Icsim la terni degli operai il palazzone catalogo della mostra 2002

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ICSIM - Istituto per la Cultura e la Storia d’Impresa “Franco Momigliano”

Catalogo della mostra Centro di Documentazione sul Patrimonio Industriale Locale Antenna Pressa • via Mascio • Terni 24 novembre 2001 • 24 gennaio 2002

con il patrocinio di

COMUNE DI TERNI Assessorato alla Cultura

IERP Istituto per l’Edilizia Residenziale Pubblica


Direzione della mostra Gianni Bovini, Nicola Crepax Testi e consulenza scientifica Renato Covino Progetto grafico Vito Simone Foresi Progetto esecutivo Gianni Bovini Ricerche iconografiche Marco Venanzi Acquisizione immagini Cristina Saccia Realizzazione Centro Ricerche Ambiente Cultura Economia (CRACE), Perugia

Si ringraziano Archivio di Stato di Terni AST (Acciai Speciali Terni) Biblioteca Comunale di Terni Ente Cantamaggio Ternano Provincia di Terni Regione dell’Umbria la preside, i docenti e gli alunni dell’Istituto Comprensivo “Benedetto Brin”, succursale “Virgilio Alterocca” di Terni un ringraziamento particolare a Giuseppe Capiato ed Ennio Delibra e ancora a: Marisa Angeletti, Daniela Angelini, Manlio Montagnini, Vittoria Stoppini, Luigia Zamberlan e a quanti si riconosceranno nelle foto della mostra e del catalogo.

Plastici Classi IIIE, IIIF e IE dell’Istituto Comprensivo “Benedetto Brin”, succursale “Virgilio Alterocca” di Terni Coordinamento Andrea Tropeoli Segreteria ICSIM Stampa pannelli Elioservice, Perugia Stampa catalogo Nobili Grafiche, Terni

In copertina Il Palazzone oggi (foto di Sergio Coppi) e negli anni trenta (Archivio fotografico della Acciai Speciali Terni); l’operaio a fianco del Palazzone è stato ripreso da una foto pubblicata nella “Monografia” della SAFFAT del 1898.

I numeri che compaiono nelle pagine di questo catalogo si riferiscono ai pannelli della mostra.


La rivoluzione industriale ha modificato in modo sostanziale le abitudini di vita e i consumi degli europei. Nell’immediato, tuttavia, non significò un miglioramento del livello di vita dei ceti popolari. I consumi operai, infatti, cominciano a crescere in modo sensibile solo dopo le guerre napoleoniche. Ciò risulta evidente anche per quanto concerne le questioni legate in generale ai servizi urbani e in particolare alle abitazioni per i lavoratori. Se la localizzazione dell’industria lungo le valli montane o vicino alle fonti idrauliche in un primo momento non aveva modificato in modo sostanziale gli insediamenti umani, con l’affermarsi della macchina a vapore e dell’uso del carbone come fonte energetica si definiscono conurbazioni e addensamenti urbani intorno ai luoghi di estrazione del minerale, con la conseguente crescita dei centri e dei distretti territoriali che su tali aree insistono. Piccole città come Manchester e Birmingham in Inghilterra o Bochum in Germania crescono a dismisura dal punto di vista demografico e dell’urbanizzazione, creando problemi di difficile soluzione. è in tale contesto che si pone il problema dell’abitazione operaia, ma anche degli acquedotti, delle reti fognarie, dei trasporti urbani, dell’illuminazione pubblica. La questione della casa diverrà così il momento in cui emerge una condizione di vita precaria e, da molti punti di vista, miserabile. Le stesse problematiche si riproporranno a Terni negli ultimi due decenni dell’Ottocento. La forza idraulica, in questo caso, avrà lo stesso ruolo attrattivo che il carbone aveva assunto in altre realtà europee, divenendo la condizione permissiva della localizzazione di grandi imprese industriali. Ciò attrarrà popolazione e porrà i problemi tipici dell’urbanizzazione. Non a caso la città a fine Ottocento verrà individuata dai contemporanei come la “Manchester italiana”, sarà paragonata a “un distretto industriale inglese concentrato in pochi chilometri quadrati”. Una “città minore” dell’Umbria agricola verrà così investita da processi di tali dimensioni che né la società né le amministrazioni pubbliche cittadine saranno in grado di affrontare. La modernità della fabbrica confliggeva con l’arretratezza della città che risultava afflitta “e dallo sviluppo della produzione capitalista e ancora dalla mancanza di codesto sviluppo”. Anche a Terni la questione dell’abitazione operaia diverrà la cartina di tornasole di una condizione di sofferenza dei lavoratori di fabbrica e di disagio dell’intera società cittadina. Da questo punto di vista la vicenda urbana ternana assume una valenza che trascende il problema stesso e diviene la storia degli sforzi fatti – da parte delle diverse componenti sociali, politiche e istituzionali – per giungere al suo superamento.


