Sull’avvenire industriale di Terni
L
uigi Campo Fregoso fu, per formazione e professione, essenzialmente un militare che la guerra concepì secondo lo spirito dell’ultimo Risorgimento. Approdò alla storia sempre per ragioni militari, adottando l’ottica geopolitica che gli derivava dalla filosofia giobertiana del primato italiano sul Mediterraneo. Nacque a Milano il 17 dicembre 1844, da Giuseppe e da Vicenza Campana. Nel capoluogo lombardo intraprese la carriera militare a soli diciotto anni, come soldato Volontario nell’Esercito. Fu allievo nel Collegio Militare di Milano e quindi allievo alla Regia Militare Accademia per l’arma di Cavalleria dal 1862 al 1864. Promosso sottotenente nel Reggimento Savoia Cavalleria con decreto del 28 agosto 1864, partecipò alla Terza guerra d’Indipendenza come applicato dapprima al Quartier Generale del 2° Corpo d’Armata e poi all’Ufficio del Corpo di Stato Maggiore. Il suo primo impatto con la realtà umbra risale al settembre del 1868, quando venne destinato presso lo Stato Maggiore della Divisione Militare di Perugia. Dal 1869 al 1873 fu addetto al Corpo di Stato Maggiore delle Truppe con incarichi presso il Comando generale del Corpo. La sua carriera militare fu rapida ma breve. Nel 1874 venne promosso capitano di Stato Maggiore; più tardi, e precisamente nel settembre del 1882, ottenne il grado di maggiore nel Reggimento Genova Cavalleria. Nel 1884 abbandonò l’esercito, per contrasti con i comandi superiori. Visse fino al 1908 quasi dimenticato, soffrendo le angustie della povertà e della solitudine. Concluse i suoi giorni nel buio della follia. Luigi Campo Fregoso legò il suo nome a un unico grande progetto: l’organizzazione nella Val Ternana di un vasto complesso industriale-militare per mettere l’Italia in grado di difendersi in caso di attacco da parte dell’Austria o della Francia, come pure di affrontare una politica d’espansione nel Mediterraneo. Su quella che egli chiamava la “Questione Ternana” pubblicò, tra il 1871 e il 1876, tre opere Il campo trincerato di Terni nel sistema difensivo dell'Italia peninsulare; Sulla straordinaria importanza militare industriale di Terni; Sulla riorganizzazione dei nostri stabilimenti militari per la produzione del materiale da guerra e dell’industria metallurgica nazionale. Questa trilogia viene ora pubblicata in un unico volume con l’intento di ricostruire un momento importante della storia di Terni, così come venne interpretato negli ambienti militari e istituzionali di fine Ottocento.
Sull’avvenire industriale di Terni
scritti di Luigi Campo Fregoso a cura di Vincenzo Pirro
ISBN 88-87288-49-6
CRACE / ICSIM
euro 15,00 (IVA inclusa)
CRACE / ICSIM
ICSIM Collana Storica n. 4
ISTITUTO PER LA CULTURA E LA STORIA D’IMPRESA “FRANCO MOMIGLIANO”
Sull’avvenire industriale di Terni scritti di Luigi Campo Fregoso
a cura di Vincenzo Pirro
CRACE / ICSIM
Per aver concesso la pubblicazione degli originali ivi conservati, si ringrazia la Biblioteca Comunale di Terni.
In copertina e nella quarta di copertina Una delle prime foto della Fabbrica d’Armi di Terni (elaborazione di Vito Simone Foresi), con il viale Brin in costruzione
Realizzazione Centro Ricerche Ambiente Cultura Economia (CRACE)
Š 2005 CRACE / ICSIM ISBN 88-87288-49-6
Il 2 maggio 1875 il generale Ricotti, ministro della Guerra, poneva la prima pietra della Fabbrica d’Armi, un opificio destinato a diventare uno dei luoghi simbolo della trasformazione della Conca Ternana e dell’industrializzazione cittadina. Nel 130° anniversario dell’evento l’ICSIM ha inteso contribuire alle diverse iniziative che lo celebrano, raccogliendo in una sola pubblicazione tre scritti di Luigi Campo Fregoso, come primo momento di una riflessione che vorremmo sviluppare, in modo organico, avendo di mira, in particolare, la realtà della scuola e quella di tutti coloro che sono impegnati a valorizzare la recente storia industriale del nostro territorio. Come di consueto il professor Vincenzo Pirro, che di questa collana è l’ideatore e il coordinatore, ci propone un lavoro di grande interesse e suggestione, tanto più significativo nel momento in cui, col Museo delle Armi, tale realtà produttiva – che rimane pur sempre una delle più significative di quest’area – si apre alla conoscenza di un vastissimo pubblico, in un rapporto fecondo con tante altre realizzazioni similari, dall’ex Siri alla Carburo di Papigno, o sparse qua e là, come punti focali di un più ampio sistema che costituisce un percorso lungo quasi due secoli. Luigi Campo Fregoso, come sappiamo, non ebbe vita facile, né ottenne particolari benefici dalla sua campagna di sensibilizzazione a favore dell’insediamento a Terni di un polo degli armamenti, posto al sicuro perché lontano dal mare e di lì a poco collegato a una grande industria siderurgica; un vero e proprio cuore pulsante di una strategia della forza che avrebbe dovuto fare dell’Italia, appena riunificata, una vera potenza europea e mondiale. Come Paolo Garofoli anche questo giovane ufficiale, venuto dal nord, ha un’illimitata fiducia nelle “specialità ternane”, e cioè l’abbondanza di forza motrice idraulica e di mano d’opera, i fattori localizzativi al centro della penisola e vicino a Roma, la voglia di fare e di migliorare della sua popolazione. Molti di questi argomenti saranno poi ri-
presi e rilanciati dallo stesso Vincenzo Stefano Breda in un discorso alla Camera dei Deputati del 23 maggio 1871. Ne nasce così una singolare miscela, in cui globale e locale si fondono e si amalgamo. Gli scenari sono quelli dei ricorrenti conflitti tra le grandi potenze europee per il predominio nel continente – come nel caso della guerra franco-tedesca – e fuori di essa, dell’epoca degli imperi e dell’espansione coloniale; o quelli delle frustrazioni dell’orgoglio italiano, dopo Mentana, Monterotondo e Lissa. In altre parole, con l’apertura del Canale di Suez – destinata a restituire al Mediterraneo una fugace centralità – l’Italia ha tutte le condizioni per tornare a giocare il ruolo di grande potenza, ma nessuna politica di potenza sarà mai possibile senza un’adeguata industria bellica. Di qui l’importanza di Terni, che da piccolo borgo contadino, si vede elevata, nel giro di pochi decenni, a espressione di quanto di nuovo si agita nel mondo, come lo stesso Campo Fregoso adombra, quando la paragona alle altre assai più quiete città dell’Umbria, così come il Centro Italia acquista maggiore rilievo rispetto alla più “svantaggiata” Pianura Padana. Si può ovviamente discutere sulla fondatezza di una tale visione strategica, alla luce delle vicende successive – Adua tra tutte – anche se la prima guerra mondiale consentirà all’Italia di sedersi al tavolo delle nazioni vincitrici. In realtà la teoria di Campo Fregoso, che tante delusioni gli arrecò nel rapporto con le gerarchie militari, si rivelò giusta solo in parte, essendo lo status di grande potenza la risultante di un insieme di fattori, e non solo, come si credette inizialmente, soprattutto della capacità produttiva, che pure assunse un peso crescente nelle politiche degli Stati. La Fabbrica d’Armi di Terni, sin dall’inizio proprietà dello Stato, entrò in produzione il 16 agosto 1881, su un’area di circa 43.000 metri quadrati, dei quali quasi la metà coperta. Per ottenerne la realizzazione il Comune di Terni mise a disposizione del Demanio Militare i terreni acquisiti in “Zona Canali” e costruì un nuovo, potente adduttore, il Canale Nerino. Come impianto destinato a produrre e a fare la manutenzione dei fucili – dapprima il Vetterli modello 1870 e poi il celebre modello ’91
– occupò inizialmente intorno a 200 dipendenti, quasi tutti provenienti da stabilimenti militari del nord, per arrivare alla punta massima di 7.320 nel luglio 1918, nel momento di estremo sforzo nel conflitto con l’Austria, e ai 6.800 del 1941, un anno dopo l’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale. A queste punte seguirono sempre delle cadute rovinose con la cessazione delle ostilità e, immediatamente dopo l’Armistizio del 4 novembre 1918, con una forte campagna dei socialisti ternani intesa a riconvertirne le produzioni, da belliche a civili. Ma torniamo al Campo Fregoso: Terni, attraverso questi scritti e una densa corrispondenza indirizzata alla Municipalità, fu da lui ripetutamente sollecitata a non perdere l’occasione irripetibile che le si stava presentando. La “questione ternana” assunse così un suo autonomo spessore, anche se di fatto, la città si ricordò di lui solo a morte avvenuta. Gli orizzonti vagheggiati di 100.000 abitanti furono raggiunti solo alcuni decenni più tardi, nel 1966, ed enorme fu il prezzo pagato, con i bombardamenti del 1943, a questo tipo di sviluppo e alla follia bellicista che l’alimentò in gran parte. Ma siccome ciascuno di noi è frutto della propria storia, e così è anche per la vicenda complessiva dell’apparato industriale e delle infrastrutture civili di questa parte d’Umbria, non possiamo immaginare cosa saremmo stati senza queste vicende. I tre scritti di Luigi Campo Fregoso qui riprodotti ci aiutano a capire da dove veniamo, anche se rimane l’incertezza del dove stiamo andando. Essi rappresentano, tuttavia, non solo un atto di fiducia nelle possibilità di sviluppo dell’Italia e delle nostre terre, ma anche un rilevante contributo a quella conoscenza dei problemi che è di per sé sempre, un fatto positivo, quando si tratti di assumere una qualsivoglia decisione. È con tale intento che, nel ricordo dell’Autore, l’ICSIM oggi li ripropone all’attenzione dei Ternani e di quanti portano interesse alla storia dell’industria italiana. Franco Giustinelli Presidente ICSIM
Indice IX Vincenzo Pirro Introduzione 1 Il campo trincerato di Terni nel sistema difensivo dell’Italia peninsulare 39 Sulla straordinaria importanza militare industriale di Val Ternana 111 Sulla riorganizzazione dei nostri stabilimenti militari per la produzione del materiale da guerra e dell’industria metallurgica nazionale 205 Indice dei nomi di persona
VINCENZO PIRRO / Introduzione
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VINCENZO PIRRO / Introduzione
Introduzione Luigi Campo Fregoso fu, per formazione e professione, essenzialmente un militare, che la guerra concepì in chiave difensiva e offensiva secondo lo spirito dell’ultimo Risorgimento. Approdò alla storia sempre per ragioni militari, adottando l’ottica geopolitica che gli derivava dalla filosofia giobertiana del primato italiano sul Mediterraneo. Nacque a Milano il 17 dicembre 1844, da Giuseppe e daVicenza Campana. Dalla famiglia ereditò il titolo nobiliare di conte. Nel capoluogo lombardo intraprese la carriera militare a soli diciotto anni, come soldato volontario nell’Esercito. Fu allievo nel Collegio Militare di Milano e quindi allievo alla Regia Militare Accademia per l’arma di Cavalleria dal 1862 al 1864. Promosso sottotenente nel Reggimento Savoia Cavalleria con decreto del 28 agosto 1864, partecipò alla Terza guerra d’Indipendenza come applicato dapprima al Quartier Generale del 2° Corpo d’Armata e poi all’Ufficio del Corpo di Stato Maggiore. Per i suoi meriti fu autorizzato a fregiarsi della Medaglia istituita con decreto regio 4 marzo 1865 per le guerre combattute per l’indipendenza e l’unità d’Italia colla fascetta della campagna del 18661. Il suo primo impatto con la realtà umbra risale al settembre 1868, quando venne destinato presso lo Stato Maggiore della Divisione Militare di Perugia. Dal 1869 al 1873 fu addetto al Corpo di Stato Maggiore delle Truppe con incarichi presso il Comando Generale del Corpo. Il 27 novembre1873, previa autorizzazione ministeriale, contrasse matrimonio con la signora Narducci, vedova Iacobini. Il decennio 1873-1883 fu per il Campo Fregoso relativamente felice. Venne promosso capitano di Stato Maggiore nel 1874 e in questa
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Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio di Revisione delle Matricole, Stato di Servizio di Campo Fregoso conte Luigi.
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veste ebbe modo di collaborare con il Presidente del Consiglio Luigi Menabrea; più tardi, e precisamente nel settembre 1882, ottenne il grado di maggiore nel Reggimento Genova Cavalleria. Nel frattempo vide realizzato almeno in parte il suo sogno: l’impianto a Terni della Fabbrica d’Armi. Il 31 dicembre 1883 rimase vedovo. Il lutto contribuì a far maturare in lui la decisione di abbandonare l’Esercito, motivata essenzialmente dai contrasti con i comandi superiori provocati dal suo libro sulla riorganizzazione degli stabilimenti militari, molto critico nei confronti del sistema difensivo italiano. Il 22 febbraio 1884 venne “dimissionato” in seguito a sua domanda2. Usciva di scena l’anno stesso in cui, con l’acquisto del porto di Massaua, iniziava l’espansione marittima dell’Italia oltre il Canale di Suez, e a Terni sorgeva l’industria siderurgica: due eventi idealmente collegati, che il Campo Fregoso aveva fortemente sostenuto. Per consolazione ebbe dal Ministero l’autorizzazione a fregiarsi della medaglia istituita con regio decreto 26 aprile 1883 con il motto “Unità d’Italia 1848-1870”3. Dopo il 1884 Luigi Campo Fregoso entrò nell’ombra: visse fino al 1908 quasi dimenticato, soffrendo le angustie della povertà e della solitudine. Concluse i suoi giorni nel buio della follia. Terni, la sua seconda patria, la città per la quale il giovane e prode ufficiale si era tanto prodigato, non lo dimenticò. Nella seduta del Consiglio Comunale del 4 febbraio 1908, a pochi giorni dalla sua scomparsa, il consigliere Menicocci tenne il discorso di commemorazione in cui ricordò soprattutto i suoi studi “sulla straordinaria importanza militare e industriale di Terni”, concludendo con parole che rivelano il dramma dell’uomo: Spese i suoi denari in questi ed altri studi pubblicando spesso memorie, dissertando sui giornali, facendo viaggi, ma come retaggio dell’amore verso la patria e come compenso al suo vasto ingegno e alla sua elevata dottrina ebbe la persecuzione e il disprezzo, finché angustiato e vuoto dal dolore finì pazzo4. 2 3 4
Ibidem. Ibidem. Archivio di Stato di Terni (AST), Archivio Storico del Comune di Terni, secondo versamento (ASCT II), b. 28, Registro delle deliberazioni del Consiglio dal 26 marzo al 15 aprile 1908, adunanza consiliare 4 febbraio 1908.
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VINCENZO PIRRO / Introduzione
Il Sindaco, a nome della Giunta e dell’intero Consiglio, si associò “alla gentile e doverosa commemorazione” fatta dal Menicocci, ricordando che Terni aveva l’obbligo di conservare profonda ammirazione e imperitura gratitudine verso il valoroso scrittore che primo in Italia strenuamente proclamò l’alta importanza strategica ed industriale della conca ternana, aprendo così la via all’avvenire industriale di questa città5.
A cosa si riferisse propriamente l’oratore quando parlò di “persecuzione e disprezzo” possiamo capirlo meglio da una lettera indirizzata dallo stesso Campo Fregoso al Sindaco di Terni nel giugno 1876, a proposito della “questione ternana” collegata alla riorganizzazione degli stabilimenti militari in Italia, su cui lo scrittore era tornato ampiamente proprio in un’opera apparsa quell’anno: La questione già si agita nelle sfere militari, la Marina l’Artiglieria il Genio sorgono meravigliati e indispettiti […]. Essi hanno già iniziato contro di me un’accanita lotta di rappresaglie che si faranno sempre più incalzanti in avvenire6.
È da presumere che le previsioni pessimistiche del Campo Fregoso si siano avverate e che le “rappresaglie” delle alte sfere militari contro di lui siano cresciute a tal punto da costringerlo a lasciare l’Esercito, dopo di che entrò in depressione. Nella citata lettera al Sindaco di Terni, il Campo Fregoso invoca il sostegno della città con queste parole: I Ternani non mi abbandonino; deve avvenire per Terni quel che di molte città di America ed Inghilterra; fra 20-30 anni essa conterà centomila abitanti, diventerà la metropoli industriale e il centro militare d’Italia. Ma bisogna sbrigarsi ricordandosi che è necessario spingere per cento per ottenere dieci7.
5 6 7
Ibidem. Ivi, b. 674, fasc. 6, Corrispondenza tra il Comune di Terni e Luigi Campo Fregoso, Lettera di quest’ultimo al Sindaco Faustini, Roma 26 giugno 1876. Ibidem.
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VINCENZO PIRRO / Introduzione
Quello che il Campo Fregoso chiedeva al Comune di Terni era di non lasciarlo solo nella battaglia a favore dell’opzione ternana e di darsi da fare sia per disporre favorevolmente l’opinione pubblica, sia per “spingere” sul Governo attraverso il Deputato della città, prima che fosse troppo tardi, prima che interessi estranei alla nazione facessero prevalere l’orientamento ad impiantare in altre parti d’Italia il nuovo stabilimento metallurgico. Evidentemente egli non si sentiva abbastanza appoggiato dall’Amministrazione Comunale di Terni, che anzi gli appariva paralizzante con i suoi “dubbi” e i suoi “indugi”. Certo è che il 20 giugno 1876, nell’inviare al Sindaco Faustini due copie del giornale il “Popolo Romano”, nel quale si trovava inserita una sua lettera a Benedetto Brin per “prevenire il caso che la Marina avesse pensato di stabilire il nuovo stabilimento metallurgico in luogo diverso che Val Ternana”, sentì il bisogno di sfogarsi in questi termini: Ma di grazia, i Ternani perché non si muovono; il momento è decisivo per l’avvenire di Terni e la causa che essi hanno tra le mani è così evidente, così bella e grande che invero non so comprendere il loro silenzio […]. Se i Ternani ricominciano essi stessi a mettere dubbi e indugi prima ancora di lottare, allora tutto è finito8.
Era talmente amareggiato che arrivò a dire: Se io non avessi la ferma convinzione che alla soluzione della Questione Ternana si connettono gli interessi dell’esercito e del paese, certo è che – malgrado la viva simpatia che nutro per Terni – non avrei detto una parola, ed è solo per questo che io continuerò a lottare solo od accompagnato9.
La “simpatia” nutrita per Terni, o piuttosto per la sua gente, operosa e dinamica, il Campo Fregoso l’ebbe ad esprimere più volte nelle sue opere, ma una pagina tra le tante merita qui di essere riportata, una pagina presa dal saggio del 1872 Sulla straordinaria importanza militare industriale di Terni. Suona così:
8 9
Ivi, Lettera di Campo Fregoso al Sindaco Faustini, Roma 20 giugno 1876. Ibidem.
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VINCENZO PIRRO / Introduzione
Terni, patria di Tacito e di Floriano imperatore, non conta che 10.000 abitanti circa, di cui un buon terzo vivono direttamente o indirettamente sull’industria. L’amor di libertà, lo spirito d’indipendenza è tradizionale fra quelle genti, si direbbe suggerito dallo stesso fondamento geografico; e non è mai venuto meno neppure nei lunghi e bassi periodi della dominazione papale, quando ogni sentimento maschile e virile era spento e scomparso fra le genti circostanti. Le sue numerose fabbriche, la sua popolazione eminentemente operaia e per natura industriale, lo spirito pratico d’attività, d’associazione, d’intrapresa che vi si ammira, tutto ci fa dimenticare per un momento di essere in Umbria, questa antica terra di pittori e di santi, su cui oggidì l’apatia cresce tanto rigogliosa10.
La “simpatia” per Terni si carica di significato ideologico e politico nell’opera del 1876 Sulla riorganizzazione dei nostri stabilimenti militari, ove ricorrono accenti profetici ispirati all’idea di Roma, ai cui destini il Campo Fregoso associa il popolo di “Val Umbria” e di “Val Ternana” specialmente. Preso dal fervore patriottico di chi vive i grandi miti del Risorgimento all’ombra di Gioberti e di Mazzini, egli consegna alla poesia una breve pagina di storia in cui canta la “terra che fu dopo Roma e con Roma la più illustre del mondo” e affida ai Ternani la missione di risvegliare le altre genti dell’Umbria per dare loro la consapevolezza di essere il principio fecondatore della storia di Roma: Ecco la missione altissima cui debbono ancora oggidì mirare i Ternani, potente famiglia di questa fortunata schiatta centrale italiana; ecco dove troveranno fortuna, gloria, potenza tutto il loro avvenire. Sveglino i loro vicini che da secoli dormono sulle illustri tombe dei loro padri ed insieme si agitino, si rinnovino, afferrino quel magnifico destino. Il loro risveglio sarà segnale del ridestarsi della nuova virtù italiana, per essi si effettuerà e cementerà l’idea nazionale e l’equilibrio antico delle forze verrà ristabilito su solide basi. Non può essere a Roma grosso il Tevere se prima non si aprono le eterne e purissime fonti degli Umbri e Sabini11.
10 11
Luigi Campo Fregoso, Sulla straordinaria importanza militare industriale di Val Ternana, seconda edizione, Terni 1872, infra, p. 66. Luigi Campo Fregoso, Sulla riorganizzazione dei nostri stabilimenti militari per la produzione del materiale da guerra e dell’industria metallurgica nazionale, Roma 1876, infra, p. 116.
XIII
VINCENZO PIRRO / Introduzione
I rapporti tra il Campo Fregoso e la Municipalità di Terni, ispirati alle comuni idealità patriottiche e risorgimentali, si erano svolti fino al 1876 sul piano della correttezza formale, ma in maniera non del tutto lineare. L’Amministrazione Comunale, nel decennio postunitario, si era interessata per ottenere l’insediamento a Terni di un arsenale militare, ma lo fece in un orizzonte domestico, utilizzando il contributo dei tecnici locali e l’influenza del Deputato Luigi Silvestrelli. Fu come spiazzata dall’opera di Luigi Campo Fregoso del 1871 Il campo trincerato di Terni, che aveva ben altre ambizioni e prospettive. Sta di fatto che non reagì e non prese iniziative. Diverso fu l’atteggiamento che assunse l’anno successivo di fronte alla seconda opera del Campo Fregoso, Sulla straordinaria importanza militare industriale della Val Ternana (apparsa originariamente a Firenze): infatti deliberò tempestivamente di stamparne una nuova edizione a spese del Comune, per la molta importanza ed intrinseco merito del lavoro, come per esprimere al Sig. Campo Fregoso la riconoscenza del Municipio e della cittadinanza di Terni12.
Contemporaneamente, però, il Sindaco Faustini si rivolse al giornalista fiorentino Armando Guarnieri per “popolarizzare” l’avvenire industriale di Terni con una serie di articoli sulla “Gazzetta d’Italia”, articoli poi apparsi in opuscolo con il titolo Sulle convenienze di situare grandi stabilimenti militari nei dintorni della città di Terni (Firenze 1872), in cui l’autore ribadiva sì gli argomenti già sviluppati dal Campo Fregoso ma senza far a loro alcun riferimento diretto, preferendo citare gli ingegneri ternani Ottavio Coletti e Adriano Sconocchia. Nell’opera del 1872 il Campo Fregoso, dopo aver sostenuto che a Terni, meglio che a nessuna altra città, conveniva di “marciare all’avanguardia del nostro risorgimento industriale”, avvertiva i Ternani: Conviene affrettarsi, poiché, se presto o tardi i monopoli naturali finiscono per trionfare sull’intrigo e sulla prepotenza, non è men vero però che per lunghissimi periodi avviene del commercio ciò che della vita: Chi tardi arriva, male alloggia. Affrettiamoci prima che l’attività estera venga a stabilirsi a nostro scorno su queste sponde; affrettiamoci Ternani, voi siete nella più bella
12
AST, ASCT II, b. 9, Registro delle deliberazioni del Consiglio dal 28 marzo 1871 al 15 ottobre 1873, adunanza consiliare del 14 maggio 1872, c. 34v.
XIV
VINCENZO PIRRO / Introduzione
condizione che si possa ad un popolo attivo, ricco e intraprendente, desideroso di onorar se medesimo e la patria!13.
Che uso abbia fatto la Municipalità di Terni dei consigli e delle esortazioni di Campo Fregoso è difficile dire, sappiamo solo che nel novembre 1872 il Ministro della Guerra, sulla base di un rapporto redatto da una commissione tecnica, decideva di costruire a Terni una fabbrica per la produzione di 60.000 fucili l’anno. Sulla decisione aveva pesato sicuramente l’offerta del Comune di Terni di cedere parte della forza motrice, che sarebbe stata ricavata dal Nera mediante un nuovo canale progettato dall’ingegnere comunale Adriano Sconocchia. Ora, nelle varie fasi che portarono alla costruzione della Fabbrica d’Armi: progetto d’insieme, delibere consiliari, convenzioni tra il Comune e il Governo, collocamento della prima pietra (maggio 1875) ecc., il nome di Luigi Campo Fregoso non compare mai, a nessun titolo, come se la scelta di Terni fosse avvenuta indipendentemente dalla sua opera di propaganda, per autonoma decisione del Ministero della Guerra e per il concorso economico del Comune. Nella sua terza opera, pubblicata nel 1876, il Campo Fregoso riconosce tuttavia nella Fabbrica d’Armi un suo primo successo, o meglio il risultato della lotta sostenuta da sei anni insieme ai Ternani: Un fianco della posizione è spuntato; la nuova fabbrica d’armi, malgrado le pressioni dell’attrazione provinciale, ha dovuto, un po’ tardi è vero, ma ha dovuto subire la legge della gravitazione generale e venire a posarsi nei piani Ternani [...]. La questione Ternana ha fatto notevole progresso, quando pochi anni or sono io mi faceva a segnalare le risorse militari ed industriali veramente straordinarie di questa fortunata terra e mostrava il posto eminente che avrebbe potuto occupare nel problema della guerra nazionale, il nome di Terni non era conosciuto che per le spettacolose scene della sua natura. Ora vediamo che già havvi in costruzione una fabbrica d’armi; le risorse militari ed industriali di Val Ternana sono note ed apprezzate da moltissimi; gli speculatori vi accorrono da ogni parte ad accaparrare il presente e l’avvenire14.
13 14
Campo Fregoso, Sulla straordinaria importanza cit. (a nota 10), infra, p. 70. Campo Fregoso, Sulla riorganizzazione dei nostri stabilimenti militari cit. (a nota 11), infra, pp. 114, 127-128.
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VINCENZO PIRRO / Introduzione
Quindi rilancia la “questione Ternana” in grande stile, proponendo di impiantare a Terni una nuova industria siderurgica nazionale, a favore della quale chiama a raccolta le “forze vive che accettano l’azione”. Nell’introduzione all’opera scrive: È perciò che io invito i Ternani, miei antichi alleati in questa lotta, a volersi levare ancora una volta; essi hanno il dovere nonché il diritto a ciò, poiché tengono dalla natura in loro potere la chiave per risolvere in modo conforme alle aspirazioni nazionali ed agli interessi generali questa gravissima questione15.
L’invito ai Ternani evidentemente cadde nel vuoto se è vero, come abbiamo visto, che il Campo Fregoso avvertì il bisogno di scrivere al Sindaco Faustini la lettera risentita del 20 giugno. Chiamato in causa, il Sindaco rispose confermando innanzi tutto al Campo Fregoso la stima e la riconoscenza del Municipio e della cittadinanza per quanto aveva fatto e prometteva di fare in vantaggio di Terni, quindi assicurandolo che la rappresentanza municipale era assolutamente convinta delle ragioni “con tanta potenza di penna e senso pratico” svolte nella sua ultima opera. Ebbe a scrivere il Faustini: In essa risplende, e quasi giganteggia l’importanza di Val Ternana! [...]. Ella in Val Ternana s’ispira alla nazione, vagheggia il bene pubblico. A sì nobile appello Terni, indipendentemente dal tornaconto speciale che andrebbe a derivarne, non può non rispondere per quanto le sue forze il consentino16.
Passando dalle parole ai fatti, il Sindaco di Terni prese una serie di iniziative per assecondare l’operato del Campo Fregoso. Prima di tutto procurò di diffondere la sua opera del 1876, ritenendo necessario di “far comprendere a quante più persone si possa di che si tratti, onde promuovere indirizzi, impegni, la influenza insomma che abbisogna pel successo della buona causa”17. Quindi pensò di dare ad essa giusta 15 16
17
Ivi, infra, p. 113. AST, ASCT II, b. 674, fasc. 6, Corrispondenza tra il Comune di Terni e Luigi Campo Fregoso, Lettera del Sindaco Faustini al Campo Fregoso, 23 giugno 1876. Ibidem.
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VINCENZO PIRRO / Introduzione
pubblicità pregando Armando Guarnieri di “dettare degli articoli di circostanza” sull’argomento “da inserirsi nella accreditata quanto diffusa Gazzetta d’Italia”18. Infine, affidò al cavalier Alceo Massarucci, Deputato di Terni al Parlamento, “le carte occorrenti con incarico al medesimo di adoperarsi presso la Commissione” nel senso espresso dal Campo Fregoso19. Se non che la crisi ministeriale del 1876 e la chiusura delle Camere vanificarono i progetti che sembravano così bene avviati. Nell’agosto di quello stesso anno il Sindaco di Terni ritirò la proposta fatta al Guarnieri di scrivere sulla “Gazzetta d’Italia” articoli che muovevano dal libro del Campo Fregoso e propose di “trasferire la cosa ad epoca più propizia”20. L’unico risultato positivo, in quelle circostanze, fu una recensione di “fonte ternana” dell’ultimo lavoro del Campo Fregoso apparsa sul “Diritto” di Firenze21. Stando alla documentazione archivistica, con questo carteggio dell’estate 1876 si concludono gli scambi epistolari tra il Comune di Terni e Luigi Campo Fregoso; che cosa sia accaduto dopo quella data nei rapporti tra i due soggetti è impossibile sapere, almeno per ora, come è impossibile dire se sia stata mai effettuata la più volte promessa visita personale a Terni dell’illustre “protettore” della città. A quanto pare, Terni si ricordò di lui solo post mortem in due occasioni: la prima è la commemorazione in Consiglio Comunale il 4 febbraio 1908, di cui abbiamo parlato, la seconda è la deliberazione del Consiglio Comunale, nella seduta del 10 marzo 1917, di dedicare a Luigi Campo Fregoso il viale che “staccandosi dal viale Benedetto Brin, dopo attraversato il ponte in ferro sul Nera, va a raggiungere l’antica Ferriera”22.
18 19 20 21 22
Ivi, Corrispondenza tra il Comune di Terni e Armando Guarnieri, Il Sindaco Faustini al Guarnieri, 2 luglio 1876. Ivi, Corrispondenza tra il Comune di Terni e Luigi Campo Fregoso, Lettera del Sindaco Faustini al Campo Fregoso, 23 giugno 1876. Ivi, Il Sindaco Faustini al Guarnieri, 23 agosto 1876. Ivi, Campo Fregoso al Sindaco di Terni, Roma 20 luglio 1876. Non è stato possibile rintracciare questo numero del “Diritto”. Ivi, b. 34, Registro delle deliberazioni del Consiglio dal 23 maggio 1916 all’11 dicembre 1920, adunanza consiliare del 10 marzo 1917. Nella lapidetta i due
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VINCENZO PIRRO / Introduzione
Nel citato discorso commemorativo del 4 febbraio 1908 il Sindaco di Terni ebbe a definire il Campo Fregoso valoroso scrittore che primo in Italia strenuamente proclamò l’alta importanza strategica ed industriale della conca ternana, aprendo così la via all’avvenire industriale di questa città.
Era, finalmente, il riconoscimento del suo principale merito: avere per primo sollevato la questione ternana a livello nazionale. È vero che prima di lui voci autorevoli si erano levate ad evidenziare le potenzialità di sviluppo di Terni e la sua idoneità come sede di impianti industriali, ma nessuno l’aveva fatto con argomentazioni pari alle sue, nelle quali si mescolano realistiche considerazioni strategico-militari con alti “intendimenti patriottici”23. Le teorie del Campo Fregoso, formulate nel giro di pochi anni, tra il 1871 e il 1876, trassero occasione e fondamento da alcuni grandi eventi storici che colpirono particolarmente il giovane ufficiale. Innanzi tutto l’infelice esito della Terza guerra d’Indipendenza con le sconfitte di Custoza e di Lissa, che rivelarono la debolezza del sistema difensivo italiano sia per terra sia per mare. In secondo luogo l’apertura del Canale di Suez, che, restituendo al Mediterraneo l’antica funzione di bacino di smistamento tra Occidente ed Oriente, eccitava gli appetiti delle grandi potenze europee a danno dell’Italia che si trovava assediata nel suo stesso mare, senza vere possibilità di espansione commerciale e coloniale. In terzo luogo la guerra franco-prussiana, che aveva evidenziato la necessità, nella guerra moderna, di un’industria militare pubblica e privata dislocata nei punti strategici per operazioni offensive ma soprattutto difensive. Infine la presa di Roma, che imponeva di rivedere tutti i piani strategici della guerra in Italia, dal momento che l’asse geopolitico si era spostato dalla Valle Padana
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cognomi sono stati erroneamente fusi in “Campofregoso”. Cfr. Walter Mazzilli, Le Vie e le Piazze di Terni, Terni 2004, p. 48. Sulla parte avuta dal Campo Fregoso nel promuovere l’industrializzazione a Terni cfr. Giampaolo Gallo, Illmo Signor Direttore…Grande industria e società a Terni fra Otto e Novecento, Editoriale Umbra, Foligno 1983, pp. 7-10.
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VINCENZO PIRRO / Introduzione
alla Penisola, dal Nord al Centro-Sud. La somma di questi eventi dava per risultato ultimo la “questione del Mediterraneo”, a cui l’Italia era urgentemente chiamata a dare una risposta in termini politici e militari. Ed è sul Mediterraneo che il Campo Fregoso concentra la sua attenzione, svolgendo una serie di ragionamenti che si possono così riassumere: 1. la Francia, estromessa dalla zona renana dopo la sconfitta del 1870, si volgerà al Mediterraneo, ove già possiede Algeri, Corsica, Nizza, e ove coltiva i suoi affari con Tunisi, l’Egitto, Suez; 2. l’Austria, dopo Sadowa, guarda anch’essa ai lidi del Mediterraneo, come si può vedere dal suo movimento discensivo lungo il Danubio, trasportando il centro di gravità dell’Impero da Vienna a Pest; 3. la Germania, potente per armi e civiltà, non potrà rimanere a lungo appartata dal Mediterraneo, “da questo mare destinato dalla natura ad essere, in tutti i tempi, il convegno di tutti i popoli, il centro degli interessi generali, il focolare della civiltà”; 4. l’Inghilterra, assisa nello stretto di Gibilterra e nell’istmo di Suez, padrona di Malta, vigila contro la formazione di ogni grande potenza marittima sul Mediterraneo. Conclusione: coll’Austria, colla Francia, coll’Inghilterra accampate attorno alla nostra penisola sui nostri mari ed in minacciose posizioni sulle nostre frontiere terrestri, non possiamo dire certamente che militarmente l’Italia è fatta sicura di se stessa24.
È necessario organizzare nell’Italia peninsulare un vasto campo trincerato, capace di coordinare la difesa terrestre e quella marittima. E il luogo ideale di questo sistema difensivo non può che essere la Val Ternana, per ragioni che il Campo Fregoso così riassume nella sua prima opera del 1871 Il Campo trincerato di Terni nel sistema difensivo dell’Italia peninsulare:
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Luigi Campo Fregoso, Il campo trincerato di Terni nel sistema difensivo dell’Italia peninsulare, Firenze 1971, infra p. 7.
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VINCENZO PIRRO / Introduzione
per la sicurezza e centralità della sua posizione, le sue condizioni logistiche, le sue immense risorse economiche, per lo spirito intraprendente dei suoi abitanti, per la sua stessa giacitura topografica, Terni è posizione più d’ogni altra acconcia all’impianto degli stabilimenti per la fabbricazione e conservazione dei vari materiali da guerra. Non dobbiamo dimenticare che per perennità e potenza di corrente la Nera è il primo fiume industriale d’Italia […]. Non dobbiamo dimenticare che l’industria metallurgica e specialmente quella del ferro, a Terni rimonta all’antico impero romano, che a Terni si rinviene sul posto tutto ciò che richiede la fabbricazione di armi e di polveri; che Terni è lo scolo naturale degli Abruzzi, della Sabina, di Vall’Umbria, Val Tevere e quindi di loro immense ricchezze nei tre regni della natura: carbone, legname, torbe, bitumi, ligniti, scisti bituminosi, minerali d’ogni fatta […]. Terni insomma è il principal nostro laboratorio meccanico, è la Manchester d’Italia, come giustamente la disse il Pepoli. Difficilmente si può misurare l’avvenire che è riserbato a codesta piccola ma laboriosa città […]; quel che è certo si è che fin d’ora questa piazza è la più acconcia allo stabilimento degli arsenali terrestri per l’Italia peninsulare e che colà l’industria militare potrà ripromettere un efficace appoggio da quella privata, sia in tempo di pace che in tempo di guerra25.
Ma il Mediterraneo non evoca solo lo spettro dell’assedio, del pericolo da cui difendersi, suscita anche ricordi e speranze di grandezza. In linea con la pubblicistica del tempo26, Luigi Campo Fregoso nel 1872 pubblica un’opera intitolata Del Primato Italiano sul Mediterraneo in cui esprime il suo pensiero sui destini d’Italia, in termini nuovi ed esaltanti. Il punto di partenza è sempre lo stesso – “un movimento convulso agita i popoli del Mediterraneo” dell’una e dell’altra sponda soprattutto da quando è stato aperto l’istmo di Suez –, ma il punto d’approdo è diverso, nel senso che all’Italia è assegnato un ruolo attivo ed espansivo nel Mare Nostrum, ora che Roma capitale ha aperto nuovi orizzonti, mentali e culturali ancor prima che politici, ammonendo che “sul Mediterraneo stanno le maggiori nostre glorie passate e speranze avvenire”27. 25 26 27
Ivi, infra, pp. 37-38. Cfr. Federico Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, Bari 1962, pp. 296-299. Luigi Campo Fregoso, Del primato italiano sul Mediterraneo, Loescher, Torino 1872, p. 3.
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Ora dunque che l’attività è ricondotta su questo mare col risorgimento dei popoli accampati sulle sue rive e coll’apertura di quelle grandi vie all’oriente; ora che il nostro centro di vitalità politica e morale è ritornato a Roma, l’antica padrona del Mediterraneo […], è tempo ormai che leviamo lo sguardo già da tempo fisso alla valle del Po e rivolgiamo la nostra attenzione, le nostre cure anche a questi mari, a queste terre peninsulari che sono pure, per natura, la più ricca, la più bella ed importante parte d’Italia. La vera Italia, l’ideale di tutti i popoli marittimi, commerciali, agricoli; la culla delle maggiori civiltà pagane e cristiane; la terra dalla natura prediletta e ricolma di tutti i suoi favori; il soggiorno sospirato di tutti i popoli, pascolo inesauribile degli animi gentili, ardenti, immaginosi; quell’Italia insomma che il mondo di tutti i tempi celebra e invidia, è nella Penisola. La Valle del Po non è che una zona di passaggio, uno sbocco della vita marittima italiana verso l’Europa […], ma nella Penisola sonvi tutti gli elementi di una grande e potente monarchia marittima28.
È in questa prospettiva, aperta dall’idea di Roma, che il Campo Fregoso concepisce una seconda opera sulla “questione Ternana”, ormai assunta a chiave strategica della “grande nostra missione sul Mediterraneo”, voluta dalla natura e dalla cultura. Partendo dalla premessa che l’“emporio della nostra industria militare debba trovarsi nell’Italia peninsulare” e non in quella continentale, per le ragioni già dette, egli propone di fare della Val Ternana la “sede generale di tutti i nostri grandi stabilimenti militari”, l’emporio centrale onde rifornire di materiale da guerra non solo gli arsenali terrestri ma, quel che più conta, i grandi arsenali marittimi di Spezia, Venezia e Taranto. I motivi che egli adduce a sostegno di questa tesi si possono ormai comprendere facilmente: la Val Ternana, per la sua stessa posizione geografica ma anche per le condizioni economiche e sociali, ha tutti i requisiti che si potrebbero chiedere a un grande emporio militare: è “una località ricca in risorse economiche d’ogni specie e specialmente in forze idrauliche ed in combustibile”, è “un centro già dotato di grandi risorse nell’industria privata sì che questa in pace e in guerra dia sussidio ed appoggio a quella militare”, offre “a buon mercato la mano d’opera” e nello stesso tempo si trova “lontano dai grandi centri di agitazione politica”, è collocata a “facile portata dai mari”, si presenta in
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Ivi, p. 9.
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vantaggiose condizioni logistiche specialmente ferroviarie per il pronto movimento del materiale verso ogni parte del regno, in posizione vasta capace di ricevere tutti quegli stabilimenti e provvedere al movimento del materiale confezionato e di deposito senza ingenerare disordini29.
Dopo il 1872 il Campo Fregoso lascia sullo sfondo la politica italiana nel Mediterraneo, perché gli sembra passato il momento in cui l’Italia voleva “gettarsi sui mari” tant’è che sta svendendo la flotta da guerra, e torna a concentrare nuovamente la sua attenzione sulla “guerra nazionale”. Rimane tuttavia fermo nell’idea che i destini d’Italia, in lotta con le potenze d’Europa, non possono essere “incatenati ai piedi delle Alpi” senza andare incontro ad un’irreparabile disfatta: è necessario trasferire e concentrare gli arsenali nell’Italia peninsulare. Quest’idea, con tutto quello che segue, egli riprende e sviluppa nell’opera del 1876, in cui torna a dire che Non può concepirsi la guerra nazionale finché tutti gli opifici necessari all’elaborazione delle armi non si trovino al sicuro, al centro di vitalità del paese, presso la capitale, in modo che la loro azione si possa equabilmente distribuire su tutte le province, come dal cuore circola il sangue che vivifica ogni molecola del corpo30.
L’orizzonte si amplia, perché si tratta di riorganizzare tutti gli stabilimenti militari, dimostrando analiticamente la grave condizione in cui si trovano le industrie produttrici del materiale da guerra in Italia, a confronto soprattutto con quelli degli altri Paesi europei e degli Stati Uniti d’America, e proponendo come soluzione [l’]organizzazione di una grande azienda metallurgica in Val Ternana, nella quale, cogli opifici governativi cioè arsenali per l’esercito e la marina, stabilimenti meccanici per le ferrovie, entrino i principali produttori metallurgici italiani31.
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Campo Fregoso, Sulla straordinaria importanza cit. (a nota 10), infra p. 46. Campo Fregoso, Sulla riorganizzazione dei nostri stabilimenti militari cit. (a nota 11), infra p. 128. Ivi, infra p. 191.
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L’opera perciò assume dimensioni superiori alle altre e tiene impegnato il Campo Fregoso in una lunga disamina degli inconvenienti che presentano in Italia gli stabilimenti militari e quelli dell’industria metallurgica nazionale, per poi concludere che dalla crisi è possibile uscire solo “rinnovando tutto dalle fondamenta colla soluzione della questione Ternana”32. Quindi espone i vantaggi di un’azienda concentrata in Val Ternana e il modo di regolarla, prevedendo, accanto ad essa, polverifici e stabilimenti per munizioni da guerra, scuole operaie, magazzini di arredi da guerra e di materiale confezionato. E infine conclude ribadendo la necessità di affidare la nuova industria siderurgica all’iniziativa privata, perché è urgente che la pubblica opinione[...] si convinca che la fabbricazione di materiale da guerra non può più restare un monopolio dell’amministrazione militare né servire di compenso economico-politico da distribuirsi a province o regioni; ma deve diventare un’anima e corpo, frutto di vitalità nazionale33.
A questo punto del nostro discorso sorgono degli interrogativi che non possiamo eludere. Il primo dei quali riguarda la validità degli argomenti addotti ripetutamente dal Campo Fregoso per sostenere la tesi della convenienza di Terni come sede per l’impianto di stabilimenti industriali e militari. Non c’è dubbio che essi sono fondati quando riguardano gli aspetti geografici e naturali della Val Ternana, le sue “specialità”: posizione centrale nell’Italia peninsulare, vicinanza alla capitale, equidistanza dall’Adriatico e dal Tirreno, abbondanza di energia idraulica ecc.; appaiono discutibili quando si riferiscono alle condizioni economiche e sociali di Terni e del suo territorio: è difficile, infatti, sostenere che la rete delle manifatture e degli opifici ottocenteschi costituissero la premessa della grande industria o che la tradizione lavoristica dei Ternani favorisse senz’altro la disponibilità di mano d’opera nel settore industriale. Comunque sia, argomenti di questo genere andavano meglio analizzati e confortati da riscontri reali. Del resto lo stesso Campo Fregoso, a un certo momento, si rende conto di chiedere all’economia ternana un salto di qualità sproporzio-
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Ivi, infra p. 157. Ivi, infra p. 193.
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nato alle sue effettive possibilità strutturali; è costretto ad ammettere che le “immense” risorse economiche di Terni sono solo allo stato “embrionale” e che attualmente la Val Ternana, tanto esaltata, è un “mercato industriale pressoché deserto”, se paragonato ad altri siti industriali italiani e stranieri. Si tratta, quindi, di investire sul futuro, richiamando l’attenzione e gli interessi degli speculatori verso un ambiente naturale ricco di potenzialità, con l’aiuto e l’intervento dello Stato italiano, su cui grava la responsabilità di concentrare un potente nucleo industriale-militare nel cuore della penisola, ora che il centro di gravità politica, con la presa di Roma, si è spostato dalla Val Padana alla Val Tiberina. Consapevole delle fragili basi dell’economia ternana, il Campo Fregoso, nella terza opera, quella del 1876, Sulla riorganizzazione dei nostri stabilimenti militari, prospetta la possibilità che il Governo, con agevolazioni sui trasporti e sui dazi, con la partecipazione alle urgenti costruzioni del materiale ferroviario per l’Esercito e la Marina, possa “sviluppare in Val Ternana una tal forza di attrazione da farvi affluire non solo i principali produttori metallurgici nazionali ma anche quegli stranieri”34. Abbiamo quindi un rovesciamento dei rapporti tra pubblico e privato, rispetto alle tesi iniziali. Se nell’opera del 1871, Il campo trincerato di Terni, il Campo Fregoso aveva affidato allo Stato l’iniziativa di impiantare gli arsenali militari, riservando all’industria privata il ruolo di “appoggio”35, adesso, a distanza di pochi anni, assumendo una posizione francamente liberale, attribuisce allo Stato solo un ruolo politico, di promozione e di “suprema vigilanza” sull’industria metallurgica ternana, affidata in gran parte all’iniziativa privata, che progressivamente potrà del tutto emanciparsi dalla tutela statale36. Un altro interrogativo riguarda il peso che ha avuto la pubblicistica del Campo Fregoso nell’orientare l’opinione pubblica qualificata. Anche in questo caso la risposta non può essere univoca. In via generale si può dire che essa era in linea con i tempi, interpretava lo spirito
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Ivi, infra p. 196. Campo Fregoso, Il campo trincerato di Terni cit. (a nota 24), infra p. 37. Campo Fregoso, Sulla riorganizzazione dei nostri stabilimenti militari cit. (a nota 11), infra p. 196.
