l’arresto di Filipponi – il fatto cioè che tale arresto avvenne a notevole distanza dal giorno dell’arrivo degli alleati a Terni, dopo la consegna delle armi e, soprattutto, dopo che le forze di liberazione con il proprio atteggiamento avevano probabilmente convinto le autorità alleate della necessità di attuare un intervento normalizzatore – rende tutt’altro che improbabile questa interpretazione. In ogni caso l’ammonimento dato con l’arresto e la detenzione – durata circa due mesi – del presidente del CLN non mancò di produrre sensibili effetti. Caduta l’illusione di poter dar vita ad una ripresa svincolata da ogni controllo della vita politica cittadina, anche da parte dei settori più radicali del movimento di classe si cercò in seguito di evitare ogni intemperanza, almeno nei confronti degli alleati. Pertanto, sino al 10 maggio 1945, data in cui Terni venne restituita all’amministrazione italiana, in città non si registrarono più incidenti di rilievo con le forze d’occupazione. Dal canto loro i comitati di liberazione nazionale, pressati dalla mole delle cose da fare, nei restanti mesi del 1944 continuarono – se pure con forti limitazioni – a svolgere un ruolo importante. Ma già alla fine dell’anno la crescente tensione politica prodottasi tra i partiti della coalizione antifascista in seguito ai riflessi della crisi del primo governo Bonomi produsse un sensibile rallentamento della loro attività, che si avviò pertanto verso una fase di progressivo esaurimento. D’altra parte agli stessi gruppi di dirigenti dei partiti di sinistra era apparso chiaro fin da luglio che, in assenza di una strategia che presentasse apertamente ed esplicitamente i comitati di liberazione nazionale come organi di governo locale su cui basare la rifondazione dello stato, la mobilitazione delle masse operaie in loro difesa avrebbe richiesto dei livelli politico-organizzativi ancora non raggiunti dall’insieme della classe operaia. Diversa fu invece – come si dirà – la risposta alla disponibilità alla lotta di massa che i lavoratori diedero quando si trattò di difendere le proprie condizioni materiali di vita e, soprattutto, di vedere concretizzare alcune delle aspettative di lavoro e di giustizia sociale generatesi nel corso della lotta di liberazione17.
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Cfr. L. Rossi, L’UDI a Terni, in Appunti per una storia delle donne democratiche in Umbria, Quaderni Regione dell’Umbria, Serie Consulta della Donna, Perugia s.d., pp. 65 sgg.
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Il quadro da cui partire per avviare la ricostruzione e ristabilire condizioni normali di vita per le masse popolari apparve subito particolarmente drammatico a Terni. La città usciva dalla guerra con un tessuto economico-sociale violentemente sconvolto dalle vicende belliche. Larga parte del patrimonio edilizio cittadino era stato distrutto o gravemente lesionato dai bombardamenti, i più essenziali servizi pubblici erano fuori uso, difficoltoso appariva assicurare un approvvigionamento alimentare, sufficiente almeno per la sopravvivenza, ad una popolazione prostrata dai sacrifici e dalle restrizioni degli anni di guerra. Per di più al panorama di distruzioni che la città evidenziava si sovrapponeva l’analoga situazione delle strutture produttive della Società Terni. Infatti furono ingenti anche i danni che il complesso industriale ternano dovette subire nel periodo bellico a causa dei bombardamenti, delle spoliazioni dei tedeschi e, soprattutto, delle distruzioni da essi effettuate al momento della ritirata18. Nella generale opera ricostruttiva che, vista la drammatica situazione, sollecitò l’intenso impegno di tutte le organizzazioni di massa cittadine, un ruolo di indubbio rilievo venne svolto dalla Camera del Lavoro, prontamente ricostituita all’indomani della Liberazione – in maniera unitaria – dalle forze politiche dello schieramento antifascista19, nonostante che anche la sua attività fosse strettamente sottoposta al controllo del governo militare alleato. Al riguardo appare indicativo ricordare che tra le prime iniziative prese dalla organizzazione vi fu un tentativo, stroncato sul nascere dalle autorità alleate, di attivare un proprio ufficio del lavoro. In questa occasione “il Comando Militare Inglese [avocò] a sé questo servizio, pur comunicando che fra il loro ufficio e la Camera del Lavoro ci sarebbe stata collaborazione e che poi tutta la loro attrezzatura sarebbe passata alla Camera del Lavoro stessa”20. Comunque, malgrado le frequenti interferenze degli alleati, l’organizzazione sindacale territoriale riprese la sua attività con una larghezza di attribuzioni e di compiti che miravano a dare una complessiva risposta ai problemi delle masse lavoratrici e popolari. Nei mesi che seguirono la Liberazione la Camera del Lavoro, in ordine alle prioritarie necessità del momento, concentrò soprattutto su due obiettivi la propria iniziativa: assicurare un sufficiente approvvigionamento alimentare alla popolazione e salvaguardare, ai più alti livelli, l’occupazione. 18
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ACS, PCM 1944-47, b. 3.1.10, fasc. 11379, relazione del consiglio di amministrazione della Società Terni all’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945. Sulla ricostituzione della Camera del Lavoro e sulla sua attività nei primi mesi dopo la Liberazione cfr. la relazione introduttiva della Segreteria Camerale al I congresso della Camera Confederale del Lavoro di Terni, in Archivio della Camera del Lavoro di Terni, Materiale diverso 1946, fasc. “Congresso camerale 4-5 maggio 1946”. È opportuno precisare che, essendo l’Archivio della Camera del Lavoro in via di riordino l’indicazione relativa alla collocazione del documento risulta parziale e provvisoria. Cfr. la citata relazione di Aladino Bibolotti, in I comunisti umbri, cit. (a nota 7), p. 13.
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Per quanto riguarda il perseguimento del primo obiettivo è importante ricordare, tra le altre, l’iniziativa presa nell’ottobre 1944, in corrispondenza di un aggravamento della situazione annonaria della città, dalla Camera del Lavoro, congiuntamente con il CLN, per organizzare una cooperativa operaia di consumo. Nel giro di qualche settimana venne perciò costituita la cooperativa “Unione Lavoratori” che, oltre ad assicurare una presenza sul mercato cittadino di generi di prima necessità, rappresentò, grazie al considerevole incremento della sua attività commerciale, un’importante salvaguardia dei consumi popolari dal continuo rincaro dei prezzi. Comunque fu in particolare per il conseguimento del secondo obiettivo che la Camera del Lavoro incontrò serie resistenze da parte della Società Terni, con cui fu perciò costretta ad aprire una serrata vertenza. Vale pertanto la pena di seguire lo svolgimento di tale scontro perché fu in questa occasione che il movimento operaio ternano poté esprimere completamente la riacquisita capacità di dar vita a momenti di intensa mobilitazione, e soprattutto, dimostrare i livelli di autonomia e la carica antagonista con cui intendeva muoversi nell’immediato e in futuro. All’indomani della Liberazione i rappresentanti sindacali dei lavoratori, animati dalla volontà di procedere ad un profondo rinnovamento in senso democratico delle strutture economiche cittadine, avevano subito posto due esplicite richieste alla Società Terni: il rapido ripristino dell’attività produttiva nei suoi diversi settori – in particolare in quello siderurgico, il più consistente dal punto di vista occupazionale – e l’avvio di un vasto processo di epurazione. Le richieste operaie si trovarono però di fronte ad un netto rifiuto della direzione aziendale che, postasi al riparo dell’autorità degli alleati, tentava di conservare e legittimare la propria posizione all’interno della società. Nel corso di una riunione tenuta intorno alla metà di luglio del 1944 per discutere della riorganizzazione produttiva della Società Terni, i dirigenti aziendali, consapevoli delle incerte prospettive del settore siderurgico del complesso industriale ternano – da sempre adibito a produzioni belliche – prospettarono ai rappresentanti sindacali e di fabbrica dei lavoratori, come inevitabile, un programma industriale che prevedeva, per il futuro, una parziale smobilitazione degli impianti siderurgici e, per l’immediato, la stasi produttiva. Comprensibilmente, la gravità della presa di posizione aziendale che avrebbe significato, in un momento difficile come quello del dopoguerra, disoccupazione di massa e miseria, provocò una ferma reazione da parte degli esponenti sindacali. Chiusa la riunione su posizioni di rottura, i rappresentanti dei lavoratori proclamarono l’immediato stato di agitazione in tutto il complesso industriale, arrivando successivamente a chiedere che venisse “ad essi affidata la direzione amministrativa degli stabilimenti”21. Infatti la vertenza che l’organizzazione sindacale aveva intavolato con la Società Terni procedeva ormai su due 21
ACS, MI, Gabinetto, 1944-46, b. 18, fasc. 1359, relazione del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, gen. Taddeo Orlando, 22 luglio 1944.
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Ibidem. Ivi, lettera del capo di gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 3 ottobre 1944. Ivi, lettera del capo dell’ACC, Stone, al presidente del Consiglio, Bonomi, 12 settembre 1944. Ibidem; cfr. inoltre la relazione del consiglio di amministrazione della Società Terni all’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945, in ACS, PCM 1944-47, loc. cit.
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piani paralleli. Essa mirava ad imporre con la ripresa produttiva, anche l’epurazione del quadro direttivo aziendale ora accusato non solo di essere largamente compromesso con il fascismo, ma anche di voler procedere alla liquidazione del comparto siderurgico del gruppo ternano. Peraltro in questa vertenza apparve subito chiaro come il momento rivendicativo si saldasse al momento politico: l’obiettivo era il rifiuto del rapporto salario-produttività. Infatti, nel corso delle trattative, l’unica forma di transazione a cui le rappresentanze operaie si dimostrarono disponibili prevedeva il temporaneo allontanamento di una parte delle maestranze, a patto che venisse loro corrisposta la paga a tempo indeterminato22. La forte pressione con cui la classe operaia appoggiò le diverse fasi dello scontro, unita alla larga mobilitazione e solidarietà dei diversi strati sociali cittadini, fece giungere in più occasioni gli echi della vertenza negli ambienti governativi. Ciò costrinse ad intervenire lo stesso presidente del Consiglio. Infatti il 14 agosto 1944 Bonomi, preoccupato per gli sbocchi che poteva avere l’agitazione negli stabilimenti ternani, inviava all’ammiraglio Stone, capo esecutivo dell’ACC, una lettera “con la quale, nel trasmettere una relazione di s.e. il sottosegretario [agli interni] sulla situazione della Società ‘Terni’, richiamava l’attenzione dell’AC [Allied Commission] sulla rilevante importanza del caso, invitandola a dare tutto l’appoggio al Ministero dell’Industria, Commercio e Lavoro per la sollecita soluzione dei problemi connessi con la ripresa della società medesima”23. Il tono preoccupato della comunicazione governativa non fu privo di effetti. La Sottocommissione Alleata per l’Industria, partendo dalla constatazione che un notevole contributo poteva venir dato “dalle Acciaierie di Terni [... ] nella fabbricazione di acciaio per la ricostruzione di un paese danneggiato”, si affrettò ad avviare nello stabilimento siderurgico ternano, in collaborazione con i tecnici aziendali, un programma di riconversione produttiva che, se pure di breve respiro, permise larghezza di occupazione24. A settembre del 1944 gli impianti siderurgici ternani, che erano usciti dalla guerra con una capacità produttiva ridotta al 18%, potevano già produrre 2.000 tonnellate mensili di acciaio. Ciò consentì il ritorno al lavoro di circa 1.600 operai. Alla fine dell’anno, un ulteriore incremento produttivo portò poi alla riassunzione, nel solo settore siderurgico di oltre 4.000 lavoratori. Inoltre la riattivazione degli impianti siderurgici e meccanici delle acciaierie permise la riparazione, e spesso la completa ricostruzione, di macchinari ed attrezzature meccaniche essenziali alla ripresa della produzione nelle centrali elettriche e negli altri stabilimenti del gruppo “Terni”. Pertanto, alla fine del 1944, in ogni settore del complesso industriale si poteva registrare un’intensa attività ricostruttiva e produttiva25.
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In tutto questo appare però opportuno sottolineare che l’intervento dell’organo di controllo alleato fu sicuramente sollecitato almeno da due motivi: la necessità di poter utilizzare per i propri bisogni le possibilità produttive del complesso ternano e quella di avere una situazione sociale tranquilla nelle retrovie. Tuttavia, anche se la ripresa produttiva aveva vanificato la richiesta aziendale di licenziare la manodopera sovrabbondante, negli stabilimenti ternani non si ebbe un ritorno alla normalità. Il mancato avvio di un serio processo di epurazione continuò a mantenere vivo il fermento tra le masse operaie. Il 10 ottobre 1944, nel corso di un’assemblea, circa 5.000 lavoratori votarono un ordine del giorno in cui si richiedeva in maniera esplicita alle responsabili sfere governative la gestione commissariale per la Società Terni. Tale richiesta ebbe poi anche “l’approvazione di tutta la cittadinanza ternana”26. Pertanto, visti i falliti tentativi dell’IRI e della Società Terni di prendere “provvedimenti adatti ad una normalizzazione dell’ambiente”27, i competenti organi governativi furono costretti ad intervenire di nuovo in prima persona per trovare una soluzione che riuscisse a far cessare lo stato di agitazione negli stabilimenti ternani. Il difficile compito di comporre la vertenza venne affidato al sottosegretario all’industria, Molinelli, che per raggiungere il suo scopo promosse una riunione a Terni con le maestranze dell’azienda. E in effetti nel corso dell’assemblea operaia, tenutasi il 3 novembre 1944 in un teatro cittadino, il rappresentante governativo, attraverso larghe concessioni alle rivendicazioni dei lavoratori, riuscì a chiudere la spinosa controversia. Dopo aver dato le più ampie garanzie sull’appoggio governativo “a che l’industria della ‘Terni’ [avesse progredito] sempre più e meglio”, Molinelli assicurò, tra l’altro, che “il governo democratico italiano, in considerazione del capitale finanziario che lo Stato [teneva] impegnato nel grande complesso della ‘Terni’”, avrebbe in seguito permesso l’immissione di una rappresentanza di operai ed impiegati all’interno del consiglio di amministrazione della società. Inoltre il sottosegretario autorizzò anche la “creazione di una Commissione di Epurazione e Selezione tendente ad eliminare dalla ‘Terni’ tutti quegli elementi che per varie ragioni non [godevano] più alcuna fiducia e stima fra le maestranze”28. Ciò che invece venne escluso a priori dall’incaricato governativo fu la gestione commissariale dell’azienda, che pertanto doveva continuare ad essere guidata dal comitato direttivo in carica. E, di certo, la fermezza dimostrata su questo punto fu una diretta conseguenza del fatto che “l’ammiraglio Stone in una lettera
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Relazione del Comandante generale dell’Arma dei carabinieri, gen. Taddeo Orlando, 23 ottobre 1944, in ACS, MI, Gabinetto, 1944-46, loc. cit. Nota informativa del commissario straordinario dell’IRI, Leopoldo Piccardi, 20 ottobre 1944, in ACS, PCM 1944-47, loc. cit. Cfr. “La Terni”, in “La Turbina”, organo settimanale dei tre partiti di massa di Terni, a. I, n. 2, 12 novembre 1944.
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Promemoria per il sottosegretario di stato, 31 ottobre 1944, in ACS, MI, Gabinetto, 1944-46, loc. cit. Cfr. Canali, Il movimento operaio cit. (a nota 6), pp. 264 sgg. Relazione del consiglio di amministrazione della Società Terni all’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945, in ACS, PCM 1944-47, loc. cit. Il testo dell’accordo non è, a tutt’oggi, reperibile né presso l’Archivio Aziendale della Società Terni, né presso l’Archivio della Camera del Lavoro. A tale proposito cfr. quanto affermato da Giuseppe Di Vittorio in merito l’accordo raggiunto alla Società Terni nel rapporto introduttivo al I congresso delle organizzazioni sindacali della CGIL dell’Italia liberata (Napoli, 28 gennaio - 1 febbraio 1945), in I congressi della CGIL, vol. I, Editrice sindacale italiana, Roma 1949, p. 111.
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indirizzata a S.E. il presidente del Consiglio [aveva] lodato la opera della direzione della società, [definendola] leale, efficiente, ed energica”29. Comunque, in seguito, la commissione epurativa aziendale, sollecitata da una forte pressione operaia, indirizzò con particolare efficacia la sua azione verso l’intero apparato direttivo del gruppo Terni. Al riguardo è sufficiente ricordare che, in conseguenza delle sue denuncie, vennero estromessi dai loro incarichi il presidente e amministratore delegato della società, Arturo Bocciardo, i due direttori generali, Giorgio Avallone e Canio Bochicchio, due direttori centrali e diversi direttori di reparto30. Successivamente, anche quanto abbozzato nell’assemblea operaia di novembre in merito alla democratizzazione del consiglio di amministrazione venne ratificato il 13 gennaio 1945 in un accordo tra la Società Terni, l’IRI e la CGIL. Tale accordo, che nelle intenzioni dei contraenti doveva rappresentare “un primo ma decisivo passo verso una fattiva collaborazione, anche nel campo amministrativo, tra la società e i dipendenti”, prevedeva “che l’azionista di maggioranza avrebbe a suo tempo proposto all’assemblea [dei soci] di inserire nel consiglio di amministrazione [con voto deliberativo] una rappresentanza dei dirigenti, degli impiegati e degli operai, e che intanto tale rappresentanza avrebbe costituito una commissione di azienda che avrebbe assistito il comitato [direttivo] in tutte le sue deliberazioni con voto consultivo31. L’importanza di un simile accordo fu in seguito evidenziata dal fatto che, per quanto riguarda la ricerca di una nuova e più democratica impostazione dei rapporti di produzione, esso divenne un punto di riferimento in campo nazionale. Del resto l’ingresso di una rappresentanza dei dipendenti dell’azienda nell’organo amministrativo societario doveva costituire nelle intenzioni di chi a sinistra per questo obiettivo si era battuto la premessa di un più vasto processo di democratizzazione della vita economica da realizzarsi non soltanto nell’azienda ternana ma in tutto il paese32. E a tale proposito va riconosciuto che un diverso regime di fabbrica, controllo e partecipazione degli operai alle scelte economiche e produttive dell’azienda, una maggiore attenzione alle loro richieste e necessità, furono obiettivi che in questa fase apparvero raggiunti alla Società Terni. La firma dell’accordo del 13 gennaio 1945 chiuse dunque nell’azienda ternana un periodo favorevole in cui il movimento operaio, consapevole della sua rinnovata forza contrattuale e politica, era riuscito ad ottenere una serie di importanti conquiste e posizioni di potere. Tra l’altro, ciò aveva ad esso consentito di ribalta-
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re quel rapporto totalizzante che la Società Terni aveva instaurato durante il ventennio fascista nei confronti dell’intera comunità cittadina. Le concessioni e gli interventi prodotti in campo sociale dalla “Terni” negli anni della dittatura, in ordine ad una politica aziendale mirante ad organizzare e controllare l’intero ciclo di vita dei lavoratori, divennero nel mutato clima politico del dopoguerra precise richieste della classe operaia, che non potevano essere facilmente eluse da parte aziendale. In altri termini, se sul piano dei rapporti politici generali il peso delle autorità alleate fu tale da bloccare processi di rinnovamento profondo, su quello dei rapporti interni alla fabbrica la capacità di mobilitazione della classe operaia – di cui dovettero tenere conto gli stessi alleati – riuscì a porre sensibili limitazioni al potere aziendale. Ciò si rese possibile anche perché su questo terreno specifico il livello di sintonia tra gruppi dirigenti dei partiti di sinistra e l’insieme dei lavoratori risultò più forte che sul piano della proposta politica complessiva. Tuttavia già nel 1945 la particolare congiuntura politica che aveva permesso l’instaurarsi di questo stato di cose mostrava di essere destinata ad un progressivo quanto rapido logoramento. Del resto con la liberazione del nord per il movimento operaio ternano e per la sua industria si era aperto un capitolo nuovo in cui le loro sorti apparivano sempre più legate alle vicende, ed alle scadenze, del più generale cielo politico ed economico del paese. Cionondimeno, per le rilevanti conquiste ottenute dai lavoratori sul piano politico e sindacale, il breve periodo dell’immediato dopoguerra assunse, all’interno della complessiva storia del movimento operaio ternano del secondo dopoguerra, un’importanza cruciale. Infatti, quando in tutto il paese – conclusasi la fase politica della collaborazione governativa tra i partiti antifascisti – si sviluppò apertamente una controffensiva padronale mirante a ristabilire a tutti i livelli i tradizionali rapporti di forza tra le classi, a Terni l’attacco delle forze del padronato trovò una forte resistenza nella combattività, nella coscienza delle possibilità offerte dalla propria lotta, nelle posizioni di forza che la classe operaia aveva acquistato nel periodo di intensa mobilitazione dell’immediato dopoguerra. Ciò rese il processo di restaurazione capitalistica a Terni non breve e tutt’altro che facile.
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L’articolo che segue costituisce una prima sintesi di una ricerca (attualmente in fase di avanzata elaborazione) sulla ricostruzione sindacale a Terni nel secondo dopoguerra. Questo lavoro è stato condotto in gran parte sulla base di una documentazione originale (quotidiani, materiali d’archivio, fonti orali) sinora in larga parte inutilizzata. Tra l’altro è stato utilizzato, anche se non in maniera larga e sistematica, il materiale documentario – riordinato di recente – dell’archivio della Camera del Lavoro di Terni1. Il periodo preso in esame è quello che va dalla Liberazione della città (13 giugno 1944) alla prima metà del 1946. All’interno di questo difficile biennio – ed alla luce di una breve panoramica sulla vicenda nazionale – il risalto maggiore viene dato a quello che fu un fenomeno più vasto della ricostruzione sindacale nel dopoguerra, e cioè il fatto che la carica politica delle aspettative sollevate dalla Resistenza e dalla Liberazione, amplificate dalla drammatica crisi postbellica, non tagli[ò] per così dire fuori il sindacato, ma si riverber[ò] profondamente al suo interno, determinandone contraddittoriamente, in positivo e in negativo, ruolo e comportamenti2.
Infatti, all’indomani della Liberazione, l’ansia diffusa di un radicale rinnovamento nella vita politica e sociale del paese confluì e si tradusse nel rifiuto generalizzato da parte di larghe masse di pagare i costi più elevati della guerra e della ricostruzione, e, di conseguenza, nella richiesta immediata di veder soddisfatte le primarie necessità di vita (occupazione, salario, generi alimentari). Evidentemente le forze politiche e sindacali furono chiamate in prima persona a dare risposte positive a queste rivendicazioni di massa e ciò produsse una situazione in cui le divaricazioni tra aspettative e realizzazioni concrete, tra attese ed esiti della ricostruzione,
Il saggio in questione è stato pubblicato su “Sindacato e Società”, a. V, n. 2, marzo-aprile 1986, pp. 167-182 e n. 3-4, maggio-agosto 1986, pp. 189-208. 1
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A proposito di questo fondo archivistico cfr. Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea, CGIL Terni, FIOM Terni, Per la storia del movimento sindacale ternano. L’archivio della Camera del Lavoro di Terni, a cura di G. Bovini e G. Canali, Terni 1985. Cfr. A. Gibelli, La ricostruzione organizzativa della CGIL 1945-1947, in AA.VV., Gli anni della Costituente. Strategie dei governi e delle classi sociali, Milano, Feltrinelli 1983, p. 228.
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Premessa
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che investirono il sistema politico e i partiti, investirono in misura forse anche maggiore il sindacato, identificato come strumento primario di espressione e di difesa immediata dei bisogni. Perché appunto se ai primi si delegava un compito di trasformazione generale, in certo senso dilazionabile nel tempo, al secondo si chiedeva invece la difesa e la soddisfazione immediata di quei bisogni, tutt’altro che rinviabile. Il che finì [...] per amplificare, almeno agli occhi delle masse, il ruolo del sindacato e quindi per radicalizzare le contraddizioni, rendendole più ravvicinate e soggette a verifiche meno facilmente eludibili3.
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1. La prima vertenza
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Il quadro che Terni presentava all’uscita della guerra era particolarmente drammatico4. Il tessuto economico e sociale cittadino era stato violentemente sconvolto dalle vicende belliche. Larga parte del patrimonio edilizio risultava distrutto o gravemente danneggiato dai bombardamenti, i più essenziali servizi pubblici erano fuori uso, difficoltoso appariva assicurare un approvvigionamento alimentare, sufficiente almeno per la sopravvivenza, ad una popolazione prostrata dai sacrifici e dalle restrizioni degli anni di guerra5. Al panorama di distruzioni che la città evidenziava si sovrapponeva poi l’analoga situazione delle strutture produttive della Società Terni. Il complesso industriale ternano aveva infatti subito ingenti danni nel periodo bellico a causa dei bombardamenti, delle spoliazioni dei tedeschi e, soprattutto, delle distruzioni da essi effettuate al momento della ritirata6. Nella generale opera ricostruttiva che, vista la drammatica situazione, sollecitò l’intenso impegno di tutte le organizzazioni di massa cittadine, un ruolo di indubbio rilievo venne svolto dalla Camera del Lavoro prontamente ricostituita – in maniera unitaria – dalle maggiori forze politiche dello schieramento antifascista. Nello stesso giorno della liberazione della città venne affisso sui muri cittadini – a firma del PCI, PSIUP, PRI e DC – un manifesto in cui si invitavano i lavoratori a dar vita, con la loro adesione, alla struttura sindacale. Contemporaneamente da parte delle forze politiche veniva nominato un organismo direttivo, avente il compito di guidare la CDL in questa prima fase della sua ricostituzione. La prassi seguita in questa operazione dai partiti antifascisti ternani è descritta in una relazione inviata il 25 giugno 1944 da Aladino Bibolotti7, dirigente del PCI in Umbria, al 3 4
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Ivi, pp. 228-229. Per una più ampia trattazione delle vicende esaminate in questo paragrafo rimando al mio Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione, Terni, Amministrazione Comunale Terni, ANPI Terni, Terni 1984, pp. 107-128. Cfr. L. Rossi, L’UDI a Terni, in Appunti per una storia delle donne democratiche in Umbria, Perugia, Quaderni Regione dell’Umbria, Serie Consulta della Donna, s.d., pp. 65 sgg. Cfr. la relazione del consiglio di amministrazione della Società Terni all’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945, in Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gabinetto, 1944-1947 (d’ora innanzi ACS, PCM 1944-47), b. 3.1.10, fasc. 11379. Su Aladino Bibolotti si veda la voce curata da Tommaso Detti in F. Andreucci e T. Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico (1853-1943), vol. 1, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 296-298, e la biografia in essa contenuta.
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centro. In essa, tra l’altro, si legge:
Segretario generale della CDL – o presidente della Commissione Direttiva Provvisoria, per usare la definizione di Bibolotti – fu nominato Vincenzo Inches, uno degli esponenti di primo piano dell’organizzazione clandestina comunista negli anni della dittatura9. Quale sede della rinnovata organizzazione sindacale furono utilizzati i locali dell’ex Unione Provinciale fascista dei sindacati dei lavoratori dell’industria, che a tale scopo erano stati prontamente requisiti dalle forze antifasciste. Con l’acquisizione della sede, i nuovi dirigenti della CDL presero l’iniziativa di attivare al suo interno un ufficio di collocamento. Ciò provocò tuttavia l’immediata reazione del Comando Militare Alleato che, negando qualsiasi permesso, avocò a se questa funzione, “pur comunicando che fra il loro ufficio e la Camera del Lavoro ci sarebbe stata collaborazione e che poi tutta la loro attrezzatura sarebbe passata alla Camera del Lavoro stessa”10. Comunque, malgrado le frequenti interferenze degli alleati, l’organizzazione sindacale territoriale riprese la sua attività con una larghezza di attribuzioni e di compiti che miravano a dare una complessiva risposta ai problemi delle masse lavoratrici e popolari. Il primo obiettivo che i dirigenti sindacali si posero fu quello di ottenere dalla Società Terni il ripristino in tempi brevi dell’attività produttiva, soprattutto nel comparto siderurgico, il più consistente dal punto di vista occupazionale. Ed infatti, all’indomani della Liberazione, i rappresentanti dei lavoratori, animati dalla volontà di procedere ad un profondo rinnovamento in senso democratico delle strutture economiche cittadine, richiesero ai dirigenti della società una rapida riorganizzazione produttiva e l’avvio di un vasto processo di epurazione. Le richieste operaie andarono incontro però al fermo rifiuto della direzione aziendale che, postasi al riparo dell’autorità degli alleati, tentava di conservare e legittimare la propria posizione all’interno della società.
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La relazione di Bibolotti è riprodotta in I comunisti umbri. Scritti e documenti (1944-1970), Perugia, Edizioni di “Cronache umbre” , 1977. La citazione è a p. 13. Su Vincenzo Inches oltre a ACS, MI, DGPS, CPC, b. 2632, si veda V. Inches, Autobiografia, dattiloscritto, Terni 1954. Il dattiloscritto è conservato presso l’archivio storico della Sezione provinciale ternana dell’ANPI. Cfr. la citata relazione di Aladino Bibolotti, in I comunisti umbri cit. (a nota 7), p. 13.
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Pure tempestivamente predisposta è stata la costituzione di una commissione provvisoria per reggere la ricostituenda Camera del Lavoro. La Commissione Provvisoria è stata creata col criterio della rappresentanza dei comunisti (presidente e vice presidente), dei socialisti (un vicepresidente), dei democratici cristiani (un vicepresidente) e anche dei repubblicani allo stesso titolo dei precedenti. Dopo la pubblicazione del manifesto anche gli anarcosindacalisti hanno reclamato una compartecipazione, sebbene non abbiano più un seguito apprezzabile nella massa operaia. Tuttavia si è stabilito di accoglier la loro adesione8.
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In particolare, i dirigenti aziendali, consapevoli delle incerte prospettive del settore siderurgico – da sempre adibito a produzioni belliche – prospettarono ai rappresentanti sindacali e di fabbrica dei lavoratori, come inevitabile, un programma industriale che prevedeva, per il futuro, una parziale smobilitazione degli impianti siderurgici e, per l’immediato, la stasi produttiva. Comprensibilmente, la gravità della presa di posizione aziendale che avrebbe significato, in un momento difficile come quello del dopoguerra, disoccupazione di massa e miseria, provocò una pronta reazione da parte degli esponenti sindacali. Essi proclamarono l’immediato stato di agitazione e, successivamente, giunsero a chiedere che venisse affidata loro la direzione amministrativa degli stabilimenti. Infatti la vertenza era ormai rigidamente condotta su due piani paralleli. Da parte sindacale si voleva imporre, con la ripresa produttiva, anche l’epurazione del quadro direttivo aziendale, ora accusato non solo di essere largamente compromesso con il fascismo, ma anche di voler procedere alla liquidazione del comparto siderurgico del gruppo ternano11. Peraltro in questa vertenza apparve subito chiaro come il momento rivendicativo si saldava al momento politico: l’obiettivo era il rifiuto del rapporto salario-produttività. Infatti, nel corso delle trattative, l’unica forma di transazione cui le rappresentanze operaie si dimostrarono disponibili prevedeva il temporaneo allontanamento di una parte delle maestranze, a patto che venisse loro corrisposta la paga a tempo indeterminato12. La pressante mobilitazione operaia, unita all’attiva solidarietà dei diversi strati sociali cittadini, fece giungere in più occasioni gli echi della vertenza negli ambienti governativi. Ciò costrinse lo stesso presidente del Consiglio ad intervenire. Infatti il 14 agosto 1944 Bonomi, preoccupato per gli sbocchi che poteva avere l’agitazione negli stabilimenti ternani, inviava all’ammiraglio Stone, capo esecutivo dall’ACC [Allied Control Commission], una lettera “con la quale, nel trasmettere una relazione di s.e. il sottosegretario [all’interno] sulla situazione della Società ‘Terni’, richiamava l’attenzione dell’ACC sulla rilevante importanza del caso, invitandola a dare tutto l’appoggio al ministero dell’Industria, Commercio e Lavoro per la sollecitata soluzione dei problemi connessi con la ripresa della società medesima”13. Il tono preoccupato della comunicazione governativa non fu privo di effetti. La Sottocommissione Alleata per l’Industria, partendo dalla constatazione che un notevole contributo poteva venir dato “dalle Acciaierie di Terni [...] nella fabbricazione di acciaio per la ricostruzione di un paese danneggiato”, si affrettò ad avviare nello stabilimento ternano, in collaborazione con i tecnici aziendali, un
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Cfr. la relazione del comandante generale dell’Arma dei carabinieri, gen. Taddeo Orlando, 22 luglio 1944, in ACS, MI Gab 1944-46, b. 18, fasc. 1359. Ibidem. Ivi, lettera del capo di gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 3 ottobre 1944.
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Ivi, lettera del capo dell’ACC, Stone, al presidente del Consiglio, Bonomi, 12 settembre 1944. Ibidem; cfr. inoltre la relazione dei consiglio di amministrazione della Società Terni dell’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945, in ACS, PCM 1944-47, loc. cit. Cfr. la relazione del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, gen. Taddeo Orlando, 23 ottobre 1944, in ACS, MI Gab 1944-46, b. 18, fasc. 1359.
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programma di riconversione produttiva che, se pure di breve respiro, permise larghezza di occupazione14. A settembre del 1944 gli impianti siderurgici ternani, che erano usciti dalla guerra con una capacità produttiva sensibilmente ridotta, potevano già produrre 2.000 tonnellate mensili di acciaio. Ciò consentì il ritorno al lavoro di circa 1.600 operai. Allo scadere dell’anno, un ulteriore incremento produttivo portò poi alla riassunzione, nel solo settore siderurgico, di oltre 4.000 lavoratori. Inoltre la riattivazione degli impianti siderurgici e meccanici delle acciaierie permise la riparazione, e spesso la completa ricostruzione, di macchinari e attrezzature meccaniche essenziali alla ripresa della produzione nelle centrali elettriche e negli altri stabilimenti del gruppo Terni. Pertanto, alla fine del 1944, in ogni settore del complesso industriale si poteva registrare un’intensa attività ricostruttiva e produttiva15. In tutto questo appare però opportuno sottolineare che l’intervento dell’organo di controllo alleato fu sicuramente sollecitato almeno da due motivi: la necessità di poter utilizzare per i propri bisogni le possibilità produttive del complesso ternano e quella di avere una situazione sociale tranquilla nelle retrovie. Tuttavia, anche se la ripresa produttiva aveva in larga parte vanificato la richiesta aziendale di licenziare la manodopera sovrabbondante, negli stabilimenti ternani non si ebbe un ritorno alla normalità. Il mancato avvio di un serio processo di epurazione continuò a mantenere vivo il fermento tra le masse operaie16. Pertanto, dopo alcuni infruttuosi tentativi esperiti dall’IRI e dalla Società Terni per normalizzare la situazione, i competenti organi governativi si videro costretti ad intervenire nuovamente in prima persona. Il difficile compito di comporre la vertenza venne affidato al sottosegretario all’industria, Molinelli, che, per raggiungere il suo scopo, promosse una riunione a Terni con le maestranze dell’azienda. E in effetti nel corso dell’assemblea operaia, tenutasi il 3 novembre 1944 in un teatro cittadino, il rappresentante governativo, attraverso larghe concessioni alle rivendicazioni dei lavoratori, riuscì a chiudere la spinosa controversia. Dopo aver dato le più ampie garanzie sull’appoggio governativo “a che l’industria della ‘Terni’ [avesse progredito] sempre più e meglio”, Molinelli assicurò, tra l’altro, che “il governo democratico italiano, in considerazione del capitale finanziario che lo Stato [teneva] impegnato nel grande complesso della ‘Terni’”, avrebbe in seguito permesso l’immissione di una rappresentanza di operai e impiegati all’interno del consiglio di amministrazione della società. Inoltre il sottosegretario autorizzò anche la “creazione di una Commissione di Epurazione e Selezione tendente ad eliminare
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dalla ‘Terni’ tutti quegli elementi che per varie ragioni non [godevano] più alcuna fiducia e stima tra le maestranze17. Ciò che invece venne escluso a priori dall’incaricato governativo fu la richiesta avanzata dai lavoratori di avere la gestione commissariale dell’azienda. Successivamente, quanto abbozzato in questa assemblea relativamente alla democratizzazione del consiglio di amministrazione, venne ratificato il 13 gennaio 1945 in un accordo tra la Società Terni, l’IRI e la CGIL. Tale accordo, che nelle intenzioni dei contraenti doveva rappresentare “un primo ma decisivo passo verso una fattiva collaborazione, anche nel campo amministrativo, tra la società e i dipendenti”, prevedeva “che l’azionista di maggioranza avrebbe a suo tempo proposto all’assemblea [dei soci] di inserire nel consiglio di amministrazione [con voto deliberativo] una rappresentanza dei dirigenti, degli impiegati e degli operai, e che intanto tale rappresentanza avrebbe costituito una commissione di azienda che avrebbe assistito il comitato [direttivo] in tutte le sue deliberazioni, con voto consultivo”18. L’importanza di un simile accordo fu in seguito evidenziata dal fatto che, per quanto riguarda la ricerca di una nuova e più democratica impostazione dei rapporti di produzione, esso divenne un punto di riferimento in campo nazionale. In ogni caso, relativamente all’ambito locale, l’aver raggiunto queste importanti conquiste e posizioni di potere fece acquisire all’organizzazione sindacale un notevole prestigio e, di conseguenza, un largo seguito tra le masse operaie urbane.
2. I problemi organizzativi La ricostituzione della Camera Confederale del Lavoro di Terni fu – come si è detto – interamente “politica”, del resto in linea con la tendenza che contraddistinse l’intero processo di ricostruzione del sindacato italiano19. A causa di questa formazione “dall’alto” una serie di conseguenze negative – e non di breve periodo – dovevano derivare all’organismo confederale ternano. Innanzitutto la CDL si ricostituì senza la necessaria larga base di sindacati di categoria, per la cui formazione si scontò, invece, un prolungato ritardo. I sindacati che si formarono immediatamente, raggiungendo in tempi brevi una partico-
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Cfr. La Terni, “La Turbina”, organo settimanale dei tre partiti di massa, a. I, n. 12, 12 novembre 1944. Cfr. la relazione del consiglio di amministrazione della Società Terni all’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945, in ACS, PCM 1944-47, loc. cit. Su questo, tra gli altri, cfr. V. Foa, Sindacato e lotte sociali, in Storia d’Italia, vol. 5, I documenti, t. 2, Torino, Einaudi, 1973; A. Pepe, La CGIL dalla ricostituzione alla scissione (1944-1948), in “Storia contemporanea”, dicembre 1974, n. 4; B. Beccalli, La ricostruzione del sindacalismo italiano 1943-1950, Italia 1943-1950. La ricostruzione, a cura di S.J. Woolf, Roma-Bari, Laterza, 1975; S. Turone, Storia del sindacato in Italia (1943-1969), Laterza, Roma-Bari 1976; Gibelli, La ricostruzione organizzativa della CGIL 19451947 cit. (a nota 2).
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Il movimento sindacale presenta ancora delle lacune, pochi sono gli organizzati in special 20
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Cfr. la relazione introduttiva della Segreteria Camerale al I congresso della Camera Confederale del Lavoro di Terni, in ACLT, MD 1946, fasc. “Congresso camerale 4-5 maggio 1946”. Questo documento d’ora in avanti verrà indicato soltanto con Relazione congressuale. È opportuno inoltre precisare che, non essendo l’inventario dell’Archivio della Camera del Lavoro definitivamente ultimato, le indicazioni relative alla collocazione dei singoli documenti risultano parziali e provvisorie. Ibidem. Relazione della Segreteria della Federazione comunista ternana, 30 marzo 1945, in APC, Mat. Fed., b. “Terni 1945-1948”, fasc. MF 090, fo. 1141. Cfr. Relazione congressuale. Ibidem. Cfr. la cartella riassuntiva della situazione organizzativa della Federazione Comunista Ternana, 6 luglio 1945, in APC, Mat. Fed., b. “Terni 1945-1948”, fasc. MF 090, fo. 1182.
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lare consistenza, furono quelli dei metallurgici, dei chimici e degli elettrici20. Ciò ovviamente era dovuto alla presenza in città di un alto numero di operai occupati nei tre corrispondenti settori produttivi del complesso industriale ternano. Una notevole consistenza acquistò anche il sindacato dei dipendenti degli enti locali21. I restanti sindacati sorsero invece con non poche difficoltà e, soprattutto, molto in ritardo, tanto che ancora nel marzo del 1945 in un documento di parte comunista si denunciava la seguente situazione: “i sindacati di mestiere non sono tutti costituiti né hanno una funzione vera e propria; per il momento sono i comitati che iniziano il primo lavoro”22. Uno stato di cose questo che per alcuni sindacati si trascinò molto più in là della primavera del 1945, arrivando addirittura sino al congresso provinciale della CDL, nel maggio 1946. Infatti nella sua relazione introduttiva il segretario affermava, tra l’altro, che: “Vi sono ancora due rami di sindacati molto restii a stringersi. Il Sindacato Edili e quello degli impiegati statali, bancari ed impiegati in genere”23. Oltre alle difficoltà per costituire e consolidare il maggior numero di sindacati di categoria, la CDL doveva poi incontrare analoghe difficoltà nel tentativo di radicarsi nelle zone ad economia prevalentemente agricola della provincia ternana. Infatti l’organismo sindacale riuscì a sviluppare con molto ritardo una – per di più debole – rete organizzativa decentrata di CDL sezionali24. I dati relativi alle iscrizioni al sindacato, forniti da un rapporto dei PCI ternano alla direzione, in data 6 luglio 1945, ci danno l’esatta dimensione di come l’organismo confederale ternano stesse crescendo in maniera squilibrata rispetto al particolare assetto sociale della provincia. Infatti a luglio del 1945 la CDL contava ancora un modesto numero di iscritti, 8.561; di essi però 6.195 erano operai ed i restanti 2.366 risultavano invece diversamente distribuiti tra piccoli proprietari, fittavoli, mezzadri e braccianti25. Il carattere largamente urbano ed operaio della composizione sociale degli iscritti alla CDL veniva sottolineato anche nel commento che nel rapporto accompagnava la presentazione dei dati. Tra l’altro vi si diceva:
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modo tra i contadini; poche sono le sezioni della Camera del Lavoro costituite nei comuni della provincia, pochissimi sono i sindacati di categoria fin’ora costituiti. I lavoratori non sentono ancora l’importanza dell’organizzazione sindacale. La Camera Confederale del Lavoro di Terni si limita a svolgere un buon lavoro nella città trascurando la provincia. Nei vari stabilimenti della città infatti le agitazioni promosse sono state portate a termine e i risultati sono abbastanza soddisfacenti, in provincia invece si sentono lagnanze da parte dei compagni perché si sentono trascurati dalla Camera del Lavoro26.
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Le deficienze accusate dall’organizzazione sindacale ternana erano in parte dovute o, per lo meno, acutizzate dalla difficoltà di formare in tempi brevi un numero di quadri dirigenti adeguato alle esigenze del momento. Del resto questa era una delle carenze più sentite nella fase della sua ricostituzione dall’intero movimento sindacale27. Per denotare il grado di mancanza di quadri che si registrava nella situazione sindacale ternana è sufficiente ricordare che a segretario della FIOM – il più forte ed importante sindacato di categoria della provincia – venne posto un operaio che, per sua stessa ammissione, non poteva rivendicare nessuna esperienza politico-sindacale, sia pure di breve periodo28. Infine questo difficile quadro sindacale conosceva ulteriori complicazioni a causa del rapporto conflittuale, che venne ben presto delineandosi, all’interno dell’organismo direttivo della CDL tra le sue diverse componenti. Dopo la iniziale nomina di una commissione provvisoria, si era infatti proceduto ad una meno affrettata designazione degli organismi dirigenti camerali, seguendo nuovamente la prassi della nomina “dall’alto” che, del resto, per quanto non perfettamente democratica, appariva in quella fase come “la meno lontana possibile dalla democrazia”29.
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Ivi, fo. 1185. A tale proposito è sufficiente ricordare che lo stesso Di Vittorio, segretario generale della CGIL, nel rapporto introduttivo al primo congresso delle organizzazioni sindacali dell’Italia liberata (Napoli, 28 gennaio-1 febbraio 1945) affermava, tra l’altro, quanto segue: “Vorrei accennare molto brevemente ad alcune deficienze fondamentali che vi sono nel nostro movimento. La più grave, sulla quale desidero attirare la vostra attenzione, è quella dei quadri. Oltre venti anni di fascismo ci hanno lasciato il vuoto, non si è formato nessun organizzatore perché quella che il fascismo chiamava una organizzazione era un carcere; quelli che in tale regime erano gli organizzatori, non erano per lo più che dei burocrati corrotti. Senza capaci organizzatori non possiamo progredire. Noi siamo già 1.300.000, saremo tra poco 4 milioni: non abbiamo dirigenti sufficienti per i nostri sindacati, per le nostre federazioni, per le nostre camere del lavoro. Bisogna rimediare col solo mezzo possibile: formando nuovi quadri e avendo coraggio, avendo audacia. I nuovi dirigenti, i nuovi organizzatori sindacali si possono formare attraverso l’attività, attraverso le lotte, sviluppando la vita democratica dei sindacati”. Il rapporto introduttivo di Di Vittorio è in I congressi della CGIL, vol. I, Editrice Sindacale Italiana, Roma 1949; il brano citato si trova nelle pp. 120-121. “Io devo essere sincero: sono un comunista di quelli venuti nel dopoguerra. In epoca fascista infatti non mi sono mai interessato di politica. Al posto di segretario della FIOM mi propose un compagno perché durante il fascismo io con gli altri tracciatori mi sono sempre battuto. Allora questo compagno disse: ‘Guardate che Corvo è uno che si è sempre battuto, può essere adatto alla testa della FIOM’. E così fui nominato segretario”. Dalla testimonianza resa all’autore il 28 ottobre 1980 da Faliero Corvo (n. 1910, operaio comunista, dirigente sindacale). La citazione è tratta dalla relazione presentata da Di Vittorio al convegno delle organizzazioni sindacali dell’Italia liberata tenutosi a Roma nel settembre 1944. Il leader sindacale così giustificava il criterio con cui
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Il compagno Inches, segretario della Camera del Lavoro Provinciale, lavora instancabilmente, ma non è coadiuvato dagli altri due segretari, socialista e democristiano. Tale mancanza di collaborazione fattiva pone il nostro compagno, al cospetto degli altri partiti, come un tutto voler fare e pertanto ne soffre l’organizzazione sindacale della nostra provincia31.
Tuttavia bisogna riconoscere che – ed anche questo era un fenomeno generale – il più grosso elemento di divisione a tutti i livelli tra le tre componenti sindacali era costituito dalla maniera di intendere il ruolo e la funzione del sindacato e quindi, di riflesso, il suo concreto e quotidiano operare. Infatti, mentre i democristiani, coerentemente con la loro ideologia, pensavano ad un sindacato depoliticizzato e confinato, perciò, nella sfera della partecipazione a una migliore distribuzione del reddito senza interferire nei criteri della sua formazione, a sinistra socialisti e comunisti praticavano nel sindacato due linee, simultaneamente e confusamente:
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venivano designate le direzioni degli organismi sindacali: “Queste direzioni in generale vengono per lo più designate dagli esponenti delle varie correnti sindacali che sono rappresentate nel complesso del nostro movimento: ed è giusto che sia così. La direzione per quanto provvisoria non può non essere designata dall’alto perché le organizzazioni non esistono ancora e il loro compito è di crearle; è bene perciò che siano le varie correnti sindacali a fare queste designazioni, perché solo in questo modo si può evitare la autodesignazione che avrebbe carattere puramente personale e si ha una designazione che, per quanto non perfettamente democratica, nelle condizioni attuali è la meno lontana possibile dalla democrazia”. La relazione di Di Vittorio è in I congressi cit. (a nota 27), vol. I, ed il passo citato è a p. 23. I membri componenti la Segreteria erano: Vincenzo Inches (PCI), Rutilio De Angelis (PSIUP), Francesco Ciuffoletti (DC). Cfr. Relazione congressuale cit. (a nota 20). Relazione della Segreteria della Federazione Comunista Ternana, 30 marzo 1945, in APC, Mat. Fed., loc. cit.
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Venne nominato un comitato direttivo di nove membri, assicurando in esso la rappresentanza proporzionale delle minoranze, ed una segreteria generale con compiti esecutivi che fu invece composta secondo il criterio della pariteticità tripartita – PCI, PSIUP e DC30. La composizione paritetica, che intendeva come implicitamente accettato il criterio dell’unanimità delle decisioni, non impediva comunque che sia il rappresentante socialista sia quello democristiano svolgessero, in seno all’organismo direttivo, un ruolo subalterno. Il potere che veniva formalmente riconosciuto ai due rappresentanti sindacali era, nei fatti, vanificato dallo scarso numero di aderenti alla corrente socialista e, soprattutto, democristiana Infatti gli esponenti di minoranza, in caso di divergenze con il rappresentante comunista, dovevano alla fine cedere non avendo una consistente area di mobilitazione all’interno della classe operaia da far pesare in proprio favore. Verosimilmente questa condizione di inferiorità doveva pesare ai rappresentanti socialista e democristiano e, di conseguenza, doveva incidere sulla loro volontà di collaborazione. È comunque certo che i rapporti tra gli esponenti delle tre correnti sindacali non erano dei migliori. Da parte comunista, nel marzo del 1945, si lamentava infatti la seguente situazione:
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“quella del sindacato come organo di inquadramento che viene utilizzato per aumentare la forza di contrattazione a livello politico, e quella del sindacato che organizza e dirige lotte per migliorare stabilmente con le condizioni materiali dei lavoratori anche il rapporto di forza tra le classi”32. In ogni caso, nonostante questo non indifferente quadro di difficoltà che contrassegnò la ripresa sindacale a Terni, l’attività che venne sviluppata dalla CDL, sorretta da una forte spinta di base, fu di rilevante importanza. Relativamente alla seconda metà del 1944 si è già ricordata l’azione, densa di risultati, svolta dall’organizzazione sindacale con la Commissione Interna di Fabbrica per imporre la ripresa produttiva dello stabilimento siderurgico ed il rinnovamento del quadro direttivo aziendale. Accanto a ciò ci fu poi l’impegno crescente della CDL per risolvere i problemi di immediata necessità della popolazione: ricostruzione materiale della città e approvvigionamento alimentare. Ma su questo si tornerà più ampiamente in seguito, ora invece appare importante ricordare che in questa prima fase la CDL fu anche attivamente presente alle due prime scadenze organizzative di largo respiro promosse dalla CGIL: il Convegno delle Organizzazioni Sindacali dell’Italia Liberata (Roma, 15-16 settembre 1944) e il loro I congresso (Napoli, 28 gennaio - 1 febbraio 1945)33. Fu soprattutto al congresso di Napoli che la CDL ternana poté presentarsi con un buon quadro organizzativo – i suoi iscritti alla fine dell’anno erano saliti a 1.20034 – e con una ricchezza di risultati positivi raggiunti sul piano dei rapporti sindacali in fabbrica. La rilevanza di questi ultimi venne infatti sottolineata dallo stesso Di Vittorio nella relazione introduttiva al congresso. Tra l’altro, il dirigente sindacale affermò: Vi è inoltre il patto stipulato per la partecipazione diretta dagli operai, dei tecnici e degli impiegati alla gestione della Società “Terni”. Questo è un patto per cui, come ciascuno di voi ha intuito, si aprono davanti ai lavoratori degli orizzonti nuovi. Questo patto afferma il principio che il processo produttivo non si svolge come qualche cosa che interessa esclusivamente il capitalista ed è in funzione unicamente dei profitto, ma è qualche cosa cui è legato l’interesse della società, l’interesse del paese, per cui i lavoratori stessi debbono partecipare alla gestione delle aziende. Questo successo è solo una premessa: ma ad esso non mancherà il seguito35.
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Le citazioni sono tratte da V. Foa, Prefazione, in F. Levi, P. Rugafiori e S. Vento, Il triangolo industriale tra ricostruzione e lotta di classe 1945-1948, Feltrinelli, Milano 1977, pp. XIV e XV. Su queste due scadenze organizzative della CGIL cfr. gli atti in I congressi cit. (a nota 27), vol. I, pp. 15-59 e 91-243. Cfr. la relazione sull’attività della Camera del Lavoro nel 1946, in ACLT, MD 1946, fasc. “Attività camerale”. I congressi cit. (a nota 27), vol. I, p. 111.
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4. Il congresso di Napoli Il congresso di Napoli fu in generale un’importante scadenza. In esso si delineò con precisione
La dialettica esistente tra le differenti strategie perseguite dalle diverse componenti che avevano dato vita all’organizzazione sindacale unitaria si rese evidente fin dall’inizio, dalle relazioni introduttive – per certi versi contraddittorie – del segretario comunista Di Vittorio e di quello democristiano Grandi. Nella relazione del massimo esponente della componente cattolica erano infatti completamente assenti quei “genuini spunti capitalistici” e quei frequenti richiami alle necessità del popolo come criterio orientativo da adottare per la ricostruzione che invece si trovavano nella pur misurata relazione di Di Vittorio37. Comunque in questa sede i contrasti di linea, pur evidenziandosi, non raggiunsero dimensioni stridenti ed il congresso poté caratterizzarsi non solo per la positività dei bilancio presentato dall’insieme dell’organizzazione sindacale, ma anche per la larghezza degli impegni propositivi che essa si assumeva per sé ed, ovviamente, per i propri organismi periferici. Essi venivano riassunti nell’estesa risoluzione che fu approvata a conclusione dell’assise congressuale. Vale pertanto la pena di esaminare diffusamente questo documento perché, sulla falsariga delle indicazioni da esso fornite, si mossero in seguito tutte le organizzazioni sindacali di base38. Innanzitutto la parte programmatica della risoluzione enunciava le rivendicazioni immediate dei lavoratori. Tra esse vi erano incluse: “revisione delle tabelle con adeguamenti stipendi; equiparazione degli stipendi fra le categorie identiche e analoghe delle varie amministrazioni; estensione delle mense aziendali e istituzione di spacci in tutte le aziende od uffici statali, parastatali e degli enti locali”. Nel documento veniva poi individuata la necessità immediata di “imperniare la lotta, diretta ad assicurare un minimo di esistenza ai lavoratori ed alle loro famiglie, su due fronti: contro il rincaro del costo della vita, mediante l’annientamento del mercato nero; per l’adozione della scala mobile sui salari e sugli stipendi, anche per i dipendenti statali, parastatali e degli enti locali”. In particolare nella
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C. Daneo, La politica economica della ricostruzione 1945-1949, Torino, Einaudi, 1975, p. 172. Cfr. Foa, Prefazione cit. (a nota 32), p. XVI. Per le indicazioni programmatiche contenute nel documento congressuale e per le citazioni che seguono cfr. il testo completo della risoluzione riportato in I congressi cit. (a nota 27), vol. I, pp. 232-237.
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il carattere di “sindacato nuovo” che la CGIL unitaria intendeva rappresentare: quello di un’organizzazione insieme di classe e “popolare che – nell’ambito di una coalizione politica di forze sociali contrastanti alla direzione dello stato – ne rappresentava indirettamente la proiezione nel campo delle relazioni sindacali e sociali; con i limiti e le contraddizioni che tale scelta comportava, in una dialettica che ne salvava la relativa autonomia ma al tempo stesso ne condizionava la possibilità d’azione, la composizione unitaria e la stessa durata36.
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lotta contro il mercato nero e per la repressione della frode in materia annonaria, vista l’inadeguatezza dell’opera svolta dai mezzi di repressione statali, si chiedeva, in tutti i comuni, la costituzione di commissioni annonarie presiedute dai sindaci e composte dai rappresentanti delle organizzazioni sindacali, cooperative e del Comitato di Liberazione Nazionale. Ad esse dovevano essere forniti tutti i mezzi e dati tutti i poteri necessari per reperire ed acquistare a giusto prezzo economico le merci di largo consumo popolare e per distribuirle direttamente ai consumatori, a prezzo di costo, mediante appositi spacci aziendali, cooperativi e comunali. La risoluzione continuava quindi dichiarando i contratti fascisti incompatibili col nuovo clima democratico che si andava costruendo il popolo italiano. Pertanto ne veniva decretata di fatto la soppressione e, di converso, venivano impegnati i comitati provvisori delle federazioni di categoria e le Camere confederali del lavoro ad elaborare i progetti di nuovi contratti di lavoro, semplici e chiari, che avrebbero dovuto essere sottoposti alla discussione e all’approvazione delle assemblee dei lavoratori interessati e corrispondere alle loro esigenze economiche e morali. In particolare questi nuovi contratti dovevano puntare ad estendere “a tutte le industrie la partecipazione delle maestranze alla gestione delle aziende, sull’esempio del contratto relativo al complesso industriale della Società ‘Terni’ e ad equiparare le condizioni di remunerazione dei lavoratori degli stessi rami di attività produttiva, in tutte le regioni d’Italia”. Per quanto riguardava i provvedimenti da prendere per eliminare la disoccupazione, il documento congressuale sosteneva poi la necessità di procedere immediatamente alla elaborazione di un piano nazionale di ricostruzione economica, con la partecipazione diretta dei lavoratori e delle masse popolari, mediante la costituzione – in ogni comune e su scala provinciale, regionale e nazionale – di commissioni di ricostruzione composte da tecnici e da rappresentanti delle organizzazioni sindacali e popolari. Ciò soprattutto in seguito agli apprezzabili risultati raggiunti sul piano della ripresa produttiva a Siena, dove la CDL, era riuscita da tempo a promuovere un operante Comitato Provinciale di Ricostruzione. Infine nella parte conclusiva della risoluzione venivano avanzate precise proposte di politica economica volte ad assicurare un’effettiva democratizzazione del paese, una più giusta distribuzione della ricchezza nazionale e maggiori possibilità di sviluppo economico. Si chiedeva pertanto la liquidazione del latifondo e la nazionalizzazione dei monopoli economici privati e delle industrie chiave, a cominciare da quelle elettriche e dalle miniere di ogni genere. Si proponeva inoltre che la nazionalizzazione venisse estesa a tutte le ferrovie italiane, ai telefoni ed a tutti i servizi di pubblica utilità e, soprattutto, che venisse iniziata dalla aziende IRI, già appartenenti in grandissima misura allo Stato. Insieme all’elaborazione di questa piattaforma economico-rivendicativa, nel corso del congresso venne definita un’altra questione rilevante che merita di essere
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linea moderata che intendeva il sindacato come un organismo di mera rappresentanza giuridico-contrattuale dei lavoratori in grado, attraverso le sue strutture intermediarie, di disciplinare il movimento di classe inquadrandolo in posizione subalterna nell’ambito delle scelte generali operate dal governo43.
Pertanto, all’indomani del congresso, le strutture sindacali periferiche ripresero la loro attività entro le coordinate da esso fissate e con le forti limitazioni di cui si è detto.
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Per il testo completo dello statuto cfr. ivi, pp. 255-274. In particolare l’articolo 101 dello statuto confederale regolava rigidamente le funzioni delle commissioni interne e toglieva ad esse la prerogativa – prevista invece dall’accordo Buozzi-Mazzini del settembre 1943 – di avanzare rivendicazioni aziendali. Esso aveva la seguente formulazione: “I compiti essenziali delle commissioni interne sono quelli di tutelare e difendere gli interessi collettivi ed individuali dei lavoratori, nei confronti del padrone, nell’ambito dell’azienda, vegliando al rispetto dei contratti di lavoro e della legislazione sociale in vigore, esigendo l’osservanza delle norme d’igiene e di sicurezza per i lavoratori; intervenendo contro ogni abuso di cui fosse oggetto anche un solo lavoratore; sorvegliando il buon andamento dei servizi sociali d’azienda (mense, spacci, ambulatori, ecc.), promuovendo l’azione necessaria per migliorare i regolamenti interni d’azienda, per migliorare i metodi di lavoro, ecc. Tutta l’azione tendente a modificare e migliorare i contratti collettivi di lavoro ed ogni altra attività in difesa degli interessi economici e morali dei lavoratori dev’essere promossa e diretta dal sindacato, che realizza l’unità di tutti i lavoratori della stessa industria o branca di lavoro della località – e rispettivamente della provincia e dell’intero paese - e che solo è qualificato per rappresentarlo”. Cfr. ivi, p. 274. Cfr. Pepe, La CGIL dalla ricostituzione cit. (a nota 19), p. 616. Cfr. V. Foa, Il “ritorno alla fabbrica“ nella strategia della Cgil, in “Mondo Operaio”, a. XXV, n. 2, febbraio 1972. Pepe, La CGIL dalla ricostituzione cit. (a nota 19), pp. 616-617.
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ricordata per le conseguenze che ebbe sulle istanze sindacali di base, e cioè l’approvazione dello statuto confederale con cui veniva stabilita la struttura dell’organizzazione sindacale ed il suo funzionamento. Infatti, in contrasto con la linea democratica presente nella relazione di Di Vittorio, lo statuto che la confederazione si diede fu contrassegnato da un esasperato verticismo che, tra l’atro, prevedeva un’assoluta centralizzazione in materia contrattuale39. Ne risultava un impianto organizzativo che poneva pesanti limitazioni alla spontanea iniziativa dal basso e, perciò, non solo agli organismi di classe presenti nelle aziende40, ma anche alle organizzazioni sindacali periferiche41. La necessità di tutelare, soprattutto, i redditi minimi ed il timore di ricadere nella vecchia pratica riformistica o corporativa furono i motivi con cui la scelta della direzione verticistica venne giustificata dai settori sindacali di sinistra42. Tuttavia, se anche le ragioni addotte non erano prive di fondamento, la forte centralizzazione adottata dalla confederazione, soprattutto in materia contrattuale, doveva inevitabilmente – mortificando le istanze più radicali provenienti dalla base – avere l’effetto di favorire all’interno dell’organizzazione la
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5. Adeguamento salariale, carovita e mercato nero
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Dal momento della Liberazione le forze sindacali ternane non erano mai state chiamate ad intervenire a favore dei lavoratori per ottenere un congruo e generalizzato aumento dei salari. Infatti, nel corso dell’intenso moto rivendicativo dell’autunno del 1944, da parte sindacale non era stata posta la questione dell’adeguamento salariale, essendosi trovata per essa una parziale soluzione a livello nazionale attraverso il decreto legislativo luogotenenziale del 2 novembre 1944. Partendo dalla considerazione che “dato lo stato di guerra e in mancanza di un ordinamento sindacale di diritto, deve provvedersi per atto legislativo a rendere efficaci verso tutti gli appartenenti alle categorie interessate gli accordi convenuti a Roma il 13 ottobre 1944, fra le associazioni di prestatori d’opera e di datori di lavoro già disciplinati per contratto collettivo”, tale decreto prevedeva, tra l’altro, che, a decorrere dal 16 agosto 1944, i datori di lavoro avrebbero dovuto corrispondere ai propri dipendenti una indennità di carovita per ogni giornata di lavoro nella misura: - di lire trenta per gli uomini e le donne capo-famiglia, se la retribuzione mensile, al lordo di ogni ritenuta, non era superiore a lire tremilaseicento; - di lire venti per gli uomini e le donne capo-famiglia, se la retribuzione mensile, al lordo di ogni ritenuta, era superiore a lire tremilaseicento ma non a lire cinquemila; - di lire dieci per gli uomini e le donne capo-famiglia, se la retribuzione mensile, al lordo di ogni ritenuta, era superiore a lire cinquemila; - di lire venti per le donne non capofamiglia, se la retribuzione mensile, al lordo di ogni ritenuta, non era superiore a lire tremilaseicento; - di lire quindici per le donne non capo-famiglia, se la retribuzione mensile, al lordo di ogni ritenuta, era superiore a lire tremilaseicento; - di lire quindici per i ragazzi e le ragazze di età non superiore ai 18 anni. Inoltre l’atto legislativo sanzionava che ai lavoratori aventi diritto agli assegni familiari venisse corrisposto – sempre con decorrenza dal 16 agosto 1944 – un assegno supplementare di carovita nella misura di lire cinque per ogni giornata di lavoro e per ciascuna persona a carico44. Questo modesto aumento, non essendo stato seguito da altri analoghi, venne però vanificato in breve tempo dall’inflazione. Ciò rese, agli inizi del nuovo anno, particolarmente difficili le condizioni di vita dei lavoratori a più bassa retribuzione. Pertanto, all’indomani del congresso di Napoli, confortata dalle risoluzioni qui deliberate, la CDL ternana avanzò alla controparte padronale la richiesta di un 44
Cfr. la copia del decreto legislativo luogotenenziale n. 303 del 2 novembre 1944 – “Miglioramenti economici a favore dei lavoratori nel caso di rapporti di lavoro già disciplinati con contratti collettivi” – in ACLT, Accordi nazionali e locali, fasc. “Anni 1943-1944”.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
Uomini capo famiglia Uomini oltre i 21 anni Uomini dai 18 ai 21 anni Uomini al di sotto dei 18 anni Donne capo famiglia Donne sopra ai 21 anni Donne al di sotto dei 21 anni
L. 100 L. 100 L. 70 L. 40 L. 100 L. 80 L. 40
Di poco inferiore era l’indennità prevista per le analoghe categorie di lavoratori dei rimanenti comuni della provincia. L’accordo venne ulteriormente perfezionato nel luglio 1945 con una serie di norme integrative che tra l’altro prevedevano il pagamento da parte delle aziende di un sussidio addizionale, pari al 40% dell’ammontare della nuova indennità di carovita, ai lavoratori assenti a causa di infortunio47. Comunque sul fronte salariale la conquista più rilevante fu raggiunta nella seconda metà dell’anno con l’accordo stipulato a livello provinciale il 6 ottobre tra la FIOM e l’Associazione degli Industriali48. Con il raggiungimento di questo accordo,
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Cfr. il verbale della riunione del Comitato Federale della Federazione Comunista Ternana, 3 marzo 1945, in APC, Mat. Fed., b. “Terni 1945-1948”, fasc. MF 090, fo. 1122. Cfr. il testo completo dell’accordo per la determinazione della “nuova indennità di caro-vita” a favore dei lavoratori dell’industria della provincia di Terni, 29 marzo 1945, in ACLT, Accordi nazionali e locali, fasc. “Anno 1945”. Cfr. il testo completo dell’accordo contenente norme modificative ed integrative dell’accordo provinciale del 29 marzo 1945, 12 luglio 1945, ivi. Attraverso questo accordo, tra l’altro, venivano fissati i minimi di paga per le diverse categorie di lavoratori dei settori metallurgico, meccanico e siderurgico. I seguenti sono alcuni dei minimi salariali stabiliti nell’accordo: Capo operaio di 1a categoria 185 lire giornaliere; Capo operaio di 2a categoria 175; Capo operaio di 3a categoria 160; Operaio specializzato di 1a categoria 15,40 lire orarie; Operaio specializzato di 2a categoria
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nuovo adeguamento salariale. Peraltro appare interessante sottolineare il fatto che in questa occasione la federazione provinciale comunista faceva pervenire al l’organizzazione sindacale l’indicazione di “tener conto [nel corso delle trattative] delle varie categorie favorendo quelle con i salari più arretrati”45. In ogni caso il rapporto di forza favorevole ai lavoratori permise di assicurare a questa vertenza una prima provvisoria conclusione in breve tempo e senza che da parte operaia venissero intraprese particolari agitazioni. Infatti il 29 marzo 1945 tra la Camera del Lavoro e l’Associazione degli Industriali Ternani, “conformemente ed in esecuzione alle direttive di massima impartite dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro con accordo sottoscritto in data 24 febbraio 1945”, venne concordato un aggiornamento dell’indennità di carovita che i datori di lavoro avrebbero dovuto corrispondere ai propri dipendenti (impiegati ed operai) con decorrenza 16 febbraio 194546. La nuova indennità di carovita era stabilita, per ogni giornata lavorativa e relativamente ai comuni di Terni, Narni e Orvieto, nella seguente misura:
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infatti, il sindacato provinciale di categoria vedeva largamente accolte le richieste avanzate in agosto all’associazione padronale e otteneva pertanto consistenti aumenti nelle buste-paga dei lavoratori49. Ciò costituì un indubbio successo per la FIOM che riuscì in questo modo non soltanto ad anticipare per diversi aspetti l’accordo perequativo per le provincie dell’Italia centro-meridionale che sarebbe stato siglato nel maggio del 194650, ma, per di più, si confermò il più forte sindacato di categoria ternano e l’elemento propulsore dell’intera Camera Confederale. In seguito, infatti, questo accordo venne preso come modello dagli altri sindacati di categoria provinciali per avanzare le loro richieste, che, dato il precedente, furono per la maggior parte accolte51. Per garantire il potere di acquisto del salario – visto che esso non era protetto da una qualsiasi forma di “scala mobile” – da parte della CDL, era stata intrapresa anche una decisa azione contro il carovita e contro il mercato nero. La situazione
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14,40; Operaio qualificato di 1a categoria 13,55; Operaio qualificato di 2a categoria 12,90; Operaio qualificato di 3a categoria 12,20; Manovale specializzato di 1a cat. oltre i 18 anni 11,65; Manovale specializzato di 2a cat. oltre i 18 anni 11,15; Manovale specializzato sotto i 18 anni 6,45; Manovale comune sopra i 18 anni 10,45; Manovale comune sotto i 18 anni 5,55; Capo muta guardiani 100 lire giornaliere; Guardiano scelto 93,35 lire orarie; Guardiano di 1a categoria 89,20; Guardiano di 2a categoria 86,60. Per il personale femminile l’accordo stabiliva che le paghe base dovevano essere quelle delle analoghe categorie del personale maschile, ridotte del 20%. Naturalmente a questi minimi salariali andavano poi aggiunti l’indennità di carovita ed il minimo di cottimo garantito. Pertanto nell’accordo veniva sanzionato che la misura dell’indennità di carovita, corrisposta alla data del 15 agosto 1945, doveva rimanere invariata. Per il resto si prevedeva che a tutti gli operai (sia uomini che donne) lavoranti ad economia doveva essere corrisposto un mancato cottimo dei 20%, mentre per gli operai (sia uomini che donne) lavoranti a cottimo si stabiliva che – secondo le norme contrattuali già in vigore – il minimo di cottimo garantito doveva restare fissato alla misura del 10%. Cfr. il testo completo dell’accordo provinciale per la perequazione dei salari degli operai dipendenti dalle aziende esercenti nella provincia di Terni l’industria meccanica, metallurgica, siderurgica, 6 ottobre 1945, ibidem. Per quanto riguarda il cottimo appare importante sottolineare che esso non fu mai oggetto di contestazione da parte dei lavoratori ternani. Infatti, visti i bassi livelli produttivi della prima fase della ricostruzione, il cottimo – garantito in ogni caso in una misura minima – veniva visto dai lavoratori, non come un metodo di sfruttamento, ma piuttosto come una voce accessoria importante per integrare il salario falcidiato dell’inflazione: “Nel dopoguerra si produceva poco, mancavano le materie prime, il cottimo c’era ma era un cottimo... fittizio. Non vi fu rifiuto perché con il cottimo il lavoratore sapeva di avere la possibilità di guadagnare qualcosa in più” (dalla testimonianza citata, di Faliero Corvo). Cfr. Relazione congressuale cit. (a nota 20). Il testo dei concordato per la perequazione dei trattamento economico dei lavoratori dell’industria nelle provincie dell’Italia centro-meridionale, 23 maggio 1946, è in Accordi interconfederali 1943-1966, Roma 1967. Dopo il raggiungimento di questo accordo da parte della CDL si doveva rilevare quanto segue: “il documento che va sotto il nome di accordo perequativo centro-sud del maggio 1946 al quale partecipò la Camera del Lavoro di Terni, va esaminato sotto l’aspetto di aver sanato molte ingiustizie e molte situazioni penose per molti lavoratori le cui organizzazioni, vuoi perché deboli, vuoi perché residenti in centri reazionari, non riuscivano a migliorare le tristi condizioni in cui il fascismo li aveva lasciati. È certo che i lavoratori di Terni ne ebbero un beneficio esiguo in quanto, al convegno delle camere del lavoro di Roma, risultò, dal punto di vista salariale e di inquadramento di categoria, uno dei migliori. Pur tuttavia i lavoratori beneficiarono – in applicazione territoriale dell’accordo – in maniera sensibile e in special modo con l’innovazione della scala mobile dei salari, e per il riconoscimento dell’anzianità, che è una grande conquista sindacale che serve di guida in campo nazionale. Si deve registrare inoltre come l’applicazione di tale accordo, che in campo nazionale veniva effettuato alla data del 30 marzo, per la sola provincia di Terni aveva effetto retroattivo dal 1 febbraio 1946”. Cfr. La relazione sull’attività della Camera del Lavoro nel 1946, in ACLT, Mod. 1946, loc. cit. Cfr. Relazione congressuale cit. (a nota 20).
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Ibidem. Cfr. Rossi, L’UDI a Terni cit. (a nota 5), pp. 69-70. Cfr. Relazione congressuale cit. (a nota 20). Cfr. Turone, Storia del sindacato in Italia cit. (a nota 19), pp. 115 sgg. A tale proposito cfr. G. Chianese, Note sulla ricostituzione sindacale e sulle lotte operaie e popolari a Napoli: 1943-1946, in “Italia contemporanea”, luglio-settembre 1976, n. 124. Cfr. il rapporto della Legione Territoriale dei CCRR del Lazio, 2 giugno 1945, in ACS, MI, DGS, AGP, 1930-1955, b. 229, fasc. “Terni-Approvvigionamenti e varie”. Ibidem, in alcuni cartelli si leggeva: “La forca è pronta per i borsari neri”, “La pazienza ha un limite”.
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dell’approvvigionamento alimentare a Terni appariva infatti particolarmente drammatica. Essa era determinata dalle scarse possibilità produttive offerte dalle tradizionali zone di rifornimento alimentare della città e, soprattutto, dall’eccezionale stato di distruzione delle comunicazioni e dei trasporti che impediva più lontani approvvigionamenti. Per di più accadeva che, essendo i centri agricoli dove Terni si riforniva abitualmente gli stessi di Roma, i produttori preferivano avviare le merci verso il più remunerativo mercato nero della capitale. Peraltro ciò aveva provocato più volte la reazione spontanea della popolazione ternana52. Non era infrequente infatti che gruppi di donne – spesso coadiuvate da partigiani – formassero dei posti di blocco sulla strada verso Roma per fermare gli autocarri di passaggio e requisire i generi alimentari da essi abusivamente trasportati. Tra i “colpi” più grossi realizzati in queste occasioni molto ricordato è quello dei venerdì santo del 1945 allorché furono requisite 90.000 uova che, successivamente, vennero distribuite alla popolazione a prezzo di calmiere53. Pertanto la CDL, posta di fronte a questo spontaneo organizzarsi delle masse, si vide costretta ad assumere in prima persona il compito di dare una risposta ai bisogni popolari indirizzando la propria azione su più versanti e, principalmente, “su un severo controllo dei prezzi, nella creazione di una fitta rete di cooperative e su una energica repressione dei mercato nero”54. Significativa in questo senso appare la considerevole attività svolta dalla CDL nella primavera-estate del 1945 ed, in particolar modo, intorno al maggio-giugno 1945, quando si sviluppò un forte movimento di lotta popolare nel meridione contro l’eccessivo rincaro del costo della vita55. Le agitazioni avevano preso vita spontaneamente a Taranto e si erano estese rapidamente a tutto il mezzogiorno, coinvolgendo soprattutto alcuni dei maggiori centri meridionali56. Ciò aveva sollecitato il pronto intervento dei sindacato, preoccupato di ricondurre il movimento nell’ambito della propria prospettiva strategica, soprattutto in una cornice istituzionale. Anche a Terni, dove il malcontento popolare si rendeva sempre più evidente, la CDL organizzò una manifestazione cittadina contro l’aumento dei prezzi con la partecipazione di un esponente nazionale della CGIL, Aladino Bibolotti57. Di fronte all’evidente esasperazione dei manifestanti – testimoniata anche dalle scritte sui cartelli presenti nella piazza58 – l’esponente sindacale, nel corso del suo
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comizio, sottolineò con forza l’urgente necessità dì risolvere i gravosi problemi del momento attraverso la formazione di un nuovo governo più attento alle esigenze delle masse lavoratrici e popolari. Ciò costituiva un chiaro riferimento alla compagine governativa che di lì a poco si sarebbe costituita sotto la guida di Parri. Al termine della manifestazione fu poi votato un perentorio ordine del giorno contro il carovita ed il mercato nero59. Comunque questa agitazione sembrò avviarsi ad avere affetti positivi. Infatti, successivamente alla dimostrazione di piazza, il Comitato di Liberazione Nazionale di Terni – su iniziativa dei suoi membri comunisti – invitò l’autorità prefettizia a promuovere una riunione “di tutti gli Enti interessati” con i rappresentanti della CGIL al fine di esaminare le concrete possibilità di giungere ad una riduzione dei prezzi60. L’accettazione della proposta da parte del prefetto permise di tenere la riunione, che approdò a non indifferenti risultati. In questa sede fu decisa la riduzione dei prezzi in misura del 20% sui generi alimentari, del 35% sulle calzature e del 50% sulle stoffe. Tale deliberazione venne resa operativa con un decreto prefettizio, mentre furono costituite delle commissioni popolari di controllo con il compito di verificarne il rispetto da parte dei commercianti. Tuttavia tale provvedimento alla lunga doveva dimostrarsi controproducente. Esso infatti provocò la completa sparizione della merce calmierata dal mercato ufficiale61. Molto più efficace fu invece nell’ottobre 1945, in corrispondenza con un aggravamento della situazione alimentare della città, l’opera svolta congiuntamente dal CLN provinciale e dalla Camera del Lavoro per organizzare una cooperativa operaia di consumo. Nel giro di qualche settimana venne infatti costituita la cooperativa “Unione Lavoratori”, che rappresentò – grazie anche al rapido incremento avuto dalla sua attività commerciale – un’importante salvaguardia dei consumi popolari dal continuo rincaro dei generi di prima necessità62.
6. Disoccupazione e reduci Il problema che creò più serie difficoltà alla CDL, impegnandola duramente, fu quello della disoccupazione. L’azione svolta per combatterla merita pertanto di essere esaminata con maggiore attenzione, tanto più che in questa azione è possibile rinvenire gli stretti margini di manovra in cui le strutture sindacali di base erano costrette ad operare a causa dell’assenza di un concreto ed incisivo disegno di lotta alla disoccupazione di respiro nazionale entro il quale ricondurre le singo-
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Cfr. il testo dell’ordine del giorno in ACS, MI Gab 1944-46, b. 138, fasc. 12207. Cfr. la relazione della Segreteria della Federazione Comunista Ternana dell’agosto 1945, in APC, Mat. Fed., b. “Terni 1945-1948”, fasc. MF 090, fo. 1085. Cfr. Relazione congressuale cit. (a nota 20). Ibidem.
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Su questo cfr. Daneo, La politica economica della ricostruzione cit. (a nota 36), pp. 175-176. Alla fine del 1944 Terni presentava alti livelli di disoccupazione. Tuttavia, grazie alla rapida ripresa produttiva delle sue maggiori industrie, il fenomeno si era andato nel corso dei primi mesi del 1945 notevolmente attenuando. Successivamente con la fine della guerra ed il conseguente ritorno dei reduci, il numero dei disoccupati subì un inevitabile aumento, raggiungendo all’inizio dell’autunno livelli allarmanti. E su questi livelli lo stato della disoccupazione a Terni si stabilizzò a lungo. Attraverso le diverse fonti consultate è possibile ricostruire il seguente andamento della disoccupazione nella provincia ternana tra la fine del 1944 e la prima parte del 1946: Periodo disoccupati dicembre 1944 5.840 marzo 1945 3.511 luglio 1945 4.000 settembre 1945 5.000 gennaio 1946 5.018 (3.930 in città) aprile 1946 5.018 (4.048 in città). Cfr. Relazione congressuale cit. (a nota 20). Cfr. il fonogramma dell’alto commissario aggiunto per l’assistenza postbellica al prefetto di Terni, 4 luglio 1945, in ACS, MI Gab 1944-46, b. 144, fasc. 12864. Su Alfredo Filipponi oltre a ACS, CPC, b. 2065, si veda Un uomo, una testimonianza. Frammenti di vita di un antifascista, in “Quaderni di Indagini”, 11 dicembre 1980.
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le iniziative. Infatti, nonostante le buone intenzioni espresse al congresso sindacale di Napoli, il piano nazionale di ricostruzione economica – invocato in quella sede come immediatamente necessario – non aveva visto da parte della CGIL alcuna mobilitazione volta ad imporne l’attuazione. Esso era pertanto restato a livello di semplice enunciazione63. A causa di queste carenze, le CDL – tra l’altro intente a seguire una politica responsabile e di collaborazione con le autorità governative – si trovavano quindi costrette a procedere empiricamente, tra mille cautele, e ciò le portava spesso – come vedremo nel caso ternano – a cercare dì risolvere i problemi attraverso l’adozione di provvedimenti che alla distanza risultavano controproducenti e pericolosi non solo per l’organizzazione, ma per la stessa unità dei lavoratori. Il problema della disoccupazione a Terni emerse in maniera drammatica soltanto dopo la cessazione dello stato di guerra su tutto il territorio nazionale a causa del massiccio ritorno dei reduci e dei prigionieri. Infatti, a partire dalla tarda primavera del 1945, si ebbe un rapidissimo incremento di disoccupati in città e nella provincia64. Tuttavia il fenomeno raggiunse i livelli più acuti soltanto agli inizi dell’estate, proprio allorquando la formazione del governo Parri faceva sperare a larghi settori delle masse popolari che fosse finalmente giunta una fase politica più favorevole65. La prima misura con cui da parte delle autorità cittadine si cercò di fronteggiare l’acutizzarsi del fenomeno fu la costituzione del Comitato Provinciale Assistenza Reduci (CAR), la cui presidenza venne affidata all’esponente comunista Alfredo Filipponi66. In questo contesto, tuttavia, la CDL diede vita ad una propria ed intensa mobilitazione di uomini e di idee per ridurre a livelli accettabili l’alto tasso di disoccupazione presente nella provincia. Partendo perciò dalla constatazione che “è ridicolo e contrastante pensare che in un’Italia semidistrutta vi siano due milioni di disoccupati perché non vi è lavoro”, l’organizzazione sindaca-
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le ternana per combattere la disoccupazione scelse innanzitutto una linea di netto rifiuto di ogni assistenzialismo67. E, come primo intervento, intorno alla metà di luglio del 1945 la CDL fece pervenire alla CGIL nazionale, affinché lo inoltrasse ai ministeri interessati ed alle autorità alleate, un memoriale in cui si avanzavano una serie di proposte per intensificare la produzione dei diversi stabilimenti ternani e favorire così una maggiore occupazione68. Per dar forza alla propria iniziativa l’organismo confederale promosse inoltre nelle maggiori unità produttive della provincia una serie di scioperi nel corso dei quali veniva votato dai lavoratori un ordine del giorno contenente le proposte avanzate nel memoriale. Ciò tende di particolare interesse questo documento, che merita dunque di essere riportato per esteso. Esso diceva:
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I lavoratori riuniti a comizio udita la relazione della Camera del Lavoro, ravvisando in essa, come da circa tredici mesi dopo la liberazione di Terni poco o quasi nulla si sia fatto per la ricostruzione della città per circa due terzi distrutta dalla guerra, come pure la sua industria sia fortemente minacciata da una paralisi con grave danno alla ripresa economica e ricostruttiva dell’Italia; considerato che tale iniziativa pone il nostro popolo alle soglie dell’inverno senza ricovero e senza lavoro; appreso inoltre come la causa di tale stato di cose sia dovuta ad alcune norme e disposizioni che dopo la fine della guerra con lo schiacciamento del fascismo non hanno più ragione di esistere; affermano la decisa volontà di voler vivere solo di un onesto lavoro e non di sussidi anche se questi provengono dallo Stato che in ultima analisi si ritorcerebbero sul popolo tutto; approvano l’operato della Camera del Lavoro che presentando le necessità più sentite al governo afferma la volontà ricostruttiva del popolo ternano ed esorta le autorità a provvedere con sollecitudine: 1) allo sblocco del cemento e del ferro per la ricostruzione della città intesa nella costruzione di vasti fabbricati per i lavoratori; 2) ad un’assegnazione dei mezzi di trasporto adeguati alla possibilità per alimentare la nostra industria; 3) [ad un’] assegnazione di carbone per alimentare l’industria chimica dei fertilizzanti in difetto di che tale industria sarebbe paralizzata. E fanno pertanto voti per l’accoglienza più sollecita di tali richieste che in difetto pongono i nostri lavoratori in condizioni di aumentare i 4.000 disoccupati e, se accordate, darebbero lavori e benessere a tutti, assorbirebbero anche coloro che, ritornando dalla prigionia, attendono dalla patria, tranquillità, pace e lavoro69.
Un’altra delle rilevanti iniziative che la CDL prese in questo periodo fu quella di farsi promotrice della formazione di un Comitato Provinciale per la Ricostruzione che vide l’adesione dell’Ufficio dei Genio Civile, delle diverse banche cittadine, della Società Terni, della Provincia, del Comune e “di altri enti locali”. Il primo atto
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Cfr. Relazione congressuale cit. (a nota 20). Il memoriale si trova in ACS, PCM 1944-47, b. 3.1.10, fasc. 11379. L’ordine del giorno si trova in ACS, MI Gab 1944-46, b. 247, fasc. 24383.
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a) l’inclusione di Terni nella lista dei comuni nei quali esiste il problema dei senza tetto onde ottenere da parte del Ministero dei LLPP quelle provvidenze stabilite a questo titolo. b) un adeguato e sollecito finanziamento per la costruzione delle case il cui progetto è stato già depositato presso i competenti ministeri, come pure la costruzione della stazione ferroviaria, andata completamente distrutta. Tali lavori assorbirebbero altri 2.000 disoccupati, in uno con le opere contingenti per la disoccupazione71.
E fu grazie a quest’ultima sollecitazione se qualcosa nell’ambito governativo si mosse. L’iniziativa partì dallo stesso Parri che, nella doppia veste di capo del governo e di ministro dell’Interno, richiese ai diversi ministeri pronti interventi per la difficile situazione ternana. Ciò non mancò di produrre importanti effetti. Da parte del Ministero dell’Industria si ebbero infatti precise assicurazioni che, compatibilmente con il pesante controllo alleato, si sarebbe tenuto conto delle necessità dell’industria ternana. Identiche assicurazioni giunsero dal Ministero dei Lavori Pubblici, il quale nella sua comunicazione tra l’altro ricordava l’impegno assunto dalla Società Terni di investire 150 milioni di lire per la costruzione di 900 vani destinati ai propri dipendenti. Inoltre il 2 novembre il Comune di Terni con un decreto ministeriale veniva compreso nell’elenco dei comuni danneggiati dalla guerra che dovevano adottare un piano di ricostruzione72. Dal canto suo il presidente del Consiglio fin dal 13 ottobre, con una propria comunicazione aveva autorizzato spese per la ricostruzione in tutta la provincia pari ad un importo di poco superiore ai 59 milioni di lire73. 70
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Sul Comitato Provinciale per la Ricostruzione e sul piano di ricostruzione cittadino da esso elaborato cfr. il diverso materiale contenuto in ACS, MI Gab 1944-46, b. 247, fasc. 24383. Cfr. il testo completo del promemoria, 25 agosto 1945, in ACS, PCM 1944-47, b. 3.1.10, fasc. 11379. Su tutta questa vicenda cfr. il diverso carteggio tra i vari ministeri e il presidente del Consiglio in ACS, MI Gab 1944-46, b. 247, fasc. 24383. Cfr. il comunicato alla stampa del prefetto, 17 ottobre 1945, in ACS, PCM 1944-47, b. 3.1.10, fasc. 11379.
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di questo comitato fu quello di elaborare un piano di ricostruzione cittadino che venne subito inviato ai competenti ministeri70. Obiettivo costante della CDL fu infatti quello di coinvolgere nelle proprie iniziative le autorità locali e gli organismi democratici cittadini. Nell’agosto 1945, ad esempio, da parte della CDL, del CLN, del prefetto e del sindaco – come “atto di fiducia dei lavoratori e del popolo di Terni verso il Governo Democratico” – venne inviato direttamente al presidente del Consiglio un promemoria in cui si sollecitava un suo interessamento affinché venissero rapidamente accolte le richieste avanzate ai diversi ministeri. Tra l’altro, in relazione al piano di recente elaborazione del Comitato per la Ricostruzione, nel documento inviato a Parri si ricordava che “la feroce opera di distruzione subita dalla [...] città (case distrutte 12,7%, gravemente danneggiate 26,8%, lievemente danneggiate 57,2%, illese 3,4%) mette[va] a grave rischio l’avvenire delle famiglie dei lavoratori senza tetto” e, pertanto, si rinnovavano le due principali richieste già presenti nel progetto del comitato e cioè:
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Questi interventi con cui si cercava di far fronte alla crescente disoccupazione cittadina riguardavano però la promozione di lavori soprattutto nel settore dell’edilizia e ciò – come doveva riconoscere lo stesso Ufficio del Genio Civile74 – li rendeva solo parzialmente efficaci. Infatti il maggior numero di disoccupati si contavano tra gli operai specializzati dell’industria che pertanto risultavano esser completamente inadatti per i lavori edilizi. Del resto far fronte alla improrogabile necessità di trovare una collocazione alla crescente massa di disoccupati era un compito che diventava sempre più arduo per l’organizzazione sindacale, tanto più che essa vedeva esaurirsi anche quella possibilità, sin lì largamente sfruttata, di approfittare della disponibilità della direzione aziendale della Società Terni per far assumere operai in esuberanza. Infatti da parte della stessa CDL doveva essere riconosciuto che non era possibile “caricare [troppo] l’industria di personale in soprannumero senza far correre un rischio finanziario a questa con evidente danno per tutti”75. Ciò significava però che, per dare una qualsiasi risposta in positivo al fenomeno della disoccupazione, alla CDL – visti i limitati margini di manovra in cui si trovava ad agire – non restava altra alternativa che quella di ricorrere a provvedimenti che rischiavano di produrre – e avrebbero prodotto – serie fratture sia tra essa e consistenti settori della classe operaia, sia all’interno della classe stessa. In questo senso un primo significativo avviso lo si era avuto nel settembre del 1945 quando Alfredo Filipponi, quale presidente del CAR provinciale, a causa dell’enorme crescita del numero dei reduci disoccupati aveva proposto di licenziare una parte degli operai occupati, scegliendoli tra coloro che potevano in altro modo provvedere al proprio mantenimento, e sostituirli con reduci e partigiani disoccupati. La proposta – come registrava il prefetto – aveva però suscitato, soprattutto allo stabilimento elettrochimico di Papigno, una viva reazione ed evidenti manifestazioni di dissenso da parte dei lavoratori76. A causa di ciò venne lasciata cadere. Tuttavia lo stato di crescente tensione ed il fermento, che assumeva toni pericolosi, presente tra i disoccupati l’avrebbero in breve tempo riproposta come necessaria ed inevitabile. Infatti il 22 ottobre un numeroso gruppo di reduci disoccupati diede vita ad un’imponente manifestazione che venne mantenuta nell’alveo della legalità soltanto grazie all’intervento del segretario della Camera del Lavoro e del presidente della locale Sezione dei Reduci. Lo svolgimento dei fatti, secondo il resoconto che ne fece “La Turbina”, fu il seguente: Il problema del lavoro ai reduci, nella nostra città, ha scaturito nella giornata del 22, una vasta manifestazione che poteva anche degenerare senza l’intervento del compagno Inches, della locale Camera del Lavoro, e del presidente della Sezione Reduci.
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Cfr. la comunicazione del ministro dei Lavori Pubblici, 22 ottobre 1945, in ACS, MI Gab 1944-46, b. 247, fasc. 24383. Cfr. Relazione congressuale cit. (a nota 20). Cfr. il fonogramma del prefetto, 6 settembre 1945, in ACS, MI Gab 1944-1946, b. 144, fasc. 12864.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
Di fronte alla montante esasperazione dei reduci, di cui questo episodio era un chiaro sintomo, risulta perciò evidente come per la CDL divenisse improrogabile ricorrere alle difficili scelte, sino a quel momento rimandate. Pertanto la soluzione già proposta da Filipponi fu ripresa in esame ed attorno ad essa l’organismo sindacale intraprese le trattative con la Società Terni per giungere ad un accordo soddisfacente. L’accordo – con qualche importante aggiustamento rispetto alla ipotesi di partenza – venne raggiunto intorno alla fine di novembre. A proposito delle modalità del suo raggiungimento e di quanto in esso era previsto così riferiva ‘‘l’Unità’’: Per iniziativa dell’Ufficio provinciale dell’Assistenza Postbellica di Terni, diretto dal compagno Filipponi, con la collaborazione della Presidenza dei Reduci, della Camera del Lavoro e delle commissioni interne degli operai, è stato stipulato un contratto con la Società Terni per l’assunzione al lavoro di altri trecentotrenta reduci, che unitamente agli assunti in precedenza, formano una cifra di 1.080 lavoratori occupati. Per gli ultimi 330 è stato convenuto con la Società Terni di allontanare dal lavoro per quattro mesi un numero corrispondente di operai tra i meno bisognosi, i quali conserveranno tutti i loro diritti all’anzianità e agli effetti della liquidazione. Inoltre la “Terni” , ad integrazione degli assegni familiari e dell’indennità di disoccupazione, si è impegnata di corrispondere a ciascuno di loro L. 6.000 una volta tanto, e di riassumerli in servizio allo scadere del periodo di 4 mesi. Additiamo l’esempio alle altre aziende ed enti, affinché i reduci trovino comprensione e spirito di fratellanza78.
Ovviamente l’applicazione di un simile provvedimento, nonostante lo spirito di equità con cui era stato concepito, suscitò un coro di proteste tra gli operai colpiti dalla temporanea sospensione. In seguito l’impegno della CDL rispetto alle necessità dei reduci si fece più costante. Intorno alla metà di dicembre l’organismo sindacale giunse addirittura ad istituire al suo interno un apposito ufficio per reduci79. Inoltre esso sviluppò un più stretto rapporto di collaborazione con la sezione provinciale dell’Associazione Re-
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Reduci, “La Turbina”, settimanale delle Federazioni provinciali Comunista e Socialista, 28 ottobre 1945. Assistenza ai reduci, ‘‘l’Unità’’, 28 novembre 1945, cronaca di Terni. Cfr. Nelle Acciaierie lavorano già 1.000 reduci, ‘‘l’Unità’’, 15 dicembre 1945, cronaca di Terni.
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Fin dalle prime ore del mattino, varie centinaia di reduci con cartelli invocanti lavoro, si sono adunati presso la loro sede, piazza Tacito. Il compagno Inches con brevi e concise parole ha tentato di spiegare la situazione cittadina esortando i reduci ad avere fiducia nelle organizzazioni che con ogni mezzo tentano di risolvere il penoso problema. Anche il presidente dell’associazione ha pronunciato brevi parole invitando i reduci alla calma. I reduci unitisi in corteo con le bandiere proveniente dai campi di concentramento e vari cartelli (corteo che potrebbe bende finirsi “corteo della fame”) si sono diretti in Prefettura per chiedere al prefetto l’appoggio alle loro giuste aspirazioni. Successivamente i reduci si sono recati alla direzione della locale Acciaieria e presso la ditta Bosco, dove hanno chiesto loro un piccolo sacrificio per risolvere la situazione77.