Fabbriche inglesi disegnate da Karl Friedrich Schinkel, architetto, pittore e incisore, in un suo taccuino di viaggio nel 1830.

I quartieri poveri di Londra in un’incisione di Gustavo Doré del 1872.

Nei primi decenni dell’Ottocento la questione delle abitazioni operaie viene posta con forza da scrittori, intellettuali e agitatori, politici e teorici del movimento operaio. Il prototipo della città industriale, rappresentato da Manchester, suscita l’attenzione, gli studi, i commenti e l’orrore di Charles Dickens, Thomas Carlyle, Alexis de Tocqueville. Tutti ne denunciano l’affollamento, deprecano le misere condizioni di vita dei lavoratori, sottolineano il degrado dell’ambiente urbano, l’insufficienza e la miseria delle abitazioni. Ma è soprattutto Frederich Engels che pone la questione delle case operaie al centro delle sue riflessioni in La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), riservandogli buona parte del capitolo dedicato alle grandi città. Insomma, all’esplodere delle rivoluzioni europee del 1848, il problema degli alloggi operai, della loro salubrità, del rapporto tra la miseria, le abitazioni e le malattie era divenuto un problema politico rilevante, al quale non era più possibile non dare una risposta senza mettere in discussione il consenso dei ceti subalterni. È proprio in questi anni che la questione esce dal dibattito teorico e culturale per entrare nell’attività concreta delle politiche urbanistiche.

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Durante la Restaurazione Charles Fourier descrive un nuovo sistema filosofico e politico e progetta il Falansterio, un palazzo monumentale a forma di omega, come Versailles, con un cortile interno e vari cortili minori. Il piano terreno (7) è interrotto dai passaggi per le carrozze, al primo piano si trovano gallerie coperte (4) che mettono in comunicazione tutti i locali. Gli adulti sono negli appartamenti del secondo e terzo piano (3), sopra le sale per le riunioni (5), i ragazzi nel mezzanino (6) e gli ospiti nel sottotetto (1), dove si trovano anche i serbatoi (2).

Tra il 1817 e il 1820 l’industriale inglese Robert Owen presenta alle autorità un progetto per abitazioni (per circa 1.200 persone) disposte a formare un quadrato su un terreno agricolo. Gli edifici di tre lati sono case per coppie sposate e i figli con meno di tre anni, sul quarto lato ci sono i dormitori per i ragazzi, l’infermeria e l’albergo per i visitatori; al centro gli edifici pubblici: cucina, ristorante, scuole, biblioteca, zone verdi, campi sportivi. Oltre il perimetro esterno di giardini e strade: stabilimenti, magazzini, lavanderia, birreria, mulino, mattatoio, stalle, fabbricati rurali. Nel 1825 adatta il suo progetto a un villaggio già esistente nell’Indiana, ma dopo pochi anni l’esperimento di una nuova società senza tribunali e prigioni fallisce.


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Durante il Secondo Impero un industriale di Guisa, Gianbattista Godin, realizza un edificio ispirato al Falansterio di Fourier chiamato Familisterio (ogni famiglia ha il suo alloggio privato). Il fabbricato principale comprende tre blocchi chiusi a quattro piani e cortili interni con copertura a vetri e funzioni di strada interna. I servizi (scuole, teatro, lavanderia, bagni, macello, ristorante, caffè, sale da gioco, scuderie, porcile, pollaio, laboratori) sono in fabbricati accessori. Il tutto è in un parco. Sopra, il cortile con copertura a vetri nel suo stato attuale. A sinistra la pianta generale del Familisterio di Guisa.

A = corpi di fabbrica del Familisterio; B = asilo; C = scuola con teatro; D = servizi; E = bagni e piscina; F = officina del gas.

Le case degli operai

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Prospetto (in alto), pianta del piano terra (qui sopra) e pianta del primo pianto (al centro) di un “cottage per lavoratori” progettato nel 1781 da John Wodd Jr.

Le tipologie che si affermano a partire dalla metà dell’Ottocento sono due: quella a “padiglione” e quella a “caserma”. La prima, diffusa soprattutto in Inghilterra, viene presentata all’Esposizione universale di Londra del 1851 dal principe Alberto di Coburgo, marito della regina Vittoria (un modello a padiglione viene così denominano Prince Albert’s Model Cottage). Si tratta di abitazioni con tre-quattro stanze, che vengono poi accostate l’una all’altra a formare una “schiera”, per risparmiare sui costi delle murature. Ogni abitazione ha un orto-giardino di pertinenza. La tipologia a “caserma” si afferma a Parigi e in Francia, per volere di Napoleone III. Si tratta di grandi edifici con appartamenti che danno su ballatoi con servizi comuni. In Italia, a causa della crescita stentata dell’industria, la questione delle case operaie diviene urgente solo tra Otto e Novecento. Se si escludono i villaggi operai frutto del “paternalismo organico” di Alessandro Rossi a Schio e dei Crespi a Crespi d’Adda, il modello che viene adottato in prevalenza nelle prime realizzazioni è quello francese della tipologia a caserma. Non si tratta solo dell’influsso della cultura francese nel contesto italiano, ma del fatto che questa soluzione consente uno sfruttamento del terreno edificabile più intenso e, quindi, garantisce alle società costruttrici maggiori profitti. Questi ultimi, però, trovano un limite nell’alto valore degli affitti rispetto ai salari, che non favorisce l’attività delle imprese edili.