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dell’Italia post-unitaria, oscillante tra la preoccupazione di un attacco da parte della Francia o dell’Austria e aspirazioni espansionistiche. Ebbe un impatto positivo sull’Amministrazione del Comune di Terni; ma del tutto negativo – a quanto pare – sugli ambienti militari, che probabilmente vedevano anche minacciati certi interessi. È improbabile che sia stata determinante nelle scelte di politica industriale, ma è verosimile che abbia anticipato umori ed esigenze che portarono a maturazione dapprima la costruzione della Fabbrica d’Armi e poi della grande Acciaieria37. La nottola di Minerva spicca il volo al tramonto. Il processo di industrializzazione nella Val Ternana ha compiuto ormai la sua parabola, e noi possiamo riguardare la trilogia di Luigi Campo Fregoso indipendentemente dagli esiti pratici, come documento di un’epoca e di una cultura che ha interpretato ed espresso con passione il problema del “risorgimento industriale” in Italia. Il lettore di oggi vi potrà trovare la rappresentazione dell’autocoscienza della città nel tardo Ottocento e questo non è poco per recuperare il senso della tradizione e l’identità collettiva in un periodo di crisi e di transizione postindustriale. E vi potrà trovare qualcosa di più, un pensiero economico moderno, di ispirazione liberale, che si mantiene ben lontano dalle “declamazioni delle scuole protezionistiche e dei liberi scambisti”, ugualmente diffidente nei confronti dello Stato imprenditore e del liberismo incontrollato, quasi alla cerca di una terza via che permetta all’industria governativa e all’industria privata di levarsi dall’“attitudine di isolamento”, di accostarsi ed intendersi, di appoggiarsi l’una all’altra con l’obiettivo di trovare “una soluzione pratica per una comune azienda”38. È con questo duplice scopo, scientifico e storico, che abbiamo pensato di pubblicare le tre opere sulla “questione Ternana” in solo volume, a distanza di circa un secolo dalla morte del suo sfortunato e
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Su quest’ultimo punto cfr. Renato Covino, Esercito e industria militare a Terni: 1860- 1884, in Esercito e città dall’Unità agli anni Trenta (convegno di studi, Spoleto, 11-14 maggio 1988), Perugia 1989, p. 988. Campo Fregoso, Sulla riorganizzazione dei nostri stabilimenti militari cit. (a nota 10), infra pp. 195-197.
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VINCENZO PIRRO / Introduzione
infelice autore. Il merito va all’ICSIM che si è assunto l’onore della ristampa. A noi è toccata la cura editoriale del libro, che s’inserisce in un progetto culturale iniziato da tempo. Il titolo che gli abbiamo dato, Sull’avvenire industriale di Terni, vuole rendere sinteticamente il pernsiero di Luigi Campo Fregoso, che almeno in un punto conserva attualità, dove esorta l’imprenditore privato, italiano e straniero, a investire in Val Ternana, perché ivi sono le condizioni naturali e strutturali di sviluppo economico. Avvertiamo il lettore che qui è stata pubblicata l’edizione ternana della seconda opera del 1872, Sulla straordinaria importanza industriale militare di Terni, sia perché è più ampia e articolata dell’edizione fiorentina, sia perché porta il printing del Comune di Terni che lo sponsorizzò. Era inevitabile che ci fossero delle ripetizioni, essendo le tre memorie legate dalla successione temporale e ideale. Abbiamo preferito lasciarle, per rispetto degli originali, così come abbiamo mantenuto la grafia e l’uso delle maiuscole e minuscole adoperate dall’autore; sono stati corretti, invece, senza darne segnalazione, gli errori e i refusi che avrebbero rischiato di compromettere (o rendere difficile) la comprensione del discorso. La stessa cosa si è fatto per i segni di punteggiatura. Gli indici sono stati unificati, ma conservando l’impostazione voluta dall’autore. Là dove è stato opportuno e possibile, il curatore ha inserito nei testi delle note esplicative (con numerazione araba). Le tre opere si aprono con i frontespizi originali. Vincenzo Pirro
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IL CAMPO TRINCERATO DI TERNI NEL SISTEMA DIFENSIVO DELL’ITALIA PENINSULARE
LUIGI CAMPO FREGOSO / Il campo trincerato di Terni
I. È la prima volta dagli antichi romani in poi che l’Italia si trova nella possibilità di provvedere alla difesa generale di tutte le sue province congregate. In presenza di duri insegnamenti della storia e delle attuali gravi contingenze politiche non vi può essere dubbio sull’imperiosa necessità di rassicurare coll’arte quest’opera che fu il sospiro di tanti secoli. In Europa terribili drammi vediamo svolgersi ed altri molti prepararsi, destinati a sconvolgere l’equilibrio politico e l’indirizzo della civiltà. Non meno minaccioso è l’orizzonte sul Mediterraneo. Da qualche tempo un movimento convulso agita i popoli accampati sulle sue rive. In pochi anni Spagna, Egitto, Francia, Austria, Grecia, Turchia, le regioni del basso Danubio, di Tunisi, della Crimea, ecc. ecc., tutte insomma le terre del Mediterraneo hanno servito da teatro a gravi sconvolgimenti politici, militari, commerciali. Allorché l’ora del risveglio sarà suonata per tutti questi popoli di razza, di posizione e di coltura sì diversa, il Mediterraneo ritornerà quel che fu per mille e mille anni, il campo di guerra più attivo dell’umanità. Il progresso dei popoli porta alla gara, al desiderio di preponderanza, e da questo alla lotta non v’è che un passo. Quale sia la parte che spetterà a noi in tutte quelle lotte avvenire ce lo indica chiaramente l’importante ed arrischiata posizione che occupiamo sul Mediterraneo. E però da questa parte dovrebbero essere rivolti più specialmente i nostri studi militari. La valle del Po, già tanto favorita dalla natura in risorse difensive, ha formato finora l’argomento prediletto alle nostre investigazioni; le risorse che quelle regioni offrono alle guerre sono state diligentemente rilevate da noi e da tutto il mondo militare, formidabili campi militari e fortezze vennero innalzate a completare l’opera della natura. Certo il sistema difensivo di quella valle vuol essere ristudiato, ma perciò basta applicare i dettati, le opere antiche alle attuali condizioni della politica del terreno e della guerra.
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LUIGI CAMPO FREGOSO / Il campo trincerato di Terni
Ben diversamente stanno le cose nell’Italia peninsulare, che per la sua posizione geografica, la estensione e la conformazione delle coste, la natura del territorio, si trova completamente aperta e sprovvista in risorse naturali difensive. Qui tutto è a fare in materia di studi militari; è questo un nuovo campo che si schiuse alla nostra attività. Pochi insegnamenti ci offre la storia, poiché più che a guerre classiche ed istruttive l’Italia peninsulare fu teatro di sconvolgimenti e lotte intestine, le risorse militari del terreno furono in gran parte neglette, o solo studiate da punti di vista ristretti, esclusivi. Ancora oggidì noi percorriamo tutta la penisola dall’Arno all’estrema Calabria senza incontrare tutt’al più che qualche rocca feudale o qualche antico bastione. Ciò non fa meraviglia quando si pensa che gli italiani furono per secoli e secoli convinti essere impossibile difendere questa importantissima parte della patria onde aveva acquistato forza di assioma il detto altrettanto erroneo quanto umiliante che perduta la valle del Po l’Italia era vinta. E per secoli infatti sul Po si vinceva l’Italia, poiché là si combatteva, qua si correva più o meno velocemente alla Carlo VIII. I generali Mezzacapo1 nei loro studi topografici strategici sull’Italia hanno brillantemente combattuto questo pregiudizio geografico militare e dimostrato anzi il maggior dovere che incombe agl’italiani di venir qua con l’arte in aiuto alla natura. Un altro non meno erroneo apprezzamento sembra farsi strada, oggidì e scemare agli occhi di alcuni, l’urgenza di stabilire una valida difesa nella penisola, ed è la credenza che, nelle attuali condizioni della guerra, gli sbarchi, gli attacchi delle coste, i movimenti offensivi marittimi siano imprese poco temibili e pressoché ineseguibili. Di queste opinioni però non era la Prussia allorché organizzò sulle coste del mar Baltico, già per natura quasi inaccessibili, quella formidabile difesa che nella presente guerra2 paralizzò ogni tentativo di sbarco dell’armata francese. L’opinione sopraccennata sembra non venga nemmeno divisa dall’Inghilterra. Il duca di Wellington, protestando energicamente contro ciò che egli chiamava incuria del governo e colpevole indifferenza 1
I fratelli Carlo (Trapani 1814 - Roma 1885) e Luigi (Capua 1817 - Roma 1905) Mezzacapo pubblicarono insieme Studi topografici-stragici d’Italia. 2 Si tratta della guerra franco-prussiana del 1870-1871.
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LUIGI CAMPO FREGOSO / Il campo trincerato di Terni
dei concittadini, scriveva il 9 gennaio 1847 al comandante del genio per la difesa dell’Inghilterra: “Io divido completamente le vostre vedute sul pericolo della nostra posizione. Sono soprattutto penetrato della certezza di un disastro se non prenderemo per tempo le misure alla nostra difesa e della vergogna indelebile che ricadrà sopra di noi… Se gli sforzi della lotta non bastano alla nostra difesa, io non rispondo della sicurezza dell’Inghilterra durante 8 giorni.” La commissione per la difesa d’Inghilterra nominata nel 1859 riconobbe pure la possibilità di una discesa sulle coste inglesi ed anzi apertamente dichiarò che né la flotta né l’esercito permanente né le forze dei volontari, né questi tre elementi riuniti insieme, potevano bastare ad assicurare la patria da un invasione straniera, e però concludeva dichiarando di assoluta necessità lo stabilimento di un sistema generale di difesa. Ed infatti nel breve spazio di 10 anni l’Europa vide sorgere da quelle coste ampie ed imponenti opere di fortificazioni. Nella sola parte che guarda la Francia si contano già le seguenti grandi piazze (vedi Mettheilungen über gegestände des artillerie und Jenie-Wenses: die Befestogungen in England Wales and Irland, bis zu ende des Jahres 1869): Portsmuth. Wight. Plymouth. Portland. Dover. Pembroche. Milford. Cork. Gravesend Chathan. Medway. E quasi non bastasse durante l’attuale guerra3 nuove opere vennero progettate e studiate. Ciò che tante e distinte autorità hanno detto dell’Inghilterra a più forte ragione deve applicarsi all’Italia che si trova in condizioni geografiche e politiche assai più importanti ed arrischiate. Per convincersene basta dare uno sguardo alla condizione dei popoli che ci stanno d’attorno. 3
Cfr. nota precedente.
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LUIGI CAMPO FREGOSO / Il campo trincerato di Terni
Sono note le aspirazioni della Francia sul Mediterraneo ed i tentativi da essa fatti da Colbert in poi per ridurlo a lago francese. Le occupazioni di Algeri, Corsica, Nizza, Savoia, Roma, Civitavecchia, le guerre d’Oriente, d’Italia, l’ingerenza negli affari di Tunisi e dell’Egitto, il taglio dell’istmo di Suez, l’incremento dato ai porti commerciali militari, ed alle forze navali sul Mediterraneo, tutti questi non sono che sforzi tendenti ad un medesimo oggettivo, variazioni di un medesimo motivo. – I disastri subiti dalla Francia nella presente campagna apporteranno certamente un contraccolpo anche alla potenza marittima di lei, ma non sarà questa che una breve sosta, poiché chiuse le vie del Reno alla naturale tendenza invaditrice della Francia il Mediterraneo diventerà per essa più che mai il naturale sbocco e teatro di attività. Quelli che avranno più a temere in questo caso saremo noi per la nostra posizione geografica e per le nostre condizioni commerciali. Coll’acquisto di Nizza e Savoia la Francia si è schiusa la porta alla valle del Po, mentre colla Corsica essa ha un eccellente base offensiva contro tutte le coste occidentali della penisola. Essa può attaccarci contemporaneamente ed efficacemente per terra e per mare, e però questa nostra situazione è assai più pericolosa che non sia quella dell’Inghilterra sulla Manica. L’Austria pure accenna verso i Lidi del Mediterraneo. Già ha iniziato il suo movimento discensivo lungo il Danubio trasportando il centro di gravità dell’impero da Vienna a Pest dall’elemento tedesco a quello slavo. La questione d’Oriente compirà la grand’opera iniziata dal cannone di Sadowa.4 Intanto alle nostre aspirazioni sulla costa orientale dell’Adriatico essa ha risposto colla giornata di Lissa,5 ha risposto facendo di Trieste il primo porto commerciale dell’Adriatico, di Pola e di Fiume grandi porti militari, in cui tenere raccolta la piccola ma gloriosa sua armata. Non è a credere che l’Austria rinuncierà tanto facilmente al pos-
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Si riferisce alla battaglia (1866) di Sadowa, nella Boemia, in cui la Prussia sconfisse l’Austria. Seguì la pace di Praga che sancì, fra l’altro, lo scioglimento della Confederazione Germanica capeggiata da Vienna. 5 Battaglia in cui la flotta italiana fu sconfitta da quella austriaca (luglio 1866).
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sesso di quella magnifica costa, cantiere d’inesauribili risorse, officina ai più arditi marinai d’Europa e senza della quale l’Impero sarebbe un corpo privo d’anima. Di là essa domina militarmente e commercialmente tutte le nostre coste dell’Adriatico già infelicemente disposte dalla natura e completamente abbandonate dell’arte, mentre dall’Isonzo e soprattutto dall’alto Adige padroneggia la valle del Po. Le nostre condizioni militari terrestri marittime dirimpetto all’Austria sono dunque ancora più gravi che non quelle verso Francia. Chi può valutare l’importanza che potrà assumere in avvenire questa costa dalmata per l’Austria, per i popoli Slavi? E quel Tirolo, naturale sbocco offensivo dell’alto Danubio contro il Po? La Germania potente per armi e civiltà non è verosimile voglia starsi appartata dal Mediterraneo, da questo mare destinato dalla natura ad essere, in tutti i tempi, il convegno di tutti i popoli, il centro degli interessi generali, il focolare della civiltà. Già essa accenna a voler rialzare la propria potenza marittima colla richiesta di Pondichery e delle 20 navi da guerra francesi; chi potrà un dì trattenere questa soverchiante potenza al di là della Sava e dell’Inn e precluderle le vie al Mediterraneo? Il pericolo è ancora lontano se si vuole, ma non tanto che ci dispensi dal prevederlo e ponderarlo. Né mancheranno alla Germania gli appoggi per via di mare. Osservasi l’Inghilterra che assisa sugli scogli di Gibilterra e di Aden, accampata all’Istmo di Suez domina gli sbocchi e il centro del Mediterraneo. Da Malta essa padroneggia tutta la parte meridionale della nostra penisola, di là essa vigila gelosa contro la formazione di ogni grande potenza marittima sul Mediterraneo; difficilmente si possono prevedere le future complicazioni politiche ma ancor più difficilmente si può immaginare in quali condizioni verrebbe a trovarsi l’Italia attaccata contemporaneamente dalla Germania e dall’Inghilterra, dal Tirolo e da Malta. Insomma coll’Austria, colla Francia, coll’Inghilterra accampate attorno alla nostra penisola sui nostri mari ed in minacciose posizioni sulle nostre frontiere terrestri, non possiamo dire certamente che militarmente l’Italia è fatta e sicura di se stessa.
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II. Questo rapido sguardo alle condizioni geografiche politiche dei nostri vicini su terra e mare basta a mettere in evidenza l’urgente bisogno in cui ci troviamo di provvedere alla difesa della penisola. Facciamoci ora a considerare da vicino quali siano le condizioni militari di questa Italia peninsulare, qual sistema di difesa più le convenga e conseguentemente quali punti sulle coste e sul continente vorrebbero essere fortificati. Il moderno sistema di difesa si basa, come è noto, sui grandi perni strategici. – È riconosciuto che un’armata difensiva si trova sempre in cattive condizioni allorché non possiede una vasta piazza di deposito all’indietro del suo fronte di difesa. Questo principio elementare ha avuto una splendida conferma nella presente campagna Franco-prussiana, e noi lo vediamo applicato d’una maniera generale in Europa e principalmente presso gli stati marittimi per posizione geografica. Si capisce come uno stato continentale, la Germania ad esempio, nello stabilire il proprio sistema di difesa territoriale possa fare assegnamento sulle grandi linee successive di difesa del Reno, del Veser, dell’Elba, dell’Oder, della Vistola, poiché queste grandi barriere naturali hanno sicuri appoggi da una parte ad alte montagne, dall’altra a coste marittime che la natura e l’arte hanno reso invulnerabili. Ma un tale sistema di difesa non potrebbe applicarsi all’Inghilterra, alla Grecia, e meno che meno poi all’Italia peninsulare. Per poter difendere direttamente ed efficacemente l’immensa distesa delle nostre coste, occorrerebbero colossali eserciti e numerosissime opere di fortificazioni; così pure una incontrastata preponderanza in forze marittime sarebbe indispensabile per mandare ad effetto con probabilità di successo il sistema delle linee successive di difesa. L’idea d’incominciare la difesa alla catena delle Alpi e di successivamente ripiegarsi fino all’estrema Calabria sostando ai vari fronti difensivi che si imperniano, quasi direi, sull’Appennino e scendono al mare, non potrebbe avere valore pratico che allorquando l’Italia possedesse una marina adeguata alla sua posizione geografica; e forse nemmeno allora. – In ogni caso tali non sono le nostre condizioni presenti e forse non lo saranno ancora per molto tempo avvenire, e però si vede la necessità di organizzare nell’interno della penisola il
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perno di resistenza e limitare la difesa delle coste ai punti più accessibili ed importanti. Una prima condizione a cui dovrà quindi soddisfare questo ridotto difensivo, sarà di trovarsi nel centro della penisola, e più propriamente in tale posizione da padroneggiare i due versanti dell’Adriatico e del Tirreno, e le principali vie che li uniscono. Ma ciò non basta. – Non è solo contro attacchi esclusivamente marittimi che deve informarsi il sistema generale di difesa della penisola, ma più specialmente contro movimenti offensivi combinati per terra e per mare, i soli che veramente potrebbero riuscire disastrosi all’Italia. Abbiamo già rilevato la possibilità di tali attacchi, e però ne consegue essere assolutamente necessario coordinare il sistema difensivo della penisola con quello della valle del Po. Se non tenessimo conto allungarci troppo, vorremmo rilevare qui l’importanza che lo stato maggiore prussiano ha dato ad una cooperazione eventuale della marina francese, russa, danese, nelle guerre sui teatri dell’est e dell’ovest; questo stato maggiore che ha offerto alla storia militare il più bell’esempio del mondo, in cui si studiano e si preparano i teatri di guerra. Ma è per se stesso troppo evidente la necessità in cui si trova l’Italia di coordinare la difesa terrestre e quella marittima. – Attaccati contemporaneamente sul Po e sul Volturno noi non potremmo dividere le nostre forze in armate operanti a così grandi distanze senza violare i principi elementari dell’arte, esporci al pericolo di essere battuti separatamente. Contro siffatti movimenti offensivi la difesa generale si troverebbe nella dura necessità di abbandonare a se stesse e solo debolmente appoggiare le regioni più meridionali per concentrare le masse delle forze nell’alta e media Italia organizzata in un solo corpo di difesa. Sul Po noi abbiamo già tutto opportunamente disposto; a Bologna, la gran guardiana della penisola, il naturale ridotto di difesa dell’Italia, abbiamo un vasto campo trincerato costrutto secondo gli ultimi dettami dell’arte. In avanti a questo ridotto della difesa generale abbiamo due grandi perni strategici: Alessandria per la difesa dell’alto Po, Mantova per quella del basso Po, dell’Adige e delle minori valli veneziane, i quali due perni strategici sono completati da piazze forti avvanzate e di collegamento. Non resta dunque che a trovare nella penisola una posizione, che
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organizzata a vasto campo trincerato possa con Alessandria e Mantova coordinarsi in un solo sistema di difesa avente per perno Bologna. – Se guardiamo attentamente la carta della penisola vediamo succedersi lungo la dorsale dell’Appennino e nella grande spaccatura longitudinale del Tevere una serie di posizioni eminentemente strategiche che più o meno soddisfano alle condizioni accennate per un perno di difesa della penisola – e sono: Arezzo, Chiusi, Perugia, Foligno, Spoleto, Terni, Aquila, Popoli. – Noi concentreremo qui l’attenzione specialmente sulle posizioni di Terni e Perugia siccome quelle che più ci sembrano adatte allo scopo indicato. – Roma, mentre da una parte è troppo esposto agli attacchi di mare, dall’altra lascia aperta tutta la penisola; è troppo discosta dalla valle del Po per potersi coordinare in un solo corpo di difesa, e nello stesso tempo non abbastanza vicina alle regioni napolitane per poter servire da baluardo difensivo. E però mentre sarebbe grave inconsideratezza politica il non porre Roma al sicuro da un colpo di mano, sarebbe però non meno grave errore militare il volerne fare un perno centrale per la difesa della penisola. L’Italia fortunatamente non si trova nelle condizioni di accentramento della Francia e dell’Inghilterra; per noi la caduta di Roma non arrecherebbe una scossa assai maggiore agli interessi generali di quella di Napoli, Firenze, Milano. – Convien quindi assegnare l’ufficio di perno di difesa ad una città che pure avendo importanza politica amministrativa, rispondi però essenzialmente alle esigenze militari strategico-tattiche. Una di queste come dicemmo è Terni. Collocata al centro della penisola, e propriamente là dove essa si restringe e sembra segnare i limiti tra l’Italia centrale e quella meridionale, tra Roma e Firenze ed i due mari, Terni fu in ogni tempo un punto inevitabile di transito, un teatro di guerra attivissimo della Media Italia. – La penisola all’altezza di Terni si presenta ingombra da grandi ostacoli naturali. – Mentre sui fianchi del Tevere il vulcanismo ha innalzato formidabili barriere contro l’invasione, sul versante Adriatico, gli sconvolgimenti fisici hanno siffattamente rotto l’Appennino da renderlo quasi impraticabile. È là infatti che si elevano i grandi ammassi del Sasso d’Italia e dei Sibellini, che colle loro bianche punte sembrano voler imitare le Alpi. – Ad ogni passo si succedono posizioni fortissime, località inaccessibili, mentre le comunicazioni si fanno rade e malagevoli. Se si eccettuano le due grandi vie litoranee, militarmente parlando di poco o nessun valore, tutte le strade
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longitudinali della penisola affluiscono a Terni in un solo fascio. – Terni è quindi un inevitabile punto d’attacco per un nemico che dal Po voglia recarsi nel napoletano e viceversa. – Ma anche nelle invasioni trasversali della penisola, cioè dall’uno all’altro versante la conca Ternana acquista un grande valore difensivo. È dessa infatti il punto di concorso, tutte le strade che attraversano l’Appennino dai passi di Foligno a quelli dell’Aquilano, e delle grandi vie che conducono a Roma per Civita Castellana, Poggio Mirteto e Rieti; ondechè Terni venne in ogni tempo considerato come l’antemurale di Roma. – Fu nei suoi piani che all’occasione della seconda guerra Punica accampò un esercito romano per vietare ad Asdrubale la via di Roma, Vitellio parava ugualmente di là Roma contro Vespasiano, ed il generale francese Lemoine vi ripeteva la medesima manovra6 contro un corpo napolitano tendente al medesimo oggettivo. Dai molti invasori che attraversarono e occuparono la penisola e specialmente dai Longobardi, Terni venne ognora considerata come principalissima base per l’invasione ed anzitutto per lo stabilimento e consolidamento della conquista. E infatti non è Terni soltanto una grande posizione militare strategico-tattica ma altresì un naturale centro economico-amministrativo del massimo valore, se ben si considerano i favorevoli suoi rapporti geografici colla penisola, la felice sua postura topografica, la ricchezza ed ubertosità delle valli che vi fanno capo, la quantità ed importanza delle strade che vi affluiscono, le immense risorse idrauliche dei suoi fiumi, ed in generale gli inesauribili tesori d’ogni specie che tiene in serbo quella natura spettacolosa. I moti politici militari che si succedettero dal 1860 al 18707 avrebbero dovuto bastare per levare agli Italiani l’importanza di Terni. Era questa la nostra base offensiva-difensiva più vantaggiosa contro gli stati pontifici non solo, ma eziandio il più vantaggioso e sono per dire il finale oggettivo ad un movimento offensivo nemico.
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Si riferisce alla battaglia di Campomicciolo (dicembre 1798), presso Terni, vinta dai Francesi contro i Napoletani, che avevano invaso i territori della Repubblica Romana. 7 Si riferisce alle iniziative per l’affrancamento di Roma che partirono da Terni e dintorni come, ad esempio, la spedizione dei fratelli Cairoli e l’impresa garibaldina di Mentana.
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Con una breve passeggiata militare, movendo dalle belle posizioni di Orte, i Franco-papalini avrebbero potuto facilmente portarsi a Terni, installarsi nel cuore del nostro paese. Facendosi scherno della profonda Nera e delle aspre montagne che la rinserrano, essi avrebbero avuto di là un vantaggiosissimo giuoco di centralità offensiva in tutte le direzioni contro vall’Umbra, contro Todi, val Tevere, contro il Reatino, l’Aquilano, tutta insomma la Sabina e gli Abruzzi, mentre, tenendo semplicemente guardate le poche e difficili gole per cui si penetra in Val Ternana, essi potevano restarsi sicuri nelle loro posizioni. Occupando Terni e facendo guardare dalla flotta la linea del litorale Adriatico, i francesi venivano a separare completamente l’Italia meridionale da quella centrale, troncando ogni specie di comunicazioni sia stradale che telegrafica e ferroviaria. Sarebbe stato questo un vero disastro militare politico per l’Italia, e ad un tale pericolo essa corse varie volte, ma specialmente nel 1867.8 E però non rafforzando e guernendo convenientemente Val Ternana noi abbiamo sonnecchiato sul pericolo e dimostrato di non conveniente apprezzato l’immensa importanza di quella posizione. Ancora oggidì i pericoli non sono guari scemati; finché noi non saremo forti sul mare e quindi non ci saremmo assicurati il libero esercizio in guerra delle strade e delle ferrovie litoranee, la caduta di Terni dovrà considerarsi come un disastro. E però da questo insieme di considerazioni risulta l’imperiosa necessità di assicurare stabile piede in Terni: non v’è posizione strategica nella penisola che offra alla difesa ed all’offesa nello stesso tempo maggiori vantaggi di Terni. Osservinsi inoltre le felici relazioni ferroviarie che Terni ha colle coste della penisola e colla valle del Po. Mediante la ferrovia di Foligno, essa è posta in diretta comunicazione colla valle del Po e colle spiagge Umbre sull’Adriatico; mediante quelle di Orte, Terni comunica direttamente colla valle del Po (linea Siena), e colle spiagge Ligure, Toscane, Napoletane (linee della Spezia, Orbetello e Roma). Infine la linea ferrata Reatina di vitale importanza per la difesa della penisola, congiungerà tra breve Terni alle spiagge Napolitane sull’Adriatico. Questo complesso di strade e linee ferroviarie assicura, alla difesa
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Impresa garibaldina di Mentana.
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in Terni, libera e comoda la ritirata sui versanti dell’Adriatico e del Tirreno, e specialmente sulle regioni napoletane (strade di Magliano, Poggio Mirteto, Rieti, Leonessa) e quelle del Po (strade, Narni-AmeliaOrvieto, Terni-Todi, Terni-Foligno). Dalla posizione centrale di Terni noi ci troviamo facilmente in misura per portarci in tempo utile sul punto minacciato della costa, a rinforzare l’eventuale difesa colà stabilita; respinti od attaccati su vari punti, noi possiamo rinserrarci in questo nostro ridotto e per la ristrettezza per le condizioni orografiche stradali della penisola, il nemico si vedrà obbligato ad attaccarci per poter inoltrare e sviluppare i propri movimenti offensivi. La grande fertilità e ricchezza dei piani Ternani e di quelli prossimi di Tevere, Topino e Velino faciliterebbero inoltre la soluzione dei problemi amministrativi; per la guerra, la straordinaria potenza idraulica della Nera e del Velino, che ha fatto chiamare Terni la Manchester9 d’Italia, l’abbondanza naturale del paese in legname, carbone, legniti, bitumi e combustibili in genere, formerebbero di Terni una località acconcia allo stabilimento degli arsenali, delle officine e di tutti gli opifici che sono propri ad una grande piazza di deposito. Insomma sotto gli aspetti strategico-politico-economico, Terni soddisfa egregiamente alle esigenze di un grande perno di difesa; vediamo ora quali sieno le sue risorse nel campo tattico.
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L’espressione è di Gioacchino Napoleone Pepoli, Commissario Straordinario dell’Umbria nel 1860.
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III. Da Terni a Narni si può sboccare in tutte le direzioni; e però l’utilità di erigere a Terni una piazza e di chiudere con forti gli stretti di Narni, di Somma, di Todi e delle Sabine. (Mezzacapo – Studi Topog. Strat.)
Le condizioni tattiche della conca Ternana sono così eminenti che poche opere di fortificazione basterebbero ad organizzarvi un formidabile campo trincerato. La natura ha già tutto opportunamente disposto, cingendo con alte muraglie di monti questo inevitabile punto di transito della penisola incastrando tutte le vie che vi conducono in lunghe ed anguste strette e ricolmando quella valle di tutti i suoi favori. Ecco quali fortificazioni occorrerebbero per completare l’opera della natura. Un ridotto centrale a Colle dell’Oro, contrafforte che si stacca dal roccioso Picco Appecano, sulla destra della Nera e precisamente all’incontro del Serra col Sersimone. Questa altura costituisce la regione montana più popolata del bacino ternano, si presta egregiamente alla costruzione di vasti trinceramenti e si trova in ottime condizioni di dominio. Protetta al nord da alte e inaccessibili montagne domina al sud tutto il vasto bacino Ternano, padroneggia Terni che si distende ai suoi piedi con tutte le importanti comunicazioni che vi fanno capo, infine con grosse artiglierie si batterebbero di lassù anche le importanti strette di Pepigno e di Colleluna nonché gli sbocchi delle valli di Serra e di Tescino. Malgrado che da Colle dell’Oro si possa vietare al nemico l’occupazione di Terni, ciò non pertanto visto il magnifico giuoco di centralità che Terni offre alla difesa generale del campo trincerato, vista la sua importanza economica attuale e quella assai maggiore che è destinata ad acquistare in avvenire, appare quanto sia opportuno assicurare quella città da ogni colpo di mano cingendola con una linea continua di fortificazione e coordinando la sua difesa con quella di Colle dell’Oro. Il problema della fortificazione di Terni viene grandemente avvantaggiato dalla presenza della Nera che copre tutto il fronte sud della città e dell’esistenza di antiche mura, unici avanzi delle vaste fortificazioni che nei prischi tempi cingevano Terni.
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Intorno a questo ridotto della difesa vorrebbero essere fortificate: Le alture allo sbocco della langa ed angustissima stretta di Narni, posizione tattica già fortissima per natura ed alla quale fanno capo: le ferrovie di Orte, le grandi vie a Civita Castellana, Terni, San Gemini, Amelia nonché l’importante valle dell’Aja che accenna a piani reatini girando Val Ternana al sud. L’altura presso San Gemini, dove si congiungono le grandi vie a Todi, Terni, Narni, ed altre minori che scendono in Val Naja ed a Cesi. La stretta di Lavarino per padroneggiare la via ferrata e le vie montane che rimontando Val Serra scendono poi su Spoleto per Val Maroggia, malagevoli è vero, ma le sole che transitino quelle difficili regioni. La stretta della Somma attraverso la quale passano la grande via Flaminia ed alcune mulattiere che per Val Tescina e Tissino congiungono Terni a Spoleto. La gola delle Marmore dove la lunga stretta del Velino sbocca in quella della Nera. Rafforzando convenientemente questa posizione si vieta l’accesso in Val Ternana per la grande via Reatina, alla quale tra breve si riattaccheranno quelle a Leonessa, Norcia, quelle rimontanti Val Nera, nonché la ferrovia di Rieti. Infine vorrebbero esser fortificate le alture a sud di Collescipoli dalle quali si padroneggiano le grandi vie a Roma per Narni e Poggio Mirteto e le minori che per Stroncone conducono in quel di Rieti. Per la difesa del vasto campo trincerato Ternano si richiedono dunque in tutto un’opera centrale e sei minori opere staccate. Se si considera inoltre che le regioni in cui le dette opere dovrebbero essere innalzate sono per la massima parte incolte o tutt’al più coperte da boschi, si vedrà quanto la costruzione di un campo trincerato nei piani Ternani debba conciliare le esigenze finanziarie. – Dalla Campagna del 1866 in Boemia10 possiamo argomentare a quali e quanti difficoltà andrebbe incontro un esercito, anche il più agguerrito, che attaccasse questo campo trincerato impegnandosi negli accennati stretti. La storia della guerra di montagna ci dimostra come siffatte gole si possano difendere anche da truppe non regolari, con mezzi di guerra
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Si riferisce alla guerra austro-prussiana del 1866 (cfr. nota 4, infra p. 6).
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non regolari, e come sovente piccole frazioni di truppe bastino a sbarrarne completamente l’accesso. E però il campo trincerato Ternano si trova in vantaggiosissime condizioni anche per rapporto all’economia delle forze militari necessarie alla sua difesa. Non crediamo di esagerare dicendo che 50.000 uomini, e non dei più agguerriti, basterebbero ad una valida difesa del campo trincerato sulla Nera. Un gran fattore della potenza tattica difensiva della conca Ternana è la Nera stessa; orgogliosa e benefica figlia dei Sibellini. – L’importanza militare di questo fiume non deve ricercarsi tanto nella copia e rapidità delle sue acque, quanto nella direzione del suo corso, nell’importanza delle posizioni che collega, e più specialmente nella possibilità che offre di allagare i piani Ternani. È evidente infatti come sbarrando l’angustissima gola di Narni si debba poter allagare gran parte della pianura Ternana (che misura una lunghezza massima di 16 chilometri ed una larghezza di 7 chilometri circa) od almeno aggravarne le già infelici condizioni atmosferiche. Con ciò verrebbero ad accrescersi di molto le difficoltà per l’attaccante, a vantaggio della difesa e senza grave scossa agli interessi individuali dei Ternani, stante che per la malaria quei piani si trovano quasi disabitati. Dato così uno sguardo generale alle condizioni in cui verrebbe a trovarsi un campo trincerato a Terni, facciamoci ora a ricercare quali grandi piazze avvanzate dovrebbero adesso collegarsi nella risoluzione dei vari problemi di difesa della penisola. – Contro le invasioni procedenti dal sud due grandi posizioni strategiche si presentano innanzi e sui fianchi del campo trincerato Ternano e sono Aquila e Roma. Aquila posta nel mezzo di vasta ed aspra conca montana è il principal centro di vitalità degli Abbruzzi è posizione strategico-tattica del massimo valore. Come Roma riassume tutte le vie del versante Tirreno, così nella posizione di Aquila affluiscono tutte le vie del versante Adriatico; impossibile sarebbe girarla attraverso le regioni del Pescara e del Vomano, del Tronto, perché povere, difficili, prive d’ogni specie di comunicazioni; un movimento girante per Val Salto e Val Turano non avrebbe maggiore probabilità di riuscita in presenza del campo trincerato di Terni, della difesa di Roma e delle gravi difficoltà di quei terreni. Le grandi strade che conducono nella conca Aquilana e che si presterebbero al nemico come linee di operazione sono quelle di Forca Caruso, di Celano, di Civitella, di Castelvecchio e di Popoli; le quali vie tutte si possono facilmente sbarrare soprattutto là dove tragitano
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la linea displuviale. La posizione stessa di Aquila dove tutte queste strade vengono a confluire, è fortissima; col monte Pettino a sinistra, monte Lucco a destra essa forma una sola posizione che è il perno alla difesa della conca Aquilana*; di là molte vie assicurano la ritirata sia sul versante Adriatico che in val Tevere, fra le quali la più importante relativamente alla difesa del campo trincerato di Terni e la grande strada postale Aquila-Rieti-Terni, ben nota nella storia delle invasioni, incominciando da quella di Annibale, a venire fino a quella della divisione Wallmoden e più specialmente della Colonna del generale Frimon nel 1821. Questa strada è sbarrata naturalmente dalla famosa posizione di Antrodoco, dichiarata da Napoleone I chiave della frontiera napoletana; vorrebbe però essere maggiormente assicurata con alcune fortificazioni a Rieti, località importantissima che sta in avamposto al campo trincerato di Terni e nella quale si riassumono le grandi vie a Roma ed Aquila, e quelle di recente costruzione che solcano le valli di Turano e di Salto. Parlando di Roma dicemmo già come considerazioni politiche, storiche, militari, marittime esigono ch’essa venga posta al sicuro da un colpo di mano. Per il campo trincerato di Terni, poi, Roma è un indispensabile complemento strategico. In Roma vengono infatti a riassumersi importantissime strade fra cui quella Roma-Siena, la sola che permetta di efficacemente girare la posizione di Terni; in Roma vengono a confluire il Tevere ed il * Ecco come i generali Mezzacapo negli aurei loro studi strategici hanno apprezzata la posizione di Aquila: “Aquila è il punto centrale da quale si può sboccare, verso l’Adriatico per le valli del Tronto, del Vomano, del Pescara; nell’Umbria per Leonessa, Antrodoco, Spoleto; e verso Avezzano, per prati di Castiglione. I forti che venissero costruiti in queste gole sarebbero tutti a portata di essere soccorsi dalle riserve portate ad Aquila. “E però essendo Aquila punto centrale di difesa deve contenere alquanti depositi ad essere capace di una qualche resistenza. Senza volerne fare una gran piazza di guerra potrebbesi ingrandire e migliorare il forte già esistente, aggiungervene qualche altro, e collegare le difese di essi in guisa da intercettare le vie che conducono a quel punto centrale. Allora le truppe, appoggiate a cotesti forti ed a talune opere passeggere, troverebbonsi in una posizione trincerata fortissima, e capace di arrestare il passo all’invasore.”
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Teverone che sono come due braccia, stese alle regioni dell’Arno-Po e del Napolitano, all’infuori del campo trincerato sulla Nera. – Anche tatticamente Roma è ben situata, coperta come è dal Tevere, dal Teverone e da non meno importanti accidenti orografici. Occupando e fortificando alcuni punti elevati entro la cinta e sulle prossime colline come, p.e. villa Panfili, M. Mario, Monte della Farnesina sulla destra del Tevere; Monte Parioli e Casale di Villa Spada sulla sinistra, si verrebbe a dominare perfettamente il circostante terreno. Ma su questa posizione ritorneremo parlando della difesa delle coste. – Contro le invasioni procedenti dal nord, il campo trincerato di Terni si collega in sistema difensivo colle posizioni di Orvieto, Todi, Spoleto. Osservando attentamente la vasta regione pianeggiante compresa tra l’Appennino e l’Antiappennino, si scorgono in essa tre ben distinte spaccature longitudinali, che costituiscono le tre grandi vie militari per le quali in ogni tempo si gettò la fiumana delle invasioni. Quella più occidentale si radica sulle vette dell’Appennino settentrionale nelle due valli dell’Arno Casentino e di Figline, prosegue quindi per la Chiana Toscana, quella Romana, val Paglia, e continuerebbe ancora per Tevere qualora non sorgessero a sbarrarla le alture vulcaniche di Orvieto. Orvieto è perciò il punto più opportuno per chiudere questa linea di operazione girante negli approcci del campo trincerato sulla Nera; le sue condizioni tattiche stradali favoriscono in grado eminente la soluzione dei problemi della difesa. La spaccatura media è costituita dal Tevere, dalle sue origini sull’Appennino settentrionale sino a Todi dove la valle si rinserra a cul-de-sac e piega bruscamente ad occidente. Le comunicazioni continuano invece nell’antica direzione e superate le alture di Todi scendono a Terni. Altre grandi vie vanno pure ad Orvieto, Perugia, Foligno, e però Todi costituisce un’importantissima piazza avanzata dal campo trincerato Ternano. Le sue condizioni tattiche sono favorevolissime alla difesa offrendo essa un’ottima posizione concentrata e dominante all’avanguardia della quale stanno le belle posizioni di Monte Molino. L’ultima grande via aperta dalla natura alle invasioni nella Media Italia ha le sue origini negli altipiani di Gubbio e della Scheggia, continua per val Topino, e distendendosi parallelamente alla cresta appennina (di cui accoglie le importantissime strade) sbocca in
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Vall’Umbra, la grande via maestra tra i piani di Perugia e quelli Ternani. – Là dove Vall’Umbra si chiude ad imbuto ai piedi degli aspri monti della Somma, sorge ad anfiteatro Spoleto. È contro questo formidabile baluardo innalzato dalla natura alla difesa di Terni che vennero a dar di cozzo la maggior parte degli invasori, da Annibale che vi trovò sbarrata la via su Roma; all’esercito italiano nel 1860, passando per Greci, Goti, Franchi, Tedeschi, e specialmente Longobardi, i quali vi stabilirono la sede di quel famoso ducato che doveva essere il perno alla conquista della penisola. La nuova via Spoleto-Ascoli stata aperta attraverso la catena appennina viene ad accrescere l’importanza strategica di Spoleto relativamente alla difesa del campo trincerato di Terni, inquantochè essa permette di prevenire i movimenti giranti che un nemico arrivato all’altezza di Foligno tentasse eseguire sul versante Adriatico. – L’importanza tattica della posizione di Spoleto non è inferiore a quella strategica specialmente nel caso qui considerato cioè di un nemico rimontante Vall’Umbra. Vorrebbero perciò essere rafforzate: le alture stesse di Spoleto; le alture di S. Angelo (dalle quali si domina Spoleto, la grande via Flaminia, quella già accennata di Norcia, ed indirettamente s’intercetta quella minore ma non meno importante che scendendo val Nera gira Spoleto e minaccia Terni); le alture di S. Savino che coprono Spoleto di fronte e delle quali si ha ottimo dominio su tutta Vall’Umbra; le alture di S. Angelo in Mercole da dove si possono impedire i movimenti giranti Spoleto per Val Maroggia e Val Serra contro Terni.
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IV. Più innanzi alle posizioni di Orvieto, Todi, Spoleto e sempre nelle tre grandi insenature accennate si rivengono le ancora più importanti piazze strategiche di Foligno, Perugia, Pozzuolo formanti un sol fronte difensivo a cavallo di Vall’Umbria e dal Trasimeno, collegate da grandi strade e linee ferroviarie. Noi procureremo qui di mettere in evidenza il valore che acquistano quelle posizioni nel sistema difensivo del campo trincerato Ternano. Foligno ai piedi della cresta Appennina è la chiave delle valli di Umbria, Topino, Colfiorito, e sotto l’aspetto strategico, economico, logistico, amministrativo, posizione del massimo valore. Non è necessario aprire il gran libro della storia per avvedersene, basta ricordarsi l’importantissima parte che Foligno doveva avere nella campagna del 186011, basta osservare il gran movimento commerciale della sua stazione ferroviaria. Foligno è infatti l’emporio del commercio tra le spiagge della Media Italia sull’Adriatico e sul Tirreno (specialmente tra Ancona-Pesaro e Roma-Civitavecchia-Livorno) nonché tra le regioni dell’Arno-Po e del Napolitano. Gli effetti risultanti di una così importante posizione geografica, trovano un valido appoggio nella felice postura topografica di quella città, nelle grandi risorse economiche di Vall’Umbria, nella potenza idraulica del Topino, nello spirito intraprendente ed industriale di quelle popolazioni; ond’è che Foligno sebbene piccola città, è dopo Terni uno dei principalissimi centri d’attività della Penisola. Le condizioni tattiche della posizione di Foligno non sono però ugualmente fortunate. Un grosso esercito potrebbe essere rapidamente concentrato, comodamente alimentato a Foligno, potrebbe lusingarsi di guadagnare una battaglia sul campo strategico, ma colla dura prospettiva di poi perderla sul campo tattico. È specialmente contro i movimenti offensivi scendenti le valli di Topino e Colfiorito, che Foligno si presenta debole tatticamente. In questo caso, anziché attendere il nemico allo sbocco della valle,
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Si riferisce alla guerra contro l’esercito pontificio condotta dai Piemontesi per conquistare l’Umbria e le Marche.
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la difesa vorrebbe essere incominciata sugli altipiani del Colfiorito di Nocera e successivamente protratta lungo le strette che formano quelle valli, fino al loro sbocco ed incontro a Foligno. Ma di tali movimenti offensivi la difesa non ha gran chè a preoccuparsi, poiché quale scopo, quale probabilità di riuscita potrebbero essi avere in presenza del formidabile campo trincerato di Terni e delle difese di Perugia e Spoleto? Mentre l’invasore lascerebbe le sue comunicazioni completamente in balia della difesa che in un baleno potrebbe essere a Foligno sul suo fronte a Fossato alle sue spalle, e Nocera e Gualdo sui suoi fianchi, andrebbe a chiudersi in un paese difficile povero in risorse economiche stradali dove ad ogni passo potrebbe essere arrestato, avviluppato. – E però anche qui come a Pozzuolo possiamo dire che il miglior modo di difendere Vall’Umbria contro attacchi provenienti dai passi di Foligno, si è di tenersi forti e concentrati a Perugia. Per la ritirata delle truppe di Terni, Foligno acquista invece una grande importanza, poche di là non solo si dipartono le grandi arterie ferroviarie dirette al Po per val Chiana e per il versante Adriatico, ma altresì le grandi strade postali che valicano l’Appennino a Colfiorito, Nocera, Fossato, Scheggia, rimontano il Tevere ed infine quell’importantissima via Flaminia che è l’asse delle comunicazioni longitudinali della penisola e per la quale la difesa può ancora sfuggire al nemico sfilando coperta dal Trasimeno dalla Piazza di Perugia. – In questo secondo caso la posizione di Foligno presenta anche tatticamente qualche valore colle alture che fiancheggiano lo sbocco di Val Topino in Vall’Umbria. Non meno importante della posizione di Foligno è quella di Pozzuolo costituita da una zona di terreno misto di colline e monti di 6 o 7 chilometri facile a difendersi, coperta da una parte del Trasimeno dall’altro dai laghi di Chiusi e Montepulciano le grandi impedimenta che gli sconvolgimenti geologici di Val di Chiana hanno lasciato sulle antiche vie dall’Arno al Tevere per Perugia ed Orvieto. La posizione delle alture di Pozzuolo sbarra completamente di fronte Val Chiana, il massimo canale aperto nella penisola alle invasioni, mentre si trova in buone condizioni centrali rispetto alle grandi piazze strategiche di Arezzo, Siena, Radicofani, Orvieto, Todi e soprattutto Perugia, colla quale non forma che una sola posizione a cavaliere del Trasimeno. La posizione di Pozzuolo al par di quella di Foligno vuol essere considerata sotto il duplice aspetto di posizione difensiva avanzata e di posizione di ritirata per la difesa di Terni.