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duci, formando con essa – come previsto da un accordo stipulato dalle due organizzazioni centrali – una commissione mista avente lo scopo di coordinare le rispettive attività contro la disoccupazione80. Tuttavia, nonostante l’insieme di questi sforzi, nella primavera del 1946 la CDL dovette di nuovo consentire, in accordo con la Società Terni, che venisse preso un altro difficile provvedimento per cercare di attenuare un riacutizzarsi della tensione tra i reduci disoccupati. Nell’accordo raggiunto in questa occasione venne stabilito che circa un migliaio di operai occupati, di nuovo scelti tra coloro che erano “meno bisognosi – ad esempio i celibi –, sarebbero entrati in turno di lavoro con altrettanti disoccupati. L’azienda da parte sua si impegnava a venire incontro agli occupati ad orario ridotto con un’indennità integrativa settimanale di L. 250”81. L’aspetto controproducente di simili provvedimenti, che offrivano soluzioni provvisorie e di breve effetto, mentre introducevano serie divisioni in seno al movimento operaio, era comunque ben presente ai dirigenti della CDL. Non per caso, infatti, essi commentavano quest’ultimo accordo nel mondo seguente: “I turni avvicendati testé realizzati se hanno risolto in parte il problema contingente, non potranno risolvere quello che si prospetta”82. Questo fatto non deve però destare meraviglia, né essere interpretato come una cosciente manifestazione di debolezza del sindacato; va invece spiegato guardandolo alla luce della linea adottata in questa fase dall’intera organizzazione sindacale, che risultava sostanzialmente subalterna alla strategia delle forze politiche operaie. A sinistra si erano puntate tutte le possibilità di imporre radicali mutamenti della politica economica nazionale sugli esiti delle ormai prossime elezioni del 2 giugno e pertanto, in questa attesa, venivano accettati parziali e temporanei arretramenti. Se infatti – come a sinistra si credeva certo – i risultati elettorali fossero stati largamente favorevoli alle forze operaie, ciò avrebbe consentito di ottenere dei rapporti di forza in grado non solo di far recuperare il terreno sin lì perduto, ma anche di permettere in tempi brevi l’avvio di una serie di riforme di struttura necessarie a risolvere gran parte di problemi delle masse popolari.
7. Il primo congresso camerale A ridosso della scadenza elettorale e con i suddetti orientamenti di fondo si aprì il 4 maggio 1946 il primo congresso provinciale della Camera del Lavoro83. A tale
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Cfr. Relazione congressuale cit. (a nota 20). Cfr. Archivio della Società Terni, Consiglio di amministrazione, vol. 27, adunanza dei 9 maggio 1946. Cfr. Relazione congressuale cit. (a nota 20). Su questo cfr. la diversa documentazione contenuta in ACLT, MD 1946, fasc. “Congresso camerale 4-5 maggio 1946”.
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Cfr. la relazione della Segreteria della Federazione Comunista Ternana, 30 marzo 1945, in APC, Mat. Fed., loc. cit., fo. 1140. Cfr. ivi, fo. 1141. Cfr. la relazione della sezione sindacale della Federazione Comunista Ternana, in APC, Mat. Fed., b. “Terni 1945-1948”, fasc. MF 090, fo. 1191.
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scadenza l’organismo sindacale si presentò con un positivo quadro organizzativo: nel 1945 aveva infatti raggiunto un totale di 18.411 iscritti distribuiti in 22 sindacati di categoria. Per di più nell’anno in corso erano già state rinnovate 14.467 tessere, e ciò faceva sperare di poter chiudere il 1946 con 20.000 tesserati. Inoltre, pur se con qualche difficoltà, era stato possibile istituire camere del lavoro sezionali in alcuni dei maggiori centri della provincia. Considerevole appariva anche il bilancio delle attività rivendicative intraprese dalla CDL e, conseguentemente, degli obiettivi raggiunti in favore dei lavoratori. Infatti, in linea generale, le richieste del sindacato avevano sempre trovato accoglimento da parte della Terni e delle altre principali imprese cittadine. Ciò era avvenuto soprattutto perché l’organizzazione sindacale ternana nei suoi rapporti con le aziende aveva potuto avvalersi largamente della favorevole situazione determinatasi per il movimento operaio nella città all’indomani della Liberazione. Peraltro questo stato di cose aveva anche evitato alla CDL di dover avviare, dopo il periodo turbolento dell’immediato dopoguerra, iniziative rivendicative particolarmente intense. Per questa ragione nel 1945 all’interno dei maggiori stabilimenti ternani si erano avuti, per lo più, scioperi simbolici di carattere politico. Tuttavia ad una sensibile ripresa di scioperi di carattere sindacale l’organizzazione dei lavoratori era stata significativamente costretta a partire dalla primavera del 1946, in coincidenza non casuale con il mutamento generale in atto del rapporto di forza tra le classi e, nella fattispecie, con il sopravveniente irrigidimento delle direzioni aziendali nei confronti delle richieste operaie. Pertanto interessante tracciare un rapido quadro riassuntivo degli scioperi proclamati della CDL nell’arco di tempo compreso tra la sua stabilizzazione organizzativa (fine 1944) e il suo primo congresso: - 21 febbraio 1945: 10 minuti di sciopero generale in segno di protesta contro la devastazione avvenuta a Roma della redazione del “l’Avanti” ad opera di un gruppo di marinai. La sospensione del lavoro fu concordata con la direzione aziendale84. - 7 aprile 1945: 15 minuti di sciopero generale in segno di protesta contro la fuga del generale Roatta85. - 12 aprile 1945: sospensione del lavoro allo stabilimento siderurgico e comizio di protesta del segretario della CDL, Inches, contro la debolezza con cui le autorità di PS procedevano nei confronti degli ex fascisti locali. Il giorno seguente vennero arrestati diversi esponenti fascisti86.
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- luglio 1945: sospensioni dei lavoro e comizi interni nei maggiori stabilimenti per appoggiare le proposte per l’incremento dell’attività produttiva avanzate, attraverso un memoriale, dalla CDL al governo87. - novembre 1945: mezz’ora di sciopero generale in segno di protesta contro la crisi del governo Parri88. - 7 febbraio 1946: un’ora di sciopero generale in segno di protesta contro l’arresto del segretario provinciale della Federmezzadri, Giuseppe Bravetti, avvenuto nel corso di una vertenza mezzadrile ad Orvieto il 5 febbraio. Il dirigente sindacale fu accusato di aver usato espressioni offensive nei confronti del sostituto procuratore del regno di Orvieto. Processato per direttissima l’1 febbraio, Bravetti fu condannato a 10 mesi di reclusione con il beneficio della condizionale89. - 22 febbraio 1946: una giornata di sciopero allo Jutificio Centurini contro il provvedimento di sospensione preso dalla direzione aziendale – e giustificato da diminuzione di lavoro – nei confronti di 100 operaie. In segno di solidarietà con l’agitazione in corso allo Iutificio anche i lavoratori dello stabilimento siderurgico effettuarono 15 minuti di sciopero. La vertenza fu composta il giorno successivo con l’impegno da parte della direzione aziendale di riassumere entro breve tempo le operaie sospese o, quanto meno, di ammetterle al lavoro in turno con altre operaie90. - 28 marzo 1946: un’ora di sciopero allo stabilimento siderurgico ed allo stabilimento elettrochimico di Papigno in segno di protesta contro la lentezza con cui si procedeva alla soluzione dei diversi problemi dei lavoratori (unificazione dei contributi, disoccupazione, perequazione salariale, scala mobile sull’indennità di contingenza). L’accordo perequativo per i lavoratori dell’Italia centromeridionale, con cui vennero soddisfatte in parte le richieste operaie, fu raggiunto il 23 maggio 194691. Complessivamente positivo sembrava dunque presentarsi il bilancio delle attività svolte – in più direzioni – dalla CDL in favore delle masse operaie. Al congresso camerale esse vennero ricordate in una dettagliata relazione introduttiva presentata dalla segreteria uscente. Accanto agli aspetti positivi la relazione correttamente riconosceva anche gli aspetti involutivi che in quel particolare momento andavano caratterizzando la situazione nazionale e locale. Questi ultimi venivano tuttavia presentati – verosi-
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Cfr. il rapporto dei prefetto, 8 agosto 1945, in ACS, MI Gab 1944-46, b. 247, fasc. 24383. Su questa vicenda cfr. anche quanto detto precedentemente. Cfr. In tutti gli stabilimenti gli operai hanno protestato contro la crisi, “l’Unità”, 1 dicembre 1945, cronaca di Terni. Cfr. la relazione del prefetto sulla situazione politica ed economica nella provincia di Terni nel mese di febbraio 1946, 6 marzo 1946, in ACS, MI, DGPS, DGR 1931-1949, b. 74 B, fasc. “Terni - Affari provinciali”. Cfr. ibidem. Cfr. le relazioni del prefetto sulla situazione politica ed economica nella provincia di Terni nei mesi di marzo e maggio 1946, 9 aprile 1946 e 1 giugno 1946, ivi. Scioperi per vere e proprie rivendicazioni aziendali furono
Gli operai e il movimento operaio a Terni
I sindacati e le camere del lavoro sezionali e circondariali della provincia di Terni, riuniti nel I congresso della Camera del Lavoro Provinciale di Terni nei giorni 4 e 5 maggio 1946, udita la relazione della segreteria e del direttivo, plaudono la opera svolta che ha dato la dimostrazione come la volontà di uomini al di sopra di ogni tendenza politica e religiosa, nel clima dell’unità sindacale, possa veramente raggiungere le mete designate. Il congresso, esaminato più profondamente i problemi economici, salariali, della ricostruzione, nonché quelli della organizzazione dei sindacati, DELIBERA 1) di svolgere una viva pressione ed una più intensa opera perché l’industria sidero-metallurgica accelleri il suo ritmo verso una completa sua trasformazione da industria di guerra in quella di pace, che possa permettere di dare occupazione a vasti strati di lavoratori. A tale scopo chiede una sollecita istituzione dei Consigli di gestione; 2) premere vivamente sulle autorità locali e centrali per una larga politica di ricostruzione delle città per dare una degna abitazione ai cittadini; 3) perseguire una politica salariale di adeguamento al costo della vita, parallelamente ad una stretta sorveglianza di controllo sui prezzi; 4) appoggiare lo sviluppo delle cooperative; 5) impegnare le organizzazioni per una pronta risoluzione delle vertenze dei contadini, che li porti ad un miglioramento della loro esistenza onde porli allo stesso livello economico, culturale e sociale degli altri lavoratori;
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comunque messi in atto solo all’indomani della conclusione del congresso. Infatti dal 9 al 23 maggio 1946 vennero attuati una lunga serie di scioperi quotidiani di 15 minuti (talvolta di un’ora) negli stabilimento elettrochimici della Società Terni per ottenere l’equiparazione salariale degli operai chimici con quelli siderurgici. La richiesta dei lavoratori, che aveva l’appoggio della CGIL nazionale, venne accolta. Su questa vertenza cfr. la relazione del prefetto sulla situazione politica ed economica nella provincia di Terni nel mese di maggio 1946, 1 giugno 1946, ivi. Relazione congressuale cit. (a nota 20).
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milmente per le ragioni ricordate – come appartenenti ad una fase transitoria e, quindi, destinati ad essere superati in breve tempo. Se infatti nel documento congressuale si riconosceva che il “capitale finanziario è in sciopero per vincere la battaglia che ha ingaggiato contro la democrazia” , ciò non impediva comunque di fare – contemporaneamente – ottimistiche previsioni per il futuro, come significativamente dimostra la seguente analisi di prospettiva contenuta nella relazione: “L’attuale situazione politica ha creato una certa stasi [nel lavoro di ricostruzione], ma sarà quanto prima ripreso. Si è perduto del tempo prezioso, ma sapremo riguadagnarlo”92. Non esistendo alcun resoconto completo del congresso risulta difficile ricostruirne dettagliatamente lo svolgimento. Si può comunque dire con certezza che lo stesso ottimismo della relazione introduttiva è rinvenibile anche nella mozione di chiusura, così ricca di indicazioni, in apparenza, di facile realizzazione. In essa infatti si diceva quanto segue:
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6) seguire con più energia una vasta campagna perché gli stabilimenti della Gomma Sintetica e della SPEA di Narni siano restituiti quanto prima alla produzione, chiedendo il sollecito sgombero degli internati fascisti, autori del disastro della nazione93. 7) sviluppare sempre più e sempre meglio la organizzazione interna della Camera del Lavoro; delle organizzazioni dei lavoratori, in modo che tutti debbono aderire a questa istituzione arma di difesa dei lavoratori stessi; 8) promuovere e fiancheggiare opere di beneficenza per i lavoratori, reduci bisognosi e disoccupati, nello spirito di solidarietà popolare. A tale scopo la Camera del Lavoro darà il suo apporto alle associazioni di beneficenza a carattere di massa e che non abbiano colorazione politica. 9) compiere ogni sforzo sulle direttive della CGIL per un sollecito ritorno alla vita civile dei reduci, senza danneggiare altri lavoratori, con una politica di fattivo lavoro e non di sussidi; 10)chiedere alle autorità competenti che l’Ufficio di Collocamento ritorni alle organizzazioni sindacali. Nel campo nazionale il congresso conferma di adottare ogni pressione perché il programma della CGIL per la realizzazione delle 4 riforme e cioè: a) riforma della grande industria, b) riforma delle banche, e) riforma agraria e divisione del latifondo, d) riforma dell’istituto previdenziale, siano al più presto realizzate. Il congresso, riafferma la necessità di una più stretta unione dei lavoratori d’Italia e del mondo, condizione essenziale per un più costante miglioramento di tutti i lavoratori per ottenere pane, pace, lavoro e libertà94.
Tuttavia la vittoria elettorale delle sinistre, che avrebbe permesso l’instaurarsi di condizioni politiche ed economiche favorevoli al movimento operaio ed a cui era in gran parte legato per la sua realizzazione il programma rivendicativo della CDL ternana, non si verificò. Accanto ad una vittoria di stretta misura dello schieramento repubblicano, si ebbe infatti una generale affermazione dei partiti moderati e conservatori. Pertanto, anche se a Terni le forze politiche moderate si erano rivelate assai deboli, nella seconda parte dei 1946 l’organizzazione sindacale ternana si trovò a dover affrontare, ormai senza illusioni ed in un contesto di forte acutizzazione dello scontro sociale, un vasto processo di “restaurazione” condotto dalle tradizionali forze dominanti sia nelle fabbriche che nella società.
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La SAIGS e la SPEA erano due piccole industrie alle quali l’asportazione di macchinari da parte dei tedeschi aveva impedito la pronta ripresa produttiva. Le loro strutture venivano pertanto usate dagli alleati come campi di concentramento per fascisti e collaborazionisti. La mozione di chiusura del congresso si trova in ACLT, MD 1946, fasc. “Congresso camerale 4-5 maggio 1946”.
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Conflittualità operaia nella Società Terni dalla Liberazione alla svolta del 1948
Nel giugno 1944 “il passaggio del fronte” trova la Società Terni – complesso industriale del gruppo IRI – in uno stato di completa paralisi produttiva1. Gli impianti siderurgici, elettrici e chimici ed i relativi “organi integratori” – le miniere di lignite, la cementeria, la fabbrica di laterizi, la ferrovia sociale – risultano tutti danneggiati, sia pure in maniera diversa, dai bombardamenti, dalle spoliazioni dei tedeschi e, soprattutto, dalle distruzioni da essi effettuate durante la ritirata2. Il più colpito è il comparto elettrico, dove i guastatori tedeschi, al momento della ritirata, hanno fatto saltare le più importanti centrali, riducendo la potenza elettrica della Terni da “340.000 kw a 250 kw, installati in una vecchia centralina dimenticata”3. Lo spostamento del fronte provoca anche l’interruzione delle comunicazioni tra gli stabilimenti e la direzione generale situata a Genova. In previsione di ciò, da parte del consiglio di amministrazione della Terni, nell’adunanza del 27 ottobre 1943, era stato nominato con un lungimirante provvedimento un secondo comitato direttivo, con sede a Roma, composto dal vice presidente della società, Girolamo Ippolito, e dai consiglieri Domenico De Simone e Basilio Focaccia4. Sono pertanto questi i dirigenti che si trovano ad affrontare il problema di avviare la ricostruzione e la ripresa produttiva in una situazione di grande difficoltà, dettata, soprattutto, dalla necessità di studiare per il comparto siderurgico – da sempre adibito a produzioni belliche – un programma di riconversione industriale. Peraltro appare subito chiaro come non sia possibile cercare soluzioni, senza tener conto della volontà di partecipare alle scelte dimostrate dai lavoratori5. Essi, consapevoli di aver costituito il nucleo centrale della resistenza, non mancano di dimostrare di aver riacquistato la coscienza della propria forza e la capacità di dar vita a momenti di intensa mobilitazione.
L’articolo è stato pubblicato con lo stesso titolo in “Proposte e ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale”, n. 29, 1992. 1
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In generale sulle vicende della Società Terni cfr. F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Torino 1975. Si veda ACS, PCM 1944-1947, b. 3.1.10, fasc. 11379, relazione del consiglio di amministrazione della Società Terni all’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945. P. Vasio, Vita della “Terni”. Cronaca dal 1884 al 1965, Terni, s.d., p. 87. Si veda ASOT, CA, vol. 27, adunanza del 27 ottobre 1943.
Conflittualità operaia nella Società Terni dalla Liberazione alla svolta del 1948
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Difatti, in relazione al problema della ricostruzione degli impianti industriali della Società Terni, da parte operaia vengono subito poste due precise richieste: il rapido ripristino dell’attività produttiva nei suoi diversi settori e l’avvio di un vasto processo di epurazione. Ma alle rappresentanze politiche e sindacali dei lavoratori che, in particolare, avevano chiesto di discutere un programma di riorganizzazione e riconversione produttiva, i dirigenti della “Terni”, forti della protezione degli alleati e consapevoli delle incerte prospettive del settore siderurgico, presentano un programma industriale che prevede una parziale smobilitazione degli impianti siderurgici e, soprattutto, una momentanea stasi produttiva. Posti di fronte alla prospettiva di una generalizzata disoccupazione, i rappresentanti sindacali reagiscono proclamando lo stato di agitazione in tutto il complesso industriale, chiedendo altresì la direzione amministrativa degli stabilimenti6. La vertenza viene condotta con il duplice intento di imporre, con la ripresa produttiva, anche l’epurazione del quadro direttivo aziendale accusato di essere largamente compromesso con il fascismo e di voler liquidare il comparto siderurgico. Nel corso delle trattative le rappresentanze operaie si dimostrano disponibili ad un’unica forma di transazione che prevede il temporaneo allontanamento di una parte delle maestranze, a patto che sia loro corrisposta la paga a tempo indeterminato7. A causa della larga mobilitazione e solidarietà nei confronti dei lavoratori dimostrata dai diversi strati sociali cittadini, ma anche della forte valenza politica che motiva il rifiuto operaio del rapporto salario-produttività, gli echi del serrato confronto apertosi a Terni giungono in ambiente governativo, costringendo lo stesso presidente del Consiglio ad intervenire. Il 14 agosto 1944 Bonomi, preoccupato per possibili sbocchi incontrollati dell’agitazione degli operai ternani, invia al capo esecutivo dell’Allied Control Commission, ammiraglio Stone, una lettera, in cui lo invita – vista la “rilevante importanza del caso” – ad appoggiare il Ministero dell’Industria al fine di trovare una “sollecita soluzione” per i problemi relativi alla ripresa produttiva della Società Terni8. In considerazione del rilevante contributo che gli impianti siderurgici ternani sono in grado di dare “nella fabbricazione di acciaio per la ricostruzione di un paese danneggiato”, la Sottocommissione Alleata per l’Industria avvia, in collaborazione con i tecnici aziendali, un programma di riconversione produttiva che, se pure
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In generale sulle vicende politiche, sociali ed economiche dei primi anni postbellici si veda G. Canali, Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione, Terni 1984; Id., Sindacato, grande industria e società a Terni dalla liberazione alla Costituente, in “Sindacato e Società”, nn. 2 e 3-4, 1986. ACS, MI Gab 1944-1946, b. 18, fasc. 1359, relazione del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, 22 luglio 1944. Ibidem. ACS, MI Gab 1944-1946, b. 18, fasc. 1359, lettera del capo di gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 3 ottobre 1944. ACS, MI Gab 1944-1946, b. 18, fasc. 1359, lettera del capo dell’Allied Control Commission al presidente del Consiglio, 12 settembre 1944.
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ACS, PCM 1944-1947, b. 3.1.10, fasc. 11379, relazione del consiglio di amministrazione della Società Terni all’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945. ACS, MI Gab 1944-1946, b. 18, fasc. 1359, relazione del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, 23 ottobre 1944. ACS, PCM 1944-1947, b. 3.1.10, fasc. 11379, nota informativa del commissario straordinario dell’IRI, 20 ottobre 1944.
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legato alle necessità congiunturali del mercato, consente una larga occupazione9. Pertanto, nel settembre del 1944, le Acciaierie ternane – uscite dalla guerra con una capacità produttiva ridotta al 18% – sono già in grado di produrre 2.000 tonnellate mensili di acciaio e di dare occupazione a circa 1.600 operai. Alla fine dell’anno, un ulteriore incremento produttivo porta alla riassunzione, sempre nel solo settore siderurgico, di oltre 4.000 lavoratori. Per di più, con la riattivazione degli impianti siderurgici, si rende possibile la riparazione, e spesso la completa ricostruzione, di macchinari ed attrezzature meccaniche essenziali per la ripresa della produzione nelle centrali elettriche e negli altri stabilimenti del gruppo Terni. Ciò consente, allo scadere dell’anno, un intenso fervore produttivo in ogni settore del complesso industriale10. Tuttavia, anche se il recupero delle attività ha vanificato la richiesta aziendale di licenziare la manodopera sovrabbondante, negli stabilimenti ternani non si registra il ritorno alla normalità. Il mancato avvio di un serio processo di epurazione continua infatti ad alimentare un notevole fermento tra gli operai. Il 10 ottobre 1944, nel corso di un’assemblea, da parte di circa 5.000 lavoratori viene votato un ordine del giorno che esplicitamente chiede ai responsabili governativi la gestione commissariale per la Società Terni. Tale richiesta ottiene in seguito “l’approvazione di tutta la cittadinanza ternana”11. Visti i falliti tentativi dell’IRI e della “Terni” di prendere “provvedimenti adatti ad una normalizzazione dell’ambiente”12, i competenti organi governativi si vedono costretti ad intervenire di nuovo in prima persona per trovare una soluzione in grado di far cessare lo stato di agitazione negli stabilimenti ternani. Il difficile compito di comporre la vertenza viene affidato al sottosegretario all’Industria Molinelli, che per raggiungere il suo scopo promuove una riunione a Terni con le maestranze dell’azienda. Nel corso dell’assemblea operaia, tenutasi il 3 novembre 1944 in un teatro cittadino, il rappresentante governativo riesce a comporre la spinosa controversia. Dopo aver dato le più ampie garanzie sull’appoggio governativo “a che l’industria della Terni progredisca sempre più e meglio”, Molinelli assicura, tra l’altro, che “il governo democratico italiano, in considerazione del capitale finanziario che lo Stato tiene impegnato nel grande complesso della Terni”, avrebbe in seguito permesso l’immissione di una rappresentanza di operai ed impiegati all’interno del consiglio di amministrazione della società. Inoltre il sottosegretario autorizza anche la “creazione di una Commissione di Epurazione e Sele-
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zione tendente ad eliminare dalla Terni tutti quegli elementi che per varie ragioni non godono più alcuna fiducia e stima fra le maestranze”13. Da parte dell’incaricato governativo viene esclusa la gestione commissariale dell’azienda, alla cui guida deve rimanere il comitato direttivo in carica. Di certo, la fermezza dimostrata su questo punto risulta una diretta conseguenza del fatto che l’ammiraglio Stone in una lettera indirizzata al presidente del Consiglio aveva lodato l’opera della direzione aziendale, definendola “leale, efficiente, ed energica”14. Sono però concessi il trasferimento a Terni – appena possibile – della sede della direzione generale e la nomina al suo vertice di due dirigenti, che hanno il consenso dei lavoratori, Vincenzo Landi e Carlo Buscaglia15. L’assemblea di novembre chiude, dunque, un periodo in cui la mobilitazione operaia è riuscita ad ottenere importanti conquiste e posizioni di potere, soprattutto una situazione di maggior libertà e di democrazia in fabbrica. In particolare gli organi di rappresentanza dei lavoratori si trovano ad avere un forte potere di contrattazione nei confronti della direzione aziendale. Sono, infatti, i soli in grado di attenuare il clima di insofferenza verso la disciplina produttiva e la gerarchia aziendale presente tra le frange operaie più radicali. Sull’ondata contestativa di cui sono vittime i dirigenti e le gerarchie di fabbrica appare certamente illuminante quanto denuncia, nel novembre 1944, il commissario straordinario dell’IRI: Purtroppo [...] negli ultimi giorni si sono verificati incidenti di cui è evidente tutta la gravità: la denuncia dell’ing. Giovanni Martinelli, addetto ai lavori di ricostruzione di Cotilia; la denuncia dell’ing. Francesco Bronzini, direttore dei lavori di Cotilia e degli impianti del Vomano; l’aggressione dell’ing. Domenico Pietromarchi, vice direttore tecnico dei servizi elettrici, designato dalla Commissione Alleata quale ripartitore del carico elettrico per l’Italia Centrale; le minacce di aggressione all’ing. Edoardo Bochicchio ed all’ing. Ermanno Gigli, ai quali è affidata la ricostruzione delle centrali e delle linee elettriche; l’allontanamento violento dal posto di lavoro del sig. Eleodori, capo turno alla centrale di Galleto16.
Relativamente al ruolo determinante svolto in questa difficile congiuntura dalle
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Si veda La “Terni”, in “La Turbina”, organo settimanale dei tre partiti di massa di Terni, n. 2, 12 novembre 1944. ACS, MI Gab 1944-1946, b. 18, fasc. 1359, promemoria per il sottosegretario di Stato, 31 ottobre 1944. ACS, PCM 1944-1947, b. 3.1.10, fasc. 11379, relazione del consiglio di amministrazione della Società Terni all’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945. In particolare l’ingegner Carlo Buscaglia si era distinto per aver guidato un gruppo di operai armati nella difesa delle miniere i cui impianti stavano per essere fatti saltare dai guastatori tedeschi. Su questo episodio si veda C. Buscaglia, Società “Terni” per l’Industria e l’Elettricità. Rapporto sull’azione contro alcuni militari tedeschi trattenutisi presso le miniere di Spoleto, Cantiere Orlando, allo scopo di distruggere gli impianti, in L’Umbria nella Resistenza, vol. II, a cura di S. Bovini, Roma 1972, pp. 340-342. ACS, MI Gab 1944-1946, b. 18, fasc. 1359, relazione del commissario straordinario dell’IRI, 14 novembre 1944.
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organizzazioni sindacali e dagli organismi operai di fabbrica, sono altrettanto chiarificatrici le testimonianze di alcuni protagonisti: Il dopoguerra – ricorda Faliero Corvo, allora segretario provinciale della FIOM – è stato anche, per certi aspetti, un periodo triste. Perché? Perché c’era l’euforia delle masse che volevano, mentre le possibilità erano limitate. [...] Anche per quanto riguarda l’epurazione non poteva che essere un’epurazione relativa, altrimenti, per giusta regola, i dirigenti dovevi mandarli via tutti. Ed infatti dopo ha preso la questione in mano il sindacato ed ha tenuto le masse in ordine17.
Allo scopo di attenuare il fermento delle maestranze, il 13 gennaio 1945, quanto previsto in merito alla democratizzazione del consiglio di amministrazione viene ratificato da Società Terni, IRI e CGIL in un accordo, che si configura come “un primo ma decisivo passo verso una fattiva collaborazione, anche nel campo amministrativo, tra la Società e i dipendenti”. In esso è previsto che l’azionista di maggioranza avrebbe a suo tempo proposto all’assemblea [dei soci] di inserire nel consiglio di amministrazione [con voto deliberativo] una rappresentanza dei dirigenti, degli impiegati e degli operai, e che intanto tale rappresentanza avrebbe costituito una commissione di azienda che avrebbe assistito il comitato [direttivo] in tutte le sue deliberazioni con voto consultivo19.
In questa fase di ricerca di una nuova e più democratica impostazione dei rapporti di produzione, l’accordo – il primo del genere – si configura, in campo nazionale, come un punto di riferimento20. Del resto l’ingresso di una rappresentanza dei dipendenti dell’azienda nell’organo amministrativo societario costituisce, nelle intenzioni di chi per questo obiettivo si è battuto, “un grande ammaestramento
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Testimonianza resa all’Autore il 28 ottobre 1980. Testimonianza resa all’Autore il 3 novembre 1980. ACS, PCM 1944-1947, b. 3.1.10, fasc. 11379, relazione del consiglio di amministrazione della Società Terni all’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945. A tale proposito si veda quanto affermato da Giuseppe Di Vittorio nel rapporto introduttivo al I congresso delle organizzazioni sindacali della CGIL dell’Italia liberata (Napoli, 28 gennaio - 1 febbraio 1945), in I congressi della CGIL, vol. I, Roma 1949, p. 111.
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Nella azienda – aggiunge Arnaldo Menichetti, segretario della Commissione Interna dello stabilimento siderurgico nei primi anni del dopoguerra – c’era uno stato d’agitazione continua [...]. L’attività della Commissione Interna era perciò molto intensa, soprattutto perché era tutto nelle mani della Commissione Interna. Tutto doveva essere risolto da essa più che dal sindacato. Il sindacato si era trovato alle prese con una situazione salariale la più disparata e quindi era completamente assorbito insieme con la direzione in un lavoro di ricostruzione delle tabelle, per aggiungere, accomodare e così via. Spettava perciò a noi rispondere a tutte le rivendicazioni giornaliere che venivano fuori a getto continuo18.
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per l’avvenire, cioè nel momento in cui il popolo lavoratore tutto sarà chiamato alla compartecipazione nella grande industria nella società futura”21. Con la liberazione del Nord si rende possibile la risoluzione di alcuni decisivi problemi, che erano stati temporaneamente accantonati in attesa del ricongiungimento degli stabilimenti ternani con la direzione generale di Genova. Si deve, innanzitutto, portare a conclusione il processo di defascistizzazione della società, epurando i dirigenti rimasti al nord. La contestazione operaia è indirizzata, soprattutto, contro il presidente ed amministratore delegato Arturo Bocciardo – legato da personali rapporti di amicizia a Mussolini22 – e contro i due direttori generali, Giorgio Avallone e Canio Bochicchio. Da parte sua Bocciardo, prendendo atto della situazione, il 18 maggio con una lettera al vicepresidente della società, Ippolito, rassegna le dimissioni23. Nella scelta del suo successore emerge di nuovo il ruolo degli operai. Nel giugno 1945 in un’assemblea di lavoratori della Società Terni, convocata dai partiti del Comitato di Liberazione Nazionale per discutere del futuro assetto produttivo dell’azienda, viene infatti acclamato come presidente della Terni Tito Oro Nobili, un vecchio dirigente socialista, perseguitato politico, antifascista24. È però interessante sottolineare come questa designazione alla presidenza della Terni di Tito Oro Nobili trovi, all’interno del movimento operaio, anche degli avversari. Essa infatti viene osteggiata sia dalle frange più radicali della classe operaia che vi vedono un elemento di eccessiva compromissione con il sistema capitalistico25 sia dalla sezione ternana del Partito Repubblicano che delle critiche serpeggianti tra i lavoratori si fa portavoce sul proprio giornale26.
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La “Terni”, in “La Turbina”, n. 2, 12 novembre 1944. Sui rapporti tra Bocciardo e Mussolini cfr. Bonelli, Lo sviluppo cit. (a nota 1), pp. 220-222. ASOT, CA, vol. 27, adunanza del 12 settembre 1945. Nonostante il suo volontario allontanamento dalla Società Terni, Bocciardo viene in seguito sottoposto ad un duplice giudizio, dapprima da un tribunale partigiano del Comitato di liberazione nazionale, poi dall’Alta corte di giustizia. In entrambi i casi egli è assolto dalle imputazioni che gli venivano mosse. Si veda Bonelli, Lo sviluppo cit. (a nota 1), pp. 246-247. Si veda F. Bogliari, Tito Oro Nobili: biografia critica con appendice documentaria, Perugia 1977. Al riguardo Faliero Corvo (testimonianza citata) ricorda quanto segue: “la questione di Nobili ad un certo momento è stata in bilico, perché c’era chi in quel posto ce lo vedeva e chi non ce lo vedeva. I socialisti erano entusiasti, mentre parecchi comunisti erano titubanti. Infatti quelli sono posti che quando li hai sei costretto a tenere una determinata linea”. Del resto, all’interno del movimento operaio, sono presenti dubbi ed incertezze anche a proposito della partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle aziende pubbliche: su questo si veda P. Rugafiori, La “ricostruzione” in una grande azienda IRI in crisi: l’Ansaldo (1945-1948), in L. Ganapini et al., La ricostruzione nella grande industria, Bari 1978, pp. 394-395. Nell’ottobre 1945 “La Ragione”, organo settimanale dei repubblicani ternani, pubblica un comunicato del comitato direttivo della sezione ternana del PRI in cui si manifesta un netto dissenso a proposito dell’assunzione della presidenza della Società Terni da parte di Nobili. Il comunicato, tra l’altro, dice: “[si] ravvisa una stridente contraddizione e una palese incompatibilità nel fatto che l’esponente di un Partito democratico e proletario vada a presiedere una Società che, nell’attuale ordinamento sociale, è e rimane una Società capitalistica”. Il brano è tratto da Beldemonio, Corsivo 8, in “Avanguardia”, settimanale della gioventù socialista di Terni, n. 20, 8 ottobre 1945.
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ASOT, CA, vol. 27, adunanza del 12 settembre 1945. Oltre ad ACS, PCM 1944-1947, b. 3.1.10, fasc. 11379, relazione del consiglio di amministrazione della Società Terni all’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945, cfr. ASOT, CA, vol. 27, adunanza del 26 settembre 1945. Dal gennaio 1945 Oscar Sinigaglia ricopriva l’incarico di commissario della Finsider. Sulla figura di Oscar Sinigaglia, oltre ad Acciaio per l’industrializzazione. Contributo allo studio del problema siderurgico italiano, a cura di F. Bonelli, Torino 1982, cfr. L. Villari, Le avventure di un capitano d’industria, Torino 1991. Per Carlo Buscaglia si precisa: “a riconoscimento dell’attività svolta a favore dell’azienda”. Cfr. ASOT, CA, vol. 27, adunanza del 26 settembre 1945. Sulle vicende dell’IRI nel secondo dopoguerra cfr., tra gli altri, M.V. Posner e S.J. Woolf, L’impresa pubblica nell’esperienza italiana, Torino 1967, pp. 36 sgg.; C. Daneo, La politica economica della ricostruzione 19451949, Torino 1975, pp. 306-318.
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Nel settembre 1945, con le dimissioni di alcuni consiglieri della società, viene provocata la cosiddetta “vacanza della maggioranza” che, a norma dello statuto societario, comporta la decadenza del consiglio in carica e l’elezione di uno nuovo27. La scelta dei nuovi consiglieri da parte dell’assemblea degli azionisti – convocata in breve tempo – è contrassegnata da un profondo rinnovamento. Dei vecchi amministratori sono riconfermati soltanto i tre membri del secondo comitato direttivo: Girolamo Ippolito, Basilio Focaccia e Domenico De Simone. Tra i nuovi consiglieri vengono eletti anche i rappresentanti degli operai, degli impiegati e dei quadri tecnici: Giuseppe Bolli, Giovanni Celi, Osvaldo Cintioli, Augusto Guidi e Carlo Seganti. Gli altri eletti sono: Tito Oro Nobili, Oscar Sinigaglia, Vincenzo Landi, Giovanni Malquori, Enrico Ottolenghi, Guido Vignuzzi28. Nella prima riunione del rinnovato organo amministrativo aziendale vengono poi ripartite le cariche societarie. La presidenza della società è affidata a Tito Oro Nobili; Girolamo Ippolito ed Oscar Sinigaglia sono invece nominati vicepresidenti29. Ad Ippolito viene anche data la carica di amministratore delegato. Negli incarichi di direttore generale sono confermati Carlo Buscaglia e Vincenzo Landi30. Con questo assetto direttivo, che vede affidata ad un esponente socialista la massima carica societaria, giunge a termine il processo di democratizzazione del quadro dirigente aziendale che era stato uno degli obiettivi prioritari della mobilitazione operaia dell’immediato dopoguerra. Il problema principale che si presenta ai nuovi dirigenti è quello di dare all’intero complesso industriale un indirizzo produttivo meno legato alla congiuntura della ricostruzione. Ma la soluzione appare subito tutt’altro che facile, soprattutto a causa dello stato di disorganizzazione interna e di sostanziale immobilismo in cui versa l’IRI31. La situazione caotica dell’istituto lascia, infatti, la dirigenza aziendale priva di direttive e, quel che è peggio, di un qualsiasi piano di ricostruzione del settore industriale pubblico da cui trarre orientamenti di prospettiva. In assenza di precise coordinate entro cui muoversi, ed anche della possibilità di ottenere consistenti aiuti finanziari a condizioni agevolate, è quindi giocoforza per i dirigenti della Terni confermare il vecchio modello di organizzazione industriale, limitandosi a provvisorie soluzioni di ammodernamento tecnico in alcuni settori e
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ad una circoscritta riconversione a produzioni commerciali. D’altro canto questa soluzione, che aveva permesso in tempi brevi la ricostruzione ed il recupero produttivo degli impianti, non sembra completamente immotivata agli amministratori della società32. Sulla fiducia da essi nutrita nei confronti del modello polisettoriale, basato sul massimo dell’integrazione fra le diverse unità produttive, appare eloquente quanto affermato nella relazione di bilancio dell’esercizio 1944:
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soprattutto con le possibilità che ha la nostra Società di bastare in gran parte a sé stessa, possibilità che, pur senza esagerarne il valore, ha però oggi certamente notevole importanza, si ha fiducia di superare la crisi che investe l’industria similare italiana e di raggiungere l’equilibrio economico della nostra complessa attività33.
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Peraltro, in questa fase, nelle relazioni di bilancio o di attività della “Terni” – come, del resto, avviene anche nelle altre aziende IRI – si evidenzia “un fenomeno eccezionale, assolutamente nuovo nella storia industriale”34: tra i criteri orientativi delle scelte industriali un posto di rilievo viene attribuito alla “funzione sociale che un complesso industriale come la ‘Terni’ è chiamato a compiere”35. E, infatti, questa congiuntura, che in seguito verrà ricordata come la fase Nobili o Buscaglia – “il periodo di paternalismo e della bonomia verso gli operai”36 – è caratterizzata da una particolare attenzione dimostrata dalla direzione aziendale nei confronti delle richieste e delle necessità operaie; si cerca, soprattutto, di far fronte al drammatico problema della disoccupazione derivante dal ritorno dei reduci e dei prigionieri di guerra. Sollecitata da una forte pressione delle organizzazioni dei lavoratori, la dirigenza aziendale consente, infatti, ad assumere personale anche in esuberanza37. Del resto sia essa, sia i dirigenti sindacali, non possono non tener conto dei segnali precisi che provengono dall’interno del mondo del lavoro. Agitazioni, fermate spontanee, scioperi improvvisi, intimidazioni rivolte al personale dirigente sono i mezzi attraverso i quali i lavoratori manifestano i livelli di autonomia raggiunta, la propria insofferenza verso la tradizionale disciplina produttiva e, soprattutto, la volontà di non voler andare oltre una determinata soglia di “collaborazione”. Al riguardo risulta senza dubbio significativo quanto 154 operai, nell’ottobre 1945, scrivono in una lettera aperta – pubblicata sul settimanale
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Si veda Bonelli, Lo sviluppo cit. (a nota 1), p. 249. ASOT, AA, riunione del 28 gennaio 1946, relazione del consiglio di amministrazione. O. Sinigaglia, Lavoratori e produzione. 15 luglio 1946, Roma 1946, p. 11. ACS, PCM 1944-1947, b. 3.1.10, fasc.11379, relazione del consiglio di amministrazione della Società Terni all’assemblea generale degli azionisti, 26 settembre 1945. CGIL, FIOM sezione provinciale di Terni, Consiglio di Gestione delle Acciaierie, Per la salvezza dell’industria siderurgica ternana. Relazione presentata al convegno della siderurgia ternana, Terni 1950, p. 6. Canali, Sindacato, grande industria e società a Terni dalla Liberazione alla Costituente cit. (a nota 5).
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socialista “Avanguardia” – allo scopo di “sventare alcune manovre tendenti a trarre in salvo” dall’epurazione un dirigente del reparto Fonderia:
La scelta operata dai dirigenti della Terni di favorire al massimo l’occupazione operaia è, comunque, facilitata dall’elevato andamento produttivo, che il complesso industriale ternano continua ad avere dovendo rispondere alle molteplici necessità di ricostruzione del paese. Alla fine del 1945 il numero complessivo degli occupati alla Terni è di 16.429 unità, con un incremento rispetto alla stessa data dell’anno precedente di 5.337 unità39. Nel rendere conto agli azionisti dell’opera svolta nel corso dell’esercizio 1945 gli amministratori della Terni rimarcano questo aspetto: Comunque la Vostra Società non mancò mai di intensificare le proprie produzioni e di trovare nuovi sbocchi e nuove attività, conscia soprattutto dei due fondamentali doveri, che oggi soprattutto debbono presiedere nella conduzione delle aziende: quello di una maggiore produzione possibile per i bisogni civili e quello di assicurare sempre più lavoro alle proprie maestranze, sicché queste traggano dalla certezza del loro pane quello stato di tranquillità che è il fondamento per la ripresa del nostro paese40.
2. La situazione politica ed economica verso cui evolve il Paese non è però tale da consentire la continuazione di un simile stato di cose. Nel dicembre 1945, con la caduta del governo Parri, termina il “periodo eroico della ricostruzione” e si avvia
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In tema di epurazione, in “Avanguardia”, n. 21, 14 ottobre 1945. Vasio, Vita cit. (a nota 3), p. 131. ASOT, AA, riunione del 27 agosto 1946, relazione del consiglio di amministrazione.
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Il predetto signore, repubblichino e reduce dal Nord [...] al suo ritorno ha trovata compatta tutta la massa dei suoi dipendenti i quali con spontanea sottoscrizione lo hanno messo al bando, non solo perché era repubblichino, ma per i suoi sistemi vessatori e affamatori che usava adoperare con loro. Non si ricorda infatti il predetto signore che ripeteva spesso essere le paghe dei suoi dipendenti esagerate dato che al suo paese (Padova) gli operai percepivano 5 lire al giorno? Non ricorda che la quasi totalità dei suoi capi furono costretti a tagliare la corda per le sue ingiustizie, e perché accusati di essere troppo benevoli verso la massa lavoratrice, perché non erano aguzzini, perché non mettevano multe, perché secondo lui la collaborazione fra capo e operaio era indice di debolezza, di incapacità e di volersi creare la popolarità (sue parole testuali) tra la massa? [...]. Ebbene sappia il predetto signore che [...] le sue manovre saranno vane, inquantoché qualunque possa essere il responso della commissione di epurazione, la massa operaia che l’ha conosciuto è sempre decisa a ricacciarlo fuori della porta con i modi e le maniere che a questo messere più si confanno38.
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un processo di spostamento a destra dell’intero asse politico del Paese, che avrebbe reso remota “la possibilità di orientare stabilmente ed efficientemente i processi economici al conseguimento di alcuni obiettivi sociali (in primis l’occupazione)”41. Mentre, sul piano politico, si rivela con sempre maggiore evidenza il disegno delle forze dominanti del Paese volto a ristabilire a tutti i livelli – i tradizionali rapporti di forza tra le classi; sul piano economico, appare palese come si intenda affidare la ricostruzione sempre più al libero automatismo del mercato42. Gli effetti del mutamento in atto non tardano a manifestarsi anche alla “Terni”. Agli inizi del 1946 si verifica un fatto che getta alcune ombre sul futuro del comparto siderurgico dell’azienda ternana. Il vicepresidente della società, Oscar Sinigaglia, nominato presidente della Finsider, rassegna le dimissioni dal consiglio di amministrazione43. Il nome di Sinigaglia è legato ad un ampio progetto di ristrutturazione della siderurgia di stato che, impostato intorno alla metà degli anni trenta, prevede lo sviluppo della siderurgia a ciclo integrale con stabilimenti situati sul mare per rendere più economico il loro approvvigionamento di materie prime44. L’attuazione di questo piano avrebbe comportato un drastico ridimensionamento delle produzioni commerciali da parte della “Terni” siderurgica e, di conseguenza, una forte riduzione dei livelli di occupazione45. Comunque la sollecita sostituzione di Sinigaglia con un suo stretto collaboratore alla Finsider, Ernesto Manuelli, evita che le dimissioni del dirigente vengano interpretate come un disimpegno della finanziaria verso il comparto siderurgico della “Terni”46. Una minaccia immediata ai livelli di occupazione della società viene, piuttosto, dalle aperte prese di posizioni di Sinigaglia contro gli alti costi produttivi derivanti, soprattutto, “dal numero di operai ed impiegati che, pur non avendo da compiere lavoro utile, le industrie sono obbligate a trattenere”47. Nella seconda metà del 1946 comincia ad evidenziarsi come da parte della dirigenza della Finsider sia stata avviata un’operazione mirante a ridimensionare il potere contrattuale degli operai ternani. Gli amministratori nominati in rappresentan-
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S. Lombardini, Riflessioni sulla “Ricostruzione”, in 1945-1975. Italia. Fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento. Conversazioni promosse dal Consiglio Regionale lombardo nel trentennale della Liberazione, Milano 1975, p. 304. Si veda, tra gli altri, E. Piscitelli, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra 1945-1948, Milano 1976. ASOT, CA, vol. 27, adunanza del 12 gennaio 1946. Oltre ad Acciaio cit. (a nota 29), si veda M. Balconi, La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato, Bologna 1991. Bonelli, Lo sviluppo cit. (a nota 1), pp. 255-256. ASOT, CA, vol. 27, adunanza del 9 maggio 1946. In particolare, sui rapporti tra Sinigaglia e Manuelli cfr. P. Rugafiori, I gruppi dirigenti della siderurgia “pubblica” tra gli anni trenta e gli anni sessanta, in Acciaio cit. (a nota 29). Si veda Società Finanziaria Siderurgica Finsider, Problemi della siderurgia (Estratto della relazione del consiglio di amministrazione letta dal presidente ing. 0. Sinigaglia agli azionisti riuniti in assemblea generale ordinaria in Roma il 28 febbraio 1946), Roma 1946; Sinigaglia, Lavoratori cit. (a nota a 34), p. 11. Al riguardo cfr. anche M. Salvati, Stato e industria nella ricostruzione. Alle origini del potere democristiano 1944-1949, Milano 1982, p. 246-247.
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L. Michiorri, L’Acciaieria può produrre mulini, macchine utensili e turbine elettriche, in “l’Unità”, 31 agosto 1946, Cronaca di Terni. Secondo un decreto emanato dal prefetto di Terni, in data 18 luglio 1946, si doveva “procedere al licenziamento dei personale, specialmente femminile, per il quale l’impiego non costituisce l’unica ed essenziale fonte di sostentamento proprio e famigliare nonché di coloro che risultano proprietari di terreni o che li conducono a mezzadria, oppure che posseggano beni mobili e immobili, o che siano contadini, dovendo questi ritornare alla loro primitiva attività, od infine che abbiano altri famigliari presso la stessa od altre ditte, tenendo presente che in questi ultimi casi per tre persone di famiglia ha diritto al lavoro uno solo”. Cfr. ACS, MI Gab 1944-1946, b. 262, fasc. 25417, documentazione diversa. Sulla vertenza cfr. G. Canali, I Consigli di gestione alla Società Terni, in “Indagini”, n. 18, 1982. Che succede alla “Terni”, in “l’Unità”, 9 ottobre 1946, Cronaca di Terni.
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za dei lavoratori – e lo stesso presidente Nobili – sono i primi ad averne percezione, constatando come la loro possibilità di incidere sulla politica aziendale venisse progressivamente ridotta. I consiglieri “operai” sono, infatti, sempre più spesso costretti ad assistere impotenti alle pressioni esercitate, in maniera diretta e palese, dai vertici della finanziaria su dirigenti e tecnici aziendali48. Sono diversi i segnali attraverso i quali cominciano a rivelarsi come aleatorie le aspettative di lavoro e di giustizia sociale, originatesi nell’immediato dopoguerra. Ciò crea acute tensioni all’interno del mondo del lavoro. È, soprattutto, l’impossibilità di far fronte alla crescente disoccupazione che contribuisce ad indebolire lo schieramento di classe, creando fratture al suo interno. Ad esempio, nel settembre 1946, viene accolta con forti malumori la decisione, presa dagli organismi sindacali, di consentire al licenziamento dei cosiddetti “autosufficienti” e dei lavoratori non residenti nella provincia per far posto ai reduci senza lavoro49. Le organizzazioni operaie individuano come cause principali della disoccupazione la lenta opera di riconversione ed il mancato ammodernamento degli impianti siderurgici. Pertanto, rivelatasi priva di efficacia la presenza dei rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di amministrazione della “Terni”, da parte dei dirigenti del movimento operaio si punta tutto sull’istituzione di Consigli di gestione. Questi organismi sono intesi come strutture alternative al potere aziendale e si conta sulla loro capacità di elaborare e far attuare nell’industria ternana un indirizzo produttivo in grado di rendere possibile la massima occupazione. Non a caso, sempre in settembre, nel corso di un’assemblea cittadina organizzata dalla Camera del Lavoro per protestare contro la disoccupazione ed il carovita, viene richiesta l’istituzione dei Consigli di gestione nei diversi stabilimenti del complesso produttivo ternano, minacciando, in caso di rifiuto, un periodo di agitazioni50. La risposta della “Terni” risulta tutt’altro che preoccupata. La richiesta dei lavoratori viene esaminata in alcuni incontri tra direzione aziendale ed organismi sindacali, ma non si giunge ad alcun risultato. Ad ottobre a complicare il confronto tra le parti, si diffonde la notizia – poi rivelatasi fondata – di un imminente rimaneggiamento al vertice della “Terni”: Vincenzo Landi e Piero Giustiniani – un ingegnere proveniente dalla Montecatini – sarebbero stati nominati amministratori delegati, l’uno per il settore amministrativo e l’altro per quello tecnico51.
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La scelta di Giustiniani è contestata da parte operaia, poiché le peculiari competenze in campo chimico del tecnico sono giudicate inadatte a guidare la complessa opera di riconversione del settore siderurgico. In particolare i lavoratori rivendicano il diritto – come era avvenuto in passato – di “essere interpellati” in ogni caso di assunzione o spostamento di un dirigente52. Viene anche emesso un perentorio ordine del giorno che fissa nel 18 ottobre il termine ultimo entro il quale l’azienda avrebbe dovuto acconsentire alla firma dell’accordo per l’istituzione dei Consigli di gestione. In seguito si chiederà la nazionalizzazione della “Terni”53. Nonostante le ferme prese di posizione e a dimostrazione che i rapporti di forza stanno cambiando, i lavoratori devono accontentarsi di alcune generiche rassicurazioni da parte di Giustiniani sul futuro potenziamento dell’ “intero gruppo industriale”54. Il consenso della società per l’istituzione dei Consigli di gestione nei diversi stabilimenti viene ottenuto il 20 novembre 1946, ma questo risultato non si rivelerà di certo come una vittoria dei lavoratori. Un’ulteriore riprova del mutamento in corso nella politica aziendale è ravvisabile anche nella relazione di bilancio presentata dal consiglio di amministrazione per l’esercizio 1946. In essa non vi è più alcun cenno ai “fondamentali doveri” di ordine sociale dell’azienda, ma, al contrario, profilandosi ormai imminente la necessità di “fronteggiare la concorrenza estera dei prodotti siderurgici”, viene posto con chiarezza il problema dei costi di produzione e, conseguentemente, quello del rendimento della forza lavoro: Materie prime, servizi e rendimenti di macchine e di uomini: ecco i termini fondamentali e complementari del problema, che occorre risolvere se si vuole che le aziende siano vitali. Mentre tutti gli sforzi vengono fatti per migliorare i mezzi di lavoro e per superare le gravissime difficoltà nei rifornimenti di materie prime, si deve operare per riportare il rendimento della mano d’opera al suo livello normale, mediante l’adeguamento degli organici alle attuali possibilità produttive. Per quanto sia questo un compito ingrato, noi non possiamo esimerci, per salvaguardare l’efficienza dell’azienda e nel precipuo e vero interesse degli stessi lavoratori, dall’affrontare e risolvere questo problema del rendimento della mano d’opera. Mentre dobbiamo resistere alle continue e molteplici pressioni per assumere altro personale che sarebbe interamente in soprannumero, abbiamo invocato, come invochiamo, i necessari provvedimenti di governo che consentano di trasferire all’economia pubblica, sollevandone le aziende, il peso del mantenimento del personale esuberante55.
È la vicenda successiva dei Consigli di gestione che si incarica di dimostrare con chiarezza come da parte aziendale non si intraveda altra via per assicurare vitalità 52 53
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Democratizzare la “Terni”, in “l’Unità”, 12 ottobre 1946, Cronaca di Terni. L. Michiorri, È più che mai indispensabile nazionalizzare la “Terni”, in “l’Unità”, 16 novembre 1946, Cronaca di Terni. L. Michiorri, La Terni non si smembra, in “l’Unità”, 24 novembre 1946, Cronaca di Terni. ASOT, AA, riunione del 24 maggio 1947, relazione del consiglio di amministrazione.
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Democratizzare la “Terni”, in “l’Unità”, 12 ottobre 1946, Cronaca di Terni. Si veda Per la storia del movimento sindacale ternano. L’archivio della Camera del Lavoro di Terni, a cura di G. Bovini e G. Canali, Terni 1985. In appendice è riportato il testo dell’accordo per la istituzione e per il funzionamento dei Consigli di gestione presso la Terni. ASOT, CA, vol. 27, adunanza del 29 aprile 1947. Alla “Terni” da ieri si sciopera contro la caparbietà dei dirigenti, in “l’Unità”, 4 luglio 1947, Cronaca di Terni. Otto mesi di battaglie dei Consiglio di Gestione in difesa del lavoro e della produzione, in “l’Unità”, 30 dicembre 1947, Cronaca di Terni.
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all’azienda che quella di liberarsi del pesante carico salariale attraverso il licenziamento della manodopera eccedente. Dopo una lunga fase di gestazione, l’insediamento dei Consigli di gestione avviene nel marzo 1947. L’accordo definitivamente raggiunto evidenzia, però, come da parte delle organizzazioni operaie non sia stato raggiunto l’obiettivo di evitare che le funzioni previste per i consigli risultassero limitate “sia nella forma che nella sostanza”56. Infatti, nell’accordo, il nuovo istituto aziendale viene definito soltanto come un “organo di consultazione della direzione del complesso industriale produttivo interessato” ed in più si prevede che “nei casi di urgenza e nella impossibilità di convocare il consiglio, il direttore [di stabilimento], sotto la sua responsabilità [possa] prendere le necessarie decisioni anche nella sfera di competenza consultiva del consiglio”57. Nel corso della riunione del consiglio di amministrazione del 29 aprile 1947, Tito Oro Nobili, che molto si era prodigato per l’istituzione dei Consigli di gestione, definisce la cerimonia del loro insediamento come “l’inizio di una nuova fase di collaborazione tra capitale e lavoro”58. Ma la difficile congiuntura politica ed economica attraversata dal Paese – e dalla stessa azienda – non possono che far presagire il contrario. In particolare se si considera che a ridosso della loro forzosa istituzione si verifica l’estromissione delle sinistre dal governo, realizzandosi così la rottura della collaborazione tra le forze antifasciste e l’intensificarsi della restaurazione capitalistica nei luoghi di lavoro. Ed infatti, nella seconda metà del 1947, i rapporti sociali alla “Terni” appaiono ormai attestati su posizioni di aperta contrapposizione. In luglio i lavoratori promuovono uno sciopero “contro la caparbietà dei dirigenti”. In questa occasione la parte operaia denuncia il “nuovo atteggiamento” assunto dai dirigenti aziendali che, “ad ogni giusta richiesta dei lavoratori rinviano a tempo indeterminato la discussione per poi respingere qualsiasi richiesta anche la più sensata e conciliante”59. Con questo stato di cose anche il bilancio d’attività del consiglio di gestione dello stabilimento siderurgico, presentato a qualche mese dal suo insediamento relativamente al problema della trasformazione e della riconversione degli impianti, non può che risultare negativo. Al riguardo, sulla stampa operaia, viene denunciata la “cocciutaggine” della Finsider nel rifiutare di concedere finanziamenti a “tutti quei piani di trasformazione che gli stessi dirigenti tecnici della Società Terni avevano studiati e prospettati come necessari”60.
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In questa fase i lavoratori non solo si vedono ormai negate nuove concessioni, ma addirittura viene loro tolto quanto precedentemente ottenuto. Nell’estate 1946 ha inizio un processo di progressivo trasferimento a Roma dei “servizi più importanti” della direzione generale, come premessa ad una sua completa dislocazione61. Successivamente ragioni poco chiare portano Carlo Buscaglia a dare le dimissioni da direttore generale62. Sul finire del 1947 lo scontro assume toni aspri, anche all’interno del consiglio di amministrazione. Nella riunione del 10 dicembre 1947 il consigliere “operaio” Bolli, facendosi portavoce delle preoccupazioni generate nei lavoratori da una crisi di liquidità in cui si trova la “Terni”, chiede “che il consiglio escogiti i mezzi per garantire l’avvenire dell’occupazione operaia, la tranquillità delle maestranze e lo sviluppo degli impianti”63. Ma la richiesta di Bolli ottiene una secca risposta del consigliere Manuelli, il quale
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spiega come l’azienda non abbia lo scopo di dare tranquillità agli operai; non è una azienda per l’erogazione di sussidi; o una cassa mutua; se gli operai non producono si mina l’esistenza della società; non basta il bisogno degli operai per fare le paghe.
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Del resto l’insofferenza dei vertici della Finsider verso il blocco dei licenziamenti nelle aziende del gruppo viene ormai esplicitata in ogni occasione. Nel gennaio 1948, durante una riunione del Comitato Interministeriale per la Ricostruzione, Oscar Sinigaglia, dopo aver ricordato “il grande divario esistente tra i prezzi siderurgici italiani e quelli esteri”, sottolinea come alle industrie non sia più possibile temporeggiare e, di conseguenza, si renda indispensabile affrontare “la questione della manodopera esuberante e quella del rendimento”64. Peraltro, il presidente della Finsider si dichiara “ben deciso” ad affrontare le probabili agitazioni, che seguiranno ai licenziamenti, “purché il governo si dichiari con lui pregiudizialmente d’accordo”. Alla sollecitazione del dirigente risponde, in maniera elusiva, il ministro dell’Industria Tremelloni, sostenendo che Sinigaglia, nella sua qualità di capo d’industria, deve fare tutto il possibile per migliorare le condizioni delle aziende, ma non pretendere dal governo delle preventive assicurazioni che riguardano l’ordine pubblico.
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P.P., Le maestranze non possono accettare il trasferimento della direzione, in “l’Unità”, 9 agosto 1947, Cronaca di Terni. Oltre ad ASOT, CA, vol. 27, adunanza del 4 ottobre 1947, si veda V. Inches, I nodi al pettine, in “l’Unità”, 26 maggio 1948, Cronaca di Terni. Cfr. ACS, IRI Pratiche societarie 1897-1972, b. 419, fasc. “Consigli e comitati: convocazioni, deliberazioni e verbali”, verbale dell’adunanza del consiglio di amministrazione della Società Terni, 1 dicembre 1947 (anche per le citazioni che seguono). Si veda ACS, IRI Affari diversi 1922-1961, b. 30, fasc. “Serie di documenti di Sinigaglia”, verbale della riunione presso il Comitato Interministeriale per la Ricostruzione per l’esame del problema siderurgico, 7 gennaio 1948 (anche per le citazioni che seguono).
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Posner e Woolf, L’impresa cit. (a nota 31), p. 37. ACS, IRI Pratiche societarie 1897-1972, b. 419, fasc. “Consigli e comitati: convocazioni, deliberazioni e verbali”, verbale dell’adunanza del consiglio di amministrazione della Società Terni, 28 maggio 1948. E. Secci, I lavoratori non sono disposti a far le spese di una politica contraria agli interessi del paese, in “l’Unità”, 26 giugno 1948, Cronaca di Terni. Si veda G. Canali, Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953, in Storia d’Italia Le regioni dall’Unità a oggi. L’Umbria, a cura di R. Covino e G. Gallo, Torino 1989, pp. 699-700. Duemila lavoratori minacciati di licenziamento, in “l’Unità”, 15 settembre 1948, Cronaca di Terni. P. Grassi, La politica dei lamierini, in “l’Unità”, 9 ottobre 1948, Cronaca di Terni.
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Tremelloni precisa, inoltre, che l’“uomo politico-economico”, a differenza dell’“economista puro”, è costretto a tener conto “dei fattori ambientali in cui vive” e “di molti elementi di viscosità”. Viste le preoccupazioni presenti nello schieramento governativo per lo scontro politico in atto nel paese, non riesce difficile immaginare quali siano le “viscosità” cui si riferisce il ministro. Né può apparire strano che, in questa congiuntura, da parte governativa si scelga di continuare a riservare alle aziende IRI il ruolo di ammortizzatore delle tensioni sociali65. La vittoria delle forze moderate nel confronto elettorale cambia però completamente lo scenario. Non a caso, successivamente all’aprile 1948, i giornali riportano, con sempre maggiore frequenza, voci allarmistiche relative ad imminenti grandi licenziamenti alla Società Terni. Sono in particolare i settori siderurgico e minerario a risentire maggiormente della normalizzazione dei meccanismi di mercato. A maggio la società sollecita i lavoratori delle miniere di lignite a lasciare “volontariamente” il posto, offrendo tre mesi di salario ed un premio di 100.000 lire66. In giugno il direttore dell’acciaieria convoca la commissione interna per annunciare che, a causa della scarsità di ordinazioni, si sarebbe reso necessario ridurre l’orario lavorativo a 40 ore settimanali e, in seguito, forse ricorrere ai licenziamenti67. In luglio la vampata insurrezionale, che fa seguito all’attentato a Togliatti, trova alimento anche nell’esasperazione prodotta tra i lavoratori dalle continue minacce all’occupazione68. È intorno alla metà di agosto che le voci sugli imminenti licenziamenti alla “Terni” diventano certezza. La mobilitazione operaia è ancora una volta assai forte, le organizzazioni, politiche e sindacali, dei lavoratori cercano di creare un “fronte comune” contro quello che viene definito “il piano della fame”69. Ma trovano nella dirigenza aziendale altrettanta determinazione. Nei giornali operai vengono denunciati gli atteggiamenti di insofferenza con i quali i rappresentanti della società reagiscono alla contestazione che i lavoratori fanno delle ragioni addotte per giustificare i licenziamenti70. In ottobre la questione dell’“alleggerimento” del personale è affrontata anche nel consiglio di amministrazione. È l’amministratore delegato Landi a fare il punto sulla pesante situazione che la società registra, sia dal punto di vista finanziario sia da quello economico. Egli, tra l’altro, ricorda come tale stato di cose risulti aggravato
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dal fatto che, nel passato, la società, immedesimandosi nelle dure condizioni di vita che attendevano reduci e mutilati [...] al ritorno alla vita civile e conscia del dovere sociale di alleviare il più possibile tali condizioni, tanto più che il mercato presentava sensibile capacità di assorbimento, aveva immesso nei propri stabilimenti numerosi lavoratori che, d’altra parte, trovavano impiego nelle pressanti necessità dipendenti dalla ricostruzione, ormai in gran parte attuata71.
Landi informa, perciò, che “le esuberanze, [...] accertate attraverso un esame diligente degli organi responsabili preposti alle direzioni degli stabilimenti, possono riassumersi per tutti gli stabilimenti e miniere in circa 2.200”. Fa seguito l’intervento del consigliere Bolli, il quale riconosce un esubero di circa 300 lavoratori nello stabilimento siderurgico, ma contesta l’impostazione data dalla società a questo grave problema, evidenziando come
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si sarebbe potuti giungere al provvedimento sia invitando i singoli operai esuberanti a dimettersi volontariamente dietro corresponsione di un adeguato premio, sia estromettendo gli elementi indisciplinati e di scarso rendimento.
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Prende poi la parola Tito Oro Nobili, che – dopo aver fatto mettere agli atti una lettera di Sinigaglia nella quale il presidente della Finsider nega decisamente che i licenziamenti preludano ad una liquidazione dell’attività siderurgica della “Terni” – rassegna le dimissioni “poiché l’atmosfera di conflitto è ormai evidente ed [...] i suoi quarantotto anni di disciplinata milizia socialista non gli consentono di trovarsi in conflitto con i lavoratori”. In conclusione chiede però ai “compagni operai del consiglio” che gli venga dato atto delle difficoltà [...] superate per mantenere la concordia fra la società e le maestranze, per assicurare a queste tutti i miglioramenti raggiunti fino ad anticipare di un anno l’applicazione del contratto FIOM che era ancora in preparazione e per aprire sempre più la via alle loro conquiste sociali.
Le dimissioni di Nobili – e la sua caparbia rivendicazione di aver coerentemente perseguito l’idea di una possibile “collaborazione tra capitale e lavoro” – chiudono definitivamente il ciclo “interlocutorio” apertosi nel 1944 con la liberazione della città. Significativamente l’esponente socialista viene sostituito alla presidenza della società da Girolamo Ippolito72. Si tratta di un pieno ritorno alla “tradizione”. Del resto completamente tradizionale è la scelta della “terapia dei licenziamenti”73 per il risanamento della società.
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ASOT, CA, vol. 28, adunanza del 7 ottobre 1948 (anche per le citazioni che seguono). Ivi, adunanza del 19 maggio 1949. Bonelli, Lo sviluppo cit. (a nota 1), p. 259.
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Rodolfo Morandi, uno dei più autorevoli assertori del ruolo fondamentale che i Consigli di gestione avrebbero dovuto svolgere perché si giungesse alla democratizzazione dell’economia, individua nella loro storia tre diverse fasi ed indica una periodizzazione che può essere utilizzata come quadro di riferimento generale1. La prima fase incomincia il 25 aprile 1945, giorno dell’insurrezione armata del Nord, quando un decreto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia istituisce i Consigli di gestione nella loro prima espressione democratica2. Questo decreto è il risultato del compromesso raggiunto, dopo una prolungata discussione politica, dalle diverse forze componenti il CLNAI. Da questa travagliata origine deriva ad esso una sorta di ambiguità che permette alle diverse parti politiche di dare interpretazioni contrastanti sui contenuti del nuovo istituto. Il decreto definisce il CdG come “un organo paritetico fra datori di lavoro e prestatori di opera”, che “delibera su tutti i provvedimenti che interessano gli orientamenti e gli sviluppi delle capacità produttive delle aziende” e “studia inoltre i mezzi atti ad accrescere la produzione e il rendimento dell’impresa e li propone alla direzione”3. I Consigli di gestione si configurano quindi come organismi di collaborazione tra le forze produttive con cui si assicura la partecipazione operaia alla gestione aziendale e ciò suscita forti preoccupazioni negli imprenditori (e nei loro rappresentanti politici) perché vi vedono una minaccia per i tradizionali rapporti di produzione. A togliere comunque ogni ansia ai ceti imprenditoriali sono gli alleati, che, sensibili alle loro preoccupazioni, rifiutano di ratificare il decreto. Nonostante ciò, in questo primo periodo, i Consigli di gestione, nelle aziende dove sono stati istituiti, svolgono un importante ruolo ai fini della ripresa produttiva, decidendo le misure di primo intervento e divenendo, per usare le parole di Morandi, i “successori naturali” dei comitati di liberazione nazionale aziendali. La seconda fase della storia dei Consigli di gestione ha inizio dopo il referendum L’articolo è stato pubblicato con lo stesso titolo in “Indagini”, Bollettino del Cestres (Centro Studi Ricerche Economiche e Sociali), n. 18, settembre 1982. 1
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Cfr. R. Morandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica, 1945-1948, Einaudi, Torino 1960, pp. 241247. L’istituzione dei Consigli di gestione nelle imprese era prevista anche dal demagogico provvedimento legislativo emanato nel febbraio del 1944 dal governo di Salò. Cfr. il testo del decreto in E. Magri, Controllo operaio e consigli d’azienda, Accademia, Milano 1947; cfr. anche C. Daneo, La politica economica della ricostruzione. 1945-1949, Einaudi, Torino 1975, pp. 87-88.
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istituzionale e le elezioni per l’Assemblea Costituente, allorché le sinistre, raggiunti in parte i propri obiettivi di democratizzazione dell’apparato politico statale, intensificano la loro azione per ottenere una analoga democratizzazione delle strutture economiche del paese. Dare riconoscimento giuridico alla partecipazione dei lavoratori nella gestione delle aziende diventa infatti condizione indispensabile per raggiungere un simile obiettivo. Già nel novembre 1945 un documento approvato dai vari partiti del CLNAI, con cui si chiedeva, pur nelle persistenti diversificazioni interne, “l’introduzione nelle imprese industriali di organismi che permettano ai lavoratori di partecipare attivamente al processo produttivo dell’azienda”4, era rimasto senza esito. Nell’ottobre del 1946, invece, la forte mobilitazione creatasi intorno al primo convegno nazionale dei Consigli di gestione, tenutosi a Milano, in cui si richiede esplicitamente il riconoscimento giuridico dell’istituto, unita all’approvazione da parte della terza sottocommissione della Costituente di quello che sarà l’articolo 46 della Costituzione, fa credere a Morandi, allora ministro dell’Industria e del Commercio, che sia giunto il momento opportuno per presentare una proposta di legge di iniziativa ministeriale per definire giuridicamente i Consigli di gestione. Tale progetto di legge (noto come “progetto D’Aragona-Morandi”) viene presentato alla Costituente nel novembre dallo stesso Morandi. E’ un progetto equilibrato, che ridimensiona di molto i poteri del CdG rispetto a quelli previsti dal decreto del CLNAI. Il CdG diviene infatti un organo consultivo, non più deliberante, che si affianca alla direzione aziendale ed esprime il proprio parere sull’indirizzo dell’attività dell’impresa e sui suoi programmi produttivi ed economici, sull’impiego, per una loro migliore utilizzazione, dei mezzi tecnici della produzione e delle materie prime, sulla razionalizzazione del lavoro e sulla distribuzione quantitativa del personale5. Ma, nonostante la cautela mostrata dai legislatori, tale progetto non può essere trasformato in legge per la costante opposizione delle forze politiche di destra, che si facevano portavoci delle posizioni della Confindustria. Quest’ultima, d’altronde, non ha mai nascosto la sua decisa ostilità nei confronti dell’introduzione dei Consigli di gestione nelle aziende. Fin dal gennaio del 1946 in una lettera indirizzata a De Gasperi, nuovo presidente del Consiglio dei Ministri, l’organizzazione padronale motivava la propria opposizione ai Consigli di gestione definendoli istituti che “comprometterebbero irrimediabilmente l’efficienza della nostra economia, impedirebbero il riassetto dell’industria e costituirebbero, infine, un elemento deleterio della pace sociale”6. E sarà proprio il governo formato da De Gasperi nel dicembre del 1947 a chiudere questa fase, annunciando all’Assemblea Costituente di non ritenersi obbligato a presentare un progetto di legge sui Consigli di gestione e demandando,
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Il brano è riportato in S. Turone, Storia del sindacato in Italia (1943-1969), Laterza, Bari 1976, p. 125. Vedi il testo integrale dei disegno di legge sui Consigli di Gestione in Morandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica cit. (a nota 1), pp. 115-124. Il brano è riportato in Daneo, La politica economica della ricostruzione cit. (a nota 3), p. 94.
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Ho il piacere di poter riferire sulla recente sperimentazione dei Consigli di gestione nell’ambito della Società Terni, che fin dal 1945 aveva incluso nel proprio consiglio di amministrazione, con voto deliberativo, rappresentanze di operai, d’impiegati e di tecnici. Le maestranze di questa società chiesero poi anche l’istituzione dei Consigli di gestione; dopo qualche esitazione, la società li concesse sulla base di una disciplina accuratamente studiata. Per circa un anno le commissioni interne assistite dalle camere del lavoro ponderarono la proposta, opposero rilievi e richieste di emendamenti; e finalmente l’accordo fu raggiunto con reciproca soddisfazione su tutti i punti di dissenso9.
Le esitazioni di cui parla Nobili corrispondono ad un lungo periodo in cui la direzione aziendale aveva tenuto un atteggiamento elusivo rispetto alla richiesta ope7
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L. Lanzardo, Classe operaia e partito comunista alla Fiat. La strategia della collaborazione (1945-1949), Einaudi, Torino 1971, p. 206. Cfr. Archivio Società Terni, Consiglio di Amministrazione, vol. 27, adunanza del 29 aprile 1947, p. 139. Atti Assemblea Costituente, voi. IV, seduta del 14 maggio 1947, riportato in F. Bogliari, Tito Oro Nobili, Quaderni Regione dell’Umbria, Perugia 1977, Appendice, p. 180.
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perciò, l’intera questione a trattative che avrebbero dovuto essere condotte direttamente dalle organizzazioni imprenditoriali e da quelle dei lavoratori. Con questa sortita del governo, che si deve mettere in relazione con il mutamento del ciclo politico conseguente alla rottura dell’unità governativa tra i tre grandi partiti antifascisti, si conclude, dunque “la fase istituzionale” dei Consigli di gestione. Da questo momento essi cessano di essere organismi di collaborazione di classe per diventare “strumenti di lotta”7, che si affiancheranno agli organismi sindacali nella risposta operaia all’offensiva padronale in fabbrica, alle smobilitazioni ed ai licenziamenti di massa. In questa terza fase diventa significativa la vicenda dei Consigli di gestione della Società Terni, la quale aveva avuto, però, una sua particolare evoluzione. I Consigli di gestione nell’azienda ternana erano stati insediati il 19 marzo 1947. Alla cerimonia d’insediamento, che si era svolta nel salone della biblioteca dello stabilimento siderurgico, aveva partecipato anche il vicepresidente dell’IRI, il comunista Antonio Pesenti. L’avvenimento fu registrato nel verbale del consiglio di amministrazione del 29 aprile come “l’inizio di una nuova fase di collaborazione tra capitale e lavoro”8. Ma la difficile congiuntura politica ed economica, che viveva il paese (ed anche l’azienda), faceva presagire il contrario. Anche le difficoltà che i lavoratori avevano incontrato per vedere soddisfatta la richiesta di istituire i Consigli di gestione nelle diverse unità produttive del complesso industriale ternano erano sintomatiche di un mutamento di quel clima di collaborazione di classe, che, almeno formalmente, aveva contrassegnato il primo periodo della ricostruzione e nel cui spirito si volevano far nascere i Consigli di gestione. In un suo intervento alla Costituente, Tito Oro Nobili, dirigente socialista del movimento operaio e presidente, dal 1945, della Società Terni, così ricordava gli avvenimenti che avevano preceduto l’istituzione dei Consigli di gestione nell’azienda:
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raia. Questo atteggiamento, che apparve ai lavoratori come un rifiuto, insieme ad una serie di tensioni accumulate precedentemente, creò nell’autunno del 1946 momenti di duro confronto tra la direzione aziendale e la classe operaia. A settembre gli organismi sindacali erano stati costretti a consentire al licenziamento dei cosiddetti “autosufficienti” e dei lavoratori non residenti nella provincia per far posto ad un elevato numero di reduci senza lavoro che premevano alle porte dell’industria ternana10. Nonostante ciò la situazione dell’occupazione in città permaneva grave: i disoccupati erano circa 4.50011. Il processo inflativo rendeva sempre più precarie le condizioni materiali di vita della classe operaia e, parallelo a questo arretramento economico, cominciava ad evidenziarsi un analogo arretramento delle condizioni politiche in fabbrica. Ai lavoratori ternani appariva come una realtà sempre più lontana il periodo immediatamente successivo alla Liberazione, allorché erano riusciti, nonostante gli alleati12, ad imporre l’avvio di un processo di democratizzazione del quadro dirigente aziendale. Una serie di aspettative di lavoro e di giustizia sociale, originatesi in quel clima, rimanevano disattese e ciò esasperava i lavoratori. Il 9 settembre 1946, in una assemblea cittadina al teatro Politeama, organizzata dalla Camera del Lavoro per protestare contro la disoccupazione e il carovita, e alla quale parteciparono operai, reduci e disoccupati, il segretario camerale, Vincenzo Inches, dopo aver attribuito alla mancata riconversione dell’industria siderurgica ternana ed all’inattività dello stabilimento della Gomma Sintetica le cause della disoccupazione, chiese l’istituzione dei Consigli di gestione nei diversi stabilimenti del complesso produttivo ternano, minacciando in caso di insoddisfazione della richiesta, un periodo di agitazioni13. Molta
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I licenziamenti furono autorizzati da un decreto che il prefetto aveva emanato il 18 luglio 1946 per fronteggiare il problema della disoccupazione e per disciplinare le assunzioni del personale da parte delle aziende private. Il decreto, relativamente a coloro i quali furono definiti usualmente come “autosufficienti”, prevedeva: “è fatto obbligo a tutte le ditte private industriali, commerciali, di credito e di assicurazione esistenti nella provincia, di riesaminare entro il 31 c.m. la posizione dei personale dipendente non di ruolo e procedere al licenziamento del personale, specialmente femminile, per il quale l’impiego non costituisce l’unica ed essenziale fonte di sostentamento proprio e famigliare nonché di coloro che risultano proprietari di terreni o che li conducono a mezzadria, o che siano contadini, dovendo questi ritornare alla loro primitiva attività, od infine che abbiano altri famigliari presso la stessa od altre ditte, tenendo presente che in questi ultimi casi per tre persone di famiglia ha diritto al lavoro uno solo. Nei casi in cui non è possibile applicare esattamente tale rapporto, deciderà la commissione provinciale predetta secondo la composizione della famiglia, e le condizioni economiche finanziarie ed ambientali della famiglia stessa”. Cfr. ACS, MI Gab 194446, b. 262, fasc. 25417. Cfr. intervista a Vincenzo Inches in “l’Unità”, 14 agosto 1946, Cronaca di Terni. L’ammiraglio Ellery W. Stone in una lettera del 12 settembre 1944 indirizzata al presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi, così si esprimeva in merito all’operato dei dirigenti aziendali: “Vorrei far presente che la nostra Sottocommissione per l’industria e per le questioni industriali e la nostra Sottocommissione per i lavori pubblici e i servizi pubblici per questioni di energia elettrica stanno lavorando in stretta cooperazione con la Società Terni ed inoltre bisogna notare che la direzione della Terni è stata leale, efficiente ed energica”. In seguito questo giudizio dell’autorità alleata verrà contrapposto in ambienti governativi alla richiesta fatta dagli operai di rinnovare la direzione aziendale con elementi non compromessi col regime fascista. Cfr. ACS, MI Gab 1944-46, b. 18, fasc. 1359. Cfr. Ivi, b. 262, fasc. 25417.
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Tra le altre si era diffusa la voce, poi risultata fondata, che l’ingegnere Piero Giustiniani, proveniente dalla Montecatini, sarebbe stato nominato amministratore delegato della Società Terni. Questo fatto suscitava nella classe operaia ternana una duplice preoccupazione. Si temeva innanzitutto che la nomina ad amministratore delegato di un dirigente con competenze specifiche nel campo della chimica presupponesse la smobilitazione da parte della azienda del tradizionale settore siderurgico. I timori erano poi estesi anche al settore chimico per il fatto che la provenienza di Giustiniani da un’azienda chimica, rivale della Società Terni, faceva sospettare ai lavoratori che egli fosse venuto con il fine nascosto di impedire lo sviluppo delle industrie chimiche del complesso produttivo ternano. Cfr. “l’Unità”, 9 ottobre 1946, Cronaca di Terni. Il precedente a cui si riferiscono i lavoratori ternani è la designazione, che essi fecero durante un’assemblea nel giugno del 1945, di Tiro Oro Nobili quale presidente della Società Terni. Tale proposta venne successivamente ratificata dal Consiglio di Amministrazione della Società. Cfr. Bogliari, Tito Oro Nobili cit. (a nota 9), p. 77. Cfr. “l’Unità”, 12 ottobre 1946, Cronaca di Terni. Cfr. “l’Unità” , 21 novembre 1946, Cronaca di Terni. Devo questa ed altre informazioni sui Consigli di gestione della Società Terni alla testimonianza rilasciatami da Fabio Fiorelli, allora giovane dirigente socialista ed assiduo collaboratore di Tito Oro Nobili.
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importanza si attribuiva da parte dei dirigenti del movimento operaio all’azione che i Consigli di gestione avrebbero potuto svolgere per dare all’industria ternana un indirizzo produttivo che rendesse possibile la massima occupazione, soprattutto dopo che la presenza minoritaria dei rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di amministrazione della Società si era rivelata impotente. Alla richiesta operaia fecero seguito una serie di incontri fra direzione aziendale ed organismi sindacali, che non diedero risultato. L’11 ottobre, pertanto, in un periodo di mobilitazione, motivata dai poco chiari avvicendamenti che si ventilavano al vertice dell’azienda14, ed a ridosso del convegno nazionale dei Consigli di gestione, che si sarebbe tenuto il giorno 13 a Milano, i lavoratori della Società Terni, riuniti in assemblea, formularono la richiesta che fosse mantenuta la consuetudine di interpellare le maestranze in ogni caso di assunzione o spostamento di un dirigente15 ed emisero un perentorio ordine del giorno in cui si fissava nel 18 ottobre il termine ultimo entro cui l’azienda avrebbe dovuto acconsentire alla firma dell’accordo per l’istituzione dei Consigli di gestione16. La rinnovata minaccia, contenuta nell’ordine del giorno, di un lungo periodo di agitazioni ebbe in questo caso il suo effetto. Le trattative vennero riprese ed il 20 novembre fu firmato il patto per la costituzione dei Consigli di gestione presso la Società Terni17. Alla firma del patto fece seguito ancora un periodo di confronto tra gli organismi sindacali e i rappresentanti dell’azienda per preparare la bozza conclusiva d’accordo. Nella definizione dei contenuti del nuovo organismo aziendale si scontravano, come già era avvenuto a più alto livello, due diversi modi di intendere i Consigli di gestione. Per superare i momenti più duri delle trattative fu molto utile la collaborazione offerta da Massimo Severo Giannini18, il quale aveva collaborato anche alla preparazione del progetto di legge D’Aragona-Morandi. L’accordo definitivamente raggiunto prevedeva, ritenendoli utili “ai fini dello sviluppo della produzione nell’interesse dell’economia nazionale e di una consapevole collaborazione tra i diversi fattori della produzione”, la costituzione di sette consigli consultivi di gestione di stabilimento e di
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un consiglio consultivo di gestione di azienda. Le funzioni previste per i vari Consigli di gestione erano però molto limitate. Il nuovo istituto aziendale veniva definito semplicemente “organo di consultazione della direzione del complesso industriale produttivo interessato” e, per di più, l’accordo prevedeva che, qualora non fosse stato possibile convocare il CdG e la situazione avesse reso indispensabile adottare tempestivi provvedimenti, la direzione aziendale aveva la facoltà di prendere “le necessarie decisioni anche nella sfera di competenza consultiva del consiglio”19. Se le premesse, dunque, per i Consigli di gestione della “Terni” non furono delle migliori, tanto meno lo furono le loro vicende successive. Appena otto mesi dopo la loro istituzione, Emilio Secci, dirigente sindacale e membro del CdG dello stabilimento siderurgico, riferendo sul piano elaborato dal consiglio stesso per la trasformazione e riconversione degli impianti siderurgici, doveva denunciare quanto segue:
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Su tale importante questione lo stesso Consiglio di Gestione si è trovato di fronte alla cocciutaggine della Finsider che si è rifiutata di finanziare tutti quei piani di trasformazione che gli stessi dirigenti tecnici della Società Terni avevano studiato e prospettato come necessari.
Pertanto, dopo aver ricordato anche le difficoltà interposte nel lavoro del CdG da parte dei dirigenti aziendali, Secci concludeva: “Se su tale problema non si è raggiunto nessun risultato, la colpa non è che della Finsider e dei più alti dirigenti della ‘Terni’”20. Fu breve, perciò, il periodo di collaborazione dei Consigli di gestione dell’azienda ternana. D’altro canto non poteva essere diversamente essendo essi stati istituiti, forzosamente, proprio a ridosso di quell’avvenimento – l’estromissione delle sinistre dal governo – che decretò la rottura della collaborazione tra le forze antifasciste e l’intensificarsi dell’offensiva restauratrice capitalistica in fabbrica. Anche a Terni, ormai scesi “sul piano della lotta”21, essi furono in prima fila nella battaglia elettorale del 1948, fiancheggiatori del Fronte Democratico Popolare, così come, successivamente, furono a fianco degli organismi sindacali nelle lotte operaie contro i licenziamenti che, a partire dall’autunno 1948, l’azienda ternana cominciò ad effettuare in maniera massiccia. Collegati ad altri Consigli di gestione in un comitato di coordinamento regionale, essi crearono un vasto schieramento di forze in difesa delle sorti della “Terni” e promossero conferenze di produzione in cui i motivi e le cifre, forniti dall’azienda a giustificazione degli “alleggerimenti”22, ve-
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Vedi il testo integrale dell’accordo per l’istituzione dei Consigli di gestione presso la Società Terni. E. Secci, Otto mesi di battaglie del Consiglio di Gestione in difesa dei lavoro e della produzione, in “l’Unità”, 30 dicembre 1947, Cronaca di Terni. Morandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica cit. (a nota 1), p. 330. Termine usato nei documenti aziendali per indicare i licenziamenti.
Gli operai e il movimento operaio a Terni
nivano contestati. Ai piani produttivi della “Terni” i Consigli di gestione opposero i propri, che furono però inefficaci, perché i problemi dell’impresa ternana superavano di molto l’ambito aziendale per inserirsi in quelli più vasti derivanti all’industria siderurgica nazionale dalle scelte di politica economica operate dal governo. Con la sconfitta operaia dei primi anni cinquanta si giunse anche alla scomparsa dei Consigli di gestione. Emilio Ferri, allora dirigente sindacale e membro del CdG dei Servizi Elettrici, così ricorda l’esito di questa vicenda:
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Qualche tempo dopo i licenziamenti del 1953 fu inevitabile per noi consiglieri rappresentanti dei lavoratori la presa d’atto che ormai la funzione del Consiglio di Gestione era esaurita. La direzione ostacolava in tutti i modi il nostro operato e ci convocava saltuariamente soltanto per ratificare decisioni già prese. Era l’inasprimento dei rapporti di classe che aveva di fatto vanificato la funzione politica che i rappresentanti dei lavoratori dovevano assolvere nei consigli. Per questo giungemmo alla conclusione che era inutile continuare a partecipare alle ormai rarefatte riunioni del consiglio. Fu così che morirono i Consigli di gestione23.
Testimonianza rilasciatami da Emilio Ferri il 12 gennaio 1982.
I Consigli di gestione alla Società Terni
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L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Da quanto tempo sei in contatto con l’ANPI di Terni? Due ordini di motivi mi hanno condotto da circa un anno ad avere frequenti rapporti con i dirigenti della sezione provinciale dell’ANPI. Innanzitutto una serie di ricerche che sto facendo per la mia tesi di laurea sui rapporti tra la classe operaia delle Acciaierie e la direzione aziendale nel periodo della ricostruzione postbellica, quindi la collaborazione, minima, che do al progetto, ormai giunto quasi al suo termine, di Alessandro Portelli, studioso di cultura orale, di ricostruire la storia orale del movimento operaio ternano. Ma, accanto a questi motivi, da questa frequentazione si è sviluppato un mio ulteriore interesse ad approfondire la vicenda della brigata “A. Gramsci” che presenta aspetti e peculiarità degni di maggior nota. Un interesse, il mio, stimolato dalla lettura delle pubblicazioni documentarie curate dall’ANPI sull’antifascismo e sulla Resistenza a Terni, e dall’ascolto delle memorie e delle riflessioni dei suoi dirigenti, che con queste iniziative dimostrano, sia detto come sincero ringraziamento del ricercatore che trova parte del lavoro che gli spetta già fatto, una vitalità ed un acuto senso della storia, per il resto non molto sentito nella nostra città. Quindi tu giudichi importante l’esperienza partigiana della nostra provincia? Certamente, anzi ritengo che sia stata ingiustamente sottovalutata, e proprio per questo credo necessario che presto si giunga ad una ricostruzione organica della storia della brigata “Gramsci” con un tipo di approccio che ponga particolare attenzione oltre che ai fatti d’arme anche a quelli politici e sociali. Una ricerca che evidenzi le potenzialità di lotta, per lo più misconosciute, di questi combattenti partigiani, potenzialità che tra l’altro hanno avuto importanti concretizzazioni. Ad esempio merita senza dubbio maggior rilievo, sia a livello locale sia a livello nazionale, il fatto che nei primi mesi dei 1944 la brigata costituisce la prima zona libera dell’Italia occupata, anche se tale rimarrà per pochi mesi, in una vasta area comprendente i paesi di Cascia, Norcia e Leonessa.
L’intervista è stata pubblicata con il titolo Intervista con Canali Gianfranco. L’esperienza di un ricercatore, in “Resistenza insieme”, Periodico dei Comitati Provinciali di Terni dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, a. I (1981), n. 1.
Intervista a Gianfranco Canali. L’esperienza di un ricercatore
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Intervista a Gianfranco Canali. L’esperienza di un ricercatore
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Ma una cosa soprattutto mi colpisce nella storia della brigata “Gramsci” e cioè che la sua vicenda non solo è una verifica esemplare col senno di poi di quella che sarà l’intera vicenda del movimento di liberazione in Italia, ma che addirittura essa in quel giugno 1944 costituisce una prefigurazione di quella vicenda. È infatti impossibile non vedere in questa ottica l’ostilità espressa rozzamente dagli inglesi nei confronti degli uomini della brigata, “colpevoli” di aver liberato Terni prima del loro arrivo, un’ostilità da paura analoga a quella che segnerà i successivi rapporti tra il governo militare alleato e l’intero movimento di liberazione: i protocolli di Roma nel dicembre 1944 ne sono il primo esempio. E sarà proprio questo atteggiamento degli alleati a ridar fiato a quelle forze conservatrici della società italiana che negli anni successivi scateneranno contro la Resistenza una tollerata e calunniosa campagna di stampa, “un vero e proprio processo ai partigiani” la definisce lo storico Guido Quazza, ed anche qui Terni ha la sua “prefigurazione”: l’arresto da parte degli inglesi di Alfredo Filipponi, comandante della brigata “Gramsci”, per un motivo occasionale che ne nascondeva uno segnatamente politico.
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Quali sono, secondo te, le conseguenze che deriveranno alla Resistenza ternana da questo duro attacco subito proprio nel momento della sua vittoria armata? Ovviamente, il ritrovarsi sottoposti all’arroganza degli alleati, isolati in quello stagno che era il centro sud, costrinse i partigiani ad un immediato ridimensionamento dei loro obiettivi, soprattutto di quelli più lungimiranti, tutto questo significò un oggettivo brusco soffocamento di quelle esperienze di lotta. Ma se far storia significa soprattutto guardare ai fatti come essi si sono realmente svolti, va allora detto che molto contribuì a liquidare quell’esperienza di lotta la marginale utilizzazione politica che negli anni successivi si farà dei quadri e degli uomini provenienti dalle fila della Resistenza. Credo che questo fu un errore politico, per non dire poi dell’aspetto umano della questione, perché la mancanza di questi uomini si farà sentire in seguito, nelle non facili e non sempre vincenti lotte che la classe operaia ternana si troverà ad affrontare negli anni della “restaurazione” capitalistica. Ritieni che l’attività dell’ANPI possa contribuire a trasmettere alle giovani generazioni gli ideali della Resistenza e i fini che essa si proponeva? Ma io credo che questo debba essere uno dei compiti principali dell’associazione. Questa opera di divulgazione dei valori della Resistenza ha già dato i suoi frutti in passato e sto pensando al 1960, all’attentato fatto alla democrazia dal governo Tambroni sconfitto dalla convergenza tra il nascente antifascismo dei giovani e quello “storico” dei vecchi partigiani, a come da qui ebbe inizio un nuovo interesse, spassionato, che caratterizza tutti gli anni sessanta, dei giovani verso la storia della Resistenza.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
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Ebbene penso che oggi, di fronte al disinteresse che sembrano mostrare le nuove generazioni per ogni problematica di tipo sociale e politico, da parte dell’ANPI sia doveroso stimolare la riflessione dei giovani su quella lezione di libertà che è stata la Resistenza. E, per scendere nel concreto, credo sarebbe opportuno che si stabilisca un rapporto continuato tra scuola media inferiore e superiore con l’ANPI, anche attraverso pubblicazioni, le quali però siano prive di retorica (ne abbiamo ormai fatto tutti indigestione), e per questo penso che il miglior metodo sia quello di ricostruire le vicende del movimento partigiano attraverso i racconti degli stessi protagonisti, così come si è fatto per l’82a brigata garibaldina “Giuseppe Osello” che operò in Valsesia. Racconti che hanno la capacità di creare interesse nei giovani sia perché vi si ritrova il ritmo, gradevole, della narrazione popolare, sia perché in essi la vicenda individuale si lega alla storia collettiva e la storia si fa letteratura, senza che per questo vi sia perdita di attendibilità dal punto di vista scientifico.