Sotto: le case operaie modello realizzate a Londra, a Pancras Road, nel 1848; a sinistra la pianta: A = soggiorno; B = camere da letto; C = cucina).


Dopo il 1848 si impone un modello di città, post-liberale, in cui gli interessi dei gruppi dominanti (imprenditori e proprietari) sono parzialmente limitati dall’intervento delle amministrazioni pubbliche che promulgano dei e realizzano le opere pubbliche. L’amministrazione realizza le infrastrutture (strade, piazze, ferrovie, acquedotti, fognature, ecc.), i privati gestiscono i terreni e i servizi, La volontà di sfruttare al massimo i limiti regolamentari imposti (misure degli edifici in relazione alle dimensioni degli spazi pubblici, rapporti tra edifici contigui), produce, ad esempio, l’uniformità dei quartieri periferici inglesi costruiti secondo i regolamenti del 1875. A sinistra: pianta del villaggio operaio di Saltaire, fondato nel 1851, in cui è previsto anche un parco pubblico, uno dei “correttivi” utilizzati nella progettazione urbanistica per risolvere il problema della densità eccessiva. Sotto: le case operaie presentate all’Esposizione universale di Parigi del 1878. Nonostante questi progetti la congestione e la crisi degli alloggi peggiorano.

Le case degli operai

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«Pensate che quando voi oggi vedete Napoli, i bassi dove dormono: a Terni era uguale. Tutti quei vicoli intorno a piazza Clai, via dell’Ospedale o via della Mattonata come si chiamava allora, via Carrara, via dei Serpenti: persino i sottoscala. Perché c’era stata la discesa di Poggio Bustone, di Posta, tutti questi rietini venuti giù. E per sfruttare certe determinate cose, ognuno affittava anche li sottoscala» (Arnaldo Lippi, in Alessandro Portelli, Biografia di una città, Einaudi, Torino 1985, pp. 77-78).

Negli anni ottanta dell’Ottocento la localizzazione a Terni della grande industria (Fabbrica d’Armi, Lanificio, Jutificio, Fonderia, Acciaieria) ebbe come primo effetto una crescita impetuosa del numero degli abitanti: dai 15.773 del 1881 si passa ai 28.357 del 1889. Successivamente la crisi della siderurgia provoca un decremento e una stazionarietà ma già dal 1894 l’incremento demografico riprende, seppure con ritmi più contenuti. La crescita è dovuta soprattutto al saldo migratorio, fortemente superiore a quello naturale. Si tratta di un’immigrazione operaia: su 1.854 assunti alla Fabbrica d’Armi solo 717 provengono dall’attuale provincia di Terni, cioè il 38,7%, mentre il 48% viene da fuori dell’Umbria. Inoltre, dei 2.502 assunti all’Acciaieria tra il 1884 e il 1904 e ancora presenti in fabbrica nel giugno 1904, solo il 46,6% proviene da Terni e dal suo circondario; se a questi si aggiungono quelli provenienti dal resto della regione si arriva al 67,5%, mentre 812 (20,5%) sono nati fuori dell’Umbria. Come scrivono nel 1889 Luigi Lanzi e Virgilio Alterocca nella loro Guida di Terni e dintorni: “Si videro visi nuovi a migliaia, si sentirono parlare tutti i dialetti d’Italia e le principali lingue d’Europa”. Alla fine dell’Ottocento quella che era stata una “città minore” dell’Umbria si va trasformando in un grande centro industriale e alcuni giungono a definirla la “Manchester italiana”.Il ritmo e l’intensità della crescita è tale che il problema dell’abitazione comincia a porsi subito in tutta la sua drammaticità.

Via delle Conce alla fine dell’Ottocento; sulla destra il canale omonimo, derivato dal Raggio Nuovo.

Via dell’Ospedale all’altezza di via dei Chiodaioli prima della demolizione (anni trenta).


Sopra: via del Pozzo. Sotto: un lavatoio pubblico. A destra: Borgo Sant’Agnese negli anni trenta; dall’alto: casupole sulla prosecuzione di via Berta viste da via Maccarini, la parte posteriore di alcune casupole viste da via Giordani, interno sulla traversa privata di via Antonio Bosco.