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Nel primo caso la sua occupazione non è necessaria e conviene assai meglio tenersi concentrato a Perugia, poiché come avremo occasione di dimostrare in seguito, quest’ultima sarebbe allora la posizione più opportuna per coprire Val Chiana. Nel secondo caso invece l’occupazione di Pozzuolo diventerebbe un’inevitabile necessità, perché se il nemico arrivasse a prevenire la difesa in quella posizione, potrebbe vietarle la ritirata su tutte le vie della Chiana non solo, ma girando per Val Pierle sboccare in val Tevere e Fratta. Questo movimento girante non sarebbe meno disastroso di quell’altro simmetrico sviluppantesi da Foligno per val Topino, Nocera, Gualdo, Gubbio e scendente pure su Fratta alle spalle di Perugia. – Grandi sono le risorse che un nemico potrebbe trarre dalle ricche e fertili regioni che stanno attorno alle alture di Pozzuolo e soprattutto immensi i vantaggi per le sue operazioni logistiche. La regione di Pozzuolo non è attraversata da alcuna ferrovia, però essa s’appoggia alle due grandi arterie ferroviarie longitudinali della penisola, la Senese ed Aretina e propriamente là dove esse s’avvicinano a pochi chilometri e s’allacciano ad alcuni importanti tronchi trasversali. – E però congiungendo con un breve tratto di ferrovia quelle due grandi arterie il nemico verrebbe a crearsi un importantissimo nodo ferroviario da dove irradiare in tutte le direzioni. Non sarebbe questa un’impresa meravigliosa dopo quanto si è visto fare nella guerra d’America ed intorno a Metz.12 – Speriamo che non si vorrà aspettare la benefica influenza d’invasione, per veder compiuta un’opera cotanto reclamata dagli interessi militari non meno che da quelli commerciali generali. – Invano si è gridato fin’ora ai grandi vantaggi che si otterrebbero da un’opera relativamente di così lieve costo, come si abbrevierebbero considerevolmente le distanze tra Firenze-Roma (46 chil.) Ancona-Livorno, come si metterebbero in relazione regioni disparatissime coi loro molteplici prodotti come si avvantaggerebbero le condizioni difensive della penisola; tutto tace ancora, e non è improbabile che l’importante questione verrà dall’intrigo sciolta in modo da non conciliare ne interessi generali ne interessi parziali e men che meno poi quelli militari (come avvenne per la vicina ferrovia di Perugia). 12
Guerra di Secessione americana (1861-1864) e guerra franco-prussiana (1870-
1871).
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Da tutte le suaccennate considerazioni si può rilevare quanto importanti sieno le posizioni di Foligno Pozzuolo e Perugia le prime due per la ritirata delle truppe di Terni, la terza per parare eziandio quel campo trincerato contro le invasioni precedenti dal nord. – Noi concentreremo ora l’attenzione su quest’ultima posizione considerandola, come piazza di allacciamento del sistema difensivo di Terni con quello della valle dell’Arno-Po e facendo risultare le risorse che presenta come posizione di ripiegamento dove ritenere le sorti delle armi e sostenere la ritirata. – Biffart, questo simpatico ufficiale Wurtemberghese noto per il suo amore alle cose italiane è la sola personalità militare, che fin’ora abbia rilevata pubblicamente l’importanza militare della posizione di Perugia; così in due parole egli ne riassume gli argomenti di potenza offensiva: “Posizione fortissima è quella delle alture di Perugia che ha la fronte coperta da numerosi corsi d’acqua, la sinistra dal Tevere, la destra dal lago Trasimeno”. Non però, che da noi manchino autorevoli apprezzamenti intorno a quella posizione militare. Nella più volte citata opera dei Mezzacapo è fatto cenno all’importanza della posizione di Perugia, i generali Fanti e Bixio la tennero in grandissimo conto, ed infine la stessa commissione permanente per la difesa dello Stato pare voglia farne oggetto di speciali studi. Basta del resto gittare un occhio sulla carta per avvedersi della grande importanza della posizione di Perugia. Dal parallelo di Arezzo a quello di Terni, là dove l’Italia Peninsulare si rigonfia, la catena appennina accostandosi al mare forma un gran seno che è chiuso dalla parte opposta dall’Antiappennino; il tutto appare come una vasta conca sprofondatasi nel centro della penisola, seminata da laghi, fiumi, paludi, monti, fiorenti vallate e cospicue città. – Nel centro di questo gran bacino, nel mezzo di questa larga via coperta, scavata dalla natura tra l’Italia settentrionale e meridionale sorge Perugia sulla vetta di alto monte a guisa di baluardo difensivo. Non v’ha città in Italia che abbia visto combattere tra le proprie mura tante e sì aspre guerre quanto Perugia, né v’ha popolo certamente che abbia sorpassato in valore ed attività guerresca questi nobili discendenti dei fieri Etruschi, Pelasgi, Umbri, Cartaginesi, Galli, Greci, Goti, Longobardi, Franchi, Spagnoli, Alemanni, avventurieri di ogni fatta, Italiani di tutti i tempi, di tutte le province, vide Perugia accorrere successivamente ad insanguinare le sue terre, e gli ameni
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suoi colli coprirsi ognora di vaste e formidabili fortificazioni. – Dalle aspre guerre di rivendicazione d’indipendenza contro le genti pelagiche, da quelle contro Roma; dalle tragiche rappresentazioni di Annibale (battaglie del Trasimeno), di Augusto (serie di guerre coronate da un assedio di 6 mesi, dall’incendio e dalla distruzione di Perugia), di Narsete, Belisario, Totila, Agilulfo, l’imperatore Enrico, dei Baglioni, dei Fortebraccio, dei Farnesi, a quelle comiche dello Schneider e dello Schmidt, fu sempre nelle convalli perugine che l’Umbria vide decidere le proprie sorti. – I cambiamenti politici, i progressi dell’arte della guerra anziché scemare, hanno considerevolmente accresciuta l’importanza militare di Perugia; come avviene dei grandi teatri di guerra dati dalla natura che non mutano per l’andar dei secoli, l’arte anzi perfezionandoli li rende più potenti. – Per persuadercene non abbiamo che a fare un giro nell’orizzonte strategico tattico di Perugia. Le montagne che stanno al nord di Perugia comprese tra Val Tevere e Val Chiana per la loro aspra natura e per la mancanza di strade militari assicurano Perugia da quella parte da ogni grande attacco nemico. Dette valli mentre costituiscono due vantaggiosissimi canali per la ritirata di Perugia in Val Arno e Tevere sono altrettanto svantaggiose per il nemico come linee di operazioni offensive, correndo la prima per le famose strette di Torrita e del Trasimeno; la seconda per quelle non meno anguste di S. Maddalena, Busco, S. Giovanni dove è appena lasciato il passo alle acque. Se l’offesa arrivata all’altezza di Cortona e di Umbertide per girare le dette strette, si getta nella valle trasversale di Pierle va a cacciarsi in un paese povero, difficile, mancante di linee d’operazioni contro l’oggettivo. D’onde riluce l’importanza del Trasimeno e delle alture di Arno per il completamento della potenza difensiva del campo di Perugia. Il Trasimeno. Colle sue acque non solo riabilita materialmente una vastissima zona di terreno alle offese nemiche, ma indirettamente vieta anche tutta quella vasta pianura ondulata che è l’alta Val Caina e Nestore, posta tra il lago e la piazza di cui costituisce come gli approcci. Senza il Trasimeno un nemico proveniente della Chiana toscana o Romana potrebbe indirizzare le sue offese direttamente contro il fronte sud-occidentale di Perugia che è il più vulnerabile, oppure girarlo per capo Parello portarsi contro le posizioni di S. Marco. Questo movimento resta impossibilitato
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in presenza del lago e di una piazza organizzata e grande e mobile campo quale si converrebbe a Perugia. È egli supponibile che un esercito voglia dare oggi il ridicolo spettacolo di muovere all’attacco di una formidabile posizione, impegnandosi nella gola del Trasimeno. Tutta quella stretta, ma specialmente le posizioni di Monte Gualandro, Passignana e di Magione sono tali da far fallire completamente ogni operazione offensiva nemica. Gli antichi romani per i primi s’incaricarono di esperimentare quelle posizioni. Le successive invasioni riconfermarono sì eloquentemente i duri insegnamenti di quella prova che nella campagna del 1860 il generale Fanti13 non credette cosa prudente l’arrischiare in quella stretta una delle colonne d’invasione contro Perugia, malgrado il non cale in cui era tenuto dal nemico questa piazza, quella stretta e la nostra grande prevalenza di forze. All’alto bacino di Val Nestore non si potrebbe dunque accedere che da sud cioè per le vie di Città della Pieve e di Chiusi; ma anche in questo caso la manovra nemica non sarebbe men gravida di pericoli. Verso il 500 Belisario erasi basato fortemente in Perugia con grosso nerbo di forze e con vasto trinceramento. Avuto notizia che l’esercito di Vitige erasi inconsideratamente spinto tra la piazza ed il lago non aspetta ch’ei s’avvanza ad attaccarlo, ma scende ratto alla campagna lo spinge contro il lago, gli fa subire un disastro. Se Annibale ha potuto attraversare la regione in discorso e girare Perugia, lo dovette allo stato in cui si trovava allora questa città ed alla splendida vittoria riportata il giorno prima tra le gole del Trasimeno. E però, fintanto che la difesa a Perugia avrà a sua disposizione un corpo mobile da lanciare alla campagna, essa non avrà nulla a temere sull’alto Caina. Se la gola del Trasimeno non presenta risorse alcuna all’offesa, essa costituisce invece un ottimo sbocco offensivo per la difesa. Un esercito in genere, un esercito d’invasione in particolare non potrebbe impunemente rimontare e scendere Val Chiana, lasciandosi sulle co-
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Il generale Manfredo Fanti comandava una colonna di Piemontesi diretta nelle Marche e nell’Umbria (settembre 1860).
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municazioni quest’importante sbocco offensivo di Perugia. Quale sarebbero state le condizioni dell’esercito di Flaminio qualora invece di cercar battaglia nella piana di Tuoro, si fosse avvanzato su Castiglione? Oggi da Perugia a Tuoro non v’è che brevissima gita ferroviaria e due tocchi di telegrafo basterebbero per annunciare il tempo opportuno al movimento. Quando Quinto Fabio mosse a debellar la potenza Etrusca diresse i suoi primi attacchi contro Perugia e non fu che dopo d’essersene impossessato ed esservisi stabilito che si schiuse il passo in Val Chiana attraverso la posizione di Chiusi. Analogamente operarono tutti gli altri grandi capitani che nelle varie epoche che rimontarono e scesero la Chiana. I principi fondamentali della strategia sono rimasti immutabili ed oggi più che mai si può dire che a Perugia si copre Val Chiana, quanto più saremo forti a Perugia e più saremo sicuri su quella grande via maestra. Ciò in tesi generale, venendo al caso particolare qui considerato si vede come non solo sarebbe grave imprudenza, ma follia il voler scendere la Chiana muovere all’attacco del campo trincerato di Terni e delle sue posizioni complementari, lasciandosi sul fianco e sulle comunicazioni la piazza di Perugia. Per poter ciò fare, il nemico dovrebbe fortemente guarnire le alture di Pozzuolo, ma allora si assottiglierebbe di troppo e non avrebbe più probabilità di riuscita il suo attacco. Il Trasimeno è dunque un argomento importantissimo della posizione di Perugia; ne copre ed assicura il fianco occidentale e la grande linea di ritirata su Firenze, allontana la zona d’offesa del nemico, cui limita i movimenti giranti, estende ed assicura il raggio d’azione strategico della piazza. E però in caso di guerra il Trasimeno vorrebbe essere guernito con cannoniere e barche armate (anche l’importanza delle cannoniere è stata rilevata in quella grande epopea di tutta la moderna scienza di guerra, che fu l’assedio di Parigi14. Le cannoniere sulla Senna e spe-
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Si riferisce alla Comune di Parigi (primavera 1871), assediata dall’esercito francese, per ordine del governo Thiers, che chiede e ottiene anche l’appoggio dei Prussiani.
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cialmente quelle presso Point-Dujour hanno dato ottimi risultamenti a confessione degli stessi prussiani; e ciò sia detto per i non pochi che solevano riguardare questo elemento di difesa sogghignando e le sue isole, guernite con qualche batteria. Ăˆ a sperare che nella risoluzione del grande problema sul prosciugamento del Trasimeno, queste ed altre considerazioni militari vennero pure introdotte col dovuto loro coefficiente d’importanza.
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V. Non meno vantaggiose sono le condizioni strategiche di Perugia verso oriente, ed importanti gli ostacoli naturali che la coprono da quella parte. Quasichè non bastassero le fortissime posizioni montane dei contrafforti stessi Perugini che si rompono sul Tevere, le linee idrografiche del Tevere Chiascio e Jescio la natura ha elevato da quella parte una serie di alture che costituiscono come un gran bastione, un gran ponte gittato attraverso Vall’Umbria e Val Tevere.* La prima sbarrano di fronte ed alle sue acque non lasciano che un angustissimo scolo nel Tevere a Torgiano, la seconda rinserrano due volte a Busco e S. Giovanni le due più vantaggiose posizioni difensive dell’alto Tevere, dalle sue origini fino a Todi. La storia ci indica in qual conto siano sempre state tenute per la guerra coteste alture trasteverine di Perugia. Nelle innumerevoli invasioni che si scatenarono contro Perugia per le valli Umbra e Tevere è lassù che l’animosa città vedeva ognora annidarsi il nemico, è su quella naturale fase d’attacco e d’investimento di Perugia che venne sempre a posarsi il grosso degli eserciti nemici, dalle legioni di Augusto e Belisario (nei loro memorabili assedi) al corpo d’armata della Rocca (nell’investimento di Perugia 1860). Occupando quelle posizioni, tanto ricche in ogni risorse tattiche, l’attacco si trova ad avere fronte coperta dal Tevere il tergo dal Chiascio, sulla destra ha le grandi linee di ritirata di Val Tevere, Gubbio, Val Chiascio, sulla sinistra Val Tevere e Vall’Umbria, mentre dietro di se ha schierato a semicerchio i grandi passi Appennini di Scheggia, Fossato, Nocera, Colfiorito, che gli assicurano la ritirata sul versante Adriatico.
* Questa non è soltanto una figura retorica, ma fu per secoli e secoli una realtà, ancora nel Medio Evo le basse regioni di Vall’Umbra, che ora fanno pompa della più rigogliosa vegetazione, non costituivano che un gran lago (probabilmente quello stesso Lacus Umber dei Romani) nel cui mezzo scorgeva Bastia, per il che era detta Isola Romana. Paludose erano pure le regioni di Val Tevere a monte ed a valle di Ponte S. Giovanni, e però le colline di Brufa e Civitella erano realmente le pile di questo gran ponte naturale pel quale venivano a contatto le genti dei due versanti di Val Umbra.
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Padroneggia di fronte tutta la posizione di Perugia, e può attaccarla sui fianchi e sulle comunicazioni girando per Val Nestore e Val Pierle e così impedire l’arrivo di soccorsi, privare la difesa delle straordinarie risorse economiche che offrono quelle grandi valli circum-perugine. E però non è a meravigliarsi se i destini di Civitella e Brufa furono sempre legati a quelli di Perugia; su quei colli ogni villaggio fu un forte, ogni posizione militare un campo di battaglia; cosi Torgiano vide combattere sotto le sue mura Fortebraccio, Ladislao re di Napoli, Pier Luigi Farnese, Ascanio Tartaglia, Attendolo Sforza. Civitella d’Arno fu cospicua città dell’antica confederazione Etrusca e deve alle guerre, agli incendi, lo stato suo attuale di piccolo villaggio. Infine non si combatte guerra a Perugia che non abbia fatto capo a Colle Strada, Brufa, Egidio, Ripa, S. Giovanni, Busco, località già tutte fortificate, ancora oggidì cinte da mura a guisa di cittadella ed i cui nomi suonano tristemente famosi nelle storie della libertà Perugina. E però non solo la scienza geografica e geologica* ma anche la storia ci indica quanto intimi sieno i legami che passano tra Perugia e le sue alture trasteverine, e questo ci premeva di mettere in sodo poichè la grande posizione militare di Perugia si deve ricercare appunto nel vasto triangolo strategico-tattico di Perugia, Brufa, Civitella, posto a cavaliere del Tevere la dove fanno capo quasi tutte le valli e strade dell’Italia centrale. Invero da queste posizioni sul Tevere vi padroneggia direttamente Vall’Umbra, Val Tevere Frattina e Val Tevere Todina, le valli di Magione; indirettamente le due Chiane, la valle longitudinale di Topino o meglio il lungo altipiano che fiancheggia la cresta Appennina da Gubbio a Colfiorito, a oriente, a una marcia e però sotto il dominio strategico di Perugia. Vengono a rinchiudersi nel campo trincerato sul Tevere le grandi strade ad Arezzo, Città della Pieve, Todi, Foligno, Gubbio, Città di Castello, e le minori che per Pila e Marsciano fiancheggiano la destra del Tevere, per Bettona rimontano il Tossino ed il
* Molto probabilmente le alture di Brufa-Perugia-Monte Sasso: CivitellaBagnolo-Tezio facevano sistema tra loro, in quei prischi tempi allorché il Tevere non aveva ancora scavato la gola di S. Giovanni e le onde del lago di Val Chiana spingevasi fin sotto Perugia ed in Val Tevere, per la gola ora ricolma di S. Marco. È un importantissimo argomento geologico questo che direttamente si connette colla grande questione dell’Arno-Tevere e che meriterebbe di essere investigato.
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Chiascio per Civitella d’Arno salgono l’altipiano di Gualdo; per Capo Cavallo accennano a Val Pierle. Ond’è che Perugia non solamente è il principal nodo stradarsi la chiave dell’Alto Tevere, ma è tra i primissimi centri di comunicazione dell’Italia con questo vantaggio sui pochi che lo avvanzano, di dominare tatticamente tutte le dette strade che loro malgrado sono costrette ad arrampicarsi su quell’alto monte. Accampata sul Tevere nel magnifico triangolo Perugia, Brufa, Civitella, la difesa si trova a dominare tutto il vasto bacino interposto tra l’Appennino e l’Antiappennino. Coadiuvata da Foligno essa guarda sul versante Adriatico attraversa i passi di Colfiorito, Nocera, Gualdo, Fossato, le grandi e uniche porte che valicano l’Appennino, dalle valli fiorentine a quelle aquilane, mentre colle posizioni complementi di Pozzuolo essa accenna al versante Mediterraneo di cui esplora la maggiore via. Per mezzo delle due valli di Chiana e di Tevere, Perugia padroneggia le due grandi vie maestre interne per la ritirata sul Po; mediante le altri valli Umbra e di Tevere Todino, essa tende le braccia alla difesa di Terni cui offre sui suoi colli una vantaggiosissima posizione di ripiegamento e di allacciamento col ridotto generale per la difesa dello Stato. In quest’ultima missione Perugia si trova vantaggiosamente sussidiata dalle belle posizioni di Arezzo e di Città di Castello.*
* Non v’è che a gettare un occhio sulla carta per avvedersi delle grandi risorse che non tanto quelle posizioni quanto i bacini in cui si trovano, presenterebbero alla ritirata delle truppe di Terni e Perugia verso il ridotto generale di difesa dello Stato. È là che le valli di Chiana e Tevere improvvisamente si allargano formando due vaste conche rincantucciate sotto la cresta Appennina, di cui accolgono importantissime vie. Dalle fortissime posizioni di Torrita e della Maddalena la difesa potrebbe facilmente arrestare l’inseguimento nemico e così dar agio alle proprie truppe di riorganizzarsi, e tempo per sfilare lungo le anguste strette per le quali si scende sul medio Arno e sul Po. La posizione di Arezzo specialmente, ha grandissimo valore strategico-tattico per le numerose ed importantissime valli e strade che accoglie, e le buone sue condizioni di dominio. È eminentemente una grande posizione di artiglieria e vorrebbe essere munita, di pezzi a prossima gittata. Non sapremmo trovare argomenti più autorevoli per provare l’importanza della posizione di Arezzo che nei seguenti apprezzamenti del generale Bixio (Riflessioni sul sistema di difesa dello Stato): “L’avere una piazza verso il lago Trasimeno, come abbiamo accennato, riuscirà
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Vediamo ora quali sieno le risorse tattiche della posizione di Perugia. Gli ammassi dominanti di Brufa, Civitella, Perugia che costituiscono come i cardini della grande posizione militare sul Tevere accennata, si presentano in eccellenti condizioni tattiche di difesa e di dominio; sono collegati da numerose e buone strade e collocati ad una distanza sempre di validissimo appoggio alla nostra base sul Po, assicurando ognora più la Toscana e l’Umbria, la inviolabilità dei cui territori rimane subordinata alla garanzia delle nostre coste dell’Etruria e delle Marche. “Ma anche indipendentemente dall’essere o no a Roma, pare a noi che trasformato Arezzo in gran piazza di deposito o ridotto centrale delle nostre risorse, si conseguirebbe che i sacrifici ora reclamati per garantire solidamente il paese, potessero provvedere completamente al loro scopo, soddisfacendo alle esigenze del presente ed alle opportunità dell’avvenire. “I motivi che c’inducono a preferire Arezzo, anziché Perugia, Foligno, Terni o qualche altro punto sono i seguenti: a) Perché in caso di bisogno attrarrebbe valido concorso dalla parte centrale della nostra base d’operazione, ad un tempo prestandosi per converso al facile riordinamento dei mezzi che fossero richiamati dalle nostre province meridionali, anche nel caso che avessimo le coste compromesse, onde assicurarne il soccorso od il rifornimento nella valle del Po. b) Perché qual piazza centrale di deposito sarebbe garantita dai colpi di mano di un rapido sbarco nemico dalla sua stesa posizione centrale alla penisola e ai due mari, con Ancona e Orbetello a considerevole distanza, che la guarderebbero sia nell’Adriatico che nel Mediterraneo. c) Perché avrebbe in mano le teste delle due importantissime vallate dell’Arno e del Tevere e tutte le comunicazioni ferroviarie e stradali che ne dipendono. d) Perché concatenerebbe egregiamente colla piazza di Spezia la protezione della Toscana e della nostra capitale provvisoria, sorvegliando verso maestro e greco le giogaie degli Appennini sul rovescio di Bologna e Cattolica, e perché osserverebbe offensivamente e difensivamente le province romane. “Così da questo ridotto centrale si avrebbero in mano, oltre alle comunicazioni dell’Umbria e delle Marche, quelle che concorrono a Siena dalla Maremma e da Bolsena. Quale appendice di Arezzo meriterebbe di essere garentita Perugia pella sua forte posizione topografica, e i suoi cinque ponti sul Tevere. S. Antonio, Scheggia, Fossato e Colfiorito richiederebbero di essere premuniti di forti isolati, affine di osservare tutte le strade che vengono dall’Adriatico e mantenere libere tutte le comunicazioni con Cattolica ed Ancona. Siffattamente verrebbe estesa all’intorno l’efficacia del perno di Arezzo, ma ben anco assicurato l’allacciamento col mezzogiorno della penisola.”
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pressoché uguale l’un dall’altro di circa 2 ore di marcia, e 6-8000 metri di tiro. E però quelle posizioni si debbono chiamare a difesa indipendente e solo con artiglierie della portata di quelle state esperimentate sotto Parigi si potrebbe lusingarsi di ottenere una difesa reciproca; in ogni caso però da quelle posizioni si tira efficacemente fin alla metà dei lati, dove stanno appunto gli abbassamenti di Colle Strada, S. Giovanni e Busco le angustissime e sole porte che danno accesso in Val Ceppi. Questa è la grande e naturale piazza d’armi interna di quel campo trincerato. Là si rivengono tutte le condizioni richieste a grandi e buoni accampamenti, abbondanza di acque, mitezza di linea, speditezza e facilità di movimenti nella pianura e verso le posizioni montane circostanti. Infatti 6 buone strade salgono a Perugia attraversando il Tevere (facilmente guardabile) su 4 ponti in pietra, una va a Civitella, un’altra a Brufa, molte strade poi grandi e piccole solcano quella pianura fanno capo a S. Giovanni, Felcino, Ceppi, piccoli ma operosi villaggi collocati sulle rive del Tevere, qui manifestazioni eloquenti del bisogno che sente la moderna Perugia di abbandonare le inospite alture e cercare la moderna attività nei sottoposti piani. Qui infatti le forze idrauliche del Tevere, le maggiori ricchezze economiche del territorio Perugino, qui i grandi nodi stradali di S. Giovanni, Busco, Colle Strada che l’attuale ferrovia e quella progettata di Val Tevere riuniranno l’uno all’altro. Il Tevere è inoltre considerevole argomento difensivo della conca di Val Ceppi sia per la direzione del suo corso rispetto alle tre strette accennate ed alle alture di Perugia, sia per la possibilità che offre di inondare tutti quei piani. E però Val Ceppi riunisce tutte le condizioni per servire da perno ai movimenti della difesa. Consideriamo ora isolatamente e più da vicino le risorse tattiche delle tre posizioni di Brufa, Civitella, Perugia queste tre grandi pile del campo strategico di Valle Ceppi-Brufa, detto Castel Grifone o Perugia è vasta e buona posizione militare sotto ogni aspetto, occupa la sommità dell’alto monte che il Tevere, il Chiascio ed il Macchie (nel cui letto sarebbe cosa facilissima scaricare il Chiascio) circondano a guisa di penisola. Ottime sono le condizioni di dominio e le risorse tattiche di questa posizione, ottimo il giuoco di centralità difen-
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siva che essa ha contro le Valli di Tevere ed Umbra. Per quest’ultimo oggettivo essa è sussidiata dalle posizioni laterali di Torgiano e Colle Strada, i due abbassamenti per cui comunicano tra di loro le due valli sopraccennate e dove fanno capo importanti strade e linee idrografiche. La seconda è anche buona posizione tattica. Civitella d’Arno, l’antica emula di Perugia (alla quale dava ancora ricovero nei tristi dì dell’incendio d’Augusta) è la chiave delle grandi strade a Città di Castello, Gubbio e Gualdo Tadino, e si presta in una colla posizione laterale di Pasqua ad una vantaggiosa difesa. Il terzo e principale appoggio del campo strategico sul Tevere è Perugia stessa, o meglio quel nocciuolo di monti che è compreso tra il Tevere, il Germa ed il Rio, sulla cui sommità si adagia con forma irregolarissima la capitale Umbra. Perugia possiede una cinta e qualche opera di fortificazione e possedeva, ancora pochi anni or sono, quella fortezza Paolina che fu l’opera classica del celebre architetto militare S. Gallo e tra le più formidabili dei suoi tempi; e però fu grave sconsideratezza dei perugini l’avere abbattuto questa fortezza allorché la pace e la libertà erano ritornate sui lidi del Tevere, come fu segno di snervamento ed incapacità l’averla tollerata nei lunghi secoli del pericolo. All’architetto S. Gallo si deve pure un progetto di fortificazione dell’intera città, che ancora oggidì risponderebbe egregiamente all’esigenze dell’arte. Secondo quel progetto dovevano essere fortificate e raggruppate in un solo corpo di difesa le posizioni di Monte S. Francesco, M. Morcino, M. S. Giuliano, Frontone, M.S. Costanzo, M. Trinità, M. Luce. Da Monte S. Francesco si ha dominio assoluto su tutta la città, sulle alture di Casamanza e di S. Marco, sulle valli di Morcino, Rio, Marsciano. È questo il vero perno del versante nord occidentale di Perugia ond’è che fu teatro attivissimo di lotte fra le quali le più recenti furono quelle dei Francesi-Perugini contro Aretini-Papalini nel 1798. Monte Morcino è un lungo altipiano a rapidissimo versanti, è come una grande batteria stabilita contro Perugia, la pianura di Marsciano e le importantissime strade che fanno capo al largo di Fonte-Veggi, fra le quali la ferrovia. La posizione del Frontone per le sue risorse tattiche, l’estesissimo orizzonte che domina, le numerose ed importanti vie che accoglie costituisce come un gran baluardo offensivo della Piazza di Perugia
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sul versante sud orientale è là che si decisero ognora le sorti di Perugia dalle primitive lotte a quelle del 1859 e 60. La posizione di M. Luce infine è la chiave della difesa del fronte nord orientale di Perugia si trova in ottime condizioni di dominio tutto all’intorno. Molte furono le opere di fortificazione che Perugia vide sorgere su questa altura, fra le quali tutte merita menzione la ciclopica fortezza di S. Severo, costruita dal Gattapone nel 1300, a detta degli storici la più grande fortezza di quei tempi. A collegare la piazza di Perugia col centro della difesa di Val Ceppi servono egregiamente i vari contrafforti che da Perugia scendono al Tevere, sui quali vorrebbero essere fortificate le alture di Petronilla, Casaglia, e Pieve di Campo, in avanti alle quali stanno le belle posizioni delle alture di S. Giovanni come avanguardia ed il Tevere come avanfosso. A 4 o 5 chilometri intorno alla descritta posizione militare di Perugia, spiccano distintamente alcune posizioni montane che costituirebbero come la linea dei forti avanzati della piazza di Perugia, e sono: Pitigliano, da dove si domina lo stretto di Bosco colle due grandi vie a Gubbio e Città di Castello, nonché quella Perugia-Ponte Pattoli di grande importanza per le ritirate della difesa e per le operazioni dell’attaccante, poiché di là si scende al Tevere e si accede alle alture di Casamanza, che costituiscono come una batteria avanzata contro Perugia. Era questa la posizione che il generale Schmidt nel 1860 avrebbe dovuto occupare per difendere Perugia contro le colonne italiane scendenti sul Tevere e da Gubbio, S. Croce, di M. Sasso, di Lacugnano (da dove si possono difendere le due grandi vie a Città della Pieve e Magione nonchè la ferrovia Aretina) S. Martino (dove direttamente si vietano tutte le strade che rimontano le valli di Tevere e di Germa). Più indietro e negli intervalli di quelli posizioni avanzate vorrebbero essere occupate le alture di Prepo, S. Marco (dov’è l’unico acquedotto di Perugia, ond’è che da S. Marco si vince Perugia) e di Casamanza. L’occupazione delle predette località avanzate non è indispensabile per la difesa delle posizioni più addossate a Perugia, ed anzi si deve evitare di estendersi troppo sui colli perugini, onde non essere obbligati a portare il centro di gravità del campo trincerato da Val Ceppi a Perugia, da una località tanto feconda di risorse per la difesa, ad un’al-
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tra, dove per la ristrettezza e difficoltà dei terreni, la condizione delle strade, la mancanza di risorse in acque ed accampamenti, le non sempre vantaggiose condizioni di dominio, il problema della difesa generale non potrebbe certamente avvantaggiare. In ogni caso, sia che si consideri questo campo trincerato intorno a Valle Ceppi a cavallo del Tevere, oppure esclusivamente sui colli perugini, sia che si considerino le alture di Brufa e Civitella, come parte integrante del campo trincerato, oppure come posizioni di eventuale occupazione, e quasi direi come una testa di ponte della posizione di Perugia sul Tevere; la vasta posizione militare formata sui vari colli circum-perugini può acquistare una grande importanza nel problema di difesa della penisola e del campo trincerato di Terni; e però vi ci siamo fermati più a lungo che altrove. È appena utile avvertire che questa importanza delle posizioni avanzate complementari di Terni non è però che di un ordine eventuale, il perno di resistenza di tutta la penisola dovendo essere in Val Ternana. Avevamo appena finito di abbozzare questi studi sulla difesa dell’Italia peninsulare, quando comparvero su questo argomento alcuni lavori di accreditati autori. È con grande sorpresa che in tutti quegli studi non vediamo fatto cenno della posizione di Terni. Ciò prova sempre più che tra i principali bisogni d’Italia v’ha quello di conoscere se stessa. Rimaniamo fermi nella convinzione essere assolutamente necessario per poter difendere efficacemente l’Italia peninsulare avere un perno, un ridotto generale di difesa, e che questo perno non può essere stabilito altrove che in Val Ternana. Questo convincimento lo abbiamo appoggiato a dati di fatto evidente per se stessi ed indiscutibili. Invero abbiamo dimostrato: 1. Che Terni per la sua posizione al centro delle terre peninsulari, e propriamente là dove la grande insenatura di alta Val Tevere (la via maestra alle invasioni nella centrale Italia) si incontra con le valli parallele degli Abruzzi e della Sabina (grandi canali che conducono alle regioni napoletane); che Val Ternana per le grandi sue risorse economiche d’ogni specie, per la sua posizione al punto d’incontro d’importantissime strade e longitudinali e trasversali della penisola, Terni, sia posizione strategica assoluta di primissimo ordine, punto inevitabile d’attacco per il nemico da qualunque parte egli provenga,
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ed insieme suo principalissimo oggettivo per padroneggiare la penisola, consolidare ed estendere le sue conquiste. 2. Che il campo trincerato a cavallo della Nera, rinserrato com’è tra le alte montagne della Somma e di Narni non praticabili che su poche anguste e lunghe strette facilmente difendibili; coperto da una parte dall’aspra catena appennina del Gran Sasso e dei Sibellini, inaccessibile, dall’altra dal Tevere largo, profondo, inguadabile e dalla cresta anti-appennina seminata da laghi e posizioni montane fortissime; fiancheggiato da spiagge e coste povere in risorse economiche e comunicazioni prive di efficaci punti di approdo; come per tutte queste ragioni d’ordine strategico il campo trincerato Ternano costituisca già per se stesso un sicuro e vantaggioso asilo per la difesa della penisola e meglio che un campo trincerato, che un’ opera dell’arte, debba considerarsi come una vasta regione fortificata, come un’opera della natura. 3. Come per la sua vastità, per l’eminenza delle sue risorse tattiche difensive, per la difficoltà e povertà dei terreni circostanti, per gli ottimi rapporti di difesa che ha con le posizioni di Perugia, Aquila, Spoleto, Todi, Rieti, Orte, il campo trincerato Terni-Narni non presenti alcuna probabilità di successo agli attacchi nemici, perché difficilmente un esercito di sbarco e d’invasione in genere potrà trovarsi in grado di accerchiarlo, investirlo, bloccarlo, prenderlo per fame, per viva forza, per bombardamento, e men che meno poi trascurarlo o semplicemente osservarlo. 4. Come invece con pochi migliaia di uomini, con poche opere di fortificazioni eventuali si possa fare di Val Ternana un inespugnabile baluardo. 5. Come il miglior modo di difendere l’immensa difesa delle nostre coste, l’irregolarissimo insieme delle nostre terre peninsulari sia di tenersi forti e mobili a Terni: infatti per le numerose e importanti linee di comunicazione ferroviarie, telegrafiche, strade che tra breve faranno capo a Terni, la difesa rimanendo colà concentrata, potrà sempre gettarsi in tempo utile sul punto della costa minacciata, sul Po, sull’Arno, sul Napolitano, e reciprocamente da tutta l’Italia, l’esercito potrà facilmente ripiegarsi ad essere concentrato nelle regioni fortificate di Terni. 6. Come Terni per le condizioni stesse del fondamento geografico si trovi in diretto rapporto col sistema difensivo della valle del Po e
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soprattutto col ridotto della difesa dell’intero Stato, che alcuni vorrebbero stabiliti in Vall’Arno. Noi dicemmo già come provvisorio convenga conservare a Bologna questo ridotto generale di difesa, oppure stabilirne due distanti, l’uno a Mantova col Serraglio, l’altro a Terni con Val Ternana, corrispondenti ciascuno ai due diversi teatri della vita militare, politica, commerciale, italiana, che sono: la Valle del Po e l’Italia peninsulare. 7. Come il miglior modo di assicurare e coprire la nostra capitale, sia di rafforzarla eventualmente e collocarla sotto la protezione di un vasto campo trincerato a Terni la storica antemurale di Roma. Di un tale sistema indiretto di coprire le capitali si rivengono esempi negli studi per la difesa di Londra (Brialmont, Système de dèfense de l’Angleterre) e di Parigi (Brialmont, Etudes su la defense des Etats, Libro I.) Ciò che in quegli studi Brialmont, Laage, Paixham, Madelaine, Chambray, Rocuqancourt, hanno detto di Croydon e delle piazze avanzate nella Champagne a più forte ragione si addice a Terni per gli svariati ed intimi rapporti geografici militari che ha con Roma. 8. Come infine, per la sicurezza e centralità della sua posizione, le sue condizioni logistiche, le sue immense risorse economiche, per lo spirito intraprendente dei suoi abitanti, per la sua stessa giacitura topografica, Terni sia posizione più d’ogni altra acconcia all’impianto degli stabilimenti per la fabbricazione e conservazione dei vari materiali da guerra. Non dobbiamo dimenticare che per perennità e potenza di corrente la Nera è il primo fiume industriale d’Italia, che in essa e negli altri corsi d’acque del territorio ternano si rivengono a migliaia i cavalli di forza motrice. Vi è là una potenza dinamica equivalente, se non maggiore, alla forza che in uno stesso periodo di tempo possono fornire le più ricche miniere di carbon fossile dell’Inghilterra e Belgio, con questa immensa differenza, che la potenza meccanica della Nera è eterna, comoda, gratuita e risponde meglio del carbone alle convenienze di una gran piazza di guerra. Non dobbiamo dimenticare che l’industria metallurgica e specialmente quella del ferro, a Terni rimonta all’antico impero romano, che a Terni si rinviene sul posto tutto ciò che richiede alla fabbricazione di armi e di polveri; che Terni è lo scolo naturale degli Abruzzi, della Sabina, di Vall’Umbra Val Tevere e quindi di loro immense ricchezze nei tre regni della natura: carbone, legname, torbe, bitumi, ligniti, scisti, bituminosi, mi-
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nerali d’ogni fatta, gessi, calcari, marmi, travertini, zolfo, tufo e sostanze varie vulcaniche quasi totalmente inesplorate; olii, grani cereali, foraggi, ecc. ecc. Terni insomma è il principal nostro laboratorio meccanico, è la Manchester d’Italia, come giustamente lo disse il Pepoli. Difficilmente si può misurare l’avvenire che è riserbato a codesta piccola ma laboriosa città, quando si considera il magnifico orizzonte di attività che si schiude all’Italia, quando si pensa che in America Lowel, Lawrence sul Merrimach debbono appunto la loro origine e l’attuale loro floridezza unicamente alla forza motrice delle acque; quel che è certo si è che già fin d’ora questa piazza è la più acconcia allo stabilimento degli arsenali terrestri per l’Italia peninsulare e che colà l’industria militare potrà ripromettere un efficace appoggio da quella privata, sia in tempo di pace che in tempo di guerra. La dislocazione e l’organizzazione degli stabilimenti militari è per noi questione di suprema importanza. Sul Po già avemmo occasione di dimostrare quanto gravi siano le nostre condizioni sotto tale riguardo, nell’Italia peninsulare, le cose stanno forse meglio poiché almeno qui tutto è a fare, nulla a disfare.
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SULLA STRAORDINARIA IMPORTANZA MILITARE INDUSTRIALE DI
VAL TERNANA
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Già da molto tempo ed a più riprese ci siamo provati a chiamare l’attenzione dei militari sulla grande importanza di val Ternana sull’opportunità di stabilirvi il ridotto per la difesa della parte peninsolare d’Italia, la sede di tutti i grandi nostri stabilimenti ed opifici militari. Allora il nome di Terni suonerà ancora affatto nuovo nel mondo militare ed industriale ed è con soddisfazione che vediamo finalmente diradarsi le fitte tenebre che l’apatia, l’ignoranza, una schiavitù di quattro secoli aveva condensate su quella fortunata regione. Quando ancora oggidì vediamo un così magnifico insieme di dovizie e di tesori naturali negletti od almeno non convenientemente apprezzati non possiamo restarci dal ricordare che tra i principalissimi bisogni d’Italia v’ha quello di conoscere sé stessa e tornare alla carica; lo faremo questa volta a fondo con tutte le forze riunite e speriamo che attraverso la nuova breccia si aprirà una più efficace e salutare corrente di idee e di effetto.
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I Val Ternana nel sistema di difesa generale dello Stato Il sistema generale di difesa del nostro paese si trova già così chiaramente segnato dalla natura che non si sa veramente capire come esso possa dar luogo a tante discussioni. Bologna la gran guardiana della Penisola costituisce per la sua stessa posizione geografica il ridotto generale della difesa; là fanno capo tutte le grandi comunicazioni che irradiano nella valle del Po e nella Penisola; di là mentre si tiene solido piede nella valle del Po e se ne appoggia la difesa avanzata da qualunque parte provenga l’invasore, dall’altra basandosi sull’Appennino vi copre l’Italia peninsolare; di là si è a facile portata dalle spiagge Mediterranee da Livorno alla Spezia e di quelle Adriatiche da Rimini a Venezia le più vantaggiose ai movimenti offensivi nemici e le più importanti per noi stantechè racchiudono i due grandi nostri empori di potenza marittima. Bologna infine è un grande centro industriale commerciale destinato ad un grande avvenire dove si possono fare concorrere risorse d’ogni specie da tutte le parti d’Italia. Attorno a questo ridotto la natura ha non meno chiaramente disposto tre grandi perni di manovra e sono: I. Mantova col Serraglio, contro le invasioni Austro-Germaniche coperto in sulla fronte dalla linea dell’Adige, del Chiese, dal lago di Garda colle sue colline moreniche, colle magnifiche posizioni di Peschiera, Pastrengo, Verona, Calmiero, Legnano, Badia. II. La stretta di Stradella contro le invasioni Francesi appoggiata alla linea del Ticino da una parte dalla piazza di Genova dall’altra chiusa indietro dalla doppia testa di ponte di Piacenza ed avente sul fronte il grande perno logistico d’Alessandria. III. Val Ternana per la difesa della parte peninsolare d’Italia, appoggiata da una parte per mezzo di Roma e Civitavecchia al mar Tirreno dall’altra per mezzo del campo trincerato d’Ancona all’Adriatico; tutto all’intorno poi da un buon sistema di linee ferroviarie e telegrafiche di torpedini e segnali semaforici sulle coste. Infine tutte le principali valli che vanno in Francia ed i passi delle linee ferroviarie attraverso l’Appennino di Porretta di Fossato, Antrodoco, chiusi da torri corazzate.
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Quanto agli arsenali vediamo che nemmeno può aver luogo discussione. Spezia, Venezia e Taranto sono i tre grandi Arsenali marittimi che per magnificenza di condizioni geografiche e topografiche non hanno riscontro sul Mediterraneo e vogliono essere fortificati sia verso mare che verso terra. Nel mezzo di questi tre empori marittimi sorge l’altipiano di Val Ternana dotata di straordinarie risorse industriali, località opportunissima sotto ogni aspetto, ad accogliere il grande ed unico arsenale terrestre di tutta l’Italia e servire da emporio a tutta l’industria militare terrestre. Di là si corrisponde facilmente sia per via di terra che per via di mare (per mezzo dei porti d’Ancona e Civitavecchia) coi tre arsenali marittimi citati e come dimostreremo in seguito si hanno facili e sicure comunicazioni colla valle del Po dove gli eserciti possono già trarre risorse dagli arsenali di Spezia e Venezia, da Val Ternana insomma il materiale da guerra può essere rapidamente gettato su ogni parte delle terre continentali peninsolari ed insolari d’Italia. Questo sistema di difesa si basa direttamente sul fondamento geografico, è suggerito ed imposto dalla natura e si trova in armonia colle nostre condizioni economiche, militari, politiche e colle regole dell’arte. Esso è il più economico, poiché si basa su poche piazze, su vaste posizioni quali il Serraglio Mantovano, quello Ternano e la stretta di Stradella già potentemente fortificato dalla natura e dove l’arte non ha da costrurre che semplici opere eventuali; sulle fortezze di Bologna, Verona, Peschiera, Pavia, Piacenza, Venezia, Genova, Spezia, Ancona, Civitavecchia, Roma; località tutte già dotate di fortificazioni che vogliono essere rivedute ed ampliate è vero ma che sono pur qualche cosa; esso è il più conforme alle regole dell’arte poiché risponde pienamente ai grandi principi ai quali s’informa il moderno sistema per la difesa degli Stati ed a quelli della strategia in genere fra cui quello tanto raccomandato da Napoleone: che le piazze da guerra debbono essere poche e strategicamente situate nel campo tattico il quale si basa sulle torri corrazzate e sulle vaste regioni fortificate che sono le ultime forme adottate dalla fortificazione in seguito all’esperienza della campagna Franco-Germanica1.
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Si riferisce alla guerra franco-prussiana del 1870-71.
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Esso risponde alle nostre speciali contingenze politiche militari poiché mentre rivolge la principale attenzione alla valle del Po non trascura l’Italia peninsolare specialmente la parte centrale e la capitale; risponde ai vari problemi della difesa contro attacchi Francesi, Austriaci o Tedeschi sia per terra che per mare permettendo di tenere le forze abbastanza riunite. Le fortificazioni di Genova sono già consigliate delle importanti condizioni economiche di quella piazza destinata, col taglio del San Gottardo a ferire mortalmente il commercio di Marsiglia, il centro di vitalità e del primato marittimo di Francia sul Mediterraneo; così pure le ferrovie nell’Italia peninsolare sono già suggerite da ragioni commerciali economiche, le fortificazioni di Taranto dalla urgenza d’appoggiare il grande emporio commerciale di Brindisi. Il sistema difensivo citato si trova avvalorato dall’opinione di grandi capitani e strategici2 e soprattutto da Napoleone che più volte ed a chiare note ebbe a rilevare la grande importanza delle posizioni strategiche terrestri del Serraglio Mantovano, della stretta di Stradella, della posizione Ternana e di quelle marittime di Spezia, Venezia e Taranto; dal General Fanti che soleva dire non amar discutere sulla nostra difesa nazionale con chi, all’aprire d’una carta del nostro paese, non ravvisava a primo colpo d’occhio in Bologna il perno alla difesa d’Italia; da tutta la Storia militare e del più elementare buon senso che consiglia la difesa della grande muraglia delle Alpi. Che poi Val Ternana e nessun’altra posizione possa essere scelta come perno di difesa per l’Italia peninsolare si deduce dai seguenti dati di fatto evidenti per sé stessi ed indiscutibili: 1. Che non essendo possibile sbarrare direttamente tutti i punti accessibili delle nostre coste per ragioni Finanziarie e militari, che del resto essendo utile chiudere questo o quel punto favorevole allo sbarco quando Napoli - Palermo - Livorno - Pisa - Lucca - Roma - Civitavecchia - Gaeta - Ancona - Rimini - Ravenna - Messina - Lecce - Otranto - Fano - Salerno - Bari - Barletta - Pescara ecc. ecc. tutti insomma i centri di vitalità della Penisola si trovano inevitabilmente esposti agli attacchi
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Sta per strateghi.