Intervista a Gianfranco Canali. L’esperienza di un ricercatore
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Una proposta. Storia dal basso
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Nel primo numero di “Resistenza Insieme”, ricordavo la necessità di dar luogo ad una storia diversa del movimento partigiano ricostruendone le vicende attraverso i racconti dei suoi protagonisti. Come esemplificazione mi sembra dunque opportuno proporre – con l’aggiunta di una necessaria premessa – alcuni brani della testimonianza rilasciatami il 27 agosto 1981 da Vincenza Bonanni, una delle staffette della brigata partigiana “Antonio Gramsci”. Vincenza Bonanni agli inizi della lotta partigiana aveva poco più di venti anni e abitava in uno di quei casali di montagna nella zona tra Monteleone di Spoleto e Cascia. Il suo legame con il movimento di liberazione era inizialmente sorto in conseguenza del suo fidanzamento con un giovane comandante partigiano, Guglielmo Vannozzi. Questo giovane – nel 1943 aveva venticinque anni – originario anche lui di Monteleone di Spoleto, all’indomani dell’8 settembre aveva organizzato insieme ad una trentina di altri giovani del luogo il raggruppamento partigiani “Stella Rossa”, che in seguito, inquadratosi nella brigata “Gramsci”, divenne il battaglione “Germinal Cimarelli”. La particolare collocazione di Vincenza Bonanni all’interno della vicenda resistenziale fa dunque si che quanto da lei riferito assuma uno straordinario valore conoscitivo. Infatti il “racconto diretto”, che attraverso la sua testimonianza è possibile costruire, ci ricorda non soltanto il ruolo fondamentale svolto dalla parte non combattente della Resistenza – i cui rischi non erano certo minori di quelli dei partigiani che affrontavano a viso aperti i tedeschi – ma anche ci permette di conoscere la realtà di dura sopravvivenza della gente di montagna e le diverse reazioni che questo mondo tradizionalmente statico, immobile, ebbe nel suo impatto con un fenomeno come quello partigiano carico, al contrario, di potenzialità rivoluzionarie. Si delinea dunque il comportamento di molti giovani delle zone montane dell’Appennino centrale che nell’autunno del 1943 decisero spontaneamente di imbracciare il fucile come – per dirla con Guglielmo Vannozzi – “immediato atto di rivolta contro l’oppressione che c’era stata in quei luoghi di povertà, di L’articolo è stato pubblicato con lo stesso titolo in “Resistenza insieme”, Periodico dei Comitati Provinciali di Terni dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, a. II (1982), n. 2.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Una proposta. Storia dal basso
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malnutrimento, e di miseria spietata”. Tale scelta, che per questi giovani significò anche rompere con l’immobilismo del mondo circostante, li porterà in seguito ad incontrarsi con gli antifascisti politici del ventennio, i quali, ricchi di esperienze di lotta e segnati dalla repressione fascista, li aiuteranno a formarsi una compiuta coscienza politica. C’è poi la maniera – diversa – di reagire di quella comunità diffusa che è la gente dei casali di montagna, con una realtà sociale chiusa nella sua secolare estraneità ai fatti del mondo, nell’isolamento in cui è sempre vissuta. Infatti la reazione che i contadini poveri della montagna ebbero nel trovarsi d’improvviso al centro di un evento storico straordinario come quello della guerra di liberazione fu una reazione non univoca, tormentata. Se da un lato essi erano spinti a collaborare con i partigiani da una istintiva solidarietà umana e, anche, dal fatto che in definitiva nei partigiani si riconoscevano i portatori possibili di un domani migliore, dall’altro in essi riaffiorava, a trattenerli, la secolare diffidenza, la paura, paura della rappresaglia tedesca, paura di perdere anche quel poco che avevano. Un simile approccio alla Resistenza consente dunque – ed è giusto sottolinearlo come considerazione conclusiva – il recupero di quella dimensione umana e politica della lotta di liberazione che non infrequentemente viene dimenticata in più complesse ricostruzioni storiche della vicenda partigiana.
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L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna 1. “Dateci pane e lavoro”
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All’indomani della promulgazione delle leggi eccezionali, i tentativi di riorganizzazione e di opposizione clandestina, di cui è protagonista ciò che resta delle forze politiche antifasciste umbre, sono per lo più scoperti e soffocati dalla polizia fascista1. Dalla fine del 1926 agli inizi del 1929 il panorama della repressione in Umbria risulta tutt’altro che trascurabile. Si contano 69 denunciati al Tribunale Speciale e 22 assegnati al confino; ad essi va poi aggiunto un considerevole numero di ammoniti e diffidati2. Nonostante che, allo scadere del 1928, a Terni si registrino ancora “sporadiche manifestazioni di attività sovversiva consistenti in iscrizioni di contenuto ostile al regime sui muri di alcuni stabili e in offese a S.E. il capo del governo perpetrate da individui identificati ed arrestati”, la situazione “dal lato politico” appare alle autorità di pubblica sicurezza completamente normalizzata3. Le stesse manifestazioni pubbliche attraverso cui i prefetti di Perugia Il saggio è stato pubblicato con lo stesso titolo in L. Brunelli e G. Canali, L’antifascismo umbro e la guerra civile di Spagna, ISUC, Editoriale Umbra, Foligno 1992. 1
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Per la situazione di Terni cfr. Contributo dell’antifascismo nel Ternano 1921-1943, a cura di R. Righetti e B. Zenoni, Terni 1976; per la situazione di Perugia, in particolare, cfr., ACS, DGPS AGR Associazioni, ctg. G 1, b. 225, fasc. 466, relazione del prefetto, 2 ottobre 1928; in essa, tra l’altro, si legge: “Alla Questura [...] non risulta che da parte degli elementi sovversivi, o comunque contrari al Regime, venga svolta azione perturbatrice. I più facinorosi furono colpiti con l’invio al confino, vennero sottoposti ai vincoli dell’ammonizione coloro che, per i loro precedenti politici, potevano far ritenere di essere comunque pericolosi, e vengono vigilati tutti gli altri, che, per la maggior parte, sono stati diffidati ai sensi della Legge di P.S. Ogni intesa per la propaganda sovversiva, se tentata, è stata subito sventata e repressa [...]. Com’è noto, in questa provincia sono numerosi gli elementi massonici, ma anche costoro si mantengono in disparte, e non mostrano, apparentemente, di tentare la ricostituzione delle loro file. Parte di essi sono passati al Fascismo”. Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista. II. L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Einaudi, Torino 1968, pp. 469-470; L. Casali, E se fosse dissenso di massa?, in “Italia contemporanea”, n. 144, 1981, p. 105; A. Dal Pont e S. Carolini, L’Italia dissidente e antifascista. Le ordinanze, le sentenze istruttorie e le sentenze in camera di consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputati di antifascismo dall’anno 1927 al 1943, vol. I, La Pietra, Milano 1980, passim; Idem, L’Italia al confino. Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, vol. III, La Pietra, Milano 1983, pp. 1219-1244; ACS, UCP, ctg. 710/58, b. 89, fasc. “Perugia-Ammoniti e diffidati” e ctg. 710/82, b. 109, fasc. “Terni-Ammoniti e diffidati”. ACS, DGPS AGR Associazioni, ctg. G 1, b. 227, fasc. 467/2, “Situazione della Pubblica Sicurezza dal lato politico nelle Provincie del Regno durante il trimestre dall’1 ottobre al 31 dicembre 1928 (anno VII)”.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
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ACS, DGPS AGR 1929, ctg. E 1, b. 18 1, fasc. “Elezioni politiche-Affari generali”, telegrammi dei prefetti di Perugia e di Terni, 16 marzo 1929. Ivi, rapporto del prefetto di Terni, 13 marzo 1929. Ivi, documentazione diversa. Significativa è al riguardo la testimonianza di Alcibiade Laurenti (detto Ettore, 1915, operaio) sullo svolgimento della consultazione a Terni: “Mio padre dice: ‘Andiamo a votare!’. Pensava che la mia presenza – ero un ragazzo – avrebbe scoraggiato i fascisti dall’infastidirlo. Andiamo al seggio... al tribunale vecchio. Entriamo e c’era il presidente del seggio, un tenente della milizia, ed intorno tutti i militi. Sul tavolo c’era un recipiente pieno di olio di ricino, un imbuto, diversi nerbi e moschetti. Quelli stavano lì come libertà. Appena entra mio padre gli dicono: ‘Ah, eccolo il bolscevico, adesso vediamo cosa fa!’. Mio padre mi stringeva la mano. Io avevo paura, ero un ragazzetto. Insomma prende la scheda e vota ‘si’. Che doveva fare secondo voi?”. Intervista del 19 novembre 1984. Interessante è anche la testimonianza di Comunardo Tobia (1920, funzionario PCI e CGIL), il quale, presente all’intervista di Laurenti, ha ricordato come, nella stessa occasione, a Papigno l’antifascista Leonida Galluzzi, che voleva astenersi dal voto, fu trascinato a votare a colpi di bastone. Sul plebiscito a Perugia, in particolare, cfr. L. Messini, Ponte San Giovanni tra i due conflitti mondiali 1918-1940, Perugia 1990, pp. 66-67.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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e di Terni avviano, il 16 marzo 1929, la “campagna elettorale” per la consultazione plebiscitaria, avvengono in un clima di largo consenso4. Al Teatro Morlacchi di Perugia si ha una tale affluenza di popolazione – di “ogni ceto” – che i locali del pur “amplissimo” teatro risultano insufficienti a contenerla tutta. Analogamente a Terni il Teatro Verdi risulta “letteralmente” gremito da un “numerosissimo” pubblico, in larga parte composto da operai ed agricoltori provenienti da diverse zone della provincia. In effetti – dopo che l’1 marzo in uno dei gabinetti dello stabilimento elettrochimico della Società Terni, a Nera Montoro, si era rinvenuta la scritta: “Buoni italiani disertate le urne, non votate gli arrivisti che sono gli affamatori dei veri italiani”5 – per tutto il periodo che precede la consultazione non si hanno significative manifestazioni di propaganda a favore del “no” o dell’astensione. In questo senso si registrano soltanto la diffusione per posta di materiale a stampa da parte dell’organizzazione clandestina comunista e della Concentrazione di azione antifascista6. Il venir meno di qualsiasi forma di opposizione rende pertanto fiduciosi i fascisti a proposito del responso delle urne. A scanso di brutte sorprese, essi comunque non tralasciano di accompagnare le operazioni di voto con il consueto rituale di minacce ed intimidazioni7. Il risultato del “plebiscito” del 24 marzo 1929 – com’è nelle previsioni – evidenzia in tutta la regione una vittoria schiacciante dei “si”. Tuttavia, anche in considerazione delle condizioni in cui la consultazione si è svolta, il numero delle astensioni e dei voti contrari risulta significativo, perché denuncia la presenza di consistenti nuclei di dissidenti, accentrati soprattutto in quei comuni dove, nel periodo prefascista, il movimento operaio aveva posto più saldamente le proprie radici. In provincia di Perugia gli elettori iscritti a votare sono 110.329 – 108.229 esclusi emigrati e militari; di essi soltanto 100.928 si recano alle urne. I voti favorevoli alla lista fascista risultano 99.855 (98,94%), mentre 1.032 (1,02%) sono quelli contrari; si hanno poi 41 (0,04%) voti contestati o nulli. I comuni in cui più forte
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si manifesta il dissenso sono: Perugia con 120 voti contrari, Foligno con 186, Spoleto con 151, Assisi con 96, Città di Castello con 91, Gubbio con 75, Trevi con 48 e Monte Santa Maria Tiberina con 41. Nella provincia di Terni, invece, su un totale di 51.052 aventi diritto al voto – 50.154 esclusi emigrati e militari – si registrano 44.290 votanti, di cui 43.253 (98,27%) favorevoli e 751 (1,69%) contrari. I voti contestati o nulli sono 16 (0,04%). La presenza di nuclei consistenti di avversari del regime si evidenzia in particolare a Terni con 503 voti contrari, ad Orvieto con 105 ed a Narni con 488. Il circondario di Terni, rispetto a quello perugino, fa registrare una concentrazione di oppositori percentualmente più alta. Questa diversa situazione viene confermata alla fine dell’anno quando i prefetti sono sollecitati dal Ministero dell’Interno a compilare l’elenco delle “persone pericolose da arrestarsi in determinate contingenze” residenti nelle rispettive provincie. Infatti, in questa circostanza, il prefetto di Perugia può comunicare con soddisfazione al Ministero dell’Interno quanto segue:
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In questa provincia non risiedono presentemente persone pericolose […], perché i sovversivi, veramente pericolosi, o sono stati assegnati al confino, o si sono da tempo rifugiati all’estero per sfuggire alle rappresaglie fasciste. [...] La locale Questura ha, tuttavia, approntato [ndr un] elenco di ex confinati ed ex ammoniti politici da arrestare solo in caso di grave perturbamento dell’ordine pubblico, trattandosi, in genere, di persone prosciolte dai vincoli di polizia anche prima della scadenza del termine, per aver dato prova di ravvedimento e per speciali circostanze di famiglia. Difatti, i provvedimenti suaccennati, più che in considerazione della maggiore o minore pericolosità dei colpiti, furono, a suo tempo applicati perché servissero di monito e di remora per tutti i malintenzionati. Le predette persone hanno qui stabile occupazione e da vari anni non danno luogo a rimarchi con la loro condotta. E poiché esse vivono in piccoli centri, ove la loro attività è facilmente controllabile, l’eventuale arresto in massa, per misure di P.S., genererebbe, indubbiamente, nella popolazione un allarme ingiustificato.
Nell’elenco sono incluse 41 persone (28 comunisti, 11 socialisti, 1 anarchico e 1 senza qualifica politica), delle quali soltanto sette risultano residenti nel comune di Perugia9. Diversa si presenta la situazione nella provincia di Terni. In essa vengono segnalati 29 antifascisti, i quali – in prevalenza comunisti – sono realmente ritenuti pericolosi; di essi 19 hanno la propria residenza nel comune capoluogo10.
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Cfr. Istituto Centrale di Statistica del Regno d’Italia, Statistica delle elezioni generali politiche per la XXVIII legislatura (24 marzo 1929 - Anno VII), Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1930. I dati relativi ai singoli comuni sono tratti dal prospetto relativo ai risultati elettorali del 24 marzo 1929 nelle provincie di Perugia e di Terni in ACS, DGPS AGR 1929, ctg. E 1, b. 180, fasc. “Elezioni politiche-Affari generali”. ACS, CPC Categorie particolari di sovversivi 1927-1944, ctg. S 13 A, b. 10, fasc. “Perugia”, rapporto del prefetto, 30 dicembre 1929. Gli altri antifascisti segnalati risiedono: 9 a Spoleto, 4 a Marsciano, 3 a Foligno, 3 a Città di Castello, 3 a Castiglione del Lago, 2 a Todi, 1, rispettivamente, a Città della Pieve, Gubbio, Ponte Pattoli, Magione, Tuoro, Spello, Piedipaterno sul Nera, Corciano, San Giustino e Montone. Ivi, b. 13, fasc. “Terni”. Gli altri antifascisti segnalati risiedono: 4 ad Orvieto, 1, rispettivamente, a Castel Viscardo, Ficulle, Fabro, Lugnano, Penna in Teverina e Giove.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Questa difforme presenza delle forze dell’antifascismo è all’origine delle differenziate reazioni che sul piano politico e sociale si hanno nelle due provincie allorché l’intero tessuto economico regionale deve misurarsi con le ripercussioni della “grande crisi”11.
La situazione economica di Perugia, all’inizio degli anni trenta, è contrassegnata dalle rilevanti difficoltà in cui versano alcuni settori produttivi12. Nel comparto agricolo i contraccolpi della più vasta crisi economica provocano un sensibile crollo dei prezzi all’ingrosso delle diverse produzioni13. Nei settori finanziario, industriale e commerciale si registrano dissesti economici di vario genere, fallimenti e chiusure di stabilimenti14. Sono senza dubbio le classi lavoratrici a scontare maggiormente, in termini di possibilità di occupazione e di peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, le conseguenze di questa critica situazione dell’economia. Mentre il processo deflattivo produce una pesante diminuzione del reddito contadino nei poderi – soprattutto in quelli di collina15 – salari e stipendi subiscono delle sensibili decurtazioni16. Nella prima parte del 1930 la disoccupazione, invece, ancora non sembra presentarsi “con caratteri allarmanti”17. In agosto però i disoccupati arrivano ad essere 11
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Sulla situazione politica in Umbria cfr. Politica e società in Italia dal fascismo alla Resistenza. Problemi di storia nazionale e storia umbra, a cura di G. Nenci, il Mulino, Bologna 1978; R. Covino, Classe operaia, fascismo, antifascismo a Terni, in G. Canali, Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione, Amministrazione Comunale Terni, ANPI Terni, Terni 1984; R. Covino, Dall’Umbria verde all’Umbria rossa, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Umbria, a cura di R. Covino e G. Gallo, Einaudi, Torino 1989; G. Gubitosi, Forze e vicende politiche tra il 1922 e il 1970, in A. Grohmann, Perugia, Laterza, Roma-Bari 1990. Per una panoramica d’insieme si vedano i rapporti trimestrali dei prefetti presenti in ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. C 1, b. 325, fasc. “Perugia-Ordine pubblico” e DGPS AGR 1932, sez. II, ctg. C 1, b. 49, fasc. “Perugia-Ordine pubblico”. Cfr. inoltre M. Scardozzi e L. La Penna, Note sulle campagne umbre dall’avvento del fascismo agli anni trenta, R. Covino e G. Gallo, Ipotesi e materiali per una storia dell’industria nella provincia di Perugia dal primo dopoguerra alla ricostruzione, in Politica cit. (a nota 11); G. Gallo, Tipologia dell’industria ed esperienze d’impresa in una regione agricola, e G. Nenci, Proprietari e contadini nell’Umbria mezzadrile, in Storia d’Italia cit. (a nota 11); R. Covino, G. Gallo, L. Tittarelli e G. Wapler, Economia, società e territorio, in Grohmann, Perugia cit. (a nota 11). Nenci, Proprietari, cit. (a nota 11), pp. 239 sgg. Tra i casi più rilevanti vi sono quello del Cotonificio di Spoleto, il cui fallimento nella prima metà del 1930 lascia senza occupazione circa 1.400 operai, e quello della Società Termoelettrica Umbra, che a partire dal maggio dello stesso anno, a causa di una crisi di solvibilità finanziaria, è costretta a lasciare per molti mesi senza salario i propri dipendenti. Cfr. ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. C 1, b. 325, fasc. “Perugia-Ordine pubblico”, documentazione diversa. Nel 1932 il reddito colonico risulta addirittura azzerato, cfr. Nenci, Proprietari cit. (a nota 12), p. 241. ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. C 1, b. 325, fasc. “Perugia-Ordine pubblico”, relazione dei prefetto, 20 gennaio 1931. Ivi, relazione del prefetto, 16 aprile 1930. Da parte del prefetto si sottolinea, tra l’altro, che “mentre la manovalanza potrà, con l’inizio della buona stagione, trovare facile collocamento nei lavori agricoli, i rimanenti operai si vanno in gran parte sistemando presso le imprese di opere pubbliche o emigrano temporaneamente all’Estero”.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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più di 3.000 ed a questo punto è soltanto l’emigrazione a configurarsi come una vera valvola di sfogo. Non a caso, in settembre, nonostante il già intenso flusso migratorio dei mesi precedenti, la questura si vede costretta a rilasciare 624 passaporti ad operai disoccupati ed a dover far fronte a più di 1.500 richieste di espatrio18. Le autorità cercano di fronteggiare questo preoccupante stato di cose sollecitando il varo di una serie di lavori finanziati da enti pubblici e da privati, come la costruzione del tubercolosario e del campo sportivo a Perugia, del campo di aviazione ad Umbertide e della ferrovia Umbertide-San Sepolcro. Allo scadere del 1930, stabilizzatasi la situazione nel settore industriale19, si registra un calo della disoccupazione dovuto soprattutto – secondo il prefetto – “al ritorno alla vita dei campi di molti manovali che si erano lasciati adescare dalla lusinga di più lauti e più facili guadagni”20. Ma all’inizio del 1931 i dati forniti dalle diverse autorità comunali e dai sindacati fanno ammontare il numero dei disoccupati a circa 5.00021. In seguito il persistere e, per certi versi, l’acutizzarsi della crisi del settore agricolo, portano ad un ulteriore aggravamento della situazione economica e sociale della provincia. Le condizioni dell’ordine pubblico – scrive il prefetto nel luglio 1932 – permangono ottime. Non altrettanto può dirsi di quelle dello spirito pubblico a causa della disagiata situazione economica delle classi agricole in dipendenza dello scarso raccolto granario e del tracollo dei prezzi del bestiame in una provincia, come questa, nella quale l’agricoltura rappresenta la principale e prevalente risorsa degli abitanti. [...] Le preoccupazioni per il prossimo inverno, mentre non si affacciano rispetto alla disoccupazione operaia che potrà essere efficacemente fronteggiata mercé il vasto piano di lavori pubblici già predisposti, sono fondate nei riguardi della numerosa e benemerita classe dei coloni ridotta in condizioni criticissime e la cui assistenza si presenta difficile tanto più che non può farsi assegnamento alcuno sulla generosità dei proprietari che si trovano nella necessità e sperano in uno sgravio di tributi22.
Il disagio ed il malcontento, prodotti da queste difficili condizioni di vita, non riescono tuttavia a tradursi in significativi fenomeni di ribellione sociale e politica. Emerge piuttosto un quadro in cui tra larghi strati della massa lavoratrice sembrano prevalere l’acquiescenza e la rassegnazione. Vale la pena di fornire al riguardo alcuni esempi. Quando, nel gennaio 1930, il Cotonificio di Spoleto sospende il lavoro a causa di 18 19
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Ivi, relazione del prefetto, 16 ottobre 1930. Ivi, relazione del prefetto, 20 gennaio 1931. Al riguardo il prefetto riferisce: “Gli stabilimenti industriali della provincia, impiantati e condotti con sani criteri, ad incominciare da quello più importante della ‘Perugina’, si sostengono coraggiosamente. Altre industrie, invece, e specialmente quelle estrattive (miniere ed officine termoelettriche di Pietrafitta e del Bastardo), sorte con falsi criteri di speculazione, non resistono alla crisi e minacciano di fallire”. Ibidem. Ivi, relazione del prefetto, 12 aprile 1931. ACS, DGPS AGR 1932, ctg. C 1, b. 49, fasc. “Perugia-Ordine pubblico”, relazione del prefetto, 9 luglio 1932.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
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ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. C 1, b. 325, fasc. “Perugia-Ordine pubblico”, documentazione diversa. Ivi, documentazione diversa. Ivi, documentazione diversa. Per la citazione si veda il rapporto del prefetto dell’1 aprile 1930. Ivi, rapporto del prefetto, 2 novembre 1931. ACS, DGPS AGR 1932, ctg. C 1, b. 49, fasc. “Perugia-Ordine pubblico”, rapporto del prefetto, 6 gennaio 1932.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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una “crisi di sovrapproduzione”, gli operai pensano di riunirsi per protesta presso la sede del sindacato. Ma l’intervento deciso del funzionario di pubblica sicurezza, che vieta qualsiasi forma di assembramento, scoraggia la volontà di manifestare dei lavoratori. Di conseguenza l’unico atto che essi riescono a fare per salvare la fabbrica è quello di inviare un telegramma a Mussolini, in cui invocano il suo “paterno autorevolissimo intervento” affinché possa essere scongiurata la “rovinosa” chiusura dello stabilimento23. Analoga situazione si verifica per gli operai delle miniere di lignite di Fontevecchio, lasciati dalla Società Termoelettrica Umbra per più di venti settimane senza salario. Essi, pur interrompendo il lavoro, affidano la soluzione dei propri problemi alle provvidenze ed all’interessamento delle autorità governative e fasciste. Questo atteggiamento remissivo viene premiato dallo stesso Mussolini, il quale concede un sussidio di 10.000 lire da destinare agli operai24. Comunque, in questi anni di crisi, si hanno anche in provincia di Perugia agitazioni e, per usare il linguaggio della polizia, “dimostrazioni di carattere collettivo”, alimentate dai più disparati motivi. Esse, però, hanno un carattere episodico e, soprattutto, denunciano l’assenza di un forte principio “politico” ispiratore. Nel marzo 1930, a Perugia, sessanta operaie del reparto Scatolame dello stabilimento appartenente alla Società Anonima Fabbriche Riunite di Fiammiferi danno vita ad una spontanea manifestazione di protesta. Informate – tramite avviso – che le loro tariffe salariali avrebbero subito una decurtazione retroattiva del 15 per cento, esse si recano immediatamente dal direttore per avvertirlo che “si sarebbero rifiutate di riscuotere alla sera l’ammontare della seconda quindicina di marzo, ove essa non fosse stata corrisposta secondo le vecchie tariffe; anche perché nessun preavviso di tale riduzione era stato mai dato”. La risoluzione della vertenza viene quindi affidata ai rappresentati sindacali, i quali ottengono dalla direzione aziendale, dapprima, un rinvio e, successivamente, un definitivo ritiro del provvedimento25. Nell’ottobre 1931, alla riapertura della scuola elementare, alcuni contadini della frazione di San Nicolò di Celle del comune di Deruta impediscono l’ingresso agli alunni come forma di protesta contro il provvedimento di trasferimento con cui la maestra dell’anno precedente era stata colpita per non avere “voluto o saputo assecondare lo sviluppo delle organizzazioni giovanili fasciste in quella frazione”26. Nel gennaio 1932 circa ottanta contadini di Montone si recano presso la sede municipale e restituiscono per protesta le notifiche di pagamento relative alla tassa di famiglia, di nuova istituzione. Essi giustificano “il loro atto con le disagiate condizioni in cui versano per le contrarie vicende agricole dell’annata”27.
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A Costacciaro, nel maggio 1933, circa cinquanta persone, in maggioranza donne, si riuniscono e si recano a protestare contro le autorità politiche a causa della chiusura di un pascolo sul Monte Cucco, disposta dalla Milizia Forestale28. Si tratta – come è evidente – di un potenziale di protesta sociale che però non riesce ad avere un indirizzo “politico” a causa della mancanza in provincia di un movimento antifascista organizzato. Del resto l’assenza da Perugia e dal suo circondario delle migliori forze dell’opposizione – costrette a riparare all’estero o colpite dalla repressione poliziesca – rende pressoché impossibile qualsiasi tentativo di riorganizzazione clandestina. A scontare questa difficoltà sono soprattutto i militanti comunisti, i quali, più volte, cercano di mettere in piedi una rete organizzativa. Nel gennaio 1930 un fiduciario fascista avverte le autorità di polizia che il militante comunista Pompilio Molinari, incaricato di ricostituire il partito in Umbria, si era incontrato a Foligno con i compagni di fede Gilberto Bianconi e Andrea Iommi e che all’incontro era stata presente anche la fidanzata di quest’ultimo, Vera Innamorati, figlia dell’ex deputato socialista Ferdinando. Le successive indagini avviate dalla polizia evidenziano comunque che le “mene sovversive” non hanno portato ad alcun risultato29. Una conferma in questo senso si ha nell’aprile 1932 quando, dal centro estero di Parigi, il funzionario comunista Clemente Maglietta viene inviato in Umbria allo scopo di riorganizzare le fila del partito. Al riguardo, il prefetto di Perugia può infatti comunicare con soddisfazione al Ministero dell’Interno quanto segue: Le condizioni della pubblica sicurezza nei riguardi dell’attività sovversiva o comunque contraria al Regime, non destano in questa provincia, alcuna preoccupazione. La migliore riprova si è avuta […] in occasione dell’arrivo dalla Francia dell’emissario comunista dottor Clemente Maglietta, arrestato poi a Pescara, il quale non riuscì a stabilire, né a Perugia né negli altri comuni da, lui visitati, alcun utile contatto. Le poche persone avvicinate e che furono poi identificate e fermate, vennero rilasciate per mancanza di qualsiasi elemento di responsabilità30.
Ancora a Foligno nell’agosto 1933 la polizia è messa in allarme da una “non dubbia attività sovversiva” svolta dal comunista Brandi Menotti, che si reca in alcuni paesi del circondario per prendere contatti con diversi antifascisti. I sospetti si accentuano quando il 29 agosto lo stesso Brandi Menotti ed altri noti avversari del regime – tra cui Ferdinando Innamorati – si riuniscono a pranzo in un albergo della frazione di Casenove. Anche in questa circostanza la pronta mobilitazione 28
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ACS, DGPS AGR 1933, sez. II, ctg. C 1, b. 53, fasc. “Perugia-Ordine pubblico”, telegramma del comandante interinale della tenenza dell’Arma dei Carabinieri di Gubbio, 29 maggio 1933. Cfr. ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. K 1 B, b. 431, fasc. “Perugia-Partito Comunista”, appunto manoscritto, s.d.; nonché ACS, CPC, b. 2635, fasc. “Innamorati Ferdinando”, documentazione diversa. ACS, DGPS AGR Associazioni, ctg. G 1, b. 225, fasc. 466, relazione del prefetto, 9 luglio 1932. Sull’azione svolta da Clemente Maglietta in Umbria si dirà più diffusamente in seguito, trattando delle vicende di Terni.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Gli studenti dell’Istituto Medio di Agricoltura di Todi hanno formato una squadra di calcio, che, alla domenica, si incontra con altra squadra locale, composta in maggior parte, di operai del Rione di Porta Fratta. Naturalmente tutto il popolino di questa zona parteggia per la propria squadra; e poiché nel pomeriggio di domenica 14 [giugno ndr] ebbe luogo una partita aspramente contesa, nella quale gli studenti furono accusati di scorrettezza sportiva, maggiore fu il risentimento dei “tifosi” avversari. In seguito a ciò, la sera del 22 giugno, avviene che la “ragazzaglia” di Porta Fratta, vedendo passare alcuni studenti della squadra calcistica dell’Istituto di Agricoltura – per di più conosciuti come fascisti – intona contro di loro “Bandiera rossa”33.
Il 2 aprile 1932, nella frazione di Olmo, a pochi chilometri da Perugia, una pattuglia della Milizia della Strada, di ritorno in motocicletta da Arezzo viene fatta segno di colpi di rivoltella da parte di sconosciuti; un vice brigadiere rimane ferito alla gamba destra34. 31
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Cfr. la diversa documentazione contenuta in ACS, DGPS AGR 1933, sez. I, ctg. C 2 A, b. 8, fasc. “PerugiaMovimento sovversivo antifascista” e ctg. K 1 B, b. 31, fasc. “Perugia-Partito Comunista”. ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. K 1 B, b. 431, fasc. “Perugia-Partito Comunista”, telegramma del tenente comandante la Tenenza di Perugia, 30 marzo 1931. Ivi, ctg. C 2 A, b. 349, fasc. “Perugia-Movimento sovversivo antifascista”, rapporto del prefetto, 24 giugno 1931. ACS, DGPS AGR 1932, sez. I, ctg. C 2 A, b. 15, fasc. “Perugia-Movimento sovversivo antifascista”, comunicazione del direttore capo della Divisione di Polizia, 3 aprile 1932.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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dell’apparato repressivo poliziesco, che subito sottopone ad interrogatorio ed a stretta vigilanza i sospetti, vanifica il loro paziente lavoro di organizzazione31. Se pure l’antifascismo militante non riesce a strutturare una base – anche minima – di opposizione organizzata, continua ad alimentarsi una trama diffusa di fenomeni di dissidenza, in cui trova percepibile espressione la volontà di non rassegnarsi di alcuni “sovversivi”. Si tratta di un antifascismo istintivo, spontaneo, non alimentato da un retroterra politico organizzato. La manifestazione di dissenso è per lo più prodotta da un improvviso risveglio di coscienze troppo a lungo tacitate o da incaute reazioni alle forme più oppressive della coazione politica e sociale. I rapporti delle autorità di polizia, in merito a queste immediate dimostrazioni di antifascismo, tendono ad evidenziare il loro carattere di “episodi isolati” che non vanno interpretati “come sintomo di una ripresa di attività sovversiva o comunque contraria al Regime”; non di rado esse vengono valutate come gesti “inconsiderati” compiuti da persone poco sane di mente od in preda ad “un momento di esaltazione alcolica”. Il 30 marzo 1931 in una piazza di Città della Pieve, dove una settantina di operai disoccupati è in attesa delle deliberazioni del podestà relative all’inizio di alcuni lavori, Orlando Battaglini – “in stato [di] semi ubriachezza” – grida: “È tempo di finirla, dateci pane e lavoro”. Arrestato, dalla finestra del carcere si mette a cantare “Bandiera rossa”, incitando i passanti a cantare con lui32. A Todi, nel giugno dello stesso anno, lo scontro di classe trova forme e modi del tutto particolari per manifestarsi. Il prefetto così spiega l’antefatto:
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A Spoleto, nella notte tra l’1 ed il 2 maggio, due giovani, Luigi Palmieri – comunista ed ex ammonito politico – ed Enrico Sebastiani, scrivono su alcuni muri, con il carbone, delle frasi sovversive: “Viva il comunismo”, “Abbasso i signori e chi li protegge”, “Viva il Re e abbasso il nostro Duce, perché non ci dà lavoro”35. Il 19 novembre 1933, a Perugia, nel corso delle operazioni di timbratura della posta si rinviene una cartolina, indirizzata “a quel pazzo di Benito Mussolini”, in cui si legge: “Noi ce ne freghiamo santissimamente di essere imperiali schiavi e a pancia vuota! Procura di metterti d’accordo con gli altri, perché altrimenti farai una peggiore fine di quella che hanno fatto i tedeschi. Il fascismo è schiavitù. Il fascismo sarà la rovina dell’Italia”36.
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Anche la provincia di Terni, nel periodo a cavallo degli anni trenta, non sfugge ai contraccolpi della sfavorevole congiuntura economica internazionale. Sono in particolare le maggiori aziende ternane ad accusare una serie di difficoltà economiche e produttive37. Nel complesso industriale della Società Terni gli effetti della “grande crisi” si innestano in una situazione già resa difficile dagli esiti della politica deflazionistica mirante a “quota novanta” e da problemi interni di investimenti, ristrutturazioni e “razionalizzazioni” produttive. Allo Jutificio Centurini, nell’ottobre 1931, una profonda crisi produttiva induce la direzione aziendale a licenziare “senza preavviso” circa la metà delle maestranze38. In conseguenza di questa generale situazione si ha un andamento della disoccupazione caratterizzato da un lungo ed ininterrotto crescendo39. Nel solo comune di Terni dal 30 giugno 1931 al 5 febbraio 1932 – uno dei periodi più critici – si passa da 1.823 a 3.222 disoccupati40. Le masse lavoratrici sono colpite non solo con la disoccupazione, ma anche con riduzioni dell’orario lavorativo, aumento dei ritmi produttivi, decurtazioni salariali. Emblematico è quanto avviene nel maggiore complesso produttivo ternano. Nel dicembre 1931 il prefetto così descrive la situazione: 35 36
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ACS, UCP, ctg. 710/58, b. 89, fasc. “Perugia-Ammoniti e diffidati”, rapporto del prefetto, 6 maggio 1932. ACS, DGPS AGR 1933, sez. I, ctg. C 2 F, b. 13, fasc. “Perugia-Offese a S.E. il Primo Ministro”, rapporto del prefetto, 20 novembre 1933. Cfr. F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Einaudi, Torino 1975, pp. 187 sgg.; nonché la diversa documentazione contenuta in ACS, AF PNF, b. 24, fasc. “Terni”; ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. C 1, b. 331, fasc. “Terni-Ordine pubblico”; ACS, DGPS AGR 1932, sez. II, ctg. C 1, b. 52, fasc. “Terni-Ordine pubblico”. Si veda anche G. Canali, Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia. Terni 1880-1953, in Storia d’Italia cit. (a nota 11), pp. 685-694, in cui alcuni aspetti e vicende qui presenti sono già stati trattati. Cfr. ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. C 1, b. 331, fasc. “Terni-Ordine pubblico”, telegramma del prefetto, 5 dicembre 1929; nonché M.R. Porcaro, Operaie ribelli e “chiassose”: le centurinare, in Storia d’Italia cit. (a nota 11), p. 730. Cfr. Covino, Classe operaia cit. (a nota 11), p. 58. ACS, DGPS AGR 1932, sez. II, ctg. C 1, b. 52, fasc. “Terni-Ordine pubblico”, prospetto riassuntivo della situazione della disoccupazione.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
In effetti, a partire dalla fine degli anni venti un clima di tensione e di fermento sembra diventare endemico tra le masse operaie ternane. Esse rispondono al rincrudimento della disciplina industriale adottando forme di autodifesa diverse. In alcuni casi si tratta di reazioni spontanee ed elementari, ma spesso la risposta dei lavoratori fa parte di un consolidato patrimonio di memoria storica e di tradizioni di lotta42. La resistenza operaia trova espressione nelle punte elevate di assenteismo che si registrano soprattutto nello stabilimento siderurgico della Società Terni43, ma anche nei ricorrenti tentativi di sabotaggio delle macchine. Alle Acciaierie, tra il settembre 1930 ed il febbraio 1932, più volte si scopre, “in locomotive depositate nell’apposito reparto per le riparazioni, la esistenza, in parti vitali, di corpi estranei che qualora non fossero stati tolti, nel funzionamento della macchina e precisamente in uno sforzo della stessa, avrebbero potuto provocare disastri ferroviari”44. Non di rado però si hanno aperte manifestazioni di protesta. Il 20 dicembre 1929 gli operai dello stabilimento Alterocca danno vita “improvvisamente” ad un’agitazione per protestare contro l’applicazione della riduzione del 7 per cento sul salario globale, anziché sulla quota caroviveri45. Ma è soprattutto la classe operaia dello stabilimento siderurgico ad essere protagonista. Una diminuzione salariale provoca, il 7 novembre 1930, la fermata spontanea delle maestranze di alcuni reparti46. Nel giugno 1931 venti operai licenziati inscenano “una dimostrazione ostile a base di improperi e minacce” davanti all’abitazione di un dirigente aziendale47. Nel dicembre successivo, “a causa di un aumento di cottimo imposto dalla società”, un gruppo di operai della sezione proiettili sospende il lavoro per venti minuti “riunendosi in rumoroso assembramento”; alcuni di essi lasciano 41 42 43
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Ivi, copia del rapporto del prefetto datato 20 dicembre 1931 (il corsivo è mio). Cfr. Canali, Tradizione cit. (a nota 37). Cfr. M. Ilardi, Ristrutturazione aziendale e classe operaia sotto il fascismo: la Società Terni (1928-32), in “Il movimento di liberazione in Italia”, n. 112, 1973, pp. 31-53; Covino, Classe operaia cit. (a nota 11), p. 45. ACS, DGPS AGR 1932, sez. II, ctg. C 1, b. 52, fasc. “Terni-Ordine pubblico”, promemoria s.fasc. 9 febbraio 1932. ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. C 1, b. 331, fasc. “Terni-Ordine pubblico”, telegramma del prefetto, 20 dicembre 1929. Ilardi, Ristrutturazione cit. (a nota 43), p. 50.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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La Società Terni oltre a procedere giornalmente a licenziamenti di gruppi di operai – in alcuni casi senza giustificabile motivo – mette in opera ogni tentativo per ottenere praticamente riduzioni di paghe, eludendo, con artificiosi ragionamenti, i patti di lavoro. Nei licenziamenti, con la scusa della specialità delle sue lavorazioni, quasi sempre elude le disposizioni emanate, trattenendo al lavoro i meno bisognosi e licenziando padri di famiglia e spesso i pochi fascisti operai. Tale atteggiamento, che non si è modificato sostanzialmente dall’intervento dei sindacati, non è stato nemmeno modificato dopo che il sottoscritto ha fatto presente ai dirigenti locali […] il pericolo di tale atteggiamento, che evidentemente aveva favorito […] coll’acuirsi del malcontento degli operai, una ripresa di speculazione di ostilità al Regime fra le masse operaie41.
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intendere di voler compiere “atti di sabotaggio verso le turbine motrici delle Acciaierie”48. Nel gennaio 1932 gli operai del reparto “getti acciaio” scioperano per un’ora e mezzo allo scopo di rivendicare il diritto di avere pagato, con la quindicina, anche il cottimo per il lavoro non ancora ultimato49. La repressione, messa in atto prontamente ed in ogni occasione, non riesce a fermare la crescita all’interno delle classi lavoratrici di un’inquietudine collettiva, di cui gli episodi appena descritti rappresentano soltanto alcuni sintomi. Essa viene più volte denunciata da tutori dell’ordine pubblico, da fiduciari fascisti e da improvvisati delatori. Il 20 dicembre 1931 il prefetto segnala che nelle masse operaie si era creato uno stato d’animo tale che “esacerbandosi” avrebbe potuto diventare “molto pericoloso”50. A qualche giorno di distanza il proprietario di un’osteria di Terni, “da buono italiano”, mette in guardia Mussolini contro un attentato della cui preparazione ha sentito parlare nel suo locale.
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Nella mia Osteria – precisa l’oste – vi frequenta gente per bene, come dei pregiudicati il quale io sento che mormorano male della di lei persona[;] accenno pure che tanti ammoniti quando anno saputo la disgrazia del di lei amato fratello, dalla contentezza si sono perfino ubbriacati51.
Sempre allo scadere del 1931 – in considerazione del fatto che “qualsiasi intemperanza di massa disoccupata non può essere arginata in tempo, mancando la forza pubblica corrispondente ai bisogni” – il prefetto sollecita un rafforzamento degli organici di polizia per Terni, Narni ed Orvieto52. Nel gennaio 1932 il funzionario governativo torna alla carica evidenziando la necessità di promuovere nel capoluogo la formazione di un manipolo di Camicie Nere da utilizzare in “casi di particolare ed urgente necessità”53. Infine, in un rapporto di pochi giorni successivo – riferendosi ad “alcuni indizi, rivelatisi a intervalli più o meno brevi tra le. maestranze della Società Terni” – il prefetto esplicita con maggior chiarezza alle autorità superiori le sue preoccupazioni: Tali sporadiche manifestazioni, che, considerate isolatamente non hanno alcuna importanza, debbono peraltro, essere messe in relazione fra loro, per la forma con la quale si appalesano e per il fatto che esse si verificano in un ambiente dove si addensano migliaia di operai che non hanno raggiunto un compiuto grado di comprensione fascista e che offrono quindi facile presa ad eventuali mire politiche. [...] La situazione, pertanto, è nel suo insieme, 47 48
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AST, ASST, b. 298, fasc. 12, lettera del direttore centrale amministrativo, 28 giugno 1931. ACS, DGPS AGR 1932, sez. II, ctg. C 1, b. 52, fasc. “Terni-Ordine pubblico”, relazione del prefetto, 4 febbraio 1932. Ivi, documentazione diversa. Ivi, copia della lettera del prefetto datata 20 dicembre 1931. ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. K 1 B, b. 434, fasc. “Terni-Partito Comunista”, lettera a firma P. Gino, 22 dicembre 1931. ACS, DGPS AGR 1932, sez. II, ctg. C 1, b. 52, fasc. “Terni-Ordine pubblico”, rapporto del prefetto, 22 dicembre 1931.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Nel delineare questa “situazione poco tranquillante” il prefetto non ha affatto torto. Il fermento operaio va interpretato infatti in rapporto non casuale con una apprezzabile ripresa dell’attività di organizzazione e di sensibilizzazione antifascista da parte dei militanti comunisti ternani55. Agli inizi del dicembre 1929 si avverte uno dei primi segnali della rinnovata presenza organizzativa delle forze comuniste a Terni. Infatti, in alcune zone periferiche della città vengono diffusi “una quarantina di foglietti rossi portanti stampigliato l’emblema della Terza Internazionale”56. Nel luglio 1930 la trama organizzativa risulta ancora molto debole; in tutta l’Umbria si annoverano solo 17 iscritti57. L’organismo clandestino ternano sta però diventando il punto di coagulo e di aggregazione di tutti gli “irriducibili” avversari del regime58, tanto che a gennaio 1931 si possono contare 15 iscritti soltanto a Terni19. I risultati di questa nuova situazione non tardano a vedersi. Alle prime ore del mattino dell’1 maggio 1931 in un’altura sovrastante Terni si rinviene appeso ad un albero “un panno rosso con in centro dipinti in nero una falce ed un martello e la scritta ‘Viva il comunismo – Viva il Maggio’”. Nello stesso giorno dei “manifestini incitanti alla lotta contro il Regime” sono diffusi nei dintorni del comune di Arrone e nelle adiacenze della Fabbrica d’Armi di Terni e dello stabilimento dell’Elettrocarbonium di Narni Scalo60. Il 23 settembre 1931, sempre alla Fabbrica d’Armi, è rinvenuto un manifestino ciclostilato, a firma “I gruppi sindacali comunisti [della] CGDLI”, in cui si “condanna la concezione fascista dello Stato corporativo, e [si] inneggia alla lotta di classe”61. Alla fine del 1931, tramite un militante fuoruscito in Francia, il gruppo comunista ternano riesce a riallacciare i contatti con il centro estero. In seguito a ciò il movimento di opposizione di Terni comincia ad essere “seguito e sorretto con ogni 53 54 55
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Ivi, rapporto del prefetto, 29 gennaio 1932. Il corsivo è nel testo. Ivi, rapporto del prefetto, 4 febbraio 1932. Cfr. G. Gubitosi, Il diario di Alfredo Filipponi comandante partigiano, Editoriale Umbra, Perugia 1991, pp. 7576. ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. K 1 B, b. 434, fasc. “Terni-Partito Comunista”, rapporto del prefetto, 5 dicembre 1929. P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. II. Gli anni della clandestinità, Einaudi, Torino 1978, p. 290. Sono in particolare alcuni militanti operai socialisti – come Giuseppe Bolli e Vincenzo Inches – che, stanchi della passività dimostrata dalla loro organizzazione, decidono nel 1931 di passare al Partito Comunista. Su Giuseppe Bolli si veda ACS, CPC, b. 700; su Vincenzo Inches oltre a ACS, CPC, b. 2632, si veda V. Inches, Autobiografia, Terni 1954, dattiloscritto. Il dattiloscritto è conservato presso l’Archivio Storico della Sezione Provinciale di Terni dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Cfr. P. Secchia, L’azione svolta dal Partito Comunista in Italia durante il fascismo 1926-1932. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, in “Annali dell’Istituto G.G. Feltrinelli”, Feltrinelli, Milano 1970, p. 467. Cfr. la diversa documentazione presente in ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. K 9, b. 449, fasc. “Terni-Primo Maggio”. Le citazioni sono tratte dal rapporto del prefetto datato 12 maggio 1931. ACS, DGPS AGR 1930-31, ctg. K 1 B, b. 434, fasc. “Terni-Partito Comunista”, rapporto del prefetto, 5 ottobre 1931.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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meritevole di attento esame, che richiede l’apprestamento di più adeguati mezzi per prevenire in tempo, qualche probabile increscioso incidente54.
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cura dalla centrale di Parigi che [manda] funzionari per inquadrarlo e dare ad esso uno sviluppo più ampio”62. Un’intensificazione dell’attività di agitazione e propaganda consente all’organismo comunista di poter arrivare a contare, nei primi mesi del 1932, su di una rete clandestina di circa 200 simpatizzanti63. Quando, in aprile, giunge a Terni il funzionario del centro estero Clemente Maglietta portando molto materiale di propaganda, i comunisti ternani organizzano una larga diffusione di manifestini antifascisti in diverse zone della provincia. La polizia riesce però a scoprire e ad arrestare i maggiori esponenti dell’organismo clandestino64. Tuttavia, alla fine dell’anno, essi possono beneficiare dell’amnistia concessa dal regime in occasione del “decennale”. L’aver conosciuto, insieme agli aspetti più duri degli istituti di repressione fascisti, l’opera deleteria di informatori prezzolati, infiltrati e provocatori, porta però questi militanti a farsi più guardinghi nell’attività cospirativa ed in una certa misura, a ripiegarsi su se stessi. In ogni caso la loro volontà di azione viene vanificata da una costante e metodica opera di prevenzione e repressione61. Il 22 gennaio 1933 sei “sovversivi irriducibili” per essersi trovati insieme in un’osteria vengono arrestati e diffidati. Il prefetto aveva ricevuto una “notizia confidenziale”, secondo cui la riunione doveva servire “per mantenere saldo l’affratellamento dell’idea comunista e per onorare la memoria di Lenin il cui anniversario della morte era ricorso il giorno prima”66. Ma, analogamente a quanto è avvenuto a Perugia, anche a Terni ad una fase di relativo declino dell’antifascismo politico e militante, se ne affianca un’altra in cui si registra un’intensificazione delle manifestazioni di dissenso che traggono origine, in maniera immediata, da una consolidata e diffusa trama di sovversivismo e coscienza di classe, presente nella sensibilità collettiva delle masse lavoratrici ternane67. A volte è un improvviso impeto contro un pesante ed insopportabile stato di costrizione a produrre episodi di dissenso individuale. È quanto avviene, nell’ottobre 1933, all’anarchico Mario Filippi, operaio della Società Italiana Ricerche Industriali, il quale dall’avvento al potere del fascismo aveva sempre mantenuto un “contegno molto riservato sulle sue idee politiche”. Comandato di scorta al gagliardetto del dopolavoro aziendale in occasione della cerimonia per l’anniversario della fondazione dei Fasci giovanili, Filippi si rifiuta di eseguire l’ordine.
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Per la ricostruzione dell’intera vicenda cfr. la sentenza del Tribunale Speciale riprodotta in Contributo cit. (a nota 1), pp. 58 sgg. La citazione è tratta da p. 67 Secchia, L’azione svolta cit. (a nota 59), p. 467. Oltre alla diversa documentazione presente in ACS, DGPS AGR 1932, sez. I, ctg. K 1 B, b. 434, fasc. “TerniPartito Comunista”, cfr. la ricostruzione della vicenda fatta da uno dei protagonisti, B. Zenoni, Il 1932 a Terni: un anno di agitazione e di propaganda, in “Resistenza insieme”, n. 2, 1982. Cfr. A. Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Einaudi, Torino 1985, pp. 230 sgg. ACS, DGPS AGR 1933, sez. I, ctg. K 1 B, b. 33, fasc. “Terni-Partito Comunista”, rapporto del prefetto, 31 gennaio 1933. Cfr. Canali, Tradizione cit. (a nota 37).
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Messo in relazione il contenuto del manifesto a firma “gli Amici” – scrive il prefetto – con la richiesta dei famigliari circa il percorso del corteo funebre e l’ora fissata per quest’ultimo (dopo l’uscita delle maestranze dagli stabilimenti), si intuiva che si tentava una dimostrazione di consenso politico all’idea del morto.
In conseguenza di ciò l’autorità di pubblica sicurezza dispone che il funerale abbia luogo nel primo pomeriggio, attraverso il percorso più breve e sotto scorta della polizia. La reazione da parte antifascista non tarda a manifestarsi. Il giorno seguente su diversi muri del centro vengono rinvenute scritte sovversive, tracciate con il carbone “a carattere stampatello visibilissime”: “La questura ha vietato: onoriamo il compagno Luna”, “Viva il socialismo”, “Viva Luna”, “Viva Lenin”, “Morte al Duce”, “Abbasso il fascismo”. Ma anche la repressione non si fa attendere. La polizia non riuscendo ad individuare gli autori delle scritte, se la prende con gli organizzatori del funerale: cinque di essi – tre socialisti, un comunista ed un anarchico – sono assegnati per un anno al confino ed altri quattro – tre socialisti ed un comunista – vengono invece ammoniti69.
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ACS, CPC, b. 2063, fasc. “Filippi Mario”, documentazione diversa. Per le citazioni si veda il rapporto del prefetto datato 9 novembre 1933. ACS, DGPS AGR 1934, ctg. C 2 A, b. 8, fasc. “Terni-Movimento sovversivo antifascista”, documentazione diversa. Per le citazioni si veda il rapporto del prefetto datato 25 febbraio 1934.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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Sottoposto ad inchiesta, rivendica come una delle ragioni del suo comportamento il fatto di essere “cresciuto in un ambiente di famiglia le cui teorie contrastavano con quelle fasciste”. Nonostante le sue proteste gli viene inflitta una multa per infrazione ad un ordine di servizio ed è diffidato68. Talora sono occasioni particolari, come la morte di un “compagno”, a generare in antifascisti, apparentemente rassegnati, dei sussulti della coscienza. Per essi organizzare il funerale dell’amico secondo un cerimoniale ormai collaudato che ricordi la sua e la propria appartenenza politica diventa il modo migliore non solo per onorarne la memoria, ma anche per dimostrare i propri sentimenti di avversione al regime. Nel febbraio 1934, in occasione del funerale di un noto esponente del socialismo ternano, Arturo Luna, le autorità di pubblica sicurezza vengono messe in sospetto dalle richieste avanzate dai familiari e dagli “amici” di Luna. I primi chiedono di poter effettuare il trasporto funebre nel tardo pomeriggio e di poter attraversare le principali vie cittadine; i secondi sollecitano l’autorizzazione ad affiggere un manifesto da essi redatto, in cui sono contenute “qualifiche per il morto allusive alla sua azione sociale”. La conferma ai sospetti delle autorità di polizia viene da una “segnalazione confidenziale” che, a proposito del funerale di Luna, denuncia un’intensa opera di propaganda in atto “tra la massa operaia per l’intervento alle onoranze funebri”.
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2. “Tanto devono tornare i bei tempi”
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Stroncato con la forza del proprio apparato di prevenzione e repressione ogni tentativo degli avversari politici di darsi una rete organizzativa clandestina, il fascismo umbro si avvia, agli inizi del 1934, a mostrare e sanzionare il grado di “consenso” e solidità raggiunto attraverso il “secondo plebiscito”, indetto per il 25 marzo. Come era avvenuto nella precedente, anche in questa consultazione i prefetti e le autorità fasciste non mancano di mettere in evidenza l’“atmosfera di entusiasmo e di fede” in cui si svolgono i “raduni di propaganda”70. Del resto l’uso di toni enfatici è in parte giustificato dal fatto che nel corso della “campagna elettorale” si registra una quasi completa assenza di manifestazioni di dissenso. Si ripete, soltanto, un esiguo invio per posta – effettuato prevalentemente dalla Francia – di stampa invitante a votare “no”71. Comunque, per il giorno delle “elezioni”, le autorità di polizia non mancano di prendere delle precauzioni. Per Amelia e Narni si richiede l’invio di una cinquantina di uomini di truppa da usare per rafforzare le locali stazioni dei carabinieri72. A Perugia, “nei molteplici servizi di ordine pubblico”, sono largamente impegnate le camicie nere che “nella circostanza spontaneamente presta[no] l’opera loro gratuitamente”73. L’esito delle votazioni, se pure scontato, riserva delle sorprese74. Nella provincia di Perugia su 118.456 aventi diritto al voto – 115.563 esclusi emigrati e militari – se ne recano alle urne 115.951. I voti risultano 115.923 (99,97%) favorevoli, 22 (0,02%) contrari e 6 (0,01%) contestati o nulli. A Terni – dove nel precedente plebiscito si era evidenziata una forte concentrazione di avversari del regime, soprattutto nel comune capoluogo – i risultati denunciano una pressoché totale assenza di opposizione. Gli iscritti nelle liste elettorali risultano essere 52.865 – 51.617 esclusi emigrati e militari; di essi si recano a votare 52.403 e veramente plebiscitario è il responso delle urne che non fa registrare un solo voto contrario o nullo. L’entità del successo viene naturalmente enfatizzata nelle relazioni prefettizie. Se per Perugia si riferisce dell’“imponente entusiastica prova data dall’intera provin-
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Cfr. ACS, AF PNF, b. 13, fasc. “Perugia”, relazione del segretario federale, 5 maggio 1934 (da cui si cita) e b. 24, fasc. “Terni”, relazione del prefetto, 2 aprile 1934; nonché ACS, DGPS Associazioni, ctg. G 1, b. 225, fasc. 466, relazione del prefetto di Perugia, 8 aprile 1934. ACS, DGPS AGR 1934, ctg. E 1 3, b. 16/C, fasc. “Elezioni politiche-Propaganda comunista”, documentazione diversa. Ivi, ctg. E 1, b. 16/B, fasc. “Elezioni politiche-Affari generali”, documentazione diversa. Ivi, lettera del Ministero dell’Interno al Comando Generale della MVSN, 27 marzo 1934. Cfr. Istituto Centrale di Statistica del Regno d’Italia, Statistica delle elezioni generali politiche per la XXIX legislatura (25 marzo 1934-Anno XII), Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1934.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
cia in occasione della [...] votazione politica”75, per Terni il prefetto – “non senza legittimo orgoglio” – scrive:
Ma, accanto a quanto viene ricordato dal prefetto con i consueti toni ampollosi, vi è un episodio non meno significativo che spiega, insieme all’ordinario clima di intimidazione, alcuni dei motivi del consenso “plebiscitario” ottenuto dal regime in Umbria. A Fabro, nella settimana precedente le “elezioni”, Leopoldo Bussoletti – ex sindaco socialista ed ex confinato politico – apprende di essere stato escluso dal voto da parte del podestà. Per questa ragione, incontrando casualmente il comandante dei Giovani Fascisti locali, lo affronta affermando: “Mi hanno escluso dal voto. Ciò poco importa, tanto in Bussoletti regna sempre la bandiera rossa”. In seguito a questa affermazione – ed “in dipendenza delle imminenti elezioni politiche” – Bussoletti viene arrestato e, nonostante che sia ritenuto un “pazzoide”, trattenuto in carcere fino agli inizi di aprile, quando viene rilasciato “previa diffida”77. Questa vicenda è indicativa anche perché costituisce un’ulteriore conferma del fatto che spesso le manifestazioni di antifascismo nascono da improvvisi impeti di collera in cui gli avversari del regime danno sfogo a risentimenti lungamente repressi. Ed esempi in questo senso non ne mancano. È quanto succede, nel comune di Ficulle, ad Angelo Pandolfi, il quale era stato, “durante il periodo del bolscevismo, [...] uno dei più accesi gregari” del Partito Socialista, nel 1921 aveva addirittura dato una pugnalata ad un fascista, poi “con l’avvento del fascismo dal punto di vista politico non aveva più dato luogo a rilievi”. Nella piazza del paese il 13 maggio 1934 Pandolfi, “in stato di manifesta ubriachezza”, si mette a pronunciare “ad alta voce la frase ‘Tutto per il Duce’ facendola seguire da rumori sconci colla bocca (in vulgo ‘pernacchie’)”. Quindi, dopo essere entrato nella propria casa, ne esce indossando un berretto rosso, “di un suo nipotino”. Le indagini accertano che la condanna a dover pagare ammende e multe per alcuni reati da lui commessi – di cui uno di natura politica – era stata all’origine dell’animoso gesto del Pandolfi78. Non privo di significato è anche l’episodio che vede protagonista a Gubbio, l’11 agosto 1934, il barbiere Marino Uccellini. Quest’ultimo, trovandosi di fronte ad un gruppo di bambini della locale colonia elioterapica che transitavano incolonnati
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ACS, DGPS Associazioni, ctg. G 1, b. 225, fasc. 466, relazione del prefetto di Perugia, 8 aprile 1934. ACS, AF PNF, b. 24, fasc. “Terni”, relazione del prefetto, 2 aprile 1934. Ivi, ctg. E 14, b. 16/D, fasc. “Elezioni politiche-Propaganda socialista”. Ivi, ctg. C 2 F, b. 13, fasc. “Terni-Offese al capo del governo”, rapporto del prefetto, 16 maggio 1934.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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Su tutti gli avvenimenti sovrasta di gran lunga la votazione del 25 marzo che, per i risultati, per l’atmosfera di vibrante entusiasmo in cui si è svolta, per i numerosi episodi di significativo valore spirituale, ha assunto anche nei più piccoli centri della provincia il carattere di cosciente, spontanea manifestazione di devozione e di grata riconoscenza di un popolo intero al suo capo76.
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cantando l’inno “Giovinezza”, fa eco “al ritornello, sostituendo però alle parole ‘Eia, Eia, Alalà’ le altre ‘E la fame, e la fame’ [ndr e] accompagnandole col significativo gesto delle mani battute contro il ventre”. Il rapporto del prefetto sul fatto evidenzia che l’Uccellini “versa in misere condizioni economiche” e che in passato aveva nutrito “sentimenti socialisti”79. I segnali del malumore popolare non sempre, però, vengono espressi in maniera aperta e diretta, al contrario con una crescente frequenza essi trovano moduli espressivi diversi e, soprattutto, anonimi: dalla semplice scritta contro il fascismo – ed i suoi esponenti – alla vignetta irriverente graffita sui muri. Addirittura nell’aprile 1934 due scritte “Abbasso il duce”, fatte con il lapis nero, sono rinvenute su avvisi sacri esposti all’interno della chiesa di Spina, nel comune di Marsciano80. Tra queste singolari forme espressive, comunque, un posto di crescente rilievo è assunto dal messaggio o dalla lettera anonima di minacce che, d’altro canto, costituisce da sempre
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una forma caratteristica di protesta sociale in ogni società che ha raggiunto un certo grado di alfabetismo, in cui le forme di difesa collettiva organizzata sono deboli, e in cui gli individui che possono essere identificati come organizzatori di proteste sono destinati a divenire immediatamente vittime sacrificali81.
Sono soprattutto i muri dei gabinetti delle fabbriche, dei cinema, delle stazioni a farsi latori di messaggi minacciosi nei confronti dei gerarchi fascisti ed, in particolare, di Mussolini. Il 26 febbraio 1934 a Papigno, all’interno di una latrina dello stabilimento di carburo della Società Terni, si rinviene un disegno che riproduce la faccia di Mussolini con un pugnale conficcato nella testa, commentato dalla frase “Così ti vorrei conciare, [oh] duce”82. Dopo l’introduzione della settimana lavorativa di quaranta ore, nel dicembre 1934, sempre sul muro di una latrina dello stabilimento elettrochimico di Papigno una mano anonima scrive: “Se Mussolini manda in vigore le 40 ore di lavoro è un cornuto e vada alla forca; vogliamo 48 ore di lavoro; se Mussolini ne volesse 40 abbasso e fucilato; non si può più vivere, avviso a chi serve”83. Anche queste sotterranee correnti di opposizione sembrano però prosciugarsi a partire dal 1935 in seguito alla mobilitazione, che precede ed accompagna la guerra di Etiopia. Già nella prima parte dell’anno il prefetto di Perugia può riferire che
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Ivi, ctg. C 2 A, b. 7, fasc. “Perugia-Movimento sovversivo antifascista”, rapporto del prefetto, 19 agosto 1934. Ivi, ctg. C 2 4, b. 16/A, fasc. “Perugia-Iscrizioni e disegni sovversivi”, rapporto del prefetto, 3 maggio 1934. Cfr. E.P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Einaudi, Torino 1981, p. 181. ACS, DGPS AGR 1934, ctg. C 2 4, b. 16/A, fasc. “Terni-Iscrizioni e disegni sovversivi”, rapporto del prefetto e riproduzione fotografica allegata, 26 febbraio 1934. Ivi, telegramma del prefetto, 13 dicembre 1934.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Il largo coinvolgimento sociale generato dalla vicenda etiopica non impedisce, però, che qualche “irriducibile” continui ad esprimere il proprio disaccordo. Vi è, ad esempio, l’anarchico Gastone Pollari che a Perugia nel luglio 1935 si rivolge ad un capo manipolo della Milizia dicendogli: “Che me frega della Milizia o del Fascismo, tanto devono tornare i bei tempi ed a te facciamo la pelle”85, od anche il muratore Luigi Ceccarelli che a Castiglione del Lago in agosto – riferendosi alla “vertenza italo abissina” – afferma pubblicamente: “Speriamo che ora per l’Italia ci pensi l’Inghilterra”86. Si tratta ovviamente di “casi isolati”, che peraltro non sembrano riuscire a scalfire la sicurezza prodotta nei gerarchi fascisti dalla percezione di una sensibile crescita dei livelli del consenso popolare. A ridosso dell’inizio della guerra è il segretario federale del PNF di Terni a descrivere “l’anima riboccante di fede dei fascisti e delle popolazioni lavoratrici” di Terni. Lo slancio con il quale – scrive nel settembre 1935 il dirigente fascista – sono state presentate centinaia e centinaia di domande di arruolamento volontario per l’AO [Africa Orientale] (significative quelle degli operai che ne formano la grande maggioranza), l’entusiasmo con cui a Terni e nei paesi della provincia sono stati salutati i soldati reduci delle grandi manovre, la vibrante passione con la quale giornalmente è seguita da tutte le nostre popolazioni la superba politica del DUCE, stanno a testimoniare della maturità ormai raggiunta dal nostro popolo il quale ci da affidamento di poter contare ciecamente su di esso87.
L’inizio delle ostilità produce un’accentuazione del clima generale di fervore patriottico e di esaltazione nazionalistica, che vede coinvolti anche larghi settori delle classi popolari88. Nel pomeriggio del 2 ottobre, in occasione del discorso radiotrasmesso con cui Mussolini annuncia l’avvio delle operazioni militari, la mobilitazione delle organizzazioni fasciste riesce ad assicurare una massiccia presenza popolare nelle piazze dei comuni umbri. Il giornalista del settimanale della Federazione Ternana dei Fasci di Combattimento – “Acciaio” – riferisce che “126 84 85
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ACS, DGPS Associazioni, ctg. G 1, b. 225, fasc. 466, relazione del prefetto di Perugia, 30 giugno 1935. ACS, DGPS AGR 1935, ctg. C 2 A, b. 5, fasc. “Perugia-Movimento sovversivo antifascista”, rapporto del prefetto, 8 luglio 1934. Ivi, rapporto del prefetto, 12 agosto 1935. ACS, AF PNF, b. 24, fasc. “Terni”, relazione del prefetto, 5 settembre 1935. Non di rado le “domande di arruolamento volontario” erano ottenute attraverso pesanti mezzi coercitivi; in proposito cfr. le testimonianze presenti in A. Portelli, Biografia, cit. (a nota 65), p. 238. Cfr., tra l’altro, A. Tacchini, Città di Castello 1921-1944. Dal fascismo alla liberazione, Petruzzi Editore, [Città di Castello 1990], pp. 147-150.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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le susseguentisi ordinate operazioni militari per l’Africa Orientale, nella finalità di salvaguardare le nostre possessioni coloniali, continuano ad avere il plauso entusiastico delle popolazioni il cui spirito è anche notevolmente migliorato in vista del raccolto granario che si profila ottimo84.
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mila persone, di cui oltre 30 mila soltanto nella città di Terni, hanno avidamente ascoltato l’alta e solenne parola del capo”89. Le notizie dei successi militari sono poi accompagnate da manifestazioni di entusiasmo collettivo. È il momento in cui la macchina propagandistica del regime mette in campo il massimo della “teatralità”. Anche le iniziative prese per resistere alle “inique sanzioni ginevrine”, come la “giornata della fede”, sono contrassegnate da una larga partecipazione popolare. Tali livelli di consenso sono ottenuti anche grazie al rilevante appoggio che la Chiesa fornisce, in questa occasione, al fascismo90. Al riguardo appare significativo il coreografico svolgimento che a Perugia contrassegna – il 18 dicembre 1935 – la “giornata della fede”. Nel telegrafico resoconto del prefetto, essa viene cosi ricordata:
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dopo [la] messa iniziale [in] duomo, che normalmente contiene 11 mila persone circa ma che stamane era inverosimilmente stipata, monsignor arcivescovo ha pronunciato [un] elevato patriottico discorso consegnando quindi sullo stesso altare maggiore nelle mani del segretario federale [l’]anello episcopale. Subito dopo con le autorità alla testa [è] cominciato l’interminabile sfilamento degli offerenti [la] Fede [d’]oro al monumento ai Caduti nel tempio [di] S[ant’]Ercolano; alle ore 18,30 si contavano precisamente 5.744 anelli nuziali offerti solo da Perugia città escluse frazioni. [È] stato un avvicendarsi entusiastico e commovente di cittadini di ogni classe sociale; alle ore 19 circa, presente [una] immensa folla nonostante [il] tempo piovoso, ha avuto luogo [la] fusione [delle] fedi [d’]oro sul ripiano [della] scalinata [di] detto tempio. [La] celebrazione [della] solenne [e] storica giornata [si è] chiusa al suono [di] inni della patria e [della] rivoluzione, e di campane a stormo91.
Peraltro le alte gerarchie ecclesiastiche non restringono la loro azione a dei semplici gesti esemplari, ma si rivolgono in maniera esplicita ai fedeli ed ai parroci “incitandoli a far opera di propaganda per la donazione di oro, argento e metalli”92. Nei rapporti delle autorità e sui giornali viene spesso ricordato come, nel corso delle manifestazioni di offerta dei metalli preziosi, si assista a molti “episodi, commoventi per la loro stessa semplicità e per l’esuberanza di fervore patriottico specie da parte delle donne delle categorie più umili”93. E di certo a tutto ciò non è estranea la capillare opera di propaganda del basso clero94. Essa però non sempre ha successo.
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G.M., L’impeto e lo scatto della provincia “dinamica”, in “Acciaio”, n. 40, 1935. Cfr. E. Boccetti, Momenti del consenso del clero al regime: l’impresa d’Etiopia, in Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), a cura di A. Monticone, il Mulino, Bologna 1978. ACS, CIE, ctg. C 1, b. 14, fasc. 21, telegramma del prefetto di Perugia, 18 dicembre 1935. A Perugia ed a Terni nella “giornata della fede” vengono offerte, rispettivamente, 65.722 e 23.300 fedi. Cfr. ivi, telegramma del prefetto di Perugia, 20 dicembre 1935, e telegramma del prefetto di Terni, 18 dicembre 1935. Citato in Boccetti, Momenti del consenso cit. (a nota 90), p. 339. ACS, DGPS Associazioni, ctg. G 1, b. 225, fasc. 466, relazione del prefetto di Perugia, 13 gennaio 1936. Cfr., in particolare, “L’Assalto” – Foglio d’Ordini della Federazione dei Fasci di Combattimento di Perugia –, che, nel periodo della guerra, riporta alcuni di questi episodi in rubriche fisse. Al riguardo cfr. Boccetti, Momenti del consenso cit. (a nota 90), p. 339.
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ACS, CIE, ctg. C 1, b. 6, fasc. 2, rapporto del prefetto, 16 febbraio 1936. Ivi, rapporto del prefetto, 4 gennaio 1936. Al riguardo oltre alla diversa documentazione contenuta in ACS, CIE, ctg. C 1, b. 6, fasc. 2 e b. 7, fasc. 2, cfr. le relazioni del prefetto, relative al periodo della guerra di Etiopia, contenute in ACS, DGPS AGR Associazioni, ctg. G 1, b. 225, fasc. 466. Su tutta la vicenda cfr. ACS, DGPS AGR 1936, ctg. K 1 B, b. 29, fasc. “Terni-Movimento comunista”, documentazione diversa.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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Il 15 dicembre 1935 a Cecanibbi, nel comune di Todi, la messa domenicale viene disturbata da un piccolo possidente che all’invito a donare la fede, fatto dal parroco, risponde: “Le fedi! Le fedi! Le vadano a comperare dall’orefice! Io quando la presi per mia moglie dovetti pagarla!”. Nel rapporto del prefetto di Perugia sull’episodio, il possidente tuderte viene descritto come “un tipo grossolano, rustico, di gretta mentalità, avaro all’eccesso”95. Ma, se pure costituiscono una rarefatta minoranza, non tutti coloro che si sottraggono al coro dei consensi verso la guerra di Etiopia sono animati da anguste motivazioni. Sempre in dicembre, a Perugia, nel corso di una conversazione con dei conoscenti il medico chirurgo Ezio Francalancia – massone, iscritto in passato al partito socialista riformista ed all’associazione del libero pensiero “Giordano Bruno” – esprime la sua contrarietà rispetto al conflitto italo etiopico, affermando, tra l’altro, che “il Governo Italiano [avrebbe dovuto] accettare le proposte di pace avanzate dall’Inghilterra e dalla Francia, perché altrimenti sarebbe stato costretto a far rientrare in Somalia e in Eritrea le truppe operanti, e avrebbe contribuito allo affamamento del popolo italiano”96. In ogni caso la quasi totale mancanza di reati politici significativi, nei mesi a cavallo tra il 1935 ed il 1936, denuncia l’inequivocabile fase di smarrimento che si trovano a vivere gli antifascisti umbri97. Tuttavia la frastornante orchestrazione messa in campo dall’apparato propagandistico del regime se, da un lato, genera sconcerto tra le fila dell’antifascismo, dall’altro fa sì che alcuni oppositori sentano con forza la necessità di riaffermare la propria presenza attraverso un gesto simbolico. Nella notte tra il 14 ed il 15 aprile 1936, ai giardini pubblici di Terni, qualcuno tenta di abbattere il pino dedicato ad Arnaldo Mussolini. Contemporaneamente, su diversi muri della città una mano anonima scrive “W Stalin”. La polizia è informata “da fonte confidenziale” che negli ambienti dell’opposizione “qualche elemento isolato tra i più irrequieti” aveva espresso la volontà di non far passare la ricorrenza fascista del 21 aprile – Natale di Roma – “senza attuare una qualsiasi sua manifestazione di fede”. Per i due reati vengono accusati, rispettivamente, l’operaio Angelo Maccari e l’artigiano Giovanni Speranza, entrambi comunisti. Nella perquisizione in casa di Maccari la polizia rinviene un manifestino del partito comunista, datato dicembre 1935, contro la guerra di Etiopia. In esso, tra l’altro, si afferma la disponibilità dei comunisti a lottare insieme a “chiunque si faccia sostenitore della parola d’ordine: ‘Basta con la guerra! Via dal governo Mussolini e i responsabili della guerra!’”98.
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Questo episodio, alla luce delle vicende successive, assume l’aspetto di un preludio. Infatti la nuova avventura bellica, che il regime intraprende nella seconda metà del 1936 – l’intervento a favore di Franco nella guerra civile spagnola – segna l’avvio di una fase nuova caratterizzata da un’intensificazione delle manifestazioni di dissenso. In questa circostanza la macchina di propaganda sull’intervento militare fascista viene ad essere contrappuntata da un intenso “controteatro”99 di cui si rendono protagoniste, in particolare, le classi lavoratrici e popolari.
3. “W la Spagna rossa”
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Quando nel luglio 1936 ha inizio la guerra civile spagnola, anche in Umbria Chiesa e fascismo rinsaldano i loro legami, dando vita ad una immediata mobilitazione a favore della Spagna nazionalista100. Sul finire dell’agosto, constatando le “tristi condizioni in Spagna dovute soprattutto al terrorismo barbaro e sanguinario dei componenti il fronte bolscevico”, il vescovo di Città di Castello indirizza al popolo ed ai parroci della diocesi una pastorale in cui si invitano i “cristiani cattolici [ad] intervenire subito con l’arma preziosissima della preghiera pubblica e privata, per la salvezza della Spagna cattolica”101. Successivamente anche l’arcivescovo di Perugia in più occasioni “chiama a raccolta i fedeli [...] per innalzare preci ardenti al Signore in pro della Spagna martoriata”102. Nonostante questo impegno congiunto della Chiesa e del regime, appare subito evidente che la lotta del popolo spagnolo contro l’insurrezione militare viene vissuta all’interno di alcuni settori delle classi popolari e lavoratrici come una cosa propria, quasi un simbolo ed un preludio del proprio riscatto sociale. In agosto a Terni due comunisti, Giuseppe Bravetti ed Emilio De Angelis, entrambi operai dello stabilimento elettrochimico di Nera Montoro – “volendo richiamare l’attenzione dei compagni di fede sulle vicende del popolo spagnolo e la lotta che ivi si svolge, e per dare ad essi una direttiva” – decidono di stampare un manifestino da diffondere alla macchia. Un nutrito gruppo di avversari del regime – “vecchie conoscenze e [...] nuove reclute” – partecipa all’organizzazione dell’iniziativa antifascista. La mancanza di contatti e, quindi, di direttive dal centro estero fa sì che “dopo varie discussioni sull’intransigenza o meno del PCI” vengano 99 100
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Sul concetto di “controteatro” cfr. Thompson, Società patrizia cit. (a nota 81), pp. 299-303. Cfr., soprattutto, i diversi articoli relativi agli avvenimenti spagnoli pubblicati, tra luglio ed agosto 1936, in “L’Assalto”, “Acciaio”, “La Nazione” e “Il Messaggero”. Cfr. Preghiere per la Spagna, in “La Nazione”, 20 agosto 1936, Cronaca di Perugia. Cfr. Per la Spagna martoriata!, in “La Nazione”, 31 dicembre 1936, Cronaca di Perugia. ACS, DGPS 1936, ctg. K 1 B, b. 29, fasc. “Terni-Movimento comunista”, rapporto del prefetto, 3 settembre 1936.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Ho letto nei giornali che alla Fabbrica d’armi a Terni vi sono stati operati 300 arresti fra il personale perché questi abbiano gridato, nella sortita dallo stabilimento “Evviva la repubblica spagnola”. È vero? più 20 arresti alle Acciaierie per aver fatto delle sottoscrizioni clandestine a beneficio del governo e dei combattenti di Spagna, è vero? Più l’altri arresti al Carburo è vero?107
In seguito la notizia della manifestazione antifascista appare anche sul giornale socialista “Arbeiter Zeitung” di Basilea, sul bollettino della Federazione Anarchica Iberica – il quale afferma di averla ripresa dalla “Pravda”, ed, infine, su alcune testate di Buenos Aires come “La Prensa”, “El Mundo”, “El Diario”108. Tutti questi organi di informazione danno conto dell’avvenimento con alcune esagerazioni, soprattutto a proposito dell’intervento repressivo attuato a danno degli antifascisti. Il bollettino degli anarchici spagnoli, ad esempio, riferisce, che il Tribunale Speciale avrebbe condannato “a morte cinque accusati e venticinque altri a trenta anni di lavori forzati”109. Vi sono anche manifestazioni di antifascismo spontaneo ed individuale che risultano altrettanto sintomatiche del clima prodottosi tra le masse lavoratrici in seguito al nuovo fatto internazionale. A Terni nello stesso giorno in cui avviene la diffusione dei manifestini antifascisti,
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Ivi, documentazione diversa. Gli antifascisti inviati al confino sono 17. Cfr. A. Dal Pont e S. Carolini, L’Italia al confino, vol. III, cit. (a nota 2), pp. 1238-1239. ACS, DGPS 1936, ctg. K 1 B, b. 29, fasc. “Terni-Movimento comunista”, rapporto del prefetto, 8 settembre 1936. ACS, CPC, b. 70, fasc. “Allegretti Domitillo”, copia della lettera datata 26 settembre 1936. ACS, DGPS 1936, ctg. K 1 B, b. 29, fasc. “Terni-Movimento comunista”, documentazione diversa. Ivi, telegramma del Ministero degli Affari Esteri, 17 novembre 1936.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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prodotti due diversi manifestini: “uno a firma del PCI e l’altro a firma del CFC (Comitato Fronte Comune)”103. La loro diffusione clandestina in diversi stabilimenti e località di Terni avviene il 21 agosto ed è accompagnata dalla contemporanea comparsa di scritte inneggianti alla “Spagna rossa”104. Ma la denuncia di un delatore consente alla polizia di scoprire quasi tutti i responsabili della manifestazione antifascista. Essi sono perciò arrestati e, quindi, assegnati al confino105. I tentativi della polizia di mettere celermente tutto a tacere non hanno però successo. La dimostrazione antifascista – esageratamente ingigantita – finisce per avere una risonanza internazionale. Nel settembre successivo in città vengono fermati due giornalisti – Andrue Berding, corrispondente dell’“Associated Presse” di New York, e Franz Obermaier, corrispondente del “Muncher Nuester” di Monaco – i quali “avendo raccolto in Roma notizie gravi sull’ordine pubblico di Terni” dichiarano di essere venuti per avere maggiori informazioni106. Da Nizza, sempre in settembre, i coniugi Elide e Domitillo Allegretti scrivono ad un parente residente in Papigno:
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il 21 agosto 1936, il calzolaio Dante Nardi, all’interno della sede di un dopolavoro rionale, si mette “a canticchiare sottovoce dei motivi di canzoni popolari, intercalando, tra una frase e l’altra ‘W la Spagna’”; poi, guardando l’asta della bandiera posta sopra la porta di ingresso, dice: “Presto ci metteremo la bandiera rossa”. Il prefetto di Terni associa il comportamento di Dante Nardi al fatto che “gli avvenimenti, spagnoli hanno certamente rimessa in primo piano nel suo animo la fede sovversiva [fin lì] celata”110. A qualche, giorno di distanza, l’anarchico Mario Filippi sfoga il risentimento accumulato, in seguito alla diffida ricevuta tre anni prima, voltandosi e sorridendo “beffardamente” al passaggio di un corteo di fascisti che attraversa una via centrale di Terni per recarsi a deporre una corona al monumento dei caduti. Anche in questo caso il prefetto commenta:
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L’atto del Filippi è sintomatico e rivela tutto il suo stato d’animo dell’anarchico provocatore ed è da mettersi in relazione agli attuali avvenimenti spagnoli che hanno in lui rinfocolata la sua fede e lo hanno reso audace nella speranza forse di creare un fattaccio che turbasse l’ordine pubblico111.
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Del resto, guardando il rilevante numero di analoghi episodi che si verificano in altre parti della regione – soprattutto là dove è presente una forte tradizione sovversiva – non si può non essere d’accordo con le associazioni di carattere psicologico avanzate dal rappresentante governativo di Terni, tanto più che non è certamente il solo a farle112. Nella frazione Colle San Lorenzo del comune di Foligno, il 26 settembre 1936, il socialista Trionfo Paris – “in istato di manifesta ubriachezza” – grida, all’uscita di un esercizio pubblico: “Evviva il comunismo, comunisti a noi”, “Abbasso il Fascismo”, “Viva la Spagna”, “sto porco di Mussolini”. In seguito a ciò il Paris viene arrestato ed il questore, “in vista anche dell’attuale risveglio di velleità comunista”, lo propone per l’assegnazione al confino113. Sempre a Foligno, il 24 dello stesso mese, viene fermato il comunista Francesco Innamorati perché sorpreso ad aggirarsi “in attitudine sospetta” tra la folla che assisteva ad una messa celebrata dall’arcivescovo Bartolomasi in occasione del I congresso eucaristico diocesano di Foligno. Rilasciato al termine del congresso, “previa diffida a verbale di cambiare tenore di vita e di seguire le direttive del governo nazionale fascista”, Innamorati insiste “con contegno altezzoso per far inserire nel verbale stesso che persevererà nelle sue idee contrarie al fascismo”. Anche il prefetto
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ACS, DGPS AGR 1936, ctg. C 2 A, b. 3/E, fasc. “Terni-Movimento sovversivo antifascista”, rapporto del prefetto, 8 settembre 1936. Per il precedente episodio di cui è protagonista Mario Filippi cfr. supra. ACS, DGPS AGR 1936, ctg. C 2 A, b. 3/E, fasc. “Terni-Movimento sovversivo antifascista”, rapporto del prefetto, 9 settembre 1936. Ivi, ctg. C 2 F, b. 5, fasc. “Perugia-Offese al capo del governo”, rapporto del prefetto, 26 settembre 1936.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Lo stato d’animo della popolazione è depresso per la pressione tributaria e pel continuo rincaro della vita, che per alcune classi sociali si concreta in quotidiane rinunzie ed in sacrifici che vanno al di là di ogni possibile sopportazione. È da notare che mentre tutta la zona delle autorità va verso il popolo, specialmente quello minuto, attraverso opere di assistenza, di aiuto e di soccorso, e le classi della media borghesia, dei piccoli proprietari, degli agricoltori, conservano la massima fiducia nel fascismo e nel Capo sobbarcandosi a continue privazioni e sostenendo oneri infiniti, le classi operaie, invece, malgrado gli enormi benefici conseguiti dal Regime attraverso leggi, riforme, opere, mostrano qua e là segni non solo di malcontento, ma anche di esplosioni sovversive mediante scritte sui muri di località periferiche, nelle latrine di stabilimenti118.
Di lì a poco – il 2 maggio 1937 – nell’ufficio postale “Corrispondenze e pacchi” di Perugia sono rinvenuti “sette fogliettini scritti a lapis, con frasi ingiuriose al Duce e inneggianti al socialismo”119. Tra l’altro vi si legge: “Abbasso Mussolini affamatore del popolo”120. 114 115
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ACS, CPC, b. 2635, fasc. “Innamorati Francesco”, rapporto del prefetto, 8 ottobre 1936. Cfr., relativamente a Perugia ed a Terni, la documentazione contenuta nei fascicoli delle diverse categorie presenti in ACS, DGPS AGR 1936. Cfr. ACS, DGPS AGR 1936, ctg. C 2 4, b. 7/C, fasc. “Terni-Iscrizioni e disegni sovversivi”, documentazione diversa. ACS, DGPS AGR 1937, ctg. C 2 4, b. 24, fasc. “Perugia-Iscrizioni e disegni sovversivi”, rapporto del prefetto, 13 febbraio 1937. Ivi, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 9 aprile 1937. Ivi, relazione del questore, 8 maggio 1937. A. Dal Pont e S. Carolini, L’Italia dissidente, vol. II, cit. (a nota 2), p. 911.
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di Perugia, come aveva fatto in analoghe circostanze quello di Terni, trae le seguenti conclusioni: “Tale atto costituisce evidentemente una inqualificabile affermazione di partito; e, considerato l’attuale momento politico internazionale, se ne deduce che l’Innamorati tenti di risollevare la testa in odio al Regime”114. Appare dunque evidente come i commenti delle autorità di polizia siano motivati dalla inaspettata recrudescenza di manifestazioni “sovversive” verificatasi a partire dall’inizio degli eventi spagnoli. In Umbria, all’interno di una situazione che sembrava ormai avviarsi ad una fase di relativa tranquillità, si registra un’impennata che fa contare, dal luglio al dicembre 1936, più di dieci, aperti, episodi di antifascismo115. A questi si deve poi aggiungere il rifiorire di “iscrizioni e disegni sovversivi” sui muri delle fabbriche o sulle pareti di latrine pubbliche116. Questo sensibile processo di ripresa dell’opposizione antifascista non è attribuibile soltanto all’emozione prodotta dalla lotta del popolo spagnolo; ad esso contribuisce il forte peggioramento delle condizioni materiali di vita delle masse lavoratrici, prodotto dagli effetti della politica economica autarchica. E certamente, in questa direzione, i segnali dell’umore popolare non mancano. Il 12 febbraio 1937, a Perugia, in un orinatoio pubblico della zona di Porta Pesa, si rinviene la scritta “a matita appena leggibile”: “Morte al duce affamatore”117. In aprile il questore così riassume la situazione dello “spirito pubblico” della provincia:
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Non appare diversa la situazione di Terni, dove, a causa della forte concentrazione operaia, continuano a generarsi maggiori elementi di inquietudine per le forze di polizia. Nei primi giorni del marzo 1937 un informatore dell’OVRA comunica: in quel centro operaio vi è un malcontento che le autorità non riescono a contenere e [...] si trovano sempre dei foglietti volanti contro il fascismo, contro il duce, con vignette pornografiche e si avverte una sordida agitazione. La causa, almeno una delle cause, sarebbe il caroviveri per cui le paghe anche di quindici lire giornaliere diventano insufficienti121.
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Non a caso dunque, il 18 marzo, nel gabinetto dello scalo ferroviario di Nera Montoro si rinvengono le seguenti scritte: “Morte al duce”, “Duce se non ci fai stare meglio ti uccideremo in un giorno non lontano”, “Abbasso il fascismo”, “Abbasso il duce ed il re imperatore”. Il prefetto commenta, in maniera allusiva: “Giornalmente arrivano e partono per quello scalo oltre 2 mila operai addetti allo stabil[imento] elettrochim[ico] di Nera Montoro, i quali nell’attesa del treno si recano alle latrine”122.
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3.2. Gli episodi di antifascismo ricordati fanno apparire il 1937 – fin dal suo esordio – come uno degli anni più difficili per il fascismo umbro. È in particolare la propaganda che giunge in Italia tramite Radio Barcellona e Radio Mosca a rivelarsi estremamente pericolosa per l’establishment fascista. Si tratta, del resto, di un fenomeno percepibile sull’intero territorio nazionale come evidenzia la circolare telegrafica che il capo della polizia Bocchini invia, con “precedenza assoluta”, ai prefetti del regno il 23 marzo 1937: Viene rilevato come molti ascoltatori radio cerchino di ascoltare l’iniqua et falsa propaganda radio diffusa Barcellona aut da altre stazioni spagnole nonché da Mosca. A tale scopo cercano anche di riunirsi in comitive presso apparecchi enti di case aut locali pubblici. Fenomeno est particolarmente osservabile presso operai, contadini, piccola borghesia. Est necessario in modo assoluto intervenire prontamente et energicamente con azioni preventive et repressive, procedendo at fermo et provvedimenti di polizia at chiusura dei pubblici esercizi dove viene effettuata ascoltazione et at ritiro degli apparecchi in caso di flagranza. EE. LL. vorranno all’uopo predisporre speciali servizi et ricorrere ove sia necessario anche at servizio fiduciario. Nulla deve rimanere intentato pur di stroncare morboso fenomeno. Si gradirà al riguardo sollecita segnalazione di ogni emergenza123.
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ACS, DPP, ctg. B 79/2, b. 7, fasc. “ Terni-Comunismo”, relazione fiduciaria, 3 marzo 1937. ACS, DGPS AGR 1937, ctg. C 2 4, b. 25, fasc. “Terni-Iscrizioni e disegni sovversivi”, rapporto del prefetto, 21 marzo 1937. Ivi, ctg. J 4 D, b. 38/B, fasc. “Propaganda antifascista a mezzo aereoplani e radiodiffusione”, circolare telegrafica, 23 marzo 1937.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Relativamente all’Umbria il fenomeno della “ricezione di propaganda sovversiva” sembra assumere un particolare rilievo nel comprensorio ternano. In aprile, rispondendo alla circolare di Bocchini, il prefetto di Terni sottolinea che l’intensificazione dei servizi di vigilanza ha permesso di constatare che, nella provincia e nella città, non sì è ricorso al sistema dei capannelli presso le radio riceventi, nei centri rurali per deficienza di apparecchi e per disinteresse degli abitanti, e in questo centro dove è la massa degli operai per la vigilanza esercitata e per timore dei provvedimenti di polizia.
Ciononostante – aggiunge –
Per ostacolare ciò la polizia provvede “prima a disturbare giornalmente la propaganda svolta dalla stazione ad onde medie di Barcellona con emissioni su onda portante circa 800 Kc” e, successivamente, ad impedire l’ascolto di altre stazioni trasmittenti – come Radio Mosca o Radio Colonial – “con emissione da una speciale antenna di oscillazioni dell’ordine di bassa frequenza e di intensità di 15 Kw antenna”125. Questo sistema di disturbo deve però essere abbandonato pochi giorni dopo dalla sua attivazione, in quanto risulta pregiudizievole anche per i normali servizi delle radio militari ed, in particolare, per le trasmissioni dell’EIAR126. Agli inizi di maggio il questore denuncia il fatto che all’interno della Federazione Provinciale del PNF “il temuto pericolo di una certa efficacia della propaganda comunista fatta per radio” è causa di nervosismo e preoccupazione: “un nervosismo ed una preoccupazione così esagerata da far concepire l’idea di rimettere su lo squadrismo e di escludere dal lavoro, che significa affamare, gli operai qualificati comunisti”127. A giugno si tenta di risolvere il problema del disturbo delle emissioni delle stazioni radiofoniche spagnole attivando in città una stazione radio di polizia, il cui
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Ivi, rapporto del prefetto, 5 aprile 1937. Contemporaneamente anche da parte del questore viene segnalato che “i nostalgici sovversivi hanno in quest’ultimo trimestre mal dissimulata una certa velata ripresa di speranze sopite col ripigliare i contatti tra loro e col ricercarsi per comunicarsi le notizie della Spagna raccolte dalla Radio”. Cfr. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 18 aprile 1937. ACS, DGPS AGR 1937, ctg. J 4 D, b. 38/13, fasc. “Propaganda antifascista a mezzo aereoplani e radiodiffusione”, rapporto del prefetto, 5 aprile 1937. Ivi, comunicazione per la Divisione Affari Generali e Riservati, 21 aprile 1937. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 7 maggio 1937. Tuttavia, secondo il questore, la propaganda proveniente dalle emittenti spagnole “dopo un primo momento, per le troppo evidenti esagerazioni, lascia un po’ perplessi financo i più nostalgici sovversivi, ma trova facile accoglimento nella parte di essi meno evoluta, che costituisce la zavorra grigia”.
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si è rilevato che ascoltatori isolati, alcuni in buona fede, altri con molta riserva, comunicavano le notizie raccolte conseguendo nel popoloso centro o nelle officine affollate di operai vasta diffusione e che nella sola città di Terni esistono 1586 apparecchi ric[eventi]124.
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funzionamento viene assicurato, direttamente, da personale della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza128. Ma anche questa operazione non ottiene un completo successo. Infatti a settembre il questore è costretto a constatare che le trasmissioni delle radio spagnole “non sono ancora del tutto eliminate dai disturbi”129. Anche nella provincia di Perugia si hanno alcuni precisi indicatori del considerevole livello di diffusione raggiunto dalla pratica clandestina di ascoltare le emittenti spagnole. Nel maggio 1937, ad Assisi, nel corso delle indagini per scoprire i responsabili dell’esposizione di una bandiera rossa sulle mura della città, la polizia arresta due giovani, Ettore Baldelli e Guerrino Balducci. Quest’ultimo, nel corso dell’interrogatorio, finisce per ammettere la propria colpevolezza, giustificando così il gesto compiuto:
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Tanto io che il Baldelli Ettore [...] siamo stati frequentatori dell’esercizio di osteria, gestito da certo Fongo, dove convenivano [Rinaldi] Vittorio, certo Tanci Peppinello, Santego di Antonio e pochi altri, i quali spesso facevano discorsi sovversivi o riferivano discorsi sentiti a mezzo la radio nel caffè Trieste [...] in ordine alla presunta vittoria e all’immancabile trionfo dei rossi in Spagna. Questi discorsi avevano alquanto scaldata la testa nostra da renderci irresponsabili130.
Sempre relativamente all’ascolto delle radio spagnole, da una “informativa confidenziale”, redatta a Perugia nel dicembre 1937, si apprende quanto segue: Si dice che elementi antifascisti, presunti amici del fuoruscito Fedeli ‘vigilato speciale’, già sfuggito alla cattura col concorso di conoscenti stranieri, stiano costituendo cellule comuniste in Perugia e nei dintorni, mentre il Fedeli stesso dalla Radio di Barcellona fa il propagandista bolscevico. È certo che fino a poco tempo fa il Fedeli è stato ascoltato attraverso apparecchi riceventi da molte persone che ben conoscevano e hanno riconosciuto la sua voce131.
Gli effetti provocati dalle notizie provenienti dalla Spagna sono rilevabili anche attraverso indizi indiretti, ma non per questo meno chiari. Al riguardo è sufficiente osservare quanto avviene all’indomani dello scontro di Guadalajara, in cui si misurano in campo aperto miliziani e legionari italiani. Nel marzo 1937 la vittoria repubblicana riesce infatti a scuotere le forze dell’antifascismo umbro ed a far raggiungere ad esse livelli, sin lì, inimmaginabili di sicurezza ed audacia132. 128 129
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Ivi, lettera per Guido Leto, capo della Divisione Affari Generali e Riservati, 12 giugno 1937. Cfr. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 15 settembre 1937. ACS, DGPS AGR 1937, ctg. C 2 A, b. 7, fasc. “Perugia-Movimento sovversivo”, documentazione diversa. La citazione è tratta dal verbale dell’interrogatorio di Guerrino Balducci, 22 maggio 1936. ACS, DPP, ctg. B 55/2, b. 6, fasc. “Perugia-Comunismo”, relazione fiduciaria, 31 dicembre 1937. Sul significato che assume, in generale, per l’antifascismo la vittoria di Guadalajara cfr., tra gli altri, P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. III. I fronti popolari, Stalin, la guerra, Einaudi, Torino 1970, pp. 130 sgg.
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ACS, DGPS AGR 1937, ctg. C 2 4, b. 24, fasc. “Perugia-Iscrizioni e disegni sovversivi”, telegramma del comandante della compagnia dei carabinieri di Spoleto, 7 aprile 1931. Ivi, ctg. K 1 13, b. 60, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, rapporto del prefetto, 9 maggio 1937. Ivi, ctg. C 2 A, b. 7, fasc. “Perugia-Movimento sovversivo”, rapporto dei prefetto, 6 maggio 1937. Ivi, b. 9, fasc. “Terni-Movimento sovversivo”, rapporto del prefetto, 24 maggio 1937. Ivi, rapporto del prefetto, 17 maggio 1937.