La città di Terni e l’immigrazione operaia

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È sull’onda di questa emergenza che si comincia a pensare alla costruzione di nuove residenze. Nel 1886 viene redatto il Piano di ampliamento, condizionato dall’iniziativa edilizia privata dell’ingegner Cassian Bon:il Comune cede gratuitamente all’imprenditore belga delle aree edificabili a condizione che vi costruisca delle abitazioni. Sono le aree di via Mazzini e di via Camporeale, che saranno cedute quasi subito alla SAFFAT che vi edificherà alloggi per il proprio personale. Gli operai continueranno ad addensarsi negli spazi del centro storico: ancora nel 1910 si contano ben 12,8 persone per edificio. I lavoratori cominciano allora a risolvere autonomamente il problema. Sorgono, così, intorno alle fabbriche i borghi (Bovio, Cavallotti, Costa, Sant’Agnese) costituiti da tipologie edilizie estremamente semplici. Case mono o bifamiliari che raramente superano un piano di altezza, spesso con scala esterna e senza servizi, che sorgono fuori da ogni programmazione urbanistica. Tra il 1886 e il 1914 vengono così costruite circa 1.100 case con circa 7.000 appartamenti; di questi, solo 249 (con 1.029 inquilini) sono quelli dovuti all’iniziativa degli imprenditori.

Sopra: il progetto redatto nel 1884 per la Società Anonima Cooperativa per la Costruzione di Case Operaie. Dovendo rispondere a diverse e spesso contrastanti esigenze (economicità, decoro e salubrità, spazi verdi e vicinanza alle fabbriche), l’ing. Possenti preferisce una serie di unità minime alla tipologia a caserma (che sarà invece poi scelta dalla Cooperativa per l’edificio, l’unico, realizzato nel 1891 in San Pietro in Campo). Sotto: il Piano di ampliamento del 1886 che prevedeva come zone di espansione quelle tra piazza Tacito e la stazione ferroviaria, tra piazza Tacito e piazza Valnerina (oggi Buozzi), lungo viale Brin e viale Battisti.

Sopra: gli atleti della Società Sportiva “Andrea Costa” nel 1922. Sotto: pianta dei borghi Sant’Agnese (poi Borgo Costa) e Cavallotti (nei pressi di piazza Valnerina, poi Cavallotti e oggi Buozzi) nel 1898. Nella pagina a fronte, In basso a destra, gli stessi Borghi in una planimetria del 1914: si può notare il maggior numero di edifici presenti.


Sopra: l’incrocio tra le vie Flaminia e Cassia, a porta Romana, agli inizi del Novecento.Sotto: gli edifici realizzati dagli operai nel Borgo Costa, lungo il torrente Serra, in una veduta degli inizi del Novecento.

Sopra: il prospetto e la pianta di una casa a un piano, con due appartamenti, ciascuno di due stanze, realizzata nel 1927 lungo la via Flaminia.

Sopra: prospetto e pianta del progetto di un edificio realizzato nel 1931 nel Borgo Costa.

Le case e i borghi operai

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Case lungo via Mazzini: entrambi gli edifici dispongono di uno scantinato e, complessivamente, di 211 vani. Il secondo fabbricato viene disposto in modo da impedire la visione, dalla via, dei bagni posti sulle terrazze.

Fabbricato per i dipendenti della Fonderia, all’angolo tra viale della Stazione e l’allora via Saffi (oggi via Ferraris).

Sotto: i primi due fabbricati in via Camporeale (il primo realizzato dall’impresa Spadoni, che aveva partecipato alla costruzione dell’Acciaieria e, contemporaneamente, realizza anche il Palazzone), entrambi di 4 piani, per complessivi 186 vani divisi in 48 appartamenti. In basso

Le prime realizzazioni delle imprese sono rappresentate dalle case per gli operai della Ferriera, lungo via Giandimartalo di Vitalone, costruite già agli inizi dell’Ottocento, durante il periodo francese. Bisognerà però attendere il 1883 perché, grazie alle agevolazioni del Comune, venga costituita la Società Anonima Cooperativa per la Costruzione di Case Operaie, la quale, tuttavia, solo nel 1891 riesce a realizzare a San Pietro in Campo, nei pressi della Stazione, un casamento (l’unico) di 5 piani con 39 appartamenti e 118 vani. Anche la Segheria Bizzoni affianca alla propria fabbrica due case operaie, ma è solo con l’arrivo della SAFFAT, nel 1884, che inizia, da parte delle imprese industriali, un’attività edilizia di un qualche rilievo. Contemporaneamente all’Acciaieria (che entra in funzione nel 1886), la Società costruisce lungo viale Brin tre edifici che non offrono però soluzione al problema dell’abitazione operaia né per la qualità degli alloggi né per gli standard edilizi. Così sarà anche per gli altri e successivi interventi in via Camporeale, piazza Cavallotti (già Valnerina, oggi Buozzi) e via Mazzini. Il primo fabbricato in via Camporeale viene progettato nel 1885 e realizzato nel 1888; a questo ne viene poi aggiunto un secondo, ma per dare compiutezza all’intervento secondo la forma a isolato (tipica dell’espansione edilizia ottocentesca) bisognerà attendere la costruzione, tra il 1930 e il 1931, di un nuovo caseggiato tra via Fratti e via Faustini. L’intervento in piazza Cavallotti, progettato anch’esso nel 1885 e realizzato nel 1887, è articolato in due edifici e segna un momento qualificante delle trasformazioni urbane della città con la sistemazione della piazza e l’apertura di via Mazzini. Il complesso lungo via Mazzini, progettato nel 1886, viene realizzato in due fasi tra il 1888 e il 1890 con appartamenti estremamente semplici.

a sinistra: il caseggiato tra via Fratti e via Faustini, realizzato tra il 1930 e il 1931 su progetto degli ingegneri Fossati e Ginatta, costituito da 3 fabbricati di 4 piani (collegati da corpi di altezza minore) dotati di 68 alloggi e 340 appartamenti. Sotto: planimetria dell’area del complesso e pianta del primo piano.