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nemici; che non essendo nemmeno possibile chiudere le strade, le valli dell’Appennino con forti isolati, poiché, stante la facilità dei terreni il nemico potrebbe facilmente girarli e perché condurrebbero alle disseminazioni delle forze, per tutte queste ragioni la difesa dell’Italia peninsolare non può essere basata che su di una grande piazza centrale atta a servire da perno di manovra coadiuvato da un buon sistema di ferrovie e di torpedini sulle coste in attesa della formazione di una poderosa flotta nella quale starà la vera potenza difensiva dell’Italia peninsolare. 2. Che l’Italia, confinando colle due potenze di Francia ed Austria che possono attaccarla sia per terra che per mare con un intensità che non è dato di prevedere quale potrà essere in avvenire, l’Italia per provvedere seriamente alla sua sicurezza presente e futura deve coordinare la valle del Po e l’Italia peninsolare in un solo sistema difensivo in modo che risponda alle esigenze della difesa in tutti i vari casi d’attacco; ora, non potendosi assolutamente difendere direttamente tutte queste terre peninsulari, così sparse e militarmente infelicemente disposte, dividerle in regioni ed applicare a ciascuna di esse un sistema proprio di difesa; poiché ciò condurrebbe alla disseminazione delle forze ed alla debolezza generale, è evidentemente necessario limitarsi ad una difesa vigorosa della centrale Italia raggruppandola colla valle del Po in un sol corpo difensivo e collocandone il perno di difesa in modo che possa corrispondere col ridotto per la difesa generale dello stato e nello stesso tempo però possa sorvegliare ed appoggiare le operazioni nell’Italia meridionale. 3. Che non potendosi contare per la difesa della Penisola in genere su molte forze regolari le quali certamente si troveranno impegnate sui teatri di guerra per ora più decisivi della Valle del Po, ma invece più specialmente sulle truppe di riserva, sui volontari, sul concorso delle popolazioni è necessario che questo perno generale di difesa si trovi a giusta e facile portata dalle varie province dell’Italia peninsolare in modo da poter accogliere facilmente tutti i loro elementi irregolari di difesa e potenza militare, è necessario che questo focolare di elaborazione continua di nuove forze sia opportunamente collocato per poter dirigere tutto il movimento complicato della difesa dell’Italia peninsolare evitando i disordini che paralizzano la forza.
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4. Che è necessario che questa posizione, sia per la sua vicinanza che per le sue condizioni strategiche, appoggi la difesa di Roma, costituisca una vasta regione più forte per natura sì che risponda alle attuali condizioni della guerra e delle nostre finanze e non riecheggia molte forze per essere difesa. 5. Essendo ammesso che l’emporio della nostra industria militare debba trovarsi nell’Italia peninsolare è necessario ch’essa coincida col perno di resistenza militare e quindi che questi costituisca una località ricca in risorse economiche d’ogni specie e specialmente in forze idrauliche ed in combustibile, sia un centro già dotato di grandi risorse nell’industria privata sì che questa in pace e guerra dia sussidio ed appoggio a quella militare, offra a buon mercato la mano d’opera e nello stesso tempo si trovi lontano dai grandi centri di agitazione politica, si trovi a facile portata dei mari, si presenti in vantaggiose condizioni logistiche e specialmente ferroviarie per il pronto movimento del materiale verso ogni parte del regno, in posizione vasta capace di ricevere tutti quegli stabilimenti e provvedere al movimento del materiale confezionato e di deposito senza ingenerare disordini. Ora non solo non v’ha posizione nell’Italia peninsolare che soddisfi a tutte le accennate condizioni in modo ammirabile quanto Val Ternana ma potendone costrurre una appositamente non si potrebbe fare meglio di quanto già la natura ha quivi con tanta cura disposto.
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II. Condizioni economiche di Val Ternana. Potenza idraulica della Nera e suo impiego Finchè rimarrà un corso d’acqua non utilizzato nella sua caduta non avremo il diritto di incolpare la natura e di affettare una rassegnazione che non è insomma che pigrizia ed incapacità nostra. (Balbo3 – Meditazioni Storiche)
Chi è che viaggiando da Firenze a Roma, non appena oltrepassate le selvagge e pittoresche montagne della Somma, non ha fermata la sua attenzione su quella ridente pianura che da Terni a Narni bagna la Nera, questa orgogliosa e benefica figlia dei Sibellini, e le montagne di Somma e di Narni circondano tutt’all’intorno? È questa Val Ternana che la natura ha ricolma di tutti i suoi favori e benedetta col suo sorriso. Il Rampalti la disse una delle più ricche ed amene d’Italia, ed io credo che dicesse poco, perché è veramente Val Ternana una delle più belle gemme di cui s’adorni la nostra Penisola. Le sue pianure, sebbene di non grande estensione, sono però tra le più produttive d’Italia per il loro buon sistema d’irrigazione, la dolcezza del clima, la feracità del suolo; le montagne, che racchiudono questo vasto giardino, presentano tutte le gradazioni di cultura dalla vigna e l’oliveto sulle dolci falde inferiori, al cerro e castagno sulle inospiti vette, mentre nelle loro viscere racchiudono tesori immensi, purtroppo per la massima parte inesplorati. Val Ternana è inoltre lo scalo naturale degli Abruzzi, della Sabina, di Val d’Umbra, di Val Tevere media e inferiore e quindi di loro grandi ricchezze in legnami, carboni, torbe, bitumi, ligniti, ferro, gesso, marmi, cementi idraulici, travertino, zolfo, tufi, minerali d’ogni fatta, sostanze varie vulcaniche, olii, grani, cereali, foraggi, carni, vini, frutta, ecc., ond’è che a Terni si può avere facilmente ed a buon mercato tutto ciò che si richiede alla fabbricazione di armi, polveri, alla costruzione di edifici, al mantenimento di numerosi operai. La Nera è una fabbrica
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Cesare Balbo (Torino 1789-1853), uomo politico e storico piemontese. Le Meditazioni storiche sono del 1842-1845.
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perenne di travertino, materiale eccellente di costruzione a motivo della sua porosità che lo rende leggero, facile alla presa, malleabile, resistente al gelo, e del suo aspetto grave che si addice ad ogni genere di costruzioni. Ebbene questo travertino lo si ha sul posto quasi gratuitamente sulle rive del fiume ovunque a pochissima profondità sotterra; voi aprite un solco una via alle acque del Nera, ed ecco che esse s’incaricano di rivestire il vostro canale con bizzarri depositi calcarei da assicurarne il fondo, con quale risparmio ognuno può immaginarsi. Ma è specialmente sulle risorse idrauliche, della Nera che vuol essere concentrata tutta l’attenzione. La quantità di forza motrice che si ravvisa sparsa ovunque nel territorio ternano è tale da non aver molto da invidiare alle contrade più carbonifere della vallata della Mosa e della contea di Newcastle. Lasciando i minori corsi d’acqua che scendono vorticosi da alte montagne e circondano la città a settentrione, oriente ed occidente, noi ci limiteremo qui alla Nera che circonda Terni al sud. La Nera, sebbene occupi un posto assai modesto per estensione di bacino e svolgimento di corso, pure è uno dei più cospicui pel grande volume di acque che perennemente convoglia. Le sue sorgenti si trovano sulle parti più elevate della catena Appennina: dai Monti Sibellini a Monte Velino sono ricchissime e perenni; i laghi reatini servono come da moderatori e grandi serbatoi di riserva, e danno alla Nera le prerogative dei fiumi lombardi. V’ha inoltre rimarchevolissimo fenomeno geologico che contribuisce grandemente a rendere perenne il corso della Nera ed è dovuto all’azione eminentemente moderatrice dei terreni permeabili ond’è costituito gran parte del bacino di questo fiume, i quali assorbono, immagazzinano, se così è lecito esprimersi, l’acqua che cade negli anni eccessivamente piovosi, per renderne poi al fiume lentamente e per sotterranei meati nelle epoche di siccità. A Terni, dove trovansi riuniti in un sol fascio gli sparpagliati bacini di Nera, Belino, Turano, Salbo, si ha la considerevole portata di 90 metri cubi al secondo e talvolta di 150. È vero che parecchi altri tributari dell’Appennino vantano soventi portate molto maggiori, ma durante le epoche di siccità essi non presentano per la maggior parte che vasti ed aridi letti di sabbia; la Nera invece sfilando ogni stagione continua a dibattere tra i massi le benefiche sue acque: condizione questa importantissima per un fiume industriale. Ma è specialmente alla pendenza delle acque che convien rivolgere tutta l’attenzione. Nel solo tratto dalla gran cascata a Terni che è di 5 chilometri, la Nera consuma un salto
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di 250 metri circa ripartiti fra varie piccole cascate e nella grande delle Marmore valutata di 143 metri dall’Ing. Brandolini. Mentre le acque del Velino al piano di Rieti stanno a 400 metri sul mare, a Terni non lo sono più che a 120. Quivi esse raggiungono un’altezza più che sufficiente al movimento delle ruote, ed in tutto il tratto, fino a Narni, trasportano facilmente legnami. Questa rapidità straordinaria della corrente nel tratto dalle Marmore a Terni, e l’altezza delle sponde assicurano inoltre la città dai pericoli delle inondazioni, non avendo quelle acque il tempo di formarsi ad esercitare la loro azione devastatrice; ed essendo loro malgrado costrette a gittarsi sulla campagna romana dove portano tanto sovente il terrore e la rovina. La Nera ed il Velino a Terni raggiungono la potenza di 200 mila cavalli di forza da cui nulla si trae! Perfino applicando cattivi motori idraulici si avrebbe una potenza di ben 130,000 cavalli utili, quella stessa che otterrebbesi da 3 milioni e mezzo o 4 milioni di tonnellate di combustibile fossile. Abbiamo dunque nelle acque cadenti a Terni una potenza dinamica equivalente, se non maggiore alla forza che in uno stesso periodo di tempo possono fornire le miniere di carbon fossile della Francia o del Belgio, le più favorite regioni sotto tale aspetto, con questa differenza che ivi, come in ogni altro luogo, i giacimenti carboniferi hanno una consistenza che tosto o tardi finirà per esaurirsi, e che la loro coltivazione richiede ingenti opere e spese, là dove quella dell’acqua è potenza perenne e più che altra mai comoda ed economica. In una parola i fiumi di Terni e di Tivoli hanno ugual vigore industriale, rispetto all’abbondanza ed al poco prezzo della forza motrice, dei più celebri distretti carboniferi delle Nazioni estere. – E si dirà ancora che l’Italia non può essere paese d’industria, perché gli manca il combustibile fossile! Aggiungeremo che, trattandosi di una piazza da guerra, la forza motrice delle acque sovente è di molto preferibile al carbone; poiché essa non richiede approvvigionamenti preventivi, accumulazione di materiale e quindi ingombri nella piazza e sulle linee ferroviarie, già tanto occupate in guerra per il movimento del personale e materiale. Del resto non manca il combustibile a Terni necessario al trattamento dei minerali, perché le foreste dell’Aquilano, degli Abruzzi, i boschi della Sabina somministrano in abbondanza ed a buon mercato il legname ed il carbone; nel Reatino, in Vall’Umbria, Tevere e Topino, si hanno inoltre le torbe e le ligniti che ai dì nostri sono utili surroganti del carbon fossile. A questo proposito raccomandiamo ai ternani lo studio
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degli alti forni a generatore che i Sigg. Talk e Bodoni introdussero negli stabilimenti lombardi a Lecco ed a Bellano. Con questo sistema qualunque combustibile, che possa carbonizzarsi lentamente e dare una corrente di carbonio che al contatto con una corrente di aria riscaldata a 350 o più gradi s’infiammi e produca la potentissima combustione secondo la teoria di Gay-Lussac, può essere adoperato a scarburare e ricuocere il ferro, e a tutte le operazioni occorrenti per trasformare il minerale greggio in spranghe, cilindri, piastre di ferro, ovvero acciaio. – I Ternani dovrebbero mandare persone tecniche competenti a studiare questo sistema di alti forni che troverebbe vaste e vantaggiosissime applicazioni in casa loro, dove le foreste non sono state ancora intaccate dalla mania febbrile del disboscamento. Del resto il ferro veniva da tempo immemorabile estratto dalle montagne di Terni viciniori, trattato sul posto e spedito a Roma, come ne fanno fede le molte cave abbandonate esistenti nella Valle e la testimonianza degli storici. Veniamo al modo d’impiegare questa potenza meccanica naturale di Val Ternana. Anzitutto noi osserveremo che volendo sacrificare la grande cascata delle Marmore all’Industria, distruggendo così un gran spettacolo naturale che pur rappresenta un grosso capitale, una forte rendita perpetua per Terni, convenga impegnarsi in una impresa veramente grande, capace di rispondere ai bisogni avvenire dell’industria ternana; convenga partire subito da vasti concetti informati agli ultimi dettami della scienza, agli interessi generali di tutta l’industria privata e militare, e non all’utile di questa o quell’industria, costruire grandiose opere idrauliche e non lavori speciali, destinati poi ad essere continuamente ampliati, modificati e perfezionati. È soltanto in questo caso che si riceveranno grandi utili dalla forza dinamica della Nera, associandosi, lo ripetiamo, costruendo grandi opere di comune interesse, destinato a dare vita, movimento a tutte o a parte delle fabbriche. Oltre alla questione industriale, sappiamo che a Terni pendono da qualche tempo opere e questioni speciali su impieghi diversi dalla Nera; così quella di due canali destinati ad irrigare le pianure sulla destra e sinistra del fiume, e a mettere in movimento molini di campagna, l’incanalamento della Nera stessa da Terni a Narni, la sistemazione dei corsi d’acqua, che vi mettono la derivazione dal Serra di un corso d’acqua destinato all’alimentazione delle macchine, le acque della Nera contenendo troppe soluzioni calcari. È necessario dunque porre il problema in tutta la sua vastità,
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studiarlo attentamente sotto tutti i suoi punti di vista e risolverlo da principio in guisa da conciliare gli interessi generali, in modo degno dell’avvenire di Terni e del paese, che vanta ancora oggidì le più grandi illustrazioni nella scienza idraulica e meccanica. La parte essenziale nel sistema della pressione dell’acqua per l’immagazzinamento e la distribuzione della forza è l’apparato detto accumulatore; un tubo poi conduce l’acqua dell’accumulatore verso i diversi punti dove la forza motrice dev’essere applicata. È naturale che se i vari proprietari di fabbriche sia dell’industria privata che militare si metteranno d’accordo nella costruzione di un accumulatore unico e da questo scaricheranno con tubi la forza meccanica necessaria alle proprie macchine, essi avranno ottenuto un risparmio considerevole nelle spese di primo impianto ed in quelle continue per la manutenzione e l’impiego della forza. Se si considera che con una pressione equivalente ad una colonna di acqua di 457 metri di altezza la perdita di caduta per attrito nei tubi non è che una frazione insignificante della colonna totale, e che in vari casi la lunghezza dai tubi si è estesa fino a 4000 metri senza che vi sia stata diminuzione di effetto e senza bisogno di accumulatore, si vedrà facilmente come per 250 metri di caduta e 5000 metri di distanza la spesa per la costruzione dell’accumulatore dovrà essere minimo. La pressione dell’acqua (dice Sir William Armstrong) non ha superiorità reale sull’albero girevole per la trasmissione della forza che nelle circostanze, in cui le macchine da mettere in movimento sono collocate ad una certa distanza le une dalle altre su di un terreno di grande estensione, che esse sono intermittenti nella loro azione, ed altresì quando la quantità di forza da trasportare è soggetta a grandi e repentine variazioni. Tale sarebbe appunto il caso di Terni; le macchine dei vari stabilimenti trovandosi a considerevole distanza le une dalle altre, e le riparazioni continue che richiedono per le incrostazioni calcaree producendo delle variazioni e sospensioni continue nella produzione di lavoro, e quindi nell’impiego della forza. L’ingegnere comunale di Terni Signor Adriano Sconocchia ha pubblicato non è molto, un progetto di un nuovo canale per le industrie di Terni.4 “Di tanta ricchezza”, dice l’autore, “in potenza dinamica non 4
Adriano Sconocchia, Relazione sul modo di accrescere la forza motrice nella città di Terni e prospetto di un nuovo canale per l’industria, Terni 1872.
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v’ha idiota che non lamenti l’ozio, non v’ha sagace intraprendente che non intenda nel fragore di quelle onde sfamanti il rimprovero di un passato infecondo che non seppe usufruire la permanente presenza di un così grande tesoro”. Il Signor Sconocchia col suo progetto tende ad utilizzare una centesima parte della forza motrice disponibile derivando a 700 metri dalle mura della città e mille circa dalla stazione ferroviaria un canale lungo metri 1653 della portata di metri cubi 20 di acqua al minuto secondo con una pendenza tale da produrre tante cascate quanti sarebbero gli opifici da attuarsi e di un’altezza non minore di 10 metri. Secondo i suoi calcoli anche nel peggior caso un cavallo di forza motrice che in Francia ed Inghilterra pagasi almeno 3 Lire al giorno, in Val Ternana costerebbe soli 2 centesimi; capite, 2 centesimi! V’ha un altro modo di utilizzare la forza dinamica della Nera per l’industria, ed è d’impiegarla per produrre aria compressa risolvendo così il grande problema: la forza motrice a domicilio distribuita a guisa di gaz luce. Questa recentissima scoperta meccanica dovuta al genio italiano, che ha avuto il battesimo e s’è fatta adulta tra le viscere delle Alpi, troverebbe una vantaggiosissima applicazione in Val Ternana, ove aprirebbe una fonte inesauribile di ricchezza al lavoro. Una macchina a vapore consuma annualmente per ogni cavallo di forza circa 20 tonnellate di carbone, le quali non costano in totalità meno di 800 lire, e tenuto conto dell’interesse del capitale impiegato per la macchina, fanno risultare il costo di ogni cavallo a lire 1000; mentre che dei cavalli-aria se ne possono tenere in scuderia otto con la stessa spesa che richiede un solo cavallo-vapore. Già parlasi d’impiegare la forza dinamica dell’Aniene a Tivoli per produrre aria compressa con cui rinnovare i molini presso Roma sbarazzando dall’ingombro dei medesimi il corso del Tevere. Verrà giorno, dice il brillante autore del lavoro Cenisio e Fréjus, che questi cavalli-vapore saranno considerati come vilissime rozze da fiaccherai in confronto dei cavalli-aria. Il Velino, che forma quelle pittoresche cascate che fanno correre tutti i viaggiatori a Terni, potrebbe dare una forza di 20,000 cavalli in aria compressa e rendere quella città industriosa quanto lo sono le più floride d’Europa. Valutando ogni cavallo sole 800 lire, ventimila rappresenterebbero né più né meno una rendita perpetua di sedici milioni di lire annue! Questo solo fiume italiano, capitalizzato al
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5% d’interesse, costituirebbe un capitale di 320 milioni. Ma disgraziatamente a nulla giova tanta ricchezza di fronte all’inoperosità del dolce far niente, e chi sa mai per quanto tempo ancora il Velino ad altro non servirà che al trastullo degli artisti con le sue stupende cascate delle Marmore, e quelle popolazioni si contenteranno di pitoccare un soldo facendo da guida ai forestieri, anziché farsi ricchissime, servendosi della sua potenza per comprimere dell’aria, e muovere economicamente grandiosi opifici di ogni sorta di industrie. Gli italiani, che hanno acqua ed aria, persisteranno essi nella ricerca del carbon fossile che non troveranno mai? Tutte quelle arie che ci diamo senz’altro frutto che quello di gonfiarci come rane, sarebbe tempo di smetterle, e darci invece della buon’aria compressa con cui lavorare e diventare davvero una nazione ricca e possente!
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III. Straordinarie risorse logistiche di Val Ternana Da Terni a Narni si può sbarcare in tutte le direzioni, e però l’utilità di erigere a Terni una piazza e di chiudere con forti gli stretti di Narni Somma, di Todi e della Sabina. (Mezzacapo, Studi topografici e strategici)
Fra le principali condizioni a cui deve soddisfare un perno di manovra e di fabbricazione di materiale da guerra, v’ha che la sua posizione si trovi non solo al nodo delle principali comunicazioni ordinarie e ferroviarie che riuniscono fra loro le varie parti del territorio a difendere, per essere in grado di irradiare, ovunque il pericolo si presenti, i soccorsi in uomini, viveri e materiali da guerra che occorrono; ma che per una condizione più unica che rara si trovi al nodo unico di tutto le comunicazioni che da una frontiera conducono a quella opposta, per poter colla maggiore efficacia provvedere alla difesa delle frontiere minacciate, e nello stesso tempo coprendo le rimanenti parti del territorio riceverne, durante la sua resistenza, le risorse ancora disponibili atte a prolungare la lotta. Noi ci proveremo qui a rilevare le eminenti condizioni logistiche di Val Ternana, condizioni veramente uniche nella Penisola. Due specie sonvi di comunicazioni: le valli, che sono le grandi vie maestre date dalla natura che imprimono il valore strategico, politico, immutabile di una località, e le vie artificiali, cioè linee stradali, ferroviarie, telegrafiche che completano o modificano in parte l’operato della natura. Una magnifica questione di geografia comparata, già proposta da Humboldt, è quella che riguarda la influenza che le valli longitudinali dell’Italia centrale hanno esercitato sul movimento della civiltà tra il Nord ed il Sud della Penisola; questione questa che non credo sia stata svolta e dalla quale soltanto rilucerebbe tutta l’importanza logistica di Val Ternana. Osservando attentamente la vasta regione pianeggiante compresa fra l’Appennino e l’anti Appennino disposta a guisa di una vasta conca sprofondata giù nel bel mezzo della Penisola, seminata di laghi, fiumi, paludi, vallate, monti e colline, si scorgono tra il disordine dell’oroidrografia segnate quattro ben distinte spaccature longitudinali, che costituiscono appunto le quattro grandi vie naturali, per le quali in ogni tempo si gettò
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la fiumana delle invasioni e si effettuò lo scambio delle idee, sia con mezzi violenti, cioè colle arti della guerra, sia con quelli della pace. Quella più occidentale si radica sulle vette dell’Appennino settentrionale nelle due valli d’Arno del Casentino e di Figline, prosegue quindi per la Chiana Toscana, per quella Romana, Val Paglia, quindi Val Tevere finchè viene a lambire le montagne che circondano la conca Ternana e propriamente a Orte allo sbocco della stretta di Narni; e però Val Ternana padroneggia questo grande canale, pel quale attraversando la Toscana si scende nei piani del medio Arno e di Firenze da una parte, nei piani del Po dall’altra. La seconda spaccatura longitudinale è costituita da Val Tevere dalle sue origini sull’Appennino fino a Todi, altro sbocco offensivo di Val Ternana, dove la Valle di Tevere si chiude a cul-de-sac, mandando le sue strade a Terni attraverso la stretta di S. Gemini. Per mezzo di questo secondo canale naturale, Val Ternana comunica dunque direttamente colla Valle del Po attraverso l’Umbria. La terza grande via aperta dalla natura al movimento attraverso l’Italia centrale, ha le sue origini agli altipiani di Gubbio Sigillo, e continuando per Val Topino si distende parallelamente e sotto la cresta appennina, di cui accoglie le importantissime strade; sbocca quindi in Vall’Umbra a Foligno e quindi continua fino a Spoleto, dove si chiude pur essa ad imbuto quasi che la natura avesse voluto con quelle muraglie di monti porre argine alla fiumana e proteggere i suoi piani favoriti di Val Ternana: le strade però continuano e, attraversata quella grande diga naturale, sboccano su Terni. E però Val Ternana padroneggia anche questa grande via naturale e per essa comunica colle convalli perugine da una parte, dall’altra col versante Adriatico, colle Marche e quindi anche colla Valle del Po. L’ultima spaccatura è quella di Val Nerina stessa, per la quale si guadagnano le regioni più elevate dell’Appennino e si scende in quel di Ascoli e Macerata, aprendo così un’altra comunicazione tra l’Umbria e le Marche. Anche questa via naturale è chiusa da una stretta prima del suo sbocco in Val Ternana. Volgiamo ora lo sguardo alle comunicazioni aperte dalla natura tra Val Ternana e le regioni del Napoletano; esse pure vengono tutte a riassumersi attorno a quella valle. Anzitutto Val Nera e Tevere per la quale si scende su Roma, principal centro politico della Penisola in ogni tempo. Vengono quindi le due valli di Salto e Turano, le quali innestandosi nelle altre valli di Liri, Aniene, Sacco, formano una serie di valli parallele egregiamente situate per mettere la bassa Val Tevere in comunicazione colle valli napoletane del Volturno e Garigliano, Roma con Napoli. Ora le valli di Turano e Salto scendono
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direttamente su Terni attraverso lo stretto delle Marmore. Viene in terzo luogo Val di Velino, per la quale da Terni si passa nei piani Reatini, indi in quelli Aquilani e di là in tutti gli Abruzzi. Questi canali naturali, percorsi da strade più o meno buone nelle varie epoche, furono però sempre i collettori del movimento civile e militare operatosi tra la centrale Italia e quella meridionale. La natura facendo concorrere attorno a Val Ternana tutte le valli dell’Italia centrale e nello stesso tempo rompendo, elevando, ingombrando la Penisola, la natura ha fatto di Val Ternana un punto inevitabile d’attacco, la chiave di tutte le comunicazioni dell’Italia peninsolare. La storia viene in appoggio a quanto diciamo, mostrandoci popoli d’ogni genere, Romani, Galli, Umbri, Longobardi, Galli, Greci, Goti, Franchi, Alemanni avventurieri d’ogni fatta muovere contro questo naturale baluardo e ostinati cercare di aprirvi un varco attraverso la sua muraglia di monti. È noto come gli antichi Pelasgi invadendo l’Italia dal Nord e dal Sud si concentrassero d’apprima attorno a Val Ternana e di la poi irraggiassero all’intorno in tutta la Penisola. Veniamo ora ai mezzi di comunicazioni artificiali. Stanno in testa le linee ferroviarie, telegrafiche, che costituiscono la base delle odierne grandi operazioni logistiche. Le condizioni ferroviarie dell’Italia peninsolare non sono certamente molto soddisfacenti, se si paragonano a quelle della maggior parte degli altri Stati d’Europa; ciò non pertanto, anche nelle attuali condizioni, esse offrono a Terni un magnifico giuoco logistico per rispetto a tutta la Penisola. Noi prenderemo per base le ferrovie esistenti, quelle in costruzione e concesse, fra le quali ultime meritano specialmente attenzione la linea che da Terni rimontando Val Stroncone deve scendere nei piani di Rieti e di là dividersi un ramo per Aquila, scendere su Pescara, l’altro per Avezzano su Ceprano (che abbrevierà il tragitto da Firenze a Roma di circa 30 chilometri); ferrovie di somma importanza strategica, consigliate da importanti ragioni economiche, approvate in Parlamento, suggerite dalla Commissione generale di difesa, raccomandate dal general Menabrea, ed appoggiate infine dall’irresistibile logica delle ragioni naturali. Passiamo in rivista i vari casi d’invasione; supponiamo che si trovino minacciate le coste sull’Adriatico e che il punto d’attacco della flotta austriaca sia ancora ignoto; supponiamo anche che per ragioni di prudenza o per necessità non si possa fare assegnamento per il movimento del materiale o personale sulla grande linea ferroviaria che si
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distende lungo le coste dell’Adriatico: allora la difesa, rimanendo concentrata in Terni, si troverà al centro di quelle coste coperta dalla catena dell’Appennino, basandosi sulle grandi linee longitudinali di FirenzeTerni-Ceprano-Napoli; Firenze-Orte-Roma-Napoli potrà, manovrando al sicuro, sboccare sulle coste per una delle seguenti linee trasversali Firenze-Bologna-Venezia; Firenze-Castelbolognese-Ravenna; FolignoAncona; Popoli-Pescara; Campobasso-Termoli; Benevento-Foggia; Taranto-Bari; e supponendo alla stazione di Terni concentrato il materiale necessario al trasporto immediato di due a tre divisioni almeno, potrà essere colle teste di colonne a Venezia in 20 ore, a Ravenna in 18 ore, a Pescara e ad Ancona 8 ore, in 18 a Termoli, in 20 ore a Manfredonia, in 22 ore a Bari, in tempo e con un nerbo di forze sufficienti per impedire lo sbarco al nemico. Se tutti quei punti della costa Adriatica comunicheranno telegraficamente con Val Ternana, e si troveranno muniti di una buona difesa di torpedini e di milizie eventuali e di buoni segnali semaforici, il movimento non potrà fallire. Supponiamo di doverci prevenire contro attacchi marittimi della Francia, ed anche qui di non poter disporre per i movimenti logistici della linea ferroviaria del litorale Tirrenico, allora la difesa rimanendo concentrata a Terni indietro ed al centro di quelle coste coperte dall’anti Appennino, sub-Appennino e Tevere, potrà appoggiarsi alle linee ferroviarie longitudinali Firenze-Terni-Napoli; Firenze-Orte-Napoli, oppure a quella di Ancona-Foggia-TarantoReggio ed operando al sicuro piombare sul punto minacciato dalla costa Tirrenica per una delle seguenti linee trasversali: Pistoia-PisaSpezia; Forense-Livorno; Siena-Cecina; Siena-Grosseto-TerniRoma; Aquila-Roma scendendo il Teverone; Terni-Isoletta-CasertaNapoli passando per Cancello o per Aversa; Avellino-Salerno, ed essere comodamente sempre colle teste di colonne alla Spezia in 15 ore, a Livorno in 13, a Grosseto in 10, a Cecina in 12, a Roma in 4, a Napoli in 12, ad Isoletta in 7, a Salerno in 15: distanze tutte che non superano una tappa ferroviaria. Né meno vantaggiose sono le condizioni ferroviarie di Terni qualora sia chiamata a sostenere la difesa della Valle del Po, poiché allora può appoggiarsi alla linea trasversale Ancona-Foligno-Orte-Roma e scendere sul Po, per le linee longitudinali che fanno capo alla detta trasversale nei 4 punti citati e quindi essere colle teste di colonne a Pontelagoscuro in 17 ore, al Serraglio e Mantova in 18, a Piacenza in
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20, ad Alessandria in 21 ore, i quattro grandi sbocchi offensivi sulla sinistra del Po; oppure essere a Bolonga seguendo le tre linee di Ancona, di Firenze e della Spezia a rafforzare quel ridotto della difesa generale. Supponiamo per ultimo che si debba appoggiare la difesa delle regioni meridionali, allora basandosi sempre sulla linea trasversale Ancona-Terni-Roma, può la difesa di Terni operare per le due grandi linee litoranee e per le due minori intermedie, che partendosi da Terni vanno poi a congiungersi alle precedenti a Pescara e Ceprano. Considerando infine il giuoco logistico ferroviario di Terni nei suoi rapporti coll’Italia penisnolare in generale, vediamo che esso trovasi mirabilmente coadiuvato dai grandi centri ferroviari circolanti di Orte, Rieti, Foligno collocati ad est, sud e nord ad una marcia di distanza ad una o due ore di ferrovia da Terni. Da quelle posizioni le truppe si troverebbero ad occupare le più fertili valli dell’Italia centrale, cioè Vall’Umbra, Val Reatina, Val Tiberina, Val Ternana, e riunite su breve spazio su quei grandi altipiani dell’Italia centrale, potrebbero essere gettate prontamente su ogni parte della Penisola. Infatti da Orte si passa sul versante Tirrenico per Roma e Napoli da una parte, dall’altra per Grosseto, Cecina, Livorno, Pisa, oppure si scende sul Po per Firenze. Da Foligno si passa sul Po per ambedue i versanti Appennini, cioè per Firenze e per Ancona. Da Rieti si passerà pure su ambedue i versanti su Pescara e Ceprano. Insomma colle forze e col materiale concentrato e sottomano a Terni e nei vicinissimi nodi ferroviari di Orte, Rieti, Foligno, la difesa dell’Italia peninsolare si troverebbe mirabilmente collocata per vivere, combattere e muovere in ogni verso. Perciò sarebbe necessario che almeno i tronchi ferroviari Terni-Foligno, Terni-Orte, Terni-Rieti fossero a due binari e che queste stazioni fossero munite di tutto il materiale e personale speciale, necessario ai grandi movimenti ferroviari militari. Concludiamo, raccomandando questo magnifico giuoco ferroviario di Val Ternana alla Commissione incaricata di studiare le mobilitazioni dell’Esercito. Le linee stradali vengono in seconda linea pei grandi movimenti logistici strategici e propriamente come complemento delle linee ferroviarie. In Val Ternana non bisogna soltanto considerare il numero e l’importanza delle strade, ma bensì anche il modo con cui esse vi affluiscono. Bologna, Milano, Alessandria, Napoli, Verona, sono pure grandi centri di strade, ma quelle strade non sono inevitabili al transito, e per chiuderle convien ricorrere ai mezzi di difesa somministrati dall’arte; le cose stanno ben diversamente in Val Ternana, poiché, se ben guardia-
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mo la Penisola all’altezza di Terni, vediamo che la natura del suolo ed i grandi ostacoli oroidrografici obbligano tutte le strade longitudinali (ad eccezione delle linee litoranee pericolose e di poca importanza militare, e della via di Radicofani) a concorrere in un fascio attorno a Val Ternana: ne ciò basta, poiché tutte queste strade indistintamente per scendere sulla Nera sono costrette ad impegnarsi in angustissime strette, di cui la più breve misura 4 chilometri di lunghezza, ond’è che Val Ternana padroneggia e serra come in un pugno tutte quelle sue vie di comunicazioni, e l’invasore se vuol rimontare o scendere la Penisola è costretto, suo malgrado, ad impegnarsi in quelle forche caudine e per sforzarle a passare sul corpo della difesa. Ciò posto, vediamo le risorse che queste strade offrono alla difesa di Terni. Per operare verso il mar Tirreno, essa dispone di cinque strade rotabili: 1° Terni-Rieti-Roma; 2° Terni-Poggio Mirteto-Roma; 3° Terni-Civitacastellana-Roma; 4° Terni-Amelia-Viterbo-Civitavecchia; 5° Terni-Orvieto-Grosseto; Per operare sul versante Adriatico, Val Ternana dispone delle linee: 1° Terni-Spoleto-Norcia-Ascoli; 2° Terni-Aquila e di là sulle coste seguendo le tre grandi strade delle valli di Vomano, Pescara e Sangro; 3° Terni-Foligno e di là attraverso i quattro grandi passi di Colfiorito, Nocera, Fossato, Scheggia sul versante Adriatico scendendo le valli di Chienti, Potenza, Musone, Esino, Metauro; 4° e 5° Sono in costruzione due grandi vie che, rimontando Val Nerina ed i monti di Leonessa, dovranno mettere Terni in diretta comunicazione col versante Adriatico. Anche da questa parte dunque Terni è il punto sintesi di tutte le strade che varcano l’Appennino dal passo di Scheggia a quello di Popoli. Per operare verso l’Italia centrale e la valle del Po, Val Ternana dispone delle grandi strade rotabili da: 1° Terni-Foligno e di là sul Po attraverso i quattro passi citati; 2° Terni-Bevagna; 3° Terni-Todi; 4° Terni-Orvieto; 5° Terni-Montefiascone. Rispetto al Napoletano, Terni si trova al centro del grande settore
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Roma-Terni-Aquila, nel quale vengono a confluire tutte le strade parallele di Sacco, alto Teverone, Turano, Siri, Salto, Velino, ed alto Pescara. Il silenzio ha regnato per secoli in queste valli che, sebbene destinate dalla natura a servire di veicoli al movimento tra Roma e Napoli, aveva il despotismo e la decadenza civile di quei popoli convertite in barriere insormontabili. Ma ora colle mutate condizioni politiche ed economiche quei due massimi centri di vitalità dell’Italia non vogliono né possono vivere nell’isolamento, e non tarderanno a gittare comode e numerose strade lungo quelle valli e completare così l’opera della natura, e allora Val Ternana diventerà il naturale punto di assembramento di tutte quelle strade. Dopo tutto quel che si è detto, ognuno vedrà come, sia nel campo industriale che in quello logistico, non siavi posizione alcuna nella Penisola che possa, non dirò gareggiare, ma nemmeno paragonarsi a Val Ternana.
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IV. Vastità della posizione militare e del teatro di azione industriale ternano D’ora in avanti converrà ricorrere a zone di terreno potentemente fortificato, sì che divenga assolutamente impossibile al nemico di accerchiarle, ed al difensore invece sia dato anche, mentre attende alla difesa, di rifornirsi in vettovaglie, munizioni da guerra e difensori necessari a protrarre indefinitivamente la lotta. (Brignone,5 Sulla difesa degli Stati in generale)
Fra le forze che concorrono ad attirare e svolgere le industrie, dopo la ricchezza in forze idrauliche, la facilità ed abbondanza delle comunicazioni, viene subito la vastità del teatro di azione industriale. Ciò è naturale, poiché svariatissimi sono in carattere ed importanza gli sbocchi dell’industrie, svariatissimi i modi con cui ogni particolare pone e cerca risolvere il problema della propria industria. Ora in Val Ternana v’ha posto per tutti: colla vastità della sua posizione, colle fortunatissime sue condizioni topografiche, cogli svariatissimi suoi prodotti naturali, si presta all’impianto ed allo sviluppo di ogni sorta di industrie. Dal piccolo molino di grano ed olio nelle campagne, ai grandi stabilimenti manifatturieri, metallurgici e chimici presso la città; dal piccolo proprietario al gran capitalista tutti trovano posto in questo vasto mercato industriale ancora pressoché deserto, sul quale operando con senno ed intelligenza possono duplicare in brevissimo tempo i loro capitali. O in Terni o sulla Nera o nelle campagne; purché vi mettiate su uno di quei corsi d’acqua naturali od artificiali, non vi mancherà giammai la forza con cui dare anima alle vostre macchine e congegni, siano essi fatti sul sistema dei più recenti e perfezionati di Birmingham e Manchester, od adamitici come quelli che persistono ad usare la maggior parte dei buoni Ternani a discapito, s’intende, del loro interesse. Considerata poi come grande posizione militare e perno di manovra la vastità signfica forza, poiché toglie all’attaccante la possibilità di poterla investire, bloccare, di poter resistere alle sortite della difesa, ed inoltre può sommnistrare sul posto le risorse necessarie
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Filippo Brignone (Torino 1812-1877), generale.
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all’alimentazione delle truppe durante un blocco, spazio ai loro accampamenti, alle loro manovre. Considerato Val Ternana come sede generale di tutti i nostri grandi stabilimenti militari, la vastità diventa una condizione indispensabile e preziosa se si considerano le grandi estensioni di terreno che essi occupano, specialmente i polverifici ed i depositi di materiale, e la necessità di dislocare quegli stabilimenti in modo di poter provvedere alla fabbricazione, al movimento ed alla spedizione del materiale nei dì dell’estremo bisogno senza ingenerare disordini. “Parigi (dice il general Brignone nel suo lavoro già citato) sebbene sia stata investita e chiusa quasi inaspettatamente per la non prevedibile catastrofe di Sédan, pure, colle risorse raccolte in soli 30 giorni e con difensori quasi inesperti, trovò il mezzo di resistere per oltre quattro mesi al più poderoso esercito. Ma se Parigi invece di essere un punto solo nel mezzo di un vasto territorio, che potè essere completamente accerchiato dai Tedeschi e ridotto alle sole sue limitate risorse, fosse stato invece una limitata zona di terreno potentemente fortificata dalla natura e dall’arte, come un istmo tutto all’ingiro bagnato dal mare, sicchè i Tedeschi non avessero potuto accerchiarla, né avanzarsi nel rimanente territorio senza espugnarlo, sarebbe egli possibile d’immaginare che cogli sforzi fatti dalla Francia dopo il 1° settembre, le condizioni di quel paese si troverebbero ridotte allo stato in cui sono? Io voglio anche supporre che colla loro abilità veramente straordinaria i Prussiani sarebbero riusciti ad impedire ai Francesi lo sbocco di quella barriera fortificata; ma quello che mi sembra certo è che la resistenza di questo ridotto, rifornito continuamente di uomini e vettovaglie, sarebbe indefinita”. Noi abbiamo in Italia due grandi posizioni militari che costituiscono il tipo di queste vaste regioni, di queste barriere fortificate e sono il serraglio Mantovano in Valle del Po, il serraglio Ternano nella Penisola. Il primo si basa su grandi linee idrografiche invulnerabili che lo circondano tutto all’intorno e sulle tre posizioni di Mantova, Borgoforte e San Benedetto; il secondo su grandi linee orografiche pure invulnerabili ed avviluppanti tutta la Valle e sulle tre posizioni di Terni, Narni e S. Gemini. Il primo a cavallo del Po, di cui padroneggia le due sponde, è vantaggioso perno di manovra; il secondo a cavallo dell’Appennino, di cui padroneggia i versanti, non ha un meno vantaggioso giuoco strategico. Ambedue hanno una superficie di circa 60 chilometri quadrati, sono ricchi in risorse economiche di ogni specie, e specialmente idrau-
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liche, amendue grandi centri stradali ferroviari, amendue fortissime posizioni tattiche e grandi posizioni strategiche, amendue hanno avuto un’influenza decisiva nelle lotte e negli avvenimenti storici d’Italia. Chiuderemo queste considerazioni sulla vastità della posizione Ternana, citando alcune località atte all’impianto di alcuni stabilimenti speciali militari. Tutto il tratto di pianura sulle due sponde della Nera dal suo sbocco dai monti a Terni offre località vantaggiosissime al collocamento di grandi stabilimenti, ed è questa senza dubbio la ragione su cui sorgerà la futura Terni. Ove anche pel momento non si volesse far capitale dell’immensa forza dinamica rappresentata dalla famosa cascata delle Marmore, sonvi nelle vicinanze della città non pochi punti ove potrebbesi utilizzare le acque inalveate nei canali consorziali d’irrigazione. Giova fra gli altri ricordare l’ex-convento di San Valentino, vasto e solido edificio, che sembra fatto a bella posta per essere trasformato in opificio industriale, inquantochè la grandezza dell’adiacente proprietà, la quantità dell’acqua che la interseca e la caduta niente indifferente della medesima nella sottostante pianura, gli danno tutti i requisiti necessari a tale trasformazione, senza grande spesa, essendochè l’uso dell’acqua e la proprietà del locale spettano al Demanio. Ove poi tale forza (che pare può rappresentare un 50 e più cavalli dinamici) non fosse sufficiente, non sarebbe certo a temersi un gran dispendio se occorresse aumentare le sezioni del canale principale e trasmissore. Una fabbrica d’armi potrebbe stabilirsi con gran vantaggio sulla destra della Nera, nei pressi della località detta San Paolo, ove con gran facilità potrebbe deviarsi l’acqua del fiume con un canale corto, ma al tempo stesso capace di dare un ragguardevole salto. Il terreno piano, unito e spazioso che da San Paolo si protende fin verso la città, permette di elevare in breve tempo tutte quelle fabbriche che occorrono per la costruzione di armi portatili. Quanto al polverificio, una giacitura vantaggiosa sarebbe fra il Velino e la Nera sulla sinistra di questa ed al di sopra del fondo della cascata delle Marmore. Potrebbero utilizzarsi per la trasmissione delle forze le acque del Velino che scendono per apposito canale con gran dislivello, e danno mezzo di porre in azione quante macchine ci vogliono. D’altro lato la prossimità della montagna è anche comoda per quelle costruzioni speciali che si fanno per l’impianto dei polverifici, mentre la distanza dalla città rassicura gli abitanti dai pericoli delle esplosioni.
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Ma, come già dicemmo, meglio che cercare sulle sponde della Nera una posizione acconcia allo stabilimento di questo o quell’opificio, è necessario subito da principio partire da un vasto concetto, gittare un piano generale di tutti gli stabilimenti militari che si dovranno col tempo stabilire in Val Ternana, e costrurre grandiose opere idrauliche, capaci di metterli in movimento, utilizzando vantaggiosamente le acque della Nera, e chiamando l’industria privata a concorrervi. Convien scegliere una località vasta, acconcia all’impianto di tutta questa piccola colonia industriale militare; non è necessario che essa si trovi proprio sulla Nera, ma conviene che sia posta al sicuro e sotto la protezione di Colle dell’Oro, sulla ferrovia, in vicinanza della città per quanto è possibile, sì che in caso d’attacco possa ricevere appoggio dalla città e da Colle dell’Oro. Costruendo quegli stabilimenti secondo gli ultimi dettami dell’arte sul sistema dei più perfezionati del Belgio, Inghilterra, Francia, Germania, noi potremo vantarci di avere sciolta nel modo più perfetto e completo la gran questione degli stabilimenti industriali militari. La Germania con Spaudan e l’Inghilterra con Woolwich già ci hanno dato l’esempio dell’accentramento di stabilimenti militari; ed infatti che sia necessario aver riuniti, sottomano in una stessa località tutti i fattori dell’industria militare come polverifici, fonderie, arsenali di costruzione, laboratori pirotecnici, di precisione, piro farmaceutici stabilimenti di deposito di materiale da guerra, di equipaggiamento, è cosa per se stessa evidente. Come potremo noi essere sicuri di poter provvedere ai bisogni dell’esercito in guerra, quando abbiamo questi stabilimenti sparsi su tutta l’Italia in località esposta ai primi attacchi nemici e non possiamo sperare un serio appoggio nell’industria privata? Nessuno dubita che il patriottismo farà sorgere in massa gli Italiani nel dì del pericolo, ma questa gente nelle attuali condizioni della guerra converrà che sia se non altro ben armata. Ora caduto uno di quegli stabilimenti tutta la nostra macchina resta incagliata ed imponente nella sua missione poiché non servono le armi senza le polveri e gli arredi necessari per portarli alla guerra.