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A Morgnano di Spoleto, il 7 aprile 1937, sulla parete interna del cesso della fabbrica di laterizi della Società Terni sono rinvenute le seguenti frasi, scritte con una matita nera: “Nel 1937 suonerà l’ora del giudizio universale cioè sarà la fine di questi fascisti che pagheranno tutta la malvagità che hanno compiuto in questi 15 anni di fascismo con il loro capo brigante di Mussolini e dovranno pagare ben cara la morte dell’On/le Matteotti”; “Quel maiale di Mussolini fra giorni si sparerà se no ci spariamo noi”; “La guerra è imminente, ricordatevi italiani di rivoltarvi tutti in massa per finire questa schiavitù che abbiamo”; “Le truppe nazionali a Madrid si devono arrendere per forza maggiore”133. Sempre nel mese di aprile, a Trestina, il comunista Domenico Bernardini viene sorpreso in un’osteria “a tessere l’apologia dei rossi spagnoli affermando che essi presto avrebbero ottenuta completa vittoria e si sarebbero quindi portati in Italia ove avrebbero messo tutti a posto”. Fin lì, pur dimostrando di non voler rinunciare alle sue idee, si era comportato “in modo da schivare ogni provvedimento di polizia”134. In una barbieria di Belfiore di Foligno, il 23 aprile è il meccanico Oberdan Agostini a pronunciare “frasi tendenziose e tali da destare pubblico allarme”. Egli, tra l’altro, gioisce per la morte del legionario folignate, Gramellini, e per il ferimento di un altro, Cavaterra, soprattutto perché ritiene quest’ultimo il responsabile dell’uccisione del comunista Augusto Bolletta, avvenuta nel maggio 1921135. Il 7 maggio, nello stabilimento siderurgico della Società Terni, un caposquadra della milizia toglie bruscamente dalla testa dell’operaio diciottenne, Ernani Cremonesi, un fazzoletto rosso. Dopo qualche ora il giovane, facendo un chiaro riferimento al fascista, si sfoga dicendo, e accompagnando le parole con il “gesto della mano indicativo del taglio della testa”: “Altri pochi giorni, e poi vedrai quante ne partono di queste capoccie”136. L’8 maggio, ad Orvieto, arrivano per posta tre lettere, rispettivamente, al segretario federale del PNF, al comandante della locale Legione della Milizia ed al conte Pandolfi, che era stato comandante dei Fasci Giovanili di Combattimento. All’interno esse contengono un foglietto con le seguenti scritte: “W la Spagna, abbasso il fascismo ladrone”; “W la Spagna, abbasso il fascismo assassino”; “W la Spagna, abbasso il fascismo puzzolente”137. Significativo è anche il fatto che dopo diversi anni si tenti di ravvivare la memoria della tradizionale festa dei lavoratori. Nella mattina dell’1 maggio, in una zona montana alla periferia di Terni, viene rinvenuto – “issato sopra un albero di quercia” – un drappo rosso con l’emblema della falce e martello. Contemporaneamente, sempre a Terni, nel gabinetto dei giardini pubblici sono scoperte alcune “scritte in
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lapis”: “Mussolini è un porco”; “Morte al fascio”; “W Lenin”; “Morte al duce”; “W i difensori di Madrid”. Nello stesso giorno, ad Orvieto, sulla porta esterna della locale Cassa di Risparmio, si ritrova un foglietto in cui è scritto: “Viva il 1° Maggio”138. Sono – come si vede – episodi di per sé eloquenti, ma che lo diventano ancora di più se vengono considerati nella loro globalità. Durante il 1937 le autorità di polizia sono costrette a segnalare circa cinquanta episodi di antifascismo, che trovano espressione nelle consuete forme – dalla scritta anonima sui muri all’aperta invettiva contro il regime139. Ed in questo panorama l’evviva rivolto alla Spagna – con o senza il corredo di aggettivi – ha indubbiamente un posto di rilievo.
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Gli avvenimenti spagnoli assumono dunque un ruolo di catalizzatore, contribuendo a portare allo scoperto tensioni mai completamente sopite all’interno delle masse lavoratrici e popolari umbre. L’inquietudine che ne deriva alle forze di polizia può essere desunta dalla solerzia e dall’accanimento con cui viene svolta l’attività di sorveglianza e repressione. Sul finire del 1937 i tutori dell’ordine pubblico sembrano intimoriti anche dai “fantasmi” del passato. Nel cimitero di Terni vengono fatte rimuovere sei lapidi contenenti iscrizioni funerarie “sovversive”140. Una appartiene al comunista Giovanni Manni accoltellato nel 1921 da un fascista (“Non qui sotto / questa nera zolla / [...] / dovevi finire la tua gioventù / straziata da ferro omicida”). Tre sono di persone uccise, nel giugno 1920, dai carabinieri durante una manifestazione141: Olmi Francesco (un monito contro la “prepotenza armata di tutti i tempi”); Luigi Frascarelli (“spento / da piombo fratricida”); Isidoro Taddei (“vittima di piombo iniquo”). Le restanti due appartengono a militanti socialisti: Dante Bicciolo (“anima fervida socialista / nel lavoro nella vita nella famiglia”) ed Emilio Bicciolo (“nella vita civile e politica / esempio di bontà e di fierezza / visse e morì / saldo nella fede socialista). Illuminante è anche quanto scrive il diciottenne ternano Duilio Moretti al fratello Giovanni, fuoriuscito in Francia: 138
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Cfr. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, quadro sinottico relativo ad episodi di carattere sovversivo o antifascista, 17 maggio 1937 (da cui si cita), nonché ACS, DGPS AGR 1937, ctg. K 9, b. 72, fasc. “Affari generali”, segnalazioni di manifestazioni sovversive avvenute in occasione della ricorrenza del 1° Maggio 1937. Oltre alla documentazione contenuta nei fascicoli di categorie diverse, relativi a Perugia e Terni, presenti in ACS, DGPS AGR 1937, cfr. le relazioni redatte nel 1937 dai questori delle due province umbre, conservate in ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista” e b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”. ACS, DGPS AGR 1937, ctg. C 2 A, b. 9, fasc. “Terni-Movimento sovversivo”, rapporto del prefetto, 10 novembre 1937. Sull’“eccidio del 1920” cfr. Documenti. Stralcio dagli Atti parlamentari. Camera dei Deputati, tornata del 3 luglio 1920, in “Indagini”, n. 8, 1980; E. Secci, Una pagina inedita di storia ternana, in “Indagini”, n. 17, 1982; Portelli, Biografia cit. (a nota 65), pp. 139 sgg.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Peraltro il solco, che in questo periodo si apre tra il regime ed alcuni settori della popolazione, sembra assumere caratteristiche non di breve periodo143. Non è infatti irrilevante che tra i responsabili di episodi di antifascismo vi siano dei giovani, addirittura dei ragazzi. Il 4 maggio 1937 nel gabinetto dell’edificio scolastico di Cesi – nel comune di Terni –, viene scoperta la scritta “a gesso bianco”: “Abbasso il Duce, evviva la Spagna”144. In seguito ad indagini si scopre che l’autore è l’alunno dodicenne Giovanni Pressi. A causa di ciò il padre Augusto – “perché sovversivo” – viene diffidato, mentre il provveditore ed il podestà sono invitati ad “una maggiore vigilanza nelle rispettive competenze”145. Tra luglio e agosto 1937, più volte sono rinvenute in un gabinetto pubblico di Foligno delle scritte sovversive. Al fine di scoprire il responsabile gli organi di polizia dispongono intorno al vespasiano un “servizio continuativo di appostamento”. Ciò permette di cogliere in flagrante l’autore: Marcello Trivelli, un “discolo” di dodici anni146. Ad alimentare la dissidenza sociale contribuisce indubbiamente l’ulteriore e generalizzato rincaro del costo della vita che si registra nella seconda metà del 1937. In un centro operaio come Terni questo stato di cose assume un aspetto immediatamente evidente. Ed infatti in dicembre un fiduciario segnala che, in città, “fra gli operai tutti è vivissimo il malcontento contro il regime, tutti si dicono stanchi di sacrifici e di cattiva retribuzione di fronte al costo della vita”147. Ma anche a Perugia “lo spirito della massa del popolo e di alcune classi sociali è depresso sia pel continuo rincaro della vita, sia per la pressione tributaria”. La disoccupazione operaia ammonta a circa 5.000 unità; in particolare sono le condizioni di vita 142
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ACS, DGPS AGR 1938, ctg. C 2 A, b. 3/B, fasc. “Terni-Movimento sovversivo”, copia di lettera, datata 28 febbraio 1938. Al riguardo l’intellettuale antifascista perugino Aldo Capitini ricorda che, a partire dalla seconda metà degli anni trenta, si avvia un processo di distacco dei “giovanissimi” dal fascismo. Cfr. A. Capitini, Note di antifascismo nazionale e perugino, in L’Umbria nella Resistenza, a cura di S. Bovini, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 114 sgg. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, quadro sinottico relativo ad episodi di carattere sovversivo o antifascista, 17 maggio 1937. Ivi, relazione del questore sull’operato della polizia politica, 31 gennaio 1938. Cfr. ACS, DGPS AGR 1937, ctg. C 2 4, b. 24, fasc. “Perugia-Iscrizioni e disegni sovversivi”, rapporto del prefetto, 25 agosto 1937, e DGPS AGR 1941, ctg. K l B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione complementare sugli episodi di carattere sovversivo od antifascista, 16 settembre 1937. ACS, DPP, ctg. B 79/2, b. 7, fasc. “ Terni-Comunismo”, relazione fiduciaria, 31 dicembre 1937.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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Caro fratello ti fo sapere che qua in questo porcho paese dicono che tu sei partito per la Spagna, per combattere contro i nazionali, dicono che sei un disertore, tanto anche perché avete fatto finda di fare un viaggio di piacere per poter valgare la frontiera e non più tornare. Adesso per diverse volte sono venuti i carabinieri per sapere dove ti trovi con la quale gli dicemo che ti trovi in Francia ha lavorare. Caro fratello a me e papà pochi giorni sono trascorsi ci hanno chiamato in caserma dei carabinieri e a me mi anno detto che sono una pecora segnata e se faccio una piccola manganza mi spariscono da queste parti, e anno obblicato a papà che ogni piccola manganza la deve riferire a loro perché se no la riferisce lo fanno cacciare via dalla acciaieria, perché chi è dall’altra parte non deve nemmeno mangiare142.
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degli artigiani che risultano “miserrime per le possibilità di lavoro che vengono sempre più a mancare, data la contrazione delle spese di consumo che si riverbera su di essi”148. È in questa situazione di manifesto malumore popolare nei confronti del fascismo che si avvia in Umbria il 1938. Ciò, verosimilmente, non è estraneo al tentativo delle autorità fasciste di produrre un’intensificazione della propaganda allo scopo di riuscire a coinvolgere emotivamente la popolazione a favore dell’intervento militare in Spagna, soprattutto nel momento in cui esso comincia a delinearsi come vincente. Attraverso alcune iniziative politico propagandistiche ed un uso massiccio della stampa si cerca di creare intorno alle ragioni della presenza fascista nella guerra di Spagna una sorta di coesione sociale simile a quella creatasi nel corso del conflitto con l’Etiopia149. I fogli d’ordini delle federazioni del PNF sono pieni di lettere e di corrispondenze di legionari in cui si sottolinea l’“ardente spirito fascista” che anima le truppe “volontarie” italiane; con toni epici vengono commemorati gli “eroici camerati che han dato la vita e versato il loro sangue per la vittoria e la gloria di Roma in terra di Spagna”150. Il 29 maggio 1938, una intensa mobilitazione viene prodotta dalle organizzazioni fasciste umbre per celebrare la Giornata di Solidarietà con la Spagna Falangista151. Malgrado ciò, nel corso dell’anno si deve registrare ancora un sensibile numero di manifestazioni di antifascismo e tra esse – nonostante l’andamento sfavorevole della guerra per il fronte repubblicano – continuano ad avere una significativa presenza le espressioni di consenso alla “Spagna rossa”152. Nel dicembre 1938, riferendosi ad alcuni di questi episodi, il questore di Terni, pur cercando di minimizzarne la portata politica, è costretto ad ammettere la propria impotenza a rompere la cortina di omertà sociale che protegge coloro che manifestano in forma anonima i propri sentimenti di avversione al regime: la scritta, la frase furtiva, sporadici episodi di una mentalità sovversiva affioranti, sono da ritenersi opera di qualche incosciente audace fanatico isolato tra gli elementi non noti, che agisce di propria iniziativa e senza intesa o concerti; e però è inane lo sforzo degli organi fiduciari. Sono stati intensificati i servizi di prevenzione ed è stato richiesto un maggior concorso in servizi del genere con abiti simulati153.
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ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 16 settembre 1937. In particolare si vedano i numeri del 1938 degli organi delle federazioni dei PNF di Perugia e Terni, “L’Assalto” e “Acciaio”. La citazione è tratta da “Acciaio”, n. 41, 1938. Oltre ai diversi resoconti giornalistici, per Perugia cfr. ACS, DGPS AGR 1938, ctg. C 1, b. 2/E, fasc. “PerugiaOrdine pubblico”, telegramma del prefetto, 29 maggio 1938. Cfr, relativamente a Perugia ed a Terni, la documentazione contenuta nei fascicoli delle diverse categorie presenti in ACS, DGPS AGR 1938. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 31 dicembre 1938.
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ACS, DGPS AGR 1938, ctg. C 2 A, b. 3/B, fasc. “Terni-Movimento sovversivo”, rapporto del prefetto e disegno allegato, 7 settembre 1938. Ivi, ctg. C 2 F, b. 7, fasc. “Terni-Offese al capo del governo”, verbale di interrogatorio di Luigi Trivelli, 24 settembre 1938. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 30 aprile 1939. Ivi, , b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 30 aprile 1939.
L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna
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In ogni caso i tentativi fascisti di ottenere nuovamente alti livelli di consenso sono destinati a scontrarsi con la crescente preoccupazione che la politica estera mussoliniana suscita tra le classi popolari. Si comincia ad avere una precisa consapevolezza del rapporto di causa ed effetto esistente tra il peggioramento della situazione economica del paese ed i costi che comporta l’impegno militare in Spagna o, comunque, la politica bellicistica del regime. Nel luglio 1938 “fra la corrispondenza ordinaria delle buche di impostazione centrale di Terni” vengono trovate “due caricature identiche, vergate a lapis, denigranti il regime”. In esse, sotto il titolo “Realtà d’oggi”, viene raffigurata una donna, simboleggiante l’Italia, la quale gravata da alcuni pesi – nell’ordine: “duce”, “milizia”, “Spagna”, “Africa”, “gerarchi” – si avvia irrimediabilmente verso un precipizio154. Nel settembre successivo sono quattro operai – non schedati – che nello stabilimento siderurgico della Società Terni si rendono responsabili di critiche al regime. In particolare uno di essi, Umberto Bisci, esplicita senza mezzi termini che “il malessere [dei lavoratori] è dipeso dal fatto che l’Italia è costretta a mandare armi, munizioni e viveri in Spagna; se ciò non fosse avvenuto i generi in Italia sarebbero costati meno”155. Agli inizi del 1939 l’autorità di polizia di Terni afferma che l’irrequietudine dei “pochi” antifascisti riesce a trarre auspici sulla scorta di un solo dato: la diffusa assenza di quel sano spirito fascista che richiede obbedienza e sacrificio del quale non è peraltro ancora permeata la gran massa dei lavoratori dell’industria che segue e attende i soli vantaggi economici156. Nello stesso periodo di tempo anche il questore di Perugia deve evidenziare che lo stato d’animo della popolazione, se pure è contrassegnato da una “fiduciosa attesa”, risulta “in un certo modo contrariato dai recenti richiami alle armi e dalle nuove spese militari preannunziate”157. Tutto ciò rende evidente come, a questo punto, risultino poste le premesse in grado di favorire un sensibile allargamento della consapevolezza antifascista tra le masse lavoratrici e popolari. Le successive scelte di politica estera effettuate da Mussolini faranno il resto.
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Una società rurale in guerra: note sulle campagne umbre durante la seconda guerra mondiale
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1. Vigilia di guerra: fiscalità e spirito pubblico
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Il censimento del 1936 registra, in Umbria, 208.723 attivi in agricoltura: 163.167 a Perugia e 45.556 a Terni, il 68,3% ed il 53,6% della popolazione attiva delle rispettive province. Mezzadri e coltivatori diretti raggiungono, nell’intera regione, 166.747 unità pari al 79,8% della popolazione impegnata in agricoltura1. È quindi normale che, sullo scorcio degli anni trenta, le autorità di polizia rivolgano particolare attenzione verso lo “stato d’animo” del mondo rurale. Ciò anche in ragione del fatto che, indipendentemente dai fluttuanti raccolti stagionali, nelle campagne umbre sembra essere presente un sensibile stato di disagio dovuto, tra l’altro, alla forte pressione fiscale ed all’alto costo di alcuni prodotti industriali necessari alla produzione agricola2. In questo contesto i “tributi di varia natura”, ai quali è sottoposto il reddito agricolo, finiscono per incidere in maniera pesante sui bilanci familiari più modesti, in particolare su quelli delle famiglie mezzadrili3. Non a caso, nelle relazioni trimestrali che i questori inviano al Ministero dell’Interno, l’esame della cosiddetta “tollerabilità fiscale” appare molto accurato, soprattutto nel sottolineare le preoccupazioni che scandiscono il vivere quotidiano di molti contadini4. Al riguardo, appare significativo quanto scrive il questore di Terni alla fine del 1938: La massa del settore agricolo, adusata alla parsimonia ed al risparmio, sopporta il peso dei
L’articolo è già apparso in “Proposte e ricerche”, n. 33, 1994, pp. 69-95. 1
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L. Bellini, Appunti per la storia dell’agricoltura umbra negli ultimi cento anni, in Id., Scritti scelti. Aspetti e problemi economici dell’Umbria nei secoli XIX e XX, a cura di L. Tittarelli, Foligno 1987, p. 126. Sulla necessaria cautela che richiede l’utilizzazione dei dati tratti dalle rilevazioni censuarie cfr. ivi, pp. 123-124. Si vedano le relazioni trimestrali dei questori di Perugia e Terni, relative al periodo 1937-1939, contenute in ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista” e b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”. In generale sulla situazione sociale ed economica nelle campagne umbre alla fine degli anni trenta; cfr. G. Nenci, Proprietari e contadini nell’Umbria mezzadrile, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Umbria, a cura di R. Covino e G. Gallo, Torino 1989, pp. 239 sgg. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K I B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 15 settembre 1938. Si veda la nota 2. Più in generale risulta accertato come la pressione fiscale sia in maggior misura avvertita nelle province in cui prevale la piccola proprietà ed il rapporto mezzadrile. Al riguardo cfr. N. Gallerano, L. Ganapini, M. Legnani e M. Salvati, Crisi di regime e crisi sociale, in G. Bertolo et al., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano 1976, p. 37.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
tributi e del costo della vita auspicando che a tanto non abbiano ad aggiungersi le avversità atmosferiche e climatiche, persuasa che lo sforzo richiesto è una necessità contingente e nella fiduciosa speranza di speciali previdenze del Regime a loro favore. Ha finito cioè, per adattamento doveroso, col dare un certo assetto al bilancio familiare, ma questo è ora sensibilissimo a qualunque sia pur piccolo aumento del passivo5.
Dalla comprensione verso questo stato di cose, in alcuni casi, può derivare una certa tolleranza nei confronti di contenute forme di evasione all’obbligo di consegna agli ammassi di alcuni prodotti agricoli. È quanto avviene a Terni per il raccolto del grano del 1938, che raggiunge la cifra di 480.000 quintali, circa 60.000 in più dell’anno precedente6.
Non a caso, dunque, qualche rappresentante delle associazioni contadine evidenzia come un eccessivo rigore nel perseguire eventuali abusi di legge abbia soltanto l’effetto di produrre malumore e risentimento nei confronti del regime. Nell’aprile 1939 il fiduciario di Piediluco dell’Unione Fascista degli Agricoltori, in una lettera indirizzata al segretario provinciale, scrive: Naturalmente, il fisco è sempre guardingo, e spesso si rende addirittura esoso! Non ha pietà, e ciò esaspera [i] bonificatori piccoli proprietari, che vengono colpiti da gravi contravvenzioni agli effetti dell’imposta di consumo. Potrei citare parecchi casi pietosi di rigorismo che non approvo e che, anzi, non solo sono contro ogni principio di umanità, ma (indirettamente, perché lo constato tutti i giorni da molti anni) questi sistemi eccessivamente fiscali e senza conciliazione, rappresentano una depressione, un disfattismo, sia pure involontario! Ed ecco tante imprecazioni che ben si comprendono8.
Questa situazione consente di individuare facilmente le spinte emotive che animano gli appartenenti ai ceti rurali, allorché si rendono responsabili di “episodi sovversivi, antifascisti e di insofferenza verso il regime”9, caratterizzati per lo più
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ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 31 dicembre 1938. Nel 1937 erano stati raccolti 420.398 quintali di grano; ivi, relazione del questore, 15 settembre 1938. Ibidem. ASDP, CA 1936-1942, ctg. XI, b. 410, fasc. “Confederazione fascista dell’agricoltura: circolari”, lettera del fiduciario di Piediluco dell’Unione Provinciale Fascista degli Agricoltori di Terni, 27 aprile 1939 (i corsivi sono nel testo). L’espressione – con qualche variante di poco conto – è correntemente usata nelle relazioni trimestrali dai questori di Perugia e Terni; cfr., per tutte, ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K I B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, nota del questore, 20 aprile 1940.
Una società rurale in guerra: note sulle campagne umbre durante la seconda guerra mondiale
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Tale cifra – commenta il questore – può considerarsi al di sotto di quella reale, giacché nonostante tutte le disposizioni, non sono poche le piccole evasioni ad opera di piccoli coltivatori diretti, che hanno voluto costituirsi una prudenziale scorta famigliare per qualsiasi eventualità di crisi verso la fine dell’anno agrario in corso7.
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da sfoghi verbali, imprecazioni, invettive. Esemplare, al riguardo, il caso del contadino di Trestina, Cesare Moretti, il quale nell’estate del 1939, essendo stato richiamato alle armi, ha una reazione di rabbia ed esclama “Questo vigliacco (alludendo al duce) ci ha coperto di tasse e poi ci porta alla guerra”10. Nel settembre 1939, l’avvio del conflitto in Europa porta anche all’interno del mondo contadino umbro un ulteriore elemento di inquietudine. Al contrario degli organi di stampa che forniscono immagini di maniera delle popolazioni rurali11, le autorità di polizia appaiono esplicite nel sottolineare i sentimenti che tra i contadini suscita la possibilità di un coinvolgimento italiano nella guerra. Relativamente alla provincia di Terni si avverte che “un’eventuale partecipazione” al conflitto “sarebbe accolta, dalla massa rurale, se non con entusiasmo con ragionata rassegnazione”12; a Perugia si denuncia, invece, la presenza di un più generale “senso di mal celata incertezza per lo sviluppo che potranno prendere gli avvenimenti, in relazione al conflitto anglo-franco tedesco”13. Nei primi mesi del 1940, appare ormai largamente diffusa la sensazione di una probabile – e prossima – entrata nel conflitto dell’Italia14. Ciò fa sì che, in giugno, la dichiarazione di guerra alla Francia ed all’Inghilterra non produca particolari effetti sull’insieme della popolazione rurale umbra. Relativamente alla provincia di Perugia il prefetto descrive la seguente situazione: Lo spirito pubblico nella provincia mentre in un primo tempo, cioè all’atto della dichiarazione di guerra, era alquanto depresso, a mano a mano si andato mutando in uno stato di rassegnazione che risponde del resto al carattere apatico e piuttosto tendente al pessimismo di queste popolazioni. [...] Il rurale, che costituisce per altro la maggioranza della popolazione della provincia, vive comunque abbastanza sereno a causa del promettente raccolto granario e del soddisfacente andamento delle colture sussidiarie
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ACS, DGPS AGR 1942, ctg. C 2 A, b. 19, fasc. “Perugia-Movimento sovversivo”, rapporto del prefetto, 14 giugno 1940. Insieme a questo ricordato, si registrano altri due episodi. Il 10 giugno 1939, a Città di Castello, il bracciante disoccupato Giuseppe Mambrini rivolge “frasi irriguardose verso il Duce e l’Italia”. A dicembre dello stesso anno, in un’osteria di Castel Viscardo, Felice Serranti – contadino richiamato alle armi in licenza agricola – pronuncia frasi contro Mussolini ed antimilitariste. Cfr., rispettivamente, ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione sugli episodi di carattere sovversivo aggiornativa della precedente in data 30 aprile 1939, e b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione sugli episodi di carattere sovversivo, 1 gennaio 1940. Si veda Lo stato delle colture agrarie e i prezzi del bestiame nella provincia, in “La Nazione”, 10-11 settembre 1939, Cronaca di Perugia, dove – tra l’altro – si legge: “Bisogna percorrere le campagne di questa nostra terra feconda ed incantevole per sentirsi confortati nell’animo da tanta operosità e tanta ferma fede di tutti i rurali nei destini della Patria, per constatare come essi attendano serenamente alla loro dura fatica, con la fiducia di coloro che sanno di poter procedere diritti e sicuri nel loro cammino, sotto la guida del Duce glorioso, il quale ormai nel cuore di tutti gli italiani che credono in lui, obbediscono ai suoi ordini e sono pronti, ove le necessità lo rendano indispensabile, di combattere ai suoi ordini, per ragioni di giustizia, per ulteriori ed immancabili vittorie”. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 7 ottobre 1939. Ivi, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 2 gennaio 1940. Ivi, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 22 aprile 1940 e b. 57, fasc. “TerniMovimento comunista”, relazione del questore, 22 aprile 1940.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
(granturco, patate e legumi). Tutto ciò ed il fatto che non si sono avute incursioni aeree e che finora non molte sono le famiglie le quali hanno subito la perdita di loro congiunti alle armi in conseguenza dello stato di guerra ed infine i vari provvedimenti delle autorità centrali e provinciali a favore delle famiglie dei richiamati (sussidi, esoneri, licenze agricole, ecc.) contribuiscono a rendere abbastanza normale lo spirito e l’ordine pubblico15.
Anche nella provincia di Terni – ove il questore avverte una generale assenza di “entusiasmo di guerra” – la scelta bellica del regime non suscita tra i ceti rurali reazioni degne di nota. Soltanto ad Orvieto si hanno “proteste e rimostranze” da parte di diverse famiglie, soprattutto contadine, perché si era provveduto all’arruolamento volontario degli iscritti al fascio giovanile nel battaglione della GIL (Gioventù Italiana del Littorio), senza aver chiesto un preventivo assenso da parte dei genitori16.
Negli anni trenta le politiche agrarie del regime, il blocco dei processi migratori e delle strutture agrarie provocano un aumento del carico della popolazione nelle campagne. Ciò genera fenomeni di disoccupazione occulta che si vanno a sommare alla disoccupazione palese. In altri termini, l’agricoltura umbra funziona durante il periodo fascista come settore “spugna”, come sede della sovrappopolazione relativa17. Malgrado tale dato sia ridimensionato dalle statistiche ufficiali, si può affermare, con buona approssimazione, che nella seconda metà degli anni trenta disoccupazione, inoccupazione, sottoccupazione coinvolgono settori consistenti della popolazione umbra. Tale situazione tende a rovesciarsi negli anni immediatamente precedenti il conflitto e durante la guerra. Come era già avvenuto durante la prima guerra mondiale, in generale si raggiunge una situazione di tendenziale piena occupazione, che in Umbria si trasforma addirittura in carenza di manodopera, grazie all’ampliarsi delle produzioni direttamente destinate allo sforzo bellico, la cui presenza risulta notevole nella regione, ed a causa dei richiami, che coinvolgono quote notevoli della popolazione rurale maschile. L’esame delle diverse fasi attraverso le quali si realizza questo mutamento deve però essere condotto in maniera differenziata, tenendo conto della storica
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ASP, APP, b. 90, fasc. 3, promemoria riservato personale, 26 luglio 1940. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 31 luglio 1940. R. Covino, Storia del movimento operaio, storia nazionale e storia locale. Per una ricerca sul movimento operaio e contadino in Umbria, in “Annali della Facoltà di Scienze Politiche”, n. 13 (nuova serie), Università degli Studi di Perugia, a.a. 1973-1976, pp. 133-135.
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2. Richiami alle armi e forza lavoro
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divaricazione intraregionale prodotta dalla considerevole presenza della grande industria nella zona di Terni. Nella provincia di Perugia, l’insufficienza di alternative occupazionali extragricole e l’ampliamento artificioso della popolazione mezzadrile provocano alla fine del 1938 momenti di tensione nel mercato della forza lavoro in agricoltura. Le autorità di polizia segnalano preoccupanti fenomeni di disoccupazione tra i braccianti che, secondo il censimento del 1936, rappresentano il 12,4% della popolazione attiva nelle campagne18. Si tratta di figure sociali da sempre ai margini dell’economia mezzadrile, che specie nei mesi invernali trovano difficoltà a reperire lavoro. Il fenomeno non presenta, dunque, caratteri di novità. Tuttavia la massa dei provvedimenti previsti dalle amministrazioni locali e dall’autorità prefettizia – distribuzioni in denaro ed in natura a cura degli enti comunali di assistenza, istituzione di cucine economiche, avvio di lavori di sistemazione stradale e di sterro – sembrano testimoniare una situazione imprevista e, per alcuni aspetti, segnata da caratteri di emergenza19. Nello stesso periodo la situazione in provincia di Terni si presenta molto diversa. Infatti la ripresa produttiva nei vari comparti industriali del circondario ternano favorisce la crescente occupazione, della quale possono beneficiare largamente anche i contadini. Nell’elencare il numero dei disoccupati del terzo trimestre del 1938 il questore informa che i disoccupati in agricoltura sono soltanto 93, mentre nell’industria sono 1.848, ma fra questi ultimi segnala anche la presenza di forza lavoro agricola in cerca di occupazione nelle industrie20. Per di più il fatto che, in questa fase, anche gli operai edili si indirizzino verso il lavoro di fabbrica apre ulteriori possibilità di occupazione nel settore che i contadini sono pronti a non lasciarsi sfuggire. Infatti, sempre nell’autunno 1938, allorché si crea una necessità di manodopera “per urgenti lavori di sterramento e di sistemazione di alvei”, i disoccupati dell’industria edile e stradale richiesti non si presentano e le ditte sono costrette ad assumere “veri e propri contadini”21. In seguito – a partire dai primi mesi del 1939 – non solo si assiste alla completa scomparsa del problema della disoccupazione dal circondario di Terni, ma addirittura le industrie ternane diventano un polo di attrazione per oltre mille lavoratori 18
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In particolare, il censimento generale del 1936 evidenzia che, tra gli addetti all’agricoltura umbri, i lavoratori a giornata (braccianti agricoli liberi, avventizi volanti, giornalieri di campagna, ecc.) risultano essere 21.012 (di cui 19.933 non qualificati) nella provincia di Perugia e 4.898 (di cui 3.912 non qualificati) nella provincia di Terni; cfr. Istituto Centrale di Statistica del Regno d’Italia, VIII Censimento generale della popolazione, 21 aprile 1936, IV: Professioni, 11: Tavole, Roma 1939, pp. 60-61, 148. Sulla componente bracciantile della società rurale umbra cfr., inoltre, Nenci, Proprietari e contadini cit. (a nota 2), pp. 201 sgg. Cfr. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K I B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 31 dicembre 1938. Ivi, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 15 settembre 1938. Sul fenomeno del frequente passaggio di manodopera dal settore agricolo a quello industriale nel circondario di Terni cfr. G. Nenci, Proprietari e contadini, cit. (a nota 2), p. 228. I disoccupati del settore edile e stradale sono complessivamente 351; ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 15 settembre 1938.
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Ivi, relazioni dei questore, 30 aprile 1939 e 1 gennaio 1940 (da cui si cita). Si veda inoltre ASDP, CA 1941, ctg. XI, b. 407, fasc. “Concorso nazionale ‘Fedeli alla terra’”, lettera del fiduciario di Piediluco dell’Unione Provinciale Fascista degli Agricoltori di Terni, 21 febbraio 1940; in essa il fiduciario denuncia che anche le famiglie provenienti da altre province “lasciano le colonie dopo un anno o 2”, perché allettate dai guadagni offerti dalle industrie. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 22 aprile 1940. Ibidem. ASP, APP, b. 90, fasc. 3, relazione del prefetto, 2 dicembre 1940. Al riguardo, nel settembre 1942, il questore di Perugia riferisce quanto segue: “L’assegnazione di carburanti agricoli – 90% del quantitativo consumato lo scorso anno – è assolutamente insufficiente, se si tenga conto che nell’anno 1942 sono entrati in funzione 64 nuovi trattori e numerose motopompe per irrigazione durante i periodi siccitosi” (ACS, DGPS AGR 1942, ctg. K I B, b. 75, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 30 settembre 1942). Nel giugno 1943 è ancora il questore di Perugia a denunciare un ulteriore peggioramento della situazione: “Per poter regolarmente svolgere le operazioni relative alla trebbiatura, aratura meccanica dei terreni e sollevamento di acqua per la irrigazione, necessitano annualmente agli agricoltori della provincia q.li 21 mila di carburanti. L’assegnazione della corrente annata è stata ridotta invece a q.li 16 mila e fino ad ora ne sono stati messi a disposizione e distribuiti od in corso di distribuzione q.li 8 mila. Il quantitativo di carburanti giunto a destinazione ha consentito di praticare le arature primaverili e consentirà di effettuare la trebbiatura per circa il 50% del totale. Per evitare di assottigliare eccessivamente le scorte disponibili per la trebbiatura, sono state sospese le assegnazioni per la irrigazione, con grave pregiudizio alla produzione” (ACS, MI, DGPS, SCP 1940-1943, b. 12, fasc. 126, relazione del questore di Perugia, 25 giugno 1943). ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 30 aprile 1939.
Una società rurale in guerra: note sulle campagne umbre durante la seconda guerra mondiale
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di fuori provincia, tra i quali si registra “mano d’opera ordinaria” proveniente anche dal settore agricolo delle province limitrofe22. Tutto questo produce un apprezzabile miglioramento economico per le famiglie contadine che hanno la ventura di avere uno o più componenti occupati negli stabilimenti industriali23. La situazione risulta, invece, particolarmente preoccupante nelle proprietà più vaste, ove si rende necessario l’impiego di manodopera salariata. Non a caso da parte di alcuni proprietari si tenta di rimediare alla penuria di forza lavoro incrementando l’uso di macchine agricole24. Si tratta di un tentativo destinato a non avere uno sviluppo apprezzabile, soprattutto dopo che, con l’entrata in guerra del paese, si stabilizzerà una cronica carenza di carburanti che renderà precaria l’utilizzazione di macchine agricole25. A partire dai primi mesi del 1939, il riavvio della produzione in industrie legate ad esigenze belliche, la ripresa delle attività estrattive in alcune miniere di lignite ed i richiami alle armi consentono anche nella provincia di Perugia una progressiva diminuzione della disoccupazione, soprattutto tra il bracciantato agricolo. Ciò consente al questore di affermare che in complesso il fenomeno della disoccupazione a Perugia, “ridotto alle sue vere proporzioni, non desta seria preoccupazione”26. L’entrata in guerra, provocando un ulteriore massiccio richiamo alle armi e l’accresciuto assorbimento di manodopera da parte delle industrie legate ad esigenze belliche, ha come riflesso immediato una sensibile accentuazione della carenza di forza lavoro nelle campagne.
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Un’indagine condotta dalla Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura (CFLA) sul rapporto tra disponibilità e fabbisogno di manodopera nell’annata agraria 1940-1941 conferma in gran parte dell’Umbria l’esodo di lavoratori agricoli verso attività industriali contenuto in limiti “modesti od insignificanti”, ma che assume nel circondario di Terni dimensioni tali da apparire “fortissimo e preoccupante”27. È soprattutto per i lavoratori più giovani delle campagne che il settore industriale offre parecchi vantaggi: più alti livelli retributivi, miglior trattamento assistenziale e previdenziale, maggiore libertà ed, infine, la possibilità di ottenere l’esonero dal servizio militare. Per quanto riguarda il rapporto salariale in agricoltura, non vi è dubbio che esso presenti evidenti sperequazioni e squilibri “sia in rapporto all’aumentato valore della produzione agricola e del costo della vita, sia in confronto alle mutate condizioni di ambiente in seguito alla fissazione dei prezzi unici nazionali per i prodotti soggetti all’ammasso, ed alle migliorate remunerazioni al lavoro stabilite in altri settori”28. Ciò è dovuto al fatto che, dopo il blocco del 1936 per i contratti collettivi di lavoro agricolo, la situazione salariale in agricoltura aveva visto soltanto alcune maggiorazioni disposte con provvedimenti di carattere nazionale e limitate revisioni relative agli aspetti normativi ed alle prestazioni assistenziali e previdenziali. Peraltro tali squilibri relativi, nel contesto della rarefazione di manodopera, diventano causa di un fenomeno particolare che, è soprattutto nei primi anni di guerra, tende a diffondersi rapidamente in diverse zone del paese. Molti proprietari, allo scopo di evitare che salariati e braccianti si indirizzino verso altri settori produttivi, debbono corrispondere ad essi salari e tariffe più elevati rispetto a quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro di categoria. Per quanto riguarda l’Umbria, è soprattutto nel circondario di Terni che si registrano “salari di fatto superiori a quelli contrattuali nei lavori di raccolta dei prodotti”. Si tratta di una situazione che, in generale, pregiudica il prestigio delle organizzazioni sindacali fasciste dell’agricoltura. Pertanto – a partire dal 16 giugno 1941 – attraverso l’introduzione di “compensi speciali” da aggiungere alla tariffa oraria vigente, esse tentano di ricondurre i rapporti di lavoro all’interno di una controllata regolamentazione collettiva. Infatti tali “compensi” sono elaborati tenendo conto “provincia per provincia e categoria per categoria, tanto delle mutate condizioni ed esigenze locali, quanto dei salari di fatto praticati”. In Umbria – come avviene, del resto, in altre parti d’Italia – questo provvedimento, pur apportando “notevoli aumenti ai salari ed alle tariffe vigenti”, non riesce a raggiungere completamente il suo scopo. Infatti nel circondario di Terni salari e
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Si veda lo studio curato dalla Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura, Disponibilità e fabbisogno della mano d’opera agricola nelle annate 1941-1942, in ACS, SPD CO 1922-1943, fasc. 509.381. Ibidem (anche per le citazioni che seguono).
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Relativamente alle province di Perugia e Terni, nel periodo tra il 1935 ed il 1941, si hanno le seguenti tariffe medie orarie per i braccianti agricoli impiegati in lavori ordinari: anno Perugia Terni 1935 1,10 1,15 1936 1,17 1,22 1937 1,31 1,30 1938 1,31 1,36 1939 1,43 1,49 1940 1,57 1,64 1941 1,57 1,64 compensi speciali 0,52 0,81 Le tariffe sono calcolate sulla media annuale aritmetica delle tariffe vigenti nelle varie zone delle due province per la categoria “Braccianti avventizi uomini dai 18 ai 65 anni” e per i lavori ordinari; ibidem. In generale, al riguardo, cfr. B. Mantelli, Camerati al lavoro. I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938-1943, Firenze 1992, pp. 39 sgg. Alla fine del marzo 1941 sono oltre 2.500 i lavoratori che si dichiarano disponibili ad andare in Germania. Di essi, a giugno, ne risultano partiti circa 200. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazioni del questore, 27 marzo 1941 (da cui si cita) e 27 giugno 1941. Si veda lo studio curato dalla Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura, Disponibilità e fabbisogno della mano d’opera agricola nelle annate 1941-1942 cit. (a nota 27). ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazioni del questore, 22 dicembre 1940 e 24 marzo 1941. Nell’intera provincia di Perugia, la superficie riservata alla coltivazione del tabacco passa dai 1.336,43 ha del 1938 ai 3.030,41 ha del 1941. Si veda L. Capitani, L. Piras e V. Scarpelli, “...una storia lunga…” (Lotte e coscienza di tabacchine umbre negli anni ‘50), Perugia 1983, p. 19. Il rinvio è allo studio curato dalla Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura, Disponibilità e fabbisogno della mano d’opera agricola nelle annate 1941-1942 cit. (a nota 27) (anche per quanto segue).
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tariffe di fatto hanno subito maggiorazioni tali da non poter essere raggiunte dalla nuova disciplina contrattuale. Per cui anche dopo l’introduzione dei “compensi speciali” si rileva che la manodopera bracciantile viene spesso retribuita con salari di fatto superiori a quelli contrattuali29. Nonostante questa situazione, nei primi mesi del 1941 le autorità fasciste e statali sono sollecitate ad impegnarsi per reclutare lavoratori da inviare in Germania30. Si pensa di fronteggiare l’ulteriore deficienza di manodopera, dovuta alla partenza di questi lavoratori, incrementando – “secondo quanto in programma” – il numero delle ore lavorative31. Ad agevolare tale scelta interviene il decreto ministeriale del 25 aprile 1941, con il quale si stabilisce un prolungamento obbligatorio del normale orario di lavoro di due ore. Ed infatti tra le province italiane ove il decreto viene integralmente applicato sono anche Perugia e Terni32. Lo squilibrio tra fabbisogno e disponibilità di manodopera nasce anche da ragioni particolari come l’incremento di colture richiedenti un considerevole impiego di forza lavoro. È ad esempio, quanto avviene nell’Alta Valle del Tevere, dove l’alta remuneratività del tabacco fa sì che durante il periodo bellico vengano impiegate più vaste aree per la sua coltivazione33. Ciò che appare più grave per l’Umbria è la diffusa deficienza di unità maschili nelle famiglie coloniche, una deficienza che in alcune zone del circondario di Terni – soprattutto nei periodi di maggior bisogno (semina e raccolto) – diventa “grave permanente”34. Nello studio effettuato dalla CFLA si sottolinea come, ancora nel
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1941, si riesca a fronteggiare tale carenza attraverso soluzioni differenziate: la consuetudine dello scambio di manodopera tra le famiglie coloniche in entrambe le province umbre, con in più il ricorso ad immigrati da altre province nel circondario di Terni.
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Quando c’erano da fare i lavori più grossi [...] ci si radunava, ci si aiutava. Perché quelle volte non esistevano le giornate o a pagamento, niente, solo per favore. Per esempio un giorno - oppure tre o quattro giorni - da una famiglia, tutti andavano ad aiutare quella; poi da quell’altra famiglia e riandavano tutti lì. Per esempio quando c’era da spostare il grano, quando c’era da mietere, quando c’era la battitura, si radunavano [...]. Così venivano fatte le faccende [...]. In quel modo era un lavoro sì, ma era anche un piacere. Era un modo di vita che era concepito così35.
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La situazione appare invece preoccupante per le famiglie di mezzadri o piccoli coltivatori, composte da poche unità lavorative, di cui soltanto una o due maschili. In questi casi il richiamo alle armi anche di un solo uomo crea non poche difficoltà nella conduzione del terreno e fa ricadere una grande mole di lavoro su donne e minori36. Da questo punto di vista la situazione nelle campagne si fa davvero pesante nella seconda parte del 1941, quando per il richiamo alle armi si passa dalla procedura della mobilitazione per classe alla chiamata diretta. Ciò infatti determina in molte famiglie coloniche la partenza di tutti gli uomini idonei al lavoro37. In un mondo popolato in larga parte da donne, minorenni e vecchi, come la società rurale durante la guerra, sono inevitabilmente le prime – come del resto era accaduto nel corso del primo conflitto bellico38 – ad assumere un ruolo determinante dal punto di vista sociale ed economico. Sulle donne punta anche l’organizzazione sindacale dei lavoratori dell’agricoltura che per incrementare ai massimi livelli il loro impiego in lavori pesanti o, di norma, eseguiti dagli uomini promuove la stipulazione di accordi speciali ad esse riservati. Si tratta di una politica che in Umbria ottiene gli effetti sperati, infatti le province di Perugia e Terni sono tra le province italiane che fanno registrare un sensibile aumento della manodopera femminile in agricoltura39. 35
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Testimonianza di Maria Teresa Spogli (1932), appartenente ad una famiglia di piccoli proprietari del comune di Gubbio, resa a Cinzia Spogli il 10 febbraio 1994. La testimonianza – registrata su nastro magnetico – è conservata presso l’Archivio dell’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea. Sul lavoro femminile nelle regioni mezzadrili si rimanda a S. Anselmi, Mezzadri e mezzadrie nell’Italia centrale, in P. Bevilacqua, Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, II: Uomini e classi, Venezia 1990, pp. 247-248. Questo stato di cose, secondo il questore, risulta ulteriormente aggravato dal fatto che le norme sugli esoneri e sulle dispense non si sono dimostrate adeguate alle necessità”. Cfr. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 25 settembre 1941. Si veda S. De Cenzo, Una società rurale in guerra: conflitto sociale e famiglia mezzadrile in Umbria durante la prima guerra mondiale, in “Proposte e ricerche”, a. XVII, estate-autunno 1994, pp. 42-69. Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura, Disponibilità e fabbisogno della mano d’opera agricola nelle annate 1941-1942 cit. (a nota 27).
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Relativamente al ruolo complessivo svolto dalle donne, non si può non sottolineare come la fase della guerra sembri essere vissuta – o almeno ricordata – dalle donne di campagna come un periodo di “ordinaria eccezionalità”40. Durante la guerra le donne hanno dovuto lavorare di più perché mancavano gli uomini e bisognava mandare avanti il podere, ma tanto bisognava lavorare anche quando c’erano gli uomini41. Sono nata a San Faustino di Pietralunga e per tutta la vita ho fatto la contadina, non ho imparato neanche a leggere e scrivere. Durante l’ultima guerra vivevamo in un piccolo podere di montagna di nostra proprietà, denominato Prato d’Agnolino, nella zona di San Faustino. La nostra era una famiglia numerosa con sei figli da allevare; lavoravamo dall’alba al tramonto per 365 giorni l’anno nel più completo isolamento42.
Io avevo due fratelli in guerra e la loro mancanza si faceva sentire. Allora molti lavori dovevano essere fatti da noi donne, e tutti in famiglia lavoravamo di più, ma anche prima dalla mattina alla sera il lavoro non mancava. [...] La guerra, la vera guerra per noi è cominciata quando è tornato a casa mio fratello Gino invalido, che aveva bisogno di continua assistenza43.
Tuttavia alle autorità statali il ruolo dell’uomo nel lavoro dei campi appare determinante anche perché sembra assicurare ordine e disciplina produttiva. Nel giugno 1942 il questore di Perugia riferisce che è stata favorevolmente accolta “la disposizione relativa al congedo di militari appartenenti a famiglie coloniche prive di uomini validi al lavoro” e che la commissione speciale, formatasi per esaminare le domande di congedo, ne aveva già visionate circa 1.400, “accogliendone circa 700, rinviandone per l’istruttoria 450, respingendone definitivamente circa 250”. Ma, in particolare, il funzionario di polizia appare compiaciuto, perché attraverso questa provvidenza, sarà possibile assicurare alle unità poderali, oltreché il lavoro di un uomo valido, anche quella disciplina e quella coesione nelle famiglie coloniche e fra i temporanei aggregati per i lavori stagionali, che sole possono essere garantite dalla
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Al riguardo cfr. A. Bravo, Simboli del materno, in Id., a cura, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari 1991 (l’espressione citata è a p. 107); S. Lotti, Donne nella guerra: strategie di sopravvivenza tra persistenze mutamenti, in Linea Gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani, a cura di G. Rochat, E. Santarelli e P. Sorcinelli, Milano 1986, pp. 320-322. Testimonianza di Margherita Nolilini, contadina della zona di Torgiano, riportata in La dimensione donna nella Resistenza Umbra. Primi risultati di una ricerca condotta nella provincia di Perugia, a cura di C. Papa, Perugia [1974], p. 42. Testimonianza di Margherita Faloci Pulignani, riportata in La dimensione donna, cit. (a nota 41), p. 81. Testimonianza di Elvira Monesi (1925), appartenente ad una famiglia mezzadrile del comune di Amelia, resa all’autore il 20 novembre 1993.
Una società rurale in guerra: note sulle campagne umbre durante la seconda guerra mondiale
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Le cose sembrano divenire tragicamente eccezionali soltanto quando si ha un congiunto morto o gravemente ferito.
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direzione di persona di certa autorità e ascendente, quale un militare appositamente distratto dalle armi44.
Nonostante tutti i mezzi attuati per contenerla entro limiti non preoccupanti, la deficienza di manodopera maschile nelle campagne si mantiene su livelli elevati durante l’intero periodo del conflitto. Alla fine del 1942, in provincia di Perugia si denuncia addirittura che, a causa di nuovi richiami alle armi, “altre duemila famiglie coloniche sono rimaste prive di uomo valido”45.
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3. Ammassi ed “economia morale”
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I comportamenti, le resistenze, le forme di adattamento, con cui i ceti rurali reagiscono alle molteplici difficoltà di un’economia di guerra, sono alcuni degli aspetti che maggiormente caratterizzano il mondo contadino nel periodo bellico. Alle prese con una fiscalità vessatoria ed un rigido vincolismo commerciale, mezzadri e piccoli proprietari, soprattutto, mettono a punto strategie di resistenza, che, in rari casi, si trasformano in modi per raggiungere modesti livelli di benessere economico, fin lì sconosciuti ed insperati46. Il settore zootecnico – già provato negli anni immediatamente precedenti la guerra a causa della carenza di foraggi47 – è uno dei comparti che risente maggiormente della politica degli ammassi. Infatti i decreti ministeriali, promulgati a partire dal giugno 1940, fissano quote di conferimento che non di rado suscitano tra i contadini umbri disagio e malcontento, puntualmente registrate dalle autorità di polizia48. Al riguardo appare indicativo quanto avviene nell’agosto 1940 a Pontecuti, frazione di Todi. Protagonista il parroco don Nazzareno Lombardi, il quale in una conversazione con conoscenti – tra i quali il colono del podere parrocchiale – si lamenta sia dell’eccessiva tassazione che grava sull’economia agricola, sia dell’esiguo prezzo del grano. Poi, dopo aver ricordato che – essendo in possesso soltanto di bestie da lavoro – il conferimento di un capo bovino all’ammasso gli avrebbe recato grave danno, afferma stizzito che “continuando di questo passo, bisognava attaccare Lui all’aratro (alludendo al duce)”49. 44
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ACS, DGPS AGR 1942, ctg. K I B, b. 75, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 30 giugno 1942. Ivi, relazione del questore, 31 dicembre 1942. Al riguardo si veda anche P. Bevilacqua, Le campagne del Mezzogiorno tra fascismo e dopoguerra. Il caso della Calabria, Torino 1980, pp. 323 sgg. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazioni dei questore, 30 maggio e 15 settembre 1938 Nel luglio 1940 il questore avverte che “c’è molta ricerca di bestiame da macello per le consegne del 35% che i proprietari debbono allo Stato, e ciò per non essere costretti a cedere quello d’allevo”; cfr. ivi, relazione dei questore, 31 luglio 1940. ACS, MI, DGPS AGR, ctg. A 5 G, b. 28, fasc. “Perugia-Attività cattolica”, rapporto del prefetto, 25 novembre 1940 (il corsivo nel testo).
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A. Dal Pont e S. Carolini, L’Italia al confino. Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, vol. III, Milano 1983, p. 1229. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 27 marzo 1941. Ivi, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista” e b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, documentazione diversa sugli episodi di carattere sovversivo relativi al 1941. Si veda ACS, MI, DGPS, CPC, b. 523, fasc. “Bericotto Giuseppe”, rapporto del prefetto, 14 agosto 1941; nonché Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, Antifascisti nel Casellario Politico Centrale. Quaderno n. 3, a cura di S. Carolini et al., Roma 1989, p. 113. ASP, APP, b. 90, fasc. 3, relazione del prefetto, 3 aprile 1941. Oltre ad ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 25 settembre 1941 (da cui si cita), si veda ASDP, CA 1936-1942, ctg. XI, b. 410, fasc. “Confederazione Fascista dell’Agricoltura: circolari”, relazione del fiduciario di Piediluco dell’Unione Provinciale Fascista degli Agricoltori di Terni, 30 agosto 1941. Al riguardo il fiduciario precisa quanto segue: “mi permetto fare presente che quelle famiglie che hanno uno, due ed anche 3 figli alle armi, debbono usufruire di manodopera avventizia, saltuaria (ma quasi continua) – quasi garzoni o fissi – per modo che il consumo del pane si verifica come se gli altri membri militari fossero presenti. Da ciò, i 2 quintali a persona (esclusi i militari) sono più che mai insufficienti! Poi, occorre considerare che il lavoratore agricolo (diretto proprietario, o colono) ricorre spessissimo prevalentemente al pezzo di pane, fin dalle prime ore del mattino!... Un correttivo sarebbe opportuno a sollievo di queste classi di lavoro agricolo, anche per incoraggiarle nella semina di ogni zolla e bene” (i corsivi sono nel testo).
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Denunciato, il sacerdote viene condannato a tre anni di confino per disfattismo politico50. Nei primi mesi del 1941, anche nella zona di Terni, si registra un esplicito rifiuto di conferire all’ammasso la propria quota di bestiame da parte di alcuni contadini. Ciò costringe le autorità a procedere ad un “prelevamento coattivo direttamente nelle stalle”51. È senza dubbio in seguito a questo stato di cose che, nel 1941, si registra un incremento dei segnali di inquietudine e di sfiducia verso il regime provenienti da alcuni settori del mondo contadino. Lo sfogo verbale incontrollato è, di nuovo, il mezzo espressivo con il quale tali sentimenti vengono, per lo più, manifestati. Nel corso dell’anno, in Umbria, si contano sette “episodi sovversivi ed antinazionali” di cui sono protagonisti diversi appartenenti ai ceti rurali52. Sintomatico, tra gli altri, appare quello di cui si rende responsabile, nell’aprile 1941 ad Orvieto, l’agricoltore Giuseppe Bericotto, il quale in un pubblico esercizio, afferma che “non si deve credere alle notizie sulle vittorie nazifasciste”. Ciò gli costa una condanna ad un anno di confino53. Ma il punto evidente di crisi del consenso al regime resta legato, soprattutto, al conferimento obbligatorio all’ammasso delle derrate agricole. Nell’aprile 1941 il prefetto di Perugia denuncia infatti che “il rastrellamento del grano e del granturco procede con difficoltà stante la resistenza opposta dai contadini i quali hanno trattenuto il granturco per sopperire alla deficienza di mangimi per l’alimentazione del bestiame”54. A fine estate si rileva “un certo malcontento” tra i contadini a causa del provvedimento di riduzione della quota di grano spettante al produttore da 2,5 a 2 quintali per persona, “quantità questa ritenuta dai coloni insufficiente al proprio fabbisogno”55.
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Ciò – sottolinea il questore di Perugia – “determina tentativi da parte degli interessati di occultare una parte del proprio raccolto”56. Invece, nell’ottobre 1941, l’introduzione del tesseramento del pane – a differenza di quanto avviene in varie zone del paese57 – non genera nelle aree rurali umbre particolari forme di protesta od agitazioni58. Ciò risulta del tutto ovvio se si considera che, in Umbria, larga parte degli addetti all’agricoltura – in quanto appartenenti alle categorie autorizzate a trattenere cereali per il consumo familiare – non usufruisce della carta annonaria per il pane. A partire dai primi mesi del 1942 la situazione si delinea in maniera diversa, soprattutto in seguito alla deliberazione del Comitato Interministeriale degli Approvvigionamenti con la quale si richiede ai produttori di cereali un ulteriore conferimento in base al quantitativo già trattenuto: 25 kg di grano a testa per ciascuna delle persone di famiglia e per i dipendenti che convivono a carico, se produttori non coltivatori; 15 kg se produttori coltivatori. Il consorzio di Perugia si trova infatti ad affrontare “gravi difficoltà” nel tentativo di convincere i coloni al versamento dovuto59. Tali resistenze non appaiono ingiustificate, se si considera quanto avviene nella provincia di Terni, durante la mietitura. Il questore segnala che “si risente, fra l’elemento colonico, il disagio fisico per la scarsità del pane a causa degli ultimi versamenti di grano imposti all’ammasso e per cui non è stato indifferente il numero delle famiglie le quali si sono venute a trovare prive del pane, specie [nei] giorni di maggiore necessità e di più faticoso lavoro”60. Per contenere le reazioni prodotte da una politica di pesante controllo sulla produzione agricola – soprattutto in termini di evasioni agli ammassi – autorità statali, gerarchi fascisti e dirigenti sindacali mantengono, fin dall’inizio della guerra, atteggiamenti e comportamenti volti a blandire i ceti rurali, la cui attività in ogni occasione viene presentata come “il fulcro della resistenza della Nazione in guerra”61. Anche la Chiesa svolge un ruolo importante nello spronare la produzione e nel sollecitare il rispetto delle leggi. Nelle loro pastorali – riferisce il questore di Perugia – i vescovi della provincia, come i
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ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 25 settembre 1941. R. De Felice, Mussolini l’Alleato 1940-1945, I: L’Italia in guerra 1940-1943, 2: Crisi e agonia del regime, Torino 1990, pp. 715-716. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 25 dicembre 1941, e b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 27 dicembre 1941. ACS, DGPS AGR 1942, ctg. K 1 B, b. 75, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 31 marzo 1942. Per fronteggiare la situazione da parte della sezione alimentare si provvede “ad assegnazioni di pasta, di vino e di altri generi per i mietitori nei diversi comuni, ma in modo insufficiente alla vera entità del bisogno ed al numero del personale addetto e ciò per le note ristrettezze della disponibilità dei generi suddetti”; ivi, b. 76, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 30 giugno 1942. Si veda, tra gli altri, ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 57, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazioni del questore, 27 settembre 1941 (da cui si cita) e 27 dicembre 1941.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Non è, dunque, un caso che, quando le richieste di conferimento dei prodotti agricoli agli ammassi si fanno più gravose, da parte del regime si decida di mettere in campo ulteriori momenti di “teatralità” allo scopo di intensificare le lusinghe rivolte al mondo contadino. A Terni, nel giugno 1942, si decide di avviare i lavori di trebbiatura con una cerimonia ufficiale alla quale sono presenti autorità civili, ecclesiastiche e politiche. Nel corso della cerimonia da parte del prefetto viene pronunciato un discorso in cui è sottolineata “la grande importanza dell’opera dei rurali, i quali con il loro disciplinato lavoro producono il grano per conferirlo all’ammasso, contribuendo così potentemente alla resistenza del fronte interno ed alla alimentazione dei [...] soldati che vittoriosamente combattono su tutti i fronti di terra, del mare e del cielo”63. Si tratta di espedienti che non producono gli effetti sperati. L’”occultamento” di derrate alimentari contingentate assume nelle zone rurali dimensioni vaste e sistematiche. Soggetti ad imposizioni legislative sempre più vessatorie, i contadini reagiscono in difesa della propria “economia morale”, adottando – secondo il noto adagio popolare – inganni che alcuni testimoni descrivono semplici ed efficaci, anche se rischiosi. Mio padre aveva scavato una grande buca nell’orto e per coprirla ci aveva messo sopra una bigoncia piena d’acqua. Dentro la buca ci nascondeva tutto quanto riusciva a non consegnare all’ammasso: grano, granturco...64. Non era difficile rubare una certa quantità di grano, anche durante la trebbiatura, certo si rischiava! Ma poi non era facile trovare il modo di macinarla. Per la macinazione ci voleva la tessera con i bollini. Ogni bollino serviva per i due quintali a testa che ci spettavano. [...] Piccole quantità di grano le macinavano le donne con il macinino e la farina serviva per farci le cresciole65. Mentre si trebbiava, d’accordo con il macchinista [della trebbia], gettavamo un po’ di grano
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ACS, DGPS AGR 1942, ctg. K 1 B, b. 75, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 31 marzo 1942. Ivi, b. 76, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 30 giugno 1942. Testimonianza di Elvira Monesi, cit. (a nota 43). Testimonianza di Arcangelo Piccinini (1924), appartenente ad una famiglia mezzadrile della zona di Piediluco, resa all’autore il 21 novembre 1993. Secondo diversi testimoni, i metodi per macinare le quantità più consistenti di grano – non raramente qualche quintale – erano diversi, ma tutti presupponevano la “complicità” del proprietario del mulino. Si andava dalla macinazione effettuata nel corso della notte al metodo più diffuso di recarsi al mulino – “in regola” – con il grano sottratto ed il bollino della tessera da usare per la macinazione della quota trattenuta per il proprio consumo, e – se non si erano incontrati lungo la strada finanzieri – tornare con il macinato senza aver consegnato il bollino che così sarebbe stato regolarmente utilizzato per macinare la quota di grano trattenuta. Sulla diffusione di questo secondo metodo anche nelle Marche, si veda la testimonianza di Silvana P. riportata in Lotti, Donne nella guerra cit. (a nota 40), p. 321.
Una società rurale in guerra: note sulle campagne umbre durante la seconda guerra mondiale
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parroci nelle loro predicazioni, esprimono sentimenti di patriottismo, incitando alla resistenza interna. I parroci fanno opera, altresì, presso gli agricoltori, proprietari e coloni, affinché si attengano alle norme per i versamenti agli ammassi62.
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in mezzo alla pula, poi di notte andavamo a riprenderlo. Quanto grano abbiamo macinato col macinino! Ogni tanto se ne rompeva uno, ne abbiamo rotti tanti, non si trovavano più!66.
Al riguardo è eloquente quanto riferisce il questore in merito al comportamento dei ceti rurali nella zona di Perugia:
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Il sacrificio a suo tempo richiesto ai produttori e ai coloni per l’ulteriore conferimento agli ammassi rispettivamente di kg 25 e 15 a persona, in seguito alla riduzione della razione di pane da 200 a 150 grammi, venne tollerato senza inconvenienti e gli agricoltori, nella massa, risposero disciplinatamente alla richiesta. Senonchè le disposizioni per sopralluoghi da parte di ispettori per l’acceleramento ammassi ha dato luogo, successivamente, a qualche scontento, tanto che col 10 maggio, a seguito disposizione superiore, tale servizio è stato completamente sospeso67.
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In altre parole, i contadini – data l’impossibilità di opporsi senza incorrere in provvedimenti di polizia – si rassegnano formalmente all’oppressiva regolamentazione del processo produttivo e distributivo, dissimulando adesione per aggirare la legge. Anche la vendita di alcuni prodotti a prezzo di calmiere – uova, frutta e ortaggi – è vissuta dai ceti rurali con insofferenza. In particolare l’esiguo prezzo delle uova costituisce la ragione per la quale, a fine 1941, in tutta la provincia di Perugia si registra “una sensibile rarefazione di uova, esportate dai ‘corrieri’ e dagli incettatori a Terni e a Roma”68. Del resto già in maggio il prefetto di Perugia aveva denunciato le crescenti difficoltà di approvvigionamento dei generi di più largo consumo derivanti “soprattutto dalla inadeguatezza dei prezzi vigenti in [...] provincia rispetto a quelli praticati nelle provincie viciniori”69. La situazione non appare diversa a Terni. Si va notando – riferisce il questore – la quasi scomparsa delle uova e di ciò è causa la incetta svolta in modo occulto e circospetto nelle campagne da raccoglitori di frodo, che incontrano il favore dei coloni, ai quali le pagano a prezzi superiori del calmiere per rivenderle poi a clienti, già loro noti, a prezzi elevati e sfuggendo abilmente alla intensa ed assidua
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Testimonianza di Mafalda Cianca (1929), appartenente ad una famiglia mezzadrile della zona di Piediluco resa all’autore il 22 novembre 1993. ACS, DGPS AGR 1942, ctg. K 1 B, b. 75, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 30 giugno 1942. Tale incetta – secondo il prefetto – è agevolata dal “divieto di controllare le esportazioni”, cfr. ASP, APP, b. 90, fasc. 3, relazione del prefetto, 3 novembre 1941. Al riguardo appare significativo anche il gesto compiuto da una contadina, la quale, nel 1941, al mercato di Città di Castello improvvisamente getta a terra le uova che aveva in vendita, adducendo il motivo che era meglio romperle piuttosto che venderle ai prezzi stabiliti dalle autorità. A causa di ciò viene allontanata dal mercato per due mesi; G. Pellegrini, Note su resistenza e movimento contadino nell’alta valle Tiberina e nell’Eugubino, in Politica e società in Italia dal fascismo alla Resistenza. Problemi di storia nazionale e storia umbra, a cura di G. Nenci, Bologna 1978, pp. 421-422. ASP, APP, b. 90, fasc. 3, relazione del prefetto, 3 maggio 1941.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
vigilanza degli [organismi] a ciò preposti, specie nelle grandi città ove riescono ad introdurle con l’abilità propria dei contrabbandieri70.
Tale incremento – secondo il questore – è dovuto principalmente alla intensa formazione di disponibilità monetaria nell’economia degli agricoltori, industriali e commercianti ed in parte alla formazione di risparmi nella economia familiare, consentita dall’aumento dei guadagni, tenendo conto che in tale campo, l’accresciuto costo dei generi di prima necessità trova la sua contropartita nella eliminazione di molte occasioni di spese.
A distanza di qualche mese si registra un ulteriore considerevole aumento dei depositi di risparmio (5 milioni), che appare “favorito oltre tutto dal notevole gettito dei sussidi pei richiamati alle armi”74. Nelle zone rurali perugine ci sono infatti famiglie coloniche che, ricevendo più sussidi, riescono a mettere insieme fino a mille lire al mese. In provincia di Terni sono, invece, i contadini-operai ad essere accusati di fare buoni guadagni, alimentando il mercato nero. Le autorità di polizia indirizzano, infatti, l’attività di repressione anche “verso gli operai che vengono dalle campagne a Terni per lavorare e nello stesso tempo portano generi razionati da vendere a prezzo altissimo”75. 70
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ACS, DGPS AGR 1942, ctg. K 1 B, b. 76, fasc. “Terni-Movimento comunista”, relazione del questore, 30 settembre 1942. Al riguardo, nel giugno del 1942, il questore di Perugia avverte che il crescente costo della vita è sentito in modo particolare da “quelle categorie che non hanno modo di rivalersi, aumentando proporzionalmente i loro proventi e cioè impiegati e, subito dopo, quella vasta categoria di piccoli agricoltori proprietari non coloni, i quali, dato l’obbligo del conferimento agli ammassi di tutti i generi contingentati, non possono realizzare guadagni adeguati a quelli consentiti da tutti gli altri generi e all’aumento globale del costo della vita”. Cfr. ivi, b. 75, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 30 giugno 1942. ACS, DGPS AGR 1941, ctg. K 1 B, b. 54, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 23 giugno 1941. ACS, DGPS AGR 1942, ctg. K 1 B, b. 75, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 31 marzo 1942 (anche per la citazione che segue). Ivi, relazione del questore, 30 giugno 1942. ACS, SCP 1940-1943, b. 11, fasc. 125, relazione del questore di Terni, 27 febbraio 1943.
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In realtà questo periodo appare caratterizzato da intensa competizione tra i mercati cittadini più remunerativi per accaparrarsi le risorse della campagna e ciò determina una situazione che torna ad oggettivo vantaggio del mondo contadino. Infatti, nonostante vincoli e restrizioni cui soprattutto i ceti agricoli più poveri sono costretti71, è indubbio che la possibilità di vendere alcuni prodotti a libero mercato con buoni profitti (unita alla riscossione dei sussidi per i richiamati alle armi) consente ad alcune categorie della variegata società rurale la crescita di disponibilità monetaria, che si rende evidente sin dal giugno 194172. In provincia di Perugia, nei primi tre mesi del 1942, si segnala poi un “incremento di tutte le forme di risparmio, sia presso istituti di credito liberi, sia presso le casse di risparmio, che hanno raggiunto la cifra di circa 250 milioni”73.
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4. Tempi di ferro e di fuoco
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Appare evidente come, nonostante le novità connesse allo stato di guerra, nelle campagne umbre non si determinino – almeno a tutto il 1942 – mutamenti tali da sconvolgere significativamente abitudini, modelli culturali ed equilibri sociali. Richiami alle armi, protagonismo delle donne, disagi e restrizioni alimentari sono infatti fenomeni che inducono modesti cambiamenti nella quotidianità del mondo contadino, la quale continua a svolgersi, sostanzialmente, secondo ritmi, comportamenti e modelli consueti. Tra il 1943 e il 1944, invece, lo sfollamento, i bombardamenti, l’occupazione tedesca, la guerra civile, l’approssimarsi del fronte bellico contrassegnano una fase drammatica della vita delle popolazioni rurali. Le strutture familiari e comunitarie della società contadina sono investite direttamente dalla guerra e dal suo carico di violenza, risultandone – per certi aspetti – sconvolte. Già alla fine del 1942 nelle campagne si registra “un continuo afflusso di sfollati da tutte le città colpite da aggressioni aeree o in pericolo”76. A maggio la sola provincia di Perugia “ha già assorbito circa 4.000 sfollati obbligatori pervenuti da località varie colpite da incursioni aeree nemiche ed oltre 6.000 sfollati volontariamente o dai predetti centri o per misura prudenziale da grandi città e [...] rifugiatisi [nel territorio perugino] perché oriundi del luogo”77. Ma è dopo il bombardamento del 19 luglio 1943 su Roma che l’afflusso, alimentato in maniera sensibile da cittadini della capitale, assume dimensioni notevoli. Ad agosto, in tutta la provincia di Perugia, si contano circa 40.000 sfollati78. Anche le aree rurali del circondario di Terni si riempiono di profughi79. Il rovinoso bombardamento sulla città dell’11 agosto porta circa 30.000 ternani a cercare rifugio nelle frazioni e nei comuni vicini80. Sullo scorcio del 1943, dunque, le campagne umbre brulicano di cittadini in cerca di generi alimentari, di alloggio e di sicurezza81. Per certi versi l’esperienza dello sfollamento determina un “rapporto di scontro/ incontro” tra città e campagna82. Se per molti sfollati essa significa – usando le
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ACS, DGPS AGR 1942, ctg. K 1 B, b. 75, fasc. “Perugia-Movimento comunista”, relazione del questore, 31 dicembre 1942. ACS, MI, SdG 1941-1945, b. 53, fasc. “Perugia-Assistenza sfollati”, rapporto del prefetto, 14 maggio 1943. R. Covino, Politica e società in Umbria 1944-1946, in L’altro dopoguerra. Roma e il sud 1943-1945, a cura di N. Gallerano, Milano 1985, p. 109. V. Pirro, Terni e la sua provincia durante la Repubblica Sociale (1943-1944), Terni 1990, pp. 56-58. ACS, MI, SdG 1941-1945, b. 21, fasc. “Terni-Bombardamenti, incursioni aeree”, relazione del prefetto, 14 agosto 1943. E.V. Bolli, Le confessioni di un ottuagenario umbro. Un fantastico piccolo mondo antico del XX secolo, Perugia 1993, p. 473. A. Portelli, Assolutamente niente. L’esperienza degli sfollati a Terni, in L’altro dopoguerra cit. (a nota 78) (la citazione è a p. 139), nonché Id., Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Torino 1985, pp. 253-258.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
parole forse eccessive di Alessandro Portelli – una “riduzione allo stato di natura” ed il dover ingegnarsi per sopravvivere in una situazione “al di fuori dei rapporti sociali consolidati”83, per i contadini comporta il dover mettere in campo le proprie risorse – per dividerle, difenderle, venderle, a seconda delle situazioni –, ma in ogni caso facendo pesare il fatto di possederle. Infatti, improvvisamente i ceti rurali si trovano immersi in una situazione da “mondo alla rovescia”, dove il rapporto città-campagna appare ribaltato84. Ora sono i cittadini a scontare una posizione di inferiorità e di bisogno. Venivano da Roma, portavano via il fagottino [...]. Prima, guai, perché [dicevano] È un contadino, “una povera campagnola”, e dopo invece le riverenze, perché venivano su, mangiavano85.
Con gli sfollati fanno, però, il loro ingresso nelle campagne anche modelli culturali e stili di vita diversi, e ciò contribuisce notevolmente a rompere il tradizionale isolamento – politico e culturale – del mondo contadino, come dimostreranno soprattutto gli avvenimenti dell’immediato dopoguerra87. A portare tra le popolazioni dei borghi rurali e delle campagne gli aspetti più traumatici del conflitto sono le vicende dell’estate-autunno del 1943. In seguito alla caduta del fascismo ed all’annuncio dell’armistizio, si determinano una serie di avvenimenti e fenomeni drammatici che trasformano l’espressione vita quotidiana in qualcosa di “puramente convenzionale”88. Di quotidiano sembra rimanere soltanto il vivere “in un’atmosfera di ansia e di dolore”89. Il lavoro nei campi, il raccolto, la cura del bestiame, tutto diventa subordinato al bisogno primario di salvaguardare la propria persona, di sopravvivere. In alcune zone, dove si trovano importanti vie di comunicazione, a causa dell’intensificarsi delle incursioni aeree, anche il tradizionale timore contadino per le avversità atmosferiche si ribalta nel suo contrario: una giornata di maltempo diventa infatti auspicabile, perché il più delle volte evita i bombardamenti. “Ieri freddo e neve, oggi un gran bel sole, ma quanti apparecchi abbiamo visto!”, scrive il 7 gennaio 1944 nel suo diario la con83 84
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Portelli, Assolutamente niente cit. (a nota 82), p. 136. Sull’analoga vicenda toscana cfr. R. Absalom, Terre desiderate, terre sognate. Alcuni fattori economici e no nel comportamento politico degli ex mezzadri, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi”, n. 8, 1986, in particolare pp. 186-187. Testimonianza di Assunta Ciliani Pilati (1903), moglie dell’amministratore della proprietà Faina a Marsciano, resa all’autore il 12 marzo 1993. Testimonianza di Maria Teresa Spogli, cit. (a nota 35). Portelli, Assolutamente niente cit. (a nota 82), p. 140; R. Covino e G. Gallo, Le contraddizioni di un modello, in Storia d’Italia cit. (a nota 2), pp. 113 sgg. A. Bravo, Lavorare in tempo di guerra, in “Memoria”, n. 30, 1990, p. 71. C. Cavalletti, Lettere a un marito in guerra. Dalle campagne di Marsciano 1943-1944, a cura di F. Bartoccini, Perugia 1989, p. 42.
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La fame noialtri non è che l’abbiamo patita, anzi venivano, appunto, questi romani gli si dava qualcosa, non è che... Davamo agli altri, insomma, non è che avevamo bisogno86!
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tadina Candida Cavalletti. “Una giornata di sole e per questo paurosa”, annoterà successivamente ed in maniera altrettanto significativa90. Dopo l’8 settembre, le aree rurali – in particolare quelle più impervie dell’Appennino – si popolano di soldati italiani sbandati e di ex prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento. Le popolazioni sono poste di fronte alla difficile scelta se prestare loro aiuto, rischiando la rappresaglia nazifascista, o abbandonarli al loro destino, o, ancor peggio, denunciarli. Come è stato evidenziato per altre zone dell’Italia centrale91, anche in Umbria i contadini sembrano rispondere largamente alla richiesta di aiuto92. Per lo più essi sono mossi da radicati valori cristiani e dalla tradizionale solidarietà contadina verso il “perseguitato” dalle autorità, ma dietro la scelta di fornire assistenza agli ex prigionieri vi sono anche ragioni sentimentali. È il caso dell’anziano Ottavio Caiello, mezzadro nel comune di Monte Castello di Vibio, il quale acconsente ad accogliere nella sua casa due ufficiali britannici fuggiaschi, perché memore di aver combattuto – a fianco degli inglesi – nella prima guerra mondiale93. In questa opera di assistenza a sbandati e fuggiaschi di ogni genere un ruolo determinante viene svolto anche da una considerevole parte del clero rurale94. Scrive, in una sua memoria, don Marino Ceccarelli, parroco di Morena: Quante persone sconosciute! Ogni giorno centinaia di prigionieri (nei primi giorni soltanto slavi) passavano per la casa parrocchiale, portanti sul viso i segni di grandi sofferenze e facevano pietà a sentirli raccontare della prigionia, delle loro famiglie disperse, però erano lieti di trovare tanta buona gente in Italia, specie i sacerdoti95.
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Ivi, pp. 67 e 116. Tra gli altri, R. Absalom, Per una storia di sopravvivenze. Contadini italiani e prigionieri evasi britannici, in “Italia contemporanea”, n. 140, 1980; Id., Una cultura di sopravvivenza. Contadini ed ex prigionieri alleati nel Pistoiese 1943-1945, in “Fare storia”, n. 1, 1985; Id., Il mondo contadino toscano e la guerra: 1943-45. Alcune modeste proposte per una storia da fare, in “Passato e presente”, n. 8, 1985; Id., Ex prigionieri alleati e assistenza popolare nella zona della linea Gotica 1943-44, in Linea Gotica cit. (a nota 40); Id., Resistenza e contadini: tre missioni inglesi in Toscana, in “Rivista di storia contemporanea”, n. 3, 1988. Al riguardo non è stata condotta alcuna indagine, ma in molte memorie viene ricordato l’aiuto offerto dai contadini umbri ai prigionieri alleati. Cfr., tra gli altri, Cavalletti, Lettere a un marito cit. (a nota 89), pp. 9495; G. Gubitosi, Il diario di Alfredo Filipponi comandante partigiano, Perugia 1991, p. 203; W. W. Orebaugh e C. Lanza Jose, Il Console. Un diplomatico americano si unisce alla Resistenza italiana, Città dì Castello 1994, passim. Inoltre ACS, MI, DGPS AGR, ctg. A 5 G, b. 436, fasc. “Terni-Bande armate”, rapporti del questore, 20 febbraio e 17 aprile 1944. Si veda la testimonianza di Pietro Caiello, figlio di Ottavio. La testimonianza – registrata su nastro magnetico – è conservata presso l’Archivio dell’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea. Sulla permanenza, tra le popolazioni dei borghi rurali, di un odio antitedesco sviluppatosi nel corso del primo conflitto mondiale si veda anche R. Mancini, A mezzanotte abbiamo scommesso sulla levata del sole (San Faustino Sud), Città di Castello 1993, p. 18. Tra gli altri, Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), a cura di A. Monticone, Bologna 1978, passim; La Chiesa tifernate nei fatti di guerra del ‘44. Documenti, a cura di B. Schivo, Città di Castello 1989, passim; T. Sergenti, L’altra resistenza. Testimonianza di un prete bandito, Città di Castello 1990, passim. Don M. Ceccarelli, Rapporto sulla Resistenza della Brigata Proletaria d’urto S. Faustino-Morena, riportato in Sergenti, L’altra resistenza cit. (a nota 94), p. 34.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
[S]tavo governando le bestie, quando sono venuti i carabinieri, hanno arrestato mio marito ed hanno portato via anche me. [...] Dopo un mese che ero in prigione mi chiamò Rocchi [il capo della Provincia] su un salone con sedici fascisti intorno e gli dovevo dire dove era mio figlio. [...] In carcere eravamo 90 donne, carcerate sempre a causa dei figlioli, ma molte erano riuscite a fuggire e non farsi acchiappare97.
Non di rado i metodi adottati dalle donne per “sottrarre” allo Stato fascista i propri uomini (mariti, fratelli e figli) sono analoghi a quelli usati per nascondere i prodotti agricoli non conferiti all’ammasso. Una mattina arrivarono fascisti, carabinieri, erano tutti sull’aia che volevano le tessere. Cercavano i figlioli e io dicevo che i figlioli li avevo sotterrati sotto terra. Ci venivano tutti i giorni, ma i miei figli non si facevano prendere. Era vero, li avevamo sotterrati su una buca in un campo lì vicino98.
Soltanto la minaccia della fucilazione immediata per disertori e renitenti al momento della cattura, prevista dal “bando Graziani” emesso nel febbraio 1944, fa aumentare per un breve lasso di tempo i livelli di afflusso dei giovani di leva nell’esercito fascista99. Il fenomeno della renitenza si rivela considerevole soprattutto nelle zone montane dove è più forte il movimento partigiano100. Nei pressi di Deruta, Celso Ghini, ispet-
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La dimensione donna cit. (a nota 41), pp. 41-42; Pirro, Terni e la sua provincia cit. (a nota 79), pp. 45 sgg. Testimonianza di Margherita Nolilini, cit. (a nota 41), p. 81. Testimonianza di Rosa Montanucci Marziali, contadina della zona di Città di Castello, riportata in La dimensione donna cit. (a nota 41), p. 85. La stessa Rosa Montanucci Marziali ricorda di aver sottratto all’ammasso – insieme ai suoi familiari – 12 quintali di grano e di averli “sotterrati” in un pagliaio di fieno (ivi, p. 87). G. Pansa, Il gladio e l’alloro. L’esercito di Salò, Milano 1993, p. 47. ASP, APP, b. 91, fasc. 1, relazione dell’ispettore regionale dell’Umbria della Guardia Nazionale Repubblicana, 25 marzo 1944.
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Il fitto reticolo di solidarietà ed omertà, che contraddistingue la comunità contadina, assume una funzione decisiva anche nella protezione offerta a disertori e renitenti alla leva. Di fronte alla catastrofe militare sono molti gli uomini ed i giovani di estrazione contadina che scelgono di sottrarsi all’arruolamento nel ricostituito esercito della Repubblica di Salò e per questo vengono braccati dalle forze di polizia e dai fascisti. Lo Stato, già vissuto dai contadini come strumento di rapina di animali e cose, ora assume anche le vesti di spietato esattore di uomini. Nonostante le misure di rappresaglia prese, ma a volte solo annunciate da una organizzazione politico-amministrativa del tutto sfiduciata ma soggetta a scoppi d’ira contro i familiari dei renitenti (dal ritiro della tessera annonaria al divieto di macellazione del maiale, fino all’arresto), i richiami alle armi sono largamente disattesi96. Le donne contadine, anche in questa occasione svolgono un ruolo di primo piano.
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tore delle Brigate Garibaldi in Umbria, vede un giorno presentarsi un anziano contadino che, indicandogli il giovane figlio, dice: “Prendetelo voi, che ai fascisti non lo voglio dare!”101. Si tratta, però, di un episodio solo in parte indicativo del complesso rapporto che lega movimento resistenziale e popolazioni contadine. Infatti – al di là di una memorialistica contraddittoria e, non di rado, retorica e celebrativa102 – non si hanno studi d’insieme che, sul piano della ricerca storica, abbiano delineato atteggiamenti e modi di sentire dei diversi ceti rurali umbri nei confronti della lotta di liberazione. Appare però indubbio – tanto da non essere negato nemmeno dalle autorità di polizia – che una parte, sia pure minoritaria, del mondo contadino manifesti una forma di solidarietà attiva e cosciente verso le formazioni partigiane, o, comunque, si dimostri “interamente connivente coi ribelli”103. Del resto, a ciò non è estraneo il fatto che tra le popolazioni rurali si vadano sempre più diffondendo sentimenti di ostilità e di risentimento verso le forze di occupazione tedesche responsabili di “continui episodi di furti e rapine di generi alimentari, specie quelli di prima necessità”104. In ogni caso si può sostenere con buon fondamento che, in relazione al mondo contadino umbro, la lotta partigiana si configura come il punto dì coagulo non tanto della sopravvissuta tradizione democratica e socialista radicatasi in alcune zone nel periodo prefascista, ma soprattutto delle inquietudini e delle tensioni verso il regime accumulatesi all’interno delle campagne nel corso del ventennio, e per le quali la guerra costituisce l’elemento catalizzatore105. Sono, in particolare, i giovani delle aree rurali più povere a diventare protagonisti di una rivolta “morale” contro il fascismo che per essi “significa padrone, fame, stenti, umiliazioni, condizioni di vita inumane, case inabitabili, prepotenze, guerra”106. In quel momento si era quasi preso una questione di anarchia, di libertà completa, perché data l’oppressione che c’era stata in questi luoghi, di povertà, di miseria, malnutrimento, di tutto, la gente non ha fatto più distinzione di colore politico [...] Era quasi tutta un’idea
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C. Ghini, La lotta partigiana in Umbria, in Politica e società cit. (a nota 68), p. 354. Si vedano, per tutti, le opposte valutazioni date sul rapporto contadini-partigiani in C. Ghini, La lotta partigiana in Umbria, in Politica e società cit. (a nota 68), pp. 354-356 e A. Mancini, Ricordi di un perseguitato politico durante il fascismo, in Cattolici e fascisti cit. (a nota 94), p. 444. Mentre Celso Ghini evidenzia il “fenomeno della scarsa comunicabilità politica ed ideale tra i partigiani e la popolazione, di cui l’assenza dalle formazioni dei contadini era un indice”, Alberto Mancini – commissario politico di una formazione partigiana – sottolinea come “la Resistenza umbra trovò nelle masse contadine dei veri alleati”. ASP, APP, b. 91, fasc. 1, relazione dell’ispettore regionale dell’Umbria della Guardia Nazionale Repubblicana, 25 marzo 1944. Ibidem. Sulla lotta di liberazione in Umbria si vedano, soprattutto, i diversi contributi presenti in L’Umbria nella Resistenza, a cura di S. Bovini, 2 voll., Roma 1972. Mancini, A mezzanotte abbiamo scommesso cit. (a nota 93), p. 58.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
comune. L’obiettivo era soltanto ormai di abbracciare le armi e di seguire una lotta sacrosanta, come noialtri la definivamo in quei tempi. [...] Specialmente i popoli dell’Appennino centrale, vivevano una miseria spietata: non c’era pane, non c’era vestiario. Chi comandava faceva tutto man bassa107.
Se ciò è vero per alcuni, la più larga parte delle popolazioni dei centri minori rurali e delle campagne sembra, invece, restare schiacciata dalla paura, soprattutto a partire dalla fine di febbraio del 1944, in seguito all’intensificarsi delle azioni di guerriglia partigiana, alla repressione verso renitenti e disertori messa in atto dai fascisti, alle rappresaglie ed ai rastrellamenti operati dai tedeschi108. Paura dei fascisti, paura dei partigiani, paura delle rappresaglie, paura dei bombardamenti, paura dei rastrellamenti, paura di tutto. Paura tanto più grande della fame che pur non era piccola109.
Sono tempi di ferro e di fuoco, che questa parte del mondo rurale affronta con la stessa forza e la stessa rassegnazione con cui tradizionalmente fronteggia le calamità naturali, soprattutto non facendo distinzione tra chi, comunque, si configura come una minaccia per la sopravvivenza della comunità. Per quante cose brutte si sentono dire, si dovrebbe piangere notte e giorno! Ma invece,
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Testimonianza di Guglielmo Vannozzi (1918) – contadino e minatore di Monteleone di Spoleto, comandante partigiano – resa all’autore il 13 agosto 1981. All’indomani dell’8 settembre 1943, Guglielmo Vannozzi ed altri giovani di Monteleone di Spoleto danno vita spontaneamente ad una formazione partigiana; al riguardo si veda Relazione del comandante il battaglione “Cimarelli” della brigata “A. Gramsci”, in L’Umbria cit. (a nota 105), vol. I, pp. 276-282. Oltre a L’Umbria cit. (a nota 105), sui cruenti avvenimenti del primo semestre del 1944, cfr. C. Spaziani, Orrori e stragi di guerra nel territorio di Gubbio, Gubbio 1947; Antifascismo e Resistenza nella provincia di Perugia (documenti e testimonianze), a cura di L. Capuccelli, in “Cittadino e provincia”, numero monografico in occasione del XXX della Resistenza e della Liberazione, giugno 1975; La Resistenza incisa nelle pietre. Documentazione del contributo di sangue per la libertà della patria nel triangolo Umbro-Laziale-Marchigiano ove operò la Brigata Garibaldina “Antonio Gramsci”, a cura di B. Zenoni e A. Filipponi, Terni 1977. P. Rondelli, Dieci mesi a Nocera (settembre 1943 - giugno 1944). Testimoni e protagonisti, dattiloscritto (conservato presso l’Archivio dell’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea), p. 7. Testimonianza di Giuseppa Morelli, abitante del paese montano di Pietralunga, riportata in A. Amendola, La mia guerra 1940-1945: avventure, gioie e dolori degli italiani raccontati da loro stessi, Milano 1990, p. 157. Significativo anche quanto si legge in una memoria di don Giuseppe Bologni, parroco di Castelguelfo: “Tutti si aveva paura di arrivare alla primavera, ci si aspettava qualche cosa di doloroso e di preoccupante. Le nostre strade di montagna battute fin qui solo dai contadini, e dalle bestie dirette al pascolo o ai campi, arrivata la primavera, cominciarono ad essere percorse da uomini armati, la tanto ambita quiete dei monti incominciò ad essere turbata. Noi che eravamo abituati a vedere al più qualche cacciatore con il fucile sulle spalle, quegli uomini con certi armi ci impressionavano fuor di modo”; cfr. Don G. Bologni, Cronistoria del mio 1944, in La Chiesa tifernate cit. (a nota 94) p. 7.
Una società rurale in guerra: note sulle campagne umbre durante la seconda guerra mondiale
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Cominciarono ad arrivare i tedeschi. In paese erano sempre prepotenti ed arrabbiati. Dicevano che era il paese dei partigiani e a noi ci prendeva tanta paura. Un giorno i tedeschi cominciarono a sparare all’impazzata, la campagna era piena di pallottole infuocate110.
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bisogna farsi forti, affrontare il triste presente coraggiosamente. Suvvia dunque di varie razze sono i lupi divoratori di cose e di uomini, ci vuole dunque tanto coraggio. Gl’inglesi ci bombardano, i tedeschi spogliano, i ribelli ci sfregiano, i fascisti richiamano, dunque deve essere vicina la fine del mondo111.
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Dissimulazione, rassegnazione, resistenza passiva, fatalismo, rivolta aperta sono, dunque, questi i molteplici comportamenti e stati d’animo con i quali il variegato mondo agricolo attraversa la vicenda bellica, uscendone scosso. Deriva senza dubbio da ciò, dall’idea di aver diritto ad un risarcimento, la situazione di conflitto sociale che si avvia nelle campagne umbre a partire dall’immediato dopoguerra, nell’estate del 1944112.
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Cavalletti, Lettere a un marito cit. (a nota 89), pp. 93. Nenci, Proprietari e contadini cit. (a nota 2), pp. 246 sgg.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
In uno scritto del 1972 Celso Ghini – ispettore delle brigate Garibaldi per il Lazio, l’Umbria e le Marche, poi storico del movimento di liberazione nell’Italia Centrale1 – metteva in evidenza come sino a quel momento la letteratura sulla Resistenza in Umbria avesse avuto un “carattere prevalentemente episodico e narrativo” e fosse stata, perlopiù, costituita da “materiale grezzo, talvolta contraddittorio, presentato in forma retorica, non vagliato criticamente”2. A partire da questa constatazione, Ghini rinveniva la necessità di dare vita a uno studio critico generale sul movimento di liberazione umbro, sottolineando l’opportunità di metterne in evidenza sia le luci che le ombre. La Resistenza – scriveva al riguardo – non è stata in Umbria soltanto una sequenza di gesta eroiche, una dimostrazione di maturità civica, di patriottismo, di spirito di sacrificio in nome di grandi ideali. Accanto a tutto questo hanno pesato anche molti altri motivi più o meno nobili, prosaici, umani. Nulla deve essere nascosto in una ricerca critica, e la grandezza della Resistenza deve essere trovata nella verità e non nell’esaltazione acritica o nell’alterazione della realtà3.
Sono considerazioni che senza dubbio contengono alcuni motivi di notevole interesse. Infatti, oltre a mostrarci un Celso Ghini sensibilmente diverso dal capo partigiano i cui giudizi sulla lotta armata e sulle formazioni avevano come esclusivo metro di misura il grado di adesione alle direttive emanate dal “partito” o dai centri dirigenti politici4, rivelano un “reduce” volto a riflettere in modo aperto e privo di pregiudizi sulla sua esperienza e sul suo vissuto. Si tratta di un evento che in quegli anni non era molto consueto, visto che larga parte della coeva
L’articolo è già apparso in L’Umbria dalla guerra alla Resistenza, atti del convegno “Dal conflitto alla libertà” (Perugia, 30 novembre - 1 dicembre 1995), ISUC, Editoriale Umbra, Foligno 1998, pp. 147-166. 1
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Su C. Ghini si veda, tra l’altro, la voce relativa in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. II, La Pietra, Milano 1971, p. 547. Cfr. C. Ghini, La Resistenza in Umbria, in L’Umbria nella Resistenza, a cura di S. Bovini, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 30. Ibidem. Cfr., tra gli altri, i suoi rapporti riprodotti in P. Secchia, Il Partito Comunista Italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 287-290, 382-384, 493496, e in Le brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti. I. Agosto 1943 - maggio 1944, a cura di G. Carocci e G. Grassi, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 251-254.
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
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La storiografia della Resistenza in Umbria
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memorialistica sulla Resistenza si caratterizzava per avere un taglio encomiastico e celebrativo. In ogni caso – è giusto sottolinearlo – l’esigenza di verifica e di comprensione storica proposta da Ghini non trovò interlocutori. Infatti, se si esclude una breve fiammata di studi prodottasi nel 1975 in occasione del trentennale della Liberazione e alcune significative – ma settoriali – riflessioni successive5, bisogna riconoscere che il panorama degli studi sulla Resistenza non ha fatto sostanziali passi in avanti rispetto a quello già delineato da Ghini: rievocazioni memorialistiche e indagini parziali, perlopiù ancorate agli schemi rigidi della storia politica, ne costituiscono ancora il corpus principale6. Pertanto, tenendo conto di questo stato di cose, vale la pena di precisare che già la scelta del tema “La Resistenza in Umbria” non è casuale: la voluta inversione dei termini contenuti nel titolo dell’opera curata da Sergio Bovini, L’Umbria nella Resistenza7, sta a indicare la precisa volontà di produrre in questa occasione una complessiva riflessione sui “caratteri originali” del fenomeno partigiano umbro e, in particolare, un approfondimento analitico in grado di porsi in sintonia con i più aggiornati livelli della storiografia sulla Resistenza prodotta negli ultimi anni dall’Istituto per la storia del movimento di liberazione in Italia e dalla rete degli Istituti a esso associati. In altri termini, l’obiettivo è un tipo di analisi che, prevedendo un adeguato utilizzo degli strumenti dell’interdisciplinarietà, si rivolga a esaminare la storia della Resistenza nel suo farsi, nei suoi momenti alti e nelle sue fasi critiche, riservando però un ampio spazio ai contesti, ai soggetti sociali, al complesso intreccio tra i fattori di carattere locale e la vicenda nazionale, alla “singolarità” delle diverse formazioni e alla soggettività dell’“uomo partigiano”.
L’8 settembre, le “scelte”, le “resistenze” Oggetto privilegiato di analisi è, dunque, la Resistenza vista come un “processo molecolare” che si sviluppa – ed è questa una prima peculiarità, non priva di conseguenze – nell’arco di dieci mesi, esattamente la metà rispetto ai venti mesi di guerriglia delle regioni del Nord. Conviene pertanto soffermarsi sulla “fase aurorale” del movimento di liberazione e, di conseguenza, interrogarsi, come già
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In particolare si ricorda Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), a cura di A. Monticone, il Mulino, Bologna 1978; Politica e società in Italia dal fascismo alla Resistenza. Problemi di storia nazionale e storia umbra, a cura di G. Nenci, il Mulino, Bologna 1978; G. Gubitosi, Il diario di Alfredo Filipponi comandante partigiano, Editoriale Umbra, Foligno 1991. Per un’esaustiva bibliografia si veda Guerra, resistenza e dopoguerra. Appendice bibliografica, a cura di G. Canali, in La pavoncella becca sul prato. Antifascismo e Resistenza in Umbria dal 25 luglio alla Liberazione, testi e interviste di G. Rinaldi, Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea, Perugia 1995, pp. 43-60. A proposito della già citata opera in due volumi L’Umbria nella Resistenza appare doveroso ricordare che, a tutt’oggi, essa costituisce la raccolta erudito-filologica più completa di documenti relativi all’esperienza resistenziale umbra.