Simili erano gli alloggi per i dipendenti della Fonderia, realizzati tra il 1890 e il 1900, all’interno di un edificio (posto all’angolo tra viale della Stazione e l’allora via Saffi, oggi via Ferraris) che, come quelli di viale Brin, ospitava anche uffici.

Sopra: le case operaie di viale Brin, costruite contemporaneamente all’Acciaieria, sono a 3 piani, e dispongono in totale di 72 appartamenti, ciascuno di 3 stanze. Sotto: l’intervento in piazza Cavallotti (oggi Buozzi), progettato nel 1885 e realizzato nel 1887 per iniziativa di Cassina Bon, interessato alla sistemazione della piazza (sede di una delle porte daziarie della città) e all’apertura di via Mazzini, è articolato in 2 edifici di 4 piani, comprendenti ognuno 68 ambienti.

Le case dell’Azienda

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Cassian Bon, imprenditore belga che nel 1873 rileva la Fonderia Lucovich, nel 1884 la apporta alla SAFFAT (per la quale progetta il Canale Motore) e nel 1886 costituisce la Società Industriale della Valnerina, impresa meccanica che, nei pressi dello stabilimento, costruisce per i propri operai il Palazzone. All’interno dello stabilimento, ben presto affittato alla SAFFAT, si trovavano le centrali idroelettriche (alimentate dalle acque del Raggio Vecchio e del Canale Nerino) che gli assicuravano la necessaria forza motrice e provvedevano all’illuminazione pubblica e privata della città. Tutti questi impianti sono stati dapprima dismessi e poi distrutti durante la seconda guerra mondiale.

Ben più interessante, dal punto di vista tipologico, è il Palazzone, o Casone Spadoni (dal nome del costruttore edile che lo costruisce), o Quartiere operaio. L’edificio sorge nel 1888 per iniziativa della Società Industriale della Valnerina, impresa meccanica fondata due anni prima dall’imprenditore belga Cassian Bon. La tipologia era quella a “caserma”, con corte interna e ballatoi. Il fabbricato aveva 89 appartamenti e 271 vani. Ogni appartamento variava da 2 a 4 stanze. La cucina, posta all’ingresso, prendeva luce da una sovraporta che insisteva sul ballatoio e ospitava anche i servizi igienici, separati da un piccolo divisorio. Gli appartamenti, fino agli anni venti, furono privi di acqua potabile, che veniva attinta da una fontana posta nel cortile. Agli inizi del Novecento il Palazzone ospitava circa seicento persone, con un affollamento di oltre due individui per vano. L’affitto costava circa un quinto del salario medio operaio. Le condizioni igieniche risultavano precarie: nel 1893 si registrò addirittura un caso di colera. L’edificio ha sempre rappresentato un luogo di socializzazione operaia, dove si sono cementati i riti, la quotidianità e la solidarietà dei lavoratori delle industrie. Nel 1911, con l’intero patrimonio della Società Valnerina, passa alla Società Italiana per il Carburo di Calcio, e nel 1922, in seguito alla fusione di questa con la Società degli Alti Forni Fonderie e Acciaierie di Terni (SAFFAT), diviene parte integrante del patrimonio della Società Terni.


Il Palazzone e lo stabilimento della Società Valnerina tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta.

Appartamento al pianterreno di 3 stanze: nel 1921 paga 17 £/mese di affitto.

Appartamento al primo piano di 2 stanze: nel 1921 paga 10 £/mese di affitto.

Appartamento al terzo piano di 4 stanze: nel 1921 paga 21 £/mese di affitto, come il corrispondente del quarto piano.

Sopra: a destra, la prima centrale di Cervara. Alimentata da 20 mc/s d’acqua derivati dal Nera nei pressi del ponte di Papigno, viene inaugurata nel 1903, quando si rivelano insufficienti gli impianti posti all’interno dello stabilimento di Terni. Nel 1906 viene inaugurata la seconda centrale (a sinistra nella foto qui sopra; a due foto dell’interno al momento dell’inaugurazione e negli anni venti), capace di sfruttare 40 mc/s d’acqua, per far fronte all’aumentata richiesta di energia e per alimentare lo stabilimento per il carburo di calcio che sarà inaugurato a Narni nel 1908. Nel 1929, con l’entrata in funzione della centrale di Galleto, l’impianto venne dismesso. Un piccolo gruppo idroelettrico scampato alle distruzioni operate dalle truppe tedesche in ritirata duranta la seconda guerra consentì di fornire energia all’Acciaieria e, quindi, di avviare la ricostruzione postbellica. Recentemente è stato rimesso in funzione un piccolo impianto alimentato dalle acque del Canale Sersimone.