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V. L’industria privata e l’avvenire industriale di Terni Terni sarà la futura Manchester d’Italia. (Pepoli, 1860) Nella prima guerra un immenso vantaggio toccherà alla nazione più industriale. (Rènan6, 1869)
Fin dal 1864 si leggeva nella Rivista di Edimburgo: “Non bisogna dimenticare che in certe eventualità la principale risorsa dell’Inghilterra sta nell’enorme grandezza delle officine e degli arsenali della sua industria privata. La potenza che potrà nel più breve tempo produrre una immensa quantità di strumenti da guerra i migliori e più perfezionati, avrà la certezza di riuscire vittoriosa in una guerra.” – L’assedio di Parigi7 ha luminosamente provata la giustezza di questo apprezzamento, e confermato i grandi insegnamenti che già s’erano tratti dalla guerra d’America.8 La seconda parte della guerra francogermanica, cioè quella non più contro l’esercito, ma contro la nazione francese, se poté sostenersi, lo dovette in gran parte alla febbrile e prodigiosa attività dimostrata dall’industria privata. Perduti tutti gli arsenali e stabilimenti militari, che l’imprevidenza imperiale aveva concentrato a Metz ed a Strasbourg alle porte della Germania, Parigi trasse dalle sue fabbriche ed officine private tante armi e macchine da guerra, fucili, cannoni d’ogni specie, mitragliatrici, barche cannoniere, polveri, tanti arredi di vestiario ed equipaggiamento, ed in così breve tempo da meritare l’ammirazione del mondo. E però d’ora in avanti, se si vorrà provvedere e rendere possibile una difesa lunga ed ostinata, converrà collocare gli stabilimenti militari, per la fabbricazione del materiale da guerra, in tale località che
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Joseph Ernest Rènan (Trignier 1823 - Parigi 1892), scrittore francese. Vedi nota 14 a pagina 26. Si riferisce alla guerra di Secessione (1861-64).
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possano, sia in tempo di guerra, che in tempo di pace, essere appoggiati e spalleggiati dall’industria privata. Il secondo assedio di Parigi ci ha poi dimostrato altresì la necessità per il libero e retto svolgimento delle operazioni militari, che questi grandi centri industriali non coincidono coi grandi centri di vita e di agitazione politica. Anche sotto questi due aspetti non potrebbesi trovare posizione più vantaggiosa di Val Ternana, poiché è Terni, come egregiamente la disse Pepoli, “la futura Manchester d’Italia”; e mentre si trova abbastanza vicina a Roma per poterne appoggiare la difesa, nello stesso tempo è abbastanza lontana per non essere influenzata dalla febbrile lotta dei partiti politici che vi si trovano numerosi e potenti, e che non mancherebbero nel di dell’estremo pericolo di scatenarsi gli uni contro gli altri a danno della buona condotta delle operazioni militari. Terni, patria di Tacito e di Floriano imperatore, non conta che 10,000 abitanti circa, di cui un buon terzo vivono direttamente o indirettamente sull’industria. L’amor di libertà, lo spirito d’indipendenza è tradizionale fra quelle genti, si direbbe suggerito dallo stesso fondamento geografico; non è mai venuto meno neppure nei lunghi e bassi periodi della dominazione papale, quando ogni sentimento maschile e virile era spento e scomparso fra le genti circostanti. Le sue numerose fabbriche, la sua popolazione eminentemente operaia e per natura industriale, lo spirito pratico d’attività, d’associazione, d’intrapresa che vi si ammira, tutto ciò vi fa dimenticare per un momento di essere nell’Umbria, questa antica terra di pittori e di santi, su cui oggidì l’apatia cresce tanto rigogliosa. Qui il forestiere lascia di buon grado le chiese i conventi colle loro madonne del Perugino, di Giotto, di Cimabue, dello Spagna, i ruderi, le anticaglie coi loro sognatori e piagnoni di antiche grandezze, per visitare una buona volta le fabbriche, le officine, le macchine, e respirare un po’ di vita moderna. L’Umbria dev’essere altera di possedere queste terre che le ricordano la febbrile attività economica industriale degli avi, e mostrano come anche oggidì sulle molli sponde del Tevere la pianta uomo possa crescere forte, attiva, intraprendente. Fra le grandi fabbriche condotte dall’industria privata sonvi: quella dei Pianciani per tessuti di lana, quella di Gruber per tessuti di cotone e lana, la grande vetreria di Mirenghi, l’opificio di solfuro di carbonio Manni, la fabbrica per l’estrazione degli olii di Massarucci, molte concie di pelli, molini idraulici ed infine la grande ferriera. Questa è stata
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costruita sulla Nera dalla Società romana delle miniere di ferro, e sebbene corredata da perfette macchine, sebbene per il prezzo la quantità e qualità della merce prodotta essa potesse a buon diritto rivaleggiare colle altre d’Italia, pure visse per lungo tempo dimenticata. Nel 1868 gli affari di quello stabilimento erano giunti a tal punto che minacciavasi un’imminente e disastrosa liquidazione. Un caso fortuito la trasse in questi ultimi tempi dall’oscurità e quindi dalla rovina. Due anni fa un ricco negoziante del Friuli, passando per Terni, venne per caso a cognizione dell’esistenza di quella fabbrica e della merce che vi si trovava agglomerata; saperlo, vederla, comprarla tutta, impegnare la Società a lavorare per esso tutto un anno, fu affare di poche ore di trattative. E subito il grido rimontava il Tevere, passava il Po, si levava sul Volturno, ed a Terni accorrevano una quantità di speculatori per accaparrare il presente ed il futuro. I magazzini vennero vuotati, i forni riaccesi, le macchine aumentate, rinnovate, aperti depositi di corrispondenza, la Società rifornita di capitali, rassicurata nel suo avvenire. Ora v’ha egli esempio più tristemente eloquente dell’accesso a cui può essere spinto l’indifferentismo, l’ignoranza delle cose proprie? Non è egli l’apatia la maggiore delle nostre tirannie industriali, la nostra più crudele nemica della produzione? E poi si grida alla concorrenza estera, al free trade, si esplorano le terre altrui e non si conosce la casa propria. Si fatica e si rischia in meschine e pericolose speculazioni, mentre basterebbe guardarsi attorno, consultare la natura per esserne favoriti. Là dove batte qualche incudine e gira qualche spola, ecco i luoghi che debbono richiamare la nostra attenzione. A Terni meglio che a nessun’altra città spetta di marciare all’avanguardia del nostro risorgimento industriale. La sua potenza industriale non è ora che ad uno stato embrionale: certamente che se quelle felici sponde della Nera fossero state abitate da Americani, Inglesi, Tedeschi; se queste genti avessero potuto sottrarsi alle molteplici e potenti ragioni politiche civili che per lunghi secoli concorsero a snervare l’intelligenza, l’attività, la ricchezza dei poveri Ternani; certamente, dico, queste sponde della Nera non presenterebbero che una sola fabbrica dalle Marmore a Terni, ed al posto di questa piccola cittaduzza si troverebbe una delle grandi metropoli industriali che si videro sorgere d’improvviso negli Stati Uniti d’America e nell’Inghilterra: però bisogna convenire, in omaggio alla verità, che molto si è fatto da che il sole della libertà ha vivificato queste regioni Ternane, ed anche ai ciechi è forza riconoscere che l’avvenire
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di questo centro industriale è veramente straordinario, così grande, che non si può misurare. – Sul fiume Merrimack nel Massachussetts alcuni speculatori stabiliscono delle ruote idrauliche usufruttuando alcune piccole cascate, ed ecco tosto attorno a quelle ruote sulle rive di quel fiume sorgere la città di Lowelt che nel 1834 conta già 15,000 abitanti, di cui 8000 operai e dopo qualche anno 36,000. Allora altri intraprenditori gittano su quel fiume una traversa del salto di 28 piedi e creano così una nuova sorgente di forze motrici, e subito attorno a quella traversa sorge per incanto Lawrence che nel 1868 contava già 30,000 abitanti, fra cui 10,000 operai. Altri molti esempi consimili si potrebbero citare. Ora non crediamo di esagerare dicendo che non solo quelle città, ma nemmeno gli altri grandi centri industriali di America ed Inghilterra possono vantare un complesso di circostanze industriali più magnifico di Terni. In una sua Memoria del 1839 il celebre ingegnere idraulico Kranz stabilisce le seguenti condizioni per la prosperità di un centro industriale, basato sulla forza motrice delle acque. 1°. Che la forza motrice sia considerevole per la quantità dell’acqua combinata coll’altezza della cascata; 2°. Che tale quantità sia perenne e di una comoda applicazione all’organo meccanico sul quale deve agire; 3°. Che il costo dell’acqua non sia molto elevato; 4°. Che il terreno si presti tanto per la condotta dei canali da derivarsi, quanto per il collocamento dei diversi stabilimenti manifatturieri; 5°. Che la località sia prossima ad un centro abitato, od almeno vi sia un mezzo di ricoverare gli operai e di provvedere ai propri bisogni senza grandi sacrifici; 6°. Che il prezzo della mano d’opera sia moderato; 7°. Che un sistema di comode comunicazioni unisca gli stabilimenti che si volessero erigere ai centri di consumazione ed a quelli eziandio d’importazione delle materie prime. Tutti questi requisiti Terni li possiede in grado eminente. Abbiamo già detto delle condizioni idrauliche di Val Ternana, della potenza e perennità delle sue acque, che naturalmente si possono avere a buon mercato per la loro abbondanza e perché non usufruttuate ancora dalla speculazione. Quanto alla mano d’opera d’essa si ha pure a buon
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mercato per le favorevoli condizioni economiche della Vallata e di quelle circostanti. Se la natura colle grandi risorse industriali, colle grandi scene e coll’incanto di una natura spettacolosa ha attirato l’uomo in Val Ternana, essa ha eziandio provveduto abbondantemente al suo sostentamento. Abbiamo dimostrato come favorevolissime siano le condizioni logistiche di Val Ternana, e come il materiale colà preparato ed elaborato possa avere un facile e rapido sbocco verso tutti i porti, verso i mari laterali, verso il Po e verso la Penisola. Quale sconfinato orizzonte non si apre innanzi a Terni, ora che gli straordinari progressi della meccanica hanno insegnato ad impiegare vantaggiosamente le sue acque ed il suo combustibile; ora che nuove ferrovie vi faranno capo ed estenderanno il suo raggio d’azione e di potenza industriale; ora che i nostri mari, le nostre coste, le nostre terre si destano al commercio, all’attività industriale economica; ora che l’industria militare stabilirà il centro della sua azione in quella Valle? Ultimata che sarà la ferrovia che da Terni deve scendere su Pescara e quindi su Brindisi, non vi sarà più ragione perché almeno parte della merce greggia, che affluisce in quel grande scalo del commercio orientale, non abbia a prendere la via di Terni per essere quivi lavorata e di poi gettata sui mercati d’Europa, di preferenza che battere le lontane vie delle officine inglesi, francesi e rifare la strada. Anche nelle attuali condizioni di Terni l’industria militare troverà un efficace appoggio nell’industria privata sia in tempo di pace che in tempo di guerra, e potrà concorrere con essa nella creazione di alcuni materiali da guerra con grande e comune vantaggio. Se non altro potrà essere utilizzata la grande ferriera e quella vicina di Tivoli appartenente alla medesima Società. Le nostre ferriere, dice il generale Cavalli nella Relazione della Commissione delle ferriere, di cui era presidente, convenientemente riformato, sarebbero in grado di produrre con elementi affatto indigeni quasi il doppio delle provviste di ferri fini d’ogni specie, che possono occorrere nei grandi servizi delle armi, della marina militare e mercantile, e delle ferrovie in tutta l’Italia, e potrebbero quindi supplire non solo a richieste straordinarie, ma fornire un notevole contingente sia alle armi secondarie che ne abbisognano, sia anche ad una vantaggiosa esportazione. Se la condizione geologica del nostro suolo, privo di buon litantrace, ci costringerà, sinchè duri lo stato attuale dell’arte metallurgica, ad una vistosa importazione di ferri di qualità
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inferiore, l’Italia può ottenere tuttavia dal proprio seno, ed a discrete condizioni di pecuniaria convenienza, le armi e gli ordigni guerreschi marittimi ed industriali di essenziale importanza e di costo maggiore. Sviluppandosi sempre di più l’industria ferriera, aggiunge il magg. Bava d’artiglieria, è possibile, che malgrado la differenza di giacimento di carbon fossile, possiamo col tempo procurarci, con risorse nostre proprie, tutte le occorrenze per il materiale da guerra e per il naviglio, e riuscire a far prosperare degli stabilimenti industriali metallurgici, sul genere di quelli del Krupp ad Essen, dell’Armstrong a Elswich, i quali sono elementi preziosissimi delle forze nazionali. I ternani sembra si siano avveduti del magnifico avvenire che sta loro aperto dinanzi. Già da qualche anno alcuni di quegli egregi cittadini si sono riuniti in una Società, in un Comitato promotore e divulgatore delle industrie di Terni9, per ricordare agl’Italiani che esiste una città chiamata Terni, far conoscere i tesori industriali che vi si trovano, diffondere l’istruzione tecnica nella classe operaia, promuovere esposizioni industriali. Tutte queste sono egregie cose, ma non bastano; non servono le parole, i mezzi morali, quando non vengono in appoggio i mezzi materiali, i capitali. E grossi capitali sonvi a Terni e soprattutto nella vicinissima Rieti, ma a molti di essi manca la vita, l’intelligenza. Supplisca Terni collo spirito d’associazione delle masse. L’Inghilterra, il Belgio, gli Stati Uniti vantano una potente attività economica appunto perché poderosamente associati. Ma conviene affrettarsi, poiché, se presto o tardi i manopolii naturali finiscono per trionfare sull’intrigo e sulla prepotenza, non è men vero però che per lunghissimi periodi avviene del commercio ciò che della vita: Chi tardi arriva, male alloggia. Affrettiamoci prima che l’attività estera venga e stabilirsi a nostro scorno su queste sponde; affrettatevi Ternani, voi siete nella più bella condizione che dar si possa ad un popolo attivo, ricco, intraprendente, desideroso di onorar se medesimo e la patria!
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Il Comitato era sorto nel 1868.
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VI. Grandi vantaggi che la sicurezza naturale di Val Ternana offre all’industria in genere, a quella militare in specie Se si vorrà provvedere efficacemente alla difesa di uno Stato, bisognerà veder modo di raccogliere in luogo sicuro gli arsenali, perché possano, raddoppiando di sforzi durante la lotta, concorrere a prolungarla. (Brignone, Sulla difesa degli Stati)
Il vecchio e celebre detto di Montecuccoli, che si riferisce essenzialmente al bisogno che hanno gli Stati di essere forti militarmente per poter essere potenti civilmente, si applica egregiamente anche al bisogno che hanno le industrie ed i commerci per poter prosperare, di trovarsi in luogo sicuro, sia naturalmente, sia artificialmente, cioè, per mezzo delle armi e delle fortificazioni. Per convincersi, basterebbe osservare dove gli AngloSassoni sulle coste d’America e gli antichi abitatori delle coste Fenicie, questi due popoli i più industriali e commerciali che ricordi la storia, stabilirono i focolari della loro attività. Ma se questo è un bisogno per le industrie in genere, esso diventa una necessità per l’industria militare. – L’Inghilterra che per la prima ha dato l’esempio di un grande accentramento di arsenali e stabilimenti militari colla piazza di Woolwich, decise nel 1860 il trasporto di questo centro dell’industria militare a CannockChase appunto per le non sufficienti guarentigie di sicurezza che offriva Woolwich in tempo di guerra: “Outre les questions (dice Brialmont nel suo lavoro Système de défense de l’Angleterre 1860) qui concernent plus spécialement la défense du royaume, les commissaires ont examiné quelle localité serait la plus convenable pour un grand arsenal à l’intèrieur du pays. Ils ont donné la préférence à Cannock-Chase, plateau élevé du Straffordshir, situé à proximité des distrects manufacturiers de Wolverhampton, de Walsall et de Birmingham. Cette position est parfaitement justifiée. La concentration des arsenaux et des établissements militaires à Woolwich, port accessibile et facile à incendier, présente en effet des dangers qui n’ont pu échapper à l’œil vigilant des généraux anglais. La Commission d’enquête dit avec raison, qu’il sérait difficile d’exagérer les conséquences de la perte de Woolwich ou même de
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l’interruption de ses travaux pendant la guerre.” Mentre i commissari per la difesa d’Inghilterra emettevano così assennati giudizi, noi iniziavamo, dopo la guerra del 185910, la costruzione del Polverificio di Fossano, vastissimo e fra i più perfetti d’Europa, è vero, ma assolutamente indifeso ed esposto ai primi attacchi della Francia; mentre il centro di gravità d’Italia andava gradatamente discendendo dal Po sull’Appennino, si completavano, si munivano invece di nuove macchine, si rifacevano a nuovo gli stabilimenti militari del Piemonte, e per compensare Torino dei danni del trasporto della Capitale se ne faceva la sede della nostra industria militare; ancora nel 1864, cosa veramente incredibile, si costruiva a Torino a nuovo il grande opificio per tutte le manifatture militari, ond’è che non uno dei nostri molti opifici che si trovano disseminati dalle Alpi al Vesuvio si trova in posizione, non dico sicura, ma almeno coperta. E quasi non bastasse il disseminamento, ancora oggidì non sentiamo forse uomini tecnici proporre la costruzione di nuovi stabilmenti militari ad Altamura, a Foligno, a Tivoli, a Lucca; località tutte naturalmente scoperte ed esposte ai primi attacchi. Noi domandiamo come mai si possono additare tali località quando si ha a propria disposizione una posizione come Val Ternana; domandiamo quando si penserà seriamente a studiare questo urgente problema dei nostri stabilimenti militari e non alla spicciolata, ma nel suo complesso, in tutta la sua vastità. Le campagne del 1859 e 186611 hanno contribuito non poco a falsare le idee circa la opportuna dislocazione degli stabilimenti militari, specialmente sotto il rapporto della loro sicurezza. Quelle campagne avevano indotti molti militari a credere che d’ora in avanti le lotte fra due potenze si sarebbero ristrette ad uno sforzo potente e complessivo in una sola o poche battaglie, dopo le quali il vinto avrebbe cercato di ottenere le migliori condizioni possibili di pace. In base a questo concetto si riteneva poco o nulla l’utile che si poteva ritrarre dagli arsenali ed opifici durante il breve periodo della lotta; si riteneva si dovesse fare esclusivamente assegnamento sul materiale preparato in tempo di pace e raccolto nei magazzini, e quindi non essere necessario che gli arsenali fossero in luogo sicuro, ma solo i magazzini di materiale confezionato.
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Seconda guerra d’Indipendenza. Seconda e Terza guerra d’Indipendenza.
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L’esempio dell’ultima guerra12 e le immense fabbricazioni fatte in Francia negli ultimi mesi in mezzo ad una guerra la più disastrosa, faranno ragione di questi giudizi arrischiati ed indurranno gli Stati in genere, ma specialmente quelli non molto industriali, come è il nostro a riunire gli stabilimenti per la conservazione non solo, ma quelli eziandio per la fabbricazione del materiale da guerra in località sicura per natura o per arte, affinché, lo ripeto, questa fabbricazione possa continuare anche durante le ostilità per rinnovare il materiale consumato e così protrarre la lotta. Foligno ai piedi della cresta Appennina è la chiave di Val d’Umbra ed alto Topino e sotto l’aspetto strategico, economico, logistico, posizione certamente di molta importanza. È là che s’incontrano le grandi correnti commerciali: quella longitudinale che parte da Firenze, quella trasversale che parte d’Ancona; là fertili e ricche pianure; là facili numerose ed importanti comunicazioni stradali. Un grosso esercito potrebbe essere rapidamente concentrato, alimentato a Foligno, ma in vano vi cercherebbe una valida difesa sul campo tattico. Foligno è posizione naturalmente aperta, indifendibile tatticamente, poi non possiede forza motrice. Come mai si può proporla dunque all’industria militare? Noi auguriamo al Topino tant’acqua quanta ne capiva nei prischi tempi, allorché le pianure Eugubine si trovavano coperte dell’acque e costituivano parte del suo bacino, poiché i Folignati sono gente attiva ed industriosa; ma ora le acque del Topino bastano appena all’irrigazione, ed agli opifici delle piccole industrie private di carta, cera, seta, panni, saponi, zucchero, che sono in Foligno. Regolando meglio quelle acque, si potrebbero trarre maggiori vantaggi per l’irrigazione ed anche per l’industrie; ma, lo ripeto, per potenza, rapidità, costanza di corso, il Topino è torrente e non un fiume industriale, e Foligno non è posizione favorevole al concentramento dell’industria militare. Cosa si dovrà dire poi di Altamura collocata all’estremità della penisola, lontana dalle linee ferroviarie, circondata da regioni poverissime in risorse economiche e mezzi di comunicazioni, lontanissima dai teatri decisivi del Po e della media Italia. Là vi è potenza tattica difensiva, ma manca l’acqua non per muovere macchine, ma per
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Guerra franco-prussiana (1870-1871).
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soddisfare la sete e provvedere alla nettezza degli abitanti. Appena si potrebbe scusare un castellano del Medio Evo che avesse rivolta la sua attenzione all’altipiano di Altamura per costruirvi una sua rocca feudale; come mai si può concepire un arsenale ad Altamura? E del resto non si trova in vicinanza la posizione magnifica di Taranto? Lucca è cinta da vecchie fortificazioni, la sua pianura è serrata tutt’all’intorno da monti e dal lago di Bientina; ma quelle fortificazioni sono dominate a poca distanza e l’anfiteatro di monti, accessibile ovunque, richiederebbe un centinaio di mila uomini per essere difeso. Le condizioni logistiche ed idrauliche di Lucca, senza essere ben inteso all’altezza di quelle di Terni, sono abbastanza soddisfacenti; ma non così è della sua sicurezza strategica. Chi considera che le spiagge aperte di Viareggio e Livorno sono quelle che offrono maggiori risorse agli attacchi della Francia, sia per le loro vicinanze alla loro base offensiva marittima di Corsica ed al gruppo delle isole d’Elba, che sono come grandi pile di un ponte naturale gettato tra la Corsica e la Toscana; sia per la ricchezza delle campagne e dei centri di popolazione della bassa e media Val d’Arno; sia per la possibilità che offrono all’invasore di attaccare per terra l’arsenale della Spezia e soprattutto coordinare la sua azione con le truppe operanti sul Po, girare Alessandria, Piacenza, Stradella, attaccare Bologna alle spalle, separare la Valle del Po dall’Italia pensinsulare, dominare insomma tutto il paese: chi considera tutto ciò, non potrà fare a mano di rigettare l’idea di stabilire arsenali a Lucca, tanto più che esiste in vicinanza quello della Spezia. Se si vogliono dare dei compensi alla Toscana per il trasporto della Capitale si votino in Parlamento dei milioni, si faccia tutto quel che si vuole; ma non si comprometta la sicurezza delle nostre istituzioni militari. Quanto a Tivoli accennammo già alla sua potenza idraulica meccanica, ma questa località non possiede tutte le altre condizioni richieste dall’industria militare. Costruendo a Tivoli i nostri stabilimenti militari, noi lavoreremmo per il nemico precisamente come a Lucca. Varrebbe molto meglio stabilire questi stabilimenti addirittura in Roma, dove c’è forza idraulica in abbondanza, facilità di comunicazioni d’ogni specie, sicurezza militare, appoggio nell’industria privata. E allora meglio che Foligno, Lucca, Altamura, Tivoli, mi pare si presterebbe Napoli, il maggior centro industriale, commerciale, economico, di vitalità terrestre marittima dell’Italia peninsolare, dotato già di un arsenale marittimo che comunica per mezzo di numerose strade e
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ferrovie colle importanti e vicine località industriali di Isola di Sora, Ceprano, di Piedimonte d’Alife, di Sarno; località tutte dotate di grande forza idraulica ed industria privata: inoltre vicina a Caserta colle sue cascate, a Scafati col suo polverificio, a Torre Annunziata colla sua fabbrica d’armi, a Castellamare col suo bacino marittimo di costruzione, a Capua coi suoi magazzini di materiale da guerra. E meglio ancora di Napoli, Arezzo collocata in un vasto e fertile bacino tutto chiuso all’intorno, là dove la Penisola si annoda colla valle del Po, e dove l’Arno eseguisce la sua brusca voltata. Ma ritorniamo alla posizione di Val Ternana. Vari sono i dati che concorrono a costituire la sicurezza di una posizione in genere, e sono: la potenza tattica della posizione stessa; gli ostacoli che il nemico dovrebbe superare per arrivare a questa posizione; la distanza di questa posizione dalle frontiere minacciate; la natura e la potenza degli attacchi nemici; il valore delle posizioni complementari; la sicurezza delle linee di ritirata. Noi esamineremo l’un dopo l’altro tutti questi argomenti di potenza difensiva, riferendoli a Val Ternana.
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VII. Potenza difensiva in Val Ternana È difficile immaginare una posizione che offra risorse naturali, difensive, uguali a quelle di Val Ternana, ed è veramente una fortuna che nelle nostre condizioni finanziarie siavi nella penisola una posizione, già per natura difesa e sicura, così mirabilmente disposta per servire da focolare di difesa e da emporio industriale all’Italia peninsolare. I monti di Narni, San Pancrazio, Macchialunga, Piediluco, Appecano, Torre Maggiore, Piglia, ed Arnata costituiscono come una vasta muraglia che cinge tutto attorno Val Ternana, attraverso la quale, serrate in lunghe ed angustissime strette, corrono le importanti strade che da ogni parte si diramano nella Penisola. Su questa fascia di terreno montuoso che cinge Terni il nemico non può stabilirsi, muovere, spiegare le sue forze, impiegare la sua cavalleria ed artiglieria, trarre viveri; di là egli trovasi imponente ad accerchiare, bloccare questa regione per la sua vastità, prenderla per fame, per le sue risorse economiche proprie, mentre la difesa si trova ad avere a difesa un magnifico giuoco di centralità offensiva, difensiva in tutte le direzioni. Terni, Narni, S. Gemini formano le pile, i cardini di questa vasta posizione tattica strategica sulla Nera, collegati tra loro da buonissime strade, a 10 chilometri di distanza l’un dall’altro, battono coi loro fuochi tutta la centrale pianura. Il fronte TerniS. Gemini che guarda verso il nord, in Val d’Umbra e Val Tevere, è il più forte formato da monti altissimi, rocciosi, impraticabili. Gli altri due, e specialmente quello di Narni-Terni, sono di meno difficile accesso, e però vorrebbero essere rafforzati con qualche opera di difesa eventuale. Quelle montagne coltivate ad oliveti si prestano egregiamente alla costruzione di fortificazioni passeggere, ad eseguire le quali, mi sembra si potrebbero incaricare le truppe stesse delle divisioni circostanti di Perugia, Roma, Chieti, in occasione di grandi manovre, colle quali si esperimenterebbe praticamente il valore strategico tattico di Val Ternana. S’impiegarono più volte le truppe a costruire strade, ponti, e non sappiamo veramente capire perché non le si possano impiegare a costrurre fortificazioni passeggere, oggidì specialmente che ciò forma una parte indispensabile delle esercitazioni e delle istruzioni di guerra. Non hanno parlato forse chiaramente i campi di guerra di Sadowa, nel 1866; non parlano forse ancora eloquentemente quelli sulle alture di
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Parigi e di Metz, dove non una zolla di terreno è stata risparmiata dalla zappa e dalla pala dei fantaccini tedeschi e francesi? Ecco dunque una buona occasione per imparare approfittando dell’esperienza altrui, giovando a noi medesimi ed alle casse dello Stato. Il sistema difensivo di Val Ternana è semplice e chiaramente tracciato dal fondamento geografico. Terni colle alture a nord di Colle dell’Oro costituisce il centro del sistema. Da quest’altura si ha dominio assoluto sugli sbocchi delle valli di Stroncone, Nera, Serra e Topino, e delle strade carreggiabili che da Terni vanno a S. Gemini, Cesi, Narni, Stroncone, Spoleto ed alle Marmore per la destra e sinistra della Nera; sulle linee ferroviarie che vanno a Spoleto e Stroncone, sulle due grandi mulattiere che vanno a Papigno ed in Val Serra, si dominano tutte le alture che circondano Terni ad oriente e mezzogiorno, fra le quali vorrebbero essere specialmente difese quelle di Papigno ed Eremita; mentre non si ha nulla a temere delle retrostanti montagne inaccessibili. Per coprire e collegare Terni colle alture di Colle dell’Oro, si prestano egregiamente i corsi d’acqua di Nera, Serra e Sersimone. Si otterrebbe così una vasta posizione, nel centro della quale si avrebbe la stazione ferroviaria ed una vasta pianura adattissima al collocamento di stabilimenti e magazzini ed accampamenti. Mentre di là, da una parte si potrebbe battere il nemico al suo sbocco nella pianura, dall’altra si potrebbe operare su ambedue le sponde della Nera, ed attaccare il nemico separatamene alle belle posizioni di Collina di Castelchiaro e Colleluna. Le posizioni avanzate di Terni, che dovrebbero essere occupate e rafforzate, sono: 1° La stretta angustissima al lago di Piediluco, attraversata da due grandi strade rotabili, alle quali fanno capo tutte le comunicazioni del Reatino e di Leonessa, per coprire la cascata delle Marmore, la sede delle grandi opere idrauliche della forza motrice degli stabilimenti di Terni. Questa gola si difende con pochissime forze senza bisogno di fortificazioni, e si allarga con una semplice diga a valle del lago; 2° Le alture di Montefranco, dalla quale si dominano le grandi strade carrozzabili, la Flamorina e la Nerina unite da una buona mulattiera, e si copre la cascata delle Marmore coi rispettivi stabilimenti. Anche questa posizione è già fortissima per natura e non richiede fortificazioni; 3° L’altura di Stroncone, dalla quale si domina Val di Aja che mette a Narni, e quella di Stroncone che scende su Terni, la grande via di
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Poggio Mirteto, cinque grandi vie mulattiere che si diramano in ogni verso, e la ferrovia di Terni-Rieti che dovrà guadagnare l’altipiano di Macchialunga salendo Val di Stroncone. La vasta posizione di Stroncone vuol essere rafforzata con opere di difesa; 4° La posizione di Narni, al principio dell’angustissima stretta omonima, nella quale si fanno strada nella roccia la linea ferroviaria e due vie mulattiere sulle due sponde del fiume. Mettono inoltre capo a Narni le grandi vie di Civita-Castellana, di Calvi, di Amelia, di Terni e di S. Gemini. Le quali si battono in gran parte dal piano, a cui appoggiansi i mestosi avanzi del ponte di Augusto. Questa posizione di Narni, coperta ad occidente dai difficilissimi monti di Arnata, Santa Croce, Itieli, ad oriente dalla Nera, è fortissima per natura; 5° Infine la bellissima posizione di S. Gemini, innanzi alla quale si discende a semicerchio una linea di colli che ha il suo centro a Fonte Acidola, da dove si dipartono le grandi vie di Todi, Bevagna, Narni, Terni, e la via mulattiera al gran castello di Cesi; ed i fianchi appoggiati alle rocce inaccessibili di Torre Maggiore da una parte, all’altura di San Martino dall’altra. Anche questa posizione è per natura fortissima. Il ridotto centrale Terni-Colle d’Oro comunica con queste cinque posizioni avanzate a otto o dieci chilometri di distanza per mezzo di eccellenti e numerose strade. Tenendo calcolo della potenza difensiva massima di ciascuna di quelle posizioni, è possibile di poter difendere efficacemente il campo Ternano con una divisione contro attacchi parziali di tre ed anche di quattro divisioni. Con 40,000-50,000 uomini al più, e non dei più agguerriti, si può resistere ad un attacco generale qualsiasi, vietare l’entrata nelle gole Ternane ad un esercito forte quanto quello di Serse, abile quanto quello di Moltke.13
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Helmuth Karl Bernhard von Moltke, generale prussiano che accerchiò l’armata francese a Metz (ottobre 1870).
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VIII. Ostacoli naturali avanzati che coprono Val Ternana Quanto agli ostacoli che il nemico dovrebbe superare per giungere in Val Ternana, essi sono gravissimi e di diversa natura. Anzitutto le coste e le zone litoranee che fiancheggiano Terni sull’Adriatico e sul Tirreno, di difficile approdo, povere in risorse economiche e vie di comunicazione verso l’interno della Penisola, sfornite di quelle isole avanzate che tanto facilitano in altre regioni i movimenti offensivi del nemico, servendo come da basi alla sua flotta pei movimenti offensivi contro il continente. Quindi, mentre da una parte il vulcanismo ha innalzato la barriera dell’ant’Appennino, seminato da laghi e posizioni fortissime, al cui piede ha fatto correre il Tevere da Todi a Poggio Mirteto, largo, profondo, giammai guadabile, e gli uomini hanno elevato la nonmeno potente barriera della malaria; dall’altra gli sconvolgimenti fisici hanno siffattamente rotto, elevato l’Appennino da renderlo completamente inaccessibile. È là che si distende la catena dei monti Sibillini, di Leonessa e del gran Sasso d’Italia, le cui punte bianche, alte e rocciose, drizzandosi al cielo, sembrano voler imitare le Alpi. È quella la regione più elevata, povera, selvaggia di tutto l’Appennino dell’Italia peninsolare. Incastrata quasi diremo tra queste serie barriere naturali, Val Ternana non è accessibile che per le aperture comprese al nord tra Todi e Spoleto, al sud tra Rieti e l’angolo del Tevere a Poggio Mirteto; aperture che hanno una larghezza di soli 25 chilometri circa, ingombre da monti difficili, quali sono quelli di Monte Martano da una parte, di Monte Cascia dall’altra, ed ove si rinvengono in gran copia posizioni fortissime. E però anche sotto il lato della sicurezza strategica, il campo di Val Ternana non potrebbe trovarsi in più favorevoli condizioni.
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IX. Posizione di Val Ternana relativamente alle frontiere dell’Italia Abbiamo già accennato alle condizioni di Val Ternana nel sistema generale di difesa dello Stato, Val Ternana rappresenta il vero centro di figura dell’Italia, infatti se ben si osserva, le coste della Sardegna, Corsica, Sicilia, quelle delle Calabrie, della Dalmazia infine la grande cerchia delle Alpi, segnano una vasta circonferenza al centro della quale sta Val Ternana. Val Ternana trovasi ad ugual distanza delle due frontiere marittime sull’Adriatico o sul Tirreno, ed è egregiamente collocata per appoggiare la difesa del Napoletano delle Isole e corrispondere nello stesso tempo col sistema difensivo della Valle del Po e specialmente con Bologna, ridotto generale di difesa dello Stato. Le magnifiche condizioni logistiche di Val Ternana fanno sì che questa centralità non rimanga soltanto nel campo geografico, ma essenzialmente si faccia sentire pei suoi effetti pratici. Qualunque altra posizione scelta su uno dei due versanti della Penisola riuscirebbe a svantaggio della difesa dell’altro versante; qualunque punto scelto più a nord od a sud da Terni riuscirebbe a svantaggio o della difesa del Napoletano o della sicurezza o facilità delle comunicazioni con la Valle del Po. Terni si trova inoltre egregiamente situata per proteggere Roma, come dimostreremo in seguito, soddisfacendo così anche alla condizione richiesta dai grandi perni di manovra, cioè di quella di trovarsi più vicini alle frontiere ed ai punti più potentemente minacciati, onde i soccorsi possano essere pronti ed efficaci dove il bisogno è più grave e minaccioso. Il grande emporio industriale di Terni si trova inoltre egregiamente situato per corrispondere coll’arsenale marittimo di Taranto e coi due grandi arsenali marittimi della Valle del Po, cioè di Spezia e Venezia, sia per via di mare per mezzo dei porti di Ancona e Civitavecchia ad 8 ore di ferrovia da Terni, sia per via di terra per mezzo delle linee ferroviarie, litoranee e centrali nella Penisola.
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X. Potenza degli attacchi di cui può essere minacciata Val Ternana Se consideriamo la straordinaria importanza ed arrischiatezza della nostra posizione marittima, la grande nostra missione sul Mediterraneo, le innumerevoli occasioni di lotte che si presenteranno in avvenire su questo grande teatro d’attività: se ci guardiano d’attorno e consideriamo l’attitudine di Francia, d’Austria e d’Inghilterra che occupano posizioni così vantaggiose sui nostri mari a vista d’occhio dalle nostre coste; se consideriamo la loro potenza marittima e la confrontiamo colla nostra; se osserviamo quello che hanno fatto altri Stati in condizioni assai meno gravi delle nostre; se ci ricordiamo che anzitutto noi siamo un popolo marinaio, che le nostre maggiori glorie passate e speranze avvenire sono sul mare; se consideriamo tutto, vediamo che qualche cosa si deve pur temere per l’Italia peninsolare, e che essa è assai meno invulnerabile e sicura di quello che molti credono. Un vecchio ed umiliante pregiudizio s’era fatto strada tra gli Italiani, e per secoli e secoli aveva acquistato forza d’assioma, ed era quello che, perduta la Valle del Po, l’Italia fosse vinta. Ma quegli Italiani e quelli che ora dividono ancora questa opinione dimenticano probabilmente le più belle pagine della nostra storia antica: dimenticano i molti invasori e soprattutto il grande Cartaginese che, vincitore sul Po, lottò aspramente e soccombette nell’Italia peninsolare; gli altri che, vinti sul Tevere, dovettero passare le Alpi. Allora era dalla Penisola, da Roma che si vinceva la valle del Po, l’Italia tutta. Certamente che per molti secoli si vinse l’Italia dai campi di Mincio, Adige e Po, poiché là si combatteva, si lottava virilmente; nella Penisola invece si correva più o meno velocemente alla Carlo VIII: certamente che anche oggidì e fino a che la Penisola non avrà sviluppato le sue forze e le immense risorse d’ogni genere, essa verrà rimorchiata anche militarmente dalla Valle del Po; ma è questa una questione di popoli e non di regioni, questione sociale e non militare. Un altro non meno erroneo pregiudizio si fa strada oggidì, ed è la credenza che nelle odierne condizioni di guerra gli attacchi di costa, gli sbarchi, i movimenti offensivi marittimi siano imprese poco temibili. Si citano le difficoltà incontrate nella guerra di Crimea, si
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fanno dei paragoni, si tirano delle conseguenze e, a quel che pare, non si pensa che un abisso separa le condizioni, in cui si trovavano allora Francia-Inghilterra contro Russia dalle nostre rispetto ad Austria-Inghilterra e soprattutto Francia. L’opinione di costoro sull’invulnerabilità delle coste e sull’efficacia degli ostacoli marittimi non era, né è certamente divisa dalla Prussia, che si affatica da gran pezzo a chiudere le sue coste, quantunque per natura quasi inaccessibili e nemmeno a quel che pare dall’Inghilterra, che pur si trova in condizioni molto meno gravi delle nostre. Il duca di Wellington, protestando energicamente contro ciò che egli chiamava incuria del Governo e colpevole indifferenza dei concittadini, scriveva fin dal 9 gennaio 1847 al comandante del genio per la difesa dell’Inghilterra: “Io divido completamente le vostre vedute sul pericolo della nostra posizione. Sono soprattutto penetrato della certezza di un disastro se non prenderemo per tempo le misure necessarie alla nostra difesa, e della vergogna indelebile che ricadrà sopra di noi... Se gli sforzi della flotta non bastano alla nostra difesa, io non rispondo della sicurezza dell’Inghilterra durante otto giorni”. La Commissione per la difesa d’Inghilterra stata nominata nel 1859 riconobbe pure la possibilità di una discesa sulle coste inglesi, ed anzi apertamente dichiarò che né la flotta, né l’esercito permanente, né le forze dei volontari, né questi tre elementi riuniti insieme potevano bastare ad assicurare la patria da un’invasione straniera; e però concludeva dichiarando di assoluta necessità lo stabilimento di un sistema generale di difesa. Ed infatti nel breve spazio di 10 anni l’Europa vide sorgere da quelle coste ampie ed imponenti opere di fortificazione. Nella sola parte che guarda la Francia si contano già le seguenti grandi piazze (vedi Mettheilungen über gegenstande des artillerie und Jenie-Wenses die Befestogungen in England Wales and Irland, bis zu end des Jahres 1869): Portsmuth, Wight, Plymouth, Portland, Dover, Pembroche, Milford, Cork, Gravesend, Chatham, Medway. E ancora al presente gli Inglesi stanno lavorando per la propria difesa, come ne fanno fede le torpedini di nuovo sistema state commissionate in questi giorni agli stabilimenti industriali di Germania. Ciò che tante distinte Autorità hanno detto dell’Inghilterra, a più forte ragione si applica a noi che ci troviamo in condizioni geografiche politiche assai più gravi, che abbiamo mari e coste indifesi. Per convincersene basta dare uno sguardo all’attitudine delle Potenze che ci stanno d’attorno.
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Sono note le aspirazioni della Francia sul Mediterraneo ed i costanti tentativi da essa fatti per realizzare il programma di Luigi XIV. Le imprese del grande Napoleone in Egitto, nella Siria, nell’Italia peninsolare, a Malta, in Corsica, nella Spagna; dipoi le spedizioni a Roma, a Civitavecchia, ad Algeri, a Tunisi, al Marocco; la guerra di Crimea, e quella stessa d’Italia, il taglio dell’Istmo di Suez, l’apertura del gran canale tra il Mediterraneo e l’Atlantico14, l’incremento dato alle forze navali, l’organizzazione del grande porto militare di Tolone, ecc., tutti questi non sono che sforzi tendenti al medesimo oggettivo, variazioni di uno stesso motivo: il Mediterraneo lago francese. I disastri subiti nell’ultima guerra non verranno certamente ad arrestare un movimento fatale e spegnere la sete ardente, il bisogno naturale di questo nostro irrequieto e turbolento vicino, di invadere, di dominare. Chiuse le vie del Reno, sua secolare aspirazione, rinserrato in una cerchia di ferro di grandi popoli, da grandi ostacoli naturali ed artificiali, esso sentirà in avvenire più che mai il bisogno di espandersi sul Mediterraneo, ed allora chi avrà meno a rallegrarsi saremo noi, per la nostra importantissima posizione ed i molteplici punti di contatto che abbiamo con esso sia su terra che su mare. L’acquisto di Nizza e Savoia ha avvantaggiato grandemente il suo problema d’invasione terrestre; la Corsica è per esso una vantaggiosissima base avanzata di Tolone, dalla quale potrà minacciare contemporaneamente tutte le nostre coste da Palermo a Savona. Non dobbiamo dimenticare che la Francia, oltre ad uno dei più poderosi navigli da guerra d’Europa, possiede 80 bastimenti di trasporto che potrebbero al bisogno lanciare più di 40,000 uomini e 12,000 cavalli d’un sol fiato sulle nostre coste ed in pochi giorni coll’ajuto della sua marina mercantile un centinajo di mille uomini. Chi può fissare un limite all’entusiasmo che susciterà in Francia, nel Belgio una crociata a Roma, al numero dei fanatici ed interessati che una sola impresa farà accorrere dall’orbe cattolico; non dimentichiamo per carità che la marina miltare della Francia è uscita intatta dall’ultima guerra ed anela di rivendicare sul Mediterraneo gli insuccessi sul mar Baltico; che l’esercito, la nazione intera, raffrena a stento il febbrile desiderio di rialzare il proprio onor militare civile, il proprio credito alle spalle nostre, lavan-
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Si riferisce allo Stretto di Gibilterra.
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do nelle acque del Po, di gloriosa memoria, le profonde ferite aperte dalla Germania. L’Austria pure accenna verso i lidi del Mediterraneo. Già ha iniziato il suo movimento discensivo lungo il Danubio; trasportando il centro di gravità dell’Impero da Vienna a Pest, dall’elemento tedesco a quello slavo. La questione d’Oriente compirà la grand’opera iniziata dal cannone di Sadowa.15 Intanto alle nostre aspirazioni sulla costa orientale dell’Adriatico essa ha risposto colla giornata di Lissa,16 ha risposto facendo di Trieste il primo porto commerciale dell’Adriatico; di Pola, Fiume, grandi porti militari, in cui tenere raccolta la piccola, ma gloriosa sua armata. Non è a credere che l’Austria rinuncerà tanto facilmente al possesso di quella magnifica costa, cantiere d’inesauribili risorse, officina ai più arditi marinai d’Europa, e senza della quale l’Impero sarebbe un corpo privo d’anima. Di là essa domina militarmente e commercialmente tutte le nostre coste dell’Adriatico, già infelicemente disposte dalla natura e completamente abbandonate dall’arte, mentre dall’Isonzo e dall’Alto Adige padroneggia la Valle del Po. Certamente che nelle condizioni attuali l’Austria non dispone del materiale necessario a grandi spedizioni, ma vi supplisce la distanza minima che separa le sue dalle nostre coste. Chi può valutare però l’importanza che potrà assumere in avvenire questa costa dalmata per l’Austria, per i popoli slavi? La Germania, potente per armi e civiltà, non è verosimile voglia starsi appartata dal Mediterraneo, da questo mare destinato dalla natura ad essere, in tutti i tempi, il convegno di tutti i popoli, il centro degli interessi generali, il focolare della civiltà. Chi potrà un dì trattenere questa soverchiante potenza al di là della Sava e dell’Inn e precludere le vie al Mediterraneo, se non altro al golfo di Trieste? Osservasi l’Inghilterra che, assisa sugli scogli di Gibilterra e di Aden, all’Istmo di Suez domina gli sbocchi, il centro del Mediterraneo. Da Malta essa padroneggia tutta la parte meridionale della nostra Penisola, di là essa vigila gelosa contro la formazione di ogni grande potenza marittima sul Mediterraneo. Da sola l’Inghilterra non potreb-
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Cfr. nota 4, infra p. 6. Cfr. nota 5, infra p. 6.
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be metterci in serio pericolo; ma chi può prevedere le future complicazioni politiche, le alleanze che quella Nazione potrà stringere in avvenire a danno di quel popolo fortunato, che ha avuto dalla natura il dominio del Mediterraneo? Da qualunque parte noi volgiamo lo sguardo, non vediamo che pericoli, che ora possiamo sino ad un certo punto misurare, ma che nessuno può assicurare quali potranno essere in avvenire. Ora per quanto grandi possano essere in avvenire questi pericoli, Val Ternana si troverà sempre in grado di soddisfare alle esigenze della difesa; poiché per investire completamente questa vasta regione fortificata non occorrono meno di 200,000 uomini, calcolata la linea d’investimento più ristretta possibile, che è quella segnata dai punti Orte, Torri, Rieti, Leonessa, Monte Leone, Scheggino, Spoleto, Todi, Baschi, i soli che presentino una linea continua di comunicazioni. Stringendo di più la linea, i vari corpi assedianti si troverebbero separati da gravi ostacoli, e per comunicare tra loro dovrebbero eseguire larghi movimenti, il che faciliterebbe in ogni caso le operazioni centrali della difesa.