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R. Battaglia, Un uomo, un partigiano, Einaudi, Torino 1965, p. 139. Sull’antifascismo in Umbria si veda, tra gli altri, L. Brunelli e G. Canali, L’antifascismo umbro e la guerra civile di Spagna, ISUC, Editoriale Umbra, Foligno 1992. In particolare per la provincia di Perugia cfr. Antifascismo e Resistenza nella provincia di Perugia (documenti e testimonianze), a cura di L. Capuccelli, in “Cittadino e provincia”, numero monografico in occasione del XXX della Resistenza e della Liberazione, giugno 1975, e R. Covino, Dall’antifascismo alla Resistenza, in Storia illustrata delle città dell’Umbria. Perugia, a cura di R. Rossi, t. 3°, Elio Sellino Editore, Milano 1993, pp. 817-832; per la provincia di Terni, Contributo dell’antifascismo nel Ternano 1921-1943, a cura di R. Righetti e B. Zenoni, ANPPIA Terni, Terni 1976, e R. Covino, Classe operaia, fascismo, antifascismo a Terni, in G. Canali, Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione, Amministrazione Comunale Terni, ANPI Terni, Terni 1984, pp. 9-58. D’ora innanzi per ciascuno dei diversi oppositori del regime citati verrà indicato in nota, tra parentesi, l’anno di nascita. Molti sono gli scritti in cui vengono ricostruite le vicende biografiche dei tre antifascisti; tra gli altri si veda su Alfredo Filipponi (1897) Gubitosi, Il diario di Alfredo Filipponi cit. (a nota 5), su Emidio Comparozzi (1894) Colloquio con Emidio Comparozzi, a cura di A. Giacchè e V. Pagnotta, in Antifascismo e Resistenza nella provincia di Perugia cit. (a nota 9), pp. 66-68, su Venanzio Gabriotti (1883) A. Tacchini, Venanzio Gabriotti e il suo tempo, Petruzzi Editore, Città di Castello 1993. Su Germinal Cimarelli (1911) e Vero Zagaglioni (1913) si vedano la schede biografiche contenute, rispettivamente, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, La Pietra, Milano 1968, vol. I, pp. 549-550, e 1989, vol. VI, p. 436.
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
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nel 1945 faceva Roberto Battaglia, sul “chi sono i partigiani”8. Si tratta di un interrogativo che rimanda al problema della “scelta” o, per meglio dire, delle “scelte” – molte e diverse – operate all’indomani dell’8 settembre. È però opportuno ricondurre questa multiformità di comportamenti – individuali e collettivi – a un’articolata tipologia delle “scelte”. Ciò consente infatti di avere alcuni preliminari elementi di comprensione del fenomeno partigiano, visto che spesso saranno le forme, i modi e le motivazioni delle “scelte” ad avere un’influenza determinante sulla formazione e sullo sviluppo di diverse “resistenze”. Appare pertanto appropriato partire – con un voluto gioco di parole – con la “scelta” di coloro che, all’8 settembre, hanno già scelto: gli antifascisti politici che – da lungo o breve tempo – hanno aperto un “contenzioso” con il fascismo e che, in previsione degli eventi, si stanno attrezzando per passare dalla lotta politica clandestina alla lotta armata9. In questo gruppo molto circoscritto – i cui componenti si addensano principalmente nei due capoluoghi della regione – sono presenti molti elementi di eterogeneità. Si tratta di differenze di carattere generazionale e sociale, che spesso comportano differenze – non ininfluenti – di carattere politico e culturale. Insieme ai più “vecchi” militanti antifascisti10 – uomini che in alcuni casi hanno combattuto il fascismo fin dalle origini, come Alfredo Filipponi a Terni, Emidio Comparozzi a Perugia, Venanzio Gabriotti a Città di Castello11 – si trovano i giovani della generazione di mezzo, i quali sono parte di un fenomeno più vasto che negli anni della guerra di Spagna vede sorgere un nuovo antifascismo molto articolato socialmente, dallo studente di estrazione borghese al giovane proletario. In larga parte questi giovani antifascisti confluiranno nelle file comuniste; ne costituiscono un esempio i ternani Germinal Cimarelli e Vero Zagaglioni12. Caratteristica comune di quasi tutti questi oppositori del regime è quella di pre-
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sentarsi all’appuntamento con la lotta armata avendo alle spalle anni di carcere e confino e – ciò che è importante – la precisa volontà di chiederne conto ai fascisti. A parte deve essere poi annoverato un ristrettissimo numero di “rivoluzionari di professione” o comunque di “esperti politico-militari”, la cui preparazione è avvenuta nei corsi di studi militari seguiti al confino (è il caso di Gino Scaramucci)13 o, più drammaticamente, in conseguenza della partecipazione alla guerra civile spagnola (è il caso di Armando Fedeli, Alberto Mancini, Dario Taba)14. A essi, non a caso, verrà affidato un compito di primo piano nell’organizzazione e nella direzione della lotta armata. Vi sono infine le “ultime reclute”, che sono il frutto dell’“antifascismo esistenziale” – anch’esso molto articolato socialmente – sviluppatosi a partire dai primi anni di guerra; ne sono rappresentanti tipici – per ricordarne soltanto due – gli autori delle scritte antifasciste sui muri di Perugia nel 1941, Primo Ciabatti e Riccardo Tenerini15. La complessiva mobilitazione di questa articolata prima componente è immediata, ma non sempre l’organizzazione delle bande risulta altrettanto tempestiva. Sono molti i fattori di carattere politico e sociale che possono portare a effetti di diverso segno, sia nel breve che nel lungo periodo. Basti guardare, ad esempio, ai differenti esiti cui porta l’incontro tra esponenti dell’antifascismo e alcuni ufficiali del regio esercito, tornati nei luoghi di origine dopo l’armistizio, nelle diverse esperienze della banda Melis e della brigata Proletaria d’urto (San Faustino): aperto contrasto nel primo caso, collaborazione con momenti di conflittualità nel secondo16. Solo nel caso di Terni, dove il gruppo degli antifascisti è compatto da un punto di vista politico e relativamente nutrito, la mobilitazione assume i caratteri di un vero e proprio reclutamento “obbligatorio”, che produce di conseguenza risultati immediati. Esemplare, al riguardo, è la vicenda di Vero Zagaglioni, che, abbandonato il suo reparto dopo l’8 settembre e tornato “a casa” la sera del giorno successivo, viene già il mattino seguente convocato dal “responsabile militare” Alfredo Filipponi e nel giro di 24 ore è già al lavoro per organizzare le bande17. Accanto alla componente costituita dagli antifascisti militanti, si colloca quella di coloro che sono costretti o decidono di operare immediatamente la propria scelta 13
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Su Gino Scaramucci (1905) si veda S. Gambuli, Gino Scaramucci, appunti per una biografia, in Il PCI in Umbria, 1921-1991. Saggi, biografie e materiali per una storia dei gruppi dirigenti, a cura di A. Stramaccioni, Cronacheumbredizioni, Perugia 1992, pp. 395-396. Su Armando Fedeli (1898), Alberto Mancini (1908), Dario Taba (1902) si vedano le schede (e relativi riferimenti bibliografici) contenute in Brunelli e Canali, L’antifascismo umbro cit. (a nota 9), rispettivamente, pp. 160-163, 171-172, 193-194. Su Primo Ciabatti (1920) si veda Mario Grecchi e Primo Ciabatti. Due vite per la libertà, Istituto Umbro Studi e Ricerche “Pietro Farini”, Perugia 1965, pp. 23-34; su Riccardo Tenerini (1920) si veda A. Stramaccioni, Riccardo Tenerini: la vita, le lotte, le scelte politiche di un comunista senza dogmi 1920-1985, Perugia, 1985. Cfr. infra S. Gambuli, Il movimento partigiano nell’Alta Umbria e la brigata Proletaria d’urto, e M. Hanke, La banda Melis, in L’Umbria dalla guerra alla Resistenza, atti del convegno “Dal conflitto alla libertà” (Perugia, 30 novembre - 1 dicembre 1995), ISUC, Editoriale Umbra, Folgino 1998, rispettivamente, pp. 263-272 e pp. 310-319. Cfr. V. Zagaglioni, Autobiografia, dattiloscritto, s.d., pp. 23-24 (in AISUC).
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R. Cruccu, Le forze armate e l’Umbria nella lotta per la liberazione, in Politica e società in Italia cit. (a nota 5), p. 367. Cfr. Mario Grecchi e Primo Ciabatti cit. (a nota 15), p. 13. Cfr. Relazione sulla banda Rossi operante sui monti Martani, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. II, pp. 355-361. Ad esempio la banda Libertà del tenente Elvenio Fabbri operante nel Ternano. Cfr. G. Scaramucci, Rapporto dalla provincia di Terni, settembre 1943 - giugno 1944, riprodotto in Secchia, Il Partito Comunista Italiano (a nota 4), p. 293, e, più in generale, le bande e i “gruppi” cui si riferisce Cruccu, Le forze armate cit. (a nota 5), pp. 368-369. Il “bando di reclutamento mano d’opera” emesso dal prefetto Notarianni per la provincia di Perugia è riprodotto in F. Santucci, I manifesti del “passaggio del fronte” ad Assisi (1943-1944), in “Atti Accademia Properziana del Subasio”, serie VI, n. 17, 1989, tav. 1.
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
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per uno dei due schieramenti in campo. Sono quei militari che, dopo l’8 settembre, non possono raggiungere i luoghi di origine o scelgono di riparare “nelle località impervie per sottrarsi al disarmo e alla cattura da parte dei tedeschi”18. Nella fattispecie si possono ricordare alcuni soldati originari della Sardegna che si nascondono nelle boscaglie intorno a Deruta e che in seguito si aggregheranno alla brigata Leoni19, o, ancora, il capitano Guido Rossi che con alcuni componenti del suo reparto – il 228° Autoreparto misto – si rifugia sui monti Martani20. Ma non di rado questo tipo di scelta nasconde una forte componente “attesista”. Infatti anche in Umbria si possono contare delle bande, prevalentemente composte di militari, che a causa della loro sostanziale inattività non sono riuscite ad assumere alcuna rilevanza storica, finendo nel novero delle cosiddette “resistenze dimenticate”21. Alle prime due va poi aggiunta una terza componente – che è di gran lunga la più numerosa – costituita, per lo più, da ufficiali, sottufficiali e militari di truppa che all’indomani dell’8 settembre hanno gettato la divisa per raggiungere le proprie case e si sono chiamati fuori dalla guerra fascista, una guerra che da molti non è stata mai sentita come propria. Comunque questa iniziale scelta non costituisce necessariamente l’immediata premessa di un futuro impegno nella lotta armata; per lo più questi uomini sono animati dalla volontà di capire o – per usare alcune delle loro più frequenti espressioni – di “guardarsi intorno”, di “vedere come va a finire”. A costringere questi e altri giovani, ancora estranei all’esperienza militare, a prendere posizione sarà il bando prefettizio per il reclutamento di manodopera da adibire al servizio del lavoro che, emesso il 20 settembre, prevede l’immediata presentazione di tutti gli uomini delle classi dal 1921 al 192522. Nell’ultima decade di settembre, sono infatti molti coloro che decidono per la fuga sui monti. Non si tratta ancora – e in qualche caso non lo sarà mai – di una scelta attiva verso la lotta armata, ma è senza dubbio una decisione che comporta un preciso rifiuto di schierarsi, anche quando tra le sue motivazioni risultano prevalenti le preoccupazioni di sopravvivenza individuale. Spesso, accanto ai motivi dell’autodifesa personale – che sono largamente presenti e non vanno negati – a orientare la scelta di questi uomini è un’interiore rivolta morale, prepolitica, contro il fascismo. Sono
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soprattutto un istintivo rifiuto della sudditanza e un forte senso di libertà – insieme alla casualità degli incontri fatti in montagna – a portare molti giovani a prendere le armi contro fascisti e tedeschi. Essi costituiranno la prima consistente “leva” partigiana. Le testimonianze in questo senso sono molte e inequivocabili. Raffaele Mancini di Umbertide in quei giorni sente che “è arrivata l’ora di decidere tra la servile obbedienza e l’atto di aperta ribellione”23; Corrado Sassi di Perugia, dopo una notte insonne, è consapevole di avere scelto “fra il belato tranquillo della pecora, dinanzi alla prosopopea dei gerarchi fascisti, e la ribellione”24. Inoltre, dalle memorie emerge chiaramente – e in alcuni saggi contenuti in questo volume è messo bene in evidenza – come in seguito continueranno a essere i minacciosi bandi fascisti e le previste cruente ritorsioni ad alimentare le fila delle formazioni partigiane. Al riguardo merita di essere sottolineato il ruolo determinante che risulta svolgere sia la famiglia che la comunità nel far maturare scelte individuali e – non di rado – di gruppo25. Infine, vi è la componente costituita dagli internati e dai prigionieri di guerra fuggiti dopo l’8 settembre da diversi luoghi di restrizione largamente presenti nel territorio regionale (per ricordarne solo alcuni, i campi di concentramento di Colfiorito e di Bastardo e il carcere di Spoleto). Coloro che danno un significativo apporto alla guerriglia in Umbria sono, però, nella stragrande maggioranza ex prigionieri di nazionalità slava26. Essi costituiscono delle bande proprie o miste con partigiani italiani, per lo più operanti all’interno delle maggiori formazioni umbre, la brigata Gramsci e la brigata Garibaldi. Con una lunga e sanguinosa storia di lotta di liberazione e guerra civile alle spalle, i partigiani slavi svolgono un ruolo determinante nel dare impulso, organizzazione e indicazioni tattiche allo scontro militare in atto, spesso però appaiono poco rispettosi della mentalità e della cultura presenti nelle comunità che li ospitano e, di conseguenza, producono forzature – lo si vedrà – non prive di effetti laceranti. Così li ricorda Roberto Battaglia, che collabora con essi nella zona di Cascia: avevano preso le armi per istinto, anche se non tutti immediatamente e senza qualche pressione da parte dei loro capi, ritornando a quella stessa vita d’insorgenza contro il fascismo che aveva determinato la loro prigionia in Italia: avevano così sconvolto con la loro presenza 23
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R. Mancini, A mezzanotte abbiamo scommesso sulla levata del sole (San Faustino Sud), a cura delle sezioni ANPI e Volontari del “Cremona” di Umbertide, Edizioni Nuova Prhomos, Città di Castello 1993, p. 41. C. Sassi, Una balilla per Alfred Saga, disertore della Wehrmacht. Lettere di un partigiano a sei militari tedeschi, dattiloscritto, s.d., p. 9 (in AISUC). In particolare cfr. infra G. Granocchia e C. Spogli, La brigata Gramsci, in L’Umbria dalla guerra alla Resistenza cit. (a nota 16), pp. 293-309. Sulla partecipazione degli ex prigionieri slavi alla lotta di liberazione in Umbria oltre a L. Ma. (Lucifero Martini), Jugoslavi in Italia, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza cit. (a nota 1), 1976, vol. III, pp. 185-191, cfr. O. Pilepic, Hanno combattuto in Umbria, si sono incontrati a Niksic, in “Panorama”, quindicinale illustrato edito a Fiume, n. 21, 1971, pp. 5-8, in seguito parzialmente riprodotto, con il titolo Ricordi dei partigiani della brigata “Gramsci” e del battaglione “Tito” all’incontro di Niksic, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. I, pp. 381-389; Jugoslavi in Umbria (settembre 1943 - giugno 1944), a cura del Servizio Editoriale della Regione dell’Umbria, Perugia 1972.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
L’universo partigiano umbro ruota, dunque, intorno a questo variegato magma politico e sociale, che nella fase iniziale riguarda soltanto alcune centinaia di uomini. Ne deriva un aggrovigliato quadro di formazioni combattenti, divise sia politicamente che territorialmente, per la cui unità d’azione inutilmente profondono il loro impegno i diversi centri dirigenti politico-militari. Del resto appare evidente che il processo di militarizzazione per avere un pieno successo avrebbe avuto bisogno di un tempo notevolmente più lungo dei “dieci mesi”. Questo stato di cose rende, dunque, difficile tracciare un quadro unitario della lotta armata umbra. Peraltro tale quadro, dovendo essere giocoforza sintetico, rischierebbe di mortificare sia la “singolarità” delle diverse formazioni, sia la rigida difesa che esse fecero della propria autonomia. Pertanto, anche in considerazione dei contributi presenti in questo volume, mi limiterò a tracciare un profilo essenziale della Resistenza umbra, che – senza incorrere in eccessive semplificazioni – ne individui alcuni precipui connotati. Allo scopo – riprendendo anche alcune suggestioni presenti in Una guerra civile di Claudio Pavone28 – appare senza dubbio utile soffermarsi su tre aspetti particolari: l’andamento – tutt’altro che lineare – della guerra di guerriglia, l’individuazione del “nemico principale” e l’esercizio della violenza.
La guerra di guerriglia, il nemico, la violenza Complessivamente, la fase di organizzazione e di avvio della guerriglia è molto lento. Per tutto l’autunno 1943 l’attività primaria delle bande ruota intorno alla necessità di dotarsi di un adeguato equipaggiamento logistico e militare. Stelio Pierangeli, comandante della brigata Proletaria d’urto, ricorda questo periodo come “quattro mesi di oscuro lavoro per procacciarsi armi e munizioni”29. Roberto Battaglia – che pure è inserito in una delle unità di guerriglia più attive – non nasconde il suo biasimo verso “quei gruppi che dimostravano di preoccuparsi solo delle armi e del pane”30. Sabotaggi alle linee telefoniche e telegrafiche, rimozioni o danneggiamenti di segnali stradali, aggressioni a militi e carabinieri isolati allo scopo di disarmarli, prelievo di generi alimentari di prima necessità dai magazzini di ricchi agricoltori, sono perlopiù le azioni che in questa fase danno visibilità alle forze partigiane. 27 28 29
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Battaglia, Un uomo, un partigiano cit. (a nota 8), p. 140. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. S. Pierangeli, Movimento Volontari della Libertà “1ª brigata Proletaria d’urto” (Provincia di Perugia). Relazione sulle attività operative svolte dalla brigata, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. II, p. 31. Battaglia, Un uomo, un partigiano cit. (a nota 8), p. 36.
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
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e con le loro diverse abitudini quell’ambiente patriarcale, portando l’orrore e la necessità del sangue in regioni che da secoli, a memoria d’uomo, non ricordavano una morte violenta27.
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Un’eccezione in questo panorama sembrano alcune formazioni che fanno registrare al loro interno una significativa presenza di ex prigionieri slavi. Ed è questo un aspetto particolarmente interessante su cui soffermarsi, anche alla luce delle “proposte di ricerca” avanzate da Guido Quazza nel suo intervento al convegno del 1985 “L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza”31. Egli sosteneva, infatti, la necessità di indirizzare gli studi su alcuni aspetti trascurati dalla storiografia resistenziale, ad esempio i “possibili precedenti culturali della scelta della guerriglia”32. Tra questi ultimi – insieme alla lotta armata delle brigate internazionali durante la guerra civile spagnola, o alla guerra per bande teorizzata o applicata da Mazzini, Pisacane e Garibaldi – Quazza annoverava il modello di guerra partigiana proposto dalla Terza Internazionale e applicato con successo in Iugoslavia33. È un suggerimento che nell’esperienza umbra sembra rivelarsi, da un punto di vista euristico, particolarmente proficuo. Sono infatti diverse le testimonianze che convergono nell’attribuire ad alcuni comandanti, impegnati in precedenza nella lotta antipartigiana nei Balcani, maggiori capacità militari. L’avere appreso “i segreti della guerriglia durante la campagna contro la Iugoslavia”34 risulta determinante nel caso di Antero Cantarelli, comandante della brigata Garibaldi, e anche per Antonio Bonanni, comandante di uno dei battaglioni della brigata Gramsci, il battaglione Spartaco Lavagnini35. Ma ciò che più conta per la Resistenza umbra è il fatto di avere in loco molti “esperti militari” in carne e ossa, impegnati a insegnare e a mettere in pratica quel modello di guerriglia. Al riguardo il partigiano Enzo Rossi ricorda come il montenegrino Milan Tomovic – postosi alla testa di una banda formatasi subito dopo l’8 settembre nella zona di Spello e forte di una lunga esperienza di lotta nel suo paese – non abbia dubbi nell’impostare con rapidità, chiarezza e precisione i criteri dell’attività politico-militare della formazione: “Iniziare subito l’attacco armato sulle strade e la mobilitazione dei contadini”36. Questa “stretta simbiosi tra guerra militare e guerra politica”37 per i partigiani slavi ha come corollario una serie di aspetti non sempre completamente condivisi
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G. Quazza, La guerra partigiana: proposte di ricerca, in L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, a cura di F. Ferratini Tosi, G. Grassi e M. Legnani, Franco Angeli, Milano 1988, pp. 453-507. Ivi, p. 454. Ivi, p. 455 A. e F. Fiore, Memorie di un ribelle (settembre 1943 - maggio 1945), Editoriale Umbra, Foligno 1995, p. 36. Scrive al riguardo Otello Loreti: “Luigino [nome di battaglia di Antonio Bonanni] adottò un[a] differente strategia[,] ha compiuto la sua encomiabile opera tenendo nella paura i repubblichini di Spoleto fino alla Liberazione senza subire i rastrellamenti sfuggendo sempre alle puntate dei fascisti spoletini mettendoli sempre nel sacco, ogni giorno cambiava il suo itinerario, mai una notte si riposava e faceva riposare nello stesso luogo, era stato soldato in Iugoslavia sapeva come conducevano la lotta partigiana in quel paese” (cfr. O. Loreti, Come nacque il cosidetto Territorio Libero della Valnerina, dattiloscritto, s.d., in AISUC, Resistenza 1943-1944, b. 1, fasc. 8). E. Rossi, Il partigiano Milan, in Antifascismo e Resistenza nella provincia di Perugia cit. (a nota 9), p. 133. L’espressione riferita al modello di guerra partigiana adottato in Iugoslavia è in Quazza, La guerra partigiana cit. (a nota 31), p. 455.
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Al riguardo, cfr. Battaglia, Un uomo, un partigiano cit. (a nota 8), p. 142. Ivi, p. 143. Sulla diversità che contraddistingue partigiani umbri e partigiani slavi rispetto all’esercizio della violenza, oltre a Settimio Gambuli, partigiano della brigata Proletaria d’urto (cfr. S. Gambuli, A Gaeta a far gavette, Protagon, Perugia 1990, pp. 196-197), insiste anche Persiano Ridolfi, commissario polititico della brigata Garibaldi: “Ammazzare una persona è una cosa molto grossa, molto forte, ... capito... ci si pensa cento volte e probabilmente non si fà, non si fà... perché il senso della vita tra noi c’è, è molto forte, quello che ci divideva proprio dagli slavi era questo che loro invece ‘io ammazza, io ammazza meglio uomo che coniglio’, invece noialtri – anche se era un nemico, anche se era un fascista – ammazzare una persona era sempre una cosa tristissima, tristissima”. Ridolfi riconosce comunque che gli slavi “avevano fatto già una guerra partigiana feroce, spietata” e, perciò “erano più portati a combattere, a uccidere” (cfr. la testimonianza di Persiano Ridolfi – 1924, studente universitario – resa ad Angelo Bitti l’11 aprile 1995). ACS, MI, DGPS, AGR 1944-1945 (RSI), ctg. C 2, b. 6, fasc. “Perugia - Movimento sovversivo: situazione politica nella provincia”, rapporto del prefetto di Perugia, 8 dicembre 1943. Citato in K. Scheel, La politica di occupazione del fascismo tedesco in Italia nel 1944, in Linea Gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani, a cura di G. Rochat, E. Santarelli e P. Sorcinelli, Franco Angeli, Milano 1986, p. 190.
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
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– almeno nei “modi” – da un buon numero di combattenti italiani: ad esempio, il non fare distinzione nel campo avverso tra tedeschi e fascisti, o ancora il non sentire eccessivi scrupoli morali nel “liberare” – con la soppressione fisica – la zona di operazioni dai fascisti più zelanti o vessatori, e, ancora di più, dai falsi partigiani che derubavano la popolazione. Infatti, l’ostentata facilità di ricorrere alla violenza – insieme a un accentuato spirito nazionalistico – non manca di creare momenti di forte tensione e una costante – anche se latente – conflittualità tra partigiani slavi e partigiani italiani38. Per rendere intelligibili i tratti caratteristici dei combattenti slavi – in ogni caso considerati formidabili – conviene ricorrere di nuovo all’efficacia descrittiva di Roberto Battaglia: Comunisti indubbiamente quasi tutti gli slavi, per l’educazione già da lungo tempo ricevuta nel loro paese, d’un comunismo primitivo, [...] fatto d’affermazioni estreme d’altruismo e nel tempo stesso di mancanza d’ogni rispetto per la vita propria e l’altrui, capaci di uccidere in ogni occasione a sangue freddo senza la dubbiosa consapevolezza che è dell’uomo39. Non c’è dubbio, comunque, che questo modo di essere risulta determinante per il rapido avvio della lotta partigiana in Umbria. Sullo scorcio del 1943 le più importanti azioni militari – per lo più attacchi a isolati presidi fascisti – vedono infatti la partecipazione decisiva degli slavi40. Peraltro questa iniziale capacità offensiva della guerriglia serve efficacemente a evidenziare i lineamenti della politica di occupazione tedesca e il grado di efficienza delle strutture politico-militari del risorgente fascismo repubblicano. Per quanto riguarda le forze di occupazione appare subito evidente che il criterio orientativo è perfettamente in linea con la norma di condotta fornita dal rappresentante plenipotenziario del Reich presso il governo di Salò, Rudolf Rahn, e cioè: “Bisogna sfruttare al massimo il territorio e le capacità produttive italiane, tenendo presente il principio secondo cui una vacca macellata non è più in grado di dare latte”41.
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Se, dunque, dal punto di vista economico si punta al massimo dello sfruttamento di risorse e uomini a favore dell’economia bellica tedesca con la sola attenzione di non provocare l’asfissia dell’apparato produttivo, relativamente al controllo militare del territorio l’occupante tedesco – anche in ragione dell’iniziale modesta estensione delle forze partigiane – si impegna in maniera molto contenuta nella lotta antiguerriglia, soprattutto limitandosi a sporadici – e sempre cruenti – interventi in risposta ad attacchi direttamente rivolti contro militari tedeschi. Peraltro la Militärkommandanturen 1018 – sotto la cui giurisdizione è posta l’Umbria – dimostra una considerevole dose di sfiducia verso le forze del fascismo repubblicano o, comunque, una sostanziale indifferenza verso le loro esigenze politico-militari42. Del resto appare subito evidente come le strutture della RSI stentino a consolidarsi in Umbria, scontando un’inevitabile condizione di subordinazione di fronte alle alte gerarchie tedesche. Le demagogiche parole d’ordine della RSI sembrano non riuscire a fare dimenticare il generale discredito in cui era caduto il fascismo e scarse si rivelano anche le risorse militari che si riescono a mettere in campo nella lotta contro la guerriglia partigiana43. È una situazione che non riesce a essere modificata nemmeno dal minaccioso e frenetico attivismo del capo della provincia di Perugia, Armando Rocchi, e dei suoi più solerti collaboratori. Le milizie fasciste, che riescono a costituirsi, sono malamente equipaggiate e il governo di Salò si dimostra sordo di fronte alle richieste delle autorità provinciali che reclamano armi, equipaggiamento e mezzi adatti alla controguerriglia. Alla fine di novembre, nella fascia appenninica dell’Umbria sud-orientale – dove più forte è l’insorgenza partigiana – devono essere chiuse sei stazioni dei carabinieri, i cui organici risultano inadeguati ad affrontare la “raffica di incursioni partigiane” in atto44. Ma la debolezza dell’apparato militare fascista fa sì che, pure nelle zone in cui sono presenti dei presidi, militi e carabinieri siano non di rado costretti – per la propria salvaguardia – a invischiarsi in pericolose situazioni di doppio gioco. Sono, infatti, molte le memorie e le testimonianze che parlano di una “milizia quieta e sottomessa”, di militi disposti a repentini mutamenti di fronte, di carabinieri conniventi e di taciti patti di non aggressione stabiliti tra partigiani e fascisti45. Si tratta di uno stato di cose destinato a diventare ancora più critico per il fascismo repubblicano con l’arrivo dell’inverno 1943-1944.
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Cfr. infra P.P. Battistelli, L’amministrazione militare tedesca, in L’Umbria dalla guerra alla Resistenza cit. (a nota 16), pp. 178-192. Cfr. infra T. Biganti, La Repubblica sociale italiana in provincia di Perugia: aspetti politici, amministrativi e militari, in L’Umbria dalla guerra alla Resistenza cit. (a nota 16), pp. 193-205. ASP, APP, Gabinetto, b. 42, fasc. 3, segnalazione del comandante della stazione dei carabinieri di Spoleto, 29 novembre 1943. Tra gli altri – oltre a Battaglia, Un uomo, un partigiano cit. (a nota 8), p. 33 (da cui si cita) – cfr. Elenco delle azioni compiute dalla banda “A. Gramsci”, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. I, p. 246; Relazione dell’attività svolta dal “Gruppo di Azione Antifascista” di Gualdo Tadino (Perugia) dal 12 settembre 1943 al 23 luglio 1944 (copia autentica dell’originale depositata il 27 agosto 1944 presso il ministero della Guerra), Amministrazione provinciale di Perugia, Perugia[1992], p. 8; AISUC, testimonianza di Natale Cesaretti in
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Pietro Rondelli, Dieci mesi a Nocera (settembre 1943 - giugno 1944). Testimoni e protagonisti, dattiloscritto, s.d., p. 13; Elenco delle azioni compiute dalla banda “A. Gramsci”, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. I, p. 246. Oltre ad ASP, APP, Gabinetto, b. 91, fasc. 1, relazione del console ispettore della Guardia nazionale repubblicana, 29 gennaio 1944, cfr. L. Peano, Corpo volontari della libertà - Banda di Monte Tezio. Relazione al Comitato provinciale di Perugia, e Sanzio Pagliochini, Relazione del 5º gruppo della banda patrioti “Giuseppe Garibaldi” operante nel comune di Gualdo Cattaneo (Perugia), in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. II, pp. 13-15, 296-300. La Brigata Garibaldi, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. II, p. 287. Cfr. la diversa documentazione contenuta in ACS, MI, DGPS, AGR, ctg. A 5 G, b. 435, fasc. “Perugia-Bande armate” e b. 436, fasc. “Terni-Bande armate”. C. Ghini, Il territorio libero umbro-marchigiano (settembre 1943 - giugno 1944), in Resistenza e Liberazione nelle Marche, atti del I convegno di studio nel XXV della Liberazione, Argalia Editore, Urbino 1973. Cfr. la relazione di M. Legnani, La terra di nessuno. Partigiani, fascisti e tedeschi nell’ultimo inverno di guerra, presentata al convegno “La guerra partigiana in Italia e in Europa” (Brescia, 22-24 marzo 1995) organizzato dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e dalla Fondazione Luigi Micheletti (Brescia).
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
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A cavallo del nuovo anno si avvia, infatti, la fase offensiva della Resistenza umbra. Diversi fattori – tra cui l’intensificarsi della “caccia” al renitente da parte delle autorità fasciste e la fama, ingigantita dalla voce popolare, delle potenzialità militari della guerriglia – determinano un nuovo afflusso di giovani reclute verso le formazioni partigiane. Oltre all’incremento degli organici delle bande già operanti, si assiste alla costituzione di nuove unità combattenti in zone dell’Umbria non ancora investite dalla lotta armata46. A preparare un terreno di scontro favorevole ai partigiani interviene un potente alleato “naturale”, che sopperisce alla mancanza di asperità e all’agevole accessibilità dei contrafforti appenninici. La fase aggressiva della Resistenza può infatti svilupparsi grazie alle abbondanti nevicate che isolano le zone operative partigiane, rendendo impraticabili le carraie di montagna. Persiano Ridolfi, partigiano della brigata Garibaldi, scrive con precisione in una sua memoria: “Quando la neve del dicembre incomincia a cadere, questo è il momento propizio per passare all’attacco”47. E infatti, dalla fine del dicembre 1943 fino agli ultimi giorni di marzo, la GNR si vede costretta a registrare un diffuso e quotidiano stillicidio di azioni di guerriglia, tra cui attacchi a caserme e presidi militari, disarmo di carabinieri e militi isolati, saccheggi di ammassi e distribuzione dei generi prelevati alla popolazione, minacce e requisizioni di beni a carico di facoltosi proprietari terrieri48. Si crea in questa fase quello che è stato definito – non senza una certa enfasi – il “territorio libero umbromarchigiano”49. In ogni caso non vi è dubbio che in vaste zone dell’Umbria si determinano delle situazioni di “terra di nessuno” – per riprendere la formula recentemente utilizzata da Massimo Legnani al convegno “La guerra partigiana in Italia e in Europa” –, e cioè situazioni in cui nessuno dei soggetti coinvolti nello scontro “può rivendicare uno stabile controllo del territorio” e, soprattutto, in cui fascisti e tedeschi sono costretti a vivere e a muoversi in una condizione di permanente insicurezza50. Ciò peraltro avrà l’effetto di ridimensionare sensibilmente le
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mire dell’occupante nazista rispetto allo sfruttamento sistematico delle risorse e al reclutamento indiscriminato della manodopera. Con l’offensiva partigiana condotta durante tutto l’inverno si può far concludere la prima fase della lotta di liberazione, una fase caratterizzata da un andamento evolutivo del livello dello scontro armato. Peraltro, in questo non breve periodo (circa sette mesi) si sono venuti enucleando anche alcuni elementi distintivi della guerra partigiana umbra, per la cui identificazione risulta conveniente – come si è già detto – l’impiego di due particolari parametri interpretativi: l’individuazione del “nemico principale” e l’esercizio della violenza. Se si guarda alle formazioni maggiormente attive – tralasciando quindi le bande attestate su posizioni passive e attendiste, la cui mobilitazione avverrà per lo più in maggio, dopo lo sfondamento alleato del fronte di Cassino – risulta evidente che la gran parte dei combattenti umbri individua come nemico primario il fascista, anche se per ragioni non sempre coincidenti. Due esempi appaiono indicativi al riguardo. Il primo si riferisce ai contrastanti orientamenti manifestatisi nel corso di una riunione – tenutasi sul monte Malbe il 23 dicembre 1943 – tra i dirigenti comunisti impegnati nella lotta armata allo scopo di fare il punto sulla situazione militare e stabilire degli orientamenti politici comuni. Uno dei punti più accesi della discussione si rivela infatti quello relativo “all’opportunità di limitare le azioni di guerra contro i soli fascisti o contro i fascisti e i tedeschi insieme”51. Ed è grazie all’impegno dell’esponente di maggiore prestigio, Armando Fedeli, che riesce a prevalere l’orientamento di condurre la lotta soprattutto contro i tedeschi. Analogamente – ed è il secondo esempio – nella conferenza tenutasi a Cesi il 5 febbraio 1944 tra i dirigenti politici e militari della Resistenza attiva nel Folignate, il comando della brigata Garibaldi difende la propria “direttiva generale”, che prevede una limitazione della lotta ai soli fascisti “senza disturbare i tedeschi, che avrebbero potuto esercitare rappresaglie sulla popolazione dei centri abitati”52. Anche in questo caso è grazie all’intervento del rappresentante – comunista – del Comitato centrale di liberazione nazionale che, in conclusione, si riesce a deliberare “lotta immediata e senza quartiere al nemico numero uno, il tedesco”53. Comunque, in entrambi i casi, si tratta di risoluzioni che non saranno di certo applicate alla lettera, soprattutto perché non viene operata una rimozione delle ragioni di fondo per cui sia gli uni che gli altri riconoscono nel fascista il proprio principale nemico. Esse possono essere così sinteticamente spiegate: oltre a presentarsi spesso nelle vesti del nemico di vecchia data, conosciuto e riconosci51
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Il resoconto di questa riunione si trova in Riccardo Tenerini, Diario partigiano, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. II, p. 134. Cfr. Relazione sulla Conferenza militare del 5 febbraio 1944, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. II, p. 251-255 (la citazione è a p. 252). Si tratta della relazione redatta dal segretario del Comitato federale il 10 febbraio 1944. Cfr. Relazione sulla Conferenza militare del 5 febbraio 1944, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. II, p. 256. Si tratta della relazione redatta dal rappresentante del Comitato cittadino l’8 febbraio 1944.
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Fiore, Memorie di un ribelle cit. (a nota 34), pp. 50-53. Pavone, Una guerra civile cit. (a nota 28), p. 268. Le brigate Garibaldi nella Resistenza cit. (a nota 4), p. 320. È quanto avviene, ad esempio, il 21 gennaio 1944 nei Comuni di Vallo di Nera e di Sant’Anatolia di Narco, il 30 gennaio 1944 nel Comune di Preci e l’11 marzo 1944 nel Comune di Campello sul Clitunno; cfr. la diversa documentazione contenuta in ACS, MI, DGPS, AGR, ctg. A 5 G, b. 435, fasc. “Perugia-Bande armate”.
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
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bile, con cui si hanno dei conti da saldare, il fascista è – anche e soprattutto – il nemico più debole, quello le cui reazioni non rischiano di diventare pericolose per se stessi e, soprattutto, per le popolazioni. Nei due esempi citati merita di essere sottolineato anche il fatto che dirigenti partigiani di diverso orientamento politico – alla testa della brigata Garibaldi vi è una forte componente di cattolici “autonomi”54 – si trovano a condividere una particolare concezione della guerriglia. Ciò contribuisce a evidenziare ulteriormente – se ancora ce ne fosse bisogno – come il ricorso alle categorie politiche non sempre risulti appropriato per rendere intelligibile l’universo partigiano, per la cui analisi, invece, si rivela sempre più indispensabile un profondo rinnovamento e ampliamento dei paradigmi interpretativi. Un’ulteriore osservazione merita di essere rivolta all’impegno con cui pure in Umbria i dirigenti comunisti si muovono per sconfiggere l’affiorante tendenza a riconoscere nel fascista il nemico primario. Ad animarli è soprattutto il timore che tale tendenza conduca – per dirla con Claudio Pavone – “all’offuscarsi del carattere nazionale della lotta”55. Del resto, bisogna riconoscere che – come in parte è stato evidenziato –, anche in Umbria non mancano segnali indicativi del modo in cui da molti combattenti viene vissuta la Resistenza: una guerra contro il fascismo che non mira esclusivamente alla liberazione del territorio nazionale, ma, piuttosto, contiene concrete motivazioni di classe. E anche rispetto a ciò la presenza degli slavi non sembra essere ininfluente. Alla fine del marzo 1944, il Comitato militare romano del PCI invia a Celso Ghini una lettera in cui si raccomanda di “vigilare attentamente sulla linea politica seguita dai [...] compagni delle formazioni partigiane dell’Umbria”, in quanto si teme che “i compagni jugoslavi trasportino meccanicamente in Italia la linea del Partito jugoslavo, e che sotto la loro influenza e per uno spontaneo settarismo i [... compagni umbri] si allineino facilmente sulle loro posizioni”56. Si tratta di un timore che, a ben guardare, non appare infondato. Non è infatti un caso che, tra le azioni di guerra della brigata Gramsci, ricorrano di frequente quelle in grado di interpretare il radicato spirito di rivolta dei contadini poveri della montagna, trasformandolo in atto concreto: ad esempio, gli assalti e le occupazioni delle sedi dei Comuni, cui ritualmente segue l’incendio dei registri delle tasse, delle liste di leva e dei contribuenti all’ammasso57. Sono comunque molti i casi esemplari in grado di evidenziare la presenza di motivazioni di classe nella lotta armata umbra. Infatti, soprattutto nelle zone a economia agricola, la Resistenza si configura come il punto di coagulo non tanto della sopravvissuta tradizione democratica e socialista radicatasi in diversi luoghi nel
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periodo prefascista, ma piuttosto delle inquietudini e delle tensioni verso il regime accumulatesi nelle campagne nel corso del ventennio. Sono, in particolare, alcuni giovani delle aree rurali più povere a diventare i protagonisti di una ribellione al fascismo che per essi “significa padrone, fame, stenti, umiliazioni, condizioni di vita inumane, case inabitabili, prepotenze, guerra”58. Al riguardo risulta senza dubbio eloquente il fatto che alcuni giovani di San Benedetto, un borgo rurale vicino a Umbertide, pur decisi a imbracciare le armi contro tedeschi e fascisti, si rifiutino di aderire alla brigata Proletaria d’urto per la presenza ai suoi vertici dell’antifascista Bonuccio Bonucci, liberale e proprietario terriero: tanto basta per far sì che la formazione venga bollata come la banda “dei padroni”59. Se, dunque, appare evidente come la Resistenza in Umbria presenti un indubbio carattere di guerra civile con marcate componenti di lotta di classe, pure deve essere riconosciuto che si tratta – almeno relativamente ai primi sette mesi – di una guerra civile sui generis, soprattutto perché non risulta connotata da un esasperato e indiscriminato carico di violenza. Sino alla primavera 1944 i partigiani umbri non dimostrano di essere spinti da un’irrazionale volontà di annientare, anche fisicamente, l’avversario. Infatti, le limitate uccisioni di fascisti – verificatesi al di fuori di scontri in campo aperto – non sono mai ingiustificate, anzi, il più delle volte risultano legittimate dall’essere risoluzioni prese dalla “giustizia partigiana”60. Questa attenzione dei resistenti nel non voler dare la morte in maniera indifferenziata è soprattutto dimostrata dal consistente numero di militi e carabinieri che, dopo essere stati catturati, vengono disarmati e rispediti incolumi ai loro domicili con la diffida dal continuare la ferma nelle forze armate di Salò61. Ma ancora più illuminante è quanto racconta Guglielmo Vannozzi – comandante del raggruppamento Stella Rossa, in seguito aggregatosi alla brigata Gramsci – a proposito dell’attacco e del disarmo della caserma di Vindoli, avvenuti il 15 febbraio 1944. Vannozzi precisa che con quell’azione, oltre a eliminare un presidio fascista, mirava – anche e soprattutto – a sbugiardare una campagna diffamatoria orchestrata dai fascisti contro i partigiani, che venivano definiti come “gente materia58 59
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Mancini, A mezzanotte abbiamo scommesso cit. (a nota 23), p. 58. A Raffaele Mancini, comandante della banda, che cerca di convincerli sull’opportunità di confluire nelle fila della brigata Proletaria d’urto, essi rispondono: “È dei padroni [...] e i padroni son sempre padroni, anche quelli migliori” (cfr. ivi, p. 88). Cfr. Fiore, Memorie di un ribelle cit. (a nota 34), pp. 57-61. Esemplare, al riguardo, anche l’uccisione del possidente di Sant’Anatolia di Narco, Alverino Urbani, avvenuta il 29 dicembre 1943. Infatti, il capo della provincia di Perugia, nel riferire alle autorità superiori, precisa quanto segue: “Da un biglietto rinvenuto sul cadavere a firma, Patrioti Italiani, risulta che il delitto è stato consumato da una banda di partigiani essendo l’Urbani un fascista e perché il 10 novembre scorso si prestò da guida in una operazione di rastrellamento compiuta dalle truppe germaniche in località Mucciafora contro bande ribelli” (cfr. ACS, MI, DGPS, AGR, ctg. A 5 G, b. 435, fasc. 226, lettera del 25 gennaio 1944). Significativi, al riguardo, gli elenchi delle azioni condotte dalla brigata Gramsci e dal Gruppo di azione antifascista, riportati, rispettivamente, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. I, pp. 238-249, e Relazione dell’attività svolta dal “Gruppo di azione antifascista” di Gualdo Tadino cit. (a nota 45), pp. 16-20.
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Arrivammo a Opagna paese del comune di Cascia, la sera dell’8 aprile 1944 era verso il tramonto, Opagna a noi tanto cara, perché tutte le famiglie del luogo erano state come nostre case, nostre mamme, nostri fratelli. Nel vederci riapparire, fu un compatto grido di terrore, imploravano ad alta voce, invitandoci ad allontanarci dal loro cospetto. Imploravano la nostra comprensione. Perché il terrore sparso tra loro dai nazisti era tale sia perché erano stati ammoniti di non osare dare ospitalità ai partigiani. Sia perché avevano visto con i propri occhi distruggere interi paesi a loro vicini dalle fiamme e cannoneggiamenti66.
Le aberrazioni e le atrocità commesse dai tedeschi nel corso dei rastrellamenti raggiungono livelli talmente esorbitanti che lo stesso capo della provincia Rocchi sentirà la necessità di denunciarle con toni fermi alle autorità superiori67.
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Testimonianza di Guglielmo Vannozzi (1918) – contadino e minatore di Monteleone di Spoleto – resa all’autore il 13 agosto 1981. Sull’attacco al presidio di Vindoli si veda anche la diversa documentazione contenuta nell’opuscolo commemorativo Comune di Leonessa, aprile 1944: un tremendo urlo di dolore, Leonessa 1995. Battaglia, Un uomo, un partigiano cit. (a nota 8), p. 37. Ivi, p. 38. Cfr. infra M. Giansanti e R. Monicchia, Rastrellamenti e rappresaglie in Umbria: la lotta antipartigiana tra controllo dell’ordine pubblico e strategia militare, in L’Umbria dalla guerra alla Resistenza cit. (a nota 16), pp. 229-244. Antonio Bonanni, Dopo 28 anni che Toso Svetozar Lakovic, dattiloscritto, s.d. (conservato nel fondo Materiali sulla Resistenza presso la Biblioteca Comunale di Terni). Non diversa appare la situazione nella zona operativa della brigata Garibaldi: “La gente, informata delle stragi, appena avvistava i partigiani si metteva a urlare con le mani nei capelli, cacciandoli immediatamente. Tutta la popolazione sapeva cosa toccava a chi li ospitava o li aiutava in qualche modo. Le spiate erano facili e all’ordine del giorno. Al più veniva loro lanciato un pezzo di pane, proprio come ai lebbrosi di vecchia memoria”; cfr. Fiore, Memorie di un ribelle cit. (a nota 34), p. 70. Cfr. la diversa documentazione conservata in ASP, APP, Gabinetto, b. 145, fasc. 6.
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
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lista”, assassini senza scrupoli. Infatti, dopo la resa della caserma, i militi – compreso il loro comandante – vengono lasciati tutti liberi e ciò serve efficacemente a smentire le voci alimentate dai fascisti e a ridare, per dirla con Vannozzi, “prestigio e nome alla Resistenza della montagna”62. Con l’arrivo della primavera – “quando le strade si riaprirono, allo sciogliersi delle nevi”, come ricorda Roberto Battaglia – lo scenario muta63. I tedeschi, con un considerevole impegno di uomini e mezzi, – insieme ai fascisti – avviano una fase di dura repressione che, tra gli ultimi giorni di marzo e la prima quindicina di maggio, investe – in tempi diversi – soprattutto le tre maggiori formazioni umbre: dapprima la brigata Gramsci, poi la brigata Garibaldi e infine la brigata Proletaria d’urto. Il “sogno generoso e ingenuo”64 nato tra i partigiani all’interno del “territorio libero” viene spazzato via dalla determinata ferocia dei tedeschi, cui soprattutto ragioni strategiche impongono il completo recupero del controllo del territorio e delle vie di comunicazione65. Attraverso esecuzioni sommarie, eccidi, arresti di massa e deportazioni le truppe impiegate nell’antiguerriglia raggiungono il duplice obiettivo di scompaginare le fila delle bande e di terrorizzare le popolazioni civili per dissuaderle dal prestare aiuto ai partigiani. Le memorie del comandante partigiano Antonio Bonanni sono al riguardo illuminanti:
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Ma tale carico di violenza, pur essendo attribuibile in larga parte ai tedeschi, suscita nei partigiani un veemente desiderio di vendetta, che verrà indirizzato soprattutto contro i militi di Salò. Nelle zone in cui i metodi repressivi sono stati più cruenti la contrapposizione armata tra fascismo e antifascismo subisce un imbarbarimento e assume i connotati violenti propri della guerra civile. Ed è proprio in un “fratricidio” che sembra possibile individuare simbolicamente il momento di questa svolta cruenta. Mi riferisco al tragico episodio che vede protagonista la famigerata – ma, dopo il suo più che dignitoso ingresso nel campo storiografico e letterario, si potrebbe anche dire famosa68 – Rosina Cesaretti, che, a Leonessa, il 7 aprile 1944, si rende responsabile della morte del fratello e di altri compaesani. Peraltro questa vicenda sembra costituire un esempio da manuale per dimostrare come la guerra civile sia – per dirla con Gabriele Ranzato – “un grande contenitore”, in cui si aggrovigliano linee di conflitto plurime e in cui, soprattutto, può succedere che la violenza dello scontro in atto venga utilizzata per o serva da copertura a una “resa dei conti” privata69. Vale la pena di riassumere brevemente la storia della giovane donna. Nata nel 1920 in una frazione di Leonessa, Rosina Cesaretti decide giovanissima di andarsene a Roma, per sfondare – si dice – nel mondo del cinema. Allo scoppio della guerra è, invece, costretta a tornare – sconfitta – nella frazione di montagna, dove viene accolta dai familiari e dalla comunità come una reproba. Ciò comporta quotidiane ingiurie e umiliazioni. La vendetta, lungamente covata da Rosina Cesaretti, si realizza in maniera spietata nel corso del rastrellamento tedesco contro la brigata Gramsci. A un comandante di un reparto di SS, con cui si lega sentimentalmente, la donna indica come partigiani o collaboratori dei partigiani alcuni suoi compaesani, tra cui il fratello, uno dei suoi più accaniti persecutori. In seguito a questa denuncia essi sono tutti fucilati. Alla fine delle operazioni di rastrellamento, Rosina lascia il paese con il comandante tedesco, da cui in seguito avrà un figlio. La sua vita si concluderà tragicamente, qualche tempo dopo, con il suicidio. È senza dubbio una vicenda che, nella sua drammaticità, si rivela aperta a una molteplicità di spunti, suggestioni e ipotesi interpretative di diverso segno, come suggerisce anche la sua straordinaria somiglianza con un’altra storia – consentitemi l’azzardato accostamento con un’invenzione letteraria – che, invece, si presta a un’interpretazione politica del tutto diversa, e cioè il sogno di Jenny dei Pirati – la sguattera della “taverna d’infimo rango” di Soho – descritto ne L’opera da tre soldi 68
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La drammatica vicenda è stata ricostruita da Giuseppe Gubitosi, Vita di Rosina, in “Storia dell’Umbria”, XII, n. 15, febbraio 1989, ma viene ricordata anche in E. Galli Della Loggia, Una guerra “femminile”? Ipotesi sul mutamento dell’ideologia e dell’immaginario occidentali tra il 1939 e il 1945, in Donne e uomini nelle guerre mondiali, a cura di A. Bravo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 19-21. Meritevole di essere ricordata è anche la libera trasposizione letteraria della vicenda fatta da S. Petrignani, Camicie nere (liberamente ispirato alla vera storia di Rosina Cesaretti, 1919-1944), in Id., Poche storie, Edizioni Theoria, Roma-Napoli 1993, pp. 4553. Cfr. Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di G. Ranzato, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. XXXIX-XLIII.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
di Bertolt Brecht. Infatti Jenny sogna che arrivi la nave dei pirati a liberarla dalla sua condizione, una “nave a otto vele e cinquanta cannoni” che rada al suolo la città. E nella sua immaginazione così verrà consumata la vendetta:
Ma – per tornare alla vicenda umbra – messi di fronte a questa repressione condotta dai nazifascisti, secondo gli ordini, “con la massima durezza ed energia”71, i partigiani non tardano a reagire. Sono le poche unità combattenti rimaste in efficienza ad attuare una rabbiosa controrappresaglia, nel corso della quale si rende evidente che “la pietà è morta”. Armando Fossatelli, partigiano della Gramsci, che pure ha avuto un fratello pugnalato dai fascisti nel 192172, sente solo in questo momento che è venuta l’ora di applicare il principio “occhio per occhio, dente per dente” e, parlando della reazione partigiana ai rastrellamenti, dichiara con un tono a metà tra la confessione e la rivendicazione che “anche noi non ci siamo andati leggeri”73. Viene, infatti, avviata una “caccia” senza tregua contro spie e collaboratori dei tedeschi, che farà molte vittime74. Più in generale, ciò che cambia è il modo in cui viene vissuto – da alcuni partigiani, soprattutto in Valnerina – il nemico fascista, e cioè come un “nemico dell’umanità” meritevole di essere sommariamente giustiziato. Ed è quanto avviene in più occasioni. Ad esempio, il 14 aprile 1944, nei pressi di Spoleto, un folto gruppo di partigiani, dopo uno scontro a fuoco, cattura due militi e tre carabinieri. I primi – già feriti – sono fucilati sul posto, i secondi rilasciati75. Analogo episodio avviene a Lugnola, paese del Reatino compreso nella zona operativa della brigata Gramsci, dove il 10 maggio vengono catturati un milite e un carabiniere. Di nuovo il primo viene fucilato e il secondo lasciato libero di andarsene76.
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Cfr. B. Brecht, L’opera da tre soldi, in I capolavori di Brecht, Einaudi, Torino 1963, pp. 25-27. ASP, APP, Gabinetto, b. 145, fasc. 6, lettera del maggiore Herrmann al capo della provincia di Perugia, 21 aprile 1944. Ad aggredire Giuseppe Fossatelli, il 20 aprile 1921, erano stati i fascisti della “Disperatissima” di Perugia. L’episodio è ricordato da Bruno Zenoni che aveva assistito al fatto (cfr. B. Zenoni, La memoria come arma. Scritti sul periodo clandestino e sulla Resistenza, a cura e con introduzione di R. Covino, Editoriale Umbra, Foligno 1996, pp. 29, 38). Testimonianza di Armando Fossatelli (1916), operaio e comandante partigiano. La testimonianza – registrata su nastro magnetico – è in AISUC. Cfr. la diversa documentazione contenuta in ACS, MI, DGPS, AGR 1944-1945 (RSI), ctg. C 2, b. 7, fasc. “Terni - Movimento sovversivo: situazione politica nella provincia” e “Rieti-Movimento sovversivo: situazione politica nella provincia”. Ivi, SCP 1943-1945, b. 53, fasc. “Perugia-Telegrammi (veline)”, telegramma del capo della provincia di Perugia, 14 aprile 1944. Ivi, b. 55, fasc. “Rieti-Situazione politico-economica”, rapporto del questore di Rieti, 13 maggio 1944.
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
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E a mezzogiorno in cento discenderanno a riva, / li vedrete avanzare nell’ombra, / e prenderanno tutti, una porta dopo l’altra / e li incateneranno e me li porteranno / e diranno: chi dobbiamo ammazzare? / E a metà di quel giorno sarà silenzio al porto / quando chiedono: chi muore, adesso? / E allora la mia voce dirà: tutti! / E: opplà! ad ogni testa che va giù. / E la nave a otto vele / e cinquanta cannoni / con me salperà”70.
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Nonostante questa violenta reazione, dai sanguinosi rastrellamenti della stagione primaverile, complessivamente, le fila delle bande escono scompaginate; sono molti i partigiani che cercano scampo tornandosene alle proprie case, altri – tra cui gli slavi – per superare il momento critico si vedono, invece, costretti ad accettare ambigui e, spesso, contestati periodi di tregua77. A favorire la ripresa delle forze partigiane umbre contribuisce, però, un avvenimento di grande rilievo militare: lo sfondamento del fronte di Cassino da parte degli alleati. Il disordinato ripiegamento delle armate tedesche permette ai partigiani umbri, intorno alla metà di maggio, di riprendere fiato; nel contempo, in alcune formazioni si registra un nuovo afflusso di combattenti78. Ciò consente a tutte le forze partigiane l’avvio di una sorta di offensiva finale condotta coralmente contro fascisti e tedeschi in ritirata. Questa “mobilitazione generale” vede infatti impegnate anche quelle piccole formazioni che, fortemente legate al territorio di origine, erano sin lì rimaste attardate su posizioni passive e di autodifesa. Nella relazione finale dell’attività militare della banda dei monti Martani, il periodo che precede la liberazione viene ricordato nel modo seguente:
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Le azioni si succedettero alle azioni. Gli uomini, che per lunghi mesi erano stati costretti a strisciare per terra e a nascondersi nelle tane, potevano finalmente lasciare ogni prudenza temporeggiatrice e lanciarsi a “testa bassa” nella lotta su di un nemico ormai in chiara ritirata79.
Su gran parte del territorio umbro si assiste alla diffusione di una guerra partigiana combattuta pro aris et focis; le bande si assumono infatti l’importante compito di porsi a salvaguardia delle comunità e dei loro beni contro le razzie delle truppe tedesche in fuga80. Questa fase conclusiva è anche contrassegnata dall’avvio di un rapporto più frequente e diretto – senza il filtro costituito dagli organismi politico-militari – di alcune unità combattenti partigiane con le avanguardie dell’esercito alleato. Ma tale rapporto si rivela di certo non univoco. Infatti, se alcune formazioni – come la brigata Risorgimento – stabiliscono una buona collaborazione con gli alleati allo
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Cfr. Ghini, Il territorio libero cit. (a nota 49), pp. 353-354; Relazione sull’attività svolta dalla brigata “G. Garibaldi” dal settembre 1943 al luglio 1944, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. II, pp. 268-270. Ghini, Il territorio libero cit. (a nota 49), p. 350. AISUC, Resistenza 1943-1944, b. 2, fasc. 42, relazione sulla banda dei Monti Martani a firma del comandante Milan Dobric e del commissario politico Luigi Del Sero. Esemplare, al riguardo, è la sanguinosa “battaglia di Montebuono” avvenuta l’8 giugno 1944 in provincia di Perugia. Sono i partigiani-contadini della zona ad attaccare i tedeschi che stavano razziando il bestiame; oltre a Montebuono 1944. Un episodio della lotta partigiana in Umbria, a cura di F. Mancini, Perugia, 1994 (si tratta della ristampa di un opuscolo pubblicato nel 1944), cfr. C. Roscini, Battaglia a Montebuono, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. II, pp. 227-232; R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1979, pp. 353-354. Per analoghi scontri di partigiani con “pattuglie tedesche” intente a “depredare”, avvenuti tra il 10 e il 15 giugno 1944 nella zona del fiume Chiascio, cfr. Distaccamento patrioti “Squadra Monte Cucco”. Relazione, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 2), vol. II, p. 60.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
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Cfr. infra G. Pesca e G. Ruggiero, La brigata Risorgimento, in L’Umbria dalla guerra alla Resistenza cit. (a nota 16), pp. 320-337. Canali, Terni 1944 cit. (a nota 9), pp. 97-98. Esemplare, al riguardo, quanto avviene a Terni (cfr. ivi, pp. 97-103). Cfr. i dati – relativi ai partigiani e ai patrioti riconosciuti in Umbria sino al 1951 – riportati in L. Longo, Un popolo alla macchia, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 414. Al totale fornito da Longo devono essere aggiunti i molti partigiani stranieri che hanno combattuto nelle formazioni umbre e quei soldati sbandati che, originari di altre regioni, sono stati presenti in esse soltanto per brevi periodi. Interessanti considerazioni sulla “densità di partigiani combattenti” in Umbria vengono svolte in Ghini, La lotta partigiana in Umbria cit. (a nota 2), pp. 342-343. Gli atti della seconda sessione del convegno “Dal conflitto alla libertà” (Perugia, 28-29 marzo 1996) sono in L’Umbria verso la ricostruzione, a cura di R. Covino, ISUC, Editoriale Umbra, Foligno 1999. Sui volontari umbri nel gruppo di combattimento Cremona cfr., tra gli altri, i diversi articoli contenuti in Antifascismo e Resistenza nella provincia di Perugia cit. (a nota 9), nonché I volontari ternani nel gruppo di combattimento “Cremona”. Scritti, documenti e testimonianze, in “Quaderno di Resistenza Insieme”, n. 1, 1985.
Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria
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scopo di liberare zone circoscritte del territorio regionale81, altre – come la brigata Gramsci – si mettono “in concorrenza” con le truppe alleate, puntando per ovvie ragioni politiche a precederle nella liberazione delle città82. Si tratta delle prime avvisaglie del rapporto non lineare che si instaurerà tra il governo militare alleato e alcuni settori del movimento partigiano, un rapporto che raggiungerà anche momenti di asprezza e di forte contrasto83. A conclusione di questa analisi appare opportuno fornire, anche, un quadro quantitativo della Resistenza umbra e, allo scopo, è inevitabile rivolgersi – sia pure con le necessarie cautele – ai dati forniti dalla Commissione regionale riconoscimento partigiani dell’Umbria. Complessivamente i partigiani risultano essere 4.300 (4.000 combattenti, 250 caduti, 50 mutilati e invalidi), mentre i patrioti sono 2.100. Si può dunque considerare un totale di 6.400 “mobilitati”84. Il bilancio del ruolo politico e militare svolto dal movimento partigiano in Umbria – di per sé necessario –, rischia però di risultare insufficiente se si esaurisce nell’analisi dei soli “dieci mesi” e non procede a una verifica dei lasciti della Resistenza nella società del dopoguerra. Pertanto appare conveniente svolgere alcune brevi considerazioni finali – nel metodo e nel merito – sulla necessità di rendere intellegibile la complessa osmosi tra Resistenza e Repubblica85. Se, dunque, l’obiettivo è quello di rinvenire le tracce partigiane negli anni del dopoguerra, credo si renda inevitabile – ancora una volta – il ricorso a prospettive e strumenti di ricerca rinnovati, che riservino il dovuto rilievo al vissuto e alla multiformità dei comportamenti concreti. Si guardi, ad esempio, alla vicenda – per molti versi ancora inesplorata da un punto di vista storiografico – dei volontari umbri nel gruppo di combattimento Cremona del ricostituito esercito italiano86. Si tratta di una vicenda che, per una continuità di uomini, può essere semplicemente interpretata come un’appendice della Resistenza. Tuttavia, lo slancio generoso dei molti giovani che si arruolano per concorrere alla liberazione dei “fratelli del Nord”, se analizzato non frettolosamente, può rivelare aspetti diversi e importanti della società uscita dalla guerra e dalla Resistenza. Se, infatti, è indubbio che
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dietro la maggior parte delle “scelte” verso l’arruolamento volontario nel gruppo di combattimento Cremona vi sia l’intensa mobilitazione del PCI – il “così chiede Togliatti e il partito” –, risulta altrettanto vero che, scavando più a fondo, affiorano anche altre significative ragioni. Basti pensare a quanto recentemente è stato scritto da Adelio Fiore, partigiano della brigata Garibaldi, a proposito delle motivazioni che stanno alla base della sua decisione di andare volontario nel gruppo di combattimento Cremona. Fiore indica, tra le altre, la necessità di “andare a ripulirsi la faccia”, visto che già all’indomani della liberazione “calunnie e denigrazioni” avevano investito i partigiani, cui si rimproverava di essere andati in montagna pensando ad “allegre passeggiate e gustose merende”87. Appare, perciò, evidente come ragioni euristiche facciano risultare utile inseguire i partigiani nella società postbellica ed esaminare i loro diversi percorsi individuali, la loro “attesa del futuro” e di un profondo rinnovamento della società88. È necessario però non incorrere nell’errore di limitarsi a un’esclusiva verifica condotta tra quei partigiani che riescono a far contare la loro esperienza attraverso i luoghi della politica. Addirittura – visto che si conosce un aspetto del finale – se si intendesse esaminare il futuro disatteso di molti partigiani, credo che potrebbe essere importante seguire non solo gli uomini, ma anche un altro elemento di continuità, le loro armi. Non può essere infatti senza significato che nella primavera-estate del 1945, con la ripresa della lotta sociale nelle campagne umbre ricompaiano le armi, sia pure usate a scopo intimidatorio89, o ancora che lo stabilimento siderurgico della Società Terni si riveli, in seguito ai ricorrenti “rastrellamenti di armi” operati dalla polizia, un’inesauribile santabarbara, tanto che sino ai primi anni cinquanta vi saranno rinvenute armi ben oliate e in perfetta efficienza90.
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Fiore, Memorie di un ribelle cit. (a nota 34), p. 81. In generale sul “senso del futuro” e sulla “dimensione utopica” generati dall’esperienza resistenziale si veda Pavone, Una guerra civile cit. (a nota 28), pp. 575-592; relativamente ai partigiani di Terni si vedano le testimonianze riportate in A. Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Einaudi, Torino 1985, pp. 294-304. Cfr. G.P. Simonetti, Ordine pubblico e conflittualità sociale nelle lotte mezzadrili. La provincia di Perugia (1945-1955), Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia, tesi di laurea, a.a. 1993-1994, p. 24. Cfr. la diversa documentazione contenuta in ACS, MI, Gabinetto, Archivio generale, Indice analitico, 19531956, b. 21, fasc. 1380.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
La lotta partigiana in Umbria
Nella fase iniziale l’universo partigiano umbro si presenta come un magma politico e sociale riguardante alcune centinaia di uomini organizzati in un pulviscolo di bande. In questa frammentazione si riflette quella di un territorio regionale composto da un insieme di società ed economie di zona chiuse nella loro autosufficienza: esse sono il frutto della strutturazione mezzadrile delle campagne, soprattutto collinari, operata nel lungo periodo da piccoli e medi centri urbani di natura commerciale e artigianale. Sull’insieme di questi ambiti analoghi e scarsamente interrelati insiste la storica divaricazione intraregionale prodotta dalla considerevole presenza della grande industria nella zona di Terni. Soltanto nell’inverno 1943-44, attraverso l’impegno profuso dai diversi centri dirigenti politico-militari sia regionali che nazionali si rende possibile iniziare un processo di militarizzazione e politicizzazione, che però conduce solamente all’avvio di sporadiche forme di coordinamento operativo tra le bande e ad aggregazioni non molto salde di alcune unità di guerriglia in formazioni più ampie. In generale, vicende nazionali e fattori locali concorrono nel determinare una situazione essenzialmente connotata dal mancato raggiungimento di una direzione politico-militare riguardante l’intero territorio regionale o, almeno, una parte significativa di esso. Ciò trova ragione anche nel fatto che la lotta partigiana in Umbria si svolge in un arco di tempo non lungo, sostanzialmente dieci mesi. Questa situazione rende difficile tracciare un profilo sintetico della Resistenza umbra, che non mortifichi né la “singolarità” delle diverse formazioni, né la rigida difesa che esse fecero della loro autonomia. Per questo, o anche per questo, la produzione storiografica relativa alla Resistenza umbra è caratterizzata soprattutto da numerose indagini parziali e da un’abbondante memorialistica, non priva di vizi celebrativi ed encomiastici. Per evitare il rischio di incorrere in eccessive semplificazioni conviene soffermare in particolare l’attenzione sulla fase della costruzione del movimento partigiano: ciò, rimandando immediatamente al problema basilare della scelta o, per meglio dire, delle scelte, consente di individuare alcuni caratteri centrali del fenomeno, visto che spesso sono proprio le forme, i modi e le motivazioni delle scelte ad avere un’influenza determinante sulla formazione e sullo sviluppo delle diverse Resistenze. Il saggio è stato pubblicato in Dizionario della Resistenza, vol. I, Storia e geografia della Liberazione, a cura di E. Collotti, R. Sandri e F. Sessi, Einaudi, Torino 2000, pp. 443-454.
La lotta partigiana in Umbria
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Formazione del movimento partigiano
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In questa analisi ravvicinata appare opportuno partire da coloro che all’8 settembre risultano aver già scelto, e cioè gli antifascisti politici che - da lungo o breve tempo - hanno aperto un “contenzioso” con il fascismo. In questo gruppo molto circoscritto – i cui componenti si addensano principalmente nei due capoluoghi della regione – sono presenti molti elementi di eterogeneità. Si tratta di differenze di carattere generazionale e sociale, che spesso hanno significativi riflessi sul piano politico. Insieme ai più “vecchi” militanti antifascisti – uomini che in alcuni casi hanno combattuto il fascismo fin dalle origini, come il popolare Venanzio Gabriotti, amministratore dei beni della curia, a Città di Castello, o i comunisti Alfredo Filipponi, operaio, a Terni, ed Emidio Comparozzi, affermato dentista, a Perugia –, si trovano gli oppositori della generazione di mezzo, i quali sono parte di un fenomeno più vasto che negli anni della guerra di Spagna vede sorgere un nuovo antifascismo molto differenziato politicamente e articolato socialmente, dallo studente di estrazione borghese al giovane proletario. Vi sono poi le ultime reclute, che sono il frutto dell’antifascismo esistenziale sviluppatosi, a partire dai primi anni di guerra, soprattutto tra i giovani. Ne sono due rappresentanti tipici i responsabili delle scritte antifasciste comparse sui muri di Perugia nel 1941, Primo Ciabatti e Riccardo Tenerini, all’epoca maestri elementari. All’interno di questo universo la componente comunista si configura come la più nutrita e attiva. Per quanto riguarda l’avvio della lotta partigiana un ruolo di particolare rilievo viene svolto da un ristrettissimo gruppo di rivoluzionari di professione o comunque di esperti politico-militari, la preparazione dei quali è avvenuta nei corsi di studi seguiti al confino – è così per Gino Scaramucci – o, più drammaticamente, è stata un risultato della partecipazione alla guerra civile spagnola – come nel caso di Armando Fedeli, Alberto Mancini, Dario Taba. Per questa ragione ad alcuni di essi viene affidato un compito di primo piano nell’organizzazione e nella direzione della lotta armata. La possibilità di dar vita a un impegno militare viene esaminata dagli apparati dirigenti comunisti ancor prima dell’annuncio dell’armistizio. E quanto avviene in una riunione, organizzata a Roma il 3 settembre 1943 dalla direzione del PCI, dove si incontrano Luigi Longo, Giorgio Amendola, Mauro Scoccimarro e alcuni dirigenti regionali e provinciali dell’Italia centrale (tra essi Armando Fedeli, per la provincia di Perugia, e Gino Scaramucci, per la provincia di Terni). Le risoluzioni prese in questa sede diventano le coordinate entro le quali, all’indomani dell’8 settembre, i comunisti umbri si muovono per dar vita al movimento di lotta armata. Ma nelle due province, a causa della situazione determinatasi nel corso del ventennio, i risultati di questa mobilitazione si rivelano alquanto diversi. A Perugia, dove il fascismo era riuscito a impedire il costituirsi di nuclei significativi di opposizione clandestina, l’organizzazione comunista si presenta nel settembre 1943 con una struttura non consolidata e con un numero limitato di aderenti. Ciò costituisce la ragione per cui, soltanto nei primi giorni di ottobre, essa riesce a organizzare sul Monte Malbe una banda di piccole dimensioni.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
La lotta partigiana in Umbria
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Nel polo industriale ternano, invece, l’opposizione comunista al regime – presente soprattutto nell’ambiente operaio urbano –, animata da profonde motivazioni di classe, aveva cercato costantemente di tenere in piedi una, sia pur fragile, trama organizzativa. In seguito a questa lunga attività cospirativa il PCI ternano può contare nella seconda metà del 1943 su un discreto numero di iscritti e simpatizzanti. Ciò consente al “responsabile militare” comunista, Alfredo Filipponi, di avviare una mobilitazione che dai militanti viene vissuta come un vero e proprio reclutamento, cui non si vuole, né forse si può, sottrarsi. Nella seconda quindicina di settembre intorno a Terni risultano già costituite tre bande; tra esse la più organizzata e numerosa (circa quarantacinque uomini) è quella operante in Valnerina al comando dello stesso Filipponi. Gli operai comunisti della grande industria ne costituiscono la base. Accanto alla componente “politica” si colloca quella “militare”, nella quale sono compresi soprattutto gli appartenenti alle Forze armate che, dopo lo sfascio del regio esercito, operano – o sono costretti a operare – immediatamente la propria scelta per uno dei due schieramenti in campo. Tra essi vi sono gli ufficiali che per sfuggire al disarmo e alla cattura da parte dei tedeschi, si portano con il proprio reparto – o parte di esso – in montagna, o anche i soldati meridionali che non possono raggiungere i luoghi di origine. Esemplare al riguardo è il caso del capitano Guido Rossi, che si rifugia sui Monti Martani con i mezzi e una parte degli uomini del 228° autoreparto misto. Ma, come i fatti dimostreranno, dietro questa scelta si nasconde, non di rado, un disegno “attendista”, che porta alcune di queste unità a divenire facile bersaglio dei primi rastrellamenti messi in atto da fascisti e tedeschi. E così nelle esperienze della banda “Libertà”, operante sui monti di Stroncone al comando del tenente Elvenio Fabbri, e della stessa formazione del capitano Guido Rossi. Vi è infine la componente costituita dagli internati e dai prigionieri di guerra, fuggiti dai diversi luoghi di restrizione presenti sia nel territorio regionale che nelle regioni vicine. Coloro che danno un significativo apporto alla guerriglia in Umbria sono però – nella stragrande maggioranza – ex prigionieri iugoslavi, in particolare quelli fuggiti dai campi di concentramento di Colfiorito e di Pissignano. Con una lunga e sanguinosa esperienza di lotta di liberazione e guerra civile alle spalle, i partigiani slavi – in gran parte comunisti – assumono un ruolo determinante nel dare impulso, organizzazione e indicazioni tattiche allo scontro militare. Essi costituiscono bande proprie o miste con partigiani italiani, le quali, per lo più, saranno efficacemente inquadrate all’interno di unità di livello superiore. In qualche occasione però l’accentuato spirito nazionalistico di questi combattenti finirà per produrre momenti di tensione e dì contrapposizione con i partigiani umbri.
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Sviluppo ed espansione delle forze partigiane
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Mentre, in montagna, tra i primi nuclei partigiani operanti nello stesso territorio – o in territori limitrofi – inizia una fase complessa di presa di contatto, che in qualche caso porterà a fusioni o ad accorpamenti, in diversi centri urbani, anche minori, si avvia una fitta trama di incontri, nei quali si gettano le basi della costituzione di gruppi armati clandestini, destinati a diventare importanti unità di guerriglia. Protagonisti di questi conciliaboli sono in prevalenza ufficiali e sottufficiali tornati alle proprie case dopo l’8 settembre, ma accanto a essi si segnala una significativa presenza di civili appartenenti al ceto medio (liberi professionisti, proprietari terrieri, studenti universitari). A Gualdo Tadino, il 12 settembre, in una riunione organizzata dal tenente Vincenzo Morichini nella sede dell’Istituto Salesiano viene costituito il Gruppo di Azione Antifascista. E il 13 settembre è un liberale, Bonuccio Bonucci, a propiziare la formazione di una banda facendo incontrare ufficiali e civili a San Faustino, nell’Alta Valle del Tevere. A Spoleto, il 16 settembre, il capitano Ernesto Melis svolge un ruolo decisivo nell’organizzare un gruppo armato, che prenderà il suo nome. A Foligno, sempre nella seconda decade di settembre, è l’Istituto San Carlo il luogo nel quale si svolge la fase di preparazione alla lotta armata di alcuni ufficiali e studenti universitari cattolici. Questa attività cospirativa svolta in città viene però ostacolata dalla pubblicazione – il 20 settembre – di un bando per il reclutamento di manodopera da adibire al servizio del lavoro. In esso si ordina l’immediata presentazione a tutti gli uomini appartenenti alle classi dal 1921 al 1925. Ciò spinge una parte di coloro che si stanno organizzando nei centri urbani ad anticipare i tempi dell’avvio della lotta in montagna. E quanto fanno, per esempio, il gruppo dei “sancarlisti” di Foligno e quello di Spoleto comandato da Melis, i quali si trasferiscono con i propri equipaggiamenti – rispettivamente – nella parte centrale e in quella meridionale dell’Appennino umbro. Si tratta comunque di una scelta non isolata. Infatti, nell’ultima decade di settembre, tra i soldati tornati a casa dopo lo sfacelo del regio esercito e tra i giovani ancora estranei all’esperienza militare sono molti coloro che, per sfuggire a una precettazione al lavoro piena di incognite, decidono di darsi alla macchia. Per una considerevole parte di essi non si tratta ancora – e in qualche caso non lo sarà mai – di una scelta attiva verso la lotta armata. Oltre alla casualità degli incontri fatti in montagna, in questa fase un ruolo decisivo nel far maturare scelte individuali – e, non di rado, di gruppo – viene svolto sia dalla famiglia che dalla comunità. In ogni caso diverse sono le bande alle quali questi uomini spontaneamente danno vita. Alcune di esse si aggregheranno a formazioni più strutturate da un punto di vista politico-militare; mentre altre manterranno una propria autonomia, finendo spesso per essere connotate da un forte carattere localistico e da una scarsa attività sul piano militare.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
La lotta partigiana in Umbria
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La fase di organizzazione e di avvio della guerriglia che caratterizza l’autunno del 1943 è molto lenta. Per lo più l’attività primaria delle bande ruota intorno alla necessità di dotarsi di un adeguato equipaggiamento logistico e militare. Sabotaggi alle linee telefoniche e telegrafiche, rimozioni o danneggiamenti di segnali stradali, aggressioni a militi e a carabinieri isolati allo scopo di disarmarli, prelievo di generi alimentari di prima necessità dai magazzini di ricchi agricoltori: sono per lo più queste le azioni che inizialmente danno visibilità alle forze partigiane. Al riguardo merita di essere sottolineato il fatto che la gran parte dei gruppi armati mostra di muoversi con grande cautela per evitare sanguinose rappresaglie sulla popolazione civile e, più in generale, per cercare di limitare i costi umani della guerriglia. Ne è una inequivocabile dimostrazione il comportamento che molti partigiani tengono nei confronti di militi e carabinieri catturati per essere disarmati. Il più delle volte essi vengono semplicemente diffidati dal continuare la ferma nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana (RSI) e, quindi, rispediti incolumi ai loro domicili. Non si attengono invece a questa linea di prudenza le bande nelle quali si registra una significativa – o addirittura un’esclusiva – presenza di ex prigionieri slavi. Tra esse si segnala una formazione di piccole dimensioni dislocata nella parte orientale del Monte Subasio. Essa è comandata da uno studente montenegrino, Milan Tomovic e, oltre agli slavi, inquadra alcuni giovani di Spello e Foligno. Ma ancor più significativa è l’esperienza degli slavi evasi il 13 ottobre dal carcere di Scolaro, i quali si organizzano in banda nelle zone montuose dell’Alta Valnerina. In un primo momento questa formazione – il cui comando è affidato a Svetozar Lesovic “Toso” – si aggrega alla banda “Melis”, ma l’orientamento politico-militare del comando di quest’ultima – anticomunista e “attendista” – porta in tempi brevi a una separazione. Poco dopo essa invece stabilisce una salda e proficua unità d azione con la banda “politica” comandata da Alfredo Filipponi. Questa aggregazione, cementata da un condiviso orientamento politico- militare, favorisce un rapido e intenso sviluppo dell’attività di guerriglia. Sullo scorcio dell’anno in Valnerina si registra una lunga serie di azioni partigiane, in particolare attacchi diretti contro automezzi o presidi militari. In seguito a ciò le autorità fasciste sono costrette a chiudere sei stazioni dei carabinieri in altrettanti comuni di montagna (Sant’Anatolia di Narco, Borgo Cerreto, Sellano, Preci, Cascia e Monteleone di Spoleto). Questa iniziale capacità offensiva della guerriglia serve peraltro efficacemente a evidenziare la debole struttura delle forze armate della RSI, le quali – poco motivate e scarsamente equipaggiate – non riescono a far fronte in maniera autonoma alle più combattive formazioni partigiane. Ed è questa una situazione destinata a durare per tutto l’arco dei dieci mesi, malgrado il frenetico attivismo con il quale il capo della provincia di Perugia, Armando Rocchi, cerca di dar vita a un’efficace guerra antipartigiana.
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Ruolo politico e militare delle formazioni
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A cavallo del nuovo anno si apre una nuova fase di espansione per la Resistenza umbra. Diversi fattori – tra i quali l’intensificarsi della “caccia” al renitente da parte delle autorità fasciste e la fama, ingigantita dalla voce popolare, delle potenzialità militari della guerriglia – determinano un afflusso di nuove reclute verso le formazioni partigiane. Una discreta aliquota di questi nuovi combattenti è costituita da giovani contadini renitenti alla leva. Infatti in alcune zone a prevalente economia agricola la Resistenza finisce per configurarsi come il punto di coagulo non solo della sopravvissuta tradizione democratica e socialista radicatasi nel periodo prefascista, ma – anche e soprattutto – delle inquietudini e delle tensioni verso il regime accumulatosi durante il ventennio. Oltre all’incremento degli effettivi delle formazioni già operanti, si assiste alla costituzione di nuove unità combattenti in zone dell’Umbria sin lì non investite dalla lotta armata. Nei pressi di Gualdo Cattaneo si forma la banda comandata dal tenente Romeo Bocchini. Nella zona compresa tra Bettona, Deruta e Collemancio si costituiscono due nuove formazioni “politiche”, esigue numericamente ma immediatamente assai considerate nell’immaginario delle comunità locali: la “Leoni” e la “Francesco Innamorati”. La prima è azionista ed è comandata da Mario Grecchi, un giovane allievo del Collegio Militare di Milano, e da Augusto Del Buontromboni, proprietario terriero della zona. La seconda è, invece, costituita per decisione del comitato federale del PCI perugino, che intende così colmare il vuoto lasciato dalla mal riuscita esperienza della banda di Monte Malbe, scioltasi nel novembre. Il comando della “Innamorati” è affidato a Dario Taba. Parallelamente le formazioni dotate di maggior vitalità e prospettiva di durata si consolidano da un punto di vista militare e politico. Si tratta, in particolare, di quelle dislocate sul versante umbro della dorsale appenninica. Nella parte settentrionale è la banda originariamente costituitasi a San Faustino a diventare il punto di aggregazione di nuove “leve” partigiane e di diverse unità sorte spontaneamente nella zona. Si forma così la brigata “Proletaria d’urto-San Faustino”, che si struttura in quattro battaglioni e arriverà a contare oltre trecento effettivi. Nella parte centrale dell’Appennino umbro un analogo processo di polarizzazione si svolge intorno alla banda dei giovani “sancarlisti” folignati e, anche in questo caso, si conclude con la costituzione di una brigata, la “Garibaldi”, articolata in quattro battaglioni con una forza media di oltre trecento unità. A sud, nella zona dell’Alta Valnerina e del Nursino, il processo di unificazione non può che trovare il suo punto di riferimento nel gruppo armato nel quale combattono uniti partigiani slavi e partigiani umbri. Viene formata la brigata garibaldina “Antonio Gramsci”, la quale nel periodo di massima espansione raggiungerà una forza complessiva di circa millecinquecento partigiani, organizzati in sette battaglioni – dei quali due formati da slavi (Tito I e Tito II). Per sottolineare il particolare clima di collaborazione stabilitosi nella nuova formazione, vale la pena di ricordare come, in una
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prima fase, il suo comando venga affidato a Svetozar Lakovic mentre ad Alfredo Filipponi sia riservato il ruolo di commissario politico. Se il processo di militarizzazione non sembra trovare significativi ostacoli, quello di politicizzazione genera nella “Garibaldi” e nella “Proletaria d’urto-San Faustino” momenti di dissenso e di tensione. Nella “Garibaldi” vengono avanzate ampie riserve – superate a fatica – rispetto all’introduzione della figura del commissario politico, vista come uno snaturamento del carattere originale – “autonomo” e “apolitico” – della formazione. La “Proletaria d’urto-San Faustino” esprime nell’ibridismo del suo nome le diverse anime politiche, comunista e liberale, che presiedono alla sua formazione e al successivo sviluppo. Comunque il più efficace ammortizzatore di tensioni e contrasti interni alle brigate è costituito dal fatto che, in sostanza, queste aggregazioni dimostreranno di possedere un valore più formale che realmente operativo. In questa complessiva opera di istituzionalizzazione un ruolo importante viene esercitato dai diversi Comitati di liberazione nazionale (CLN) locali, ai quali invece le unità combattenti avevano spesso riconosciuto il solo compito di “assistenza logistica”. Un’attività di impulso e di indirizzo sul piano politico-militare – soprattutto per la “Garibaldi” e la “Gramsci” – viene svolto anche da Celso Ghini, ispettore delle brigate “Garibaldi” per le Marche e per l’Umbria, che raggiunge le formazioni umbre in febbraio. Peraltro Ghini tenterà di avviare – con scarsi risultati – una forma di collaborazione operativa tra le formazioni operanti sui due versanti, umbro e marchigiano, dell’Appennino centrale. A marzo arriva in Umbria anche Alfio Marchini, inviato dalla Giunta Militare del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale (CCLN) con lo scopo di creare una brigata garibaldina attraverso il raggruppamento delle diverse bande locali presenti nella zona compresa tra il lago Trasimeno, Chiusi e Orvieto. L’obiettivo viene raggiunto con la costituzione della brigata “Risorgimento”, nella quale sono aggregate cinque piccole formazioni territoriali, sin lì poco attive. In questo contesto di larga espansione delle forze partigiane si avvia quella che può essere considerata la “grande stagione” della Resistenza umbra. Essa è favorita da un potente alleato naturale, e cioè le abbondanti nevicate dell’inverno 194344, che – rendendo impraticabili le carraie di montagna e isolando le zone operative partigiane – contribuiscono a preparare un terreno di scontro favorevole alla guerriglia. Soprattutto a partire da gennaio la Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) è costretta a registrare, ormai in larga parte del territorio regionale, un diffuso e quotidiano stillicidio di azioni di guerriglia: attacchi a caserme, presidi militari, mezzi di trasporto, pattuglie isolate; saccheggi di ammassi e distribuzione di generi prelevati alla popolazione; incursioni contro sedi municipali con rituale distruzione delle carte (liste di leva e di conferimento del bestiame, registri delle tasse ecc.). Nei comuni più isolati, in seguito alla forte carica aggressiva messa in campo dalle bande partigiane, militi e carabinieri sono costretti, per salvaguardarsi, a dar vita a
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pericolose situazioni di doppio gioco e connivenza con i partigiani. In seguito a ciò in buona parte della fascia appenninica centrale si determina quello che Celso Ghini ha definito – non senza una certa enfasi – il “territorio libero umbro-marchigiano”, che riguarda, in una prima fase, la zona operativa della “Gramsci” (Norcia, Cascia, Leonessa, Poggio Bustone) e, successivamente, si estende sino al territorio del comune di Pietralunga, dove opera la “Proletaria d’urto - San Faustino”. Pur non essendo una vera e propria zona libera sottoposta ad amministrazioni nominate dalle forze partigiane, si tratta senza dubbio di un territorio, che, per brevi periodi, risulta militarmente occupato, al cui interno i partigiani possono muoversi con relativa tranquillità. Al riguardo è significativo quanto avviene nella zona libera posta sotto il controllo della “Gramsci”: il comando della brigata stabilisce la propria sede nell’albergo Italia a Cascia; l’ospedale di Norcia diventa luogo di ricovero di partigiani malati e feriti; sempre a Norcia la tipografia viene ampiamente utilizzata per stampare manifesti e giornali (“l’Unità” e “II Fuoco”). Il 16 marzo 1944 viene addirittura pubblicato e affisso un manifesto indirizzato “alle popolazioni della zona libera”, nel quale la brigata si propone come “unica autorità esistente”. Si tratta di uno stato di cose che – come è evidente – non può essere a lungo tollerato dalle diverse forze dell’apparato repressivo tedesco.
La “lotta alle bande” Nonostante l’incapacità dimostrata dai fascisti nel fronteggiare autonomamente la guerriglia, l’azione repressiva messa in atto dai tedeschi non sembra presentare, almeno sino al marzo 1944, un carattere di sistematicità. Le operazioni antiguerriglia condotte dalla forza d’occupazione sono il più delle volte risposte sporadiche ad attacchi partigiani, che però diventano particolarmente puntuali se nel corso dello scontro rimangono uccisi militari tedeschi. Appare opportuno ricordarne alcune. Il 30 novembre 1943 a Mucciafora viene condotto un rastrellamento contro la banda di “Toso”, nel corso del quale sono uccisi molti partigiani e fucilati sette capifamiglia del luogo. Il 20 gennaio 1944, sul Monte Torre Maggiore, nei pressi di Terni, l’azione repressiva si indirizza contro una delle bande “comuniste” costituitesi subito dopo l’8 settembre. Ma l’operazione non riesce per merito del sacrificio del partigiano Germinal Cimarelli, che col fuoco della sua mitragliatrice riesce a ritardare l’avanzata dei rastrellatori. L’8 marzo, nella zona di Deruta, una vasta operazione di controguerriglia, causata probabilmente dall’uccisione di quattro soldati tedeschi, investe e travolge la formazione “Leoni”. Il comandante Mario Grecchi, restato alla mitragliatrice per consentire agli altri partigiani di sganciarsi, viene catturato e, in seguito, fucilato. Anche una parte della formazione “Innamorati” incappa in questo rastrellamento e, in seguito a ciò, viene deciso sia il trasferimento della formazione in altra zona, sia l’impiego di un’aliquota degli effettivi nell’attività clandestina a Perugia. Il 3 febbraio, nella zona di Cancelli, e
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il 14 marzo, nella zona di Colfiorito, due ampie e complesse operazioni di controguerriglia investono la brigata “Garibaldi”; ma non riescono a ottenere risultati significativi. Il secondo rastrellamento appare come una risposta diretta ai dodici tedeschi uccisi dai partigiani in uno scontro a fuoco avvenuto il 9 marzo, nei pressi di Sellano. La situazione muta sensibilmente nella primavera del 1944. Spaventata da un movimento partigiano in costante crescita che è ormai diventato una seria minaccia per le più importanti vie di comunicazione dell’Italia centrale, la forza d’occupazione avvia una fase più dura e sistematica di “lotta alle bande”. Questo drastico mutamento nell’attività di repressione della guerriglia trova un’immediata applicazione in Umbria. Dalla fine di marzo sino alla prima metà di maggio un lungo ciclo di rastrellamenti, condotti con un ampio dispiegamento di uomini e mezzi e spesso con la collaborazione dei fascisti, investe in tempi diversi tutta la dorsale appenninico-centrale, soprattutto nelle zone dove più forte si è dimostrata l’insorgenza partigiana. Inizia il 27 marzo un reparto corazzato da ricognizione, che setaccia una vasta zona a est di Gubbio. I tedeschi colpiscono con durezza – e lo faranno anche in seguito – partigiani, veri o presunti, e civili inermi. Tra il 29 marzo e il 7 aprile è la zona operativa della “Gramsci” a essere sottoposta a rastrellamenti. Nel corso di questa operazione si distingue per ferocia il famigerato 2° battaglione del 3° reggimento della divisione Brandenburg. Il 17 aprile la macchina repressiva tedesca si indirizza contro i reparti della “Garibaldi” operanti nella zona di Collecroce. Poi si sposta a nord e, a partire dal 7 maggio, si scaglia contro la “Proletaria d’urto-San Faustino”. Villaggi montani messi a ferro e a fuoco, esecuzioni sommarie, eccidi, arresti di massa, deportazioni: le aberrazioni e le atrocità commesse dai tedeschi nel corso di questi rastrellamenti raggiungono livelli talmente esorbitanti che lo stesso capo della provincia di Perugia le denuncia con toni fermi alle autorità superiori. Ma, attraverso la brutalità dei mezzi impiegati, i reparti antiguerriglia riescono a raggiungere importanti obiettivi: scompaginare le fila delle formazioni armate e terrorizzare le popolazioni civili per dissuaderle dal prestare aiuto ai partigiani. In effetti il bilancio di questo ciclo di rastrellamenti risulta veramente duro per la Resistenza umbra. Nello sbandamento generale molti partigiani cercano scampo tornandosene alle proprie case; altri – tra i quali gli slavi – per superare il momento critico sono costretti ad accettare ambigui e poco onorevoli periodi di tregua. Diversi esponenti di primo piano del movimento di liberazione trovano la morte nel corso di queste operazioni; tra essi, Venanzio Gabriotti e Primo Ciabatti, uccisi nello stesso giorno, il 9 maggio, in due diverse località. Un caro prezzo viene pagato anche dai sacerdoti che si sono esposti collaborando, più o meno direttamente, con i partigiani. Don Concezio Chiaretti, ricordato come il “cappellano” della “Gramsci” viene fucilato a Leonessa il 7 aprile. Altri sacerdoti, come don Alfonso Guerra di Nocera Umbra, sono arrestati e riescono a evitare il plotone di esecuzione – o la deportazione – soltanto grazie all’intervento delle superiori
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autorità religiose. A Morena, don Marino Ceccarelli – soprannominato dai tedeschi il “prete bandito” – riesce fortunosamente a sfuggire alla cattura. Nonostante ciò, il piano tedesco di annientamento del movimento partigiano non si realizza. Terminati i rastrellamenti, le poche unità combattenti rimaste in efficienza non tardano a riorganizzarsi e a reagire, mettendo in atto una rabbiosa controrappresaglia, che si indirizza in maniera prevalente contro i fascisti. Sono, in particolare, alcune unità della “Gramsci” ad avviare una “caccia” senza tregua contro spie e collaboratori dei tedeschi, che causa diverse vittime. In generale si assiste a un mutamento del rapporto che molti partigiani hanno con il “nemico interno”: alla magnanimità caratterizzante i primi mesi della guerriglia si sostituisce una volontà di annientamento che porta all’attuazione di forme di giustizia sommaria. In più di un’occasione la cattura di militi e carabinieri si traduce in esecuzione sommaria sul posto per i primi e in rilascio con diffida per i secondi. Si tratta di comportamenti che indicano come sia soprattutto in questa fase – e, in particolare, nelle zone nelle quali i metodi repressivi sono stati più cruenti – che la contrapposizione armata tra fascismo e antifascismo subisce un imbarbarimento e assume i connotati violenti propri della guerra civile.