Il Palazzone tra il 1888 e il 1921

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Pianta del villaggio operaio progettato nel 1930 per la collina di Pentima (in seguito alla convenzione firmata nel 1925 dalla Società Terni con il Comune). Il progetto è anche frutto di un “viaggio di studi” fatto dai tecnici dell’impresa per visionare le tipologie di abitazione operaia realizzate in altre città industriali italiane. Il primo progetto, mai realizzato, che interessa l’area, risale però 1911, e prevedeva anch’esso un viale centrale perpendicolare alla strada Valnerina con funzioni di collegamento della viabilità interna al villaggio (dotato di servizi ollettivi: mercato, spazio riunioni, negozi, scuole, bagni, piscina, giardini). Non verrà realizzato neppure il villagio di viale Brin, progettato nel 1927-1928, alle spalle delle case realizzate nel 1886.

La riconversione a uso abitativo dell’ex stabilimento del carburo di Collestatte, messa a punto nel 1929 dopo il potenziamento dell’elettrochimico di Papigno: vengono realizzati dieci appartamenti, una chiesa e il dopolavoro. In basso a sinistra è visibile la linea elettrica della tramvia TerniFerentillo; in alto a destra, sullo sfondo, la condotta forzata che alimentava la centrale idroelettrica dello stabilimento convogliandovi le acque del Velino (6 mc/s).

Dopo la firma della convenzione con cui il Comune di Terni cede le proprie concessioni e rinuncia a qualsiasi opposizione sull’uso delle acque del Nera e del Velino (1925) la Società Terni si impegna a costruire 1.500 alloggi operai per complessivi 5.000 vani. Viene così completato l’isolato di via Camporeale (1930-1931) e vengono costruiti il Palazzo Rosa e il Grattacielo (1935-1937), ma, soprattutto, la Società Terni avvia la costruzione di villaggi operai nei pressi degli stabilimenti. La prima realizzazione è la riconversione, nel 1929, dello stabilimento elettrochimico di Collestatte a usi abitativi e dopolavoristici; segue, nel 1931, il villaggio di Nera Montoro, in cui ogni alloggio ha un ingresso indipendente e un orto-giardino. Ma la realizzazione più consistente è il villaggio Italo Balbo (oggi Matteotti I), dotato di palazzine quadrifamiliari, con orti annessi, costruite in due fasi (1938-1940 e 1945-1946). Nel dopoguerra la politica della casa operaia viene assunta direttamente dalle amministrazioni pubbliche e dall’Istituto delle Case Popolari. È la risposta alla “città-fabbrica” voluta dal fascismo, di cui la politica edilizia rappresentava solo un aspetto. L’ultima realizzazione edilizia della Società Terni, prima della vendita del patrimonio immobiliare, è il villaggio Matteotti II, costruito su progetto dell’architetto Giancarlo De Carlo, di cui, tra il 1972 e il 1975, è stato realizzato solo il primo stralcio (240 alloggi con 1.252 vani), fortemente caratterizzato, dalla partecipazione degli inquilini alla definizione del progetto stesso.

Pianta del villaggio operaio di Nera Montoro: 14 edifici per complessivi 41 appartamenti (26 per operai e capiturno, 12 per impiegati e capireparto, 3 per dirigenti caposervizio).


Sopra: il disegno progettuale del centro servizi del villaggio operaio di Nera Montoro. A sinistra: le case per il capofficina e il capoturno della centrale di Galleto costruite alla fine degli anni venti, contemporaneamente all’impianto idroelettrico.

A sinistra e sopra: il villaggio operaio Italo Balbo (Matteotti I), il cui progetto prevedeva 88 case per un totale di 352 alloggi; a causa delle vicende belliche ne vennero realizzate solo 59 con 236 appartamenti. Forse per la presenza degli orti, questa tipologia di villaggio è stata quella più “amata”, quasi l’equivalente del Palazzone tra gli edifici a blocco.

Sopra: plastico del progetto dell’architetto Giancarlo De Carlo per la ristrutturazione generale del villaggio Matteotti II.

Sopra: il Palazzo Rosa (impostato secondo la tipologia in linea, con 51 appartamenti) e il Grattacielo (primo esempio di tipologia razionalista a Terni, con 71 appartamenti).