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XI. Posizioni complementari di Val Ternana Restano finalmente ad esaminarsi le posizioni complementari di Val Ternana, che sono argomento non indifferente della sua forza tattica e della vastità del suo dominio strategico. Se la Prussia ha potuto facilmente accerchiare, isolare, fare il vuoto attorno delle grandi piazze di Parigi e Metz, lo dovette in parte anche alla posizione di quelle piazze completamente isolate, a non giusta portata strategica per potersi sostenere reciprocamente, lontane da ogni altro punto d’appoggio; ond’è che le sortite ed i movimenti controffensivi dei Francesi, per quanto eroici, riuscivano infruttuosi, come cariche fatte in aria e buche in acqua. Quanto diversa sarebbe stata la sorte di Metz se l’esercito di soccorso di Mac-Mahon avesse potuto basare l’ardita mossa su di una posizione forte per natura o per arte, e nel raggio strategico di Metz. Quanto diverse le sorti di Parigi e dell’intera campagna se le armate di Faidherbe, Chanzy, Bourbaky, e le altre minori avessero potuto appoggiarsi a forti posizioni ove organizzarsi, vettovagliarsi, essere a giusta portata per aiutare le sortite di Parigi ed attaccare con vantaggio la famosa cerchia delle linee di circonvallazione tedesche. Anche sotto questo aspetto Val Ternana si trova in assai vantaggiose condizioni, circondata com’è dalle tre posizioni di Roma, Aquila, Perugia, di un valore strategico assoluto di primissimo ordine, le due ultime anche fortissime posizioni per natura, tutte da due e tre marce di distanza da Val Ternana, collegate con essa da importanti linee idrografiche, grandi strade e linee ferroviarie, tutte e tre importantissimi centri economici e di vitalità dell’Italia peninsolare. La posizione di Perugia copre Terni contro le invasioni provenienti dal nord, e tendendole per mezzo di Vall’Umbra e Val Tevere le braccia, facilita i movimenti controffensivi della difesa; colle valli di Chiana-Tevere e coi passi importanti dell’Appennino che stanno schierati a semicerchio sul suo fianco, assicura a quella difesa la ritirata sull’Arno e Po pei due versanti dell’Appennino, e nelle sue convalli le offre una vantaggiosa posizione di ripiegamento dove ritentare la sorte delle armi. Aquila e Roma proteggono Terni contro le invasioni del sud e ne estendono l’azione su ambo i versanti dell’Appennino, dei quali riassumono tutte le comunicazioni.
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XII. Sicurezza delle comunicazioni di Val Ternana ed importanza delle posizioni di allacciamento colla Toscana e colla Valle del Po Al nord di Val Ternana la penisola italiana si rigonfia e fa petto sì che la sua larghezza all’altezza di Perugia diventa doppia di quella all’altezza di Isernia. Nel mezzo di questo rigonfiamento si trova scavata quella vasta conca che potrebbesi militarmente e geograficamente chiamare delle convalli perugine, protetta verso oriente dai difficili versanti della catena dell’Appennino ad occidente da quelli larghi dell’anti Appennino e sub Appennino. È in questa conca che la natura ha posto al sicuro le linee di comunicazioni di Val Ternana col Po, è a Perugia ch’essa ha affidata la guardia delle grandi vie coperte di Val Ternana, delle due Valli di Chiana e della Valle Topino. Un attacco marittimo diretto dal nemico contro le spiagge dell’Arno, della Toscana oltre ad incontrare serie difficoltà per la vicinanza della Spezia e di Bologna, i maggiori nostri empori di difesa marittima e terrestre, non comprometterebbe affatto le comunicazioni di Val Ternana con Valle del Po. Infatti supposto anche che al nemico sia riuscito di sbarcare con considerevoli forze, sforzare le strette dei Monti Albani, impossessarsi della grande linea Senese, scendere nei bacini di Firenze e delle due Chiane e stabilirvisi, alla difesa di Val Ternana resterebbero pur sempre aperte le moltissime linee che attraversano l’Appennino partendo da Perugia, Foligno, Spoleto, Terni, Rieti, e quindi conducono in Valle del Po risalendo il versante Adriatico. Se l’attacco proviene dall’Adriatico, evidentemente maggiori difficoltà si oppongono al nemico e maggiori vantaggi si offrono alla difesa. La sicurezza delle comunicazioni di Val Ternana spiccherà maggiormente quando si consideri il vantaggioso sistema di posizioni successive che si rinvengono nelle convalli Perugine e che costituiscono come una forte catena stesa dalla natura tra il Po e Val Ternana lungo l’asse della Penisola. Se dalle alture ternane ci affacciamo verso la Valle del Po tre fortissime posizioni si presentano subito sotto ai nostri piedi, là dove le Valli di Chiana, Tevere e Topino sembrano interrarsi nelle montagne della Nera e sono Spoleto, Todi, Orvieto,
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posizioni tattiche fortissime per natura, formanti sistema tra loro, assai opportunamente situate, sia per proteggere Val Ternana contro attacchi provenienti dal nord, come per assicurarne la ritirata verso quella parte. Pi첫 indietro si presenta il magnifico fronte difensivo a cavallo del Trasimeno, Perugia, Chiusi fortissimo per natura con i fianchi appoggiati a Radicofani e Fossato.
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XIII. Posizione di Perugia Posizione fortissima è quella delle alture di Perugia che ha la fronte coperta da numerosi corsi d’acqua la sinistra dal Tevere la destra dal Lago Trasimeno. (Biffart, Venedig und das Testungfierek)
Non v’ha città in Italia che abbia visto combattere tra le proprie mura tante e sì aspre guerre quanto Perugia, né v’ha popolo certamente che abbia sorpassato in valore ed attività guerresca questi nobili discendenti dei fieri Etruschi. Pelasgi, Umbri, Cartaginesi, Galli, Greci, Goti, Longobardi, Franchi, Spagnoli, Alemanni, avventurieri d’ogni fatta, Italiani di tutti i tempi, di tutte le province, vide Perugia accorrere successivamente ad insanguinare le sue terre, e gli ameni suoi colli coprirsi ognora di vaste e formidabili fortificazioni. – Dalle aspre guerre di rivendicazione d’indipendenza contro le genti pelasgiche, contro i Galli, contro Roma, dalla tragiche rappresentazioni di Annibale (battaglie del Trasimeno) di Augusto (serie di guerre coronate da un assedio di 6 mesi, dall’incendio e dalla distruzione di Perugia) di Narsete, Belisario, Totila, Agilulfo, l’imperatore Enrico, dei Baglioni, dei Fortebraccio, dei Farnesi, a quelle comiche dello Schneider e dello Schmidt, fu sempre nelle convalli perugine che l’Umbria vide decidere le proprie sorti. I cambiamenti politici, i progressi dell’arte della guerra anziché scemare hanno considerevolmente accresciuta l’importanza militare di Perugia; così è; i grandi teatri di guerra dati dalla natura non mutano per l’andar dei secoli, l’arte anzi perfezionandosi li rende più potenti. Le montagne che stanno al nord di Perugia comprese tra Val Tevere e Val Chiana per la loro aspra natura e per la mancanza di strade militari assicurano Perugia da quella parte da ogni grande attacco nemico. Dette valli mentre costituiscono due vantaggiosissimi canali per la ritirata di Perugia in Val Arno e Tevere sono altrettanto svantaggiose pel nemico come linee di operazioni offensive, correndo la prima per le famose strette di Torrita e del Trasimeno; la seconda per quelle non meno anguste di S. Madalena, Busco, S. Giovanni dove è appena lasciato il passo alle acque. D’onde riluce l’importanza del Trasimeno e delle alture di Arno per il completamento della potenza difensiva del campo di Perugia.
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Il Trasimeno, colle sue acque non solo inabilita materialmente una vastissima zona di terreno alle offese nemiche, ma indirettamente vieta anche tutta quella vasta pianura ondulata che è l’alta Val Caina e Nestore, posta tra il lago e la piazza di cui costituisce come gli approcci. Senza il Trasimeno un nemico proveniente dalla Chiana toscana o romana potrebbe indirizzare le sue offese direttamente contro il fronte sud-occidentale di Perugia che è il più vulnerabile, oppure girando per Capo Cavallo portarsi contro le posizioni di S. Marco. Questo movimento resta impossibilitato in presenza del lago e di una piazza organizzata e grande e mobile campo quale si converrebbe a Perugia. È egli supponibile che un esercito voglia dare oggi il ridicolo spettacolo di muovere all’attacco di una formidabile posizione, impegnandosi nella gola del Trasimeno? Tutta quella stretta, ma specialmente le posizione di Monte Gualandro, Passignano e di Magione sono tali da far fallire completamente ogni operazione offensiva nemica. Gli antichi romani per i primi s’incaricarono di esperimentare quelle posizioni. Le successive invasioni riconfermarono sì eloquentemente i duri insegnamenti di quella prova che nella campagna del 1860 il generale Fanti non credette cosa prudente l’arrischiare in quella stretta una delle colonne d’invasione contro Perugia malgrado il non cale in cui era tenuta dal nemico questa piazza, quella stretta e la nostra grande prevalenza di forze. All’alto bacino di Val Nestore non si potrebbe dunque accedere che da sud cioè per le vie di Città della Pieve e di Chiusi; ma anche in questo caso la manovra nemica non sarebbe men gravida di pericoli. Verso il 500 Belisario erasi bastato fortemente in Perugia con grosso nerbo di forze e con vasto trinceramento. Avuto notizia che l’esercito di Vitige erasi inconsideratamente spinto tra la piazza ed il lago non aspetta ch’ei s’avanza ad attaccarlo, ma scende ratto alla campagna lo spinge contro il lago, gli fa subire un disastro. Se Annibale ha potuto attraversare la regione in discorso e girare Perugia, lo dovette allo stato in cui si trovava allora questa città ed alla splendida vittoria riportata il giorno prima tra le gole del Trasimeno. E però, fintanto che la difesa a Perugia avrà a sua disposizione un corpo mobile da lanciare alla campagna, essa non avrà nulla a temere sull’alto Caina. Se la gola del Trasimeno non presenta risorsa alcuna all’offesa, essa costituisce invece un ottimo sbocco offensivo per la difesa. Un esercito in generale, un esercito d’invasione in particolare non potrebbe impunentemente rimontare e scendere Val Chiana, lasciandosi
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sulle comunicazioni quest’importante sbocco offensivo di Perugia. Quali sarebbero state le condizioni dell’esercito di Flaminio qualora invece di cercar battaglia nella piana di Tuoro, si fosse avanzato su Chiusi? Oggi da Perugia a Chiusi non v’è che brevissima gita ferroviaria e due tocchi di telegrafo basterebbero per annunciare il tempo opportuno al movimento. Quando Quinto Fabio mosse a debellare la potenza Etrusca diresse i suoi primi attacchi contro Perugia e non fu che dopo d’essersene impossessato ed esservi stabilito che si schiuse il passo in Val Chiana attraverso la posizione di Chiusi. Analogamente operarono tutti gli altri capitani che nelle varie epoche rimontarono e scesero la Chiana. Il Trasimeno è dunque un argomento importantissimo della posizione di Perugia; ne copre ed assicura il fianco occidentale e la grande linea di ritirata su Firenze; allontana la zona d’offesa del nemico, cui limita i movimenti giranti, estende ed assicura il raggio d’azione strategico della piazza. Non meno vantaggiose sono le condizioni strategiche di Perugia verso oriente, ed importanti gli ostacoli naturali che la coprono da quella parte. Quasichè non bastassero le fortissime posizioni montane dei contrafforti stessi Perugini che si rompono sul Tevere, le linee idrografiche del Tevere Chiascio e Jescio, la natura ha elevato da quella parte una serie di alture che costituiscono come un gran bastione elevantesi attraverso Vall’Umbria e Val Tevere.* La prima sbarrano di fronte ed alle sue acque non lasciano che un angustissimo scolo nel Tevere a Torgiano, la seconda rinserrano due volte a Busco e S. Giovanni le più vantaggiose posizioni difensive dell’alto Tevere, dalle sue origini fino a Todi.
* Ancora nel Medio Evo le basse regioni di Vall’Umbra, che ora fanno pompa della più rigogliosa vegetazione, non costituivano che un gran lago (probabilmente quello stesso Lacus-Umber dei Romani) nel cui mezzo sorgeva Bastia, per il che era detta Isola Romana. Paludose erano pure le regioni di Val Tevere a monte ed a valle di Ponte S. Giovanni, e però le colline di Brufa e Civitella erano realmente le pile di un ponte naturale pel quale venivano a contatto le genti dei due versanti di Vall’Umbra.
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La storia ci indica in qual conto siano sempre state tenute per la guerra coteste alture trasteverine di Perugia. Nelle innumerevoli invasioni che si scatenarono contro Perugia per le Valli Umbra e Tevere è lassù che l’animosa città vedeva ognora annidarsi il nemico, è su quella naturale fase d’attacco e d’investimento di Perugia che venne sempre a posarsi il grosso degli eserciti nemici, dalle legioni di Augusto e Belisario (nei loro mermorabili assedi) al corpo d’armata della Rocca (nell’investimento di Perugia 1860). Occupando quelle posizioni, tanto ricche in ogni risorsa tattica, l’attacco si trova ad avere fronte coperta dal Tevere il tergo del Chiascio, sulla destra ha le grandi linee di ritirata di Val Tevere, Gubbio, Val Chiascio, sulla sinistra Val Tevere e Vall’Umbria, mentre dietro di sé ha schierato a semicerchio i grandi passi Appennini di Scheggia, Fossato, Nocera, Colfiorito, che gli assicurano la ritirata sul versante Adriatico. Padroneggia di fronte tutta la posizione di Perugia, e può attaccarla sui fianchi e sulle comunicazioni girando per Val Nestore e Val Pierle e così impedire l’arrivo di soccorsi, privare la difesa delle straordinarie risorse economiche che offrono quelle grandi valli circumperugine. E però non è a meravigliarsi se i destini di Civitella e Brufa furono sempre legati a quell di Perugia; su quei colli ogni villaggio fu un forte, ogni posizione militare un campo di battaglia; così Torgiano vide combattere sotto le sue mura Fortebraccio, Ladislao re di Napoli, Pier Luigi Farnese, Ascanio Tartaglia, Attendolo Sforza. Civitella d’Arno fu cospicua città dell’antica confederazione Etrusca e deve alle guerre, agli incendi, lo stato suo attuale di piccolo villaggio. Infine non si combattè guerra a Perugia che non abbia fatto capo a Colle Strada, Brufa, Egidio, Ripa, S. Giovanni, Busco, località già tutte fortificate, ancora oggidì cinte da mura a guisa di cittadella ed i cui nomi suonano tristemente famosi nelle storie delle libertà perugine. La grande posizione militare di Perugia si deve ricercare appunto nel vasto triangolo strategico-tattico Perugia-Brufa-Civitella, posto a cavaliere del Tevere là dove fanno capo quasi tutte le valli e strade dell’Italia centrale. Da queste posizioni sul Tevere vi padroneggia direttamente Vall’Umbria, Val Tevere Frattina e Val Tevere Todina, le valli di Magione; indirettamente le due Chiane, la valle longitudinale di Topino o meglio il lungo altipiano che fiancheggia la cresta Appennina da Gubbio a Colfiorito, a oriente, a una marcia e però sotto il dominio strategico di Perugia. Vengono a rinchiudersi nel cam-
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po trincerato sul Tevere le grandi strade ad Arezzo, Città della Pieve, Todi, Foligno, Gubbio, Città di Castello, e le minori che per Pila e Marsciano fiancheggiano la destra del Tevere, per Bettona rimontano il Tossino ed il Chiascio, per Civitella d’Arno salgono l’altipiano di Gualdo, per Capo Cavallo accennano a Val Pierle. Ond’è che Perugia non solamente è il principal nodo stradale e la chiave dell’alto Tevere, ma è tra i primissimi centri di comunicazione dell’Italia con questo vantaggio sui pochi che lo avanzano, di dominare tatticamente tutte le dette strade che loro malgrado sono costrette ad arrampicarsi su quell’alto monte. Accampata sul Tevere nel magnifico triangolo Perugia, Brufa, Civitella, la difesa si trova a dominare tutto il vasto bacino interposto tra l’Appennino e l’Antiappennino. Coadiuvata da Foligno essa esplora il versante Adriatico attraverso i passi di Colfiorito, Nocera, Gualdo, Fossato, le grandi ed uniche porte che valicano l’Appennino, dalle convalli fiorentine a quelle aquilane, mentre colle posizioni complementari delle alture di Pozzuolo accenna al versante Mediterraneo e guarda la grande via Senese. Le alture di Pozzuolo che sorgono come una naturale barriera tra la Chiana Toscana e Romana appoggiate da una parte al lago di Perugia, dall’altra a quelli di Chiusi e Montepulciano costituiscono una posizione fortissima per natura, difendibile con poche forze, e formante diretto sistema con quella di Perugia. Il breve tronco ferroviario di Cortona Salarco fa di questa regione uno dei più importanti nodi ferroviari della Penisola. Per mezzo delle valli di Chiana, di Tevere e di Topino, Perugia padroneggia le grandi vie maestre interne per la ritirata sul Po mediante le altre Valli Umbra e di Tevere, pel Todino essa tende le braccia alla difesa di Terni, cui offre sui suoi colli una vantaggiosissima posizione di ripiegamento e di allacciamento col ridotto generale per la difesa dello Stato. In quest’ultima missione Perugia si trova vantaggiosamente sussidiata dalle retrostanti posizioni di Arezzo e di Città di Castello, che formano l’ultimo anello della catena che collega Val Ternana alle regioni dell’Arno e del Po. Come le due posizioni di Perugia e Pozzuolo così le due vaste conche di Arezzo e Città di Castello, rincantucciate sotto la cresta Appennina, fanno sistema tra loro e non richieggono fortificazioni per essere difese. Le strade che vi affluiscono molte ed importanti corrono attraverso lunghe ed angustissime strette; dalle alture di Torrita e della Maddalena
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si chiudono le valli del Tevere e Chiana non meno vantaggiosamente che a Perugia e Pozzuolo, si può arrestare l’inseguimento e dar agio alla difesa di riordinarsi e sfilare su Firenze e sulla Valle del Po. Vediamo ora quali sieno le risorse tattiche della posizione di Perugia. Gli ammassi dominanti di Brufa, Civitella, Perugia che costituiscono come i cardini della grande posizione militare sul Tevere accennata, si presentano in eccellenti condizioni tattiche di difesa e di dominio; sono collegati da buone strade e collocati ad una distanza pressoché uguale l’un l’altro di circa 2 ore di marcia, e 6-8000 metri di tiro, e da esse si batte efficacemente fin alla metà dei lati, dove stanno appunto gli abbassamenti di Colle Strada, S. Giovanni, e Busco e le angustissime e sole porte che danno accesso in Val Ceppi. Questa è la grande e naturale piazza d’armi interna di quel campo trincerato; quivi si rinvengono tutte le condizioni richieste a grandi e buoni accampamenti, abbondanza di acque, mitezza di linea, speditezza e facilità di movimenti nella pianura e verso le posizioni montane circostanti. Qui le forze idrauliche del Tevere, le maggiori ricchezze economiche del territorio perugino, qui i grandi nodi stradali di S. Giovanni, Busco, Colle Strada che l’attuale ferrovia e quella progettata di Val Tevere riuniranno l’uno all’altro. Brufa, detto Castel Grifone o Perugino, è vasta e buona posizione militare sotto ogni aspetto; occupa la sommità dell’alto monte che il Tevere, il Chiascio ed il Macchie circondano a guisa di penisola. Ottime sono le condizioni di dominio e le risorse tattiche di questa posizione, ottimo il giuoco di centralità difensiva che essa ha contro le Valli di Tevere ed Umbra. Per quest’ultimo oggettivo essa è sussidiata dalle posizioni laterali di Torgiano e Colle Strada, i due abbassamenti per cui comunicano tra di loro le due Valli sopraccennate e dove fanno capo importanti strade e linee idrografiche. La seconda è anche buona posizione tattica. Civitella d’Arno l’antica emula di Perugia (alla quale dava ancora ricovero nei tristi dì dell’incendio d’Augsta) è la chiave delle grandi strade a Città di Castello, Gubbio e Gualdo Tadino, e si presta in un colla posizione laterale di Pasqua ad una vantaggiosa difesa. Il terzo e principale appoggio del campo strategico sul Tevere è Perugia stessa, o meglio quel nocciuolo di monti che è compreso tra il Tevere, il Germa ed il Rio, sulla cui sommità si adagia con forma irregolarissima la capitale Umbra.
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Perugia possiede una cinta e qualche opera di fortificazione e possedeva ancora pochi anni or sono, quella fortezza Paolina che fu l’opera classica del celebre architetto militare S. Gallo e tra le più formidabili dei suoi tempi; e però fu grave sconsideratezza dei perugini l’avere abbattuto questa fortezza allorché la pace e la libertà erano ritornate sui lidi del Tevere, come fu segno di snervamento ed incapacità l’averla tollerata nei lunghi secoli del pericolo. All’architetto S. Gallo si deve pure un progetto di fortificazione dell’intera città, che ancora oggidì risponderebbe egregiamente alle esigenze dell’arte. Secondo quel progetto dovevano essere fortificate o raggruppate in un sol corpo di difesa, le posizioni di Monte S. Francesco, M. Morcino, M.S. Giuliano, Frontone, M.S. Costanzo, M. Trinità, M. Luce. Da M.S. Francesco si ha dominio assoluto su tutta la città, sulle alture di Casamanza e di S. Marco, sulle valli di Morcino, Rio, Marsciano. È questo il vero perno del versante nord-occidentale di Perugia ond’è che fu teatro attivissimo di lotte fra le quali le più recenti furono quelle dei Francesi-Perugini contro Aretini-Papalini nel 1798. Monte Morcino è un lungo altipiano a rapidissimi versanti, è come una grande batteria stabilita contro Perugia. La posizione del Frontone per le sue risorse tattiche, l’estesissimo orizzonte che domina, le numerose ed importanti vie che accoglie costituisce come un gran baluardo offensivo della Piazza di Perugia sul versante sud orientale; è là che si decisero ognora le sorti di Perugia dalle primitive lotte a quelle del 1859 e 60. La posizione di M. Luce infine è la chiave della difesa del fronte nord orientale di Perugia, si trova in ottime condizioni di dominio tutto all’intorno. Molte furono le opere di fortificazione che Perugia vide sorgere su questa altura, fra le quali tutte merita menzione la ciclopica fortezza di S. Severo stata costruita dal Gattapone nel 1300 a detta degli storici la più grande fortezza di quei tempi. A collegare la piazza di Perugia col centro della difesa di Val Ceppi servono egregiamente i cari contrafforti che da Perugia scendono al Tevere, sui quali vorrebbero essere fortificate le alture di Petronilla, Casaglia e Pieve di Campo, in avanti alle quali stanno le belle posizioni delle alture di S. Giovanni come avanguardia ed il Tevere come avanfosso. A 4 o 5 chilometri intorno alla descritta posizione militare di Perugia, spiccano distintamente alcune posizioni montane che costi-
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tuirebbero come la linea dei forti avanzati della posizione di Perugia, e sono: Pitigliano, S. Croce, M. Sasso, Lacugnano S. Martino. Più indietro e negli intervalli di quelle posizioni avanzate vorrebbero essere occupate le alture di Prepo, S. Marco (dov’è l’unico acquedotto di Perugia, ond’è che da S. Marco si vince Perugia) e di Casamanza. L’occupazione delle predette località avanzate non è indispensabile per la difesa delle posizioni più addossate a Perugia, ed anzi si deve evitare di estendersi troppo sui colli perugini, onde non essere obbligati a portare il centro di gravità del campo trincerato da Val Ceppi a Perugia, da una località tanto feconda di risorse per la difesa, ad un’altra, dove per la ristrettezza e difficoltà dei terreni, la condizione delle strade, la mancanza di risorse in acque ed accampamenti, le non sempre vantaggiose condizioni di dominio, il problema della difesa generale non potrebbe certamente avvantaggiare. In ogni caso, sia che si consideri questo campo trincerato intorno a Valle Ceppi a cavallo del Tevere, oppure esclusivamente sui colli perugini, sia che si considerino le alture di Brufa e Civitella, come parte integrante del campo trincerato, oppure come posizioni di eventuale occupazione, e quasi direi come una testa di ponte della posizione di Perugia sul Tevere; la vasta posizione militare formata dai vari colli circum-perugini acquista una grande importanza nel problema di difesa della penisola e del campo trincerato di Terni.
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XIV. Val Ternana chiave della difesa di Roma e magnifiche condizioni del fronte difensivo Val Ternana - Roma sul Tevere L’esercito difensore dalle sue posizioni sulla Nera con la destra alle montagne di Somma, la sinistra a Narni, copre le linee di ritirata sull’Abruzzo e protegge Roma con una posizione di fianco. (Mezzacapo, Studi topografici e strategici)
Basterebbe leggere le classiche pagine delle Memorie di Napoleone, là dove egli stesso descrive e critica la campagna nella Media Italia del 1798, per convincersi degli intimi ed importanti rapporti strategici che le posizioni sulla Nera hanno con quelle sul Basso Tevere. Noi vi ci fermeremo, onde mettere in evidenza tutta la grande importanza militare di Val Ternana e sciogliere nello stesso tempo il problema della difesa di Roma. Molti e pregevoli lavori sono usciti intorno alla difesa della Valle del Po, molto si è discusso su quel teatro di guerra già pur tanto studiato e ristudiato, trito e ritrito, commentato dai più grandi strategici e capitani dei tempi moderni; ma ben diversamente è avvenuto per l’Italia peninsolare. È la prima volta dagli antichi Romani in poi che l’Italia è nella posizione di studiare il problema della difesa di tutte queste terre peninsolari. Qui tutto è affare in materia di studi militari; è questo un nuovo, vasto e difficilissimo campo che sta aperto all’attività scientifica dei nostri militari. Ebbene non sappiamo davvero cosa dire della serietà degli studi stati fatti sull’Italia peninsolare, quando in essi tutti indistintamente vediamo completamente dimenticata, e nemmeno accennata, una posizione di così capitale importanza, come quella di Val Ternana; e si capisce come i pareri dovessero riuscire discordi sulla difesa di Roma e su quella dell’Italia peninsolare in generale, dal momento che non si riconobbe l’importanza di quella posizione, che è appunto la chiave della difesa di Roma e dell’Italia peninsolare. Affermano gli uni essere gravissimo errore il fortificar Roma, altri invece propongono di stabilirvi il ridotto generale di difesa dello Sta-
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to, altri infine prendono una via di mezzo, e cogli inconvenienti degli uni e degli altri propongono che Roma sia difesa in modo eventuale. Noi citeremo qui l’opinione del grande Napoleone, di colui che per tanto tempo dispose delle sorti d’Italia, ne fece e rifece a suo talento la carta, e col suo sguardo d’aquila, penetrando nelle intime regioni delle cose, seppe forse meglio d’ogni altro italiano valutare l’importanza militare, politica, marittima, economica del suo paese...: “D’autres sont conduits par l’histoire d’anciens souvenirs, à Rome. Ils disent que Rome est plus centrale, qu’elle est à la portée des trois grandes iles de Sicilie, de Sardaigne et de Corse; qu’elle est à la portée de Naples, la plus grande population de l’Italie; qu’elle est dans un juste éloignement de tous les points de la frontière attaquable, soit que l’ennemi se présente par la frontière francaise, la frontière suisse ou la frontière autrichenne Rome est à une distance de cent vingt à cent quarante lieues; que la frontière des Alpes forcée, elle est garantie par la frontière du Po, et enfin par la frontière des Apennins; que la France et l’Espagne sont de grandes puissances maritimes, qu’elles n’ont pas leur capitale placée dans un port; que Rome près des còtes de la Méditerranée et de l’Adriatique, est à même de pourvoir rapidement avec économie par l’Adriatique, et partant d’Ancone et de Venise, à l’approvisionnement et à la dèfense de la frontière de l’Isonzo et de l’Adige; que par le Tibre, Gênes et Villefranche, elle peut pourvoir aux besoins de la frontière du Var et des Aples Cottiennes; qu’elle est heureusement située pour l’inquiéter, par l’Adriatique et la Méditerranée, les francs d’une armée qui passerait le Po et s’engagerait dans l’Apennin sans être amitresse de la mer; que de Rome les depòts que contient un grande capitale pourraient être transportèes sur Naple et Tarante pour les soustraire à un ennemi vainqueur; qu’enfine Rome existe; qu’elle offre beaucoup plus de ressources pour le besoins d’une grande capitale qu’aucune ville du monde; qu’elle a surtout pour elle la magie et la noblesse de son nom. Nous pensons aussi, quoique’elle n’ait pas toutes le qualitès désirables, que Rome est, sans contredit, la Capitale que les Italiens choisiront un jour!” (Mémoir de Napoléon, tome III, pag. 160). Quando mezzo secolo fa Napoleone dal suo scoglio nel mezzo dell’Oceano dettava queste parole, egli divinizzava, e nessuno certamente avrebbe creduto che il suo vaticinio, il suo presentimento profetico dovesse così presto avverarsi. Roma non è ora che la capitale politica d’Italia, ma essa riunisce tutte le condizioni per diventare
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col tempo il vero centro di vitalità dell’Italia. Assisa sul Tevere e Teverone, che sono come due grandi braccia tese alle regioni dell’Arno, del Napolitano, che sono sorgenti e fattori inesauribili di prosperità agricola, industriale, commerciale; discosta dal mare quanto basta alla propria sicurezza, vicina quanto è necessario per fruire tutti i vantaggi di un grande centro marittimo; grande punto di concorso di strade e linee ferroviarie della Penisola là dove questa ristretta è fatta più angusta dalle aspre montagne dell’Abruzzo, al centro di quel gran golfo tirreno che ha il suo sfondo nella Penisola, i suoi fianchi nelle isole di Sicilia da una parte, di Malta, Corsica, Sardegna dall’altra, e che è come un ponte gettato sulla costa Africana; Roma circondata da terre frementi di vulcanica fertilità, che furono già le più ricche del mondo, con un cielo, con un clima che si presta alle più svariate colture, posseditrice di tanti monumenti quanto il mondo intero riunito non potrebbe vantare, che a migliaia e migliaia attraggono gli stranieri e quindi i capitali, la vita, e sono eterna guarentigia di lustro e prosperità scientifica, artistica; sintesi di tutta l’antica civiltà, culla di quella moderna e di quei principii cui l’umanità deve il suo risorgimento; Roma sorge degenere, è vero, ma col più splendido avvenire, nel mezzo, delle terre e dei mari italiani, al centro di quel Mediterraneo che fu già più volte suo lago e teatro di gloriose memorie, che è il maggior campo riservato alla nostra futura attività. Mano mano l’Italia andrà sviluppando i molteplici suoi germi di prosperità ed acquistando la coscienza della propria missione, e sempre più vedremo discendere il suo centro di gravità nella parte peninsolare e sui mari che la circondano, crescere la nostra potenza marittima, ed allora soltanto Roma diventerà la vera Capitale italiana. Non dobbiamo dimenticare che noi siamo anzitutto un popolo marinaio: “Aucune partie de l’Europe n’est située d’une manière aussi avantageuse que cette Pénisule pour devenir une grande puissance marittime. Pour exister, la première condition de cette monarchie sera d’être puissance marittime, afin de maintenir la suprématie sur ses iles et de défendre ses côtes” (Mèmoires de Napolèon). Allora il Tevere da Roma in giù ed il porto d’Anzio ridotti praticabili (come lo erano anticamente) anche alle grosse navi, sarà cosa agevole il coordinare la difesa terrestre con quella marittima e fare di Roma il vero focolare della difesa d’Italia. Ma crediamo sarebbe grave errore il fare ciò nelle attuali condizioni:
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1° Perché Roma non è il centro di vitalità dell’Italia, e la sua caduta non arrecherebbe agli interessi generali scossa maggiore di quella di Napoli o Milano o Firenze: è la sede, è vero, dei poteri politici, ma questi potranno all’occorrenza essere trasportati altrove senza perciò arrecare danno alle operazioni di guerra, come si è visto del resto in Francia, nell’ultima guerra, malgrado che quello sia un paese eminentemente centralizzato; 2° Perché le infelicissime condizioni economiche della campagna romana metterebbero la difesa di Roma nelle più tristi condizioni, obbligandola a vivere esclusivamente delle risorse della piazza; mentre l’invasore potrebbe trarre dalla sua base marittima, dalla sua flotta innanzi a Civitavecchia, Fiumicino, Porto d’Anzio e Terracina, risorse d’ogni genere. Tutto è a rigenerare in quei paesi, aria, terra, acqua, uomini; 3° Perché trovandosi la massa delle nostre forze impegnata sul Po, dove purtroppo si decidono ancora le sorti d’Italia, ed essendo noi debolissimi in mare per rispetto alla Francia, la difesa del vasto campo trincerato di Roma non potrebbe essere che debole e passiva, ed allora riuscirebbe facilmente al nemico di investirla, bloccarla, separarla dal rimanente d’Italia, rinserrandola tra la sua flotta ed il corpo di sbarco. Si grida alle necessità di ridurre ai minimi termini il campo di Verona per i pericoli che presenta alla difesa: ma Verona è coperta in sulla fronte da gravi ostacoli naturali ed artificiali; Verona è a tre marce forzate da Trento dove passerà, un giorno o l’altro, il nostro confine politico; Verona non è che un braccio del gran corpo difensivo che è tra l’Adige, il Mincio ed il Po; per tagliare, per separare Verona dal quadrilatero e potervisi stabilire, è giocoforza prendere Mantova, Peschiera, Legnano, battere l’esercito italiano in modo decisivo, compire insomma un’intera campagna: Roma invece sarebbe ad una marcia da coste non difese né dalla flotta, né da opere di fortificazione; sorgerebbe sola su di un fianco della Penisola, non potrebbe trarre appoggi né in viveri né in uomini da alcuna parte, e guarnita da forze insufficienti e non proporzionate alla sua vastità farebbe davvero molto probabilmente la fine di Metz; 4° Perché le vive passioni politiche ed i partiti opposti che sono, e per molto tempo forse saranno in Roma, potrebbero suscitare gravi disordini nel di dell’estremo pericolo o durante un assedio, a danno delle operazioni militari.
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Da tutto ciò che si è detto, risulta che se Roma potrà costituire un dì la località più opportuna per stabilire il focolare della nostra difesa, per ora e per molto tempo ancora non lo è e non lo sarà certamente. Quanto al coprire Roma soltanto in modo eventuale, noi osserveremo che questa sarebbe una grave imprudenza, che con ciò non si farebbe altro che attirare il nemico ed esporre quella città agli orrori di una guerra, di un assedio o di un bombardamento, senza un grande scopo. Fino a tanto che dureranno le attuali condizioni d’Italia e di Roma, il migliore ed unico modo di provvedere alla sicurezza della nostra Capitale sarà di tenersi forti, concentrati e mobili in Val Ternana, pronti a portarsi su Roma, rafforzata e difesa in modo eventuale. Che Val Ternana sia la posizione più acconcia per coprire Roma, è cosa che ci viene chiaramente indicata dalla storia, perché quella Valle fu in ogni tempo considerata come l’antemurale, il campo di guerra avanzato di Roma. Vitellio in guerra contro Vespasiano, battuto sul Po e costretto a ripiegarsi, per coprire Roma, si colloca dapprima allo sbocco di Val Ternana a Bevagna, quindi in Val Ternana stessa con 14 coorti e numerosa cavalleria, dove colle sorti delle sue armi decide quelle di Roma e della sua vita. Analogamente operava molto tempo prima Fabio contro le forze riunite degli Umbri e in quella stessa località allo sbocco di Val Ternana distruggeva la potenza militare di tutta la confederazione Umbra. Annibale vittorioso al Trasimeno marcia difilato su Roma, un esercito romano collocato allo sbocco di Val Ternana in Vall’Umbra a Spoleto lo obbliga a retrocedere, passare l’Appennino, perder tempo, nel che fu la salvezza di Roma. Identicamente avvenne contro Asdrubale. Championnet nel 1798, non appena seppe che i Napolitani muovevano per attaccarlo, da Roma trasporta il suo quartier generale a Terni,17 poiché là, mentre difendeva Roma, si trovava in forza sul punto strategico, decisivo di quella campagna. È attorno a Val Ternana che si basarono gran parte degli eserciti invasori nelle loro operazioni offensive contro Roma. Gli stessi avvenimenti militari politici che si succedettero dal 1860 al 1870,18 avrebbe-
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Vedi nota 3, infra p. 5. Vedi nota 7, infra p. 12.
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ro dovuto renderci accorti della grande importanza della posizione Ternana relativamente a quella di Roma. Era allora Terni la nostra base offensiva e difensiva contro lo Stato pontificio, e nello stesso tempo costituiva il finale oggettivo d’un’invasione Franco-Papalina. Partendo dalle loro posizioni sul Tevere con una breve passeggiata potevano portarsi a Terni, e nello stesso tempo mandando la flotta a minacciare la linea litoranea sull’Adriatico, i Francesi si trovavano a dominare la Penisola, a separare completamente l’Italia centrale da quella meridionale. E però non fortificando fin d’allora questa posizione noi abbiamo dimostrato di non apprezzarne l’importanza, abbiamo sonnecchiato sul pericolo. Ancora oggidì e finchè non potremo disporre di una potente flotta che ci assicuri se non altro l’uso delle nostre linee litoranee, la caduta di Terni dovrà considerarsi come disastrosa per la difesa di Roma non solo, ma per quella di tutta l’Italia peninsolare. Val Ternana e Roma, collocate a due marce (dai forti avanzati delle due posizioni) di distanza su di una grande linea difensiva, congiunte da numerose strade o linee ferroviarie, si completano, si appoggiano a vicenda, non formano che un sol fronte difensivo sul Tevere. Appoggiata su Val Ternana, la difesa di Roma non si trova più rincantucciata su di un fianco della Penisola, la sua posizione resta assicurata sulle grandi vie maestre che conducono dall’Aquilano e dalla Sabina in Vall’Umbria, sui suoi fianchi ed alle sue spalle, ed appoggiandosi sul Tevere pesa, trasporta il suo centro di gravità nel centro dell’Italia peninsolare. Viceversa senza Roma Val Ternana non si troverebbe bastantemente sicura sulle grandi vie che uniscono Napoli colla Toscana attraverso il sub ed anti-Appennino, né sarebbe abbastanza potente la sua azione strategica sul Basso Tevere e verso le coste Romane. Vediamo più da vicino le condizioni di questo fronte difensivo. Posizione di Roma – Il problema della difesa tattica di Roma non è certamente molto facile a risolvere, poiché, se v’ha posizione che presenti difficoltà ad una efficace ed economica difesa locale ed invece riecheggia una difesa offensiva, mobile, attivissima, è certamente quella di Roma. Finchè noi ci aggireremo 4, 5, 6 chilometri nei dintorni della città in quelle pianure leggermente ondulate, non potremo mettere insieme un buon sistema di difesa, senza dover ricorrere ad imponenti opere d’arte, entro le quali inchiodare poi un grosso esercito. Per coprir Roma da un colpo di mano e porla n grado di resistere ad un attacco di
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viva forza e quanto basti all’arrivo delle truppe da Val Ternana, si potrebbe organizzare la seguente difesa: Sulla riva destra del Tevere rafforzare e migliorare la cinta bastionata esistente, e costruire innanzi ad essa i seguenti forti staccati: a Monte Mario, sull’altura a diritta di Val d’Inferno di contro ai Balduini, sullo spianato innanzi Casale di Pio V ed alla Villa Tolceri; sulla sinistra del Tevere costrurre due forti staccati sui monti Parioli e San Paolo, assicurare i passi sul Tevere alle due strade Salaria e Nomentana; stabilire alcune opere sulle alture a dritta di Val Marranella per padroneggiare le molte strade che confluiscono su Roma, infine stabilire una nuova cinta daziaria di Roma, che soddisfi alle sue esigenze economiche avvenire e nello stesso tempo a quelle militari. Ma, come abbiamo detto, la vera difesa di Roma si trova sulle alture vulcaniche circostanti di Albano, Tivoli, Fara, Bracciano; ciò è del resto suggerito dalla storia specialmente delle campagne del 1798 e 1848 e consigliato dallo stesso Napoleone. Osservare la bella posizione costituita dal lago e dall’altura di Monterosi, dove fanno capo le grandi strade a Terni, Viterbo, Civitavecchia; essa è appoggiata a sinistra alle alture ed al Lago di Bracciano, a dritta ai profondissimi, inaccessibili burroni di Civitacastellana che da Monterosi stesso si distendono fino al Tevere. Da quella ristretta posizione si difende tutto in versante dritto dell’ant’Appennino dal Lago di Bracciano al Tevere. Sulla sinistra del Tevere stanno le non meno belle posizioni militari di Fara, dalle quali si difendono le grandi strade da Terni a Rieti; quella di Tivoli naturalmente fortissima che chiude le importanti strade di Val Teverone e di Cerreto; quella del Colle di S. Antonio che domina la Valle compresa tra i monti di Artenisio e di Palestrina colle rispettive importanti strade, ed infine quella di Civitalavinia, che chiude la linea ferroviaria e la grande strada di Velletri. Tutte queste posizioni sono ristrette, ben appoggiate, difendibili con poche forze a distanza di una marcia da Roma, e padroneggiano tutte assolutamente le strade che da ogni parte della Penisola concorrono su Roma. Aggiungasi Civitavecchia che chiude la strada e la ferrovia litoranea. E però le truppe di Val Ternana, che costituiscono il corpo mobile della difesa di Roma, troveranno in quelle posizioni un magnifico giuoco difensivo, offensivo, tanto più che la linea del Tevere obbliga il nemico a limitare i suoi attacchi ad alcune soltanto di esse, e volendo attaccarle tutte dovrebbe dividersi con grande vantaggio della difesa di Val Ternana che per i tanti punti di Orte, di Borghetto e Correse può agire a volontà su ambe le sponde del Tevere.
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Dallo sbocco della Nera in giù questo fiume costituisce un grave ed insormontabile ostacolo naturale, poiché esso è largo, profondo, giammai guadabile. Ciò contribuisce grandemente ad assicurare e stringere i nodi delle due grandi posizioni estreme, poiché toglie all’attaccante la possibilità di sfondare il centro del fronte difensivo, girare ed attaccare le due grandi posizioni estreme sui fianchi; mentre la difesa minacciata da una parte può, manovrando al coperto sull’altra, portarsi ove lo richiede il bisogno. Ad accrescere potenza difensiva a questo fronte e mobilità alla difesa, occorrerebbero alcune opere ai punti di passaggio sul Tevere ad Orte, Borghetto e Correse, là dove mettono capo le grandi strade che da Val Ternana conducono su Roma. Il Tevere serve altresì come linea di comunicazione fra le posizioni sulla Nera e Roma. Per la pendenza dolcissima delle acque (da Orte a Roma vi ha uno sviluppo fluviale di 110 chilometri ed un salto di soli 20 metri) la navigazione si fa regolare tra Orte e Roma con barche che pesano fin 50 tonnellate e trasportano legnami, derrate, materiali da costruzione, impiegando un tempo pressoché uguale a quello necessario a percorrere il tragitto Terni-Roma a piedi. La discesa poi da Roma al mare per Fiumicino si pratica dalle navi ordinarie in 5 o 6 ore ed in 2 ore dai vapori. Per risalire si usano i piroscafi rimorchiatori da 30 a 40 cavalli. Vi sono inoltre piroscafi mercantili della capacità di 760 tonnellate, che navigano sul Tevere e fanno anche il giro delle coste Mediterranee. Il Tevere dalla confluenza della Nera al mare per importanza segue immediatamente il Po e l’Adige. È la Nera che dà a questo fiume il suo carattere di perennità che tanto favorisce la navigazione, ond’è che a ragione dicono i Romani: “Il Tevere non sarebbe Tevere se la Nera non gli desse a bevere”. Queste condizioni di navigazione del Tevere dopo la Nera avvantaggeranno certamente in avvenire, colla sistemazione idrografica della campagna, Roma progettata è già iniziata. Chi pensa che anticamente il Tevere trasportava a Roma da Città di Castello quel che ora a mala pena trasporta coll’aiuto della Nera, e nel tronco inferiore sorreggeva quelle immense moli che compongono i monumenti di Roma sul suolo e nel sottosuolo, non può a meno di sentirsi stringere l’animo nel vederle ora trascinarsi inoperoso, ozioso, dalle sorgenti al mare e vedere per l’incuria degli uomini i suoi pregi andare continuamente scemando e continuamente nuovi ostacoli sorgere a tormentare la navi-
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gazione. A Roma, dice il Maestri nell’Italia Economica del 1869,19 il Tevere ha una portata doppia della Senna a Parigi e non v’ha corso d’acqua in Italia per la pendenza, costanza e profondità delle acque più di esso idoneo alla navigazione, e dotato di tanti elementi che saprebbero renderlo un prezioso fattore di prosperità, solo che con qualche lavoro venisse la benigna natura secondata e corretta. La pianura uniforme e levigata in cui scorre il Tevere, della larghezza media di due chilometri, si presta ai movimenti delle truppe, offre buone posizioni difensive alle strette di Castel Giubileo, di Treno, di Porrito, di Borghetto, di Narni ed alle numerose risvolte del fiume. Il fronte difensivo Roma-Val Ternana sul Tevere appoggiato com’è ad un grande ostacolo naturale con fianchi da una parte al mare, dall’altra alla difficilissima regione Appennina dei monti Cascia e Sibillini, che a guisa di un gran bastione si protendono fino a pochi chilometri dalla costa Adriatica; appoggiato alla Capitale del Regno aperta a così grandioso avvenire, e località opportunissima deve accordar gli elementi di difesa terrestre e marittima; a Terni, chiave di tutte le comunicazioni naturali artificiali che vanno al Po ed al Napolitano, la maggior posizione industriale d’Italia, la località più acconcia ad accogliere tutti gli arsenali, opifici, stabilimenti militari terrestri e servire da perno di manovre alla difesa di tutta l’Italia pensinsolare; il fronte Roma-Val Ternana presenta un valore strategico, politico, economico veramente straordinario. Per mezzo di Roma e Civitavecchia esso esplora le vie del golfo Tirreno, il naturale nostro teatro di attività marittima; per mezzo dei passi che da Foligno e dall’Aquilano, che cadono sotto il dominio strategico di Terni, esso guarda attraverso la cresta Appennina il ristretto versante e le coste dell’Adriatico già chiuso dalle piazze d’Ancona e Civitella; d’innanzi ad esso si distendono l’Umbria e la Toscana; dietro Napoli, le vaste e fertili pianure del Garigliano e del Volturno, l’Aquilano e la Sabina, per passare dall’une all’altre è
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Pietro Maestri (Milano 1816 - Firenze 1871), statistico e patriota. Esule in Piemonte dopo il 1848-1849, ivi iniziò l’Annuario statistico italiano. Nel 1861 fu nominato direttore della Giunta Centrale di Statistica. Nel 1867 pubblicò L’Italie économique per l’Esposizione Universale di Parigi (continuata in italiano nel 18681870).