La “grande stagione” della Resistenza umbra La ripresa organizzativa delle forze partigiane umbre viene favorita da un avvenimento di grande rilievo militare: lo sfondamento del fronte di Cassino da parte degli alleati. Infatti la notizia del cedimento tedesco galvanizza le unità di guerriglia superstiti e favorisce un ulteriore afflusso di combattenti. Nei dintorni di Agello viene anche costituita una nuova formazione, la brigata “Primo Ciabatti”, nella quale confluiscono molti mezzadri della zona e alcuni partigiani della “Innamorati”. All’indomani della liberazione di Roma, il ricostituito fronte resistenziale scatena una sorta di offensiva finale contro le truppe tedesche impegnate in un disordinato ripiegamento. A questa “mobilitazione generale” partecipano attivamente anche le piccole formazioni – come le bande dislocate sui Monti Martani – che, fortemente legate al territorio di origine, erano sin lì rimaste attardate su posizioni attendiste e di autodifesa. In particolare, si assiste alla diffusione in molte zone del territorio umbro di una guerra partigiana combattuta pro aris et focis. La battaglia di Montebuono è l’episodio-simbolo con il quale tradizionalmente viene ricordato l’importante ruolo svolto dai partigiani per salvaguardare le comunità dalle razzie e dalle distruzioni messe in atto dalle truppe tedesche in ritirata. Sono i partigiani-contadini di Montebuono ad attaccare, l’8 giugno, un’autocolonna tedesca che ha razziato bestiame nella zona. Ma l’arrivo di rinforzi per i tedeschi imprime una svolta tragica alla battaglia; dieci partigiani trovano la morte in questa azione. Lo slancio eccezionale dimostrato in questa fase dalle formazioni armate trova
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alimento anche nella rapidità dell’avanzata alleata e nella stretta successione con la quale vengono liberate le città dell’Umbria meridionale e centrale: il 13 giugno Terni, il 14 Orvieto, il 15 Spoleto, il 16 Foligno, il 20 Perugia. Infatti ciò lascia supporre come ormai prossima la fine dell’occupazione nella regione. Ma la scelta degli alti vertici militari tedeschi di dar vita, a partire dal 20 giugno, a una battaglia di arresto sulla linea Albert (Grosseto-lago Trasimeno-Numana) – e, in seguito, a una “ritirata aggressiva” – vanifica questa aspettativa e spezza in due il territorio umbro, ritardandone di oltre un mese la completa liberazione. A causa di ciò le forze della Resistenza si trovano a vivere due esperienze completamente diverse. Nella parte dell’Umbria liberata, la prima fase del dopoguerra appare caratterizzata da un difficile incontro del quale sono protagonisti alleati e partigiani. Del resto tra essi – se si escludono pochi aviolanci – non si era in precedenza stabilito alcun significativo e prolungato rapporto di collaborazione. Il governo militare alleato accoglie, dunque, con un evidente atteggiamento di diffidenza e sospetto la volontà di protagonismo apertamente manifestata dal movimento di liberazione. In generale, imposta la smobilitazione delle formazioni armate e largamente disattese le richieste dei comitati di liberazione nazionale, gli alleati accettano soltanto di utilizzare per un breve periodo alcune unità partigiane in operazioni di pattugliamento del territorio e di mantenimento dell’ordine pubblico. A Terni tali compiti sono affidati ai partigiani della brigata “Gramsci”, mentre a Perugia vengono riservati a quelli della “Mario Grecchi”, una formazione costituita poco prima della Liberazione da militanti del Fronte Giovanile Comunista e da alcuni partigiani superstiti della “Leoni”. Nell’Alta Umbria, invece, le formazioni armate continuano la lotta contro gli occupanti tedeschi, soprattutto fornendo un considerevole apporto – sul piano militare – alle operazioni belliche delle truppe alleate. In questo si distingue principalmente la brigata “Proletaria d’urto-San Faustino”. La complessiva azione partigiana è però costretta a misurarsi con la situazione, difficile e pericolosa, determinata da un’ulteriore svolta draconiana impressa alla repressione della guerriglia dal feldmaresciallo Kesselring con il famigerato ordine del 17 giugno 1944, una vera e propria legittimazione di ogni forma di arbitrio commesso dai comandanti dei reparti nella conduzione della “lotta alle bande”. Infatti i durissimi effetti di questa svolta non tardano a manifestarsi nel territorio umbro occupato. Misure di repressione terroristiche sono sempre più indirizzate, in maniera indiscriminata, contro la popolazione civile. Il lento percorso di ripiegamento delle truppe tedesche attraverso l’Umbria settentrionale è contrappuntato da episodi cruenti di rappresaglia. I primi sono tra i peggiori. A Gubbio, il 20 giugno, alcuni gappisti uccidono un ufficiale medico e ne feriscono un secondo. Due giorni dopo scatta la “misura di ritorsione”: vengono fucilati quaranta civili inermi, tra i quali due donne. A Serra Partucci, il 24, per rappresaglia contro il ferimento di un soldato tedesco sono passati per le armi cinque
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civili. Il 27, nei pressi di Petrelle, per “vendicare” due soldati tedeschi viene fatta saltare una casa nella quale sono stati rinchiusi dieci uomini del posto. Nella notte tra il 27 e il 28 giugno, a Penetola, per sospetta connivenza con i partigiani, i componenti di tre nuclei familiari sono rinchiusi in una casa, che poi viene data alle fiamme. A quanti tentano di uscire si riserva una raffica di mitra. Il bilancio di questa spietata esecuzione è di dodici morti, tra essi vi sono donne e bambini. Si chiude così con questa scia di sangue, che avrà una drammatica continuazione per tutta l’estate nell’Appennino tosco-emiliano, il periodo dell’occupazione tedesca nella regione. I diversi conteggi effettuati per dare una misura numerica delle forze impegnate nella Resistenza in Umbria sembrano convergere approssimativamente in una cifra di oltre 4.300 unità per quanto riguarda i partigiani e di circa 2.000 unità per quanto riguarda i patrioti, facendo così ammontare il numero totale dei “mobilitati” a una cifra superiore alle 6.300 unità. Merita, infine, di essere menzionata la scelta ulteriore compiuta da alcune centinaia di partigiani umbri, e cioè quella di continuare a combattere tedeschi e fascisti arruolandosi volontari, tra la fine del 1944 e i primi mesi del 1945, nei gruppi di combattimento del ricostituito esercito italiano, in particolare nel “Cremona”. Questi partigiani, provenienti per lo più dalle città dove più forte era stato il movimento resistenziale (Perugia, Terni, Foligno, Città di Castello, Spello, Umbertide), portano nella nuova esperienza militare gli ideali di libertà e di antiautoritarismo che erano stati alla base della loro precedente scelta. La guerra di liberazione nei reparti regolari dell’esercito viene da essi vissuta come un vero e proprio prolungamento della lotta partigiana.
Bibliografia R. Battaglia, Un uomo, un partigiano, Einaudi, Torino 1965. Cattolici, Chiesa, Resistenza nell’Italia centrale, a cura di B. Bocchini Camaiani e M.C. Giuntella, Il Mulino, Bologna 1997. L’Umbria nella Resistenza, a cura di S. Bovini, 2 voll., Editori Riuniti, Roma 1972. L’Umbria dalla guerra alla Resistenza, atti del convegno “Dal conflitto alla libertà” (Perugia, 30 novembre - 1 dicembre 1995), a cura di L. Brunelli e G. Canali, ISUC, Editoriale Umbra, Foligno 1998, . Antifascismo e Resistenza nella provincia di Perugia (documenti e testimonianze), a cura di L. Capuccelli, in “Cittadino e provincia”, numero monografico in occasione del XXX della Resistenza e della Liberazione, giugno 1975. R. Covino, Partito Comunista e società in Umbria, Editoriale Umbria, Foligno 1994. G. Gubitosi, Il diario di Alfredo Filipponi, comandante partigiano, Editoriale Umbra, Perugia 1991. Politica e società in Italia dal fascismo alla Resistenza. Problemi di storia nazionale e storia umbra, a cura di G. Nenci, Il Mulino, Bologna 1978.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
È sempre presente il rischio di far della retorica quando si parla in maniera soggettiva dell’argomento Resistenza. Per questo, dovendo riferire sull’escursione fatta, insieme a Bruno Zenoni ed a Vero Zagaglioni, nella zona tra Leonessa e Cascia alla ricerca di documenti e testimonianze sulla lotta partigiana, mi limiterò a proporre “appunti di viaggio”, materia grezza, scarni fatti lasciati alla libera interpretazione di chi legge. Prima tappa della nostra escursione è Morro Reatino. Qui incontriamo Igino Blasi ex partigiano. Ora fa il commerciante, nel ‘43 era capo operaio alle miniere di Buonacquisto. Quest’uomo, insieme ad altri due partigiani, il cognato Aldo Procoli e Gianna Angelini, fu vittima di una “singolare” istruttoria giudiziaria, che, iniziata nell’immediato dopoguerra, fu poi abbandonata per essere ripescata dopo il 1948, in un clima politico di scoperta reazione. Igino, incriminato ingiustamente con i suoi compagni per un episodio risalente alla guerra partigiana, restò diverso tempo in carcere, rischiando una lunga pena detentiva. Con lui i miei due compagni di viaggio parlano in generale delle vicende partigiane. Lui ricorda la figura di Raul Angelini, un giovane carabiniere fucilato a Morro nell’aprile dei 1944 ed a cui è stata intitolata la locale sezione ANPI. Poi i saluti; non un accenno, sia pure vago, alla propria vicenda personale. Un duro, pesante ricordo da rimuovere, mi dico, mentre ce ne andiamo. Seconda tappa è la casa di Olindo Fossatelli a Leonessa. Lui ed il fratello Armando sono stati tra i primi combattenti della brigata “Gramsci”. Prendiamo il caffè, poi inizia la solita carrellata di ricordi. Olindo è quello che si dice un uomo grande e grosso, un uomo che sembrerebbe non aver paura di niente, eppure mi colpisce lo spavento con cui ricorda, quasi fosse una cosa successa di recente, di quella volta che i tedeschi si installarono in casa sua, mentre in cantina erano nascosti degli zaini sottratti dagli uomini della brigata ad un magazzino tedesco durante un’azione di guerriglia. Non per lui, dice, aveva avuto paura, ma per i suoi familiari. “Me li avrebbero uccisi tutti!” conclude. Poi ci racconta di come nel 1948 il prete di Leonessa e qualche altro “clericale” cominciarono a diffondere calunnie su di lui e su tutto il movimento partigiano e di come abbia dovuto fare appello a tutto il suo senso di responsabilità per non reagire a questa campagna di diffamazione che sentiva crescere sulla sua persona. Pubblicato con lo stesso titolo in “Resistenza insieme”, Periodico dei Comitati Provinciali dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, a. I (1981), n. 4.
Appunti su un “pellegrinaggio laico e sentimentale”
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Appunti su un “pellegrinaggio laico e sentimentale”
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Mentre siamo sulla strada per Onelli, Zenoni mi dice: “Se Olindo non fosse stato quel pezzo d’uomo che è, a Leonessa, con l’ostilità creatagli intorno, l’avrebbe passata grigia”. A Onelli ci aspetta Guglielmo Vannozzi. Nel 1943 aveva 25 anni e lavorava alle miniere di Ruscio. Egli è stato il comandante del gruppo partigiano “Stella Rossa”, un gruppo sorto spontaneamente a Monteleone di Spoleto, che poi unendosi alla brigata “Gramsci” è diventato il battaglione “G. Cimarelli”. Ad aspettarci a casa insieme a lui c’è la moglie Vincenza Bonanni. Si sono conosciuti durante la lotta partigiana. Lei era una delle staffette della brigata. Abitava in uno di quei casali di montagna che servivano ai partigiani come basi logistiche. Con Guglielmo partiamo subito per la montagna, si è fatto molto tardi e vogliamo fotografare qualcuno di questi casali. Casale Termini, Casale Piccinesca, Casale Torlonia, Casale di Adino diversi sono quelli che riusciamo a raggiungere e a fotografare. I più sono ormai fatiscenti, resi pericolanti dal terremoto, abbandonati a causa dei progressivo spopolamento di cui è vittima la montagna, e per questo sono rimasti immutati, come erano negli anni 1943-44; altri, invece, i più facilmente raggiungibili da strade che non somigliano a mulattiere, sono ancora abitati da contadini ed hanno perciò subito migliorie; altri, ancora, completamente ristrutturati, con ombrelloni e tavoli da giardino all’esterno, sono diventati case per la villeggiatura estiva. Guglielmo ripete più volte che dai quei giorni del 1944 non era stato più in questi posti, la sua insistenza nel ricordarcelo mi sembra che suoni come una forma di ringraziamento per noi che gli abbiamo offerto l’occasione per tornarci. Il pomeriggio lo passiamo attorno ad un tavolo. Tiro fuori il registratore. Vincenza ci racconta dei vari espedienti che escogitava per non destare sospetti quando si allontanava da casa per portare i messaggi ai vari distaccamenti della brigata; ci ricorda i suoi parenti, abitanti nei casali vicino al suo, che collaboravano anche essi con i partigiani, pur avendo una “fifa matta” di venire fucilati dai tedeschi. É evidente ciò che lei ci vuole dire: questi aiuti, la collaborazione, venivano offerti spontaneamente, nonostante la paura, perché così facendo, aiutando i partigiani, la gente della montagna riusciva a vincere l’estraneità dai fatti del mondo, l’immobilismo, l’isolamento in cui da sempre era vissuta. A Guglielmo chiedo come mai proprio a Monteleone, un paese lontano dai grossi centri abitati, in cui non esisteva una tradizione antifascista, si formò spontaneamente questo gruppo di resistenza armata, chiedo, ancora, quale ideale motivò la loro decisione di iniziare la guerriglia. Lui mi risponde che all’inizio non fu una compiuta coscienza politica ad animarli ma piuttosto un senso assoluto di rivolta: “Rivolta contro l’oppressione che c’era stata in questi luoghi di povertà, di miseria, di malnutrimento” sono le parole della sua risposta. Quindi è ancora la montagna, mi dico, con la sua miseria ed il suo isolamento ad essere la protagonista. Fu poi, precisa Guglielmo, un comunista genovese, Besana Angelo, confinato a Monteleone, a plasmare il loro primitivo ribellismo. “Altro esempio di come il
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regime ebbe la vista corta – commenta Bruno Zenoni – Era immaginabile infatti che disseminando confinati per la penisola, ognuno di essi sarebbe stato un potenziale moltiplicatore di antifascismo”. E così si va avanti con racconti, commenti e giudizi sulle vicende della lotta partigiana. Ciò che mi colpisce in questa intervista è la straordinaria padronanza che questi uomini dimostrano di avere dei proprio passato: i loro racconti, infatti, non contengono mai semplicemente il passato così come è stato vissuto, ma anche, e soprattutto, un passato a lungo e criticamente rivissuto. Tornando, mi rendo conto che (come era inevitabile vista la mia “retorica” formazione culturale) ho vissuto questa giornata, l’incontro con questi uomini e con quei luoghi, come un pellegrinaggio sentimentale, sia pure laico.
Appunti su un “pellegrinaggio laico e sentimentale”
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Appunti per la biografia di un antifascista
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Obiettivo ormai da tempo perseguito dalla redazione di “Resistenza insieme” è quello di ripercorrere le tappe di un ventennio di lotta, prima, antifascista e, poi, partigiana, con i suoi momenti esaltanti ma anche le sue sconfitte e le sue sofferenze, parlando delle vicende individuali degli uomini che di quelle lotte furono i protagonisti. Ciò per dar senso concreto ad avvenimenti che in altra maniera potrebbero apparire viziati di retorica, ma, anche, per dare maggiore significato all’impegno individuale nel suo divenire collettivo e farsi, perciò, lotta contro la costrizione sociale e la sopraffazione politica. In questo senso va anche il proposito, perseguito congiuntamente da “Resistenza insieme” e dall’amministrazione comunale, di ricordare, a 40 anni dalla sua morte, la vicenda biografica di Germinal Cimarelli. La vita di Germinal Cimarelli si concludeva, con un volontario sacrificio, il 20 gennaio 1944 a Montemaggiore di Cesi. Comandante partigiano, Cimarelli veniva ucciso nel tentativo di coprire la ritirata del suo reparto che, attaccato dai nazifascisti nel corso di un’operazione di rastrellamento, rischiava di essere accerchiato ed annientato. Questa morte per la salvezza del propri compagni e per il riscatto del proprio paese fu per Cimarelli il conseguente suggello di una vita improntata dalle migliori tradizioni di combattività e di spirito di sacrificio che avevano contrassegnato il vecchio socialismo italiano. È soprattutto ciò che rende la scelta di procedere alla ricostruzione storica della sua vita per più versi interessante. La sua biografia, pur restando inevitabilmente individuale, consente infatti di cogliere alcuni aspetti e problemi di quel “lungo viaggio attraverso il fascismo” compiuto anche dalle classi lavoratrici. L’esperienza di vita di Cimarelli ci permette di capire attraverso quali forme di resistenza e quali canali di trasmissione ad alcuni strati delle classi subalterne fu possibile salvaguardare la propria cultura antifascista dalla martellante opera di penetrazione ideologica attuata dal regime. L’episodio-chiave, determinante, della breve esistenza di Germinal Cimarelli fu la larga diffusione, attuata nell’agosto del 1936 insieme agli altri componenti dell’organizzazione comunista clandestina, di manifestini contro il regime ed inneggianti alla lotta della Spagna repubblicana. Ma l’aspetto rilevante di questa azione è il L’articolo è comparso con lo stesso titolo in “Resistenza insieme”, Periodico dei Comitati Provinciali di Terni dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, a. IV (1984), n. 2.
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Appunti per la biografia di un antifascista
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fatto che essa fu condotta insieme da “vecchi” antifascisti che avevano combattuto il fascismo ancor prima dei suo avvento al potere, e da un gruppo di giovani, tra cui Cimarelli, che proprio in quegli anni approdavano all’antifascismo militante. È infatti questo un fenomeno di grande interesse che ci permette di allargare lo sguardo alla personalità sociale dell’ambiente in cui si sviluppa e, per di più, può aiutare a comprendere un aspetto particolare del complesso rapporto stabilitosi tra fascismo e società. La prima riflessione deve perciò essere fatta sull’importanza del gruppo dei vecchi militanti antifascisti che, pur se tagliati dai contatti e dalle direttive dei vertice, rappresentano per tutta una fase storica i “rossi” i “sovversivi”, costituendo uno dei canali fondamentali di trasmissione dei messaggio antifascista ed un punto di riferimento per quel settori di classe operaia non rassegnata. Conseguentemente, una seconda riflessione va fatta sul gruppo dei giovani che, dunque non a caso, ad essi si erano affiancati nell’azione antifascista dell’agosto del 1936. E proprio perché questi giovani avevano trascorso larga parte della loro esistenza sottoposti all’insinuante. macchina di propaganda messa in piedi dal regime, diventa importante capire chi sono, da quale ambiente sociale provengono, quali sono i nodi della loro formazione culturale, attraverso quali esperienze sono passati. Ciò è peraltro interessante perché essi sono parte di un più vasto fenomeno che negli anni della guerra di Spagna vede sorgere un “nuovo antifascismo” che in larga parte confluirà nelle file comunista molto articolato socialmente, dallo studente di estrazione borghese al giovane proletario. Da questo punto di vista la vicenda individuale di Cimarelli, diventa davvero emblematica. Se infatti come chiave di lettura di tutta la sua esistenza si prende l’ambiente sociale e familiare in cui vive i suoi primi anni, il sistema di valori ed il codice etico e comportamentale che apprende in famiglia e che ne guiderà con coerenza l’agire sociale dall’approdo in giovane età nelle file dell’antifascismo militante sino alla sua morte sui monti di Cesi, allora lo scenario si apre su una famiglia di radicate tradizioni socialiste e libertarie – il padre Luigi internazionalista ed il fratello maggiore Oberdan socialista rivoluzionario – e su un quartiere – la zona popolare dei vecchio centro cittadino – ricco di antichi retaggi sovversivi. La biografia di Cimarelli si trasforma pertanto in un invito ad allargare lo sguardo su una classe sociale in tutta una fase storica e può diventare l’occasione per parlare di una famiglia, ma anche della famiglia come elemento fondamentale di trasmissione di valori antifascisti, di un quartiere, ma anche dei quartiere proletario urbano come centro solidale di resistenza alla penetrazione ideologica fascista.
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Il Movimento di Liberazione a Terni dalla lotta armata alla riorganizzazione della vita cittadina
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Uno degli aspetti caratterizzanti la congiuntura politica post-bellica a Terni fu il ruolo egemonico svolto dalle forze del movimento operaio – in particolare dal PCI – nella riorganizzazione della vita democratica della città. La ragione di ciò va ricercata principalmente nel fatto che la lotta antifascista, prima, e quella partigiana, poi, avevano assunto in provincia di Terni una precisa connotazione di classe. Pertanto una forte autorità morale, oltre che politica, era derivata a quelle forze interne alla classe operaia che, se pure numericamente ristrette negli anni di maggior vigore dei regime, avevano assolto, con la loro costante attività antifascista, la rilevante funzione di non far perdere ai lavoratori la memoria storica dei proprio passato e delle proprie tradizioni di lotta. Appare perciò opportuno ripercorrere sommariamente le vicende dell’ultima fase di questa ventennale lotta.
1. La lotta partigiana Le prime bande di partigiani che si formarono nella zona di Terni, subito dopo l’8 settembre 1943, furono quasi esclusivamente costituite dagli antifascisti militanti del ventennio – per lo più operai. Questi primi nuclei di combattenti scelsero come teatro delle proprie operazioni le zone montane comprese tra la Valnerina e il Reatino. Qui entrarono in contatto con numerosi prigionieri politici slavi evasi dai campi di concentramento, i quali già possedevano una ricca esperienza di lotta armata. Indubbiamente questo incontro risultò decisivo per il futuro sviluppo del movimento di liberazione ternano. Infatti, alla fine del 1943, la consistenza delle forze partigiane – che avevano allargato la propria base sociale, in gran parte operaia, anche a contadini, giovani e militari sbandati – raggiunse livelli ragguardevoli. Ciò permise di costituire la brigata garibaldina “Antonio Gramsci”, che nei primi mesi del 1944 – periodo di sua massima espansione – arrivò ad avere un organico di circa 1.000 uomini. In questa fase tra i più importanti risultati da essa raggiunti vi fu la creazione di una delle prime “zone libere” dell’Italia centrale – un vasto territorio di circa mille L’articolo è uscito con il titolo Dalla lotta armata alla riorganizzazione della vita cittadina. Il Movimento di Liberazione a Terni, in “Resistenza insieme”, Periodico dei Comitati Provinciali dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, a. IV (1984), n. 3. Come recita un occhiello redazionale “In questo articolo sono riprese o sintetizzate parti del libro Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e costruzione pubblicato a cura dell’Amministrazione Comunale di Terni e dell’ANPI Provinciale”.
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2. La situazione della città e dell’industria alla Liberazione Dall’11 agosto 1943, giorno in cui Terni subì il suo primo bombardamento, sino al giorno della Liberazione, 108 incursioni aeree – almeno secondo le stime ufficiali – avevano avuto come obiettivo la città, danneggiando gravemente il suo patrimonio edilizio. A causa di ciò gran parte della popolazione aveva cominciato, sin dall’estate del 1943, ad abbandonare il territorio cittadino e il posto di lavoro in fabbrica. Del resto l’attività della maggiore azienda cittadina – lo stabilimento siderurgico della Società Terni – dopo i primi bombardamenti, si avviò verso la paralisi. Non ci furono però in quei primi attacchi aerei – nemmeno in seguito ce
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km quadrati compreso tra i comuni di Leonessa e di San Pancrazio. L’esperienza di questa “zona libera” fu però breve. Essa venne stroncata in maniera cruenta da due divisioni motorizzate tedesche nei primi giorni di aprile con un rastrellamento a largo raggio. Tuttavia nonostante la durezza della repressione subita la “Gramsci” poté presentarsi alla Liberazione con un bilancio conclusivo tale da renderla una delle formazioni più’ attive ed efficienti dell’intero movimento di resistenza dell’Italia centrale. Perdite subite: 165 caduti, 0 feriti, 7 dispersi; perdite inflitte: 202 tedeschi uccisi 104 fascisti uccisi, 95 prigionieri; scontri sostenuti: 105. È infatti indubbio che l’alto grado di sviluppo raggiunto dalla formazione partigiana umbra, l’ampiezza e l’intensità delle operazioni militari da essa attuate, la forte presenza operaia alla sua base, resero la brigata “Gramsci” un’eccezione rispetto alla situazione normale, di debolezza e di discontinuità, che caratterizzò il movimento di liberazione di tutta l’Italia centrale. Nonostante ciò, la “Gramsci” condivise la maggiore deficienza della lotta partigiana nelle regioni dell’Italia centro-meridionale, e cioè quella di non essere avanguardia di un movimento di massa. Infatti essa non fu in grado di stimolare tra le popolazioni del territorio in cui operò una partecipazione attiva e pienamente consapevole. Per gran parte ciò fu, senza dubbio, causa dell’arretratezza politica in cui si trovavano le masse contadine della montagna, prive come erano non solo di qualsiasi esperienza di lotta antifascista, ma anche di una tradizione di lotte sociali e politiche avanzate. Alla brigata “Gramsci” non fu nemmeno possibile mantenere e sviluppare un collegamento d’azione con la classe operaia ternana, dalle cui fila peraltro provenivano buona parte dei suoi quadri e dei suoi combattenti. La dispersione della massa operaia urbana nei centri minori della provincia, causata dai frequenti bombardamenti cui era sottoposta la città, fu infatti la ragione principale che rese impossibile l’organizzazione di forme di lotta coordinate tra lavoratori e partigiani. Comunque questo mancato collegamento della gran parte della classe operaia ternana con il movimento di liberazione non costituì una remora per il futuro orientamento antifascista della massa lavoratrice.
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ne saranno – irreparabili distruzioni agli impianti siderurgici all’interno delle Acciaierie. Crollarono molti tetti delle officine senza che per questo le macchine ne risultassero danneggiate irrimediabilmente. Ciò che rese invece impossibile la ripresa dell’attività nello stabilimento siderurgico fu il fatto che saltarono tutti gli impianti idrici ed elettrici, il cui ripristino venne vanificato e dalla frequenza dei bombardamenti e dalla dispersione delle maestranze che – come si è detto – colte dal panico, abbandonarono in massa la città. Del resto lo scopo dei frequenti attacchi degli aerei alleati non era quello di distruggere gli impianti, ma piuttosto quello di annullarne la capacità produttiva. Obiettivo principale delle incursioni aeree restava invece quello di danneggiare le principali vie di comunicazione. Ed infatti, non a caso, il danno più grave che la Società Terni ricevette dagli attacchi aerei fu la distruzione della fonderia di ghisa, la quale colpita nel primo bombardamento dell’11 agosto fu poi completamente rasa al suolo dalle successive incursioni aeree. Questo stabilimento pagò, però, le conseguenze della sua ubicazione: situato infatti in prossimità della stazione, distaccato dal resto degli impianti, ricevette le bombe destinate al nodo ferroviario ternano. Notevolmente più gravi furono invece i danni che il complesso industriale ternano dovette subire dalle truppe di occupazione tedesche le quali effettuarono, dapprima, un notevole numero di requisizioni di impianti e macchinari e, successivamente, ingenti distruzioni al momento della loro ritirata. Del resto la fase dell’evacuazione dei territorio ternano da parte delle truppe tedesche fu senza dubbio non solo per l’industria, ma anche per la città un momento tragico. A partire dal 4 giugno la città divenne l’obiettivo di una lunga serie di incursioni aeree che aggiunsero macerie alle macerie. Per di più, dopo la fuga delle autorità repubblichine al Nord – avvenuta tra il 5 e il 6 giugno – Terni rimase in balia di gruppi di soldati tedeschi sbandati, i quali, transitando per la città, si abbandonavano a furti e razzie. Per questo stato di cose la sfollamento dei territorio cittadino da parte della popolazione in questi giorni di transizione si fece pressoché totale: in città rimasero non più di 1.500 persone. Questa difficile e pericolosa situazione, in cui si trovava la città, non fu comunque di ostacolo alle forze politiche democratiche, che furono invece pronte a raccogliere i poteri precipitosamente abbandonati dai fascisti. Infatti, contemporaneamente alla fuga del prefetto e del podestà, avvenne l’insediamento, formalmente a nome del CLN provinciale, ma in realtà per iniziativa dei collaboratori della brigata “Gramsci’’, di un’amministrazione civica provvisoria denominata “Commissione Cittadina”. Tale commissione venne formata da alcuni militanti comunisti, tra i quali un ex consigliere comunale dei 1920 – allora nelle file dei PSI – Comunardo Morelli, ed ebbe l’adesione di un vecchio militante socialista, Alfredo Urbinati. L’annuncio della ricostituzione di un’amministrazione civica democratica fu quindi dato alle poche persone rimaste in città attraverso l’affissione di un manifesto.
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3. Resistenza e Alleati a Terni: un difficile incontro Le truppe alleate giunsero a Terni poche ore dopo la liberazione della città attuata – come si è detto – da alcuni reparti della brigata “Gramsci”. In realtà i piani predisposti dal comando della brigata prevedevano di precedere di molto gli Alleati nella liberazione della città, ma per i partigiani della ‘‘Gramsci” non tutto andò nel verso programmato. Questo è sommariamente lo svolgimento dei fatti. Negli ultimi giorni del maggio 1944, in diversi incontri che si erano avuti tra i responsabili politici e militari delle forze partigiane umbre, era stato concordato un piano che prevedeva di far convergere tutte le formazioni combattenti su Perugia per liberare la città e lì costituire un governo provvisorio umbro. Tale decisione era stata presa anche in considerazione dei fatto che Terni, ormai semidistrutta dai bombardamenti e largamente abbandonata dalla popolazione, aveva perso gran parte della sua importanza politica e strategica. Ma la liberazione di Roma, avvenuta il 4 giugno, indusse il comando della brigata ad un rapido mutamento dei programmi originariamente stabiliti. La prevedibile ritirata verso il Nord dei tedeschi rendeva infatti inutile il concen-
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Facilmente intuibili sono i rischi corsi da questi uomini, soprattutto se si considera l’indispensabile opera da essi svolta accorrendo sempre là dove la loro presenza era necessaria, sia per cercare di soddisfare i bisogni di una popolazione affamata, sia per difendere persone e cose dalle rabbiose rappresaglie delle truppe tedesche in ritirata. Tuttavia nella sua frenetica e rischiosa attività, svolta nei giorni che precedettero la Liberazione, l’improvvisata giunta non fu lasciata sola. Ad essa fornirono un valido aiuto semplici cittadini e religiosi. In particolare deve essere ricordata la notevole opera di assistenza prodotta in questa fase dal vescovo di Terni e dalla sua curia. Infine, dopo aver sostenuto aspri combattimenti con reparti delle forze tedesche in ritirata a Salto del Cieco e a Valle Piana di Arrone, il 13 giugno 1944 alcuni raggruppamenti della brigata “Gramsci” entrarono a Terni precedendo di qualche ora l’arrivo delle truppe alleate. Per le forze partigiane all’esultanza prodotta dall’aver liberato la città doveva ben presto unirsi l’amarezza per l’atteggiamento di sospetto e di diffidenza che gli Alleati, dopo essere giunti in città, assunsero nei loro confronti. A tale proposito non vi è dubbio che i rapporti sviluppatisi tra forze partigiane e organismi militari alleati in una realtà significativa come quella di Terni – dove il movimento di liberazione aveva raggiunto un ragguardevole sviluppo – permettono di verificare in concreto come da parte alleata vi fosse la tendenza strategica a soffocare le spinte più autenticamente dotate di volontà di rinnovamento provenienti dalle fila della Resistenza.
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tramento delle forze partigiane e, nello stesso tempo, rendeva possibile la liberazione a distanza ravvicinata delle due città umbre. A tal fine, intorno al 10 giugno 1944, diverse formazioni della brigata “Gramsci” si attestarono sulle colline intorno a Terni in attesa che da parte del CLN provinciale giungesse, al momento opportuno, l’ordine di scendere in città. Ma, a causa dei frequenti ed intensi bombardamenti che in quei giorni colpirono Terni, non fu possibile al CLN stabilire alcun contatto con i combattenti partigiani e questo causò un ritardo di almeno 24 ore nella liberazione della città. Questa precisa volontà della resistenza ternana di precedere ad ogni costo gli Alleati nella liberazione della città ci induce, interrompendo per un attimo l’esposizione dei fatti, ad alcune considerazioni. Facilmente intuibile è infatti – e in questo senso ci informano le testimonianze di diversi protagonisti di quegli avvenimenti – il disegno politico che animava i partigiani e cioè il desiderio di imprimere alla liberazione di Terni il segno di un profondo rinnovamento e, conseguentemente, di poter negoziare con gli Alleati da posizioni di forza. Un proposito che era necessariamente destinato a scontrarsi con l’opposta tendenza degli Alleati indirizzata a non concedere spazio alle aspirazioni profondamente innovatrici che animavano il movimento di liberazione. Quando gli Alleati giunsero a Terni, trovarono il CLN insediato e la Giunta Municipale operante che riceveva la sua autorità dalle forze di liberazione partigiane. A causa di ciò si crearono tra le due parti acuti momenti di tensione. L’impatto fu reso difficile proprio dal fatto che gli Alleati si trovarono di fronte una formazione partigiana consistente, ben armata e disciplinata, i cui combattenti, consapevoli dell’opera svolta per la liberazione della città, reclamavano il diritto a partecipare da protagonisti al ripristino della vita politica e sociale cittadina. Diversi furono i motivi di contrasto e, tra questi, il primo fu il problema delle armi. Infatti il comando militare alleato, subito dopo essersi insediato a Palazzo Mazzancolli, ordinò ai partigiani. l’immediata consegna delle armi. Tuttavia ancora non era stato raggiunto alcun accordo che regolasse i rapporti tra le forze di liberazione e gli Alleati – come poi avverrà il 7 dicembre 1944 con i protocolli di Roma tra il CLN Alta Italia e l’Alto Comando Alleato – e quindi i partigiani ignorarono l’ordine. Questo rifiuto rischiò di far degenerare i rapporti, già tesi, tra le due parti, soprattutto per l’atteggiamento arrogante che nell’occasione tennero gli inglesi. Successivamente il senso di responsabilità prevalse e si giunse ad un compromesso: i partigiani avrebbero deposto le armi, ma esse sarebbero state custodite da uomini della brigata. Un’altra forte controversia si accese sulla questione dell’ordine pubblico. Il governatore militare inglese dichiarò apertamente di non aver fiducia nei partigiani come agenti dell’ordine e cercò di far ricostituire il corpo dei carabinieri. La cosa era impossibile, visto che questi, nello sbando generale, si erano allontanati da Terni. Per mancanza di alternative, l’autorità alleata acconsentì allora ad affidare la tutela dell’ordine pubblico a 40 partigiani, a patto che essi fossero stati coman-
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dati da un tenente dei ricostituito esercito italiano. Questa proposta ottenne un nuovo rifiuto dei partigiani, per cui gli Alleati furono costretti a trovare un’altra soluzione e si giunse perciò ad un’ulteriore forma di compromesso. Alfredo Filipponi, comandante della brigata, avrebbe mantenuto il comando del gruppo di partigiani posti alla tutela dell’ordine pubblico, ma un plotone dell’esercito con un proprio ufficiale si sarebbe affiancato agli uomini della brigata. Lo stato di cose, che aveva permesso ai partigiani di far recedere più volte gli Alleati dai loro propositi, era però destinato a finire con il ripristino a Terni delle forze legali di polizia. Infatti, dopo che in città si verificò il ritorno di un contingente di circa 100 carabinieri, da parte delle autorità alleate venne immediatamente richiesto lo scioglimento della brigata e la definitiva consegna delle armi. Anche in questa occasione il diniego partigiano non si fece attendere. Ma la situazione ormai non poteva essere ulteriormente forzata. Pertanto un funzionario del Partito Comunista ed un ufficiale italiano, che aveva l’incarico di tenere il collegamento tra il ricostituito esercito e le autorità alleate, vennero precipitosamente inviati a Terni. Le loro argomentazioni, tese ad evidenziare i rischi della posizione assunta dai partigiani – e, probabilmente, larghe di assicurazioni per il futuro – ebbero l’effetto voluto. Il 28 giugno 1944 la brigata venne sciolta e le armi furono consegnate. La resistenza e le riserve mostrate dalle forze partigiane rispetto agli orientamenti dell’Allied Military Government (AMG) trovarono in seguito una loro giustificazione. Infatti, successivamente allo scioglimento della brigata, Alfredo Filipponi, pretestuosamente accusato di maltrattamenti nei confronti di soldati dell’esercito anglo-americano per un episodio risalente alla guerra partigiana, venne arrestato dalle forze di sicurezza alleate e internato, nonostante il rischio non peregrino di un linciaggio, in un campo di concentramento allestito alla periferia di Terni dove erano reclusi fascisti e collaborazionisti. Appena in città si sparse la notizia dell’arresto, i dirigenti politici dei movimento operaio dovettero esercitare tutta la loro influenza per frenare i partigiani che, esasperati per l’oltraggio politico cui il loro comandante era stato sottoposto, volevano passare all’azione. Gli uomini della brigata “Gramsci” considerarono senza dubbio pretestuosa l’accusa che aveva motivato l’arresto. Infatti, per i resistenti ternani, il vero scopo dell’azione repressiva condotta dagli Alleati contro Filipponi era di dare un avvertimento all’insieme dei combattenti partigiani. D’altronde la consequenzialità degli avvenimenti che si conclusero con l’arresto di Filipponi – il fatto cioè che tale arresto avvenne a notevole distanza dal giorno dell’arrivo degli Alleati a Terni, dopo la consegna delle armi e, soprattutto, dopo che il movimento di liberazione con il proprio atteggiamento aveva probabilmente convinto le autorità alleate della necessità di attuare un intervento normalizzatore – rende tutt’altro che improbabile questa interpretazione. In seguito Filipponi venne trasferito in diversi campi di concentramento del Sud e, per ultimo, in quello di Padula, in provincia di Salerno. Qui rimase per circa due
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mesi sotto la continua minaccia di essere trasferito in un campo di internamento in Africa. Per la sua liberazione si adoperò, senza successo, persino Togliatti, che allora aveva un incarico ministeriale nel governo Bonomi. Determinante fu invece, per la scarcerazione di Filipponi – avvenuta in ottobre – l’intervento fatto a suo favore presso l’Allied Control Commission (ACC) dal responsabile alleato dell’amministrazione civile a Terni, il capitano americano Young. In ogni caso l’arresto dei capo partigiano non mancò di avere un effetto normalizzatore. Caduta l’illusione di poter dar vita ad una ripresa svincolata da ogni controllo della vita politica cittadina, anche da parte dei settori più radicali dei movimento di liberazione si cercò in seguito di evitare ogni intemperanza. Con il rientro di gran parte della popolazione sfollata, i difficili problemi della ricostruzione – particolarmente drammatici a Terni, vista la situazione della città – assorbirono le energie degli ex-partigiani. Soprattutto per la larga parte dei quadri della brigata “Gramsci”, che si trovarono alla guida degli organismi politici, sindacali e amministrativi della città, fu necessario mantenere un cauto atteggiamento nei confronti degli Alleati da cui dipendevano gli aiuti necessari per la completa ripresa della vita economica e sociale cittadina. Peraltro non va dimenticato che agli inizi del nuovo anno (2 febbraio 1945) molti partigiani e quadri direttivi del movimento di liberazione ternano intesero continuare la lotta contro i nazifascisti arruolandosi volontari nel Gruppo di Combattimento “Cremona”. Pertanto, sino al 10 maggio 1945, data in cui l’amministrazione di Terni venne restituita dall’AMG al governo italiano, in città non si registrarono più incidenti di rilievo con le autorità alleate. Anzi, in questa fase, deve essere annoverato a merito di queste ultime una più sollecita attenzione verso le necessità della popolazione civile. Soprattutto di enorme importanza per la città fu l’attuazione da parte della Sottocommissione Alleata per l’Industria, di un primo programma di parziale riattivazione degli impianti della Società Terni: riattivazione che del resto era risolutamente richiesta dal movimento operaio e dall’intera cittadinanza ternana.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione
Nel giugno 1944 Terni usciva dalla guerra con un tessuto economico-sociale violentemente sconvolto dalle vicende belliche. Gran parte del patrimonio edilizio cittadino era stato distrutto, i più essenziali servizi pubblici erano fuori uso, difficoltoso appariva assicurare un approvvigionamento alimentare, sufficiente almeno per la sopravvivenza, ad una popolazione prostrata dalla paura ed indebolita dalla fame. Per di più al panorama di distruzione che la città evidenziava si sovrapponeva l’analoga situazione della maggiore azienda locale – la Società Terni. Tuttavia, nonostante questo non incoraggiante quadro di difficoltà, l’immediato dopoguerra rappresentò un momento di grande vitalità per le forze politiche e sindacali del movimento operaio che riprendevano la loro vita democratica. Infatti all’indomani della liberazione della città furono quasi esclusivamente i quadri operai formatisi nella ventennale lotta al fascismo, e poi nella lotta partigiana, a rimettere in moto la vita politica e sindacale.
Questo testo è stato pubblicato, con lo stesso titolo e con un saggio introduttivo di Renato Covino, dall’Amministrazione Comunale di Terni e dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) di Terni nel 1984. Il lavoro era preceduto da una Premessa che riportiamo: “Nel corso della ricerca che ha portato a questo libro molti sono coloro che, in diverso modo, mi hanno aiutato, purtroppo non mi è possibile ricordarli singolarmente. Vorrei tuttavia ringraziare le direzioni, i funzionari, il personale tutto dell’Archivio Centrale dello Stato, dell’Istituto Gramsci di Roma, della Biblioteca Comunale di Terni, dell’Ufficio Pubbliche Relazioni della Società Terni. Per avermi concesso di consultare gli archivi storici delle rispettive organizzazioni, debbo inoltre ringraziare i dirigenti della Camera del Lavoro di Terni, della Federazione di Terni del PCI, delle ezioni provinciali di Terni dell’ANPI e dell’ANPPIA. Un ringraziamento particolare lo devo ai professori Gastone Manacorda e Claudio Natoli, che hanno seguito con consigli e indicazioni preziose la prima elaborazione di questo lavoro – come parte della mia tesi di laurea. Importanti consigli e rilievi critici mi sono stati forniti anche dai proff. Renato Covino, Giuseppe Gubitosi e Alessandro Portelli. Per questo fraternamente li ringrazio. Indispensabili mi sono stati anche i suggerimenti bibliografici fornitimi da Gisa Giani. Peraltro devo riconoscere che il suo archivio, messo insieme in anni di pazienti ricerche, costituisce un punto di riferimento obbligato per quanti intendano fare ricerca su Terni. La mia riconoscenza va infine a tutti coloro – dirigenti della Società Terni, dirigenti politici e sindacali del movimento operaio, militanti di base, partigiani, semplici operai – che mi hanno fornito documenti, informazioni, testimonianze. Tra essi mi sembra doveroso ricordare coloro ai quali mi sono rivolto più assiduamente e cioè Agamante Androsciani, Sante Carboni, Giuseppe Domiziani, Ferruccio Mauri, Remo Righetti, Comunardo Tobia, Vero Zagaglioni, Bruno Zenoni. G.C. Terni, maggio 1984”.
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Introduzione
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I rappresentanti dei lavoratori erano animati dalla volontà di procedere ad un profondo rinnovamento in senso democratico delle strutture politiche ed economiche cittadine. E ciò, nell’immediato, significava soprattutto tre cose: la completa autonomia nella ripresa della vita politica ed amministrativa cittadina, il rapido ripristino della capacità produttiva del complesso industriale ternano e l’avvio di un vasto processo di epurazione. Per di più la perentorietà, con cui queste richieste vennero poste da parte operaia, fu una chiara dimostrazione, da un lato, della coscienza della propria forza che i lavoratori ternani avevano ritrovato, dopo vent’anni di dittatura fascista, nella lotta di liberazione e, dall’altro, della loro volontà di arrivare entro breve termine ad un profondo mutamento dei rapporti di forza tra le classi. L’evidenza di questo più vasto disegno e le conseguenti rivendicazioni politiche e sindacali del movimento operaio suscitarono – come era prevedibile – la manifesta resistenza degli Alleati. Essa si esercitò soprattutto contro la richiesta di autonomia amministrativa proveniente dalle forze di liberazione. Successivamente furono invece i settori politici moderati del governo e dell’imprenditoria di stato a mettere in atto un più sfumato, ma non per questo meno forte, ostruzionismo nei confronti delle richieste avanzate dalle forze del movimento operaio. Il confronto politico, che da questa contrapposizione prese vita, poté risolversi in una prima fase a favore della classe operaia. Nell’arco di tempo che va dalla Liberazione sino, approssimativamente, agli inizi del nuovo anno, i lavoratori ternani riuscirono infatti a veder soddisfatte gran parte delle loro rivendicazioni. Senza dubbio, in questa fase, risultò determinante il potenziale di lotta che il movimento operaio riuscì ad esprimere. Infatti la ferma decisione, con cui la classe operaia ternana si mosse, la fece apparire subito “un agguerrito avamposto della più combattiva classe operaia del Nord”1 e ciò indusse Alleati e imprenditori a concedere molto più di quanto avrebbero voluto. Tuttavia è doveroso riconoscere che il proletariato ternano ebbe un valido alleato nella situazione di fluidità politica in cui la ripresa della lotta rivendicativa veniva a trovarsi. Il grado di equilibrio nella politica verso l’Italia tra le potenze della coalizione antinazista, l’esistenza di divergenze tra le stesse potenze occidentali rispetto ai problemi italiani, il conseguente più ampio margine di manovra che ne derivava alle forze politiche interne del nostro paese, le speranze suscitate dalla formazione del governo Bonomi – acclamato come primo governo democratico italiano –, tutti questi aspetti della situazione, internazionale e nazionale, contribuirono a dare alla classe operaia ternana, nella congiuntura politica apertasi con la liberazione di Roma, la possibilità di sviluppare al massimo la propria iniziativa. 1
L’espressione, senza dubbio largamente indicativa di come i lavoratori ternani vissero questa fase politica, è tratta dalla testimonianza rilasciatami il 23 marzo 1981 da Caffiero Canali, mio padre, operaio comunista, licenziato dallo stabilimento siderurgico della Società Terni del 1953. A lui ed a quanti come lui, in non più giovanissima età, a causa di un licenziamento politico sono stati costretti a ricostruirsi la vita, vorrei dedicare questo lavoro.
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G. Quazza, Introduzione, in L’Italia dalla Liberazione alla Repubblica. Atti del convegno internazionale organizzato a Firenze il 26-28 marzo 1976 con il concorso della Regione Toscana, Milano 1976, p. 12. Il corsivo è mio.
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Per le rilevanti conquiste ottenute dai lavoratori sul piano politico e sindacale questo breve periodo assume dunque, all’interno della complessiva storia del movimento operaio ternano nel secondo dopoguerra, un’importanza cruciale. Infatti, quando in tutto il paese – conclusasi la fase politica della collaborazione governativa tra i partiti antifascisti – si sviluppò una controffensiva padronale mirante a ristabilire a tutti i livelli i tradizionali rapporti di forza tra le classi, a Terni l’attacco delle forze. del padronato trovò una forte resistenza nella combattività, nella coscienza delle possibilità offerte dalla propria lotta, nelle posizioni di forza che la classe operaia aveva acquistato nel periodo di intensa mobilitazione dell’immediato dopoguerra. Ciò rese il processo di restaurazione capitalistica a Terni non breve e tutt’altro che facile. Scopo di questo lavoro è pertanto quello di analizzare in maniera ravvicinata i diversi avvenimenti che, nella seconda metà del 1944, videro la classe operaia svolgere un ruolo autonomo da protagonista. Su questo sfondo un’attenzione particolare è stata riservata all’esame dei rapporti intercorsi tra Alleati e movimento di liberazione per il fatto che una realtà significativa come quella di Terni – dove le formazioni partigiane avevano raggiunto un ragguardevole sviluppo – permette di vedere in concreto come da parte alleata vi fosse la tendenza strategica a soffocare le spinte più autenticamente dotate di volontà di rinnovamento provenienti dalle fila della Resistenza. Per indicare, insieme con gli scopi, anche i limiti del presente lavoro, si deve riconoscere che in questa ricostruzione dell’immediato dopoguerra a Terni alcuni aspetti o vicende, pur di indubbia rilevanza, vi trovano poco o nessuno spazio – ad esempio un esame più preciso della situazione sociale nei suoi aspetti più drammatici o il serrato confronto politico tra i partiti che precede la partenza di 300 volontari nel ricostituito esercito italiano. Del resto il disegno originario del libro non era quello di ricomporre il quadro della congiuntura postbellica ternana nella complessità dei suoi aspetti. Per questo è augurabile che le pagine che seguiranno siano apprezzate per quello che vogliono essere: un contributo, parziale e circoscritto nelle intenzioni, alla conoscenza della storia del movimento operaio ternano nel secondo dopoguerra. Come considerazione conclusiva, diviene poi importante sottolineare che il riconoscibile orientamento di fondo del presente lavoro trova la sua giustificazione nella convinzione, non isolata, che in campo storiografico – fatte salve l’ampiezza e la serietà della documentazione, e la coerenza dell’impianto metodologico – il confronto deve essere fatto tra interpretazioni che si presentino come tali, onestamente e francamente come tali, che si dichiarino interamente – questa è la sola oggettività possibile – e una volta dichiaratesi chiaramente, onestamente e francamente, si misurino sugli stessi problemi”2.
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Parte prima. La città
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1. Dall’antifascismo alla lotta partigiana: uno sguardo retrospettivo
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Un’analisi che intenda prendere in esame le vicende caratterizzanti la ripresa politica e sindacale del movimento operaio ternano nel secondo dopoguerra deve necessariamente prendere le mosse dal ruolo svolto dalle forze politiche antifasciste nella lotta contro la dittatura. Ciò appare particolarmente necessario per spiegare quello che a Terni fu uno degli aspetti caratterizzanti la congiuntura politica postbellica, e cioè “la supremazia delle forze politiche operaie, e in primo luogo del PCI, nel CLN e in generale nella vita politica cittadina”3. La ragione va infatti ricercata, principalmente, nel fatto che la lotta antifascista, prima, e quella partigiana, poi, avevano assunto in provincia di Terni una precisa connotazione di classe. Pertanto una forte autorità morale, oltre che politica, era derivata a quelle forze interne alla classe operaia che, se pure numericamente ristrette negli anni di maggior vigore del regime, avevano assolto la loro costante attività cospirativa, l’importante funzione di non far perdere ai lavoratori la memoria storica del proprio passato e delle proprie tradizioni di lotta. L’antifascismo militante Per quanto riguarda la presenza attiva dei partiti dell’opposizione del ventennio fascista, la situazione a Terni si era delineata con molta chiarezza già alla fine del 1925. Il seguente brano tratto da un rapporto informativo che la Federazione Provinciale Umbra del PCDI4 inviava nel dicembre del 1925 alla direzione del partito serve a riassumerla efficacemente: Degli altri partiti non vi è traccia alcuna. Nessuna attività nel senso vero della parola. Solo in questo ultimi giorni si è notato un certo movimento fra i massimalisti del Ternano contro e manovre di Nenni. Specie gli operai si sono dimostrati contro e diversi di loro hanno espresso il parere che è meglio andare coi comunisti [...]. Delle forze dell’Aventino, non numerose in Umbria, è avvenuta una fuga generale. Ciascuno ha ripreso la sua strada... nel non far niente5.
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Cfr. L’Umbria. Manuali per il territorio. Terni, vol. 2, Terni 1981, p. 706. Essendovi, ancora nel 1925, in Umbria una sola provincia – Perugia –, il PCDI, di conseguenza, aveva un’unica federazione comprendente tutto il territorio regionale Terni divenne capoluogo di provincia nel 1927, quando ormai il partito era illegale. Cfr. la lettera dell’esecutivo federale umbro alla direzione del PCDI datata 28 dicembre 1925, in ACS, MI, DGPS, AGR 1925, b. 137, fasc. “Perugia-Partito Comunista”. Il riferimento nel rapporto alle “manovre” di Nenni è relativo ai tentativi operati dal leader socialista per ridare vitalità al PSI, in un suo momento difficile, attraverso la riunificazione con i riformisti e l’adesione alla Seconda Internazionale. Tale operazione incontrò la decisa resistenza della direzione dei partito e della base massimalista. Su questo cfr. P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Da Bordiga a Gramsci, vol. 1, Torino 1978, p. 466; cfr. inoltre G. Arfè, Storia del socialismo italiano, Milano 1977, p. 251.
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Cfr. M. Ilardi, Ristrutturazione aziendale e classe operaia sotto il fascismo: la Società Terni (1928-1932), in “Il movimento di liberazione in Italia”, n. 112, luglio-settembre 1973, fasc. 3. Più in generale sull’andamento dell’economia italiana nel periodo fascista cfr., tra gli altri P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Torino 1945, P. Sylos Labini, La politica economica del fascismo e la crisi del ‘29, in “Nord e Sud”, 1965 n. 70, V. Castronovo, La storia economica, in Storia d’Italia, vol. 4, Dall’unita ad oggi, t. I, Torino 1975, L’economia italiana nel periodo fascista, a cura di P. Ciocca e G. Toniolo, Bologna 1976. L’iniziativa presa autonomamente dall’organizzazione comunista ternana assume peraltro un particolare interesse se rapportata al fatto che, nello stesso periodo di tempo, il gruppo dirigente del PCDI stava invece dando all’insieme dell’organizzazione un orientamento politico diametralmente opposto. In un imposto allineamento con le conclusioni dei lavori del X Plenum del Komintern, il Partito Comunista giungeva infatti ad accettare, tra l’altro, la tesi sulla fascistizzazione della socialdemocrazia e delle opposizioni democratiche. Sulla “svolta” del 1929-30 cfr. L’Italia antifascista dal 1922. La lotta dei protagonisti, a cura di S. Colarizi, vol. I, Bari 1976, pp. 39 sgg.; P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Gli anni della clandestinità, vol. II, Torino 1978, pp. 210 sgg.; F. Sbarberi, I comunisti italiani e lo Stato 1929-1956, Milano 1980, pp. 17-51. Sull’intera vicenda cfr. A. Filipponi, Memorie della lotta partigiana, s.l., s.d., dattiloscritto, pp. 46 sgg. Le memorie di Alfredo Filipponi sono in corso di pubblicazione a cura dell’Istituto per la Storia dell’Umbria dal Risorgimento alla Liberazione. Il dattiloscritto è conservato presso l’archivio storico della sezione provinciale ternana dell’ANPI. A tale proposito è importante ricordare che diversi militanti operai socialisti, stanchi della passività dimostrata dalla loro organizzazione, decisero nel 1931 di passare al Partito Comunista. E, come militanti di questa organizzazione, alcuni di essi – ad esempio Giuseppe Bolli e Vincenzo Inches – svolsero in seguito un ruolo di primo piano non soltanto nella lotta antifascista, ma anche nelle vicende politiche del secondo dopoguerra. Su Giuseppe Bolli si veda ACS, MI, DGPS, CPC, b. 700; su Vincenzo Inches oltre a ACS, CPC, b. 2632, si veda V. Inches, Autobiografia, Terni 1954, dattiloscritto. Il dattiloscritto è conservato presso l’archivio storico della sezione provinciale ternana dell’ANPI.
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Questo stato di cose non mutò in seguito. Un’episodica inversione di tendenza si verificò soltanto nel 1929, allorché si produsse un sensibile peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della massa operaia a seguito delle scelte politiche ed economiche operate dal regime e dagli industriali per fronteggiare la grave crisi dell’economia6. La possibilità di approfittare del forte malcontento presente tra i lavoratori indusse infatti l’organizzazione clandestina comunista a tentare di organizzare in un fronte comune quanto restava delle forze politiche antifasciste allo scopo di fare opera di agitazione nelle fabbriche ternane. L’operazione del Partito Comunista riuscì e venne pertanto formato un fronte comune in cui erano presenti – oltre ai comunisti – alcuni esponenti socialisti, anarchici e repubblicani7. Tuttavia l’attività di questo organismo clandestino fu ristretta ad un’opera di sensibilizzazione politica antifascista – peraltro limitata nel tempo – tra le masse operaie. L’azione del fronte infatti andò incontro ad un progressivo e spontaneo esaurimento. Da questa esperienza comunque si evidenziò che ormai soltanto il Partito Comunista riusciva a mantenere una – sia pure ristretta – base organizzativa8. Ed infatti, dopo il 1929, l’organizzazione comunista continuò quasi esclusivamente da sola, anche se in maniera discontinua, a creare e mantenere viva – là dove resisteva – un’opposizione interna al regime9. Preoccupazione costante degli esponenti del Partito Comunista ternano fu, soprattutto, quella di mantenere in piedi una solida rete organizzativa clandestina
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in città e nelle fabbriche. Così nel 1932, l’organizzazione clandestina poteva ancora contare su un considerevole numero di aderenti (circa 200)10. Tra le iniziative antifasciste promosse dal Partito Comunista vanno segnalate tre grosse diffusioni di stampa e materiale “sovversivo”, rispettivamente, nell’aprile 1932, nell’agosto 1936 e nel maggio 193911. Ciascuna di queste azioni fu però sempre seguita da una dura repressione della polizia fascista con arresti, processi di fronte al Tribunale Speciale, carcere e confino12. Soltanto la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, con il vasto risveglio politico che produsse in tutto il paese, permise il ritorno anche a Terni di un’attività politica condotta su basi unitarie da più partiti. Infatti, nonostante il divieto decretato dal nuovo capo del governo, Badoglio, di ricostituire i partiti politici per tutto il periodo bellico, fecero la loro ricomparsa sulla scena politica cittadina, insieme all’organizzazione clandestina comunista che usciva allo scoperto, alcuni dei dirigenti e dei militanti delle organizzazioni tradizionali della classe operaia ternana nel periodo prefascista – socialisti e repubblicani. Essi pertanto si posero subito come polo di aggregazione per ciò che restava della loro tradizione politica13. Tra i rappresentanti di questi diversi orientamenti politici si cominciarono perciò a stringere i primi contatti per agire in maniera unitaria al fine di porre con maggior forza una serie di importanti richieste di libertà politica e sindacale alle autorità governative, tra cui, ad esempio, quella di democratizzare la vita di fabbrica attraverso il ripristino degli organi rappresentativi dei lavoratori soppressi dal fascismo nel 1925. In seguito, dopo l’8 settembre, gli esponenti comunisti, socialisti e repubblicani si costituirono in Comitato delle Opposizioni e, prevedendosi ormai imminente l’occupazione della città da parte dei tedeschi, inviarono una delegazione del comita-
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Cfr. P. Secchia, L’azione svolta dal Partito Comunista d’Italia contro il fascismo 1926-1932. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Annali Feltrinelli 1969, Milano 1969, pp. 467-477; cfr. inoltre L’Umbria. Manuali cit. (a nota 3), vol. 2, p. 704. Su queste vicende dell’antifascismo comunista ternano cfr. Comitato di Liberazione Nazionale di Terni, Le tappe della Resistenza, Terni 1955; Contributo dell’antifascismo nel Ternano 1921-1943, a cura di R. Righetti e B. Zenoni, Terni 1976. Nella provincia di Terni si ebbero complessivamente 95 assegnazioni al confino. I provvedimenti di assegnazione vennero emessi nei seguenti anni: 1926: 6; 1928: 2; 1931:1; 1932: 21; 1933:2; 1934:5; 1936: 19; 1937: 3; 1938: 4; 1939: 2; 1940: 4; 1941: 6; 1942: 12; 1943: 10. I confinati, secondo la qualifica politica presente nei provvedimenti di assegnazione, erano: 51 comunisti, 14 antifascisti, 6 apolitici, 5 anarchici, 6 socialisti, 3 disfattisti, 2 sovversivi, 1 socialcomunista. Per 7 assegnati non era invece menzionata la qualifica politica. Cfr. a tale proposito A. Dal Pont e S. Carolini, L’Italia al confino. Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, vol. III, Milano 1983, pp. 1221, 1222, 1224 e 1234-1244. Nella provincia di Terni anche il numero dei processati per antifascismo dal 1927 al 1943 fu elevato. Essi furono in totale 92. Su questo cfr. A. Dal Pont e S. Carolini, L’Italia dissidente e antifascista. Le ordinanze, le sentenze in Camera di Consiglio emesse dal Tribunale Speciale Fascista contro gli imputati di antifascismo dall’anno 1927 al 1943, 3 voll., Milano 1980. Cfr. G. Scaramucci, Come fu impostata e come si sviluppò la lotta partigiana nella provincia di Terni: settembre 1943 - giugno 1944, in L’Umbria nella Resistenza, a cura di S. Bovini, vol. I, Roma 1972, p. 204.
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All’indomani mattina, 10 settembre, la commissione andò a conferire col generale; essa era composta da Vincenzo Inches per i comunisti, Urbinati per i socialisti e da un repubblicano. Il generale ossequioso ringraziò per lo slancio patriottico della classe operaia e dichiarò che si sarebbe comunque opposto all’ingresso dei tedeschi a Terni. Quando però la commissione gli chiese di armare gli operai e la popolazione, disse che ciò non era possibile, intanto perché le armi non le aveva, e poi se le avesse avute non avrebbe potuto darle senza ordini dall’alto. La commissione gli fece osservare che gli ordini dall’alto non sarebbero più venuti perché a Roma già si combatteva a porta San Paolo, che era giunto il momento di cominciare dal basso. il generale non volle, disse che caso mai la massa operaia l’avrebbe adoperata per servirsi di pattuglia e altre attività, che in caso di bisogno si sarebbe rivolto senz’altro alla commissione. Comprendemmo che quel generale non avrebbe fatto nulla contro i tedeschi, sarebbe scappato e difatti il fellone scappò. Stilammo un appello alla popolazione ed all’esercito sottolineando la gravità del momento e la necessità di essere uniti, soldati e popolo, nella lotta contro il tedesco per la resurrezione del paese, per porre fine alla guerra, ecc. Invitammo i soldati a conservare le armi e i cittadini ad armarsi. La tipografia dei fratelli Lezzi, l’unica che funzionava a Terni, ne stampò 1.500 copie che furono immediatamente diffuse. Si dispose l’immediata costituzione del primo nucleo permanente di quello che sarà poi il CLN. Ne fecero parte Vincenzo Inches per i comunisti, Urbinati e l’avv. Pellegrini per i socialisti, il compagno Lippi per i repubblicani. Solo dopo qualche mese si farà avanti per i democristiani l’amico Poliuto (Chiappini). [...] Il giorno Il settembre alle 16,30 i tedeschi entrarono a Terni dalla parte della stazione, poterono agevolmente disarmare, senza colpo ferire, le forze armate della città. I soldati, i carabinieri, la finanza, l’antiaerea, lasciati in balia di se stessi, gettarono le armi e se ne tornarono alle loro case15.
Nel frattempo, a livello nazionale, si doveva registrare un fatto nuovo, di decisiva importanza per la futura attività unitaria delle forze antifasciste. A Roma il 9 settembre da parte di tutti i partiti dell’opposizione, tranne il repubblicano – e cioè PCI, PSIUP, DC PDA, DDL e PLI – era stato costituito il Comitato di Liberazione 14
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Su Gino Scaramucci cfr. P. Secchia, Il Partito Comunista Italiano e la guerra di liberazione 1943-1945, Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Annali Feltrinelli 1971, Milano 1973, ad indicem. Cfr. il rapporto dalla provincia di Terni (settembre 1943-giugno 1944) di Gino Scaramucci in Secchia, Il Partito Comunista Italiano cit. (a nota 14), p. 292.
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to – composta da un rappresentante per ciascuna delle tre forze politiche – presso il generale comandante della piazza per chiedere che venissero armati i lavoratori disposti a partecipare alla difesa della città e delle fabbriche insieme alle forze regolari dell’esercito. Ma, come era prevedibile, la richiesta degli antifascisti ternani ricevette da parte dell’autorità militare un netto rifiuto. Gino Scaramucci14, funzionario del PCI giunto a Terni da appena un giorno per organizzarvi la lotta armata, così ricordava in un suo rapporto al centro il comportamento tenuto dal generale comandante nei confronti della delegazione e gli avvenimenti successivi:
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Nazionale. Questo nuovo organismo come suo primo atto lanciò un proclama agli italiani residenti nei territori occupati invitandoli alla lotta e alla resistenza”16. In seguito a ciò in tutto il paese i comitati unitari antifascisti che erano sorti in maniera più o meno spontanea si trasformarono – anche se incompleti nella loro rappresentanza politica – in espressioni periferiche del CLN centrale. Una simile prassi – come già anticipato dal rapporto di Scaramucci – venne seguita anche a Terni. Pertanto il CLN provinciale venne inizialmente composto soltanto dai rappresentanti delle tre forze politiche presenti in quel momento in città: PCI, PSIUP e PRI. Ad esse soltanto in un secondo tempo si aggiunse il rappresentante democristiano. Del resto l’adesione degli esponenti antifascisti non comunisti avveniva per lo più sulla base della disponibilità individuale. Essi non agivano infatti sulla base di uno stretto collegamento con le rispettive organizzazioni e direzioni nazionali. Ne è dimostrazione inequivocabile il fatto che il rappresentante repubblicano aveva accettato di far parte del Comitato di Liberazione Provinciale, nonostante che il PRI, a livello nazionale, per non essere costretto a collaborare con la monarchia, avesse rifiutato la propria adesione al CLN. In questa prima fase il Partito Comunista, che pure vedeva affidata al suo rappresentante la presidenza del comitato, preferì impegnarsi nell’organismo unitario con un solo dirigente, per utilizzare, invece, il discreto numero di quadri che aveva a disposizione in compiti organizzativi propri e, soprattutto, nell’organizzazione militare della resistenza17. Era implicita in questa scelta la sfiducia, non infondata, che da parte comunista si nutriva intorno alle possibilità di funzionamento collegiale dell’organismo unitario antifascista. Ed infatti gli avvenimenti successivi si incaricarono di dimostrare l’inconsistenza politica del CLN ternano. I comunisti vennero lasciati sempre soli nella conduzione della lotta armata. I rappresentanti delle altre forze politiche, che all’interno dell’organismo unitario avevano tra i loro compiti quello di provvedere alle necessità logistiche delle formazioni partigiane, non mantennero fede al loro impegno. Infatti i membri non comunisti del CLN, a causa dell’aumentata pericolosità della situazione cittadina in cui si intensificavano bombardamenti e rastrellamenti delle SS, “credettero bene appartarsi da un’attività concreta”. Cosicché per un lungo periodo non fu possibile nemmeno tenere alcuna riunione dell’organismo unitario18. Un ristabilimento dei rapporti tra i diversi esponenti antifascisti e la conseguente ricostituzione del CLN provinciale si ebbe, in seguito ad una pressante sollecitazione comunista, agli inizi del nuovo anno. Ma l’avvio di una attività collegiale dell’organismo fu ancora una volta più formale che sostanziale, dato che il contri16
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Il comunicato del Comitato di Liberazione Nazionale è riportato in G. Mammarella, L’Italia dalla caduta del fascismo ad oggi, Bologna 1978, p. 61. Cfr. il rapporto citato di Gino Scaramucci in Secchia, Il Partito Comunista Italiano cit. (a nota 14), pp. 292293. La relazione sulla situazione politica e militare in provincia di Terni del 1 febbraio 1944, da cui è tratta la citazione, è in Secchia, Il Partito Comunista Italiano cit. (a nota 14), p. 285.
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buto offerto da socialisti, repubblicani e democristiani si limitò per lo più ad “un aiuto finanziario e non altro”19. Alla fine di marzo poi il CLN provinciale risultava di nuovo dissolto. In una relazione inviata al centro il 26 marzo 1944 l’organizzazione comunista ternana denunciava in questi termini la situazione:
Nei mesi seguenti, permanendo questo stato di cose, la sopravvivenza del CLN ternano venne garantita – e fu questa di certo una maniera singolare – dai soli rappresentanti comunisti. La ricostituzione del comitato con la presenza al suo interno di più forze politiche e, di conseguenza, l’inizio di una sua concreta attività collegiale avvenne soltanto nei giorni immediatamente successivi alla liberazione della città21. La lotta partigiana Le prime bande di partigiani che si formarono nella zona di Terni furono quasi esclusivamente costituite da antifascisti comunisti – per lo più operai. Questi primi nuclei di combattenti scelsero come teatro delle proprie operazioni le zone montane comprese tra la Valnerina e il Reatino. Qui entrarono in contatto con numerosi prigionieri politici slavi evasi dai campi di concentramento, i quali già possedevano una ricca esperienza di lotta armata. Indubbiamente questo incontro risultò decisivo per il futuro sviluppo del movimento di liberazione ternano22. Infatti alla fine del 1943 la consistenza delle forze partigiane – che avevano allargato la propria base sociale, in gran parte operaia, anche a contadini, giovani e militari sbandati – raggiunse livelli ragguardevoli. Ciò permise di costituire la brigata garibaldina “Antonio Gramsci”, il cui apparato direttivo fu quasi esclusivamente composto da una parte dell’originario gruppo di partigiani comunisti23. 19 20
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Ibidem. Cfr. il rapporto, datato 26 marzo 1944, sulla situazione politica e militare a Terni nel bimestre febbraio-marzo 1944 in APC, DN, fasc. 7-3-3 N. Sulla considerevole attività svolta dal CLN provinciale ternano nell’immediato dopoguerra oltre a quanto si dirà in seguito cfr. il diverso materiale contenuto in ACS, CCLN, b. 10, fasc. 145. Cfr. R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana (8 settembre-25 aprile 1945), Torino 1953, p. 146. Il comando della brigata “Gramsci” era così composto: Svetozar Lakovic (Toso), comandante, prigioniero politico slavo, comunista; Alfredo Filipponi (Pasquale), commissario politico successivamente subentrato
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Per il comitato di FLN ci troviamo sempre nelle stesse condizioni. Il nostro rappresentante aveva indetta una convocazione con quello socialista e cristiano sociale (essendo il repubblicano passato alle nostre file e non avendo avuto nessuna possibilità di rintracciare qualche altro per la sua sostituzione, come pure per l’assenza di altri organismi politici) convocazione che non si è potuta effettuare per la persistente assenza dei cristiani sociali. Uno dei punti da discutere in questa riunione era la nomina di un comitato della giunta militare per la provincia. Il rappresentante socialista ha dichiarato per conto del suo partito di non avere nessuna persona da proporci e dava al nostro partito l’autorizzazione di creare la giunta militare con quegli elementi, che il nostro partito credeva più opportuni20.
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La brigata “Gramsci” nei primi mesi del 1944 – periodo di sua massima espansione – arrivò ad avere un organico di circa 1.000 uomini. In questa fase tra i più importanti risultati da essa raggiunti vi fu la creazione di una delle prime “zone libere” dell’Italia centrale – un vasto territorio di circa mille km. quadrati compreso tra i comuni di Leonessa e di San Pancrazio24. Con il seguente proclama del 16 marzo 1944 il comando della brigata annunciava alle popolazioni la costituzione della “zona libera” e ne delimitava l’estensione:
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Con la liberazione di Leonessa, Poggio Bustone, Albaneto e le rispettive frazioni la Brigata Garibaldina Antonio Gramsci ha liberato circa 1.000 km quadrati di territorio. Migliaia e migliaia di lavoratori sono stati liberati dalla schiavitù nazifascista. Questo Comando mentre invita i cittadini a collaborare con i partigiani per le necessità delle popolazioni locali, rende noto che da oggi 16 marzo 1944 il territorio di Leonessa e di San Pancrazio (Narni) con i limiti: Rivodutri, Poggio Bustone, Albaneto, Castiglioni di Arrone, è considerato staccato da Rieti, Terni e Perugia, città dominate ancora dai nazifascisti, ed è unito al territorio di Cascia, Norcia e Monteleone. Per conseguenza la brigata garibaldina A. Gramsci, unica autorità esistente in detto territorio che degnamente rappresenta la nuova Italia democratica, assume la responsabilità di fronte ai cittadini, militarmente, politicamente, e amministrativamente25.
L’esperienza di questa “zona libera” fu però breve. Essa venne stroncata da due divisioni motorizzate tedesche nei primi giorni di aprile con un rastrellamento a largo raggio. Lo storico Roberto Battaglia – che peraltro combatté nelle formazioni partigiane umbre26 – così ha descritto questo drammatico avvenimento: il tedesco allarmato dalle voci d’una “strapotenza” militare dei partigiani (ritiene infatti che quest’ultimi siano dotati d’artiglieria e abbiano persino, ben occultati, campi d’aviazione!) impiega ben due divisioni sommergendo tutta la regione con i suoi armati, frugan-
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come comandante, tranviere, comunista; Vasco Gigli (Ernesto), vice comandante, operaio, comunista; Egisto Bartolucci (Raffaele), vice commissario politico, operaio, comunista; Riziero Rossi (Francesco), intendente, operaio, comunista, Aroldo Procoli (Silla), vice intendente, impiegato, comunista; Bruno Zenoni (Paolo), vice intendente, artigiano, comunista; Bogdan Pesic (Boro), ispettore dei battaglioni, prigioniero politico slavo, comunista; Ivica Kobec (Giovanni), ispettore dei battaglioni, prigioniero politico slavo, comunista; Dante Bartolini (Tito), aiutante di campo, operaio, comunista; Alcuni dei quadri dirigenti dei battaglioni erano: Armando Fossatelli (Gim), comandante, operaio, comunista; Elbano Renzi (Peppe), comandante, operaio, comunista; Antonio Bonanni (Luigino), comandante, operaio, comunista; Guglielmo Vannozzi (Anselmo), comandante, minatore, comunista; Vero Zagaglioni (Francesco), commissario politico, operaio, comunista; Saturno Di Giuli (Miro), commissario politico, operaio, comunista. Cfr. L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 13), vol. I, pp. 201 sgg. Sulla vicenda della “zona libera” oltre alle diverse relazioni contenute in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 13), vol. I, cfr. Consulta per le Celebrazioni del Trentennale della Liberazione, La zona “libera” di Norcia e Cascia. Atti della tavola rotonda organizzata a Norcia e Cascia l’11-12 ottobre 1975 con il concorso della Regione Umbria, Perugia 1975, dattiloscritto. Il proclama è conservato presso l’archivio storico della sezione provinciale ternana dell’ANPI. Sull’attività partigiana di Roberto Battaglia si veda la voce curata da P. Se. (Pietro Secchia) in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. I, Milano-Roma 1968, pp. 261-262. Si veda inoltre R. Battaglia, Un uomo, un partigiano, Roma-Firenze-Milano 1945.
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Tuttavia, nonostante la durezza della repressione subita la “Gramsci” poté presentarsi alla Liberazione con un bilancio conclusivo tale da renderla “la formazione più attiva e persistente nella lotta forse di tutta l’Italia centrale” – perdite subite: 165 caduti, 0 feriti, 7 dispersi; perdite inflitte: 202 tedeschi uccisi, 104 fascisti uccisi, 95 prigionieri; scontri sostenuti: 10528. È infatti indubbio che l’alto grado di sviluppo raggiunto dalla formazione partigiana umbra, l’ampiezza e l’intensità delle operazioni militari da essa attuate29, la forte presenza operaia alla sua base, resero la brigata “Gramsci” un’eccezione rispetto alla situazione normale, di debolezza e di discontinuità, che caratterizzò il movimento di liberazione di tutta l’Italia centrale30. Nonostante ciò, la “Gramsci” condivise la maggiore deficienza della lotta partigiana nelle regioni dell’Italia centro-meridionale31, e cioè quella di
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Cfr. Battaglia, Storia della Resistenza italiana cit. (a nota 22), p. 262. Ivi, p. 238. Per un elenco completo e dettagliato delle operazioni militari compiute dalla brigata “Gramsci” cfr. L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 13), vol. I, pp. 238-249. Nell’esaminare la diversa situazione politica e sociale in cui si trovava nel 1944 l’Italia centrale rispetto a quella settentrionale Roberto Battaglia ha scritto: “La differenza comincia ad avvertirsi nel basso, nella costituzione e nelle vicende delle formazioni armate: non c’è il fermento, la situazione intricata e ribollente del Nord, che pure prelude a un decisivo slancio in avanti, ma piuttosto un soffermarsi sulle posizioni raggiunte nella prima fase ribellistica, un permanere di piccoli gruppi mal collegati fra loro e lontani dal risentire l’efficacia di un impulso unitario. Ci sono alcuni reparti politici che hanno una più solida struttura, gravitanti quasi tutti nell’orbita del Partito Comunista (come ad esempio la brigata “Gramsci” in Umbria) ma la situazione non è caratterizzata da essi, ma piuttosto dalle formazioni cosiddette indipendenti, la cui efficienza è basata esclusivamente sulla qualità dei comandanti e la cui azione non si estende al di là del breve cerchio del territorio controllato. Non è certo l’ardimento o la volontà di combattere che distinguono queste formazioni da quelle del Nord (particolarmente in Abruzzo, esse danno prova d’un vigoroso spirito combattivo); né sono soltanto i dati del terreno sufficienti a spiegare questo ristagno del movimento partigiano in Italia centrale, la mancanza delle solide basi alpine da cui partire per un’attività offensiva a largo lancio. Il dato fondamentale è lo scarso ricambio di uomini e di quadri: manca la classe operaia del Nord che ponga a disposizione le sue energie, manca quel continuo afflusso di giovani indirizzati verso la montagna dai CLN cittadini”. Cfr. Battaglia, Storia della Resistenza italiana cit. (a nota 22), p. 224. È particolarmente arduo riuscire a delineare le caratteristiche proprie del movimento di liberazione umbro. A tale proposito Celso Ghini – ispettore delle brigate “Garibaldi” per il Lazio, l’Umbria e le Marche – ha acutamente osservato: “I partigiani hanno operato in Umbria in tutta la regione, con varia intensità da luogo a luogo. La città di Perugia e gli altri principali centri urbani sono stati centri di organizzazione e di azione politica, ma punti relativamente morti dell’azione di resistenza armata. È un aspetto della resistenza umbra questo che deve essere approfondito per individuarne le cause. In Umbria non esiste un centro che serva da
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do in ogni piega del terreno. Lo seguono, imbaldanziti, i suoi informatori fascisti. Trova un’accanita resistenza nel Reatino (battaglia di Cepparo: 80 perdite tedesche) poi dilaga dovunque infierendo, in mancanza della preda partigiana, sulle popolazioni inermi (23 ostaggi fucilati a Leonessa, numerosi altri a Cascia donde è deportata la popolazione civile ecc.). Dieci giorni dura il rastrellamento e al termine di esso tutte le fila dell’organizzazione partigiana sono sconvolte e spezzate: solo la brigata “Gramsci” ha 54 caduti e 10 feriti, braccati per le montagne sono gli organizzatori del movimento. [...] Dal duro colpo ricevuto la Resistenza umbra comincerà a rimettersi solo alla vigilia della Liberazione, prostrata dalle troppe perdite fra la popolazione civile sgomenta: il primo esperimento di “zona libera” è stato pagato ben caro27.
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non essere avanguardia di un movimento di massa. Infatti essa non fu in grado di stimolare tra le popolazioni del territorio in cui operò una partecipazione attiva e pienamente consapevole32. Per gran parte ciò fu, senza dubbio, causa dell’arretratezza politica in cui si trovavano le masse contadine della montagna, prive come erano non solo di qualsiasi esperienza di lotta antifascista, ma anche di una tradizione di lotte sociali e politiche avanzate33. Alla brigata “Gramsci” non fu nemmeno possibile mantenere e sviluppare un collegamento di azione con la classe operaia ternana, dalle cui fila peraltro provenivano buona parte dei suoi quadri e dei suoi combattenti. Dall’11 agosto 1943, giorno in cui Terni subì il primo bombardamento, al momento della Liberazione 108 incursioni aeree – almeno secondo le stime ufficiali34 – avevano avuto come obiettivo la città, demolendo un terzo delle sue abitazioni e lesionandone altrettante. A causa di ciò gran parte della popolazione aveva cominciato, sin dall’estate del 1943, ad abbandonare il territorio cittadino ed il posto di lavoro in fabbrica. Lo sfollamento divenne poi pressoché totale nei giorni immediatamente precedenti la Liberazione. Pertanto questa dispersione della massa operaia urbana nei diversi centri minori della provincia fu la ragione principale che rese impossibile l’organizzazione di forme di lotta coordinate tra lavoratori e partigiani.
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polo di attrazione per tutta la regione. I rapporti tra città quali Orvieto, Città di Castello, Gubbio, Foligno, Spoleto e molte altre ancora con i rispettivi capoluoghi di provincia sono essenzialmente di natura amministrativa. Dal punto di vista dell’economia, del mercato, delle comunicazioni, della cultura queste città hanno una propria tradizione, una propria fisionomia, una propria autonomia e talvolta gravitano verso le province viciniori di Siena, Arezzo, Pesaro e i centri più lontani di Roma e Firenze. Anche la resistenza in generale e la lotta armata dei partigiani in particolare hanno risentito di questa tendenza centrifuga rispetto al capoluogo della regione. Il movimento partigiano nasce e si sviluppa per zone: Orvietano con qualche collegamento con il Senese; bacini del Nera e del Velino con collegamenti con il Reatino e il Maceratese; Nocera Umbra, Gualdo Tadino, Gubbio con collegamenti con l’Anconetano, il Pesarese e ancora il Maceratese; l’Alta Valle del Tevere con collegamenti con l’Aretino; il Castiglionese e la sponda nord-occidentale del Trasimeno e no con collegamenti con il Senese e l’Aretino e così via. Vi era poi il settore dei Monti Martani collegato con Foligno, Spoleto, Todi e Terni e la fascia della Centrale Umbra. Il processo di unificazione della direzione politico-militare della resistenza umbra fu perciò lento e difficile, e non giunse mai a compimento sul piano operativo. In conseguenza di ciò anche lo studio della resistenza deve necessariamente assumere un carattere settoriale”. Cfr. C. Ghini, La resistenza in Umbria, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 13), vol. I, p. 23. Cfr. R. Rossi, Introduzione, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 13), vol. I, p. 13. Ibidem. Indicativo a tale proposito il rapporto che si stabilì tra forze partigiane e popolazione nella breve esperienza della “zona libera”. Se infatti bisogna riconoscere che in questa occasione, forse per immaturità politica, da parte del comando militare partigiano non si fece nulla per chiamare le popolazioni all’“autogoverno” – i comitati di liberazione nazionale e le giunte popolari vennero infatti insediate dal comando di brigata – , è altrettanto necessario constatare innanzitutto che da parte delle popolazioni mancò un deciso inserimento nella guerra di liberazione ed inoltre che i partigiani erano certamente visti con simpatia, ma “come un reparto dell’esercito italiano che si sia insediato nei tanti centri remoti della montagna”. Cfr. Battaglia, Storia della Resistenza italiana cit. (a nota 22), p. 260. Più in generale sulla diversa organizzazione politica e militare delle “zone libere” dell’Italia settentrionale rispetto a quelle dell’Italia centrale cfr. ivi, pp. 395-403. Cfr. il decreto del presidente della Repubblica del 13 gennaio 1960 con cui si conferisce la medaglia d’argento al valore civile alla città di Terni, riportato in “Terni. Rassegna del Comune e bollettino di statistica”, a. IL, n. 1-2, gennaio-aprile 1960, fuori testo.
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Comunque questo mancato collegamento della gran parte della classe operaia ternana con il movimento di liberazione se non costituì una remora per il futuro orientamento antifascista della massa lavoratrice, non mancò di influenzarne i comportamenti soggettivi. All’indomani della Liberazione, soltanto la parte più avanzata e consapevole della classe operaia, che aveva partecipato alla lotta di liberazione, mostrò di avere acquisito una compiuta coscienza politica. Infatti il resto della massa operaia nella prima fase del dopoguerra, pur dimostrando la più larga disponibilità a dar vita a forme di lotta che assumevano una precisa valenza anticapitalistica, tese per lo più a limitare il proprio impegno ai luoghi di produzione, mostrando di non avere piena consapevolezza della necessità della conquista politica graduale e, soprattutto, della necessità delle mediazioni politiche, che una difficile congiuntura come quella del dopoguerra, rendeva spesso inevitabili35.
Dopo aver sostenuto aspri combattimenti con reparti delle forze tedesche in ritirata a Salto del Cieco e a Valle Piana di Arrone, alcuni raggruppamenti della brigata “Gramsci” entrarono a Terni il 13 giugno 1944, precedendo di qualche ora l’arrivo delle truppe alleate36. Ciò che si trovarono di fronte era una città devastata dai bombardamenti37. I giorni che avevano preceduto la Liberazione erano stati per Terni veramente drammatici. A partire dal 4 giugno la città era stata l’obiettivo di una lunga serie di incursioni aeree che avevano aggiunto macerie alle macerie38. Un esauriente quadro del caos e del panico regnante in città nei giorni che precedettero la Liberazione ce lo offre l’ultimo rapporto del prefetto repubblichino, Ortalli, al ministro dell’Interno: La situazione politico militare della provincia di Terni è precipitata con la caduta di Roma. Il nemico iniziava nella notte tra domenica e lunedì (4-5 giugno) una serie ininterrotta di massicci bombardamenti aerei, tanto sulla città di Terni quanto su altre zone della provincia; torme di soldati tedeschi sbandati, provenienti dal fronte, già da lunedì iniziavano il loro transito per la provincia, abbandonandosi a furti, razzie, depredamenti. La popolazione, sotto lo spettro dell’invasione, tormentata dal parossismo dei bombardamenti aerei, terrorizzata per la presenza dei soldati tedeschi sbandati, già aveva iniziato
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Su questo cfr. G. Canali, Il movimento operaio a Terni dalla Liberazione alla Costituente, tesi di laurea, Università degli Studi di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia, aa. 1982-1983, pp. 146 sgg. Cfr. Battaglia, Storia della Resistenza italiana cit. (a nota 22), pp. 326 sgg.; P. Secchia e F. Frassati, Storia della Resistenza. La guerra di liberazione in Italia 1943-1945, vol. II, Roma 1965, p. 639. “Quando entrammo a Terni la popolazione – appena qualche migliaio di persone, credo – era tutta nei rifugi. La città era fumante, una maceria fumante”. Testimonianza resa ad Alessandro Portelli il 12 maggio 1979 da Ambrogio Filipponi (n. 1930, partigiano, dirigente dei movimento cooperativo). Cfr. L. Fornaci, Dieci giorni di bombardamenti a Terni nel diario di un ufficiale medico, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 13), vol. I, pp. 352-265.
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2. Liberazione e riorganizzazione della vita cittadina. Il ruolo del CLN
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nella notte tra domenica e lunedì (4-5 giugno) l’esodo verso le campagne e le montagne. Nella notte tra il lunedì e il martedì (5-6 giugno) si dissolvevano quasi completamente le forze della polizia repubblicana e della Guardia Nazionale Repubblicana. Di fronte alla assoluta carenza di tutela dell’ordine pubblico (per imprevedute esigenze erano venute a mancare anche gli elementi della locale Feldgendarmeria) la città di Terni ed altri centri della provincia erano ormai alla mercé degli sbandati tedeschi e di torbidi elementi locali. Nel pomeriggio di martedì (6 giugno), tanto il Comando Militare Provinciale quanto il Comando Provinciale della Guardia Nazionale Repubblicana, ricevevano l’ordine di ripiegare immediatamente sui rispettivi Comandi regionali posti in Perugia, L’assoluta mancanza di notizie e di informazioni aumentava lo stato di psicosi della popolazione, che nella giornata di martedì (6 giugno) completava il suo esodo verso località decentrate, ritenute meno soggette alle immediate conseguenze dell’invasione. Nel frattempo il Comando tedesco dava disposizioni perché la popolazione civile non sostasse all’aperto, sulle strade, sulle piazze, mentre ufficiali e soldati tedeschi che, pur frammischiati agli sbandati devo ritenere autorizzati, propinavano alla popolazione le notizie più catastrofiche sull’andamento delle operazioni e svolgevano opera di persuasione ad abbandonare i centri abitati per le montagne, nell’intento indubbio di avere libere e sgombre tutte le vie di transito. Interrotte tutte le comunicazioni nell’ambito della provincia potevo ottenere frammentarie informazioni solo a mezzo del Comando di Piazza, il quale però mi confermava come in tutti i centri della provincia la situazione fosse uniforme. Nel pomeriggio di mercoledì (7 giugno) il Comando di Piazza mi comunicava che per ordine superiore fino al giorno 6 la provincia di Terni era stata dichiarata zona di base dell’Armata e che con ciò il potere esecutivo si intendeva trasmesso alle Forze Armate Germaniche. Mi si precisava inoltre che il compito dell’amministrazione civile, in tutto ormai dipendente dalle Forze Armate Germaniche, doveva limitarsi – per quanto ormai possibile – ad appoggiare l’esecuzione delle disposizioni emanate. Il comandante la Piazza, preannunciandomi poi la sua prossima partenza per avere esaurito l’incarico, mi dava conto di una disposizione riservatissima per la quale egli era responsabile della tutela della persona del sottoscritto e del questore e con ciò mi invitava a voler predisporre tutto per la partenza che, secondo il suo desiderio, avrei dovuto effettuare nella serata stessa unitamente all’ufficiale di collegamento del Comando di Piazza che doveva contemporaneamente a me abbandonare la provincia di Terni. Il Comando di Piazza e le altre autorità tedesche ritenevano tanto poco necessario l’azione dell’autorità amministrative nell’ambiente che, malgrado il mio invito, ritennero superfluo conoscere e prendere contatti con il vice prefetto e con gli altri funzionari rimasti in sede. Dopo aver provveduto a tutte le operazioni ritenute necessarie, nella notte tra il 7 e l’8 giugno abbandonavo la provincia di Terni39.
Questa difficile e pericolosa situazione, in cui si trovava la città, non fu comunque di ostacolo alle forze politiche democratiche, che furono invece pronte a raccogliere i poteri così precipitosamente abbandonati dai fascisti. Infatti, contemporaneamente alla fuga del prefetto e del podestà, avvenne l’insediamento, formalmente a nome del CLN provinciale ma in realtà per iniziativa dei collaboratori della brigata “Gramsci”, di un’amministrazione civica provvisoria denominata “Com39
Cfr. il rapporto del prefetto Ortalli – senza data – in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Affari Generali e Personale, Affari collettivi delle prefetture, 1935-1947, b. 5190/Ig.
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Alla notizia della caduta di Roma, i repubblichini scappano a rotta di collo servendosi di tutti i mezzi. Terni resta senza alcuna autorità che provveda alle più elementari necessità di quel migliaio e mezzo di persone restate in città a vivere terrorizzate dentro i rifugi. Saltano le centrali; la pioggia di bombe che cade ininterrotta mette fuori servizio l’acquedotto; la città è senza pane, senza acqua, senza luce. La tragedia più nera si abbatte su Terni. In questo momento i partiti proletari mobilitano i loro uomini per venire in soccorso della popolazione. Un’auto ambulanza della Croce Verde, guidata da Balloriani e con a bordo Cardinali, fa il giro dei paesi limitrofi per mobilitare gli uomini proposti a sostituire i fuggiaschi gerarchi. Faina, Rossi, Lello e Urbinati che sono nei pressi della città. Michiorri e Magrelli che stanno a Stroncone, vengono presto ad aggiungersi a Morelli, che si è installato a palazzo Bianchini a capo della commissione cittadina. Comincia il lavoro; bisogna trovare i viveri che si vanno a requisire un po’ ovunque; bisogna fare il pane, si trovano due fornari: Decio e Galli, i quali per manipolarlo debbono andare a prendere l’acqua al viale Brin; bisogna organizzare una cucina per fare circa 2.100 minestre al giorno, tosto sono assoldati per la bisogna Leone e Mario. Sovraintendente con scrupolo all’operazione di requisizione e di distribuzione il maresciallo Spagna, coadiuvato da Venturini che per l’occasione non dice bugie. Ad aiutare la commissione due soli impiegati comunali: Gerlo e Marchini infaticabili appassionati, tutto moto e tutta serenità; dattilografa la signorina Fabi Tilde, due medici Locci e Fornaci, e molti compagni collaborano nei svariati servizi. La stampa è assicurata dai fratelli Lezzi che stampano a mano: quante tirate di torchio e quanti giri di ruota hanno dovuto spingere Schioppu e Bagonghi!
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Cfr. la relazione inviata il 25 giugno 1944 da Aladino Bibolotti – dirigente del PCI in Umbria al centro in I comunisti umbri. Scritti e documenti (1944-1970), Perugia 1977, pp. 9-18. Su Aladino Bibolotti si veda la voce curata da Tommaso Detti in F. Andreucci e T. Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico (1853-1943), vol. I, Roma 1975, pp. 296-198 e la bibliografia in essa contenuta.
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missione cittadina”. Tale commissione venne formata da alcuni militanti comunisti, tra i quali un ex consigliere comunale del 1920 – allora nelle file del PSI –, Comunardo Morelli, ed ebbe l’adesione di un vecchio militante socialista, Alfredo Urbinati. L’annuncio della ricostituzione di un’amministrazione civica democratica fu quindi dato alle poche persone rimaste in città – circa 1.500 – attraverso l’affissione di un manifesto40. Facilmente intuibili sono i rischi corsi da questi uomini, soprattutto se si considera l’indispensabile opera da essi svolta accorrendo sempre là dove la loro presenza era necessaria – sia per cercare di soddisfare i bisogni di una popolazione affamata, sia per difendere persone e cose dalle rabbiose rappresaglie delle truppe tedesche in ritirata. Tuttavia nella sua frenetica e rischiosa attività, svolta nei giorni che precedettero la Liberazione, l’improvvisata giunta non fu lasciata sola. Ad essa fornirono infatti un valido aiuto semplici cittadini e religiosi. Una cronaca dettagliata degli avvenimenti di quella fase di transizione, apparsa ad un anno dalla Liberazione sul giornale “La Turbina”, ci da l’opportunità di ricordare, singolarmente, molti dei protagonisti di quei giorni.
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I due bassetti, oltre alla stampa, assicurano la cucina ai forestieri, ai compagni di passaggio e alle staffette fra le quali brillano per coraggio i compagni Corso, Rossi Marino e Catoni. S.E. il vescovo non lascia i suoi fedeli; non è mai sfollato; ai rimasti non è mai mancata la parola consolatrice del pastore. Presto, oltre alle parole, dovrà dare la sua opera per strappare dalla morte degli innocenti. La sera del 10, un tedesco sorpreso a rubare, è stato ucciso nei pressi di ponte d’Oro dietro l’Acciaieria. Per rappresaglia vengono immediatamente arrestati cinquanta passanti. Saranno fucilati all’alba. Morelli venuto a conoscenza della cosa fa pregare SE di voler intervenire e il vescovo alle 9 di sera si reca al Comando delle SS Prega, implora, ammonisce nel nome di Dio e riesce infine ad intenerire quegli uomini non facili alle commozioni e salva le vittime innocenti. La buona novella recata con serena semplicità è accolta con commozione nel clan di Palazzo Bianchini. Al duomo, oltre al vescovo, don Antonio Conti, padre Fedele e alcuni altri sacerdoti di cui ci sfugge il nome, sono infaticabili nell’opera di soccorso e di conforto. Le fatiche sono frammiste alle paure; la notte fra il 4 e il 5 il bombardamento più lungo, un’ora e venti di spavento, il 6, bombardamento in quota in tre ondate successive e sempre allarmi prolungati, susseguenti. I tedeschi, ormai in rotta, non hanno più ritegno, si danno al saccheggio. Porte e saracinesche che saltano continuamente; scoppi di bombe e colpi di rivoltella per ogni dove. [ndr Poi] il 13 giugno 1944 alle ore 14 pomeridiane una voce percorse rapida il ristretto ambiente di Palazzo Bianchini al duomo: gli inglesi sono giunti a Terni. Sarà vero? S’invia una staffetta per sincerarsi della verità del fatto ma questa è bloccata in via Garibaldi (ponte Romano non esiste più) dove un gruppo di animosi sta combattendo contro i guastatori tedeschi che minano il ponte già rovinato dai bombardamenti aerei. È una lotta rapida, cruenta, i tedeschi si difendono con accanimento; una vittima, l’ultima della guerra in Terni: Luzzi Aspromonte. Povero Aspromonte! È caduto nel tentativo di salvare ponte Garibaldi. La staffetta ritorna e porta due tristi notizie: la morte di Aspromonte e il salto di ponte Garibaldi. Ecco un’altra staffetta giungere trafelata. Alle scuole industriali si sta combattendo; alcuni cittadini per salvare il ponte sul Serra hanno attaccato i guastatori tedeschi. Bisogna intervenire, bisogna salvare l’ultimo ponte rimasto. Da Palazzo Bianchini parte uno strano esercito che s’ingrossa alla tipografia Lezzi. Morelli, Gerlo, Benedetti l’astrologo, i fratelli Lezzi, il maresciallo Spagna, Venturini e pochi altri partono in maniche di camicia o attabbarrati nel camice di lavoro, armati di schioppo e bombe a mano, per porta Valnerina dove giungono appena in tempo per veder scappare i tedeschi. Il ponte è salvo. Qui il popolo ha avuto ragione della furia demolitrice dei barbari. Ma ecco la notizia più attesa. Gli inglesi sono realmente a Terni, stanno al di là del Nera, a porta Romana, a Campofregoso ma non possono avanzare per mancanza di ponti sul Nera41.