La Società Terni e la politica delle abitazioni operaie

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«Le terrazze erano il dominio delle “bande” di ragazzini vocianti, che solo all’apparire del “portiere” (figura carismatica del Palazzone) venivano messe in fuga. Per qualche istante, almeno: fin quando “Gino” non si rimetteva la cinghia che si era sfilata dai pantaloni per dare più vigore alle sue comparse. Le ore del silenzio erano l’incubo di noi ragazzini. Dalle 14 alle 16 si poteva giocare soltanto “giù alla forma”, in estate, o dietro il campo a costruire capanne, o fare sfide con “quilli de Sant’Agnese” de “Centurini” de “Lu Spiazzu Clai” o più recentemente de “lu Grattacielu”. “Quilli de lu palazzu Rosa” sovente si alleavano con noi essendo di numero ridotto.[...] Al Palazzone le donne si servivano dei ballatoi per scambi continui di notizie e generi di prima necessità terminati o dimenticati negli acquisti giornalieri, e per sbirgare in comune lavori di maglia, di cucito, di ricamo; o per il rifacimento dei materassi […]. Sempre sui ballatoi avvenivano gli epiloghi di tante vicende che appartenevano alla vita sociale. Le litigate tra donne, la sfilata del corteo che accompagnava le spose lungo i corridoi addobbati […] le rappresentazioni teatrali di noi ragazzini, gli spettacoli con i burattini che rivestivamo coinvolgendo le bambine nella confezione degli abiti di ricambio, i giochi con le palle di pezza o le bambole fatte in casa […]». (Giuseppe Capiato, Il “Palazzone”: ricordo e nostalgia, in “Indagini”, XXXIII, 2, 1986, pp. 36-37).

Un dato caratterizza il Palazzone rispetto alle altre case costruite per gli operai: i momenti di vita collettiva: la corte interna, le botteghe al piano terra, i lavatoi, la fontanella, rappresentano altrettanti momenti di socialità, in cui nascono e si solidificano forme di solidarietà rudimentale, ma non per questo meno efficace, vissute con nostalgia nel ricordo individuale e collettivo.


«Io abitavo a viale Brin, ciavevo quattordici quindici anni; su lo Palazzone andavamo a sona’, il Cantamaggio se fermava lì. Quelle famiglie - stava male uno? Correva quello. Stava male un altro? Correva quell’altro. Il Palazzone per me è stato la cosa più bella della vita, perché lì ciò fatto l’amore, me so’ divertito… C’era una fratellanza, quelle cento famiglie…» (Augusto Cuppini, in Alessandro Portelli, Biografia di una città, Einaudi, Torino, 1985, p. 80).

La vita collettiva al Palazzone

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«La tradizione del Cantamaggio ha ripreso con una vitalità inaspettata. Tutti i rioni, i palazzi più importanti, le nostre sezioni e le varie organizzazioni popolari hanno partecipato alla festa con iniziative proprie. Carri e comitive a piedi hanno sfilato nelle principali vie. Canti e musiche, orchestre e bande fino alle prime ore del mattino. Il “Palazzone” e “il Grattacielo” hanno furoreggiato; Campomicciolo e la VII Novembre hanno dato carri sontuosi. Canzonette vecchie e nuove alla ribalta. Quasi ogni casa ha ricevuto la sua visita, quasi ogni famiglia si è goduta la sua serenata. Un carro partiva, una comitiva arrivara. A Terni ‘ste pupette ha echeggiato in cento vie e Se fa presto a di’ sposamo Ma a bollì che ce mettemo Li bacitti, li bacitti che ce demo è stata ripetuta centinaia di volte». (“L’Unità”, sabato 3 maggio 1947, p. 2) «Questo il ritornello di una “nuova” canzone musicata da Sergio Albasini che il giornalista anticipa sarà messa in scena alla festa organizzata dal Villaggio Italia Oggi canto a maggiu ‘nneggiu mese de tanti culuri e fiuri perché tantu è primu maggiu festa de tutti li lavuratori». (“L’Unità” di Terni, sabato 23 aprile 1949, p. 2)

Gli addobbi all’interno e all’esterno del Palazzone allestiti in occasione del Cantamaggio del 1984.

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Il Cantamaggio

Il Cantamaggio nasce come riedizione della tradizione rurale di cantare la fioritura delle messi. Nel 1896 Furio Miselli e altri poeti dialettali vanno a suonare in comitiva nelle campagne secondo una tradizione caduta in disuso: è il tentativo di rivalutare la cultura dei ceti popolari tradizionali ternani di origine artigianale, in sottile polemica con il modernismo industrialista. L’usanza dura qualche anno poi decade nuovamente. Viene ripresa nel 1922 e si solidifica negli anni successivi, secondo uno schema che tende a riprodurre il modello della Piedigrotta napoletana; è negli anni venti che diviene una festa popolare urbana. La sua organizzazione viene assunta dal Dopolavoro provinciale e prende il volto della sfilata di carri allegorici e della gara canora che conserva ancora oggi. Negli anni trenta il Cantamaggio inizierà a fermarsi al Palazzone. Tale usanza rimarrà per lungo tempo. Nel secondo dopoguerra, infatti, la festa diverrà momento di espressione del simbolico popolare, verrà assunta dal movimento operaio come momento di rivalutazione della cultura delle classi subalterne in opposizione a quella dei ceti dominanti. Alla realizzazione dei carri parteciperanno anche le sezioni dei partiti popolari, suscitando la viva opposizione dell’ENAL, erede dell’Opera Nazionale Dopolavoro, organizzatore ufficiale della festa.