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giocoforza all’invasore attraversare il nostro fronte e marciare sul corpo della difesa. Questo fronte difensivo è il più ristretto, solido, sicuro, economico che si possa gittare attraverso la Penisola; esso presenta in grado eminente tutte le prerogative strategiche dei fronti obliqui. Senza Val Ternana il nemico proveniente dall’Italia centrale e settentrionale potrebbe marciare su Roma seguendo molte e grandi strade, e trascinare il suo grosso materiale sulle linee ferroviarie che da Ancona e Firenze e Livorno, mettono ad Orte. Ora Val Ternana chiude direttamente tutte quelle vie; non resterebbe che quella di Radicofani; ma è egli supponibile che un invasore, per quanto fortemente basato, possa impegnarsi su quella via chiusa sempre fra strette, sbarrata da posizioni montane fortissime, per attaccare il fronte più potente di Roma, lasciandosi sul fianco da una parte il mare, dall’altra la difesa di Terni che per i passi di Orte, Borghetto, Corese può essere in un momento sui suoi fianchi alle sue spalle e colle ferrovie di Terni-Orte, di Terni-Rieti-Tivoli, di Terni-Avezzano-Ceprano (di non lontano avvenire) a Roma sul suo fronte? Senza le regioni fortificate di Terni un invasore proveniente dal Napoletano non mancherebbe certamente di effettuare la manovra tanto temuta da Championnet e lodata dal gran Napoleone, di far massa, cioè, contro il centro su Terni, spuntare la grande linea strategica Ancona-Roma, separare, girare le ali della difesa a Roma e sul versante Adriatico, e guadagnando rapidamente i passi di Gubbio e Foligno da una parte, la via di Radicofani dall’altra, cadere sulla loro ritirata, batterli separatamente e d’un colpo guadagnare tutta l’Italia centrale. Col campo trincerato di Terni questa ardita manovra non è più possibile e la difesa di Roma non solo si trova ad avere assicurate le sue comunicazioni coll’Italia centrale e colla Valle del Po, ma può, manovrando sempre al sicuro sulla destra del Tevere, piombare sul fianco del nemico diretto su Terni pei soliti passi di Corese, Borghetto ed Orte. Se l’invasione proviene dal Tirreno, ecco che Roma si presta egregiamente a servir di base di difesa alle coste di Civitavecchia a Terracina; se proviene dall’Adriatico, ecco che le teste di colonna di Terni possono in 8 ore spuntare a Pescara ed Ancona e per mezzo di numerose strade, attraverso le aspre montagne dell’Appennino, scendere sulla costa. – Da qualunque parte provenga l’invasione, il nostro fronte difensivo si presenta sempre in condizioni magnifiche. Il sistema di coprire indirettamente le capitali non è del resto nuo-
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vo alla scienza delle fortificazioni, e noi lo vediamo anzi proposto da distinte Autorità militari per le grandi metropoli di Francia ed Inghilterra, nelle quali si riassume davvero tutta la vita di quelle due nazioni. Il celebre Autore dell’opera Dèfense des États, che ha detto l’ultima autorevole parola in fatto della difesa degli Stati, così scrive di Londra, nel suo opuscolo, Systême de defènse de l’Angleterre: “Il est done indispensabile que l’armèe anglaise possède, en arrière de sa ligne de ports et d’arsenaux fortifiés, au moins une grande place de dépot où elle puisse se concentrer avant le débarquement de l’ennemi, et se refugier après un échec grave ...”. L’autore dopo aver fatto alcune osservazioni sulla proposta della Commissione di difesa, di stabilire questo perno di manovra in una delle grandi piazze marittime dotate di arsenali ed opifici militari continua: “Il suffit de jeter les yeux sur la carte d’Angleterre pour voir qu’aucun de ces points n’occupe une position telle qu’il faille necessairement s’en emparer avant de marcher sur Londres. Autre chose serait si l’on créait en avant de Londres, et dans l’intèrieur des terres, une forte position stratégique où l’armèe active pourrait se concentrer sans avoir à craindre ni une attaque brusque ni un blocus. Alors, se trouvant dans l’impossibilité de laisser sur son fianc ou sur ses derrières une pareille position, l’ennemi serait obligé de la réduire avant de marcher sur Londres. Or, le siége d’une grande position stratégique, défendue par toutes les forces disponibles de l’armée anglaise, présenterait tant de difficultés et exigerait un matèriel si considérable, que, sans nul doute, il aurait pour résultat de trainer la guerre en longueur et de donner à la marine anglaise le temps de concentrer asses de forces dans la Manche pour battre ou dispenser la flotte francaise ... Protégee par le camp de Croydon, l’armée anglaise n’aurait rien à craindre d’une force triple et même quadruple de la sienne, et tant qu’elle resterait intacte, l’ennemi ne pourrait ni s’engager dans Londres, ni se porter dans l’intérieur du pays...”. Tutto ciò che Brialmont ha detto di Croydon rispetto a Londra, si addice a maggior ragione a Terni rispetto a Roma, anzitutto, perché Terni è posizione più sicura, è l’unico centro industriale militare della Penisola, ha maggior giuoco di centralità strategica difensiva non solo rispetto a Roma, ma rispetto a tutta l’Italia peninsolare; poi perché Roma non presenta al nemico un’attrattiva così grande come Londra, che è il vero centro di vitalità marittima, terrestre dell’Inghilterra.
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Non è molto quando si temevano gravi complicazioni europee, il Governo Inglese aveva fatto studiare la posizione di Beau-desert nel distretto di Stafford, colla ferma intenzione di trasportarvi tutti i grandi stabilimenti, arsenali ed opifici militari e farne un perno alla difesa generale d’Inghilterra. Sotto l’aspetto industriale, logistico e di sicurezza, la posizione di Beau-desert può tener il confronto di Val Ternana; ma essa non è ugualmente ben situata per coprire Londra, quanto lo è Val Ternana per Roma. Cessato il pericolo, cessò la preoccupazione e si soprassedé al progetto, poiché gli Inglesi non meno di noi sono paved with good intentions, few of which ever get carried out. Ecco cosa dice in proposito l’Autore della bell’opera, pur troppo assai rara tra noi, England rendered impregnable: “Some years ago, when the authorities were more or less panic, stricken as the threatening attitude of a continental Power, and their latent energies were temporarily aroused by the advice of one of our greatest military authorities, Beaudesert, in Shaffordshire, was selected as the site of a large central fortified camp, to be defended by outlying forts, behind which the national forces might rally. There secure from attach, were to be the principal arsenal, and depots for munitions and material of war, storehouses, magazines, cannon foundries, manufactories of arms, camp equipage, accoutrements and lothing of all kinds. There was plenty of water handy, and coal was to be obtained as no great depsh on the spot; labour of all kinds was to be had in abundance, and government could have obtained land enough for all purposes at no great cost. There were converging lines of railways from all parts of England, by which material of all kinds could be collected, or warlike storse dispatched to our different sea-ports for transhipment abroad.” Anche per Parigi varie distinte Autorità militari proposero un sistema di difesa indiretto. Il Maresciallo Marmont e Rocquancourt proponevano di limitarsi a costruire attorno a Parigi forti staccati, “suffissants (diceva quest’ultimo) pour arrêter les têtes de colonnes de l’ennemi, pendant que 200,000 Francais, manoeuvrant en Champagne à l’abri de trois bons camps retranchés, Soison, Nogent-sur-Seine et Montmirail, se jetteraient sur les derrières de ces colonnes.” (Vedi Considèrations sur la défense de Paris, Rocquancourt). Un sistema analogo è quello del marchese di Chambray. – La difficoltà di poter riunire in Parigi i viveri necessari all’alimentazione delle truppe e della popolazione,
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non che il timore di sollevazioni e moti popolari, avevano indotto Chambray a proporre per Parigi un sistema di difesa, che consiste a stabilire una buona piazza forte alle confluenza della Senna e della Marna, ed a costrurre attorno alla Capitale le opere rigorosamente necessarie per metterle al coperto da un colpo di mano. Questo progetto non è che una variazione di quello già proposto dal generale Paischens, descritto nella sua opera Force et faiblesse militare de la France. Questo progetto consisteva nello stabilire a 6 miglia di una grande posizione strategica alcune buone piazze per coprire la posizione centrale e mettere a contribuzione il paese circostante. Laage propose di addossare alla cinta di Parigi tre grandi cittadelle e di costruire in avanti tre fortezze di primo ordine; l’una alle confluenze dell’Oise e della Senna, l’altra sulla Marna all’altezza di Brevonne, la terza sull’Alta Senna verso l’imboccatura dell’Orge. Infine Madelaine propose di porre Parigi al sicuro dalle sorprese e da attacchi di viva forza, dal blocco rigoroso e dal bombardamento per mezzo di una vasta cinta e costrurre a 10 o 15 miglia da Parigi in posizioni opportune sulla Senna, Marna ed Oise tre piazze o campi trincerati capaci di 30,000-40,000 uomini ciascuno. “Si l’ennemi (dice l’Autore) réunit ses forces pour faire le siège de la Capitale, il sera bientôt affamé, s’il les dives; il sera battu par l’armée difensive opérant dans le réseau des trois placet, sans avoir besoin de trainer avec elle de lourds bagages”. L’attuale Governo francese, in seguito alle dure esperienze, riconobbe pure l’utilità di queste piazze avanzate per la difesa indiretta di Parigi e pare voglia stabilire due grandi campi trincerati a Rouen, Soissons contro Francia ed Inghilterra e nello stesso tempo estendere la cinta di Parigi per assicurare la città del bombardamento. Inutile il dire che tutte queste posizioni avanzate di Parigi non presentano le risorse che Val Ternana offre a Roma. Concludiamo, raccomandando vivamente questa posizione Ternana all’attenzione del Ministro della guerra della Commissione generale di difesa dello Stato, dei grandi capitalisti e di tutti gli uomini intraprendenti; ricordando ai Ternani che l’ora del risveglio è suonata, e che è necessario affrettarsi a guadagnare le vie verso il magnifico destino che loro ha riservato la natura.
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SULLA RIORGANIZZAZIONE DEI NOSTRI STABILIMENTI MILITARI PER LA PRODUZIONE DEL MATERIALE DA GUERRA E DELL’INDUSTRIA METALLURGICA NAZIONALE
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La premurosa cura con cui il Maresciallo Tedesco,1 sommo organizzatore di eserciti e di vittorie dei tempi moderni, ha visitato in questi giorni i nostri Stabilimenti militari, il vivo desiderio da Lui manifestato di conoscere Terni, parmi avrebbe dovuto essere incentivo agli Italiani a rivolgere la loro attenzione sopra un argomento che è della più vitale importanza per la sicurezza dello Stato e che costituisce il lato debole del nostro edificio militare. Ma pur troppo il pennacchio dello Sciah di Persia ha attirato assai più l’attenzione pubblica in Italia che la visita fatta dal Maresciallo Moltke ai nostri stabilimenti. Questi avrà potuto convincersi che se appo di noi molto si esaltano e si imitano i prussiani, non sempre ugualmente si praticano i loro ordinamenti e talvolta perfino quelli più essenziali per la guerra nazionale. Non sarà detto però che nemmeno una voce non si sia fatta udire nell’universale indifferenza, additando la gravità del pericolo ed i mezzi per porvi rimedio. Combattere forze vive che accettano l’azione, è sempre cosa bella si vinca o si perda; ma aver di fronte l’invulnerabile corazza dell’apatia generale, dell’indifferenza del bene pubblico, vedute ed egoismi provinciali, inveterate tradizioni di guerra regionale, il tutto trincerato nella leggerezza e nelle illusioni; per agire in così fatto ambiente richiedonsi sforzi tormentosi che quasi sempre sorpassano la capacità di un uomo. È perciò che io invito i Ternani, miei antichi alleati in questa lotta, a volersi levare ancora una volta; essi hanno il dovere nonché il diritto a ciò, poiché tengono dalla natura in loro potere la chiave per risolvere in modo conforme alle aspirazioni nazionali ed agli interessi generali questa gravissima questione. Alle popolazioni sulla Nera e sul Tevere spetta di essere depositarie delle armi con cui gli Italiani dovranno combattere le future guerre d’indipendenza, affermare la loro unità, sviluppare la loro potenza. Ecco l’idea altissima che deve animare i Ternani nella lotta
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Si tratta del Moltke di cui appresso.
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che da 6 anni insieme sosteniamo; non mai quanto oggi propizia fu l’occasione per dare giornata campale e riportare vittoria decisiva, che sarà tanto più onorevole inquantochè per essa l’Italia mostrerà di aver saputo vincere se stessa. Né la solita impotenza finanziaria vale in questo caso a scusare la nostra inerzia, poiché come in questa Memoria dimostreremo, è possibile di ottenere per la grave questione considerata, una soluzione gratuita o poco meno, ricca di elementi di avvenire e di progresso, conforme ai bisogni della guerra nazionale, purché si sappia trarre partito dalle forze vive tutte della nazione convenientemente dirette ed attivate. Intanto già un fianco della posizione è spuntato; la nuova fabbrica d’armi, malgrado le pressioni dell’attrazione provinciale, ha dovuto, un po’ tardi è vero, ma ha dovuto subire la legge della gravitazione generale e venire a posarsi nei piani Ternani; così avverrà del resto purché si insista con tenacia, il tempo sarà nostro potentissimo alleato. Ancora pochi anni or sono allorché ricercavasi lo specifico della salvezza d’Italia nell’avere una potente muraglia della China sulle Alpi e dappresso vaste tombe nelle quali seppellire gli eserciti, in allora era cosa non poco temeraria dire che per la guerra nazionale i teatri decisivi sono nell’Italia centrale, e che il primo nostro bisogno e dovere è di preparare quivi buone numerose e sicure armi. Ma gli uomini cadono ed il pensiero cammina lo svilupparsi lento è vero, ma continuo dell’idea nazionale in Italia ha fatto più che tutte le dimostrazioni degli strategici2 e ingegneri della passata scuola regionale, ha fatto riconoscere evidenti quelle stesse cose che poco prima ritenevansi come assurde. Così speriamo di non più udire quel triste ritornello sulla guerra straniera che da tre secoli gli Italiani vanno cantando: dalla valle del Po si vince l’Italia, che vorrebbesi far credere assioma della guerra nazionale, mentre non è che un eco di quelle guerre di preponderanze europee combattute da Spagnoli, Francesi, Austriaci, Inglesi, da tutti fuorché dall’Italia, poiché questa non dava che una parte del suo suolo e sfogo di quelle guerre, sempre ferma restando la sua schiavitù. Se fosse possibile ridurre a formule i principi della guerra nazionale, nessuna certamente sarebbe più consentanea alla verità reale e storica che questa: dal Tevere si vince l’Italia, illustrata da cento guerre d’indipenden-
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Sta per strateghi.
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za condotte da Italiani soli o con stranieri a loro servizio. Col possesso di Roma siamo ritornati nelle condizioni antiche ed è giocoforza che ritornino anche le tradizioni della guerra italiana, nella quale la lotta impegnavasi sul Po, per la natura del terreno vi assumeva talvolta anche grandi proporzioni, ma poi sostenevasi e decidevasi sul Tevere. Quivi gli eserciti stranieri le molte volte vincitori sul Po vennero a farsi decimare, né mai si poterono consolidare con sola forza d’armi, finché vi fu un popolo italiano con causa italiana a sostenere l’azione. Alle sfilate dell’Appennino, ai passi del fiume, sulle sponde dei laghi, nelle gole dei monti e su tormentato terreno collinoso, ivi impegnavasi il grosso dell’azione, ivi splendide difese di sbarramento e segnalate azioni di guerra manovrata, campeggiata; fortunate riprese offensive, indomite guerriglie; ivi dalle antiche guerre romane al 1860 un cumolo di altissime tradizioni tutte spiranti vita, gloria, genio italiano. Leggano i militari e considerino attentamente queste memorie, cui dovrassi riallacciare la storia militare avvenire dell’Italia; esse potentemente gioveranno a dare allo spirito la tempra nazionale. Or bene collocare nella centrale Italia, e presso Roma i nuovi cardini della potenza militare italiana significa agevolare la formazione, lo sviluppo dell’idea nazionale preparare i germi della nuova virtù, cioè della nuova forza italiana. E anche qui è necessario che mutisi l’orientamento delle idee, per il che molto potrà il tempo maggiore alleato dell’Italia. Col grande avvenimento del 1870,3 il vaticinio della grand’anima di Gioberti: l’Europa torna all’Italia si è avverato in tutta la sua pienezza: l’Europa ha fatto l’Italia. Lo Stato piemontese ha esaurito completamente la sua missione esclusivamente politica, direi quasi solo diplomatica, è caduto dal posto eminente che occupava nella scena italiana e la sua gigantesca figura non campeggia più che nella storia. Dietro di sé non lascia né una recente epopea guerresca, né marittima, né scientifica, né artistica che valga a mantenerle il primato nella famiglia italiana; giovandosi del braccio di Europa ha ricostituito lo Stato d’Italia, ma non ha fatto gli Italiani. A nessuno è dato certamente di intravedere quale sarà l’impronta
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Si riferisce alla presa di Roma, il 20 settembre 1870.
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della nuova vitalità, ma molto probabilmente non è ai piedi delle Alpi che spunterà l’aurora del nuovo pensiero ed incivilimento; sarà forza invece che questo si tragga dal seno, dalle viscere stesse della nazione. Come sempre l’oriente apporterà per mezzo delle popolazioni della bassa Italia lo slancio, il culto del bello e del mare; il settentrione per mezzo degli abitanti dell’Alta Italia la tempra, il culto dell’utile e della terra, ma il germoglio di vitalità prettamente italiana non può crescere che fra queste popolazioni della centrale Italia e propriamente fra gli abitatori del bacino tiberino. Ivi nelle antiche terre degli Umbri, Sabini ed Etruschi sempre partì il segnale del risveglio, ivi ognora spuntò il germe fecondatore delle civiltà italiane, così in oggi quivi il genio di Roma convien che tragga suo nuovo nutrimento. A far sentire ciò, se mi fosse dato il tempo vorrei scrivere una pagina di storia italiana che è tra le più meravigliose, abbattendo le barriere che ancora la tengono rinchiusa entro rustiche mura di città, villaggi e chiostri, interrogando i monumenti che furono testimoni di tante lotte e vittorie nei campi dell’azione come del pensiero; consultando le mille cronache sibilline che rivestono di parole ingenue e volgari, pensieri ed avvenimenti altissimi; penetrando nella buia notte di apatia che tutto avvolge e sottrae agli occhi del mondo una terra che fu dopo Roma e con Roma la più illustre del mondo. Il popolo di Val Umbria, e di Val Ternana specialmente, fu ognora presente sovente onnipossente nella storia romana sia politica, che militare, religiosa, artistica, scientifica; dotato di una forza espansiva meravigliosa, esso portò ognora nella tumultuosa Roma il principio ontologico, l’idea prima delle successive civiltà e ve la mantenne, ritraendo continuamente la città cosmopolita verso i sui principii. Ecco la missione altissima cui debbono ancora oggidì mirare i Ternani, potente famiglia di questa fortunata schiatta centrale italiana; ecco dove troveranno fortuna, gloria, potenza tutto il loro avvenire. Sveglino i loro vicini che da secoli dormono sulle illustri tombe dei loro padri ed insieme si agitino, si rinnovino, afferrino quel magnifico destino. Il loro risveglio sarà segnale del ridestarsi della nuova virtù italiana, per essi si effettuerà e cementerà l’idea nazionale e l’equilibrio antico delle forze verrà ristabilito su solide basi. Non può essere a Roma grosso il Tevere se prima non si aprono le eterne e purissime fonti degli Umbri e Sabini. Da sei anni Roma non sa che porgere mendica la mano agli Italiani
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per un soccorso e ancora invano; riprenda invece l’antica fierezza ed eserciti la prima volta i doveri e i diritti di capitale d’Italia. Nella risoluzione della questione Ternana troverà argomento perenne di ricchezza e potenza. Non hanno lasciato i duchi di Savoia, allorché dall’Alpi si distesero in Italia, i cardini della loro potenza militare nella Savoia, ma invece con gran cura li trapiantarono e rafforzarono a Torino capitale e centro della monarchia. Col sommo criterio militare innato all’Augusta loro Casa, non si ostinarono i Re di Piemonte in guerra con la Francia a coprire gli antichi domini, ma seppero ognora sacrificarli per concentrare l’azione sui teatri decisivi militari-politici dello Stato. Come è che oggidì si vorrebbero lasciare i caposaldi della potenza militare italiana ai piedi delle Alpi e tenere solo politicamente Roma; da questo strano contemperamento come è possibile trarre buoni auspici? La prima condizione acciocché il detto: Siamo a Roma e ci staremo possa dal campo della parola passare a quello dei fatti, è che nella centrale Italia e attorno a Roma si stabiliscano i cardini della nuova potenza italiana.
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I In Italia, la gravità della questione riguardante gli stabilimenti militari destinati alla produzione del materiale da guerra e quelli sussidiari dell’industria metallurgica privata, è conosciuta da pochi, sentita da pochissimi. Necessità di una pronta e radicale riforma. Gli uomini, il ferro, i denari ed il pane sono il nerbo della guerra, ma di queste quattro soni più necessari i primi due; gli uomini ed il ferro trovano i denari ed il pane, ma il pane ed i denari non trovano gli uomini ed il ferro (Machiavelli)
Da dieci anni non si ode parlare in Italia che di esercito di prima e seconda linea, di categorie, di compagnie alpine, di milizie, di distretti, di cavalli, di ferrovie, di fortificazioni, di uniformi, di regolamenti che si perfezionano con vertiginosa rapidità ecc., tutte le questioni che si attengono alla organizzazione degli eserciti hanno formato oggetto della pubblica attenzione; una sola fu dimenticata nei Parlamenti come nei circoli militari, nelle pubbliche e private disquisizioni ed è l’organizzazione di tutti quegli stabilimenti militari e privati che determinano la potenza di produzione del materiale da guerra necessario alle colossali forze armate moderne. Mentre intorno a questa grave questione le grandi potenze di Europa da lungo tempo si affaticano, noi ci troviamo ancora in pieno 1860 in quella stessa condizione di cose che preparata dagli antichi statarelli, l’Italia ereditò colla sua rivoluzione. La guerra del 18664 ci forzò per un momento a considerare il pericolo e l’anormalità della nostra situazione; venne allora decretata la costituzione di una nuova fabbrica d’armi nella parte centrale d’Italia, ma passato il pericolo, cessò la preoccupazione e l’ottimismo antico condito dalla pubblica indifferenza ed apatia rifece capo. Si arriverà mai a capire come malgrado fossero stati votati i fondi necessari; malgrado il ritardo in cui ci troviamo rispetto alle altre nazioni nella trasformazione dell’armamen-
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La Terza guerra di Indipendenza.
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to, non siasi iniziata la costruzione di questa fabbrica d’armi che nel 1876, cioè quando sarebbe stato necessario di impiegarla? Com’è che nel 1861 quando per l’annessione delle diverse province la vitalità militare politica d’Italia cominciava già ad accentrarsi, si è innalzato presso la frontiera di Francia il grandioso polverificio di Fossano? Com’è che si sono riforniti, trasformati a nuovo tutti gli stabilimenti metallurgici militari di Torino, ed ancora nel 1864 si è edificato in questa ultima città il vasto opificio per tutte le manifatture militari? Si è mai levata una sola voce a mostrare l’improntitudine di tali costruzioni? No certo, che anzi ciascuno considerò questi nuovi stabilimenti come graziosi omaggi resi alla provincia che per tanti secoli era stata depositaria dei destini d’Italia, come compensi politici economici. Furono invece abbandonati i piccoli opifici militari di Parma e Firenze, ed altri minori interni nell’Italia. Quanto non si è mai scritto e parlato durante questi ultimi anni sulle fortificazioni d’Italia; troppo forse per un giovane popolo il quale anziché affannarsi a seppellirsi, accasciarsi sotto le fortezze avrebbe dovuto rivolgere tutte le sue cure a fondere, cementare il suo organismo militare, a rinnovarlo in tutte le sue parti e metterlo in grado di servire ai nuovi bisogni, temprando la forza espansiva propria della sua giovane età. Durante quel periodo di manìa fortificatoria ognuno ebbe per la salvezza d’Italia lo specifico di un ridotto, ma incominciando dai voluminosi studi della Commissione generale per la difesa dello Stato, secondo i quali l’Italia doveva essere convertita in un solo gran campo trincerato, e venendo alle proposte dell’ultimo ufficiale studioso, si è mai qualcuno preoccupato della riorganizzazione degli stabilimenti militari per la produzione del materiale da guerra? Vive lotte s’impegnarono pel famoso ridotto centrale della disperazione; chi lo voleva a Stradella, chi a Bologna, chi nella Toscana; se ne esaminarono e discussero tutti i vantaggi, la potenza delle opere da erigersi, le linee da sbarrarsi, i defilamenti, i dominii da regolare, le ritirate, le riprese offensive ecc. ecc., tutti gli attrezzi topografici, strategici, tattici, fortificatorii, politici, furono messi in azione, ma degli stabilimenti necessarii ad assicurare i mezzi di combattere all’esercito che doveva manovrare in esso o sotto di esso, non una parola. Eppure come si può stabilire un sistema di difesa per uno Stato senza avere prima risoluta la vitale questione degli stabilimenti? Convien dire che da tutti li ritenessero ben collocati là ove si trovano, che altrimenti sarebbe stato modo ben strano
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invero di risolvere la difesa di uno Stato facendo sempre astrazione dall’elemento combattente. Inghilterra e Germania contemporaneamente a noi, meno enfaticamente, ma più praticamente, stabilirono i nuovi ordinamenti difensivi dei rispettivi Stati, crearono vasti perni di manovra potenti per fortificazione e per stabilimenti di materiale di guerra. Di questi perni di manovra, scriveva già Marmont, nella sua opera Spirito delle Istituzioni Militari pur tanto studiata in Italia; “debbono rinchiudere il materiale sufficiente per una grande armata che vi si riunisse, in equipaggio di artiglieria, in armi portatili di ricambio ed in approvvigionamenti d’ogni specie; devono contenere numerosi opifici, un arsenale da costruzione, grandi ospedali, approvvigionamenti per viveri. I reggimenti diretti a queste piazze devono uscirne organizzati ed armati in modo che possono immediatamente entrare in campagna e combattere”. Non è questo del resto l’ordine materiale, istintivo delle cose? come è possibile invertirlo, mentre siamo ancora sotto l’incubo della guerra di Francia?5 Come non si sente che coll’attuale dislocazione degli stabilimenti militari, dopo un primo rovescio l’esercito e la nazione saranno impotenti a continuare la lotta? Che questo colossale nostro edificio militare che si vuol basare su fortificazioni e numero sterminato di soldati è minato e le mine stanno alle porte dello Stato in balia del nemico? Com’è che nei due Parlamenti non si è trovato un uomo abbastanza naturale che sia sorto a dire: Signori, armiamo prima il braccio degli uomini poi quello del suolo; le fortificazioni ben collocate sono sovente utili, ma gli stabilimenti militari sono sempre necessari; assicuriamo quest’ultimi, poi provvederemo alle prime. Per capire ciò non faceva mestieri di cognizioni tecniche, né di lunghi studi, né di genio, bastava un po’ di sentimento naturale e nazionale. Decisamente l’Italia ha mostrato ancora una volta al mondo come la povertà sia utile ai giovani popoli, poiché elevando tutte quelle fortezze senza poter assicurare l’armamento né quello dell’esercito, noi avremmo risolto il difficile problema di far battere da piccoli un grande esercito, di immiserire uno Stato ricco, di invilire un popolo ardimentoso.
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Vedi nota 1, infra p. 43.
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Un’altra cosa non si sente in Italia ed è la necessità di avere un’industria metallurgica nazionale potente, disciplinata, progressista, pronta a sussidiare gli stabilimenti militari in tempo di pace non solo, ma quel che più importa, durante la guerra. Il sentimento di questa necessità non è entrato ancora nella coscienza pubblica; che sia questa una questione essenziale alla sicurezza della nazione, e che formar debba argomento alla ragione di Stato non è da alcun sentito. Non già che la questione dell’industria privata non sia stata portata ai due Parlamenti e non abbia formato oggetto di vivissime lotte, tutt’altro. Noi vediamo ad ogni discussione dei bilanci rappresentanti delle province scagliarsi contro il Governo perché non dà ed assicura il lavoro ai grandi stabilimenti industriali di loro province, non li tutela mediante forti dazi e monopoli contro la concorrenza estera, anzi sovente li pospone a questa. Ma di grazia, in nome di qual principio si elevano tali proteste? Cosa è che li muove a chiedere l’ingerenza governativa? l’utile di lor provincia, di lor Collegio, di una società, di un individuo, talvolta di lor medesimi; o tutt’al più un platonico orgoglio nazionale. Quale è il loro più persuasivo argomento? lo spauracchio della questione sociale: lo stabilimento A licenziò 200, 300 operaj, se non gli assicurate lavoro tra breve ne licenzierà altrettanti e così voi susciterete il malcontento, la rivolta, la questione sociale. Ecco come si svisano, si spostano e rendono insolubili le più chiare e gravi questioni. E allora si odono le solite risposte: che i Governi sono sempre i peggiori industriali, che essi sono tenuti ad immischiarsi il men che sia possibile di industrie e speculazioni; che i dazi protettori sono armi a due tagli che feriscono i più a vantaggio di pochi; che le elementari leggi di economia politica insegnano non essere mandato dei governi di assicurare il lavoro alle industrie, tanto più quando queste non producono che lentamente e male ciò che all’estero si ottiene presto e bene; che le amministrazioni militari debbono dar lavoro agli opifici governativi e pel resto come tutti i consumatori ricercare nella concorrenza l’interesse loro, ecc. ecc. Queste ragioni acquietano e persuadono tutti, non persuaderanno però la nazione il dì del pericolo. Così è che militarmente perseveriamo a tenerci in attitudine di isolamento di fronte all’industria metallurgica privata, curando gli utili dell’oggi minimi; non preoccupandosi di quelli dell’avvenire, grandissimi. Eppure le poco prospere condizioni finanziarie d’Italia, la necessità di affrettarci a trasformare tutto l’armamento dell’esercito, avrebbero dovuto esserci stimolo a ricercare nell’industria nazionale conve-
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nientemente diretta una potente ausiliaria ed alleata. L’amministrazione militare non può sorreggere tutto lo sforzo di produzione necessario al materiale da guerra per questo primo grande esercito italiano. Austria, Germania, Inghilterra, Russia e Francia spendono milioni non solo per riorganizzare i loro stabilimenti militari ma per sussidiare l’industria nazionale. Eppure quanto sono più gravi le condizioni del nostro materiale da guerra in armi ed artiglieria; l’argomento è doloroso e la confessione dura a farsi per un militare, udiamo quanto su di ciò disse il deputato Maurigi nella tornata del 10 maggio 1875. “Mentre la Germania possiede circa 5 milioni di fucili a retrocarica e la Francia 2 milioni e 400,000, l’Austria 1,500,000, noi non ne abbiamo poco più di 800,000. Né la nostra inferiorità sta solamente nel numero, imperocché le armi germaniche sono per circa 2 milioni, di modello posteriore all’ultima guerra ed il resto è composto di fucili a retrocarica recentemente modificati; la Francia ha pressoché tutte le armi nuove e perfezionate; l’Austria ne possiede già di nuove più che 700,000. Se guardiamo invece i nostri 800,000 fucili ne troviamo appena un 230,000 di sistema Wetterli disponibili al giorno d’oggi ed il resto sono tutti vecchie armi a pistone trasformati a retrocarica e con cartuccia non metallica. “Desidero a questo riguardo conoscere dall’onorevole ministro della guerra, se si producessero eventualità immediate di mobilizzazione, che io desidero sieno ben lontane, ma che però sono abbastanza possibili nel momento in cui noi discutiamo, come provvederebbe egli all’armamento dei nostri 280 battaglioni di fanteria, e delle compagnie alpine, tanto delle 24 compagnie di prima linea, come delle 24 compagnie mobili; poiché per la natura di quella truppa, e pel loro servizio, bisogna che, tanto le une quanto le altre, siano munite di armi di precisione, dovendo amendue, in caso di guerra, prestare eguale servizio in prima linea. “Di più desidererei conoscere come sempre coi 230,000 Wetterli che abbiamo, si potrebbe anche provvedere ai distretti militari, tanto per l’armamento degli uomini di complemento, da inviare alle truppe che fossero già entrate in compagnia, e quanto a i fucili occorrenti alle nuove reclute che verrebbero raccolte nei distretti militari per ricevere l’istruzione. “Evidentemente, se questa mobilizzazione avvenisse in tempo prossimo, bisognerebbe subire la triste necessità di ritirare i Wetterli ad un
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numero non piccolo di reggimenti, e render loro vecchie armi trasformati, che le nuove classi non conoscono nemmeno; e questo non impedirà l’altro inconveniente del doppio munizionamento, dell’armamento disuguale in bontà d’armi, e dell’aumentare ancora il già complicatissimo lavoro dei distretti, i quali dovranno variare l’armamento e l’istruzione secondo la destinazione degli uomini ai vari reggimenti. E se eventi gravi si producessero, e che sotto qualunque forma si volesse trar partito, anche parzialmente per la difesa del paese dei numerosi elementi che l’onorevole ministro della guerra destina nei suoi progetti alla milizia territoriale, con poco più di 800,000 fucili che possediamo, saremmo nell’assoluta impossibilità di armare con fucili a retrocarica corpi estranei ai quadri che esistono attualmente dell’esercito di prima linea e della milizia mobile. “Anzi dirò che forse per tutta la milizia mobile ve ne sarebbero appena sufficienza dei fucili che abbiamo; a meno che non si voglia mettere come armi da guerra i vecchi fucili della guardia nazionale, il che ci porterebbe considerare come armi utili i vecchi archibugi a miccie ed a ruote che adornano i nostri musei.* “Passiamo ora alle condizioni della nostra artiglieria di compagnia, per cui il ministro della guerra chiede 4 milioni e mezzo di nuove spese. La Francia numera (questi confronti non saranno perduti, io spero), nel suo esercito di prima linea 2200 cannoni di campagna effettivamente allestiti al momento in cui mobilizza i suoi corpi d’esercito. La Germania ne conta 2100. L’Austria, questo paese che non ha migliori condizioni di credito, nè migliori finanze del nostro ne conterà 1600. Dirò più tardi le proporzioni numeriche tra la popolazione d’Italia e quella degli altri Stati che ho testè nominato. Ebbene, noi avremo in tutto 800 pezzi; ed ancora questi 800 pezzi li avremo quando il ministro della guerra avrà organizzate le dieci batterie che sono portate in bilancio, ma che non esistono ancora effettivamente, e le avremo quando le condizioni del nostro armamento saranno tali da potere le batterie essere completate abbastanza rapidamente ad otto pezzi, perché al principio della mobilizzazione, come ha varie volte
* Aggiungasi che le seconde categorie ed una classe di prima categoria e della Milizia mobile non sanno cosa sia questo fucile Wetterli.
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dichiarato l’onorevole ministro della guerra, le batterie non si muoveranno che con sei pezzi. “Quanto poi al materiale di questa nostra artiglieria e di quella delle altre potenze che ho citate, non sarà inutile dire, che tanto la Germania, quanto la Francia, hanno tutti i pezzi di nuovo modello, ed in grandissima parte posteriori al 1870, mentre noi, in fatto di nuovo materiale, non abbiamo che sessanta batterie, e che queste stesse fabbriche secondo concetti che non sono più recentissimi, visto il rapido svolgersi, dei nuovi perfezionamenti in materia di artiglieria. “Io mi auguro che la pace duri tanto lungamente da poter attendere che il grande opificio del signor Krupp ci abbia fabbricate e consegnate le cinquanta batterie di posizione e che voteremo oggi. Però, in attesa di questo, io rivolgo una preghiera al ministro della guerra, ed questa, che si voglia preoccupare sin d’ora il più che potrà, ed il meglio che potrà, dell’organamento delle trenta batterie di artiglieria della milizia mobile. “Io confesso che ho una fiducia molto mediocre su queste batterie improvvisate; ma ad ogni modo, vista la estrema nostra deficienza di artiglieria a fronte degli altri paesi, sarà sempre qualcosa, se si provvederà alla mobilizzazione di queste batterie al momento stesso che si mobilizza l’esercito di prima linea, perché vi sarà il tempo di consolidarne abbastanza l’organamento per trarne partito anche in alcune operazioni attive militari”. Molto ci rimane dunque a compiere in fatto di armamenti più che ogni altra nazione di Europa, e quando ne saremo venuti a capo probabilmente dovremo ricominciare da principio, poiché incessanti, vertiginosi sono i progressi dell’industria delle armi e della metallurgia. In ogni caso dovremo modificare, perfezionare quest’armamento, supplire ai consumi continui dei periodi di pace come di guerra. Per raggiungere tale scopo non basta l’opera degli stabilimenti militari. Non siamo più ai tempi di Vittorio Amedeo II il quale, ridotto a malpunto da lunghe guerre, alle nuove prepotenze di Luigi XIV rispondeva col motto di sfida: Batterò col piede la terra e ne farò uscire tanti soldati. Allora questa risposta non era un’eroica spavalderia, l’armigero Piemonte per accumulare armi spegneva i suoi focolari; gli eserciti avevano i loro piccoli arsenali ove manipolavano in segreto, improvvisavano gli arredi tutti necessari alla guerra e così sor-
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prendevano il nemico e i popoli loro. Ma oggi, e precisamente dacchè incominciarono le guerre nazionali, l’industria siderurgica applicata alla produzione del materiale da guerra ha preso dimensioni ed importanza di un vero problema economico e sociale nel quale l’amministrazione militare entra come parte interessata, ma non come sola operatrice. In oggi la questione dell’armamento necessario ad un esercito per entrare in campagna, sostenere e prolungare la lotta è diventato così immenso e complesso che richiede il concorso di tutte le forze vive di una nazione. Certamente nell’istruzione e soprattutto nell’educazione dell’elemento uomo sarà sempre riposto il destino della guerra, ma a nulla servirebbero eserciti forti come quelli di Serse, animosi come tanti Leonida e Bajardi, disciplinati come quelli di Roma antica e di Germania moderna, se non a divorare le risorse dello Stato e catturati a migliaia riempire le guarnigioni del nemico, quando non fossero spalleggiati in casa loro da quei stabilimenti metallurgici onde vanno potenti gli eserciti di Germania, Inghilterra, Francia e Russia. Invano le amministrazioni militari di questi Stati hanno tentato per qualche tempo di conservare la propria autonomia; spaventati hanno dovuto tosto rinunciarvi. Infatti i mutamenti continui che richiede l’arte metallurgica nelle sue macchine, alcune delle quali, come i martelli, costano talvolta due o tre milioni, necessitano il consumo di immensi capitali; i lavori delle miniere richiedono ferrovie, navigli, abitazioni vaste come intere città, costituzioni, scuole d’arte mineraria, governi speciali, amministrazioni colossali, oculate, divorate da febbrile attività e da incessante spirito di progresso. Sotto la protezione di questi stabilimenti furono obbligate le amministrazioni militari a rifugiarsi come già l’umile casa del colono sotto il superbo palazzo-fortezza del feudatario; esse videro tosto che lontano da questo non v’era sicurezza né prosperità, né potenza, né progresso. Così è che la guerra da impresa di eroi e di geni ideali è diventata questione di saldi e ben preparati organamenti, del concorso di tutte le forze economiche di una nazione e veramente lotta di civiltà. Sventura agli Stati ove l’amministrazione militare persiste nell’isolamento ed il cui occhio gretto e sospettoso non dà modo di misurare tutta la vastità e gravità di tali questioni; separandosi dalle forze vive di lor nazione trascineranno irremisibilmente, dopo un primo disastro, con loro tutta la nazione! Dal rapido sguardo che daremo in seguito ai rapporti dell’industria militare con quella privata esistenti presso i vari Stati d’Europa, ve-
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dremo come gli eserciti furono più volte condotti a rovina per essersi separati dall’industria privata, od averla oppressa, spinti a ciò da sospettosi tirannici reggimenti politici o perché troppo fidenti nelle straordinarie risorse metallurgiche nazionali si affidarono completamente in esse non calcolando che le popolazioni erano tormentate da spiriti socialisti, da un eccessivo individualismo, dalla febbre delle pacifiche speculazioni, onde gli eserciti si viddero nel dì del pericolo costretti a mendicare le armi dagli Stati vicini. L’Italia non trovarsi né nell’uno né nell’altro caso; la situazione nostra è nuova, unica nel suo genere. Havvi certo in Europa qualche nazione secondaria meno produttrice di noi nell’industria metallurgica; Grecia, Turchia, Spagna forsanche; tutte le altre ci sopravanzano, ma non v’ha al certo né in Europa né fuori uno Stato che con un potente esercito come quello che anela mettere in campo l’Italia e che è necessario infatti alla sua nuova posizione in Europa, possegga così limitate risorse dirette ed indirette per la fabbricazione del materiale da guerra. Eppure a giudicare dalla sicurezza, dall’abbandono universale, si direbbe che noi ci troviamo sotto tale aspetto nella più lieta situazione, fors’anche ciò è creduto dalla maggioranza degli Italiani, i pochi che a fondo conoscono la situazione, la evitano, la pongono in silenzio, come si lasciano in disparte le cose angosciose e difficili a risolversi. In Italia la pubblica opinione, nell’occuparsi dell’organizzazione delle forze militari nazionali, non fa ordinariamente che sfiorare le questioni oggi per dimenticarle completamente domani, onde tutto si riduce sempre a parole, parole, parole. Pochi sono quelli che approfondiscono tali questioni, pochissimi quelli che le sentono il che è causa che non si agisca. Invece è solo la forza della pubblica opinione che può abbattere questo vecchio edificio dei nostri stabilimenti militari, che potenti interessi locali persistono a tenere in piedi all’ombra del prestigio delle brillanti tradizioni dell’operosità feconda del passato e della presente indifferenza al bene comune; indifferenza criminosa che conduce i popoli liberi assai prima e più facilmente a rovina che il malgoverno e la tirannia dei principi. Non sono, i nostri, tempi di secolare e paludosa pace, i colossali armamenti di tutte le nazioni ci fanno accorti che la gran lotta della nazionalità sta per dare un nuovo e più che mai decisivo colpo; a questa lotta nessuno sa come né dove, ma tutti sentono che dovremo partecipare. Da un momento all’altro il nostro organamento militare può essere chiamato
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a funzionare ed allora, se non avremo acconciamente disposto il nostro materiale da guerra, non riusciranno utili né sforzi titanici, né entusiasmi, né tutti i geni di guerra del mondo varranno a trarci a salvamento. Prima, adunque, che disastrose esperienze vengano a costringerci, è necessario che usciamo da noi da questa situazione; il tempo ed i modi ancora ci sono dati, mostriamo che non ci manca il coraggio e la risoluzione dei popoli liberi. Non mai come oggi si presentò propizia l’occasione per risolvere ab imis fundamentis il grande problema della produzione del materiale da guerra per quanto riguarda gli stabilimenti del Governo e dell’industria privata. La grande incetta di armi e di arredi militari decretata dal Parlamento nello scorso anno; la rinnovazione dei trattati doganali; il riscatto delle ferrovie italiane; il bisogno che hanno gli opifici governativi e privati di rinnovare il loro materiale interno; la revisione dei trattati doganali, tutte queste circostanze ci spingono, ci mettono in grado di risolvere il grande problema dell’industria militare in modo veramente completo giovandoci altresì dell’esperienze fatte dalle varie nazioni di Europa e pagate sovente a ben caro prezzo. Ognuno ricorda quanto rumore abbia sollevato nel Parlamento Subalpino ed in tutto il Piemonte la questione del trasporto degli Arsenali marittimi nella magnifica stazione della Spezia. Ora ci troviamo in una identica situazione, anche qui si tratta di riunire un gruppo di stabilimenti produttori del materiale da guerra, di metterli in un luogo sicuro, più interno nell’Italia. Anche qui la località che la natura ci ha preparato è magnifica sotto ogni aspetto talchè potendosi appositamente creare non si avrebbe potuto far meglio. Ma le idee anche più giuste, più evidenti, più patriottiche, più sante hanno bisogno di un potente braccio per essere realizzate. La questione della Spezia lo ebbe nel conte di Cavour e fu appena sufficiente a vincere l’egoismo regionale, le grette vedute politiche e militari delle maggioranze, onde furono necessarie lunghe e vivissime lotte. Mancherà ora il braccio saldo per realizzare la questione Ternana? Non crediamo; l’opinione pubblica deve essere questo braccio, essa deve erigersi a giudice degli interessi di tutti gli italiani. Già la questione Ternana ha fatto notevole progresso, quando pochi anni or sono io mi faceva a segnalare le risorse militari ed industriali veramente straordinarie di questa fortunata terra e mostrava il posto eminente che avrebbe potuto occupare nel problema della guerra nazionale, il nome di Terni non era
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conosciuto che per le spettacolose scene della sua natura. Ora vediamo che già havvi in costruzione una fabbrica d’armi; le risorse militari ed industriali di Val Ternana sono note ed apprezzate da moltissimi; gli speculatori vi accorrono da ogni parte ad accaparrare il presente e l’avvenire. Il ministro Ricotti ebbe Val Ternana in grandissimo conto e molti produttori metallurgici vi tengono fissa l’attenzione. Non manca che una spinta e la questione si risolverà da se medesima, poichè questa, come tutte le cause che hanno in loro favore l’irresistibile logica delle ragioni naturali, presto o tardi finiscono per trionfare. Però qui si tratta di far presto, di far subito. Possano queste considerazioni giungere rispettosamente fino a chi ora soprasiede alla riorganizzazione dell’esercito. Egli, che cancellando dalla bandiera d’Italia la vergognosa formola scrittavi dalle guerre straniere e regionali, primo mostrò agli Italiani i principii e i modi per la guerra nazionale, compia ora il grande disegno, dia loro i mezzi per la effettuazione pratica di quei principii. Finché gli arsenali rimarranno là ove sono, i destini d’Italia in lotta contro le potenze d’Europa saranno incatenati ai piedi delle Alpi; la prima sconfitta subìta sotto le Alpi avrà valore di irreparabile disfatta, porterà lo spavento e l’impotenza per tutta Italia. Non può concepirsi la guerra nazionale finché tutti gli opifici necessari all’elaborazione delle armi non si trovano al sicuro, al centro di vitalità del paese, presso la capitale, in modo che la loro azione si possa equabilmente distribuire su tutte le province, come dal cuore circola il sangue che vivifica ogni molecola del corpo. Allora soltanto la lotta potrà essere lunga, ostinata, generale e minuta; facili riusciranno le riprese offensive; impossibile diverrà la consolidazione della conquista; gli Italiani come durante le antiche e classiche lor guerre d’indipendenza, potranno allora mostrare agli stranieri che perduta la Valle del Po, l’Italia è ben altro che vinta. Non mancano individualità cui i ministri della Guerra, della Marina, dei Lavori Pubblici, dell’Industria, delle Finanze tutti ugualmente cooperando, possano affidare la realizzazione di questa ardua impresa, ma il generale Cavalli, questo padre della moderna artiglieria sapiente conoscitore dell’arte metallurgica non è Egli l’uomo provvidenziale a ciò? Quanto valore non potrà avere nella soluzione di questa grave questione il prestigio altissimo del suo nome europeo, l’autorità del suo profondo sapere, la lunga e travagliata sua esperienza, il fuoco e la tempra sua giovanile!