La Liberazione di Terni significò anche l’immediata ripresa dell’attività da parte di tutte le forze politiche antifasciste. Il CLN provinciale – di cui si sono già esaminate le precedenti vicende – poté
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Cfr. [G.A. Lastrucci e L. Michiorri], Sull’orlo dell’abisso, in “La Turbina”, 13 giugno 1945. I brani citati sono montati in ordine diverso da quello originale per dare ad essi una consequenzialità cronologica.
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Cfr. la relazione, datata 25 giugno 1944, di Aladino Bibolotti in I comunisti umbri cit. (a nota 40), p. 13. Purtroppo non è stato possibile stabilire con esattezza i nominativi di tutti i membri che per primi costituirono il CLN provinciale. Tuttavia è indubbiamente indicativa la lista dei suoi componenti che l’organismo antifascista inviò al CLN centrale agli inizi del 1945: Alfredo Filipponi (PCI), Dazio Pascucci (PCI), Alfredo Urbinati (PSIUP), Arduino Pellegrini (PSIUP), Poliuto Chiappini (DC), Stellario Borgia (DC), Gino Romoli (PRI), Bruto Cuicchio (PRI ), Luigi Morganti (DdL). Va comunque tenuto presente che dai verbali del CLN si ricava che, a partire dal luglio 1944, vi erano state diverse variazioni dei membri componenti l’organismo provinciale antifascista. il rappresentante liberale, Giovanni D’Astoli, entrò a far parte del CLN – almeno ufficialmente – molto in ritardo, nel marzo 1945. Sulle ragioni che motivarono questo ritardo si veda quanto diremo in seguito. In ogni caso sulla complessiva vicenda del CLN di Terni si veda la diversa e numerosa documentazione contenuta in ACS, CCLN, b. 10, fasc. 145. Su Alfredo Filipponi si veda il breve profilo biografico tracciato in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza cit. (a nota 26), vol. II, p. 347, Cfr. L’Umbria. Manuali cit. (a nota 3), vol. 2, p. 706. Le citazioni sono tratte dalla relazione, datata 25 giugno 1944, di Aladino Bibolotti in I comunisti umbri cit. (a nota 40), p. 13.
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dunque essere ricostituito con l’effettiva partecipazione degli esponenti di tutti i raggruppamenti politici presenti in città42. L’organismo unitario antifascista risultò pertanto formato da comunisti, socialisti, democristiani, repubblicani e demolaburisti. Ciascuno dei maggiori partiti cittadini – PCI, PSIUP, DC e PRI – ebbe al suo interno una duplice rappresentanza, mentre i demolaburisti, meno consistenti numericamente, dovettero accontentarsi di un solo rappresentante43. Alla presidenza venne insediato l’esponente comunista, Alfredo Filipponi44, già comandante della brigata partigiana “A Gramsci” e segretario in carica della Federazione Provinciale Comunista. Questo cumulo di cariche sulla persona di Filipponi dava l’esatta misura della supremazia in città delle forze politiche operaie – in particolare del PCI45. Nonostante questo incontestabile ruolo egemonico dell’organizzazione comunista nella distribuzione degli incarichi politici ed amministrativi cittadini si cercò di assicurare a tutte le forze politiche una rappresentanza proporzionale al loro peso. Pertanto si rese necessario – come era stato fatto per il CLN – provvedere ad un ampliamento della rappresentanza politica all’interno del provvisorio organismo amministrativo comunale. In base a questa esigenza venne quindi deliberato da parte del CLN che ai quattro comunisti ed al socialista “che avevano composto la prima amministrazione cittadina si sarebbero aggiunti altri elementi, rappresentanti tutti gli altri partiti del fronte nazionale”. Del resto ciò era giustificato dal fatto che “urgeva [...] affrontare e risolvere problemi urgenti come quello annonario, quello dell’acqua e quello della luce e l’aiuto di tutti era necessario”46. Il posto di sindaco venne comunque riservato al comunista Comunardo Morelli. Questa nomina era d’altronde un diritto incontestabilmente acquisito dall’esponente comunista per aver guidato la giunta provvisoria nei difficili momenti della transizione. Di seguito vennero anche insediati da parte del CLN il presidente della Deputazione Provinciale Provvisoria nella persona dell’avvocato Pietro Tentoni, un vecchio esponente socialista, ed il prefetto nella persona del dottor Umberto Gerlo, un ex
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impiegato comunale, uomo di tendenze moderate ma certamente non ostile alle forze del movimento operaio. Insieme al rapido ripristino che si veniva operando delle amministrazioni pubbliche, le forze politiche antifasciste si preoccuparono di ricostituire immediatamente la Camera del Lavoro. A tale scopo sin dal 13 giugno venne affisso sui muri cittadini un manifesto firmato dai quattro maggiori partiti cittadini – PCI, PSIUP, PRI e DC – in cui si invitavano i lavoratori ad iscriversi in massa al nuovo organismo sindacale. Successivamente sempre da parte delle forze politiche venne nominato un organismo direttivo con il compito di guidare la CDL in questa prima fase della sua ricostituzione. La prassi seguita in questa operazione dai partiti antifascisti ternani è descritta in una relazione inviata il 25 giugno 1944 da Aladino Bibolotti, dirigente del PCI in Umbria, al centro. In essa, tra l’altro, si legge:
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Pure tempestivamente predisposta è stata la costituzione di una commissione provvisoria per reggere la ricostituenda Camera del Lavoro. La commissione provvisoria è stata creata col criterio della rappresentanza dei comunisti (presidente e vicepresidente), dei socialisti (un vicepresidente), dei democratici cristiani (un vicepresidente) e anche dei repubblicani allo stesso titolo dei precedenti. Dopo la pubblicazione del manifesto anche gli anarco-sindacalisti hanno reclamato una compartecipazione, sebbene non abbiano più un seguito apprezzabile nella massa operaia. Tuttavia si è stabilito di accogliere la loro adesione47.
Segretario generale della CDL – o presidente della commissione direttiva provvisoria, come viene definito da Bibolotti nella relazione – fu nominato Vincenzo Inches48, uno degli esponenti di primo piano dell’organizzazione clandestina comunista negli anni della dittatura. Quale sede della rinnovata organizzazione sindacale furono utilizzati i locali dell’ex Unione Provinciale Fascista dei sindacati dei lavoratori dell’industria, che a tale scopo erano stati prontamente requisiti dalle forze antifasciste. Contemporaneamente con l’acquisizione della sede, i nuovi dirigenti della CDL presero l’iniziativa di attivare al suo interno un ufficio di collocamento. Ciò provocò tuttavia l’immediata reazione del comando militare alleato che, negando qualsiasi permesso, avocò a sé questa funzione, “pur comunicando che fra il loro ufficio e la Camera del Lavoro ci sarebbe stata collaborazione e che poi tutta la loro attrezzatura sarebbe passata alla Camera del Lavoro stessa”49. Del resto questa non fu la sola interferenza con cui gli Alleati tesero a limitare l’autonomia delle forze democratiche – come si dirà più ampiamente in seguito – esaminando il rapporto tra Alleati e movimento di liberazione. Da parte alleata si tentò di porre un condizionamento anche sull’attività del CLN provinciale, malgrado che in questa fase l’organismo unitario svolgesse una funzione insostituibile. 47 48 49
Ivi, p. 10. Su Vincenzo Inches cfr. quanto detto alla nota 9. Cfr. la relazione, datata 25 giugno 1944, di Aladino Bibolotti in I comunisti umbri cit.(a nota 40), p. 13.
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Cfr. il diverso materiale contenuto in ACS, CCLN, b, 10, fasc. 145. Cfr. E. Aga Rossi, La situazione politica ed economica nell’Italia nel periodo 1944-45: i governi Bonomi, in “Quaderni dell’istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza”, n. 2, 1971. Cfr. Mammarella, L’Italia dalla caduta del fascismo ad oggi cit. (a nota 16), p. 86. Cfr. il verbale della riunione del CLN provinciale del 7 luglio 1944 in ACS, CCLN, b. 10, fasc. 145. Cfr. il verbale della riunione del CLN provinciale del 2 luglio 1944, ibidem.
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Enorme fu infatti il carico di attribuzioni e di compiti che il comitato si trovò ad affrontare in questo periodo. I verbali delle sue riunioni – disponibili sino ai primi mesi del 1945 – documentano inequivocabilmente la multiforme attività sviluppata dal comitato, anche se, purtroppo, a causa della concisione con cui essi sono redatti non permettono di conoscere il tipo di dialettica politica che si sviluppò in seno all’organismo tra i diversi partiti. Cionondimeno il senso di equilibrio con cui vennero prese le diverse deliberazioni – ad esempio la dosata ripartizione delle cariche politiche ed amministrative – autorizza ad ipotizzare l’esistenza di un clima di fattiva collaborazione tra le forze politiche antifasciste50. Del resto l’estate del 1944 rappresentò una fase estremamente favorevole per i comitati di liberazione nazionale, soprattutto in seguito al successo ottenuto in giugno dal CCLN con la formazione del governo Bonomi. L’organismo centrale antifascista era infatti riuscito a liquidare il governo Badoglio e, contemporaneamente, a far investire della carica di primo ministro un proprio autorevole membro, il liberale Ivanoe Bonomi. Rilevante fu pertanto il successo politico ed il prestigio che ne derivò all’organo antifascista centrale, in primo luogo, e, di riflesso, agli organi periferici51. Tuttavia a Terni, malgrado che come tendenza generale il governo militare alleato, ignorando le situazioni locali e mancando di personale convenientemente preparato, “[fosse] incline ad utilizzare i comitati di liberazione nazionale locali in misura sempre maggiore”52, il comandante militare inglese si rifiutò di riconoscere i comitati di liberazione, che si erano formati nelle diverse zone della provincia. Probabilmente il comportamento dell’autorità militare alleata era causato dal ruolo egemonico che i partiti di sinistra – ma particolarmente il PCI – detenevano in seno alla gran parte dei comitati di liberazione della provincia. Ciò comunque non impedì al CLN ternano di dispiegare nella sua interezza la propria attività53. I compiti verso cui il CLN provinciale si indirizzò furono quelli dettati dalle primarie necessità di ogni dopoguerra. Prioritario apparve pertanto promuovere un’attività mirante ad una rapida ricostruzione materiale della città e ad assicurare l’approvvigionamento alimentare per la popolazione. Da parte del CLN fu perciò intrapresa una serrata lotta contro gli imboscamenti di generi di prima necessità e contro il mercato nero. In particolare il comitato, a partire dal luglio, assunse l’incarico di controllare in tutta la provincia l’opera di trebbiatura del frumento per assicurare che il giusto quantitativo del raccolto fosse conferito agli ammassi. In questa opera di controllo vennero utilizzati largamente i partigiani della brigata “Gramsci”54.
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Importante fu pure nell’ottobre, in corrispondenza con un aggravamento della situazione alimentare della città, l’opera svolta dal CLN, congiuntamente con la Camera del Lavoro, per organizzare una cooperativa operaia di consumo. Nel giro di qualche settimana venne infatti costituita la cooperativa “Unione Lavoratori”. Essa rappresentò, grazie anche al rapido incremento che ebbe la sua attività commerciale, una importante salvaguardia dei consumi popolari dal continuo rincaro dei generi di prima necessità55. Oltre a dare una risposta ai problemi generati dai bisogni primari e quotidiani delle masse lavoratrici, il Comitato di Liberazione svolse compiti più propriamente politici come quello di promuovere una diffusa rete di comitati periferici, che ove necessario funzionassero anche da amministrazioni provvisorie o, ancora, di proporre le persone idonee a ricoprire i posti resisi vacanti in sede politica e amministrativa dopo la fuga dei fascisti. A tale proposito giova ricordare che il comitato intorno alla metà di agosto consegnò al prefetto per l’approvazione la lista dei membri scelti per amministrare il Comune fino alle elezioni. Per la nuova Amministrazione Comunale vennero designati tredici membri così ripartiti: quattro comunisti, tre socialisti, tre democristiani, due repubblicani ed un demolaburista. Per questa ripartizione si era evidentemente seguito il criterio di assicurare ai partiti della coalizione antifascista una rappresentanza proporzionale alle loro forze. Il PCI infatti otteneva il maggior numero di membri ed, in più, si vedeva riservato il posto di sindaco. A tale incarico venne riconfermato Comunardo Morelli56. Per il CLN provinciale questo fu dunque un periodo assai impegnativo, durante il quale vennero raggiunti positivi risultati e, per di più, senza che si fossero registrati episodi di acuta contrapposizione tra i partiti antifascisti. Sotto la spinta delle enormi difficoltà e dell’obiettivo prioritario della ricostruzione anche tra i tre partiti di massa si venne stabilendo in questa fase un buon rapporto di collaborazione, del resto in linea con quello che era il clima politico dominante nello stesso periodo in gran parte dell’Italia Centrale. Infatti – come scrive Spriano – “in molte regioni liberate, in particolare in Toscana, nelle Marche, in Abruzzo, in Umbria, i rapporti [dei partiti di sinistra] con le organizzazioni della Democrazia Cristiana sono buoni, tanto che giungono le prime deliberazioni comuni che caldeggiano le proposte togliattiane di alleanza dei “tre partiti di massa”57.
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Cfr. il verbale della riunione del CLN provinciale del 26 ottobre 1944, ibidem. I membri della rinnovata amministrazione comunale erano: Comunardo Morelli (PCI), Arnaldo Lippi (PCI), Luigi Michiorri (PCI), Bruno Zenoni (PCI), Renato Botondi (PSIUP), Celestino Silvestrelli (PSIUP), Arduino Pellegrini (PSIUP), Pietro Grassini (DC), Poliuto Chiappini (DC), Filippo Micheli (DC), Alberto Natali (PRI), Renato Zuccarini (PRI), Luigi Morganti (DdL). Cfr. il verbale della riunione del CLN provinciale del 14 agosto 1944, ibidem. Sulla complessiva strategia politica (solidarietà nazionale tra i partiti antifascisti – in particolare i tre maggiori – democrazia progressiva, partito nuovo) varata da Togliatti con la cosiddetta “svolta di Salerno”, tra gli altri, cfr. A. Lepre, La svolta di Salerno, Roma 1966; P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, vol. V, Torino 1978, pp. 282 sgg. (da cui citiamo p. 415). Sulla “svolta” e sul dibattito che essa provocò tra i dirigenti comunisti si veda anche quanto detto in seguito.
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La Turbina – diceva l’editoriale – chiama a raccolta i vecchi socialisti rimasti fedeli ai principi della lotta di classe e del marxismo e, nello spirito del patto di unità d’azione che li affratella a noi comunisti, li invita a diffondere ed a sorreggere questo foglio di battaglia che è stato la palestra della loro gioventù operosa. In quest’ora suprema e decisiva i particolarismi debbono tacere e ciascuno deve essere pronto all’imperativo che comanda a tutti: unità ed azione. La Turbina tende la mano ai cattolici che marciano con noi nel comitato di liberazione nazionale e nel governo democratico, per affrettare la liberazione della patria e confida nello spirito di democrazia cristiana per cementare quel blocco operaio-contadino, base di ogni progresso sociale62.
Successivamente, dopo un supplemento al primo numero uscito – a caratteri di stampa – alla vigilia della liberazione di Terni, con lo scopo di esortare la popolazione a stringersi intorno al CLN ed a rafforzare le formazioni partigiane63, “La Turbina”, ancora come organo della Federazione Comunista Ternana, vide la luce nella sua prima edizione legale il 24 giugno 1944. Dal punto di vista politico anche questo numero era in larga parte volto a prospettare la necessità della politica di solidarietà nazionale e di collaborazione, soprattutto, tra i tre grandi partiti di massa – anche se poi affioravano qua e là evidenti accentuazioni classiste. In particolare in esso era stato riprodotto in prima pagina “su richiesta di molti compagni e simpatizzanti” l’editoriale del primo numero clandestino64.
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Su “La Turbina” prefascista si veda comunque la scheda n. 3587 in G. Giani, Raccolta di voci bibliografiche su Terni e territorio, Perugia 1977, pp. 529-530. Il primo numero de “La Turbina”, settimanale socialista di Terni, fu pubblicato il 4 settembre 1898; l’ultimo numero uscì il 16 luglio 1921. Cfr. la copia dell’edizione dattiloscritta de “La Turbina”, 25 maggio 1945, in APC, DN, fasc. 7-3-12. Cfr. l’editoriale Rinascita per l’azione, a firma La Redazione, ibidem. Cfr. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano cit. (a nota 57), vol. V, p. 391. Cfr. Rinascita per l’azione, in “La Turbina”, 25 maggio 1945, cit. (a nota 60). Cfr. “La Turbina”, organo della Federazione Provinciale Comunista di Terni, supplemento al n. 1, 12 giugno 1944. Questo supplemento, costituito da un unico foglio, venne stampato su una sola facciata per poter essere affisso ai muri. Cfr. Il nostro atto di nascita, in “La Turbina”, organo settimanale della Federazione Provinciale Comunista di Terni, 24 giugno 1944.
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Indicativa in questo senso appare la vicenda politica del giornale ternano “La Turbina”. La testata di questo foglio – che in epoca prefascista era stato per più di venti anni un organo settimanale dei socialisti ternani58 – venne riesumata e fatta propria dai comunisti ternani nel maggio del 1944 per un’edizione dattiloscritta diffusa alla macchia59. L’editoriale del primo numero – con le sue dichiarazioni di fiducia nel “governo democratico” e di rispetto verso il “solo potere legale del paese” – prendeva chiaramente le mosse dalla proposta strategica formulata da Togliatti dopo il suo rientro in Italia60. Ed infatti anche nella sua parte finale l’articolo conteneva un appello agli altri due partiti di massa formulato in modo da essere in linea con quelli che erano i due pilastri della prospettiva togliattiana: “stretta unità d’azione con i socialisti, accordo politico con la Democrazia Cristiana”61.
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Questa politica di apertura praticata dai comunisti nei confronti dei socialisti e dei democristiani contribuì senza dubbio a creare un clima di intesa tra le tre forze politiche. In conseguenza di ciò anche “La Turbina” venne trasformata in “organo settimanale dei tre partiti di massa”, i quali – come si scrisse in seguito – avevano trovato il loro comune denominatore “[nell’] antifascismo e [nello] spirito democratico comune a tutti i tre partiti” e, soprattutto nella scoperta della “necessità dell’unità nazionale”65. Il primo numero de “La Turbina” in questa nuova veste venne stampato con il consenso degli Alleati alla fine di ottobre del 194466. La collaborazione tripartita al giornale ternano fu limitata però allo spazio di pochi numeri. Infatti la DC, intorno allo scadere dell’anno, manifestando la necessità di riacquistare la propria autonomia e di avere un proprio organo di informazione, uscì dalla redazione. Con questa decisione il partito democristiano tendeva – come del resto anche a livello nazionale – ad avviare una nuova fase politica in cui l’esperienza unitaria sarebbe andata incontro ad un progressivo logoramento. L’esaurimento della fase della collaborazione tra le forze politiche antifasciste ternane avveniva anche perché i diversi partiti, uscendo dalla fase di confusione organizzativa che aveva caratterizzato la loro ricostituzione all’indomani della Liberazione, venivano riacquistando una precisa fisionomia politica, certamente più allineata a quella delle rispettive organizzazioni nazionali. E i rapporti tra queste ultime non andavano certo evolvendo in senso unitario. Prima di riferirsi alla situazione politica generale è tuttavia utile esaminare lo stato politico-organizzativo dei diversi partiti ternani in questo scorcio del 1944. A fine ottobre i partiti appartenenti al CLN provinciale erano tutti ricostituiti e presentavano – anche le formazioni più piccole – un buon quadro organizzativo. Sufficientemente valida appariva pure la ricostituzione del PLI, il quale – secondo le informazioni mensilmente fornite dall’Arma dei Carabinieri – poteva contare sull’adesione, tra l’altro, di dirigenti delle industrie locali e di vari professionisti67. La situazione delle forze politiche a Terni veniva descritta dall’autorità militare con maggior precisione nel rapporto relativo al mese di novembre 1944. In esso si dava il seguente quadro dell’attività politica dei diversi partiti: I partiti comunista e socialista svolgono intensa attività organizzativa e propagandistica. L’atteggiamento degli altri è invece pressoché passivo. Anche i democristiani, che pur notevole seguito hanno nelle zone rurali, cedono terreno di fronte ai socialisti, i quali sono attivissimi nella propaganda tanto che inviano anche in
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Per le citazioni cfr. L’anniversario, in “La Turbina”, organo settimanale delle Federazioni Provinciali Comunista e Socialista, 28 ottobre 1945. Cfr. ibidem. Cfr. la relazione del Comando dei Carabinieri dei 31 ottobre 1944 sulla situazione a Roma e nel Lazio relativa ai mesi di settembre e ottobre, pubblicata in Appendice a Aga Rossi, La situazione politica ed economica cit. (a nota 51), p. 117.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
piccoli centri gli uomini più rappresentativi della provincia per tenere conferenze politiche a uditori che talvolta non superano la cinquantina di persone68.
Dal punto di vista organizzativo il rapporto forniva poi i seguenti dati, che però devono essere considerati solo parzialmente indicativi:
A questo processo di consolidamento organizzativo si accompagnava nei partiti antifascisti ternani – come si è detto – una sempre più precisa definizione politica in aderenza con le posizioni e le deliberazioni dei rispettivi organismi direttivi nazionali. E ciò avveniva in una fase di crescente tensione politica tra i partiti della coalizione governativa. Infatti si era venuto creando uno stato di aperta contrapposizione tra le forze politiche antifasciste intorno a due fondamentali questioni: in primo luogo, sul ruolo e sui poteri da attribuire ai comitati di liberazione nazionale e, quindi, sul grado di incisività da imprimere al processo di epurazione. Inoltre emergevano con sempre maggiore chiarezza le profonde diversità di ideologia e di tradizione politica esistenti tra i partiti della coalizione antifascista. Sulla questione dei comitati di liberazione nazionale si erano venuti chiaramente delineando tra i partiti di governo due schieramenti che, pur nelle loro articolazioni interne, apparivano contrapposti. Infatti, come riconosce anche Sbarberi, sul ruolo istituzionale da assegnare ai comitati di liberazione nazionale è noto che i partiti antifascisti avevano espresso [...] almeno due alternative politiche radicali: la concezione dei CLN come embrione di una democrazia diretta – punto di vista, questo, che non si identificava con nessun partito globalmente inteso, ma che serpeggiava tra i settori più avanzati della intera sinistra – e l’ipotesi moderata dei CLN come coalizione provvisorio tra i partiti destinata a essere sostituita, dopo la liquidazione del fascismo, dagli organi tradizionali dello stato – soluzione, quest’ultima, caldeggiata soprattutto dai liberali e dalla Democrazia Cristiana70.
A far emergere le posizioni dei diversi partiti contribuì soprattutto il cosiddetto “dibattito delle cinque lettere”71. Esso prese le mosse da una lettera aperta inviata il 68
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Cfr. la relazione del Comando dei Carabinieri del 10 dicembre 1944 sulla situazione a Roma e nel Lazio relativa al mese di novembre, ivi, p. 124, Ivi, pp. 124-125. Soprattutto per quanto riguarda il PCI i dati forniti dal rapporto risultano approssimativamente attendibili. Infatti fonti contemporanee di partito ci danno un numero di iscritti molto maggiore. Su questo cfr. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano cit. (a nota 57), vol. V, pp. 411 e 416. Cfr. F. Sbarberi, I comunisti italiani e lo Stato 1929-1945, Milano 1980, p. 217. Su questo, tra gli altri, cfr. G. Quazza, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano 1978, pp. 299-308.
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Comunista: sezioni 12; iscritti 2.870; Socialista: sezioni 10; iscritti 1.800; Demo-Cristiano: sezioni 10; iscritti 1.630; Repubblicano: sezioni 4; iscritto 810; Democratico del Lavoro: sezioni 3; iscritti 670; Liberale: (ufficialmente costituito solo nella zona di Orvieto) con 160 iscritti ed una sezione nel comune di Baschi che ha come presidente il notaio Cioccio dott. Mario69.
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20 novembre 1944 dal Partito d’Azione alle altre forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) allo scopo di indicare come obiettivo comune l’allargamento della base di massa dei comitati di liberazione per farli diventare “dopo l’insurrezione la base non solo del governo centrale ma anche dell’amministrazione periferica”72. A questa lettera del PDA fecero seguito analoghe lettere aperte, nell’ordine, del PCI (26 novembre 1944)73, della DC (12 gennaio 1945), del PSIUP (20 gennaio 1945), e del PLI (febbraio 1945). In questi interventi la posizione più chiara fu assunta da democristiani e liberali. Essi infatti manifestarono apertamente il loro profondo disaccordo rispetto alla proposta avanzata dal PDA. I due partiti di sinistra, PCI e PSIUP, mantennero invece un comportamento più ambiguo74. Infatti, se pure si dichiararono sostanzialmente d’accordo sulla necessità di rafforzare il ruolo dei comitati, nei fatti – non prendendo alcuna iniziativa in questo senso – lasciarono cadere nel vuoto la proposta azionista75. Gli stessi schieramenti si fronteggiavano anche a proposito del rigore con cui si doveva procedere nel processo epurativo in tutti i settori ed, in particolare, nella pubblica amministrazione. E fu appunto su tale questione che si produsse una rottura all’interno della coalizione governativa. Ai primi di novembre del 1944 la richiesta di epurazione per alcuni alti funzionari dei ministeri del Tesoro e della Marina, avanzata da uno degli alti commissari aggiunti per l’epurazione, il comunista Mauro Scoccimarro, provocò dapprima la contraria reazione dei ministri liberali titolari dei due dicasteri, Soleri e De Courten, e, successivamente, le loro dimissioni. In seguito a ciò si profilò come inevitabile la crisi di governo e, di fatto, si ebbe la prima grave rottura del rapporto di collaborazione tra le forze politiche antifasciste. La gravità di questa rottura venne poi accentuata dall’insidioso atto politico compiuto da Bonomi, che rimise le sue dimissioni non al Comitato di Liberazione Centrale da cui aveva ricevuto l’investitura, ma ai luogotenente del re. Con questo gesto il capo del governo dimissionario restituiva alla monarchia quelle prerogative costituzionali che il CCLN aveva inteso negarle nella crisi governativa di giugno. Per di più, a causa dell’opposizione di Churchill alla candidatura – sostenuta dalle sinistre – di Sforza, veniva riproposto come primo ministro lo stesso Bonomi, che ora in conseguenza del suo gesto si trovava ad avere il sostegno sia dei partiti moderati che dei reggente76. I 72
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Per il testo si veda Secchia, Il Partito Comunista Italiano e la guerra di liberazione cit. (a nota 14), pp. 768775. Per il testo cfr. ivi, pp. 777-783. Va comunque sottolineato che a proposito del ruolo e dei compiti da attribuire ai comitati di liberazione nazionale le posizioni dei gruppi dirigenti comunisti di Milano e di Roma non furono coincidenti. Sulla natura dei dissensi esistenti tra i centri dirigenti del PCI cfr. G. Amendola, Lettere a Milano, Roma 1973; L. Longo, I centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Roma 1973; Quazza, Resistenza e storia d’Italia cit. (a nota 71), pp. 171 sgg.; Sbarberi, I comunisti italiani e lo Stato cit. (a nota 7), pp. 204 sgg. Più in generale sulla vicenda politico-istituzionale dei comitati di liberazione nazionale oltre a G. Quazza, Il problema storico, in Il governo dei CLN, Torino 1966, cfr. C. Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Torino 1974. Cfr. Mammarella, L’Italia dalla caduta del fascismo ad oggi cit. (a nota 16), pp. 88-89.
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Tutto ciò accadde – spiega Guido Quazza a proposito della solitaria adesione del PCI al secondo governo Bonomi – perché Togliatti, scettico in sostanza verso la politica del CLN e impressionato dalla politica delle destre (legami sempre più stretti con gli Alleati, pressione costante e via via più larga del Vaticano, numerose organizzazioni conservatrici e “nostalgiche’’, giornali anticomunisti, nascita dell’”Uomo Qualunque”), ritiene che il restare al governo valga i costi più gravi. Ma anche perché egli spera di riuscire con la politica di partito a ottenere ciò che la spinta delle masse – anche quelle che nel Lazio, nel Fucino, in Calabria occupano con grande slancio le terre, e che, del resto il PCI non riesce a controllare e a guidare – non gli consentirebbe: l’alleanza dei tre partiti maggiori79.
Questa difformità di comportamento tra le sinistre, che tra l’altro comportò un temporaneo allentamento dell’unità d’azione tra PCI e PSIUP, favorì soprattutto uno spostamento a destra dell’asse politico nazionale. Infatti la crisi ministeriale che portò dal primo al secondo governo Bonomi “più la si studia, più [...] appare il tournant decisivo nel confronto fra destre e sinistre”80. È certo comunque che in questa vicenda venne definitivamente liquidata l’ipotesi politico-istituzionale che prevedeva la rifondazione democratica dello stato basata sui comitati di liberazione nazionale.
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Cfr. Quazza, Resistenza e storia d’Italia cit. (a nota 71), pp. 209-211. In realtà all’interno del gruppo dirigente comunista ci furono resistenze e perplessità rispetto al complesso della strategia varata da Togliatti a Salerno. Infatti, dopo la “svolta”, emersero posizioni diverse tra il centro dirigente di Milano (Longo, Secchia, Curiel) e quello di Roma (Togliatti, Novella, Amendola) sulla teoria della “democrazia progressiva” e, più in generale, sulla linea strategica comunista. Tuttavia, se pure accentuazioni classiste sono innegabilmente presenti nelle formulazioni strategiche dei “dirigenti nordisti” da più parti si riconosce che il dissenso milanese non investì mai “in modo esplicito e cosciente il cuore della strategia del partito, in particolare la sua piattaforma complessiva, il giudizio sullo stato e sul capitalismo italiano, i contenuti economici della democrazia progressiva, le alleanze sociali prefigurate”. Su questo cfr. G. Crainz, Secchia, Amendola, Longo e il dibattito sulla “svolta di Salerno”, in “Rivista di storia contemporanea”, n. 4, ottobre 1974, pp. 535-552 (da cui citiamo, p. 545); Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano cit. (a nota 57), vol. V, pp. 314-337; Quazza, Resistenza e storia d’Italia cit. (a nota 71), pp. 179-181; Sbarberi, I comunisti italiani e lo Stato cit. (a nota 7), pp. 204-253. Ad individuare nelle posizioni espresse da alcuni dirigenti milanesi (Secchia e Curiel) prospettive strategiche potenzialmente alternative giunge invece E. Collotti, Introduzione, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973, Annali Feltrinelli 1978, Milano 1979, pp. 95-108. Cfr. Quazza, Resistenza e storia d’Italia cit. (a nota 71), p. 210. Ivi, p. 209.
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partiti di sinistra di fronte a questo schieramento largo e compatto delle forze della conservazione si presentarono invece divisi. Infatti, mentre socialisti e azionisti decidevano che in ogni caso non sarebbero entrati in una compagine governativa guidata da Bonomi, il PCI, invitando gli altri due partiti di sinistra a non drammatizzare sul comportamento tenuto dal vecchio leader demolaburista e dagli Alleati, accettò di entrare nel nuovo ministero presieduto da Bonomi, avallando così la sconfitta subita e dal CLN e dalla sinistra nel suo insieme77. Il comportamento del PCI trovava chiaramente origine nella scelta operata dal suo gruppo dirigente, dopo Salerno, di porre al centro della propria strategia il partito e l’accordo tra le maggiori forze politiche antifasciste78.
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Le conseguenze di questa prima significativa svolta politica non mancarono di farsi sentire sia sul complessivo andamento dell’epurazione che, nei primi mesi del 1945 con il secondo governo Bonomi, si fece rispetto all’anno precedente, più intricata e difficoltosa81, sia sul ruolo e l’attività degli stessi comitati di liberazione, dato che Bonomi utilizzando la sua posizione di ministro degli Interni – assunta insieme alla presidenza del Consiglio – svolse un’azione intesa a limitare i poteri dei comitati di liberazione nazionale dell’Italia centrale82. L’inizio del nuovo anno segnò così un rallentamento dell’attività anche nel CLN ternano, le cui riunioni per di più – come appare dai verbali – risultavano notevolmente diradate. Nel marzo del 1945 l’ingresso – che, tra l’altro, era stato lungamente contestato da sinistra83 – del rappresentante liberale nel CLN ternano non poteva certamente conferire allo stesso un impulso positivo, né tantomeno attenuare il clima di crescente contrasto tra le diverse forze politiche. Ed infatti alla fine di marzo del 1945 da parte della segreteria provinciale comunista veniva tracciato questo non incoraggiante quadro relativo all’attività del CLN provinciale:
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I Comitati di LN funzionano ma non come dovrebbero. In tutti i comuni della provincia vi sono i CLN e sono stati convalidati dal CLN Provinciale. Il CLN Provinciale si raduna ogni 8 giorni, ma il suo lavoro è quasi limitato a scegliere nominativi da proporre al prefetto per i vari commissari degli enti su scala provinciale e comunale. Comunque tratta anche i problemi alimentari e collabora con la Giunta Municipale dei capoluogo di provincia. S’interessa alla costituzione delle giunte comunali sempre in collaborazione con il prefetto. Il CLN poco ha fatto per spingere l’epurazione dei fascisti84.
Le prospettive per il ritorno ad un clima di intensa collaborazione e attività erano del resto estremamente ridotte. Tanto più che i rapporti tra i partiti antifascisti – in questi primi mesi del 1945 ormai chiaramente delineatisi – non potevano far pensare ad un’inversione di tendenza.
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Cfr. M. Flores, L’epurazione, in L’Italia dalla Liberazione alla Repubblica cit. (a nota 2), p. 433. Cfr. Mammarella, L’Italia dalla caduta del fascismo ad oggi cit. (a nota 16), p. 89. La Sezione ternana dei PLI – in via di costituzione – chiese al CLN provinciale nel novembre 1944 di veder ammesso al suo interno un proprio esponente, Giovanni D’Astoli. Tale richiesta venne però momentaneamente respinta dal comitato ternano in attesa che fossero svolti precisi accertamenti sulla persona proposta. Il D’Astoli veniva infatti sospettato di essere stato corrispondente di un giornale fascista di Cremona. Un contemporaneo ed analogo veto ad un rappresentante liberale venne posto anche dal CLN di Acquasparta. Pertanto, a causa di questi fatti, il direttivo provinciale del PLI inviò il 29 gennaio 1945 una lettera di protesta al segretario del CCLN, il liberale Aldo Repetto. La reazione di questi non si fece attendere. Infatti Repetto, con una perentoria lettera dei 3 febbraio, sollecitò il comitato ternano a fornire spiegazioni sull’atteggiamento discriminatorio da esso tenuto nei confronti dei liberali. Tuttavia, nonostante la formale richiesta dell’alto esponente del CLN centrale, il Comitato ternano mantenne ferma la sua posizione, ammettendo il rappresentante liberale, dopo accurate indagini - risultate negative – soltanto il 23 marzo 1945. Su questa vicenda cfr. la documentazione contenuta in ACS, CCLN, b. 10, fasc. 145. Cfr. la relazione della segreteria della Federazione Comunista Ternana inviata alla direzione in data 30 marzo 1945, in APC, Mat. Fed., b. “Terni 1945-1948”, fasc. MF 090, fo. 1145.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Dal punto di vista storiografico è ormai largamente acquisito il fatto che l’atteggiamento di diffidenza e di sospetto tenuto dagli Alleati – in particolare dagli inglesi – nei confronti del movimento di liberazione italiano fu soprattutto dettato dalla “paura che i partigiani potessero diventare le potenziali armate di un movimento rivoluzionario”85. A tale proposito i rapporti sviluppatisi tra forze partigiane e organismi militari alleati in una provincia come Terni, dove l’organizzazione partigiana aveva raggiunto dimensioni considerevoli, possono diventare un terreno di verifica privilegiato. Le truppe anglo-americane giunsero a Terni poche ore dopo la liberazione della città, attuata – come si è detto – da alcuni reparti della brigata “Gramsci”. In realtà i piani predisposti dal comando della brigata prevedevano di precedere di molto gli Alleati nella liberazione della città, ma per i partigiani della “Gramsci” non tutto andò nel verso programmato86. Questo è sommariamente lo svolgimento dei fatti. Negli ultimi giorni del maggio 1944 in diversi incontri che i responsabili politici e militari delle forze partigiane umbre avevano avuto con gli organi federali del Partito Comunista perugino, prima, e ternano, poi, era stato concordato un piano che prevedeva di far convergere tutte le formazioni combattenti su Perugia per liberare la città e lì costituire un governo provvisorio umbro. Tale decisione era stata presa anche in considerazione del fatto che Terni, ormai semidistrutta dai bombardamenti e largamente abbandonata dalla popolazione, aveva perso gran parte della sua importanza politica e strategica. Ma la liberazione di Roma, avvenuta il 4 giugno, indusse il movimento partigiano ad un rapido mutamento dei programmi originariamente stabiliti. Infatti la prevedibile ritirata verso il Nord dei tedeschi rendeva inutile il concentramento delle forze partigiane e, nello stesso tempo, rendeva possibile la liberazione a distanza ravvicinata delle due città umbre. A tal fine, intorno al 10 giugno 1944, diverse formazioni della brigata “Gramsci” si attestarono sulle colline intorno a Terni in attesa che da parte del CLN provinciale giungesse, al momento opportuno, l’ordine di scendere in città. Ma, a causa dei frequenti e intensi bombardamenti che in quei giorni colpirono Terni, non fu possibile al CLN stabilire alcun
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Cfr. G. Quazza, La politica della Resistenza italiana, in Italia 1943-1950. La ricostruzione, a cura di S.J. Woolf, Bari 1975, p. 41. Sul problema più generale del rapporto tra Alleati e Resistenza cfr. Battaglia, Storia della Resistenza italiana cit. (a nota 22); P. Secchia e F. Frassati, La Resistenza e gli Alleati, Milano 1962; N. Gallerano, L’influenza dell’amministrazione militare alleata sulla riorganizzazione dello Stato italiano, in “Italia contemporanea”, aprile-giugno 1974, n. 115, ora anche in Regioni e stato dalla Resistenza alla Costituzione, a cura di M. Legnani, Bologna 1975; L. Longo, Un popolo alla macchia, Roma 1975; L. Mercuri, 1943-1945. Gli alleati e l’Italia, Napoli 1975; D.W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia (1943-1946), Milano 1977. Cfr. la relazione, datata 25 giugno 1944, di Aladino Bibolotti in I comunisti umbri cit. (a nota 40), pp, 9-11.
Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione
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3. Resistenza e Alleati a Terni: un difficile incontro
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contatto con i combattenti partigiani e questo causò un ritardo di almeno 24 ore nella liberazione della città87. Questa precisa volontà della resistenza ternana di precedere ad ogni costo gli Alleati nella liberazione della città ci induce, interrompendo per un attimo l’esposizione dei fatti, ad alcune considerazioni. Facilmente intuibile è infatti – e in questo senso ci informano le testimonianze di diversi protagonisti di quegli avvenimenti – il disegno politico che animava i partigiani e cioè il desiderio di imprimere alla liberazione di Terni il segno di un profondo rinnovamento e, conseguentemente, di poter negoziare con gli Alleati da posizioni di forza. Un proposito che era necessariamente destinato a scontrarsi con l’opposta tendenza degli Alleati indirizzata a soffocare le spinte profondamente ed autenticamente innovatrici provenienti dal movimento di resistenza. Quando gli Alleati giunsero a Terni, trovarono il CLN insediato e la Giunta Municipale operante che riceveva la sua autorità dalle forze di liberazione partigiane. A causa di ciò si crearono tra le due parti acuti momenti di tensione. L’impatto fu reso difficile proprio dal fatto che gli Alleati si trovarono di fronte una formazione partigiana consistente, ben armata e disciplinata, i cui combattenti, consapevoli dell’opera svolta per la liberazione della città, reclamavano il diritto a partecipare da protagonisti al ripristino della vita politica e sociale cittadina. Diversi furono i motivi di contrasto e, tra questi, il primo fu il problema delle armi. Infatti il comando militare alleato, subito dopo essersi insediato a Palazzo Mazzancolli, ordinò ai partigiani l’immediata consegna delle armi. Tuttavia ancora non era stato raggiunto alcun accordo che regolasse i rapporti fra le forze di liberazione e gli Alleati – come poi avverrà il 7 dicembre 1944 con i protocolli di Roma tra il CLNAI e l’Alto Comando Alleato – e quindi i partigiani ignorarono l’ordine. Questo rifiuto rischiò di far degenerare i rapporti, già tesi, tra le due parti, soprattutto per l’atteggiamento arrogante che nell’occasione tennero gli inglesi. Successivamente, il senso di responsabilità prevalse e si giunse ad un compromesso: i partigiani avrebbero deposto le armi, ma esse sarebbero state custodite da uomini della brigata88. Un’altra forte controversia si accese sulla questione dell’ordine pubblico. Il governatore militare inglese dichiarò apertamente “che non aveva simpatia per i partigiani come agenti dell’ordine” e cercò di far ricostituire il corpo dei carabinieri. La cosa era impossibile, visto che “questi erano inesistenti a Terni”. Per mancanza di alternative, l’autorità alleata acconsentì allora ad affidare la tutela dell’ordine pubblico a 40 uomini della brigata “Gramsci”, a patto che essi fossero stati comandati da un tenente del ricostituito esercito italiano. Questa proposta ottenne un nuovo rifiuto dei partigiani, per cui gli Alleati furono costretti a trovare un’altra soluzione e si giunse ad una ulteriore forma di compromesso. Alfredo Filipponi, 87 88
Cfr. Filipponi, Memorie della lotta partigiana cit. (a nota 8), pp. 367 sgg. Cfr. la relazione, datata 25 giugno 1944, di Aladino Bibolotti in I comunisti umbri cit. (a nota 40), p. 12.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Per la consegna delle armi e la smobilitazione dei partigiani, ora adibiti al servizio d’ordine, Filipponi ha fatto presente che è troppo presto per prendere tale provvedimento. Egli ha insistito che rimangano in servizio e quando il popolo italiano si eleggerà il proprio governo allora sarà questo a decidere. A questo punto il comandante ha scattato e si è pronunciato con queste parole “Qui comando io e nessun altro”. Voi come capo della polizia civile dovete soltanto ubbidire”. Filipponi a questa imposizione ha risposto con forza ed ha domandato al comandante se loro sono in Italia, e quindi anche a Terni, come alleati o come occupanti. A questa domanda il comandante non ha risposto90.
La situazione, come risulta evidente anche da questo sintetico ricordo di Filipponi, non poteva essere forzata ulteriormente. Pertanto un funzionario del Partito Comunista ed un ufficiale italiano, che aveva l’incarico di tenere il collegamento tra il ricostituito esercito e le autorità alleate, vennero precipitosamente inviati a Terni. Le loro argomentazioni, tese ad evidenziare i rischi della posizione assunta dai partigiani – e, probabilmente, larghe di assicurazioni per il futuro – ebbero l’effetto voluto. Il 28 giugno 1944 la brigata venne sciolta e le armi furono consegnate91. Comunque, anche in questa forzata conclusione, il comandante partigiano, interpretando la volontà di tutti i combattenti, volle indirizzare un monito agli Alleati. Bruno Zenoni, allora intendente della brigata, così ricorda quell’episodio: Anche quando si trattò di consegnare le armi, Filipponi dimostrò la sua intelligenza di capo. Organizzò tutto in modo da impressionare gli Alleati. Volle che i partigiani si presentassero divisi per squadre e ad ogni squadra diede una mitragliatrice. In montagna invece la distribuzione degli uomini e delle armi era più confusa, dettata da esigenze di guerriglia. Ma presentandoci con questa efficienza era come dire che in quella occasione consegnavamo soltanto le armi, non certo la nostra capacità di organizzarci e armarci di nuovo contro chi ci avesse ostacolato. E il comandante militare inglese rimase colpito. Disse infatti a Vasco Gigli 89 90 91
Ibidem. Filipponi, Memorie della lotta partigiana cit.(a nota 8), p. 376. Cfr. l’intervista di Alfredo Filipponi in “La Turbina”, 13 giugno 1945.
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comandante della brigata, avrebbe mantenuto il comando del gruppo di partigiani posti alla tutela dell’ordine pubblico, ma un plotone dell’esercito con un proprio ufficiale si sarebbe affiancato agli uomini della brigata89. Lo stato di cose, che aveva permesso ai partigiani di far recedere più volte gli Alleati dai loro propositi, era però destinato a finire con il ripristino a Terni delle forze legali di polizia. Infatti, dopo che in città si verificò il ritorno di un contingente di circa 100 carabinieri, da parte delle autorità alleate venne immediatamente richiesto lo scioglimento della brigata e la definitiva consegna delle armi. Ma anche in questa occasione il diniego partigiano non si fece attendere. Alfredo Filipponi nelle sue memorie – scritte in terza persona – ci dà una lucida descrizione (precisa anche nel suo senso politico) della propria reazione di fronte a questa intimazione da parte degli Alleati:
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[vicecomandante della brigata] che questa era la prima unità partigiana efficiente da lui vista, le altre, precedentemente incontrate, erano invece di poco conto92.
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Le resistenze e le riserve mostrate dalle forze partigiane rispetto agli orientamenti dell’Allied Military Government (AMG) trovarono in seguito una loro giustificazione. Infatti, successivamente allo scioglimento della brigata, Alfredo Filipponi, pretestuosamente accusato di maltrattamenti nei confronti di soldati dell’esercito anglo-americano per un episodio risalente alla guerra partigiana93, venne arrestato dalle forze di sicurezza alleate e internato, nonostante il rischio non peregrino di un linciaggio, in un campo di concentramento allestito alla periferia di Terni dove erano reclusi fascisti e collaborazionisti. Appena in città si sparse la notizia dell’arresto, i dirigenti politici del movimento operaio dovettero esercitare tutta la loro influenza per frenare i partigiani che, esasperati per l’oltraggio politico cui il loro comandante era stato sottoposto, volevano passare all’azione. Gli uomini della brigata “Gramsci” considerarono senza dubbio pretestuosa l’accusa che aveva motivato l’arresto. Infatti, per i resistenti ternani, il vero scopo dell’azione repressiva condotta dagli Alleati contro Filipponi era di dare un avvertimento all’insieme dei combattenti partigiani. D’altronde la consequenzialità degli avvenimenti che si conclusero con l’arresto di Filipponi – il fatto cioè che tale arresto avvenne a notevole distanza dal giorno dell’arrivo degli Alleati a Terni, dopo la consegna delle armi e, soprattutto, dopo che il movimento di liberazione con il proprio atteggiamento aveva probabilmente convinto le autorità alleate della necessità di attuare un intervento normalizzatore – rende tutt’altro che improbabile questa interpretazione. In seguito Filipponi venne trasferito in diversi campi di concentramento del Sud e, per ultimo, in quello di Padula, in provincia di Salerno. Qui rimase per circa due mesi sotto la continua minaccia di essere trasferito in un campo di internamento in Africa. Per la sua liberazione si adoperò, senza successo, persino Togliatti, che allora aveva un incarico ministeriale nel governo Bonomi94. Determinante fu invece, per la scarcerazione di Filipponi, l’intervento fatto a suo favore presso l’Allied Control Commission (ACC) dal responsabile alleato dell’amministrazione civile a Terni, il capitano americano Young. 92
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Testimonianza resa all’autore il 24 novembre 1981 da Bruno Zenoni (n. 1908, artigiano comunista poi dirigente politico). D’ora innanzi, dove non altrimenti indicato, le testimonianze devono considerarsi rese all’autore. Quando nel marzo del 1944 i partigiani della “Gramsci” liberarono la zona intorno ai paesi di Norcia e Cascia, allestirono in quest’ultimo paese, all’albergo “Salus”, un centro di ricovero e smistamento per quei soldati alleati che si trovavano dispersi in territorio nemico o che erano fuggiti dai campi di prigionia tedeschi. Tra i molti accolti, vi furono alcuni prigionieri fuggiaschi inglesi, che, non volendo continuare la lotta insieme alla brigata e, tanto meno, tentare di ricongiungersi al proprio esercito, pur di non lasciare l’albergo, accampavano scuse lamentando un cattivo stato di salute. Ma, essendoci necessità di posti-letto e, per usare le ironiche parole di Bruno Zenoni, “non rientrando nelle funzioni del centro quella di ospitare turisti”, essi furono invitati ad andarsene. Al loro rifiuto vennero bruscamente cacciati. E fu questa azione che motivò l’arresto di Alfredo Filipponi. Devo questa informazione alla testimonianza – citata – di Ambrogio Filipponi, figlio di Alfredo.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
Alcuni fatti mi fecero subito rendere conto che tra inglesi ed americani non correva buon sangue. Ad esempio, il capitano Young sapeva che io ero comunista – avevo tenuto a precisarlo – e, nonostante ciò, parlava spesso male con me degli inglesi. Mi ricordo che una volta era furibondo, diceva che tutti gli inglesi avrebbero dovuto essere arrestati per come si comportavano nei confronti della popolazione. Si riferiva al fatto che le prigioni erano piene zeppe di cittadini sospettati di furto perché trovati in possesso di scatolette di viveri appartenenti all’esercito alleato, mentre gran parte di essi le aveva ricevute dai soldati inglesi, che continuavano, illegalmente, a darle in cambio dei servizi che ricevevano dai civili95. [...] Anche per l’arresto di Filipponi, fu senza dubbio per merito del rapporto, che il capitano Young inviò alla Commissione Alleata di Controllo, se poi venne liberato. Il capitano lasciò di proposito il testo del telegramma sul suo tavolo, in modo che lo vedessi96.
In ogni caso l’arresto del capo partigiano non mancò di avere un effetto normalizzatore. Caduta l’illusione di poter dar vita ad una ripresa svincolata da ogni controllo della vita politica cittadina, anche da parte dei settori più radicali del movimento di liberazione si cercò in seguito di evitare ogni intemperanza, almeno nei confronti delle autorità alleate97. 95
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A proposito dell’atteggiamento che i soldati alleati abitualmente tenevano nei confronti della popolazione civile cfr. anche P. De Marco, Il difficile esordio del governo militare e la politica sindacale degli Alleati a Napoli. 1943-1944, in “Italia contemporanea”, luglio-settembre 1979, n. 136. Testimonianza del 25 febbraio 1982. Il testo dei telegramma, manoscritto e in inglese, mi è stato fatto gentilmente consultare da Laura Rossi, che lo conserva presso di sé. Anche la traduzione in italiano di questo documento – qui riportato di seguito – è opera di Laura Rossi. Nel testo è contenuta una “imprecisione” molto probabilmente messa di proposito – come riconosce la stessa Laura Rossi – dal capitano Young per far apparire Filipponi come una persona rispettosa delle autorità alleate. AMG. To: CPS, ACC Roma. Soggetto: Filipone, Alfredo [sic]. 1) Mi permetto ricordarle che il sottoscritto parlò con lei l’altro giorno a Roma in merito della persona in questione. 2) Costui era capo dei partigiani qui, all’arrivo della testa di ponte CAO venne assegnato capo della Polizia Civile, funzione che espletò con iniziativa e energia fino all’arrivo dei Carabinieri. Al loro arrivo rassegnò volentieri le dimissioni. 3) I suoi precedenti e reputazione sono buoni e gode di molto prestigio tra la popolazione. 4) Venne arrestato dalla FSS e inviato al campo di concentramento sotto una qualche accusa di cui non conosco in pieno i particolari. Comunque, per quanto è in mia conoscenza della sua personalità, sono portato a credere che una migliore investigazione sul suo conto porterebbe a un chiarimento e al suo rilascio. 5) In vista di tali circostanze gradirei raccomandare che il caso venga riesaminato e che il suddetto sia rilasciato per tornare a Terni, se niente di proibitivo viene riscontrato a suo carico. Cfr. la relazione della segretaria della Federazione Comunista Ternana inviata alla direzione in data 30 marzo 1945, in APC, Mat. Fed., b. “Terni 1945-1948”, fasc. MF 090, fo. 1145. In essa tra l’altro si legge: “Possiamo assicurare che la nostra federazione di fronte alle autorità ha un’influenza maggiore degli altri partiti. Anche
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L’atteggiamento assunto sulla vicenda Filipponi dal responsabile americano dell’amministrazione civile fu infatti assai diverso da quello del governatore militare inglese ed è difficile dire se tale diversità fosse un riflesso delle più ampie divisioni che la “questione italiana” produceva all’interno delle forze alleate occidentali. La testimonianza di Laura Rossi, osservatrice privilegiata in questa vicenda per il suo incarico di interprete tra i funzionari delle locali autorità, ci dà a tale proposito alcune indicazioni interessanti:
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In seguito, con il rientro di gran parte della popolazione sfollata, i difficili problemi della ricostruzione – particolarmente drammatici a Terni, data la situazione della città – assorbirono le energie degli ex partigiani. Soprattutto per la larga parte dei quadri della brigata “Gramsci”, che si trovarono alla guida degli organismi politici, sindacali e amministrativi della città, fu necessario mantenere un cauto atteggiamento nei confronti degli Alleati da cui dipendevano gli aiuti necessari per la completa ripresa della vita economica e sociale cittadina. Pertanto, sino al 10 maggio 1945, data in cui l’amministrazione di Terni venne restituita dall’AMG al governo italiano, in città non si registrarono più incidenti di rilievo con le autorità alleate. Anzi, in questa fase, deve essere annoverato a merito di queste ultime una più sollecita attenzione verso le necessità della popolazione civile. Soprattutto di enorme importanza per la città fu l’attuazione, da parte della Sottocommissione Alleata per l’Industria, di un primo programma di parziale riattivazione degli impianti della Società Terni: riattivazione che era risolutamente richiesta dal movimento operaio e dall’intera cittadinanza ternana. Va però rilevato che anche in questo orientamento più accorto degli Alleati era presente una forte componente strumentale come risulta evidente dall’istruzione emanata il 18 luglio 1944 dall’ACC, in cui tra l’altro si legge: Dopo mesi di guerriglia sarà difficile per i patrioti di rassegnarsi alla vita normale. Incoraggiare il rapido ritorno alla loro professione normale sarà uno dei compiti più difficili dei comitati locali i quali, al pari dei funzionari dell’AMG e di quelli italiani, dovranno trattare con i patrioti non con fastidio, ma con simpatia e gratitudine. Bisogna ricordare in ogni istante che un partigiano disoccupato non è soltanto una disgrazia per la collettività, ma una minaccia98.
Parte seconda. La Società Terni 1. La situazione alla fine della guerra Ingenti furono i danni che il complesso industriale ternano ebbe a subire a causa delle vicende belliche. Nell’agosto del 1943, dopo il primo bombardamento, l’attività produttiva dello stabilimento siderurgico si avviò verso la paralisi. Non ci furono però in quel primo attacco aereo – nemmeno in seguito ce ne saranno – irreparabili distruzioni agli impianti siderurgici all’interno delle Acciaierie. Crollarono molti tetti delle officine senza che per questo le macchine ne risultassero
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con le autorità alleate abbiamo buoni rapporti. Il governatore consulta spesso il segretario della federazione [Filipponi] con un certo rispetto, e noi con loro cerchiamo di essere più equilibrati che è possibile”. Cfr. il testo del documento in Civil Affairs: Soldiers Become Governors, a cura di H.L. Coles e A.K. Weinberg, Washington 1964, pp. 533-534; cfr. inoltre il brano riportato in E. Collotti, Collocazione internazionale dell’Italia dall’armistizio alle premesse dell’alleanza atlantica (1943-1947), in L’Italia dalla Liberazione alla Repubblica cit. (a nota 2), p. 52.
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Cfr. la relazione presentata il 26 settembre 1945 agli azionisti della Società Terni, in ACS, PCM, b. 3-1-10, fasc. 11379. Cfr. P. Vasio, Vita della “Terni”. Cronaca dal 1884 al 1965, Terni 1979, p. 86.
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danneggiate irrimediabilmente99. Ciò che rese invece impossibile la ripresa dell’attività nello stabilimento fu il fatto che saltarono tutti gli impianti idrici ed elettrici, il cui ripristino venne vanificato e dalla frequenza dei bombardamenti e dalla dispersione delle maestranze che – come si è detto – colte dal panico, abbandonarono in massa la città. Del resto lo scopo dei frequenti attacchi degli aerei alleati non era quello di distruggere gli impianti, ma piuttosto quello di annullarne la capacità produttiva. Obiettivo principale delle incursioni aeree restava invece quello di danneggiare le vie di comunicazione. Ed infatti, nei numerosi bombardamenti che la provincia di Terni subì, raramente gli stabilimenti del complesso industriale ternano furono gli obiettivi diretti. Il danno più grave che la Società Terni ricevette dagli attacchi aerei fu la distruzione della fonderia di ghisa, la quale colpita nel primo bombardamento dell’11 agosto fu poi completamente rasa al suolo da successive incursioni aeree100. Questo stabilimento pagò però le conseguenze della sua ubicazione: situato infatti in prossimità della stazione, distaccato dal resto degli impianti, ricevette le bombe destinate al nodo ferroviario ternano. Nell’impossibilità di riattivare la produzione a livelli vicini alla normalità, il comando tedesco cominciò allora a “richiedere” sempre più di frequente macchinari da inviare in Germania (o in Alta Italia). L’intensificarsi delle asportazioni non mancò, come era naturale, di suscitare forti preoccupazioni da parte degli amministratori della società. Nell’adunanza del consiglio di amministrazione del 27 ottobre 1943 il presidente e amministratore delegato della Società Terni, Arturo Bocciardo, informò con disappunto i consiglieri del fatto che da parte dell’incaricato locale del generale Leyers, ingegner Roth, “continua[va]no a pervenire altri ordini molto più ampi di smontaggio e spedizioni”. Infatti la prima asportazione di cinque forni elettrici (quattro ad arco ed uno ad induzione) per la produzione dell’acciaio a favore della ditta Roges di Berlino, “a ciò incaricata dal ministro della Guerra del Reich”, si era configurato come un accordo “sulla base di trattative ed intese, sia pure soltanto formalmente consensuali”. Era stata pattuita, “secondo i criteri imposti dagli agenti tedeschi incaricati delle trattative”, una cifra di pagamento per gli impianti asportati di 13 milioni di lire, insieme all’assicurazione che “a queste prime asportazioni altre non ne sarebbero seguite”. Pertanto, di fronte a questi nuovi atti di arbitrio dei tedeschi, il presidente Bocciardo chiese ai consiglieri se non fosse opportuno impugnare la validità di quella prima cessione, adducendo il motivo che l’alienazione di macchinari non era compresa nei poteri della procura speciale di cui si erano valsi i dirigenti per stipulare l’atto. Ma “ragioni facilmente intuibili” indussero gli amministratori della Terni a più cauti consigli. Essi scelsero infatti di subire l’im-
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posizione tedesca, sia pure astenendosi da quel momento in poi dallo stipulare atti che potessero sembrare consensuali101. Pertanto da allora ebbe inizio una lunga serie di asportazioni di macchinari, che furono contrastate soltanto da spontanei tentativi attuati dagli operai per ritardare i tempi di smontaggio e di spedizione – uno dei più frequenti era quello di tagliare i tubi dei freni dei vagoni in partenza. Certamente questi erano espedienti solo limitatamente efficaci, e di ciò erano consapevoli gli stessi operai. Ma essi con questi atti intendevano dimostrare che tali asportazioni non potevano avvenire senza andare incontro a difficoltà e resistenze102. Comunque, nella primavera del 1944, ogni settore dell’azienda ternana era ormai pressoché inattivo. In seguito a questa situazione il presidente della Società Terni, Bocciardo, allo scopo di ottenere un contributo finanziario inviava, nell’aprile del 1944, al ministro dell’Interno della RSI una dettagliata relazione sullo stato del complesso industriale ternano. In essa, tra l’altro, Bocciardo affermava:
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Ritengo mio dovere prospettarvi le tragiche vicende che colpirono, negli ultimi mesi, la Società Terni di cui io sono presidente e amministratore delegato: 1) le gravissime incursioni nemiche su Terni dei giorni 11 e 28 agosto che misero totalmente fuori servizio quelle nostre Acciaierie occupanti circa 10.000 operai e 900 impiegati; 2) le successive, e quasi giornaliere, incursioni aeree sulla città di Terni, verificatesi dopo il 28 agosto, che colpirono ulteriormente e gravemente quei nostri stabilimenti; 3) la quasi completa distruzione delle nostre numerose ed importanti costruzioni edilizie nella città di Terni, destinate ad alloggi per impiegati ed operai, a depositi e spacci annonari, a gabinetti per visita medica e cura del personale, a sale di riunioni dei dopolavoro, ecc.; 4) l’asportazione, da parte delle autorità tedesche, di quei macchinari ed impianti delle nostre Acciaierie sopravvissuti ai bombardamenti aerei nonché la metodica e progressiva asportazione dei macchinari ed impianti dei nostri stabilimenti chimici di Papigno e di Nera Montoro che davano, a loro volta, lavoro ad altri 4.000 operai e 300 impiegati circa. Infatti, già oltre 1.000 vagoni sono stati spediti con destinazione in Germania, carichi di materiali prelevati dai nostri stabilimenti; altri 500 vagoni circa sono già caricati nelle stesse Acciaierie e negli stabilimenti di Papigno e Nera Montoro pronti a partire per la stessa destinazione; altre tradotte si stanno continuamente caricando allo stesso scopo. Da questi dolorosi avvenimenti derivò la paralisi totale dell’attività produttiva delle nostre Acciaierie di Terni e quella pressoché completa dei nostri stabilimenti di Papigno e Nera Montoro, pure in comune di Terni, con la conseguenza di rendere inoperosa la quasi totalità delle nostre maestranze e degli impiegati addetti ai citati stabilimenti. Identico fenomeno si è verificato per le nostre miniere di Spoleto, Gualdo Cattaneo, Aspra, Collazzone, Branca e Colle dell’Oro, che per il cessato consumo di lignite nelle nostre Acciaierie e per l’impossibilità di spedirla altrove per la mancanza di mezzi di trasporto, hanno dovuto decimare la loro produzione.
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Cfr. ASOT, Consiglio di Amministrazione, vol. 27, adunanza dei 27 ottobre 1943. Cfr. La resistenza alle Acciaierie, in L’Umbria nella Resistenza cit. (a nota 13), vol. I, pp. 220-222.
L’antifascismo, la guerra e la Resistenza
La richiesta di un contributo finanziario, avanzata dal presidente della Società Terni, venne accolta, se pure con ritardo, alla fine di maggio. Peraltro fu lo stesso Mussolini ad interessarsi affinché il suo amico personale Bocciardo104 fosse avvertito che era stato disposto di indennizzare la società, a tutto il 31 marzo, degli oneri sostenuti per il pagamento dei salari agli operai in soprannumero105. Ciò avveniva l’1 giugno 1944, quando ormai si era a ridosso dell’arrivo delle forze alleate. La fase dell’evacuazione del territorio ternano da parte delle truppe tedesche fu, senza dubbio, per la Terni uno dei momenti più tragici della sua storia. Infatti, nonostante che già pesante fosse stato il bilancio delle spoliazioni operate dai tedeschi a scapito del complesso industriale ternano106 danni altrettanto gravi furono ad esso arrecati dalle truppe di occupazione al momento della loro ritirata.
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“Per maggiore chiarezza” Bocciardo inseriva all’interno della relazione un prospetto – qui di seguito riportato – dal quale risultava il numero degli operai e degli impiegati presenti negli stabilimenti, ed il numero di essi che, invece, sarebbe stato sufficiente sia per mantenere in vita i quadri del personale, sia per provvedere alla manutenzione ed al guardianaggio “di quanto ancora rimasto negli stabilimenti stessi”. In tale prospetto non erano compresi gli operai provvisoriamente adibiti allo smontaggio degli impianti requisiti dalle autorità tedesche. Cfr. la relazione, datata 3 aprile 1944, del presidente della Società Terni, in ACS, RSI Segr. ris., b. 43, fasc. 399. Stabilimento mediamente presente \Personale Operai Impiegati Acciaieria 2.000 465 Papigno 700 85 Nera Montoro 1.300 150 Miniere e Cementeria 1.650 110 TOTALE 5.650 810
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necessario Operai Impiegati 200 65 50 12 200 25 500 30 950 132
in soprannumero Operai Impiegati 1.800 400 650 73 1.100 125 1.150 80 4.700 678
Sui rapporti intercorrenti tra Bocciardo e Mussolini cfr. F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa. La Terni dal 1884 al 1962, Torino 1975; in particolare pp. 220-222. Cfr. il telegramma, datato 1 giugno 1944, di Mussolini al capo della Provincia di Genova in ACS, RSI, Segr. ris., b. 43, fasc. 399. Bocciardo in quella fase risiedeva a Santa Margherita Ligure. Dallo stabilimento siderurgico furono prelevati quasi tutti i forni elettrici, la trafila per siluri, l’impianto di stampaggio, il laminatoio a freddo, parecchi gassogeni e circa 300 macchine utensili; dallo stabilimento di Papigno, un grande forno a carburo da 16.000 kW, due apparecchiature per la scomposizione dell’aria e un
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Provvedutosi ad una prima riduzione degli organici delle Acciaierie e delle miniere, le autorità sono intervenute a proibire ogni ulteriore licenziamento degli operai e degli impiegati ancora rimasti inoperosi, con la conseguenza che, mentre la produzione è cessata totalmente per le Acciaierie e si è rapidamente ridotta per gli stabilimenti chimici e le miniere, le ingentissime spese per salari, stipendi ed accessori, si mantengono da allora sproporzionate all’esiguo lavoro consentito. [...] Noi non sappiamo quando i nostri stabilimenti, demoliti dai bombardamenti od annientati dalle asportazioni, potranno riprendere sia pure gradualmente, il loro lavoro; sappiamo però che le nostre possibilità finanziarie ed economiche, sfruttate fino all’estremo limite per obbedire alle istruzioni impartiteci, non ci consentono di continuare più oltre su questa via103.
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I guastatori tedeschi, prima di abbandonare la città, fecero saltare tutte le più importanti centrali elettriche (Cervara, Cotilia, Galleto, Papigno, Preci, Marmore), ed altrettanto fecero con le stazioni di trasformazione e smistamento dell’energia:
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la potenza elettrica della Terni che in tanti anni di tenace lavoro era stata portata a 340.000 kW, cui corrispondeva una producibilità annua di circa 1.300 milioni di kwh, si ridusse a 250 kW, installati in una vecchia centralina dimenticata107.
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Questo disastro avrebbe probabilmente potuto essere evitato se l’azienda ternana avesse scelto di studiare un piano di difesa degli impianti insieme con le forze partigiane operanti nel territorio umbro-marchigiano. In un incontro, avutosi nel marzo del 1944 a Leonessa, Alfredo Filipponi, comandante della brigata garibaldina “A. Gramsci”, aveva infatti proposto ad un rappresentante della Società Terni un possibile piano di difesa delle centrali elettriche, ma la riunione fu priva di qualsiasi esito. Due successivi appuntamenti, fissati dai partigiani, vennero disattesi dai rappresentanti dell’azienda ternana. La Società Terni, per salvaguardare i propri impianti, aveva ormai deciso di seguire la via della corruzione. Ma non tutto funzionò per il meglio negli accordi presi con il comandante delle truppe tedesche di stanza a Terni. Vincenzo Inches, allora membro del CLN, così ricorda nella sua autobiografia lo svolgersi degli avvenimenti: Fu presa un’iniziativa per un contatto con l’ing. Riccioni, direttore dei Servizi Elettrici della [Società] Terni per concordare un piano di difesa della centrale di Galleto. Io con il compagno Bibolotti ci recammo due volte a Stroncone per un appuntamento, ma l’ing. Riccioni fu assente. Ciò risulta a verbale anche su un’inchiesta compiuta dalla [Società] Terni dopo la Liberazione. Ci risulta che il Riccioni abbia sfuggito la nostra collaborazione su indicazione della Presidenza della [Società] Terni (Bocciardo) e che questa aveva consegnato al Riccioni dell’oro per corrompere i tedeschi e salvare così la centrale. Il Riccioni però, al passaggio dei guastatori tedeschi a Terni, preferì nascondersi a Roma. La distruzione della centrale fu operata con criteri proprio scientifici108.
Gli impianti siderurgici, a differenza di quanto avvenne a quelli elettrici, furono lasciati illesi. Questa diversità di comportamento dei guastatori tedeschi è resa facilmente comprensibile dalla testimonianza di Aldo Bartocci, uno dei dirigenti dello stabilimento siderurgico: Io ero vicedirettore, ma il direttore era andato a Roma e l’amministratore delegato stava
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impianto di frantumazione e macinazione del carburo; da quello di Nera Montoro, altri due apparecchi di scomposizione dell’aria, un altro per il frazionamento del gas, alcuni compressori e quasi tutti i catalizzatori di platino-rodio. Cfr. Vasio, Vita della “Terni” cit. (a nota 100), p. 86. Ibidem. Cfr. Inches, Autobiografia cit. (a nota 9) , p. 13.
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Nell’immediato dopoguerra vasti settori del complesso produttivo ternano si trovavano dunque in condizioni estremamente difficili e assai ardua appariva l’opera di ricostruzione, soprattutto per l’industria siderurgica, per la quale – da sempre adibita a produzioni essenzialmente belliche – si ponevano anche seri problemi di riconversione.
2. Ripresa produttiva ed epurazione: due vertenze parallele Agli operai – ed al resto della popolazione – che, dopo il 13 giugno, cominciarono a far ritorno a Terni non fu certo il problema della ripresa produttiva ad apparire come prioritario. Altre misure di primo intervento erano infatti richieste dalla situazione drammatica in cui si trovava la città, duramente colpita dai bombardamenti. Pertanto lo sforzo collettivo, nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione, fu indirizzato soprattutto allo sgombero delle macerie, alla riparazione della rete idrica ed alla riattivazione della viabilità. Del resto la quasi totale mancanza di energia elettrica e di materie prime rendeva impossibile in questa prima fase la ripresa della produzione nell’industria ternana. Per di più gli Alleati, al loro arrivo, avevano preso immediatamente sotto la propria direzione lo stabilimento siderurgico e ne avevano trasformato i capannoni in enormi magazzini di viveri per la 5a armata110. Per questa ragione il dirigente alleato, da cui dipendeva lo stabilimento siderurgico, aveva inizialmente autorizzato il ritorno al lavoro di soltanto 500 operai con il compito di ripristinare gli impianti e i macchinari. Ma il continuo ripetersi di furti
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Testimonianza del 25 ottobre 1980. Cfr. il rapporto del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Taddeo Orlando, del 22 luglio 1944, in ACS, MI Gab 1944-1946, b. 18, fasc. 1359.
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invece a Genova, per cui in quel periodo cruciale mi sono trovato da solo a dirigere l’Acciaieria. Mi ricordo che stavo nel rifugio quando arrivò l’interprete per inche mi voleva il comandante tedesco. Nonostante l’allarme, sono uscito e sono andato nel suo ufficio. Quello era un brutto periodo, con i tedeschi si discuteva male; era il periodo in cui i dirigenti venivano presi e spediti con i carri bestiame a lavorare in Germania. [...] L’ufficiale tedesco mi comunicò che avevano deciso di abbandonare la fabbrica perché si avvicinavano gli Alleati e quindi potevo mettere in libertà gli operai. Allora scrissi una lettera a Bocciardo per informarlo che avevamo fatto le paghe agli operai e che avevamo dato l’oro ad un anziano operaio perché lo consegnasse ai tedeschi – insieme all’oro avevamo preparato una lettera in cui si pregavano i tedeschi di non rovinare le nostre famiglie facendo saltare l’industria. C’era una automobile che andava a Genova, consegnai la lettera per Bocciardo all’autista e lasciai anch’io la fabbrica. Comunque quell’oro ebbe la sua funzione. Infatti l’Acciaieria non subì danni. Anche alle centrali elettriche i tedeschi cercarono il direttore per avere l’oro, ma non lo trovarono. Allora fecero saltare tutto109.
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di generi alimentari dagli improvvisati magazzini indusse l’autorità alleata a disporre la completa chiusura dello stabilimento. Ed a nulla valse l’intervento compiuto presso il comandante alleato da un rappresentante della commissione interna111, accompagnato dal presidente del CLN, per chiederne la riapertura112. Soltanto in seguito, con l’avanzata delle truppe alleate che comportò lo spostamento più a nord delle retrovie, lo stabilimento siderurgico venne sgomberato e poté così essere presa in considerazione la possibilità di riavviare l’attività produttiva nell’azienda ternana. Il primo incontro in cui furono esaminati i diversi problemi produttivi, immediati e futuri, della Società Terni si tenne intorno alla metà di luglio e vi parteciparono le autorità cittadine, i rappresentanti della ricostituita Camera del Lavoro ed alcuni dirigenti che erano stati autorizzati con una speciale procura a rappresentare l’azienda in questo periodo. Prima di prendere in esame quanto avvenne nel corso di questa riunione è tuttavia opportuno fare qualche breve considerazione a proposito del gruppo direttivo che si trovò a guidare la Terni nell’immediato dopoguerra. Il consiglio di amministrazione della società nell’adunanza del 27 ottobre 1943 aveva nominato con un lungimirante provvedimento straordinario un secondo comitato direttivo aziendale, che avrebbe avuto la propria sede in Roma. Tale organismo direttivo – poi correntemente indicato come “Sottocomitato sud” – aveva lo scopo di assumere la gestione delle unità produttive dell’azienda ternana nel “deprecato caso” in cui, in seguito all’“occupazione da parte di un esercito nemico” delle località dove erano situati gli impianti, si fosse reso impossibile
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Le trattative per la costituzione di una prima provvisoria commissione interna furono avviate già all’indomani della caduta del fascismo. Comunque la ricostituzione delle commissioni interne nei diversi stabilimenti del complesso industriale ternano venne successivamente ratificata in seguito all’accordo nazionale sottoscritto il 2 settembre 1943 da Bruno Buozzi e dall’ingegner Mazzini, rispettivamente in rappresentanza della Confederazione Italiana dei Lavoratori dell’Industria e della Confederazione degli Industriali. Tale accordo attribuiva ai rinati organismi di fabbrica una larghezza di compiti che andava dalla rappresentanza sindacale in fabbrica alla possibilità di dar vita autonomamente – “previa autorizzazione della locale associazione sindacale dei lavoratori” – a contrattazioni collettive di lavoro a carattere aziendale. La vita legale delle commissioni interne in questa fase fu però breve. Esse infatti vennero ben presto costrette alla clandestinità dall’occupazione tedesca. Ovviamente, quando, all’indomani della Liberazione, vennero nuovamente ricostituite, le commissioni interne mantennero le prerogative previste dall’accordo Buozzi-Mazzini. Pertanto nell’immediato dopoguerra le commissioni interne alla Società Terni si trovarono a sviluppare una ampia attività di contrattazione aziendale svolta sia in maniera autonoma, sia partecipando a pieno titolo, a tutte le trattative intavolate tra l’organizzazione sindacale e la direzione aziendale. Per diverse ragioni al congresso di Napoli delle organizzazioni sindacali dell’Italia liberata, svoltosi a febbraio del 1945, le funzioni degli organismi di fabbrica vennero pesantemente ridotte. Su quanto detto cfr. Isvo (Vincenzo Inches), 13 giugno 1944, in “La Turbina”, 13 giugno 1945. Più in generale cfr. F. Momigliano, Sindacati, progresso tecnico, programmazione economica, Torino 1966, pp. 110-116. Il testo dell’accordo Buozzi-Mazzini si trova in Accordi interconfederali 1943-1966, Roma 1967, pp. 5-7; nonché in ACLT, Accordi nazionali e locali, fasc. “Anni 19431944”. E opportuno precisare che, essendo l’archivio della Camera del Lavoro in via di riordino, le indicazioni relative alla collocazione dei singoli documenti risultano parziali e provvisorie. Cfr. il verbale della riunione del CLN provinciale del 7 luglio 1944, in ACS, CCLN, b. 10, fasc. 145,
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Cfr. ASOT, Consiglio di Amministrazione, vol. 27, adunanza del 27 ottobre 1943. A tale proposito si veda quanto detto più avanti.
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ogni contatto con la direzione generale trasferitasi a Genova. A presiedere il nuovo organismo aziendale fu posto il vicepresidente della società, l’ingegner Girolamo Ippolito. Consiglieri amministrativi della Terni erano anche gli altri due membri componenti il comitato – il professor Basilio Focaccia e l’ingegner Domenico De Simone. Solo successivamente vennero aggregati al comitato i due direttori centrali dell’azienda, l’ingegner Edoardo Bochicchio e il dottor Luigi Bixio – quest’ultimo con l’incarico di segretario. In questa stessa seduta gli amministratori della Società Terni rilasciarono a Bixio e ad altri tre dirigenti – l’ingegner Vittorio De Gasperi, direttore degli stabilimenti siderurgici; l’ingegner Elia Mandrelli, direttore dell’ufficio tecnico siderurgico; il commendator Francesco Crisi, direttore della segreteria centrale amministrativa – una speciale procura per rappresentare “con firma congiunta due a due fra di loro [...] la società in tutti gli atti ed operazioni concernenti gli stabilimenti, le miniere e le centrali elettriche siti nelle province di Terni, Perugia e Rieti”113. Pertanto, attuatosi il “deprecato caso di occupazione”, furono questi quadri direttivi ad assumere la guida dell’azienda, assicurando così la continuità nella gestione. In realtà essi, in questa prima fase, si limitarono a prestare una collaborazione subalterna nei confronti dei tecnici alleati, che controllavano il complesso produttivo ternano. Ma, anche se subalterno, questo rapporto di collaborazione – che risulta essere stato eccellente114 – ebbe importanti conseguenze per l’intero apparato direttivo aziendale. Infatti, al riparo dell’autorità degli Alleati, la direzione della Società Terni fu riconfermata per l’immediato e legittimata per il momento in cui il complesso industriale sarebbe tornato ad una gestione autonoma. Verosimilmente la copertura degli Alleati e la mancanza di una netta soluzione di continuità nella gestione aziendale impedirono ai dirigenti di comprendere esattamente quanto la situazione generale fosse cambiata e soprattutto di capire la radicale evoluzione che il crollo del fascismo e la lotta di liberazione avevano prodotto nella classe operaia, nella sua coscienza di sé, nei suoi orientamenti politici. Ciò apparve evidente nell’atteggiamento tenuto dai dirigenti della società presenti al ricordato incontro del luglio 1944, nel corso del quale essi dovevano discutere con i nuovi amministratori pubblici cittadini e con i rappresentanti sindacali del movimento operaio in merito alla riorganizzazione produttiva dell’azienda ternana. I rappresentanti della Terni, sottovalutando l’inevitabile reazione dei dirigenti del movimento operaio, si presentarono in quella sede proponendo e difendendo un programma produttivo che avrebbe significato per i lavoratori ternani disoccupazione e miseria. Ma la risposta dei dirigenti sindacali fu altrettanto ferma, soprattutto quella del segretario della Camera del Lavoro, Vincenzo Inches.
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La riunione – ricorda opportunamente Bruno Zenoni, uno dei partecipanti a quell’incontro – tra le nuove forze che avevano preso ad amministrare la città, i rappresentanti operai e i dirigenti che la Terni aveva lasciato al di qua della linea Gotica avvenne a palazzo Cittadini, allora sede della prefettura. Si doveva discutere per la riorganizzazione delle fabbriche, per dare lavoro agli operai. lo era assessore, mentre sindaco era Comunardo Morelli, che era stato invitato a questo incontro. Fu lui a dirmi di accompagnarlo. Tra coloro che ricordo come sicuramente presenti c’erano, naturalmente, il prefetto Gerlo, Inches per la Camera del Lavoro, Ippolito e Bixio per la [Società] Terni, mentre non ricordo con precisione se ci fossero rappresentanze del CLN, ma credo di si. Il nostro scopo era quello di sentire che intenzioni aveva la [Società] Terni a proposito della ripresa del lavoro nelle fabbriche ternane. I rappresentanti della [Società] Terni furono chiari. Dissero che in particolare all’acciaieria non sarebbe stato possibile assumere più di 500 operai, in quanto la [Società] Terni, non potendo continuare la produzione bellica, non vedeva prospettive davanti a sé. Dissero che il piano Sinigaglia prevedeva di ridurre i forni Martin dell’azienda, mentre si pensava di sviluppare la produzione di lamierini magnetici, di lingotti; tutte produzioni che sarebbero state fatte con i forni elettrici, che, evidentemente, sarebbero stati aumentati di numero. In conclusione ci informarono che in prospettiva c’era anche il progetto di impiantare un treno lamiere per la produzione di grossi lamierini necessari per gli scafi delle navi mercantili. Ma sia Inches, sia il sindaco, sia Gerlo, insistettero molto nel dire che era necessario fare qualcosa nell’immediato, perché tornavano i reduci, tornavano gli operai sfollati e questi avevano bisogno di lavorare per sé stessi, per le famiglie. Era perciò necessario che la [Società] Terni cercasse di dar lavoro a questa gente facendogli fare qualsiasi cosa. I rappresentanti della [Società] Terni rimasero però fermi nella loro posizione. Allora Inches disse loro che come avevano fatto prima quando obbligavano gli operai a lavorare sotto i bombardamenti per smontare le macchine da inviare in Germania, avrebbero dovuto fare adesso. Avessero trovato il modo, cambiando produzione o come meglio credevano, ma in ogni caso dovevano mantenere al lavoro tutti gli operai precedentemente occupati. Anche Gerlo, vista la posizione irremovibile dei dirigenti dell’azienda, tenne ad avvertirli che come prefetto non aveva le forze sufficienti per garantire i loro domicili dall’esasperazione dei reduci e che quindi riflettessero su questo fatto. La riunione si chiuse in questa maniera115.
A questo primo incontro, conclusosi su una posizione di rottura tra le parti, ne fecero seguito diversi altri, che furono però ristretti ai soli dirigenti aziendali, ai membri delle commissioni interne e ai rappresentanti della Camera del Lavoro. A qualcuna di queste riunioni partecipò anche il prefetto e il commissario alleato provinciale, ma, nonostante ciò, non fu possibile giungere ad alcun accordo. In ciascun di questi confronti infatti, all’irrigidimento della direzione aziendale, ferma sull’inevitabilità dei licenziamenti, corrispose un analogo irrigidimento dei rappresentanti operai, i quali, al massimo, si dichiararono disposti ad accettare il momentaneo allontanamento di una parte delle maestranze, a patto che venisse loro corrisposta la paga a tempo indeterminato. Di fronte alla risolutezza dell’atteggiamento operaio da parte aziendale fu allora proposta una soluzione di compromesso, ritenuta equa anche dal rappresentante alleato. La Società Terni si impegnava a corrispondere la paga per intero a tutti quegli operai che dal 5 115
Testimonianza citata.
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Gli esponenti degli operai, nel confermare la loro richiesta, hanno pure avanzata la proposta perché venga ad essi affidata la direzione amministrativa degli stabilimenti. Tale proposta, formulata dal sindaco di Terni, non è stata presa in considerazione. Il prefetto, visto l’impossibilità di raggiungere l’accordo fra le parti, ha deciso di interessare della cosa gli organi centrali. Sembra che anche il commissario provinciale Alleato riferirà alla Commissione Alleata di Controllo. Attualmente il governo italiano e le commissioni tecniche alleate non hanno dato alcun affidamento alla Società Terni per eventuali commissioni di lavori, acquisti di prodotti e forniture di materie prime116.
Purtroppo a questo punto una – forse incolmabile – carenza di documentazione ci impedisce di conoscere quali posizioni vennero assunte all’interno dei diversi ministeri per risolvere la situazione della Società Terni. Comunque, anche se insufficienti, i documenti disponibili indicano con certezza che in questa fase tra Ministero dell’Industria, Ministero dell’Interno, Presidenza del Consiglio e Commissione Alleata di Controllo vi fu un’intensa consultazione per giungere, vista la “rilevante importanza del caso”, ad una “sollecita soluzione dei problemi connessi con la ripresa della società medesima”117. Risolutivo fu, in ogni caso, l’intervento dell’organo di controllo alleato. Infatti i primi programmi volti alla ripresa produttiva dei due settori fondamentali della Società Terni – il siderurgico e l’elettrico – vennero elaboratori e resi operativi dai tecnici alleati, in collaborazione con quelli dell’azienda. Ma – come si è ricordato in precedenza – l’azione svolta dalle commissioni tecniche alleate non fu certamente
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Dal rapporto, datato 22 luglio 1944, del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Taddeo Orlando, in ACS, MI Gab 1944-1946, b. 18, fasc. 1359. Per le citazioni cfr. la comunicazione, datata 3 ottobre 1944, del capo di Gabinetto della Presidenza del Consiglio, ivi. Dalla lettera del rappresentante americano, Kirk, al Segretario di Stato, in data 9 settembre 1944. Cfr. il testo del documento in Foreign Relations of the United States, 1944, Foreign Relations of the United States, 1944,
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giugno 1944 a causa dell’intensificarsi dei bombardamenti non si erano più recati al lavoro. Inoltre a coloro che non fossero stati riassunti l’azienda avrebbe corrisposto, oltre alla normale indennità di licenziamento, due aggiuntive quindicine di paga. Ma questo tentativo d’accordo, con cui, tra l’altro, l’azienda cercava di dividere i lavoratori, promettendo una gratifica economica per tutti in cambio dell’accettazione dei licenziamenti per alcuni, venne risolutamente rifiutata dai rappresentanti operai. Pertanto l’inconciliabilità delle posizioni espresse dalle parti indusse l’autorità prefettizia ad investire gli organi ministeriali del compito di ricercare una possibile soluzione. Il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, generale Orlando, così informava il ministro dell’Interno nel suo rapporto sugli esiti della vertenza:
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disinteressata e al di sopra delle parti. Furono per lo meno due i motivi che sollecitarono l’operato degli Alleati: innanzitutto la necessità di utilizzare per i propri bisogni gli impianti e i prodotti della Terni, in secondo luogo il proposito di “eliminare la possibilità che folle affamate si volgessero a predicatori estremisti”118. Di particolare importanza risulterà essere per il futuro dell’azienda il programma produttivo che gli Alleati elaborarono per lo stabilimento siderurgico. Tale programma escludeva perentoriamente la ripresa della produzione di materiale bellico. Le intenzioni degli Alleati, rispetto al nuovo indirizzo produttivo da assegnare alle Acciaierie, erano infatti precise. La risposta dell’ammiraglio Stone, capo dell’ACC, ad alcune sollecitazioni del presidente del Consiglio non lasciava dubbi in proposito. In essa tra l’altro si affermava:
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Riferendomi al suo paragrafo finale “Se alla Società Terni venisse affidata la fabbricazione di vero materiale bellico, l’attività delle Acciaierie Terni sarebbe senza dubbio molto maggiore e sarebbe pertanto di vantaggio agli operai e alla società stessa”, sarebbe opportuno a questo punto di fare alcune osservazioni al riguardo: a) Nel passato le Acciaierie di Terni fabbricavano i seguenti prodotti bellici: chici navali perforanti; obici pesanti di artiglieria di ogni tipo, cannoni navali di grosso calibro; materiali in acciaio da utilizzarsi per la manifattura di pezzi pesanti di artiglieria. Si ritiene che in questo momento non vi è necessità per la ripresa della produzione in questo campo. b) In vista della grande necessità di sezioni di acciaio per la ricostruzione di ponti, di strade ferrate, di pezzi d’acciaio per le costruzioni di navi, non può essere abbastanza sottolineato che la più grande contribuzione che possa venir fatta dalle Acciaierie di Terni per la ricostruzione d’Italia non è nella produzione di “vero materiale bellico” ma nella fabbricazione di acciaio per la ricostruzione di un paese danneggiato. Istruzioni sono state date alla direzione della Terni affinché i loro programmi per il lavoro e lo sviluppo futuro, debbono precedere su queste linee e non comprenderanno “materiale bellico”119.
Pertanto il settore siderurgico della Società Terni si rimise in moto con un programma di riconversione produttiva dettato dai bisogni contingenti del paese. In settembre esso era già in grado di produrre l’intera quantità di acciaio richiesta dagli Alleati. Ciò rese possibile, con un incremento produttivo a breve termine, un’ulteriore produzione di circa 2.000 tonnellate di acciaio al mese da impiegare per le pressanti necessità civili. Inoltre la riattivazione degli impianti siderurgici e meccanici delle Acciaierie permise la riparazione, e spesso la completa ricostruzione, di macchinari e attrezzature meccaniche essenziali alla ripresa della produzione nelle centrali elettriche e negli altri stabilimenti. In definitiva, alla fine dell’anno, in ogni settore del complesso industriale si poteva registrare un’intensa attività ricostruttiva c/o produttiva.
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vol. III, Washington 1965, p. 1148. Cfr. inoltre il brano riportato in Collotti, Collocazione internazionale dell’Italia cit. (a nota 98), p. 46. Dalla lettera, datata 12 settembre 1944, dell’ammiraglio Stone, capo dell’ACC, al presidente del Consiglio, in ACS, MI Gab 1944-1946, b. 18, fasc. 1359.
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Cfr. ibidem Dal rapporto, datato 23 ottobre 1944, del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Taddeo Orlando, ivi.
Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione
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Alla rapida riattivazione dell’azienda corrispose, evidentemente, una larga possibilità di occupazione, che fece cadere la inevitabile necessità dei licenziamenti originariamente richiesti dalla dirigenza dell’industria ternana. Infatti, a settembre, risultavano occupati nel solo stabilimento siderurgico 1.600 operai. A questi se ne aggiunsero di lì a poco circa altri 1.000 in seguito al ricordato incremento produttivo120. Le rivendicazioni operaie relative alla ripresa della produzione ed al mantenimento dei livelli occupazionali potevano dunque considerarsi ampiamente soddisfatte. Ma i lavoratori ternani, insieme a questa vertenza, ne avevano aperta con l’azienda, e con il governo, un’altra, mettendo in discussione, all’indomani della Liberazione, i dirigenti che avevano assunto la gestione del complesso industriale. L’intero quadro direttivo aziendale veniva accusato – oltre che di essere largamente compromesso con il fascismo – della mancata salvaguardia degli impianti dalle spoliazioni e dalle distruzioni operate dai tedeschi. In particolare la volontà epurativa dei lavoratori era rivolta contro i due direttori centrali, Bixio e Bochicchio, i quali rappresentavano il potere dispotico che aveva reso durissima la condizione operaia negli anni del regime. Ad essi veniva pure rimproverato il fatto che “erano ascesi a tale posto senza preparazione alcuna, ma solo perché il primo e uno dei tre generi del presidente Bocciardo e l’altro è il fratello del direttore generale ing. Bochicchio Canio”121. L’atteggiamento, che i dirigenti aziendali tennero in seguito, nelle riunioni di luglio, esasperò definitivamente il risentimento dei lavoratori. Di conseguenza per il movimento operaio ternano il problema di veder realizzato un programma industriale, che doveva assicurare ampiamente l’occupazione, divenne tutt’uno con quello della liquidazione del gruppo dirigente aziendale – residuo del periodo fascista –, che, al contrario, perseguiva un’ipotesi di momentanea stasi produttiva, in previsione di una non improbabile smobilitazione. E l’intensa e intransigente pressione, con cui la classe operaia sostenne le proprie rivendicazioni, non cessò nemmeno quando fu evidente nell’azienda una generale attività di ripresa. La situazione creatasi alla Società Terni ed il diffuso malcontento operaio non mancarono di suscitare forti preoccupazioni anche negli ambienti di governo. La duplice richiesta dei lavoratori ternani di dare una gestione commissariale all’azienda e, nello stesso tempo, di nominare una commissione d’inchiesta per colpire i responsabili della mancata difesa degli impianti fu presa a livello governativo in seria considerazione. Ciò avvenne soprattutto perché le richieste operaie furono avvalorate da un rapporto inviato dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, in data 29 agosto 1944, al ministro dell’Interno. Difatti tale rapporto conteneva le seguenti considerazioni:
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Il consiglio di amministrazione, costituito in gran parte da personalità fasciste, ha dimostrato di non saper curare a sufficienza gli interessi della società, resistendo tra l’altro alle stesse disposizioni dell’I.R.I. che vuole avvicinare la propria sede agli stabilimenti sociali, tutti tra Terni e Spoleto. La presidenza e la direzione generale, in seguito agli eventi bellici, da Genova si sono trasferite a S. Margherita Ligure, dove presidente, direttori generali e altri capi hanno le loro ville [...]. Le visite agli stabilimenti della zona ternana, sempre molto rade, sono cessate dal gennaio 1944. Il consiglio di amministrazione nominò, nell’ottobre 1943, un “sottocomitato sud” [...] affidandogli l’incarico di “governare” la [Società] Terni, nel caso che la guerra avesse materialmente impedito al consiglio di mantenere con gli stabilimenti anche quei limitati contatti avuti negli ultimi periodi. La nomina di questo sottocomitato ha conseguito il solo risultato di ridurre ancor più contatti dei direttori degli stabilimenti con la direzione generale e la presidenza. Al sottocomitato vennero aggregati i due direttori centrali dott. Luigi Bixio e ing. Edoardo Bochicchio; l’uno genero del presidente Bocciardo e l’altro fratello del direttore generale. Negli ambienti della [Società] Terni si parla molto della inesperienza di questi due direttori centrali. L’organizzazione poco salda della [Società] Terni viene attribuita in gran parte ai favoritismi. La [Società] Terni è ricchissima, infatti, di direttori, condirettori, vice direttori, procuratori, ecc. tutti alla sede della direzione generale. Molti di essi sono parenti stretti tra loro.
Pertanto da parte dell’autorità militare in conclusione del rapporto, vista “la gravità del momento”, veniva “auspicata la nomina di un commissario governativo per la direzione tecnica del complesso industriale (acciaierie e centrali elettriche) della [Società] Terni”122. Notevole fu l’effetto prodotto in sede governativa dalla lettura di questo documento, come inequivocabilmente dimostra il seguente promemoria, preparato il 4 settembre per il presidente del Consiglio: Data la gravità del rapporto 29/8/1944 del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, relativamente alla Società Temi, penso che sarebbe da consigliare una inchiesta da affidarsi a un funzionario integro e di ordine superiore, salvo, in seguito a nominare un commissario, a meno che non si volesse subito un commissario con l’incarico anche di procedere all’inchiesta di cui sopra123.
Nel frattempo da parte aziendale si cercò con un espediente di attenuare l’intransigenza dei lavoratori riguardo all’epurazione. Lo stesso comitato direttivo nominò una commissione d’inchiesta per accertare la responsabilità del mancato salvataggio delle centrali elettriche. E, già il giorno successivo alla nomina di tale commissione, il vicepresidente della società, Ippolito, con un ordine di servizio ne anticipò il verdetto, disponendo l’allontanamento del direttore del settore elettri-
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Le citazioni sono tratte dal rapporto, datato 29 agosto 1944, del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Taddeo Orlando, in ACS, PCM, b. 3-1-10, fasc. 11379. Cfr. il promemoria, datato 4 settembre 1944, in ACS, MI Gab 1944-1946, b. 18, fasc. 1359.