Alla fine degli anni settanta del Novecento il Palazzone era talmente degradato e il suo stato così precario che gli appartamenti lasciati dagli inquilini venivano murati. Si aprì, allora, un dibattito sulla demolizione o meno dell’immobile e sulle possibili soluzioni edificatorie al suo posto. La svolta sopraggiunse nel 1984 quando la Società Terni cedette lo stabile all’Istituto per l’Edilizia Residenziale Pubblica (IERP), che progettò un intervento che destinava l’edificio ad abitazioni per cittadini in stato di disagio. Il pianterreno venne destinato ad attività artigianali e sociali, mentre gli appartamenti vennero ridotti da 89 a 64, ampliandone la superficie media. Il progetto dell’architetto Viali dello IERP, con il quale collaborarono gli architetti Cinti e Molinari, prevedeva anche l’ammodernamento degli impianti: il riscaldamento autonomo per ogni appartamento e l’installazione di un ascensore.

Sopara: il rilievo del prospetto su viale Brin e, a destra, il fronte su via del Raggio Vecchio alla fine degli anni ottanta. Sotto: la pianta del piano tipo, con gli interventi di demolizione e ricostruzione. Qui a lato, a destra lo stato di fatto attuale.

La ristrutturazione

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REFERENZE ICONOGRAFICHE pubblicazioni LEONARDO BENEVOLO, Storia della città, vol. 4, La città contemporanea, collana “Grandi opere”, Laterza, RomaBari 1993, p. 14 (fig. 22), p. 19 (figg. 28-29), p. 22 (fig. 34), p. 27 (fig. 39), p. 28 (fig. 41), p. 30 (fig. 43), p. 33 (fig. 47), p. 37 (figg. 54-56), p. 40 (fig. 67), pp. 46-47 (figg. 84-87). AUGUSTO CIUFFETTI, L’edilizia operaia, in Terni, a cura di Michele Giorgini, tomo II, in Storia illustrata delle città dell’Umbria, a cura di Raffaele Rossi, vol. V, collana “Il tempo e la città”, Sellino, Milano 1994, p. 476 (fig. 91), p. 477 (fig. 92), p. 486 (figg. 98-99). MICHELE GIORGINI, L’industria dell’acciaio e l’industria della città, in Le Acciaierie di Terni, a cura di Renato Covino e Gino Papuli, Catalogo regionale dei beni culturali dell’Umbria, Electa, Milano 1998, p. 249 (fig. 8). MARIA GRAZIA FIORITI, I due villaggi Matteotti, in Le Acciaierie di Terni cit., p. 281 (fig. 5), p. 282 (fig. 6). MONICA GIANSANTI, Scheda di rilevazione Villaggio semirurale “Italo Balbo” (Matteotti I), in Le Acciaierie di Terni cit., pp. 311-312, e Scheda di rilevazione Nuovo Villaggio Matteotti (Matteotti II), p. 338. ISTITUTO PER L’EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA DELLA PROVINCIA DI TERNI, Storia e realtà operativa. 1937/1987, Edizioni della Cassa di Risparmio di Terni, Roma 1988, p. 174 (figg. 3940). “Terni. Rassegna mensile del Comune”, IV, 5-6-7, maggiogiugno 1937. La Società degli Alti Forni Fonderie e Acciaierie di Terni ed i suoi stabilimenti. Monografia, Terni 1898, corografia. Terni Società per l’Industria e l’Elettricità, Dopolavoro. Assistenza di fabbrica. Assistenza sanitaria, Terni 1937. TERNI SOCIETÀ PER L’INDUSTRIA E L’ELETTRICITÀ, Relazione sull’attività tecnico-amministrativa-assistenziale degli stabilimenti sociali per conseguire il distintivo di azienda modello, Terni 1941. L’Umbria. Manuali per il territorio. Terni, Edindustria, Roma 1980, vol. II, p. 593. fondi archivistici Archivio del Comune di Terni, Comitato popolare dei borghi, relazione dell’ing. Randanini, Terni 1914. Archivio di Stato di Terni (AST), Archivio Storico del Comune di Terni (ASCT), b. 1369, fasc. “Progetti diversi”. AST, ASCT, b. 1435, fasc. “Disegni fabbricati”. AST, ASCT, b. 1261, fasc. “Disegni fabbricati”. AST, Archivio Storico della Società Terni I, b. 205, fasc. 1. Comune di Narni, Archivio Commissione Edilizia, b. 19311932, fasc. 15/4/31, s.fasc. 27. fondi fotografici Biblioteca Comunale “Augusta”, Perugia. Fototeca del Servizio Musei e Beni Culturali della Regione dell’Umbria.



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