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tenuto presente che il trasferimento della segreteria centrale amministrativa potrebbe costituire il primo passo o la conferma che la [Società] Terni non voglia ne incrementare né trasformare la sua industria con gravissimo scapito degli operai e della cittadinanza tutta; considerato che la [Società] Terni, per la sua posizione di industria nazionale, è stata per il passato e più principalmente dal fascismo, finanziata dallo Stato italiano; constatato che i dirigenti fascisti di ieri sono ancora i dirigenti di oggi;
denunciavano fermamente all’opinione pubblica e alle sfere responsabili governative i disegni liquidatori del gruppo direttivo aziendale e ribadivano la necessità di giungere quanto prima alla nomina di un commissario governativo124. Di fronte a quest’ultimo avvenimento i competenti organi governativi, che fin qui avevano tergiversato, dovettero adoperarsi per trovare in breve tempo una soluzione a quello che era ormai diventato il “caso Terni”. Pertanto venne affidato il compito di comporre la vertenza al sottosegretario del ministro dell’Industria, onorevole Molinelli. Con sollecitudine il rappresentante governativo promosse allora una riunione a Terni con i lavoratori dell’azienda per discutere quanto da loro richiesto. La conclusione fu che gran parte delle rivendicazioni operaie vennero accolte. Infatti, avendo il commissario straordinario dell’IRI, Piccardi, provveduto con un proprio intervento all’allontanamento del direttore centrale dell’azienda Bixio, Molinelli nel corso dell’assemblea con i lavoratori – che si tenne il 3 novembre in un teatro cittadino – fu largo di concessioni sulle restanti rivendicazioni operaie. “La Turbina”, organo cittadino dei tre maggiori partiti di massa, così riferiva sui risultati positivi raggiunti in quell’occasione dagli operai ternani: 124
Cfr. il rapporto, datato 23 ottobre 1944, del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Taddeo Orlando, ivi. In esso è riportato il brano dell’ordine del giorno citato.
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co, l’ingegnere Nestore Riccioni. Questi fu ritenuto, a causa della sua fuga da Terni nei giorni di transizione, l’unico responsabile della distruzione delle centrali e il suo posto venne affidato – con un provvedimento che risultava essere una degradazione – all’ingegnere Edoardo Bochicchio, uno dei due contestati direttori centrali. Ma, nonostante ciò, la direzione aziendale non riuscì a raggiungere lo scopo perseguito. Anzi il provvedimento preso da Ippolito fu quanto mai inopportuno, perché lasciava ancora un dirigente inviso ai lavoratori in un posto direttivo e, in più, offriva un ulteriore argomento alla contestazione operaia. Infatti Bochicchio, avendo competenze specifiche nel campo della chimica, appariva assolutamente inadeguato per la direzione del settore elettrico. La mobilitazione dei lavoratori ternani si fece imponente agli inizi di ottobre, allorchè si diffuse la voce che alla Società Terni si stavano studiando misure per trasferire a Roma la segreteria centrale amministrativa con i suoi uffici commerciali. La sera del 10 ottobre circa 5.000 operai si riunirono in assemblea in un teatro cittadino e votarono un duro ordine del giorno di condanna nei confronti della dirigenza aziendale. In esso i lavoratori,
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Per oggi ci contenteremo di trascrivere le risultanze dei convegno dell’on. Molinelli che segnano un primo passo verso la storia del domani. in quel convegno si stabilì quanto segue: 1- Il governo democratico italiano, in considerazione del capitale finanziario che lo Stato tiene impegnato nel grande complesso della [Società] Terni, costituisce un consiglio di amministrazione composto da un membro di sua fiducia in collaborazione con la società e una rappresentanza di operai e impiegati. 2- Creazione di una commissione di epurazione e selezione tendente ad eliminare dalla [Società] Terni tutti quegli elementi che per varie ragioni non godono più alcuna fiducia e stima fra le maestranze. Tale commissione sarà composta da un giudice, dal commissario per l’epurazione, da un rappresentante della [Società] Terni e da due lavoratori. Questo comitato svolge il suo lavoro nell’ambito degli stabilimenti della [Società] Terni e solo per il personale della [Società] Terni. In ogni stabilimento la commissione aggregherà i rappresentanti delle maestranze del luogo lasciando insostituiti gli altri tre. 3- In via del tutto provvisoria e fino a tanto che non sarà nominato il nuovo consiglio di amministrazione, la direzione generale della [Società] Terni sarà assunta dall’ing. Buscaglia. Il nuovo consiglio di amministrazione avrà la facoltà di sostituirlo. 4- Garanzia la più assoluta che la direzione della [Società] Terni non verrà portata a Roma, né da altre parti, anzi essa sarà rafforzata. 5- Il governo democratico italiano dà il suo pieno appoggio a che l’industria della [Società] Terni progredisca sempre più e meglio. Tale programma è diviso in due periodi: 1) periodo attuale, lavorare per il paese e per conto e su ordinazioni alleate per i bisogni dell’esercito alleato; 2) trasformazione ed utilizzazione degli impianti per la ricostruzione della nazione e per i bisogni civili. Tale programma però è subordinato alle necessità degli Alleati, alle possibilità di erogazione della energia elettrica, a quello dei rifornimenti di materie prime occorrenti. Tali risoluzioni sono state entusiasticamente accolte da tutti i componenti delle commissioni interne. La Camera del Lavoro è ben felice del buon andamento dell’inizio per la risoluzione della questione. Al saluto ed al ringraziamento che la Camera del Lavoro, per conto delle commissioni interne, dava al compagno Molinelli perché esso lo trasmettesse al governo, il compagno rispondeva ringraziando e ammonendo che l’esperimento dell’immissione di questa aria nuova era il primo in Italia e che è vanto e gloria della forza combattiva del proletariato ternano e che sarà un grande ammaestramento per l’avvenire, cioè nel momento in cui il popolo lavoratore tutto sarà chiamato alla compartecipazione nella grande industria nella società futura125.
Oltre a queste concessioni ricordate dal giornale cittadino, Molinelli promise poi la rimozione – appena fosse stato possibile, visto che si trovavano a Genova – dei due direttori generali, l’avvocato Giorgio Avallone e l’ingegnere Canio Bochicchio, e del presidente Bocciardo. Ciò che, invece, venne subito escluso dall’incaricato governativo fu la gestione commissariale dell’azienda, il cui massimo organo direttivo doveva, al contrario, continuare ad essere, fino al rinnovo delle cariche amministrative, il comitato già in funzione126. 125 126
Cfr. La “Terni”, in “La Turbina”, 12 novembre 1944. Appare importante sottolineare che nel corso della riunione da parte dei lavoratori non furono avanzate rivendicazioni di carattere salariale. Esse erano state in parte soddisfatte da un decreto legislativo
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Nella complessiva valutazione che in sede governativa era stata fatta della situazione dell’azienda ternana, e quindi nel mandato affidato a Molinelli, certamente aveva pesato a favore dei membri del comitato direttivo il giudizio benevolo espresso su di essi dall’ammiraglio Stone in una sua lettera a Bonomi127. L’autorità alleata al riguardo così si esprimeva:
Comunque l’apparente clima d’accordo con cui si era concluso l’incontro tra il sottosegretario all’Industria e le maestranze ternane, unito alla sensazione di aver fatto larghe concessioni per l’epurazione e per le altre questioni relative alla ripresa produttiva e occupazionale, fece credere ai responsabili del governo e dell’IRI definitivamente chiuso il periodo di più alta tensione alla Società Terni. D’altronde, anche l’energia con cui i lavoratori avevano ripreso l’opera di ricostruzione, soprattutto alle centrali elettriche – dove erano stati anticipati i tempi previsti da un piano aziendale di riattivazione, considerato “audace” dagli stessi tecnici alleati – autorizzava imprenditori e politici a ritenere pacificati i rapporti tra direzione aziendale e movimento operaio nell’industria ternana. Ma queste
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luogotenenziale di un giorno precedente l’assemblea operaia. Infatti tale decreto (2 novembre 1944) – “ritenuto che, dato lo stato di guerra, e in mancanza di un ordinamento sindacale di diritto, deve provvedersi per atto legislativo a rendere efficaci verso tutti gli appartenenti alle categorie interessate gli accordi convenuti a Roma il 13 ottobre 1944, fra le associazioni di prestatori d’opera e di datori di lavoro già disciplinati con contratto collettivo” – prevedeva, tra l’altro, che, a decorrere dal 16 agosto 1944, i datori di lavoro avrebbero dovuto corrispondere a propri dipendenti una indennità di carovita per ogni giornata di lavoro nella misura di lire trenta per gli uomini e le donne capo-famiglia, se la retribuzione mensile, al lordo di ogni ritenuta, non è superiore a lire tremilaseicento; di lire venti per gli uomini e le donne capo-famiglia, se la retribuzione mensile, al lordo di ogni ritenuta, è superiore a lire tremilaseicento ma non a lire cinquemila; di lire dieci per gli uomini e per le donne capo-famiglia, se la retribuzione mensile, al lordo di ogni ritenuta, è superiore a lire cinquemila; di lire venti per le donne non capo-famiglia se la retribuzione mensile, al lordo di ogni ritenuta, non è superiore a lire tremilaseicento; di lire quindici per le donne non capo-famiglia, se la retribuzione mensile, al lordo di ogni ritenuta, è superiore a lire tremilaseicento; di lire quindici per i ragazzi e le ragazze di età non superiore ai 18 anni. Inoltre l’atto legislativo sanzionava che ai lavoratori aventi diritto agli assegni familiari venisse corrisposto – sempre con decorrenza dal 16 agosto 1944 – un assegno supplementare di carovita nella misura di lire 5 per ogni giornata di lavoro e per ciascuna persona a carico. Cfr. la copia del decreto legislativo luogotenenziale n. 303 del 2 novembre 1944 – “Miglioramenti economici a favore dei lavoratori nel caso di rapporti di lavoro già disciplinati con contratti collettivi” – in ACLT, Accordi nazionali e locali, fasc. “Anni 1943-1944”. Cfr. a questo proposito l’appunto, datato 31 ottobre 1944, per il sottosegretario di Stato in ACS, Min, Int. Gab. 1944-1946, b. 18, fasc. 1359; cfr. inoltre la lettera, datata 20 ottobre 1944, del commissario dell’IRI, Leopoldo Piccardi, in ACS, PCM, b. 3-1-10, fasc. 11379. Dalla lettera, datata 12 settembre 1944, dell’ammiraglio Stone, capo dell’ACC, al presidente del Consiglio, in ACS, MI Gab 1944-1946, b. 18, fasc. 1359.
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Vorrei far presente che la nostra Sottocommissione per l’Industria e per le questioni industriali e la nostra Sottocommissione per i Lavori Pubblici e i servizi pubblici per questioni di energia elettrica stanno lavorando in stretta cooperazione con la Società Terni ed inoltre bisogna notare che la direzione della Terni è stata leale, efficiente ed energica. Molto credi[t]o è dovuto alla direzione della società per le loro attività e la piena cooperazione della loro organizzazione128.
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ottimistiche previsioni, che non tenevano conto del diffuso stato d’animo d’insofferenza dei lavoratori per la gerarchia aziendale, furono presto smentite, agli inizi di novembre, da diversi episodi, in cui si manifestò l’intolleranza operaia nei confronti di alcuni tra i più invisi quadri dirigenti aziendali129. Questi fatti, e la reazione che suscitarono nel padronato di stato, sono ampiamente documentati dal rapporto che il commissario straordinario dell’IRI, Piccardi, preoccupato per gli effetti frenanti che ne potevano derivare all’attività ricostruttiva, si affrettò ad inviare il 14 novembre a Bonomi, nella sua veste di ministro dell’Interno. In questa denuncia Piccardi così si esprimeva:
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Purtroppo però in questi ultimi tempi si sono venute manifestando a Terni, condizioni affatto incompatibili con un proficuo svolgimento dei [...] programmi di lavoro e, negli ultimi giorni, si sono verificati incidenti in cui è evidente tutta la gravità: la denuncia dell’ing. Giovanni Martinelli, addetto ai lavori di ricostruzione di Cotilia, la denuncia dell’ing. Francesco Bronzini, direttore dei lavori di Cotilia e degli impianti del Vomano; l’aggressione dell’ing. Domenico Pietromarchi, vice direttore tecnico dei servizi elettrici, designato dalla Commissione Alleata quale ripartitore del carico elettrico per l’Italia Centrale; le minacce di aggressione all’ing. Edoardo Bochicchio e all’ing. Ermanno Gigli, ai quali è affidata la ricostruzione delle centrali e delle linee elettriche; l’allontanamento violento dal posto di lavoro del sig. Eleonori, Capo turno alla centrale di Galleto. È doloroso quindi constatare che ne i provvedimenti adottati dall’IRI e che dovevano sembrare esaurienti, e nemmeno una recente chiarificazione avvenuta alla presenza di SE Molinelli, e conclusasi in espliciti e esaurienti accordi intervenuti tra il personale e la direzione della [Società] Terni circa le modalità da seguire nell’epurazione, hanno rischiarato l’ambiente che, anzi, è venuto sempre più turbandosi, malgrado l’azione costante di moderazione svolta dal comitato direttivo della società. Dagli elementi di giudizio qui disponibili, sembra indubitabile che il fornite delle agitazioni non si trovi tra il personale della [Società] Terni, il quale anzi si dimostra comprensivo dei suoi doveri, ma in un movimento intrapreso e condotto da elementi interessati le cui finalità esulano affatto dal campo della lotta meramente politica e tanto meno delle rivendicazioni sociali. La situazione si rileverebbe poi aggravata dalla indecisione dei locali organi politici di tutela e di polizia che non dimostrano di rendersi conto dell’importanza del campo ricostruttivo che la [Società] Terni viene attuando e che ove dovessero perdurare le attuali condizioni rischierebbe di trovarsi seriamente compromesso. È pertanto necessario che siano prontamente esaminati ed adottati con la maggiore urgenza provvedimenti che consentano il ritorno a Terni dì una situazione normale, senza di che anche l’IRI si troverebbe costretto di declinare ogni responsabilità circa ulteriori deplorevoli sviluppi che avessero a seguire. E ciò oltre che per i motivi di interesse nazionale più sopra illustrati, anche a vantaggio del numeroso complesso delle maestranze e degli impiegati della [Società] Terni130.
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Questa tendenza all’insubordinazione presente in larghi strati della classe operaia ternana era di certo un’istintiva reazione alla durezza del regime economico-politico sopportato dai lavoratori nel ventennio fascista. Peraltro non vi è dubbio che l’irrequietezza dei settori più radicali delle masse lavoratrici – soprattutto giovani operai che avevano vissuto l’esperienza partigiana – trovava in questa durezza le sue motivazioni più profonde. Sulle difficili condizioni di vita e di lavoro nella classe operaia ternana durante il fascismo cfr. Canali, Il movimento operaio a Terni cit. (a nota 35), pp. 10-21. Dalla lettera, datata 14 novembre 1944, del commissario dell’IRI, Leopoldo Piccardi, in ACS, MI Gab 19441946, b. 18, fasc. 1359.
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Cfr. la relazione presentata il 26 settembre 1945 agli azionisti della Società Terni, in ACS, PCM, b. 3-1-10, fasc. 11379.
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Senza dubbio in questo documento appaiono degni di nota tanto il modo con cui Piccardi tenta di attribuire, con un linguaggio oscuro, ad “un movimento intrapreso e condotto da elementi interessati” la responsabilità delle avvenute intemperanze, quanto il tono ricattatorio con cui lo scrivente chiedeva un’azione più energica da parte delle locali forze di polizia. Entrambi questi aspetti denotano i tratti tipici dell’ideologia padronale che ostinatamente si rifiutava di riconoscere la forza contestativa con cui la classe operaia poneva in discussione i tradizionali rapporti di potere capitalistici. È infatti scoperto il tentativo del dirigente dell’IRI di accreditare l’idea che autori delle violenze e delle denunce erano pochi individui, mossi da questioni personali – o meglio da propri interessi – contro i quali, come unico rimedio, era necessario una più efficace azione repressiva. Invece il contesto, in cui l’allontanamento violento e le minacce erano inserite, induce a credere che, se pur eseguite materialmente da una minoranza, simili azioni non avvenivano certo in contrasto con la volontà della massa operaia. Stando così le cose, diverrebbe facilmente comprensibile anche l’atteggiamento prudente mantenuto dalle forze di polizia. Infatti tale cautela potrebbe essere spiegata come diretta conseguenza della sensazione di assedio permanente, che una città a composizione sociale esclusivamente operaia, come Terni, produceva in chiunque, in qualsiasi maniera, era costretto a contrapporsi frontalmente al movimento dei lavoratori. Questa sindrome – riscontrabile anche in molti dirigenti aziendali era inoltre dovuta al fatto che, visto il limitato ambito territoriale cittadino, si era a continuo contatto con gli operai, in senso letterale, in ogni momento della giornata – e l’istintiva facilità con cui da parte di larghi strati di lavoratori si passava a vie di fatto era ormai nota. Non fu perciò un caso se da parte aziendale si diede a questo stato di cose una risposta diversa dalla ferma presa di posizione dell’IRI. Il comitato direttivo della società assunse infatti un atteggiamento conciliante nei confronti della massa operaia e, anzi, allo scopo di calmarne i settori più radicali si adoperò per dare una rapida attuazione ad alcune delle più importanti deliberazioni raggiunte il 3 novembre nel corso dell’assemblea con l’on. Molinelli. Infatti l’istituzione a Terni della direzione generale della società era stata deliberata dal massimo organo dirigente aziendale – “ritenuta l’urgenza di dare inizio all’ordinamento dell’organismo direttivo della società” – lo stesso 3 novembre131. Successivamente, con deliberazione del 6 dicembre 1944, il comitato direttivo nominò direttore generale della società l’ingegner Carlo Buscaglia, affiancandogli, però, a pari titolo – per la cura del settore finanziario – il dottor Vincenzo Landi. Infine il 13 gennaio 1945, a sette mesi esatti dalla liberazione della città, la Società Terni, l’IRI e la CGIL realizzarono il rilevante accordo che doveva rappresentare, nelle intenzioni dei
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contraenti, “un primo ma decisivo passo verso una fattiva collaborazione, anche nel campo amministrativo, tra la società e i dipendenti”. Tale accordo – come era stato abbozzato il 3 novembre – prevedeva “che l’azionista di maggioranza avrebbe a suo tempo proposto all’assemblea di inserire nel consiglio di amministrazione [con voto deliberativo] una rappresentanza dei dirigenti, degli impiegati e degli operai, e che intanto tale rappresentanza avrebbe costituito una commissione di azienda che avrebbe assistito il comitato in tutte le sue deliberazioni con voto consultivo”132. Con la firma di questo decisivo accordo e la fase di relativa calma che nell’industria ternana seguì, si chiuse un favorevole periodo in cui la classe operaia con la sua intensa mobilitazione aveva ottenuto una serie di importanti conquiste e posizioni di potere. In particolare un forte potere di contrattazione nei confronti della direzione aziendale derivò agli organi di rappresentanza dei lavoratori in conseguenza del fatto che essi si dimostrarono in questa fase gli unici in grado di attenuare il clima di insofferenza verso la disciplina produttiva e la gerarchia aziendale largamente presente sui luoghi di lavoro. Nel dopoguerra – ricorda Mario Filipponi, operaio comunista, comandante di un distaccamento partigiano – non è vero che non si lavorava nelle fabbriche, si lavorava, però non si accettavano più certe condizioni. Il padrone potevi anche deriderlo perché avevi la forza per farlo. Forse c’erano anche comportamenti esagerati. Comunque i dirigenti ti lasciavano fare, non ti tartassavano più come prima quando non potevi nemmeno accenderti una sigaretta. Io mi ricordo che alla fine della guerra entrai allo stabilimento elettronico di Papigno e all’ufficio personale domandavano il mio parere a proposito di quelli che avevano richiesto di essere assunti, mi chiedevano se erano stati combattenti, partigiani. In tal caso erano sicuramente assunti. Nell’immediato dopoguerra era questa la situazione. È ovvio che era la paura a far agire così i dirigenti. Non c’era proprio più la disciplina di una volta. Nell’ambito delle fabbriche tu potevi tenere riunioni, assemblee; potevi insomma fare politica liberamente133.
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Ibidem. Il testo dell’accordo non è purtroppo reperibile né presso l’archivio aziendale della Società Terni né presso l’archivio della Camera del Lavoro. Per quanto riguarda la ricerca di una nuova e più democratica impostazione dei rapporti di produzione, questo accordo costituì un punto di riferimento a livello nazionale. A tale proposito appare importante ricordare che al I congresso delle organizzazioni sindacali della CGIL, svoltosi a Napoli nei primi mesi del 1945, Giuseppe Di Vittorio nella relazione introduttiva, elencando i successi ottenuti dal sindacato unitario dal momento della sua costituzione, tra l’altro, affermava: “Vi è inoltre il patto stipulato per la partecipazione diretta degli operai, dei tecnici e degli impiegati alla gestione della Società Terni. Questo è un patto per cui, come ciascuno di voi ha intuito, si aprono davanti ai lavoratori degli orizzonti nuovi. Questo patto afferma il principio che il processo produttivo non si svolge come qualche cosa di estraneo ai lavoratori, non è qualche cosa che interessa esclusivamente il capitalista ed è in funzione unicamente del profitto, ma è qualche cosa cui è legato l’interesse della società, l’interesse del Paese, per cui i lavoratori stessi debbono partecipare alla gestione delle aziende. Questo successo è solo una premessa: ma ad esso non mancherà il seguito”. Cfr. il rapporto introduttivo di Di Vittorio al I congresso delle organizzazioni sindacali della CGIL dell’Italia liberata (Napoli, 28 gennaio - 1 febbraio 1945), in I congressi della CGIL, vol. I, Roma 1949, p. 111. Testimonianza resa ad Alessandro Portelli e Gianfranco Canali il 3 settembre 1982 da Mario Filipponi (n. 1924, operaio comunista, comandante di distaccamento partigiano).
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Pertanto, nella seconda metà del 1944, gli organismi sindacali e di fabbrica svolsero un duplice ruolo determinante, sia nel guidare le lotte dei lavoratori contro i propositi di smobilitazione della direzione aziendale, sia nel ristabilire un clima di collaborazione produttiva all’interno degli stabilimenti. In seguito con la liberazione del Nord si aprì un capitolo nuovo nella storia dell’azienda ternana. La sua sorte divenne infatti sempre più legata alla complessa vicenda dell’industria siderurgica nazionale ed alle scelte di politica economica operate dal governo. Così come, d’altro canto, sulla classe operaia sempre più forte si fece l’influenza della strategia che le organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori si erano date a livello nazionale.
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Testimonianza del 28 ottobre 1980 di Faliero Corvo (n. 1910, operaio comunista poi dirigente sindacale).
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Il dopoguerra – aggiunge a tale proposito Faliero Corvo, primo segretario provinciale della FIOM nel dopoguerra – è stato anche, per certi aspetti, un periodo triste. Perché? Perché c’era l’euforia delle masse che volevano, mentre le possibilità erano limitate. [...] Anche per quanto riguarda l’epurazione non poteva che essere un’epurazione relativa, altrimenti, per giusta regola, i dirigenti dovevi mandarli via tutti. Ed infatti dopo ha preso la questione in mano il sindacato ed ha tenuto le masse in ordine. Le masse frenate. [...] Le masse volevano sempre dì più, se davi uno reclamavano cinque. Il sindacato è riuscito a far ragionare gli operai134.
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Postfazione ALESSANDRO PORTELLI
Le ore ascoltate: Gianfranco Canali
Cominciamo dall’inizio, dalle mie esperienze adolescenziali. Cioè, esse’ adolescente, a Terni, negli anni 1960-1963, e di periferia. C’era il mito del corso Tacito. Cioè, noi ciannavamo poco al corso Tacito, perché non conoscevamo nessuno, ce sentivamo estranei, e ciavevamo un’ammirazione pe’’sti ragazzi invece che a corso Tacito stavano come pesci dentro l’acqua insomma, che conoscevano tutti, conoscevano le ragazze, che frequentavano corso Tacito, che frequentavano la zona più o meno mediana, tra il Red White e l’isola… Quindi dicevo, per noi abituati a non avécce tutto dalla vita, specialmente in un periodo facile e difficile come quello dell’adolescenza, quindi più temprati, è stato più facile anna’ a fa’ anche lavori che rifiutavamo pur de continua’, insomma, a lotta’ con la vita. Gianfranco Canali parlava così nel 1980. Io l’avevo conosciuto meno di un anno prima; Claudio Natoli, che seguiva a Roma la sua tesi di laurea sul movimento operaio a Terni, sapeva che mi occupavo della storia della classe operaia ternana e l’aveva messo in contatto con me. In quel tempo, Gianfranco stava ancora facendo un lavoro che non gli piaceva, pur di continuare a lottare con la vita: guidava il pulmino di una cooperativa che si occupava di assistenza scolastica, ma quello che voleva fare nella vita era occuparsi di storia. La storia di cui si voleva occupare non era solo un soggetto accademico; era anche la sua vita, e la vita di suo padre, operaio delle Acciaierie licenziato nel 1953, ancora indignato per quell’ingiustizia. Infatti la prima persona che mi portò a intervistare fu proprio suo padre: credo che, al di là della testimonianza storica, cercasse un rapporto, un’occasione per ascoltarlo con calma (oltre quel “doloroso silenzio”), ma anche per validare agli occhi del padre le sue scelte di vita. Non c’era romanticismo nel suo rapporto con questa storia; proprio perché era difficile, voleva capire. Aveva scritto:
ALESSANDRO PORTELLI, Postfazione
strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifascisti e partigiani a Terni e in Umbria
Caro Sandro, pensavo alle immagini stanche, che ci trascorrono davanti, alle ore ascoltate di storia minuta, alle altrui esistenze in cui forse troviamo il sapore della nostra. (Gianfranco Canali, 10.9.1979)
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Consuete grida, padre Figura cupa, padre Doloroso silenzio, padre
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Caliamoci insieme In questa cordata Che discende la vita.-
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Te racconto ‘st’episodio perché è proprio bello, una delle cose più belle che m’è capitato mai. Stavamo a fa’ volantinaggio ‘na mattina a le sei e, mentre stavo a da’n volantino a ‘n operaio, questo qui guarda, proprio co’la faccia stanca e me fa: ma, dice, voi che potete dormi’ la mattina a le sei, perché non ve ne state carmi, lasciate a noi pòri disgraziati da… da veni’ qui, insomma, alzàcce tutte le mattine… Noi non è che ciavevamo come classe operaia in testa… mio padre, o suo padre, quella che se conosceva. Perché se dovevo pensa’ all’operaio concreto non è che me facevo tante illusioni. L’operaio concreto lo conoscevo; l’operaio concreto era quello che stava con me nel 1968-1969 quando facevo il ragazzetto de vita al bar Aci. Io l’operai li conoscevo. L’operaio era mi’ padre, insomma, che era quello che me reprimeva, se portavo i capelli lunghi, che se vergognava del figlio capellone, non era quello aperto alle idee del futuro, no? Però uno a ‘ste cose ‘n ce pensava. Forse, dice, quell’è il singolo operaio; tutti l’operai, è ‘n’altra cosa, insomma. Non ci volle molto a volergli bene. Gianfranco Canali era una di quelle persone “normali” e “comuni” che sono tanto rare e preziose perché la loro normalità consiste semplicemente nel fare quello che credono giusto e perché da questo non si aspettano altri premi che l’orgoglio di un lavoro ben fatto. Mi aprirono – lui e Rosanna – la loro casa come se fosse la mia. Insieme cominciammo a cercare nelle vite altrui quello che lui chiama “il sapore della nostra”. La storia orale era la chiave per indagare sul complicato legame fra la classe operaia dei libri e l’operaio concreto della sua famiglia e del suo quartiere; lo strumento che gli permetteva di riconoscere nei grandi movimenti collettivi la complessa idiosincrasia delle vite individuali, e di ricostruire le radici storiche della sua stessa identità, del suo stesso carattere. Non ho mai conosciuto una persona così completamente priva di ogni traccia di aggressività; eppure, al tempo stesso, era affascinato da tutte le forme di ribellismo sociale e personale. Aveva sviluppato subito la qualità fondamentale di chi lavora con le fonti orali: una straordinaria capacità di ascolto, un rispetto profondo e insieme critico per l’interlocutore, una “sospensione dell’incredulità” che lo rendeva aperto ai significati impliciti anche delle storie meno plausibili. Nel frattempo, affinava gli strumenti classici dello storico: la passione per i documenti, lo scrupolo nella ricerca, la verifica attenta dei dati (basta guardare agli apparati bibliografici dei suoi saggi). Era un ricercatore nato – anzi: lo era diventato, lui
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C’era ‘sto ribellismo diciamo a livello sociale; cioè, non c’era coscienza politica. Io so’ stato uno dei primi capelloni ternani. Bisogna che te fai racconta’ dai vari operai le persecuzioni all’interno dell’acciaieria. Perché, be’, tra primi capelloni lo sapevamo, ce lo dicevamo. La persecuzione dei professori a scuola; le persecuzioni dei ragazzini che me sfottevano, e i genitori che ce ridevano. Fino a che un giorno me so’ arrabbiato co’ uno de questi più piccoli, e glie so’ corso dietro – non è che j’ho fatto niente. J’ho detto da smette’; e se glie diedi ‘na scorzetta – ma io non so’ un tipo violento: così… E me incontrò il padre du’ giorni dopo, dice tu hai menato a mi’ figlio. Insomma una parola tira l’altra, ce pigliai du’ schiaffi, ma no’ come quello che avevo dato al figlio; du’ schiaffi sonori… Va be’, venni a casa, lo dissi a mi’ padre, non è che potevo fa’ gnente. Eh, mi’ padre tutto sommato penso che parteggiava per loro. Poi co’ papà i rapporti so’ stati sempre difficili; a quel punto non era l’unico elemento de contrasto. Per cui a un certo punto s’era rassegnato a avécce prima il figlio capellone, dopo rivoluzionario, sempre instabile…
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che non era intellettuale per privilegio di classe, laboriosamente e ostinatamente. Combinava la flessibilità dello storico “scalzo” con la puntualità dell’accademico nel senso migliore della parola (l’università non aveva trovato per lui altro che un precariato marginale e un pendolarismo faticoso). Perciò, stando sempre aderente alla specificità delle biografie e dello spazio geografico definito di cui si occupava, non perdeva mai di vista il quadro storico generale, non ha mai sfiorato il colore locale e la nostalgia. Così, se parla della “tradizione sovversiva” del ‘proletariato di Terni – quell’humus di ribellione personale, senso di giustizia e coscienza di classe che fino a tempi recentissimi rendeva straordinaria l’aria di Terni – lo fa in modo tale da dare un contributo alla conoscenza complessiva della storia e dell’identità operaia in Italia. Riconosce subito che si tratta in parte di una “tradizione inventata”; ma capisce e dimostra puntualmente che le tradizioni inventate poi diventano elementi costitutivi reali delle soggettività, delle identità e delle autorappresentazioni. E comunque, qualche base devono averla, e lui la ricerca e la documenta minuziosamente. C’è un nesso molto preciso fra l’attenzione alle vite individuali che gli viene dalla storia orale, la consapevolezza del fatto che la classe è fatta di individui uno diverso dall’altro, e il riconoscimento della dimensione individuale, refrattaria, dell’indisciplina proletaria antiautoritaria che attraversa la storia di Terni. Penso al racconto di protagonisti del movimento operaio ternano, che intervistammo insieme, e che lui conosceva bene – Arnaldo Lippi, Alvaro Valsenti. Tutti e due davano una lettura lineare di questa storia: radici sovversive libertarie (repubblicane, anarchiche) poi ricondotte a sistema, ordine, logica, disciplina, attraverso l’adesione al Partito Comunista. Questa tensione fra indisciplina e ordine, movimento e stabilità, che rischia di diventare chiusura, Gianfranco la legge dentro la storia della sua città, ma ne fa implicitamente anche una chiave della sua stessa biografia.
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In Gianfranco Canali quella tradizione continuava, sia perché lui ne ricercava la memoria e quindi la presenza, sia perché ne incarnava i tratti migliori: l’assenza assoluta di secondi fini, l’autonomia intellettuale e morale intrecciata con una straordinaria generosità, la disponibilità a mettere il suo lavoro a disposizione di altri (c’è molto lavoro suo nel mio libro su Terni), l’orgoglio di origine operaia per il lavoro, una bontà trasparente fino all’ingenuità e una coscienza di classe che stava nella materia delle cose, nello stile di vita, nei rapporti con gli altri, prima ancora che nelle idee e nelle scelte politiche. Diceva Gianfranco Canali, riprendendo una frase di Bruno Zenoni, comandante partigiano: “Lo disse ‘na volta: quando noi ce sposamo ‘na causa ce la sposamo in maniera totale. Io già l’avevo detto, per me: me chiamo Sbornia. Ogni tanto me piglio ‘na sbornia pe’ qualche cosa. Quella fu la sbornia politica”. Negli anni ’70, Gianfranco Canali è fra i promotori della nuova sinistra a Terni (“i primi tempi furono bellissimi, veramente, perché c’era la fede, c’era la speranza, ancora l’elementi personalistici non erano venuti a contatto, non c’era lotte per il potere, anche quel micropotere che ce potevamo ave’…”). Poi le cose cambiarono, rimase senza riferimenti organizzati ma senza cedimenti nei valori. L’amore per la sua città, l’amore per la classe operaia, l’amore per suo padre, e la difficoltà di viverci insieme, sono stati la radice dell’ultima causa che Gianfranco Canali ha sposato, la “sbornia” definitiva della sua vita: la storia. Dopo le delusioni e i distacchi, sarà proprio la ricerca a permettergli di tenere insieme la passione politica con l’indipendenza di giudizio e una radicale purezza ideale. Quel rapporto con gli operai che era fallito nei volantinaggi, quel rapporto col padre così intenso e così difficile nella vita di tutti i giorni, prende corpo nella ricostruzione storica e nel dialogo dell’intervista: sapeva molto bene che la ricerca su campo è una forma, la meno autoritaria e intrusiva, di intervento politico; è un dialogo che trasforma tanto l’intervistato quanto l’intervistatore. Perché infine di questo si trattava: ascoltare gli altri, accettare la differenza, mantenere la propria autonomia e mettere gli esseri umani davanti a ogni cosa. E non permettere che nessuno resti solo. Va be’, era il 1968, le prime occupazioni all’Istituto Tecnico Industriale, e se facevano, diciamo così, anche degli scioperi a gatto selvaggio. Cioè quel giorno, non me ricordo che era successo, però circolava la voce: abbandonate immediatamente l’Istituto. Forse c’era stato qualche fatto internazionale, sì, legato al Vietnam; qualche bombardamento nel Vietnam. Qualche eco di qualche sciopero proveniente dal centro, tipo Milano, Roma. E, c’era ‘n compagno della classe mia, fascista; e co’ lui ciavevo discusso più volte chiedendo come mai, senza sape’ de politica… Questo comunque d’estrazione era operaio, il padre era operaio. In queste discussioni non è che s’è spiegato molto, non è che lui me dava delle argomentazioni valide della sua fede fascista. E allora, la prassi era questa, che in queste occasioni, chi non abbandonava l’Istituto rischiava da pigliàcce qualche cazzottone dai
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vari organizzatori. E allora, tutti abbandonano l’aula meno che lui. Io vedo che lui non esce, glie dico esci, ma che sta a fa’, qui a farti menare, non cià senso… – No, no, non m’aggrego a tutti quanti, non so’ d’accordo, non esco. E io ero lì tentato dal fatto de l’uscì, ideologicamente; e da resta’ a fargli compagnia perché non m’andava da fàllo rimane’ solo. Poi pensavo che in due, forse non ciavrebbero fatto gnente. So’ restato lì, insieme co’ lui. Comunque dopo, so’ passati due tre ragazzi, hanno guardato dentro, hanno visto che stavamo parlando noi due, e è finita così.
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Nota bio-bibliografica ROSANNA PICCININI
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Gianfranco Canali nasce a Terni il 4 settembre 1950. Iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, si laurea presso la cattedra di Storia dei Partiti Politici con una tesi su Terni tra Liberazione e ricostruzione. Il frutto di questo lavoro di ricerca verrà pubblicato nel 1984, con un saggio introduttivo di Renato Covino, in un volume dal titolo Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione (Amministrazione Comunale di Terni, ANPI di Terni). Da questa prima esperienza di indagine sugli eventi storici della città si sviluppa il suo interesse nei confronti della storia del movimento operaio ternano e delle forze antifasciste che hanno operato nella città e nel territorio. Inizia così un lungo periodo di collaborazione con l’ANPI e l’ANPPIA Provinciale di Terni che darà i suoi primi frutti nell’opuscolo L’emancipazione di un proletario (ANPI e ANPPIA di Terni), dedicato a Remo Righetti. Successivamente troverà tra gli ex partigiani, oltre a un gruppo di amici, una delle sue principali fonti per quanto riguarda la memoria dell’attività antifascista e delle operazioni svoltesi nell’Umbria meridionale durante la Resistenza. Nel 1984, in occasione delle celebrazioni del centenario della Società Terni, fa parte del gruppo di ricerca incaricato di realizzare la mostra fotografica “Terni 1884-1984. Dalla storia al museo della città”: insieme a Renato Covino, Osvaldo Fressoia e Alessandro Portelli cura la sezione La classe operaia e la cultura della città industriale e collabora alla pubblicazione del catalogo (Comitato per la celebrazione del centenario della Società Terni, CESTRES, Terni 1985, pp. 130-166), poi riedito dalla Federico Garolla di Milano (Terni storia e progetto. Ricerche, riflessioni e prospettive su un secolo di industria, Milano 1986, pp. 105-135). Nel corso dello stesso anno inizia la sua collaborazione con l’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea (ISUC) di Perugia che gli affida, insieme a Gianni Bovini e con il coordinamento di Paola Carucci e Renato Covino, il riordinamento dell’archivio storico della Camera Confederale del Lavoro di Terni e degli organismi sindacali a essa facenti capo. Ne risulterà un inventario cartaceo e l’opuscolo Per la storia del movimento sindacale ternano. L’archivio della Camera del Lavoro di Terni (ISUC, CGIL Terni, FIOM Terni ,Terni 1985, pp. 64). La seconda metà degli anni ottanta vede il consolidarsi dei suoi interessi di storico e di attento osservatore degli avvenimenti e delle trasformazioni che investono la città di Terni; si inserisce nell’ambiente intellettuale della città, attivando rapporti di amicizia e scambio con Gisa Giani e il CESTRES di Terni. Per quest’ultimo curerà la realizzazione del volume di Ezio Ottaviani, Il Comune di Terni tra il 1920
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e il 1922. L’Amministrazione socialista (Edizioni Galileo, Terni 1987) e alcuni articoli per il bollettino “Indagini”: “Ci obbligavano ad anna’ ai comizi dei capoccioni” (in collaborazione con Agostino Marcucci, marzo 1981, n. 12, pp. 31-35), I Consigli di gestione alla Società Terni (settembre 1982, n. 18, pp. 33-38) ed Evoluzione e involuzione nelle prime forme di democrazia municipale a Terni (in collaborazione con Gisa Giani, marzo 1983, n. 20, pp. 33-39). Nel 1989 fa parte del comitato scientifico che cura la realizzazione della mostra storico-documentaria “La città di Foligno e gli insediamenti ferroviari”, promossa dal Comune di Foligno e dalle Ferrovie Italiane FS per celebrare la prima strada ferrata italiana (Napoli-Portici) e l’attività delle Officine Grandi Riparazioni di Foligno; per il relativo catalogo redige il saggio Ferrovieri e movimento operaio a Foligno. Appunti per una storia (Electa/Editori Umbri Associati, Milano 1989, pp. 75-87). Il 1989 è anche l’anno in cui l’attività di Gianfranco Canali subisce un radicale cambiamento: il SENDES (Servizio Nazionale di Educazione Sanitaria) di Perugia gli offre un contratto di lavoro che gli consente di trasferire nel capoluogo umbro la sua attività e di ampliare i suoi interessi di storico al resto della regione. Per il SENDES si occupa della raccolta di voci bibliografiche sui problemi della sanità e della curatela del “Bollettino”. È di questo periodo anche l’intensificarsi della sua attività di ricercatore con l’ISUC e l’avvio della collaborazione con l’Università degli Studi di Perugia: presso le cattedre di Storia Sociale e, successivamente, di Storia Contemporanea, svolge attività didattica e di ricerca. Per conto dell’ISUC, insieme a Luciana Brunelli, si occupa del lavoro di ricerca per la realizzazione di una sezione umbra all’interno della mostra sulla guerra di Spagna promossa dall’ANPI di Vicenza. Il risultato viene pubblicato in un opuscolo dal titolo Gli antifascisti umbri nella guerra civile di Spagna (ISUC, ANPI, ANPPIA, Perugia 1989, pp. 40). Del 1989 è anche il saggio Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953, edito da Einaudi nel volume L’Umbria della collana “Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi” (Torino 1989, pp. 659-703). Nel 1990, nell’ambito di una ricerca coordinata dall’ISUC e promossa dalla Lega Regionale delle Cooperative e Mutue, esce il volume Studi sulla cooperazione, nel quale Gianfranco pubblica un suo saggio dal titolo Classi sociali, mutualismo, resistenza e cooperazione a Terni nella seconda metà del XIX secolo (Protagon, Perugia 1990, pp. 31-74). Sono del 1991 due collaborazioni in cui il suo apporto è stato soprattutto di tipo intellettuale e organizzativo. La prima con Giuseppe Gubitosi, impegnato nella redazione del volume Il diario di Alfredo Filipponi comandante partigiano, per il quale Canali effettua interviste, organizza incontri, svolge ricerche e mette a disposizione materiali in suo possesso. La seconda è relativa a un’indagine sulla condizione dei giovani ternani commissionata al professor Raffaele Rauty (dell’Università degli Studi di Perugia) dall’Assessorato alle Politiche Giovanili del Co-
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ROSANNA PICCININI, Nota bio-bibliografica
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mune di Terni: del gruppo di lavoro impegnato nell’organizzazione generale, nel reperimento delle informazioni e nella raccolta delle interviste fa parte anche Gianfranco Canali. In questo periodo si intensifica la sua attività presso l’ISUC, per il quale segue i concorsi banditi dall’ANPI e dall’ANPPIA di Terni e Perugia rivolti alle scuole medie inferiori e superiori. I concorsi hanno il compito di mantenere vivi lo studio e la ricerca degli avvenimenti legati alla Resistenza e all’antifascismo. In questo contesto il suo impegno sarà quello di fornire ai giovani studenti tutte le informazioni di tipo bibliografico, documentario e metodologico rispetto ai lavori da presentare ai concorsi (che si succederanno per diversi anni). Importante anche l’apporto fornito all’attività editoriale dell’ISUC e, in particolare, alle collane “Testimonianze e materiali” e “Memorie” . La prima ospiterà un suo contributo dal titolo La città moderna: forze sociali, politica e istituzioni nel volume I grandi passi. Narni, la città “antica” e la fabbrica (ISUC, Editoriale Umbra, Perugia 1991, pp. 45-59), che condensa il lavoro di ricerca svolto per la mostra fotografica-documentaria coordinata dall’ISUC per conto del Comune di Narni per la celebrazione dei cento anni dall’avvio del processo di industrializzazione di quel territorio, e il volume L’antifascismo umbro e la guerra civile di Spagna (ISUC, Editoriale Umbra, Foligno 1992, pp. 83-127), curato insieme a Luciana Brunelli; per la seconda curerà il volume Scritture di guerra e contro la guerra, di Torquato Secci e Comunardo Tobia (Editoriale Umbra, Perugia, 1997). Ma per conto dell’ISUC, presso il quale dal 1997 è impegnato con un contratto da ricercatore, si occupa anche delle attività di aggiornamento rivolte agli insegnanti e delle attività di ricerca finalizzate alla realizzazione di convegni e seminari. Così nel 1995, in collaborazione con la redazione della sede regionale della RAI, viene prodotto il documentario La pavoncella becca sul prato, dedicato ad alcuni momenti della Resistenza in Umbria dal 25 luglio alla Liberazione; di esso Gianfranco cura l’appendice bibliografica dell’opuscolo allegato al VHS. Successivamente, collabora all’organizzazione dei due convegni “Dal conflitto alla libertà” tenutisi a Perugia dal 30 novembre all’1 dicembre 1995 e poi il 28-29 marzo 1996. Negli atti del primo convegno (L’Umbria dalla guerra alla Resistenza), che cura insieme a Luciana Brunelli, comparirà il suo contributo postumo Partigiani, tedeschi, fascisti (ISUC, Editoriale Umbra, Foligno 1998, pp. 147-166); il secondo (L’Umbria verso la ricostruzione) gli sarà dedicato. Dopo la sua scomparsa viene pubblicata la voce Umbria nel primo volume del Dizionario della Resistenza, dedicato a Storia e geografia della Liberazione (Einaudi, Torino 2000, pp. 443-454). Della sua attività di cultore della materia presso la cattedra di Storia Contemporanea sono frutto due articoli usciti sulla rivista “Proposte e ricerche”: Conflittualità operaia nella Società Terni dalla Liberazione alla svolta del 1948 (1992, n. 29) e Una società rurale in guerra: note sulle campagne umbre durante la seconda guerra mondiale (1994, n. 33).
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Da ricordare ancora l’articolo Il diario di Alfredo Filipponi, in “Memoria storica” (n. 9, giugno 1996), e i saggi La classe operaia e L’opposizione operaia redatti per la Storia illustrata delle città dell’Umbria. Terni, pubblicati da Sellino Editore nella collana “Il tempo e la città” (Milano 1994, t. II, rispettivamente pp. 465-474 e 711-722). Sempre per Sellino prepara due lavori analoghi relativi a Narni (Classi lavoratrici e movimento operaio tra Otto e Novecento e Fascismo, antifascismo, Resistenza e dopoguerra) che sono stati recentemente pubblicati per iniziativa della Provincia di Terni con il titolo Il potere e il lavoro. Notabili e imprenditori, contadini, operai e antifascisti a Narni dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra (Provincia di Terni, CRACE, Perugia 2004, pp. V-66); nel volume sono state riproposte anche alcune delle immagini da lui stesso selezionate nel 1987 per la sezione “La città moderna: forze sociali, politica e istituzioni) della mostra “Cento anni di industria, Narni, la città ‘antica’ e la fabbrica”.
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Apparati
Apparati
Sigle e abbreviazioni
AC ACC AISUC AMG ANPI
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ANPPIA
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CAR CCLN CCRR CDL CFC CFLA CGDLI CGIL CLN CLNAI
Allied Commission Allied Control Commission Archivio dell’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea Allied Military Government Associazione Nazionale Partigiani d’Italia Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti Comitato Provinciale Assistenza Reduci Comitato Centrale di Liberazione Nazionale Carabinieri Reali Camera del Lavoro Comitato Fronte Comune Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura Confederazione Generale del Lavoro Italiana Confederazione Generale Italiana del Lavoro Comitato di Liberazione Nazionale Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia
ISUC
MAIC DGS Ministero Agricoltura Industria e Commercio, Direzione Generale della Statistica MVSN Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale OND OVRA
Opera Nazionale Dopolavoro Organizzazione Vigilanza Repressione Antifascista
PCDI PCI PLI PNF PRI PSIUP
Partito Comunista d’Italia Partito Comunista Italiano Partito Liberale Italiano Partito Nazionale Fascista Partito Repubblicano Italiano Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria
RSI
Repubblica Sociale Italiana
SAFFAT
Società degli Alti Forni, Fonderie ed Acciaierie di Terni Società Anonima Italiana Gomma Sintetica sua eccellenza sua eccellenza il re Società Italiana per il Carburo di Calcio ed Altri Gas Società Prodotti Esplodenti Autarchici
SAIGS
DC DdL
Democrazia Cristiana Democrazia del Lavoro (Partito Democratico del Lavoro)
S.E. S.E.R. SICCAG
FIOM
SPEA
FSS
Federazione Italiana Operai Metalmeccanici Field Security Service
GIL GNR
Gioventù Italiana del Littorio Guardia Nazionale Repubblicana
IRI
Istituto per la Ricostruzione Industriale
Apparati
Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea
ctg. p./pp. sez. s.f. t. vol.
categoria pagina/e sezione senza firma tomo volume
ACLT
Archivio della Camera del Lavoro di Terni MD Materiale diverso
ACS
Archivio Centrale dello Stato, Roma AF PNF Archivi fascisti, Partito Nazionale Fascista, Situazione politica ed economica delle province CCLN Comitato Centrale di Liberazione Nazionale CIE Conflitto Italo-Etiopico 1935-1941 (MI, DGPS AGR) DPP Divisione Polizia Politica 1927-1945, Affari divisi per materia (MI, DGPS) MI Ministero dell’Interno DGPS Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, AGR Affari Generali Riservati A 5 G Categoria A 5 G Seconda guerra mondiale AGP Affari Generali e Personali CPC Casellario Politico Centrale SCP Segreteria del capo della Polizia 1940-1943 UCP Ufficio Confino Politico 1926-1945 Gab Ministero dell’Interno Gabinetto, Archivio generale, Fascicoli correnti 1944-1946 Gabinetto Rapporti dei prefetti (1882-94) SdG Direzione Generale dei Servizi di Guerra, Atti diversi 1941-1945 PCM Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gabinetto, Affari generali 1944-1947 RSI Segr. ris. Repubblica Sociale Italiana, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato 1943-1945 SPD Archivi fascisti, Segreteria Particolare del Duce CR Carteggio riservato CO Carteggio ordinario 1922-1943
APC
Archivio del Partito Comunista Italiano (presso l’Istituto Gramsci di Roma) DN Direzione Nord Mat. Fed. Materiale Federazioni
ASCF Archivio Storico del Consiglio di Fabbrica della Società Terni ASCLT Archivio Storico della Camera del Lavoro di Terni ASDP Archivio Storico della Delegazione di Piediluco del Comune di Terni CA Carteggio Amministrativo
Sigle e abbreviazioni archivistiche
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Sigle e abbreviazioni archivistiche
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ASOT Archivio Società Terni AA Assemblea degli Azionisti CA Consiglio di Amministrazione Archivio di Stato di Perugia APP Archivio della Prefettura di Perugia, Ufficio di Gabinetto
AST
Archivio di Stato di Terni ASCT Archivio Storico del Comune di Terni ASST Archivio Storico della Società Terni TASC Tribunale Atti e Società Commerciali
b. fasc. fo. s.fasc.
busta fascicolo foglio fascicolo
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ASP
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Apparati
Indice dei nomi di luogo
Abruzzo, 283n, 292. Acquasparta (Terni), 298n. Africa, 205, 272, 302. Orientale, 191. Agello (Magione, Perugia), 258. Albaneto (Rieti), 282. Alta Valle del Tevere, 213, 252, 284n. Amelia (Terni), 188, 215n. Anconetano, 284n. Appennini/o, 172, 224, 227, 252, 254-255, 260. Aretino, 284n. Arezzo, 181, 284n. Ariano di Puglie, 33. Arrone (Terni), 185. Aspra, miniera (Monteleone di Spoleto, Perugia), 307. Assisi (Perugia), 176, 200. Balcani, 236. Barcellona (Spagna), 199. Baschi (Terni), 295. Basilea (Svizzera), 195. Bastardo (Gualdo Cattaneo, Perugia), 178n, 234. Belfiore (Foligno, Perugia), 201. Belgio, 16, 21, 35. Berlino (Germania), 305. Bettona (Perugia), 254. Bologna, 30. Borgo Cerreto (Spoleto, Perugia), 253. Branca (Gubbio, Perugia), 307. Brescia, 41. Buenos Aires (Argentina), 195. Buonacquisto (Terni, Terni), 261. Calabria, 297. Campania, 31. Campello sul Clitunno (Perugia), 241n. Cancelli (Foligno, Perugia), 257. Capua (Caserta), 12.
Cascia (Perugia), 169, 172, 234, 243, 253, 256, 261, 282-283, 302n. Casenove (Foligno, Perugia), 180. Cassino (Frosinone), 240, 245, 258. Castel Viscardo (Terni), 176n, 208n. Castelguelfo (Gubbio, Perugia), 227n. Castiglione del Lago (Perugia), 176n, 191. Castiglionese, 284n. Castiglioni (Arrone, Terni), 282. Cecanibbi (Todi, Perugia), 193. Cervara (Terni, Terni), 308. Cesi (Terni, Terni), 203, 240, 264-265. Chiascio, fiume, 245n. Chiusi (Siena), 255. Città della Pieve (Perugia), 176n, 181. Città di Castello (Perugia), 176, 176n, 194, 208n, 220n, 225n, 231, 250, 260, 284n. Colfiorito (Foligno, Perugia), 234, 251, 257. Collazzone (Perugia), 307. Colle dell’Oro (Terni, Terni), 307. Colle San Lorenzo (Foligno, Perugia), 196. Collecroce (Gubbio, Perugia), 257. Collemancio (Cannara, Perugia), 254. Corciano (Perugia), 176n. Costacciaro (Perugia), 180. Cotilia (Castel Sant’Angelo, Rieti), 146, 308, 320. Cremona, 298n. Cucco, monte, 180. Deruta (Perugia), 179, 225, 233, 254, 256. Eritrea, 193. Etiopia, 190, 193, 193n, 204. Europa, 208, 239. Fabro (Terni), 176n, 189. Ficulle (Terni), 176n, 189. Firenze, 284n. Folignate, 240.
Indice dei nomi di luogo
strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifasciti e partigiani a Terni e in Umbria
(i numeri si riferiscono alle pagine; n = nota)
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strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifascisti e partigiani a Terni e in Umbria
Foligno, 15, 17n, 47, 176, 176n, 180, 196, 203, 252-253, 259-260, 284n. Fontevecchio, 179. Francia, 16, 21, 180, 185, 188, 193, 202203, 208. Fronte Canavese, 33. Fucino, 297.
344
Gaeta (Latina), 51. Galleto (Terni, Terni), 146, 308, 320. Genova, 26, 41, 143, 148, 307n, 309, 311, 316, 318. Germania, 213, 213n, 305-306, 309, 312. Giove (Terni), 176n. Grosseto, 259. Guadalajara (Spagna), 200, 200n. Gualdo Cattaneo (Perugia), 254, 307. Gualdo Tadino (Perugia), 252, 284n. Gubbio (Perugia), 176, 176n, 189, 214, 257, 259, 284n, 284n. Inghilterra, 191, 193, 208. Italia, 4, 10, 13n, 18, 21, 23, 29, 35, 42, 56, 73, 89-90, 97, 103, 106, 113n, 122n, 124, 126, 130, 130n, 133-134, 140, 142, 146, 147n, 169-170, 182, 191, 198, 201, 205, 208, 212, 214n, 224, 229-230, 234, 236, 239, 241, 250, 256, 257, 266-267, 274, 282, 283, 283n, 284n, 292-293, 298, 301, 305, 310, 314, 318, 320, 322n, 329. Iugoslavia, 236, 236n. Jesi (Ancona), 11. L’Aquila, 30. La Spezia, 38. Lazio, 31, 229, 283n, 294n, 295, 297. Leonessa (Rieti), 169, 244, 256-257, 261262, 267, 282-283, 308. Lombardia, 16, 31. Lugnano (Terni), 176n. Lugnola (Configni, Rieti), 245. Lunigiana, 51. Maceratese, 284n. Madrid (Spagna), 201, 202. Maggiore, monte, 264. Magione (Perugia), 176n.
Apparati
Malbe, monte, 240, 250, 254. Marche, 31, 43, 105n, 219n, 229, 255, 283n, 292. Marmore (Terni, Terni), 308. Marsciano (Perugia), 176n, 190, 223n. Martani, monti, 233, 245, 245n, 251, 258, 284n. Mentana (Roma), 5, 38. Milano, 30, 160, 163, 254, 296, 297n, 330. Monaco di Baviera (Germania), 195. Monte Castello di Vibio (Perugia), 224. Monte Santa Maria Tiberina (Perugia), 176. Montebuono (Magione, Perugia), 258. Montecarotto (Ancona), 45. Monteleone di Spoleto (Perugia), 172, 227n, 243, 253, 262, 282. Montone (Perugia), 176n, 179. Morena (Gubbio, Perugia), 224, 258. Morgnano di Spoleto (Spoleto, Perugia), 201. Morro Reatino (Rieti), 261. Mosca (Russia), 198. Mucciafora (Poggiodomo, Perugia), 242n, 256. Napoli, 124-125, 128, 133, 147n, 310, 322. Narni (Terni), 129, 142, 176, 184, 188. Narni Scalo (Narni, Terni), 185. Nera Montoro (Narni, Terni), 62, 175, 194, 198, 306, 307n, 308n. Nera, fiume/valle, 39, 43, 44, 62, 284n, 288. Nera-Velino, bacino idrografico, 61, 81. Nizza (Francia), 195. Nocera Umbra (Perugia), 257, 284n. Norcia (Perugia), 169, 256, 282, 302n. Numana (Ancona), 259. Nursina, montagna, IX. Nursino, 254. Olmo (Perugia, Perugia), 181. Onelli (Cascia, Perugia), 262. Opagna (Cascia, Perugia), 243. Orbetello (Grosseto), 30. Orvieto (Terni), 129, 140, 176, 176n, 184, 201, 202, 209, 217, 255, 259, 284n, 295. Padova, 151. Padula (Salerno), 302. Papigno (Terni, Terni), 62, 67, 86, 136, 140, 175, 190, 195, 306, 307n, 308, 322.
Reatino, 89, 245, 266, 281, 283, 284n. Rieti, 30, 245n, 282, 311. Rivodutri (Rieti), 282. Roma, 4, 6-7, 9, 11, 33, 38, 41, 53, 60, 75, 79, 99, 122n, 124, 128, 130n, 131, 139, 143, 156, 170, 193, 195, 204, 220, 222244, 250, 258, 270, 274, 279, 284n, 285, 287, 294n, 295-296, 297n, 299300, 303n, 308-310, 317-318, 319n, 327, 330. Porta San Paolo, 279. Villa Glori, 7. Romagna, 31, 41. Ruscio (Perugia), 262.
Salerno, 297, 297n, 302. Salò (Brescia), 159n, 225, 237, 242, 244. Salto del Cieco, 285, 296. San Faustino (Pietralunga, Perugia), 215, 232, 252, 254. San Giustino (Perugia), 176n. San Nicolò di Celle (Deruta, Perugia), 179. San Pancrazio (Narni, Terni), 282, 267. San Pier d’Arena (Genova), 18. Sant’Anatolia di Narco (Perugia), 241n, 242n, 253. Santa Margherita Ligure (Genova), 307n, 316. Sardegna, 233. Scolaro, 253. Sellano (Perugia), 253, 257. Serra Partucci (Gubbio, Perugia), 259. Sicilia, 51. Siena, 126, 284n. Somalia, 193. Spagna, 174, 176n, 194, 195, 196, 199n, 200, 201, 202, 203, 204, 205, 231, 236, 250, 253, 260, 264, 265. Spina (Marsciano, Perugia), 190. Spoleto (Perugia), 10, 43, 176, 176n, 177n, 178, 182, 201n, 234, 236n, 238n, 245, 252, 259, 284n, 307, 316. Stroncone (Terni), 251, 287, 308. Subasio, monte, 253. Taranto, 131. Terni, IX, X, 3-7, 9-16, 16n, 19-23, 25n, 2627, 29-30, 30n, 31, 33, 35, 35n, 37-51, 54, 56, 59-61, 64, 64n-65n, 67, 67n, 68, 68n, 72n, 73-74, 74n, 75, 77-81, 83, 86-87, 89-90, 92, 96-97, 99, 101109, 112, 112n, 114-116, 118-120, 122, 124, 129, 129n, 130n, 131-133, 133n, 134-135, 137, 140n, 141, 141n, 142, 144-146, 146n, 148n, 150n, 153n, 164, 169-170, 174, 174n, 175, 175n, 176, 176n, 180n, 182, 184-185, 186, 187n, 188, 188n, 189-192, 192n, 193-197, 197n, 198-204, 204n, 205-206, 206n, 207, 207n, 208-210, 210n, 211-213, 213n, 214, 217, 217n, 218-222, 231, 231n, 232, 247n, 249-251, 256, 259, 260, 266-273, 275-276, 278, 278n, 279, 279n, 280, 280n, 281, 281n, 282, 284,
Indice dei nomi di luogo
strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifasciti e partigiani a Terni e in Umbria
Parigi (Francia), 50, 54, 180, 186. Penetola, 260. Penna in Teverina (Terni), 176n. Pergola (Pesaro Urbino), 33. Perugia, 33, 47, 77, 174, 174n, 175, 175n, 176, 176n, 177-182, 186, 188, 188n, 190-192, 192n, 193-194, 197, 197n, 200, 202n, 203, 204n, 205-206, 206n, 207n, 208, 210-211, 211n, 213, 213n, 214-218, 220-222, 231, 231n, 232, 233n, 234, 238, 242n, 245n, 250, 253, 257, 259-260, 276, 282, 283n, 286, 296, 299, 311. Porta Pesa, 197. Teatro Morlacchi, 175. Pesarese, 284n. Pesaro, 284n. Pescara, 180. Petrelle (Perugia), 260. Piediluco (Terni, Terni), 207, 207n, 211n, 217n, 219n, 220n. Piedipaterno sul Nera (Vallo di Nera, Perugia), 176n. Piemonte, 16, 18, 18n, 31. Pietrafitta (Piegaro, Perugia), 178n. Pietralunga (Perugia), 227n, 256. Piombino (Livorno), 38. Pissignano sul Clitunno (Campello sul Clitunno, Perugia), 251. Poggio Bustone (Rieti), 256, 282. Ponte Pattoli (Perugia, Perugia), 176n. Pontecuti (Todi, Perugia), 216. Preci (Perugia), 241n, 253, 308. Puglia, 31.
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strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifascisti e partigiani a Terni e in Umbria
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284n, 285, 285n, 286-288, 289n, 291, 293, 293n, 294, 299-306, 308-309, 311, 313, 316-317, 320-321, 327, 329-330. borgo Bovio, 54. Campofregoso, 288. corso Tacito, 327. corso/piazza Vittorio Emanuele, 5, 48. piazza Milazzo, 5. piazza Palestro, 5. piazza San Francesco, 5. piazza San Pietro, 5. piazza Tacito, 137. ponte d’Oro, 288. ponte Garibaldi, 288. ponte sul Serra, 288. porta Romana, 288. porta Valnerina, 288. Teatro Politeama, 162. Teatro Verdi, 175. via Cavour, 5, 48. via degli Artieri, 42. via del Sesto, 5. via di Porta Sant’Angelo, 5. via Garibaldi, 5, 288. via/piazza Corriera, 5. viale Brin, 287. Terni-Orte, linea ferroviaria, 73, 96. Tevere, fiume, 38. Todi (Perugia), 176n, 181, 193, 284n. Rione di Porta Fratta, 181. Torgiano (Perugia), 215n. Torino, 41.
Apparati
Torre Annunziata (Napoli), 41. Torre Maggiore, monte, 256. Toscana, 31, 292. Trasimeno, lago, 255, 259, 284n. Trestina (Città di Castello, Perugia), 201, 208. Trevi (Perugia), 176. Treviso, 33. Tuoro sul Trasimeno (Perugia), 176n. Umbertide (Perugia), 178, 234, 242, 260. Umbertide, San Benedetto, borgo, 242. Umbertide-San Sepolcro, linea ferroviaria, 178. Umbria, IX-X, 3, 6, 38, 105n, 174, 177n, 180, 180n, 185, 189, 194, 197, 199, 204, 206, 209, 212-213, 217-218, 224, 225n, 226, 226n, 229-230, 231n, 233, 234, 234n, 237-239, 241-242, 247, 247n, 249, 251, 254-255, 257, 259-260, 276, 283n, 292. Valle Piana di Arrone (Arrone, Terni), 285, 296. Vallo di Nera (Perugia), 241n. Valnerina, 41, 89, 251, 253-254, 266, 281. Valsesia, 171. Velino, fiume, 6, 284n. Veneto, 31. Vietnam, 330. Vindoli (Leonessa, Rieti), 242-243. Vomano, fiume, 146, 320.
Indice dei nomi di persona
Absalom Roger, 223n, 224n. Aga Rossi Elena, 291n, 294n. Agostini Oberdan, 201. Allegretti Domitillo, 57, 195, 195n. Allegretti Elide, 195. Alunni Pierucci Francesco, 11n. Amendola A., 227n. Amendola Giorgio, 250, 296, 297n. Andreucci F., 116n, 287n. Androsciani Agamante, 273n. Androsciani Felice, 51n. Angeli Ottavio, 16. Angelini Gianna, 261. Angelini Raul, 261. Anselmi Sergio, 214n. Arfè Gaetano, 276n. Avallone Giorgio, 113, 148, 318. Badoglio Pietro, 278, 291. Baglioni G., 13n. Bagonghi, 287. Balconi Margherita, 152n. Baldelli Ettore, 200. Balducci Guerrino, 200, 200n. Balloriani, autista, 287. Barberini Edoardo, 18. Bartocci Aldo, 308. Bartoccini Fiorella, 7n, 38n, 223n. Bartolini Dante (Tito), 282n. Bartolomasi, arcivescovo, 196. Bartolucci Egisto (Raffaele), 282n. Battaglia Roberto, 89, 100, 103, 103n, 231, 231n, 234, 235, 235n, 237, 237n, 238n, 243, 243n, 245n, 260, 281n, 282, 282n, 283n, 284n, 285n, 299n. Battaglini Orlando, 181. Battistelli Pier Paolo, 238n. Battistoni Dario, 26-27, 27n, 32, 32n, 33. Battistoni Valentino, 26, 29, 29n. Beccalli Bianca, 120n. Bedini Ambrogio, 32, 32n, 33.
Beldemonio, 148n. Bellini Luigi, 76n, 100, 206n. Bemporad Alfredo, 47n. Benedetti Roncalli Domenico, 3, 3n. Benedetti, astrologo, 288. Berding Andrue, 195. Bericotto Giuseppe, 217, 217n. Bernardini Domenico, 201. Bernatti Antonio, 33. Bertarelli P., ispettore generale, 50n. Bertolo Gianfranco, 206n. Besana Angelo, 262. Bevilacqua Giovacchino, 39. Bevilacqua Odoardo, 39. Bevilacqua Piero, 214n, 216n. Biagi Augusto, 32, 32n. Bianchi Fausto, 64n. Bianconi Gilberto, 180. Bibolotti Aladino, 104n-105n, 109n, 116, 116n, 117, 117n, 131, 287n, 289n, 290, 290n, 299n-300n, 308. Bicciolo Dante, 202. Bicciolo Emilio, 24, 202. Biganti Tiziana, 238n. Bisci Umberto, 205. Bistoni Ugo, 22n, 48n. Bitti Angelo, 237n. Bixio Luigi, 311-312, 315-317. Blanc Gaspare, 19. Blasi Igino, 261. Boccetti Erminio, 192n. Bocchini Camaiani Bruna, 260. Bocchini Romeo, 254. Bocchini, capo della polizia, 198-199. Bocciardo Arturo, 59, 113, 148, 148n, 305306, 307n, 308-309, 315-316, 319. Bochicchio Canio, 113, 148, 315, 318. Bochicchio Edoardo, 146, 311, 315-317, 320. Bogliari Francesco, 70n, 73n, 88, 100, 148n, 161, 163n. Bolletta Augusto, 201.
Indice dei nomi di persona
strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifasciti e partigiani a Terni e in Umbria
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strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifascisti e partigiani a Terni e in Umbria
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Bolli Giuseppe, 149, 156, 185n, 222n, 277n. Bologni don Giuseppe, 227n. Bonanni Antonio (Luigino), 236, 236n, 243, 243n, 282n. Bonanni Vincenza, 172, 262. Bonelli Franco, 37n, 59n, 62n, 73, 73n, 74n, 88, 100-102, 143n, 148n-150n, 152n, 156n, 182n, 307n Bonomi Ivanoe, 108, 111, 111n, 118, 119n, 144, 162n, 272, 274, 291, 296-298, 302, 319-320. Bonucci Bonuccio, 242, 252. Borgia Stellario, 289n. Bortolotti Arrigo, 4n, 10n. Borzacchini Alfredo, 33. Borzomati Pietro, 6n. Botondi Renato, 292n. Bovini Gianni, 3n, 16n, 100, 115n, 155n. Bovini Sergio, 68n, 88, 100-101, 146n, 203n, 226n, 229n, 230, 260, 278n. Bravetti Giuseppe, 140, 194. Bravo Anna, 215n, 223n, 244n. Brecht Bertolt, 245, 245n. Bronzini Francesco, 146, 320. Brunelli Luciana, 174n, 213n, 232n, 260. Bruno Giordano, 193. Bruto, 14n. Buozzi Bruno, 310. Buozzi-Mazzini, accordo, 127. Buscaglia Carlo, 146, 146n, 149, 149n, 150, 156, 318, 321. Bussoletti Leopoldo, 189. Caiello Ottavio, 224, 224n. Caiello Pietro, 224n. Calori Antonio, 51n. Campagnoli Alfonso, 27. Campi Antonio, 56. Canali Caffiero, 274n. Canali Gianfranco, IX- XI, 48n, 58n, 69n, 88, 100-101, 104n, 107n, 113n, 115n, 144n, 150n, 155n, 156n, 169, 169n, 174n, 177n, 182n-183n, 186n, 213n, 230n, 232n, 247n, 260, 285n, 320n, 322n, 327-330. Cantarelli Antero, 236. Capitani Loredana, 213n. Capitini Aldo, 203, 203n. Capuccelli Luciano, 213n, 227n, 260.
Apparati
Carboni Sante, 273n. Cardinali, antifascista, 287. Carini Arduino, 33. Carocci Giampiero, 229n. Carolini Simonetta, 64n, 68, 174n, 195n, 197n, 217n, 278n Cartiglia Carlo, 23n, 25n. Casali L., 174n. Castronovo Valerio, 32n, 277n. Catoni, 288. Cavalletti Candida, 223-224, 224n, 228. Cavallotti Felice, 54. Cavaterra, legionario, 201. Ceccarelli don Marino, 224, 224n, 258. Ceccarelli Luigi, 191. Celi Giovanni, 149. Cesaretti Rosina, 244. Chevalier Louis, 43. Chianese Gloria, 131n. Chiappini Poliuto, 279, 289n, 292n. Chiaretti Don Concezio, 257. Churchill Winston Leonard, 296. Ciabatti Primo, 232, 232n, 250, 257. Ciacci M., 10n. Cianca Mafalda, 220n. Cianetti Tullio, 59n, 60, 60n, 61, 61n, 7980, 88. Ciaurro Ilario, 7n, 38n, 49, 49n. Ciliani Pilati Assunta, 223n. Cimarelli Germinal, 231, 231n, 256, 264265. Cimarelli Luigi, 265. Cimarelli Oberdan, 265. Cintioli Osvaldo, 149. Ciocca Pierluigi, 277n. Cioccio Mario, 295. Ciuffoletti Francesco, 123n. Ciuffoletti Zefiro, 26n. Coacci Alessandro, 33. Colarizi Simona, 277n. Coles H.L., 304n. Coletti Ottavio, 6, 13. Collotti Enzo, 249, 297n, 304n, 314n. Comandini Aurelio, 65, 84. Comparozzi Emidio, 231, 231n, 250. Comunardo Tobia, 175, 273n. Conti don Antonio, 288. Cooper, tenente colonnello, 107. Corso, antifascista, 288.
D’Aragona-Morandi, progetto di legge, 160, 163. D’Astoli Giovanni, 289n, 298n. Dal Pont Adriano, 64n, 68, 174n-195n, 197n, 217n, 278n. Dami Alfonso, 24. Daneo Camillo, 125n, 133, 149n, 159n160n. De Angelis Emilio, 194. De Angelis Ettore, 51n. De Angelis Gualtiero, 11, 11n. De Angelis Rutilio, 123n. De Cenzo Stefano, 214n. De Courten, 296. De Felice Renzo, 59n, 88, 174n, 218n. De Gasperi Vittorio, 94, 98, 160, 311. De Marco P., 303n. De Simone Domenico, 149, 311. Decio, fornaio, 287. Degl’Innocenti Maurizio, 18n. Dejaco A., 11n. Del Bigio Serrano, 51n. Del Buontromboni Augusto, 254. Del Sero Luigi, 245n. Della Volta Andrea, 44-45. Depretis Agostino, 49. Detti Tommaso, 116n, 287n. Di Giuli Saturno (Miro), 282n. Di Vittorio Giuseppe, 113n, 122n-123n, 124125, 127, 147n, 322, 322n. Dobric Milan, 245n. Domenico De Simone, 143.
Domiziani Giuseppe, 273n. Duce, vedi Mussolini Benito. Eleodori, 146, 320. Ellwood David W., 299n. Fabbri Elvenio, 233n, 251. Fabbri Fabio, 32n. Fabi Tilde, 287. Fabri Alessandro, 16n, 27, 29n, 42, 42n. Faina, 287. Faloci Pulignani Margherita, 215n. Farini Pietro, 35, 36n, 53n-54n, 56n. Faustini Bernardino, 5, 6n. Faustini Pietro, 38. Fedeli Armando, 200, 232, 232n, 240, 250. Ferratini Tosi Francesca, 236n. Ferri Emilio, 165, 165n. Filippi Mario, 65, 65n, 85, 186, 187n, 196, 196n. Filippi Pietro, 32, 33. Filipponi Alfredo (Pasquale), 105-106, 106n, 107, 107n, 108, 133, 133n, 136-137, 170, 213n, 227n, 231-232, 250-251, 253, 255, 271-272, 277n, 281n, 289, 289n, 300n, 301, 301n, 302, 302n, 303, 303n-304n, 308. Filipponi Ambrogio, 285n, 302n. Filipponi Mario, 322, 322n. Fiore Adelio, 236n, 241n-242n, 243, 247, 247n. Fiore Fausta, 236n, 241n-242n, 243, 247, 247n. Fiorelli Fabio, 100, 163n. Flores M., 298n. Foa V., 120n, 124n-125n, 127. Focaccia Basilio, 143, 149, 311. Fogliano F., 100. Fongo, 200. Fornaci L., 285n, 287. Fossatelli Armando (Gim), 261, 282n. Fossatelli Giuseppe, 245, 245n. Fossatelli Olindo, 261-262. Francalancia Ezio, 193. Franco, 194. Frascarelli Luigi, 202. Frassati F., 285n, 299n. Fulvi Gustavo, 51n.
Indice dei nomi di persona
strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifasciti e partigiani a Terni e in Umbria
Cortesi Luigi, 26n. Corvo Faliero, 122n, 130n, 147, 148n, 323, 323n. Costa Andrea, 26, 54. Covino Renato, 3n, 16n, 40n, 58n, 61n, 64n, 68n, 88, 100-101, 156n, 177n, 182n183n, 206n, 209n, 213n, 222n-223n, 245n, 247n, 260, 273n. Crainz Guido, 297n. Cremonesi Ernani, 201. Crisi Francesco, 49, 50n, 311. Cruccu Rinaldo, 233n. Cruciani Guglielmo, 32. Cruciani Vincenzo, 48. Cuicchio Bruto, 289n. Curiel Eugenio, 297n.
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strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifascisti e partigiani a Terni e in Umbria
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Gabriotti Venanzio, 231, 231n, 250, 257. Gaj Tiberio, 65, 84. Galasso Giuseppe, 32n Gallerano Nicola, 68n, 100, 101n, 206n, 222n, 299n. Galli Della Loggia Ernesto, 244n. Galli, fornaio, 287. Gallo Giampaolo, 4n, 6n, 9n-10n, 15, 16n, 19n, 31n, 37n, 39n-40n, 44n-45n, 58n59n, 61n, 66n, 76n, 88, 100-101, 156n, 177n, 206n, 223n. Galluzzi Leonida, 175. Gambuli Settimio, 232n, 237n. Ganapini Luigi, 148n, 206n. Garibaldi Giuseppe, 14, 38, 54, 236. Garibotti G., 27n. Garofoli Giovanni, 48. Garofoli Paolo, 7n. Gazzoni Fortunato, 56-57, 57n. Gazzoni Giuseppe, 56-57, 57n. Gazzoni Paolo, 57, 57n. Gerlo Umberto, 287-289, 312. Ghini Celso, 105n, 225, 226n, 229, 229n, 230, 239n, 241, 245n, 247n, 255-256, 283n-284n. Giacchè Augusto, 213n. Giani Gisa, 3n, 34, 55n, 47n-48n, 88, 273n, 293n. Giannelli Domenico, 7n, 8, 8n. Giannelli Umberto, 32, 32n, 33. Giannini Massimo Severo, 163. Giansanti Monica, 243n. Giardinieri Giuseppina, 34, 35n, 52n. Gibelli Antonio, 115n, 120n. Gigli Ermanno, 146, 320. Gigli Vasco (Ernesto), 282n, 302. Giorgini Michele, 77n, 89n. Gironi Germano, 50n. Giuntella Maria Cristina, 260. Giustiniani Piero, 153-154, 163. Gnocchi Viani Osvaldo, 17, 17n, 27n. Gradassi Luzi Riccardo, 16n, 42n. Gramellini, 201. Grandi, 125. Granocchia Giuliano, 234n. Grassi Gaetano, 229n, 236n. Grassi P., 156n. Grassini Pietro, 292n. Graziani, bando, 225.
Apparati
Grecchi Mario, 254, 256. Grifone Pietro, 277n. Grohmann Alberto, 9n, 177n. Gualandi V., 10n. Gubitosi Giuseppe, 59n, 88, 177n, 185n, 213n, 224n, 230n, 244n, 260, 273n. Guerra don Alfonso, 257. Guidi Augusto, 149. Hanke Maurizio, 232n. Herrmann, comandante, 245n. Hobsbawm Eric J., 5n, 54n. Ilardi Massimo, 62n, 63n, 88, 183n, 277n. Inches Vincenzo, 117, 117n, 123, 123n, 136,-137, 139, 156n, 162, 162n, 185n, 277n, 279, 290, 290n, 308, 308n, 310n, 311. Innamorati Ferdinando, 180, 180n. Innamorati Francesco, 196-197, 197n. Innamorati Vera, 180. Iommi Andrea, 180. Iosif Visarionovic Dzugašvili, 97, 193. Ippolito Girolamo, 143, 148-149, 156, 311312, 317. Kesselring Albert, 259. Kirk, 313n. Kobec Ivica (Giovanni), 282n. La Penna Linda, 177n. Lakovic Svetozar (Toso), 255, 281n. Landi Vincenzo, 146, 149, 153, 156, 321. Lanza Jose Carol, 224n. Lanzardo Liliana, 161. Lanzi Luigi, 16n, 42n. Lastrucci G.A., 288n. Laurenti Alcibiade, 175. Legnani Massimo, 206n, 236n, 239, 239n, 299n. Lello, 287. Lenin, 84, 186-187, 202. Leone, 287. Lepre, 292n. Lesovic Svetozar, 253. Leto Guido, 200n. Levi Fabio, 124n. Leyers, 305. Lezzi, fratelli, 279, 287-288.
Maccari Angelo, 193. Maglietta Clemente, 180, 180n, 186. Magrelli, 287. Magri E., 159n. Malquori Giovanni, 149. Mambrini Giuseppe, 208n. Mammarella Gastone, 280n, 291n, 296n, 298n. Manacorda Gastone, 273n. Mancinelli Salvatore, 33. Mancini Alberto, 226n, 232, 232n, 250. Mancini Franco, 245n. Mancini Raffaele, 224n, 234, 234n, 242n. Mandrelli Elia, 311. Manelli Raimondo, 25n, 50n-51n, 54n. Manni Giovanni, 202. Mantelli Brunello, 213n. Manuelli Ernesto, 152, 152n, 156. Marchini Alfio, 255, 287. Mariani Tullio, 26, 29, 29n, 32, 32n, 33-34, 35n. Mario, 287. Martinelli Giovanni, 146, 320. Martini Lucifero, 234n. Marx Carlo, 54. Masci Guglielmo, 58n. Matteotti Giacomo, 60, 80, 201. Mattiangeli Costantino, 51, 51n. Mauri Ferruccio, 273n. Maury, sottoprefetto, 4. Mazzini Giuseppe, 54, 236, 310. Mazzonis Filippo, 38n. Melis Ernesto, 252. Menichetti Arnaldo, 147. Menotti Brandi, 180. Mercuri L., 299n.
Merli Stefano, 17n, 20n, 28n, 29n. Messini L., 175n. Mezzetti Augusto, 7n, 38n. Micheletti Luigi, 239n. Micheli Filippo, 292n. Michiorri Luigi, 153n-154n, 287, 288n, 292n. Miselli Furio, 45., 45n. Molinari Pompilio, 180. Molinelli, 112, 119, 145, 317-321. Momigliano Franco, 310n. Monesi Elvira, 215n, 219n. Monesi Gino, 215. Monicchia Roberto, 243n. Montanucci Marziali Rosa, 225n. Monticone Alberto, 192n, 230n, 224n. Morandi Rodolfo, 159, 159n, 160, 164n. Morelli Comunardo, 268, 287, 289, 292, 292n, 312. Morelli Giuseppa, 227n, 288. Moretti Cesare, 208. Moretti Duilio, 202. Moretti Giovanni, 202. Morganti Luigi, 289n, 292n. Morichini Vincenzo, 252. Moscatelli Ercole, 33. Mussolini Arnaldo, 193. Mussolini Benito, 61, 67, 81, 84, 86, 148, 148n, 179, 182, 184, 187, 189-191, 193, 196-198, 201-203, 208n, 216, 307, 307n. Nardi Dante, 196. Natali Alberto, 292n. Natoli Claudio, 273n, 327. Negroni Giuseppe, 48. Nenci Giacomina, IX, 177n, 206n, 210n, 220n, 228, 230n, 260. Nenni Pietro, 276, 276n. Nobili Tiro Oro, 55, 70, 73, 93, 96, 163n, 148, 148n, 149-150, 153, 155-156, 161. Nolilini Margherita, 215n, 225n. Notarianni, prefetto, 233n. Novella, 297n. Oberdan Guglielmo, 24n. Obermaier Franz, 195. Olmi Francesco, 202. Orebaugh Walter W., 224n.
Indice dei nomi di persona
strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifasciti e partigiani a Terni e in Umbria
Lippi Arnaldo, 279, 292n, 329. Locci, 287. Lombardi don Nazzareno, 216. Lombardini S., 152n. Longo Luigi, 247n, 250, 296, 297n. Loreti Otello, 236n. Lotti Sandra, 219n. Lucarelli Ovidio, 33. Lui, 9n, 11n, 12n. Luna Arturo, 65, 84, 187. Luzzi Aspromonte, 288. Luzzi G., 29n.
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strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifascisti e partigiani a Terni e in Umbria
Orientale Carlotta, 58, 58n. Orlando, 313. Ortalli Vittorio, 285, 286n. Ottaviani Ezio, 58n, 88. Ottolenghi Enrico, 149.
352
Paganotti Luigi, 45. Pagliochini Sanzio, 239n. Pagnotta Vittoria, 213n. Pallotta Agostino, 26. Pallotta Carlo, 11. Palmieri Luigi, 182. Palmieri Umberto, 27. Pandolfi Angelo, 189. Pandolfi, conte, 201. Pani, governo, 94. Pansa Giampaolo, 225n. Papa Cristina, 215n. Paris Trionfo, 196. Parri Ferruccio, 72, 132-133, 135, 140, 151. Pascucci Dazio, 289n. Pavone Claudio, 235, 235n, 241, 241n, 247n, 296. Pazzaglia Alfredo, 48. Pazzaglia Fabio, 48, 48n. Peano Luigi, 239n. Pellegrini Arduino, 279, 289n, 292n. Pellegrini Giancarlo, 220n. Peloso Cesare, 60, 80. Pentasuglia Pasquale, 39n. Pepe Adolfo, 120n, 127. Pepoli Gioacchino, 5-6, 6n, 9. Perazzini Ribelle, 65, 84. Perazzini Romolo, 32. Peruzzini Luciano, 64n. Pesca Giuliana, 247n. Pesic Bogdan (Boro), 282n. Petrignani Sandra, 244n. Piccardi Leopoldo, 112n, 317, 319n, 320, 320n, 321. Piccinini Arcangelo, 219n. Piccinini Rosanna, 328. Pierangeli Stelio, 235, 235n. Pierucci Francesco, 59n, 88. Pietromarchi Domenico, 146, 320. Pilepic Oscar, 234n. Piras Lucia, 213n. Pirro Vincenzo, 222n, 225n. Pisacane Carlo, 236.
Apparati
Piscitelli Enzo, 152n. Pizzorno Alessandro, 73n. Pollari Gastone, 191. Porcaro Maria Rosaria, 39n, 55n, 82n. Portelli Alessandro, 45n, 47n, 55n-57n, 66n, 73n-76n, 88, 100, 169, 186n, 191n, 202n, 222n, 223, 223n, 247n, 273n, 285n, 322n. Posner M.V., 149n, 156n. Possenti Pier Gaetano, 42. Pozzi Augusto, 4n, 5, 5n, 8. Predicatori Serafino, 51, 51n. Pressi Augusto, 203. Pressi Giovanni, 203. Procacci Giovanna, 58n. Procoli Aldo, 261. Procoli Aroldo (Silla), 282n. Pulcini Emilio, 51n. Quazza Guido, X, 170, 236, 236n, 275n, 295n, 297n, 299n. Rahn Rudolf, 237. Ranzato Gabriele, 244, 244n. Renzi Elbano (Peppe), 282n. Repetto Aldo, 298n. Riccardi Luigi, 27, 29, 34. Riccioni Nestore, 308, 317. Ridolfi Angelo, 27. Ridolfi Persiano, 237n, 239. Righetti Remo, 64n, 88, 101, 174n, 213n, 273n, 278n. Rigola Rinaldo, 33. Rinaldi Giorgio, 230n. Rinaldi Vittorio, 200. Rizzi Enrico, 26, 26n, 32, 32n. Roatta, generale, 139. Rocchi Armando, 225, 238, 243, 253. Rochat Giorgio, 215n, 237n. Romagnoli Marisa, 24n, 26n-27n, 30n, 34, 55n. Romoli Gino, 289n. Rondelli Pietro, 227n, 239n. Roscini Clara, 245n. Rosi Elviro, 51n. Rossi Domenico, 51, 51n. Rossi Enzo, 236, 236n. Rossi Guido, 233, 251. Rossi Laura, 108n, 116n, 303, 303n.
Sabbatucci Giovanni, 26n. Salvati Mariuccia, 32n, 152n, 206n. Sandri Renato, 249. Santarelli Enzo, 215n, 237n. Santego di Antonio, 200. Santucci Francesco, 233n. Sassi Corrado, 234, 234n. Sbarberi F., 277n, 295, 295n, 296, 297n. Scaramucci Gino, 232, 232n-233n, 250, 278n, 279, 279n, 280, 280n. Scardozzi Mirella, 177n. Scarpelli Vanda, 213n. Scelba Mario, 74, 98. Scheel K., 237n. Schioppu, 287. Schivo B., 224n. Scoccimarro Mauro, 250, 296. Sconocchia Adriano, 8, 8n. Sconocchia Ubaldo, 48. Sebastiani Enrico, 182. Secchia Pietro, 64n, 100, 103n, 105n, 185n186n, 229n, 233n, 278n-280n, 282n, 285n, 296, 297n, 299n. Secci Emilio, 156n, 164, 164n, 202n. Seganti Carlo, 149. Sergenti T., 224n. Serranti Felice, 208n. Sessi Frediano, 249. Setacci, 77. Sforza, 296. SIDES (SocietĂ Italiana di Demografia Storica), 16n. Silvana P., 219n. Silvestrelli Celestino, 292n. Silvestrelli Luigi, 5, 6n. Simonetti Gian Pietro, 247n. Sinigaglia Oscar, 149, 149n-150n, 152, 152n, 156, 312. Smiles Samuel, 13n. Soleri, 296.
Sorcinelli Paolo, 215n, 237n. Spadoni Tranquillo, 56, 57n. Spagna, maresciallo, 287-288. Spaziani C., 227n. Spencer T., 5n. Speranza Giovanni, 193. Spogli Cinzia, 214, 234n. Spogli Maria Teresa, 214, 223n. Spriano Paolo, 185n, 200n, 276n-277n, 292, 292n-293n, 295, 297n. Stalin, vedi Iosif Visarionovic Dzugasvili. Stone Ellery W., 111, 111n-112n, 118, 119n, 144, 146, 162n, 314, 314n, 319, 319n. Stramaccioni Alberto, 232n. Sylos Labini Paolo, 277n. Taba Dario, 232, 232n, 250, 254. Tacchini Alvaro, 191n, 213n. Taddei Isidoro, 202. Taddeo Orlando, 109n, 112n, 118n-119n, 309n, 313n, 315n, 316, 317n. Tambroni, governo, 170. Tanci Peppinello, 200. Tenerini Riccardo, 232, 232n, 240, 250. Tentoni Pietro, 289. Thompson P. Edward, 66n, 190, 194n. Tieri Antonio, 27, 27n, 32, 32n. Tittarelli Luigi, 16n, 40n, 177n, 206n. Togliatti Palmiro, 73, 96, 156, 247, 272, 292n, 293, 297, 297n, 302. Tomovic Milan, 236, 253. Toniolo Gianni, 277n. Trastulli Luigi, 73, 97. Tremelloni, 156. Trezzi Luigi, 33n. Trivelli Luigi, 205. Trivelli Marcello, 203. Turone Sergio, 120n, 131n, 160n. Uccellini Marino, 189, 190. Urbani Alverino, 242n. Urbinati Alfredo, 268, 279, 287, 289n. Vaccari O., 12n. Valsenti Alvaro, 66n, 329. Vannozzi Guglielmo (Anselmo), 172, 227n, 242-243, 243n, 262, 282n. Vasio Pasquale, 143n, 308n. Vento Salvatore, 124n.
Indice dei nomi di persona
strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifasciti e partigiani a Terni e in Umbria
Rossi Marino, 288. Rossi Passavanti Elia, 61, 81. Rossi Raffaele, 22n, 45n, 77n, 89n, 131n, 213n, 284n, 287. Rossi Riziero (Francesco), 282n. Roth, 305. Rugafiori Paride, 124n, 148n, 152n. Ruggiero Giovanni, 88, 247n.
353
Venturini, 287-288. Viani Gnocchi, 27. Vignuzzi Guido, 149. Villari Lucio, 149n. Wapler Gernot, 177n. Weinberg Albert K., 304n. Woolf S. J., 120n, 149n, 156n, 299n.
strumenti & documenti • GIANFRANCO CANALI, Operai, antifascisti e partigiani a Terni e in Umbria
Yeo S., 32n. Young, capitano, 272, 303, 303n.
354
Apparati
Zagaglioni Vero (Francesco), 231, 231n, 232, 232n, 261, 273n, 282n. Zangheri Renato, 32n. Zenoni Bruno (Paolo), 64n, 88, 101, 174n, 186n, 213n, 227n, 245n, 261-262, 273n, 278n, 282n, 292n, 301, 302n, 312, 330. Zuccari Domenico, 51n. Zuccarini Renato, 292n.
strumenti & documenti COLLANA
DIRETTA DA
RENATO COVINO
Volumi pubblicati Villaggi operai nell’Italia settentrionale e centrale tra XIX e XX secolo, a cura di Renato Covino, Perugia 2002, ISBN 88-87288-15-1. Le industrie di Terni. Schede su aziende, infrastrutture e servizi, a cura di Renato Covino, ISBN 88-87288-16-X. Francesco Chiapparino e Renato Covino, Consumi e industria alimentare in Italia dall’Unità a oggi, ISBN 88-87288-19-4. Augusto Ciuffetti, La città industriale. Un percorso storiografico, ISBN 88-8728825-9. Paolo Raspadori, L’autorità debole. Il Comitato di Liberazione Nazionale di Spoleto attraverso i verbali delle sue riunioni (1944-1946), ISBN 88-87288-22-4. Stefano De Cenzo, La centralità mancata. La questione ferroviaria in Umbria. 18451927, ISBN 88-87288-20-8. Gino Papuli, Archeologia del patrimonio industriale. Il metodo e la disciplina, ISBN 88-87288-37-2. Augusto Ciuffetti, Casa e lavoro. Dal paternalismo aziendale alle “comunità globali”: villaggi e quartieri operai in Italia tra Otto e Novecento, ISBN 88-87288-42-9. Gianfranco Canali, Operai, antifascisti e partigiani a Terni e in Umbria, a cura di Gianni Bovini, Renato Covino e Rosanna Piccinini, ISBN 88-87288-18-6.
Volumi in preparazione Pietro Farini, In marcia con i lavoratori, a cura di Angelo Bitti, ISBN 88-87288-17-8.
dal 1913
Finito di stampare nel mese di maggio 2004 presso lo Stabilimento Tipografico «Pliniana» Viale F. Nardi, 12 – 06017 Selci Lama (PG)
Q
uesti scritti di Gianfranco Canali, storico non accademico nel cui lavoro si intrecciano costantemente rigore documentario e passione civile, si muovono a metà tra storia sociale e storia del movimento operaio. Il libro rappresenta un momento significativo della storiografia su una questione di rilevanza nazionale: Terni e la sua classe operaia, i suoi antifascisti e resistenti. Ma i lavori contenuti nel libro sono anche l’occasione per fare il punto su un tema ancora scarsamente studiato: quello della Resistenza nel contesto umbro. Il volume è quindi non solo un omaggio doveroso al lavoro di uno storico prematuramente scomparso, ma anche un’opportunità per riprendere il filo di ragionamenti da troppo tempo interrotti, nella speranza che dalla conoscenza del lavoro di Canali possa ripartire una nuova fase di ricerche e di studi. Indice del volume Nota editoriale; GIACOMINA NENCI, Presentazione. Gli operai e il movimento operaio a Terni: Classi sociali, mutualismo, resistenza e cooperazione a Terni nella seconda metà del XIX secolo; Tradizione e cultura sovversiva in una città operaia: Terni 1880-1953; La classe operaia ternana durante il fascismo; L’opposizione operaia a Terni dalla Liberazione ai licenziamenti del 1953; Classe operaia e società a Terni nel secondo dopoguerra; Sindacato, grande industria e società a Terni dalla Liberazione alla Costituente; Conflittualità operaia nella Società Terni dalla Liberazione alla svolta del 1948; I Consigli di Gestione alla Società Terni. L’antifascismo, la guerra e la Resistenza: Intervista a Gianfranco Canali. L’esperienza di un ricercatore; Una proposta. Storia dal basso; L’antifascismo operaio e popolare in Umbria dal plebiscito del 1929 alla guerra civile di Spagna; Una società rurale in guerra: note sulle campagne umbre durante la seconda guerra mondiale; Partigiani, fascisti, tedeschi in Umbria; La lotta partigiana in Umbria; Appunti su un “pellegrinaggio laico e sentimentale”; Appunti per la biografia di un antifascista; Il Movimento di Liberazione a Terni dalla lotta armata alla riorganizzazione della vita cittadina; Terni 1944. Città e industria tra Liberazione e ricostruzione. ALESSANDRO PORTELLI, Postfazione. ROSANNA PICCININI, Nota bio-bibliografica. Apparati: Sigle e abbreviazioni; Sigle e abbreviazioni archivistiche; Indice dei nomi di luogo; Indice dei nomi di persona.
GIANFRANCO CANALI