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Ma qualora continuando nella fiaccona ed indolenza si lasciassero invece gli stabilimenti militari là ove si trovano, quale tremenda responsabilità non verrebbe a pesare sul Governo e specialmente sull’amministrazione militare? Io chieggo, chi in Italia imitando la delittuosa leggerezza del maresciallo Le Boeuf 6 ardirebbe dichiarare alla nazione che l’esercito è pronto a sostenere una guerra nazionale? Non avrebbe l’Italia assai più che non ebbe la Francia il diritto di chiamare responsabile questo banditore di guerra, dei disastri che fossero avvenuti e di coprire d’infamia il suo nome nella storia? Poiché nel governo personale della Francia, non aveva voce la nazione, e l’impero ne prendeva su di sé le glorie come le sventure; ma in Italia le rappresentanze nazionali a ragione guardinghe, nel decretare spese per fortificazione, non furono mai avare, anzi mostrarono la più grande arrendevolezza ognor quando si trattò di provvedere armi od arredi da guerra. Se la situazione di Francia cogli stabilimenti militari dell’Alsazia era grave, la nostra è gravissima, né v’ha ragione alcuna che la scusi. Infatti: I. la Francia teneva i suoi stabilimenti militari al coperto nelle piazze forti di Metz e Strasbourg, sul cui valore difensivo avevansi le più alte idee, mentre di tutti i nostri, non uno solo si trova in posizione non dico forte, ma solo coperta da un primo attacco. II. La Francia aveva sei anni prima stabilito ed iniziato il concentramento pei suoi stabilimenti nell’interno del paese attorno a Bourges, a Strassbourg e Metz non esistevano più che depositi di materiale confezionato e polverifici, laddove da noi trattasi di stabilimenti produttori, di tutta la vitalità organica del nostro armamento. III. La Francia era trattenuta nei suoi stabilimenti d’Alsazia e Lorena dalle potenti risorse metallurgiche dei luoghi, dal fatto che in quei stabilimenti si era sviluppata tutta la gloriosissima epopea dell’artiglieria francese nei tempi moderni, laddove i nostri stabilimenti delle Alpi come della Campania non traggono nulla dai luoghi, e l’Italia attende ancora che si formi un centro ove continuare le grandi tradizioni della antica artiglieria italiana.
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Capo di Stato Maggiore dell’esercito francese al tempo della guerra francoprussiana.
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IV. La Francia non ammetteva, in una guerra contro la Prussia, che l’offensiva, né tampoco pensava alla eventualità della difensiva e considerava perciò quei stabilimenti come ben situati sulla base di operazioni del Reno, laddove noi che teniamo politicamente come militarmente un’attitudine decisamente difensiva su questa frontiera delle Alpi, non abbiamo nemmeno tale scusa a nostro vantaggio; di più la mancanza di una flotta atta a battere il mare, ci costringe alla difensiva anche sulle coste. V. La Francia aveva altri stabilimenti produttori nell’interno del paese e poteva contare su di una potente industria metallurgica privata, noi non abbiamo né gli uni né l’altra; il possesso degli stabilimenti di frontiera è dunque per noi questione di essere o non essere.
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II Brevi considerazioni sul modo con cui le grandi potenze militari: Germania, Francia, Austria, Russia, Inghilterra, Stati Uniti d’America, ecc. hanno risoluto il problema della fabbricazione del materiale da guerra per mezzo di stabilimenti militari governativi e del concorso dell’industria metallurgica privata nazionale. Molteplici insegnamenti che ne derivano pel tempo di pace come per quello di guerra.
A mostrare quanto siano anormali e gravi le nostre condizioni e ricercare i modi ed i principi per porvi rimedio, nulla giova meglio che prendere conoscenza di quanto a tale riguardo si è fatto e si fa nei più importanti Stati d’Europa, e considerare i risultamenti da essi ottenuti in tempo di pace e di guerra. Ognuna delle grandi potenze d’Europa ha sciolto l’arduo problema in modo caratteristico, in conformità dell’indole della popolazione, della potenza industriale, dell’indirizzo politico militare, della forza espansiva ond’è animata la nazione. Però vediamo che sebbene per vie diverse tutte mirano a due scopi: 1. Riunire i principali stabilimenti governativi per la produzione del materiale da guerra in luoghi sicuri per natura o per arte, ai centri più che di figura, di movimento dei rispettivi Stati e preferibilmente in vicinanza delle capitali, dislocando attorno a questo centro e sulle principali linee strategiche, i depositi del materiale confezionato. 2. Sviluppare l’industria privata nazionale per renderla indipendente da quella estera, e porla in grado di sussidiare ed anche sostituire gli stabilimenti militari in tempo di guerra, e durante i periodi di pace, completare l’armamento dell’esercito e della marina, fornire macchine ed attrezzi; servire come da vedetta instancabile, da stimolo continuo ai progressi della metallurgia e conseguentemente del materiale da guerra. L’avere le nazioni estere tributarie ai propri stabilimenti d’industria metallurgica viene considerato come precedente efficacissimo di vittoria in caso di guerra e più saldo argomento per le alleanze e le neutralità che non la forza dei trattati e gli intrighi dei gabinetti. Invece l’essere forzatamente tributari agli stabilimenti esteri, si ritiene come una vergogna nazionale, come un fattore negativo potentissimo per i destini militari e finanziari dello Stato. Infatti nessu-
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no s’illude sulla necessità in caso di guerra di rovinare l’erario per ricattare gli scarti delle fabbriche estere che in tali circostanze lavorano per i loro governi. FRANCIA. – Incominciamo anzitutto dalla Francia che offre maggior copia di recenti e memorabili insegnamenti. La Francia portò ognora, nelle relazioni dell’industria siderurgica militare con quella privata, quei medesimi errori, quei principi di esclusivismo e monopoli onde è piena la sua storia politica economica; quell’irrequieto e sospettoso regime che era una conseguenza diretta della natura dei suoi governi e delle sue popolazioni, infine tutti quegli amminicoli di vessazioni, prepotenze per cui popolo ed esercito in Francia in ogni tempo si resero poco atti ai pubblici negozi. In Francia come in Austria pareva fino a questi ultimi giorni che l’industria militare non dovesse prosperare che sulle rovine dell’industria privata. Alla direzione dei suoi opifici l’amministrazione militare pose ognora una folla di ufficiali d’artiglieria e del genio, che educati alle celebri scuole d’artiglieria di Metz, Strassbourg, Tolosa, Versailles, Vincennes, La Fère, Besancon, Rènnes, Douai, furono sotto più punti di vista onore dell’esercito francese; essi si distinsero ognora per sapienti ricerche scientifiche sull’artiglieria, ma incepparono potentemente lo sviluppo tecnico dell’arte metallurgica di cui erano quasi sempre ignari. Già allo scoppiare delle guerre della Rivoluzione (1792) il governo potè esperimentare le funeste conseguenze di questo monopolio tenuto nell’industria militare; aveva bisogno di 6000 cannoni e per provvederli ricorse ai soliti atti estremi e di terrore; fece requisire tutte le fonderie, le officine, gli operai dello Stato che furono istruiti con apposite maestranze, dirette dai valenti Monge e Perrier. Malgrado tuttociò il Comitato di Salute pubblica non raggiunse l’intento che in un modo incompleto, essendogli mancato l’appoggio di un’esperta industria privata. Nel 1810 un decreto imperiale ridava alle manifatture dello Stato il monopolio della fabbricazione delle armi da guerra, escludendone sotto severe pene l’industria privata. Durante il secondo impero l’artiglieria divenne l’argomento favorito delle preoccupazioni dell’esercito per spinta dello stesso imperatore. Ma sia Napoleone che Niel e Le Boeuf erano contrari all’industria borghese. Sopra 8 milioni stanziati nel bilancio per il mantenimento e rinnovamento del materiale di artiglieria che rappresentano
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un valore di 500 milioni, solo 300,000 lire erano riservate per incoraggiamento alla moltitudine di inventori, per le esperienze, ricerche, e perfezionamenti. Molte ed acerbe critiche si levarono in Francia e specialmente a Parigi contro le direzioni di artiglieria le quali non servivansi dell’industria nazionale che per avere attrezzi e macchine ostinandosi a produrre da loro anche metalli. Ben presto però ebbero a pentirsi del loro isolamento; mentre Germania, Russia, Inghilterra ricavando da loro grandi stabilimenti metallurgici privati, eccellenti ferri ed acciai, danno grande impulso alla fabbricazione delle armi, gli stabilimenti francesi si videro ridotti nell’impotenza come produttori di metalli non solo, ma di armi. Allora si accostarono sebbene a malincuore all’industria privata. Si rivolsero daprima alle officine di Creusot, Petin-Gaudet, Com-mentry, che erano le più potenti di Francia, chiedendo ad esse, con grande urgenza, notevole quantità di artiglierie di ferro ed acciaio, ma questi stabilimenti avevano perduto ogni attitudine alla costruzione del materiale da guerra, non poterono perciò soddisfare alle richieste, e non fu possibile utilizzarle che per la costruzione degli affusti. L’amministrazione militare francese portò tutta la sua attenzione alla fonderia di Ruelle che aveva provveduto di cannoni i precedenti governi di Francia, ma che per l’abbandono in cui era stata lasciata trovavasi ridotta a miserabile stato. Sotto il nuovo impulso governativo ritornarono, per questa officina, gli antichi bei giorni; tutto vi fu ampliato, perfezionato. È da questa fonderia, infatti, che uscirono i cannoni d’assedio e di marina che fecero buona prova all’assedio di Parigi, ma il regime esclusivamente militare, le impedì di prendere quelle proporzioni che sarebbero state richieste dai bisogni della Francia ed adottare i perfezionamenti voluti dai progressi dell’arte metallurgica. Essa era costretta a prendere la ghisa dall’Inghilterra, mentre affettava di ricercare nuove leghe di metalli avvolgendosi nel mistero. Lo stesso avvenne per la nuova fonderia costrutta di Bourges per le artiglierie da campagna; tutto lo spirito di progresso e la potenzialità produttrice, ond’era animato nell’epoca di sua fondazione, fu spento da un regime di isolamento, ed essa allo scoppiare della guerra non trovavasi in grado di produrre che 480 cannoni all’anno, ed ancora di solo bronzo, né poteva essere utilizzata per la costruzione dei cannoni d’acciaio. Le officine complementari di Tarbes e Puteaux erano cadute in prostrazione subito al loro nascere, prima di essere state ultimate. Tale era
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lo stato degli stabilimenti d’artiglieria allorché scoppiò la guerra del 1870 ed allora dove trovò la Francia il suo principale appoggio? Nell’industria privata rappresentata specialmente dal Verchère de Reffye direttore delle officine di Meudon che colla sua intelligenza ed energia diede alla Francia più che 2000 pezzi delle nuove artiglierie a retrocarica da 7, ora adottate per l’armamento normale dell’esercito. Ecco gli effetti che il regime militare produsse sempre negli stabilimenti francesi per fabbricazione del materiale da guerra. Contro tale regime si levarono ognora gli uomini più competenti in fatto di metallurgica. Così ad esempio il D’Artein gran direttore e perfezionatore delle fondite di Francia ai tempi napoleonici scriveva: “Si capisce senza essere esperto nei lavori pel getto delle artiglierie come non sia possibile che militari assorti sin dalla loro gioventù da altri studi e che hanno tutt’al più il tempo di acquistare le cognizioni teoriche e generali della grande arte dell’artiglieria, possano essere capaci di esercitare un ufficio che esige imperiosamente la più lunga pratica; di dirigere uomini nelle diverse arti e professioni che si riferiscono alla metallurgia, le quali nulla hanno a che fare col servizio di campagna dell’artiglieria”. Uguale spirito di autonomia e di diffidenza impresse ognora il Governo francese, alle manifatture per le armi da fuoco portatili; la costruzione dei fucili in uso presso l’esercito fu ognora severamente vietata a molti e potenti armajoli francesi; tutto il lavoro dovevasi compiere dagli stabilimenti governativi. Sotto tal punto di vista i governi di Francia si atteggiarono come se i nemici fossero stati i Francesi non le potenze d’oltre frontiera. Ancora ultimamente l’amministrazione militare, volendo in due anni completare l’armamento dell’esercito con 2 milioni di fucili Chassepots e riconoscendo che le sue tre manifatture d’armi non potevano dare che 450,000 fucili all’anno, ricorse a tutte le industrie straniere d’Europa ed America perfino a quella d’Italia. Dell’industria nazionale invece non si servì che per la trasformazione dei vecchi fucili modello 1853 al sistema Snieder-Enfield, per la costruzione di revolver, di cartucce a capsole, di armi bianche e per la fabbricazione delle polveri cui prima del 1870 aveva affittato 8 degli 11 polverifici dello Stato. La lentezza con cui l’industria privata rispose alla commissione avuta per la trasformazione di 400,000 fucili (i quali invece che nell’ottobre del 1867 furono consegnati nel luglio 1869), avrebbe dovuto mettere in sull’avviso l’amministrazione militare francese. Non era certo né l’intelligenza, né il buon volere, né la potenza che facevano difetto agli armajoli francesi i quali
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nei soli circondari di Parigi e S. Etienne, sarebbero stati capaci di armare l’intero esercito francese. Dagli armajoli di Parigi era uscito il celebre Dreyse, il quale non curato in Francia portò in Prussia quel celebre fucile che trascinò seco tutto il rivolgimento moderno nell’armamento delle fanterie. Ciò che mancava a questi armajoli francesi era la sicurezza di un duraturo e potente contributo per parte dell’amministrazione militare; sapendosi trascurati da questa, essi si diedero alla fabbricazione delle armi da lusso e da caccia nelle quali riuscirono valentissimi come costruttori ed inventori, mentre si mostravano impotenti ad eseguire semplici trasformazioni di armi militari. Le manifatture governative sentivano a lor volta i tristi effetti di un tale isolamento, ed infiacchivano; fu per rianimarle che il Governo francese si vidde costretto a trovare un temperamento per cui senza perdere il dominio assoluto sulle manifatture potesse far loro provare il benefico contatto dell’attività privata. Questo regime speciale consisteva nell’affittare le manifatture governative ad un intraprenditore che doveva antistare le somme necessarie al pagamento della mano d’opera ed all’acquisto delle materie prime, di cui era fissata la natura come il modo di confezionarla da speciale tariffa. Egli riceveva dallo Stato in affitto edifici e macchine e gli vendeva le armi, mediante il pagamento di uno sconto che variava a seconda delle manifatture. Così le fabbriche d’armi di Saint Etienne, Chatellerault e Tulle dai valenti intraprenditori Escoffier, Sauvage furono completamente rinnovate e la prima anzi fu riedificata a nuovo nel 1864 allorché vi introdusse il lavoro a macchina. Con la direzione di questi esimi meccanici la Francia occupò tosto un posto eminente nella fabbricazione delle armi portatili e fu questa una eloquente condanna del sistema di autonomia militare, imposto all’industria delle armi in Francia dal suo sospettoso Governo. Ma questi doveva scontare a ben caro prezzo l’errore di aver isolati gli stabilimenti produttori del materiale da guerra della nazione. Essi per una serie di circostanze, e che già più sopra enumerammo, si trovano disseminati sulle frontiere; l’aver sempre dovuto combattere guerre offensive sui teatri del Reno, d’Italia, di Spagna, aveva indotto la Francia a frazionare, a spingere sulla periferia dello Stato gli stabilimenti e magazzeni che dovevano sorreggere il braccio ed il ventre dei suoi eserciti. Nel 1860 per la prima volta sorse l’idea di riunire al centro dello Stato i maggiori stabilimenti militari metallurgici, approfittando di quel-
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l’occasione per trasformare completamente il macchinismo di quegli stabilimenti. Detto, fatto, e nel 1864 già funzionava la nuova grande fonderia di Bourges, destinata a sostituire le fonderie di Strasbourg, Tolosa, Douai ed essere l’unica dello Stato. In quest’indirizzo di accentramento però non si volle andare a fondo; i Francesi sentirono come una ripugnanza ad abbandonare le celebri ed antichissime loro fonderie ed a sgombrare quella frontiera del Reno che di anno in anno sempre più agognavano di passare per sfogare l’invincibile odio contro i Prussiani. Il sogno della frontiera del Reno trattenne i francesi a mezza strada nelle loro riforme, onde dopo il 1866 essi rinnovarono nelle fortezze di Metz l’arsenale, il polverificio, la scuola pirotecnica, il poligono; e nella fortezza di Strassbourg adunarono grandi depositi di materiale da guerra confezionato, come pure a Mezieres, a La Fêre, mentre lasciavano languire i nuovi opifici di Bourges, Tarbes e Puteax. Sì grande era l’acciecamento dei Francesi che a nessuno attraversò alla mente quel pensiero che poi parve a tutti sì naturale ed evidente; chi avesse consigliato di porre al sicuro gli stabilimenti militari, avrebbe arrecato grave offesa alla Francia, quasi suggerendo una ritirata vergognosa di fronte alla Prussia. Così è che allo stesso Stoffel, malgrado il suo spirito profondamente osservatore, malgrado che avesse continuamente sotto gli occhi nella fortezza di Spandau l’esempio più perfetto dell’accertamento di tali stabilimenti militari, anche a lui sfuggì completamente il pericolo in cui trovavasi la Francia. Le Boeuf 7 pronunciò le fatali parole: l’esercito è pronto; il governò assicurò che intraprendeva la guerra col cuore leggero, e tutta la nazione applaudiva freneticamente, certa della vittoria. Ma ecco che in pochi giorni i Prussiani, occupando gli stabilimenti dell’Alsazia e della Lorena, vengono in possesso di 500,000 fucili, fra cui 200,000 dei più perfetti sistemi, di artiglierie e di arredi da guerra di ogni specie; distrutto l’esercito regolare, bloccata Strassbourg e Metz, i Prussiani si gettano contro la nazione francese inerme. La confusione, il disordine, lo spavento si spandono nei pochi stabilimenti di approvvigionamento e produzione rimasti ancora alla Francia, ad essi da ogni parte viene richiesto materiale da guerra, mentre dall’altra vi affluisce una congerie di arredi non atti che a disorganizzare i ma-
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Vedi nota 6, infra p. 129.
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gazzini. In questo secondo periodo della guerra, cioè la lotta contro la nazione francese, il problema della produzione del materiale da guerra acquistò una importanza capitale; l’industria privata già disprezzata, negletta, avvilita divenne l’ancora di salvezza della nazione. Si vidde ciò che può fare un ricchissimo e grande Stato industriale, sotto uno di quegli sforzi supremi che decidono della sua vita o della sua morte, in uno di quegli slanci di patriottismo tutto caratteristico alla Francia; ma si vidde altresì come questi sforzi di produzione non conducano in pratica che a ben limitati risultati quando l’industria privata non è stata precedentemente preparata. Immane fu la congerie di arredi ed oggetti militari confezionati dai Francesi dopo il 1° luglio cioè dopo la perdita degli stabilimenti di Alsazia e Lorena. Le manifatture d’armi governative e private costrussero 150,000 Chassepots, ma non bastando, se ne dovettero trarre 573 mila dall’estero; furono dall’industria privata rigate gran numero di bocche a fuoco da 8, 12 e 24 lisce modificandone il munizionamento corrispondente; furono fabbricati 425 affusti, 152 vetture diverse; furono fabbricate 368,000 spolette, 97,000 scatole a mitraglia, sempre dall’industria nazionale. Furono fuse 205,000 granate di diversi calibri dalle officine De Jemo fonditore ad Evreux che in seguito ai contratti aveva trasportato a Parigi gran parte delle sue officine e del suo personale. Durante la guerra un solo dei molti polverifici posseduti dall’Amministrazione militare potè continuare le sue fabbricazioni, quello di S. Charnas. Fu per ciò organizzato a Parigi un polverificio che produsse 5,000 Kilogrammi di polvere al giorno e sui diversi punti della città furono stabiliti laboratori per cartucce che diedero giornalmente fino a 100,000 cartucce. Furono portate a Parigi le officine Mendon da dove uscirono 8 batterie di mitragliatrici, 4 batterie di cannoni caricantesi dalla culatta. Il Genio Civile potè dal suo canto somministratore 50 mortai da 15 centimetri per la difesa vicina di Parigi, 110 cannoni da 7,200 carri da munizione con projetti e cartocci ecc. ecc. Intorno al valore di tutto questo materiale improvvisato riportiamo il parere espresso dalla Commissione d’inchiesta nominata nel 1872 appunto per verificare lo stato del materiale di artiglieria dopo la guerra. Nella sua Relazione all’Assemblea dichiarava “che tra bocche a fuoco un gran numero erano inette a qualsiasi uso, le une perché d’un modello troppo antico, le altre perchè di una fabbricazione difettosa. Nel numero di queste ultime si trovano i pezzi che la Commissione
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vidde all’arsenale di Lione. Somministrati alla città durante la guerra, questi pezzi sono una prova dei prodotti che può dare l’industria privata allorché essa fabbrica in fretta senza essere guidata dall’esperienza; provati al forte di Lamotte scoppiarono ai primi colpi e le loro culatte spezzate testificarono la poca resistenza di cui erano capaci sotto lo sforzo della polvere. Il materiale mobile somministrato durante la guerra lascia pure molto a desiderare, il ferro impegnatovi è sovente di pessima qualità, il legno non è sufficientemente asciutto si è contorto e fesso sotto l’azione della temperatura, talvolta si è scheggiato. Una gran parte di questo materiale è da ripararsi o da distruggere. Gran parte degli affusti e delle vetture erano fin dalla loro origine improprie ad ogni servizio, come quelli da noi veduti all’arsenale di Lione provenienti dall’industria privata. Gli affusti erano di fabbricazione irregolare e si scomponevano in tutti i sensi quantunque interamente nuovi. Le vetture da munizione erano in apparenza meglio confezionate, ma non conformi ad alcun modello regolamentare: i loro cofani non avevano le dimensioni degli oggetti che dovevano contenere. Identiche critiche valgono per il materiale raccolto dall’Inghilterra, sistema Whitworth, depositati all’arsenale di Besancon e quantunque fosse stato rinforzato prima di essere messo alla prova, cedette dopo tre giorni di marcia”. I relatori continuano a segnalare gli inconvenienti manifestatasi nel materiale d’artiglieria somministrato dall’industria privata, di ruote che non si adattavano che a speciali sistemi d’affusti, di materiali destinati ad essere uniti e che invece si trovavano dispersi in parecchi stabilimenti; in uno tutte le munizioni, in un altro gli affusti, in un terzo i pezzi con il che impossibile diventava di costruire prontamente le batterie. “All’arsenale di Tolosa la Commissione ha trovato 2,500 selle inglesi tutte nuove e che furono rigettate perché ferivano i cavalli, lo stessi dicasi delle bardature. Noi abbiamo trovato che gran quantità di munizioni fabbricate durante la guerra, sono di una qualità generalmente meno che mediocre, citeremo specialmente le polveri somministrate da Ronmagnac, depositate nelle città di Cette e Marsiglia le quali non valgono che il salnitro che da esse si potrà estrarre”. Parlando delle polveri depositate nei magazzini di Sartory, dice la relazione che alcune cartucce erano vuote coi tubi metallici disarmati: a Bourges sopra 14 milioni di cartucce 11 milioni furono rigettate: tutte le munizioni depositate a Rochefort furono distrutte.
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Per queste dure lezioni, la Francia vidde la necessità di accrescere la potenza di fabbricazione dei suoi stabilimenti e dare maggiore campo d’azione all’industria privata, perciò immediatamente dopo la guerra la Commissione d’Inchiesta sul materiale da guerra proponeva la spesa di 2 milioni per la fonderia di Bourges, 2 milioni e ½ per l’opificio di Tarbes, un milione per quello di Puteaux, 6 milioni e ½ per polverifici militari, 2 milioni e mezzo per l’organizzazione di opifici per la costruzione di cartucce metalliche. Quanto al maggior campo di azione dato all’industria privata basterà lo sviluppo preso dalle officine di Reffy, il celebre inventore del cannone francese caricantesi per la culatta, e l’istituzione della grande Società unica per le forniture dell’esercito, cioè: buffetterie, vestiario, bardature, nel qual sistema la Francia ha imitato l’Austria, gittandosi arditamente sulla via delle riforme, liberandosi da tutti quegli amminicoli di sospetti, prepotenze, vessazioni, monopolii coi quali ognora inceppò la produzione del suo materiale da guerra. GERMANIA. – In modo ben diverso fu posto e risoluto il problema della fabbricazione del materiale da guerra nella Germania. Dopo la guerra del 1870 fu quivi tutto disposto per mettere in grado l’industria militare e privata di sopperire ai bisogni di quella imponente e più perfetta macchina di guerra che siasi vista al mondo. L’Impero di Germania come il Regno d’Italia formato dalla riunione di più Stati che da secoli avevano avuto vita autonoma, si trovava ad avere gli stabilimenti militari i disordine, insufficienti ai nuovi bisogni, dislocati sovente contrariamente alle esigenze dell’Impero; non si tenne però un sol giorno in un attitudine di apatica indifferenza da noi mostrata per 16 anni; sua prima cura fu di dedicare gran parte dell’imposizione di guerra levata alla Francia per la riorganizzazione degli stabilimenti militari. Le potentissime risorse mineralogiche dei monti che formano la valle del Reno, del Saare, del Ruhr, del Veser, della Saale, dell’alto Oder, nutrono colossali stabilimenti industriali ed una miriade di minori opifici quali non si rinvengono che nell’Inghilterra e negli Stati Uniti. Ciò avrebbe potuto costituire potente incentivo ai vari Stati di Germania a disseminare anche gli stabilimenti militari per collocarli sulle fonti più copiose della materia prima. Invece le considerazioni militari ebbero ognora il sopravvento ed incatenarono quegli stabilimenti sui più importanti punti e lungo le linee strategiche. Emporio
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ne è per il regno di Prussia da lungo tempo la piazza di Spandau nelle vicinanze di Berlino. Ivi trovavansi l’arsenale, un gran polverificio, la fonderia per l’artiglieria da campagna e da marina, uno stabilimento pirotecnico, una fabbrica d’armi assai celebrata, deposito d’artiglieria, fabbrica d’affusti. Nelle adiacenze di Spandau, v’ha Potsdam in luogo forte per natura sopra un’isola dei laghi omonimi, con una fabbrica d’armi, una scuola d’artiglieria ed istituti militari di ogni genere. A Berlino stesso havvi arsenale, fonderia, fabbrica d’armi, poligoni di Tegel e Zossen. Insomma, Spandau, Potsdam e Berlino sono i cardini sui quali fu costrutto e tutt’ora poggia il grande edificio militare della Prussia. Nelle vicinanze trovasi la celebre fonderia di Grusson a Bukau che è in concorrenza con quella di Krupp, fabbrica corazze di acciaio, proiettili per forare le corazze, Torri girevoli da applicarsi ai campi trincerati. Nel Regno di Baviera gli stabilimenti militari si trovano disseminati in parecchie località attrattivi dalle risorse mineralogiche dei luoghi. Ora l’impero germanico ha stanziato 72 milioni di talleri per le fortificazioni da erigersi ad Ingolstadt dichiarata maggior piazza di guerra della Germania del Sud, ed in essa dovranno essere trasportati gradatamente tutti gli stabilimenti produttori della Baviera, la quale approfitta di tale circostanza per riformare completamente l’impianto di quegli opifici ed il suo materiale da guerra. Ingolstadt protetto da lontani forti staccati come quelli che debbonsi erigere attorno a Spandau, diventerà centro di tutta la produzione del materiale da guerra della Germania del Sud. Anche il piccolo Regno di Sassonia, che dispone di regioni ricchissime in prodotti minerari, pure teneva concentrato nella sua capitale Dresda gli opifici militari, cioè una fonderia di cannoni, una fonderia di projettili, un polverificio, un arsenale, una fabbrica di capsule, munizioni ed artifici da guerra, depositi e scuole militari di ogni genere, lasciando che le risorse nei monti che contaminano questo Stato dalla Prussia e dall’Austria, fossero usufruite dall’industria privata di cui l’amministrazione militare traeva grande profitto. Ora, come è noto, gli stabilimenti militari di Dresda vengono tutti riedificati secondo i più perfetti sistemi moderni, colla vendita dei vecchi stabilimenti si spera di compiere tale trasformazione senza grave scossa finanziaria. Nel piccolo Regno del Wurtemberg gli stabilimenti militari erano accentrati nella fortezza di Ludwigsbourg situata a breve distanza dalla capitale Stuttgard, cioè una fonderia di
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cannoni, deposito di bocche a fuoco, una fabbrica di affusti e di munizioni da guerra, altra per le riparazioni delle armi, tutti i materiali, le vettovaglie necessarie all’esercito wurtemberghese, tutto ciò sotto la direzione di un ufficiale di artiglieria, mentre per le armi portatili e le armi bianche, venivano messe a contribuzione le officine private. La Germania fa assegnamento per la produzione del materiale da guerra durante la lotta essenzialmente su i suoi stabilimenti, ciò non vuol dire che essa trascuri o si separi dall’industria privata che anzi in nessuno Stato troviamo tra questi due enti, un accordo più armonico, serio, autorevole, coscienzioso e produttivo. A quale potenza siano giunti gli stabilimenti metallurgici privati di Krupp, Gruson, di Berger, della società Bochumer, di Bhenibollen, di Sterkrade ed altri è a tutti noto; per essi la Germania si è resa completamente indipendente dall’industria esterna anche per la difficile produzione dell’acciajo, e può avere nel caso di guerra tante artiglierie da campagna, da marina, quanto gli altri Stati armi portatili. A quegli industriali è affidata la somministrazione delle artiglierie di Germania non solo, ma di quasi tutta Europa; si capisce naturalmente, v’ha una ben notevole differenza tra l’artiglieria che Krupp fornisce al suo Imperatore e protettore e quella che dà per esempio al Sultano di Costantinopoli. Le armi bianche ricava l’impero quasi per intero dalle officine private di Solinghen, laddove prima non uscivano che da Spandau, lo stesso dicasi della polvere, delle armi portatili nei quali generi la ben disciplinata e militarizzata industria privata completa le somministranze fatte dagli opifici governativi di Spandau. Per le armi da fuoco portatili l’amministrazione militare prussiana fu per vero dire assai guardinga nel confidarsi all’industria privata e nol fece che quando questa potè offrire serie guarentigie di sua potenza. Per la costruzione dei suoi fucili ad ago Dreyse, che considerava come segnale di guerra, impiegò tutto il periodo dal 1842 al 1858; ora nelle fabbricazioni dei fucili Manser di nuovo modello iniziato nel 1872, diede notevole parte l’industria privata seguendo nelle accettazioni dei prodotti la misura di tolleranza detta americana (non mai più di 1/1000 di pollice, 1/38 di millimetro). E più specialmente dopo il 1866 che la Prussia riconobbe la necessità di far sussidiare l’amministrazione governativa dall’industria privata, durante la campagna contro l’Austria fu obbligata a sospendere la costruzione del nuovo materiale d’artiglieria in acciaio e trascinarsi dietro la vecchia artiglieria di bronzo liscia, che fu di nessun utilità sul campo di
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battaglia e di grave impaccio nella logistica. Appena ultimata la guerra, la Prussia si diede a tutto corpo a compiere la trasformazione del suo materiale. Quante fatiche, quante spese, quante agitazioni, non provocarono queste esperienze d’artiglieria all’esercito, alla nazione intera! Per quanti insuccessi, per quanti disinganni non si dovette mai passare, prima di trovare una soluzione! È certo che malgrado la serietà, la perseveranza dell’esercito prussiano, la ricerca del materiale d’artiglieria in acciajo sarebbe stata abbandonata quando una colossale industria privata rappresentata da Krupp e da Gruson non fosse venuta a sorreggerla ed incoraggiarla con sapienti ricerche sui materiali, sulle fondite con replicate costruzioni di pezzi, di projettili, di affusti, offrendo uno spettacolo ammirando di accordo, di intelligenza. In altri Stati, l’amministrazione militare, trovandosi in presenza di colossali stabilimenti privati metallurgici come quelli di cui dispone la Germania, non avrebbe mancato di mettere, alla direzione degli stabilimenti militari, personaggi di elevato grado dell’esercito, acciocché avessero potuto imporsi od almeno frenare o redimersi da ogni influenza di quell’industria borghese. Niente di tutto ciò in Prussia, malgrado l’alto spirito militare della nazione. “Debbo far rimarcare (scrive Stoffel nei suoi celebri rapporti a proposito della fonderia di Spandau) un fatto che caratterizza un ordine di idee assai comune in Prussia. Questa fonderia è uno stabilimento considerevole dappoichè vi si fabbrica tutto il materiale d’artiglieria dell’esercito e della marina. Ora quale non sarebbe la meraviglia d’un ufficiale francese nel sapere che un tale stabilimento è diretto da un solo capitano aiutato da due tenenti. Il capitano direttore della fonderia di Spandau non dipende che dal Ministero della guerra e da più anni adempie con soddisfazione generale al suo ufficio, nel quale sarà mantenuto probabilmente anche nei gradi superiori. Un tal uso è molto comune in Prussia; potrei citare altri stabilimenti e posizioni elevate al Ministero di guerra, che sono diretti da ufficiali di grado molto inferiore. Quando un ufficiale, qualunque sia il suo grado, addimostri una speciale attitudine, lo si piega in modo conforme a questa sua attitudine. In Francia, alla testa di uno stabilimento come quello di Spandau, si sarebbe collocato almeno un colonnello assistito da sei o sette ufficiali”. RUSSIA. – Perfino in Russia l’industria militare fu costretta ad indossare l’abito borghese, il che è tutto dire; a trasformarsi comple-
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tamente, a gittarsi sulla via di un incessante progresso. Naturalmente ogni Stato produce l’industria metallurgica a sua immagine, e in Russia questa riveste tutti i caratteri di vitalità di una colossale potenza, ancora però allo stato vergine. Sebbene ricchissima di materie prime che gli forniscono le inesauribili miniere degli Urali, l’industria metallurgica russa era rimasta fino a pochi anni or sono allo stato di potenzialità latente, per la difficoltà delle comunicazioni, l’assenza di spirito espansivo politico e militare, il carattere dispotico del governo, ed altre cause. Vediamo un esempio. La grande manifattura d’armi di Tula era stata fondata dalla stessa famiglia regnante dei Demidoff allorché Pietro il Grande cercò trarre la Russia dalle sue frontiere, ma tenuta poi isolata dal Governo di ogni movimento esterno, essa decadde, inlanguidì. Invano si cercò nel 1823 di infonderle nuova vita chiamando dall’Inghilterra e dal Belgio persone, macchine, riformandone le istituzioni; è solo nel1864 allorchè fu data all’industria privata che prese nuovo slancio. Nel 1870 il Governo la ritolse sotto il suo patrocinio per farla rinnovare completamente da generali e industrianti, in conformità dei grandi mutamenti avvenuti nell’industria metallurgica e dei formidabili armamenti richiesti dallo Stato. Questa manifattura, per la sola trasformazione della quale furono spesi 12 milioni, è ora una delle più perfette di Europa ed il Governo l’amministra direttamente tenendo però sempre d’occhio quella valvola di sicurezza che richiama l’assistenza dell’industria privata. Identiche vicende hanno attraversato gli altri antichi stabilimenti metallurgici russi, come ad esempio la fonderia Alessandro pure stabilita da Pietro il Grande. Il riordinamento dell’industria metallurgica russa fu tutto compiuto dal 1870 in poi sotto la suprema direzione del potere militare, rappresentato da ufficiali e generali assai valenti nell’arte della metallurgia. Così il generale Musselins ed ufficiali d’artiglieria sorvegliano le grandiose fonderie d’acciaio Obustrow, dalle quali escono i cannoni dello stesso metallo ed i cui prodotti rivaleggiano con quelli d’Inghilterra. La manifattura di Sestroretzfu interamente rinnovata sotto la direzione del generale Lillenfeld. Il Governo padroneggia e s’impone all’industria privata, ma riconoscendo che solo nel concorso e nella potenza di questa può trovare la sua forza; con una liberalità dispotica tutta sua propria, colla sterminata potenza dei suoi mezzi, la sostiene, la dirige, le trasfonde tutta l’energia della sua vitalità politica militare.
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La Russia procura con grande attenzione che i suoi stabilimenti metallurgici non si nutrino che delle materie prime ricavate dallo Stato, non già gravando i dazi di importazione, ma fomentando con tutti i mezzi lo sviluppo e l’impiego delle ricchezze nazionali. Così la fabbrica di Tula non prende dall’estero che l’acciajo; il grande stabilimento metallurgico della Kama creato nel 1862 trae tutto dagli Urali e riceve grande impulso dalle ordinazioni dategli dalla marina e dal genio militare, identicamente la fonderia Obukow ecc. ecc. Sovente le grandi manifatture metallurgiche della Russia, per la loro situazione nel mezzo di sterminate regioni disabitate, sono come colossali colonie industriali, aggregati di stabilimenti diversi, capaci di vivere indipendentemente e sopperire a tutti i loro bisogni. La fabbrica d’armi di Isgewsk situata sul fiume Iz, che muove ben 500 macchine, è una vera metropoli industriale; fra le altre produzioni vi ha quella dell’acciajo occorrente alle sue fabbricazioni con una fonderia che rivaleggia con quelle d’Inghilterra e Westphalia. Così è che la Russia, mentre prima, tenendo isolati i suoi stabilimenti militari erasi veduta costretta a ricorrere alla povera Svezia per ricavare la sua artiglieria, ora si è resa del tutto indipendente dall’industria estera. Nella dislocazione degli stabilimenti russi si ravvisa l’impronta di una grande potenza militare. Centro di tutta questa attività sono Pietroburgo con Kronstadt e tutti gli stabilimenti situati sulla Neva ed i laghi di Ladoga ed Onega nella regione dell’Olonetz assai ricca in materie prime, in motori idraulici. Ivi ritrovansi i principali arsenali, polverifici, le fonderie, fra cui l’antica e celebre fonderia Alessandro, ora tutta rinnovata ed ampliata, gli opifici permanenti di preparazioni delle armi, l’opificio di precisione, le fabbriche di cartucce, gli opifici pirotecnici. In questa regione centrale, ove fa capo la vitalità militare e marittima dell’impero, ove potenti fortezze ed ostacoli naturali si oppongono all’invasione da qualunque parte essa provenga, ove, per mezzo di linee di comunicazione, acque e ferrovie, fanno capo le materie prime ed i prodotti degli stabilimenti scaglionati più in avanti, ivi la direzione generale d’artiglieria soprasiede all’attività di questa immensa congerie di elementi tutti diretti verso il grande scopo: la fabbricazione del materiale da guerra. AUSTRIA. – In Austria la centralizzazione e l’isolamento degli stabilimenti per la produzione del materiale da guerra, era già spinta ad altissimo grado. Lavorando dal 1849-1855, quella sospettosa e re-
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triva monarchia aveva riuniti gli stabilimenti già sparsi nelle città e dintorni di Vienna in una vera città industriale detta l’arsenale che dalle alture di Laa guardava minacciosa sulla capitale dell’impero. Ma dacché politicamente e militarmente l’Austria si è accostata alle sue popolazioni, anche l’industria metallurgica militare si è affratellata con quella privata, ed ora tutti gli sforzi del governo mirano a sviluppare quest’ultima e renderla indipendente, operando su di una via diametralmente opposta a quella di prima, e forse con un eccessivo abbandono. Gli effetti non mancarono di farsi immediatamente sentire: l’industria militare austriaca, che prima ostinandosi a rigettare i perfezionamenti nella fabbricazione con mezzi meccanici indicatagli dall’industria privata, trovavasi ridotta nel 1866 all’impotenza di fabbricare con prontezza, e dare buone armi da guerra; appena si fu gittata a corpo perduto nelle braccia dell’industria privata (rappresentata da una di quelle grandi individualità che non mancano mai di apparire in tali contingenze, il Werndl), acquistò il primato in Europa per la fabbricazione delle armi portatili. Alla manifattura di Steyer, la più perfetta che finora si sia veduta ed una delle più produttive per la vastità e perfezione dei mezzi ed il modo mirabile con cui vi è organizzato il lavoro, a questa manifattura privata del Werndl ricorrono ora Francia, Inghilterra, Russia, Prussia, Turchia, Baviera, Belgio, e per essa l’Austria potè prontamente mutare l’armamento a tutto l’esercito. All’industria privata il governo Austriaco affida interamente la costruzione dei revolver, delle cartucce, e da una potente società privata prende tutti gli oggetti di grande e piccolo arredo necessari all’esercito ed alla marina, e fin’ora se ne trova benissimo; contrariamente a quanto fanno, Prussia che lascia alle truppe l’incarico di provvedere direttamente Russia, Inghilterra e Italia che si provvedono in parte con lavori di opifici propri, in parte di quelli privati. Identicamente i grandi stabilimenti metallurgici della marina austriaca sono tutti stabilimenti privati creati da Commissioni del governo e che tengono questi stabilimenti per conto suo; e tale sistema ha dato stupendi risultati. Non si è lasciato però il governo austriaco levare di sottomano i principali stabilimenti militari all’indirizzo di egemonia preso dai diversi suoi popoli ed a mala pena al regno di Ungheria ha concesso la costruzione (sempre per mezzo di società private) di una sua manifattura d’armi a Pest. La maggior parte degli stabilimenti militari si trovano accentrati a Vienna o nelle vicinanze. Ivi oltre all’arsenale (che ha un opificio di revisione delle
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armi portatili somministrate dall’industria privata, opifici per la fabbricazione di projettili, affusti, vetture, strumenti, macchine per artiglieria, e vetture, fonderie di cannoni, fabbrica d’armi bianche e di fucili, deposito di armi ed arredi di artiglieria di ogni specie), havvi il grande opificio meccanico della società privata; ivi gli stabilimenti privati di Ottakring, Gasser e Roth incaricati di fornire all’esercito i revolver e le cartucce metalliche; le stesse manifatture d’armi di Steyer e Pest sono a facile portata da Vienna sulla linea ferroviaria; ivi tutte la scuole tecniche di artiglieria che già celebri per il loro spirito d’immobilità, ora sotto l’influsso dell’industria privata sono diventate al sommo grado progressiste, mirano a sorpassare lo stesso Krupp nella fabbricazione dell’artiglieria; ivi i depositi e magazzini d’artiglieria, e nelle vicinanze il laboratorio principale d’artiglieria di Wiener-Neustadt, il polverificio di Krems, il deposito del materiale del Genio a Klosterneuburg, gli stabilimenti meccanici di S. Pölten, senza parlare dei molti ed abilissimi armajoli di Vienna. A questa capitale affluiscono le materie prime che in abbondanza e di eccellente qualità si ritraggono dalle montagne di Stiria, Carinzia, dall’Arciducato d’Austria, dalla Boemia, dalla Moravia e dall’Ungheria. Solo gli opifici militari contenuti nell’arsenale di Vienna, il polverificio di Stein, i depositi principali e laboratori d’artiglieria: hanno vita militare autonoma, dipendono militarmente, economicamente, tecnicamente dal Ministero, diretti da Ufficiali di Stato Maggiore e di Artiglieria, con personale di operai militari misti ad operai borghesi. A dare un’idea delle proporzioni in cui l’amministrazione militare austriaca fa entrare i suoi stabilimenti e quelli dell’industria privata basta il temperamento adottato oggidì nella completa trasformazione che sta effettuando del materiale d’artiglieria. L’Austria ha accettato con vero entusiasmo questo rinnovamento proposto dal generale Uchatius che la pone in grado di sottrarsi all’odiosa sudditanza dei Krupp e di tutta la produzione estera, il subire la quale considera come grave macchia all’onore nazionale. È perciò che tutti, deputati, principi, militari, borghesi, assistono alle prove e sono chiamati a giudici del nuovo materiale da guerra che dovrà essere costrutto nello spazio di due anni. In quest’occasione l’Austria vivamente si rallegra del nuovo indirizzo dato alla costruzione del materiale da guerra che permette di risparmiare 56 anni e però di prender parte alle questioni Europee con un potente elemento di vittoria invece che un elemento di disfatta. All’arsenale di Vienna, tutto riformato all’uopo, non è riservata che la costruzione del-
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le bocche a fuoco e delle casse degli affusti; tutto il resto, comprese le munizioni, deve venire dall’industria privata, malgrado che le officine di Inneberg, le più importanti dell’impero, per la fabbricazione dell’acciajo, soggiacciano ancora ai dissesti economici degli scorsi anni, e quella di Werndl sia aggravata da commissioni di armi avute da Germania e Francia. STATI UNITI D’AMERICA. – Gli Stati Uniti d’America offrono campo a serie meditazioni intorno i rapporti che debbono sussistere tra le industrie metallurgiche al sevizio dell’esercito e dei privati; gli ammaestramenti che ci provengono da quel popolo sono sempre di una natura grandiosa ed in certo modo drammatica. L’abbondanza delle materie prime ed il concorso di altre favorevoli circostanze locali fecero che negli Stati Uniti prendesse prima che altrove colossale sviluppo l’industria siderurgica; il caro prezzo della mano d’opera portò ad una perfezione sorprendente il lavoro a macchina, quindi una ammirabile divisione e distribuzione del lavoro, solo mezzi per far molto, bene e presto. Anche la fabbricazione delle armi vi salì a grande eccellenza, verso il 1854 gli Stati Uniti d’America si trovavano alla testa di tutte le altre nazioni per tale fabbricazione ed è da essi che l’Inghilterra prima, gli altri poi, vennero a copiare. Aveva il Governo due sole fabbriche d’armi a Harpers-Perry e Springfield, per il resto tutto l’armamento dell’esercito era affidato all’industria privata. Questa cercò tosto di rendersi indipendente e padrona assoluta, per l’avversione ad ogni monopolio governativo connaturale a quel popolo, la grande potenza della vita individuale, il predominio dei sentimenti pacifici e speculativi; essa tenevasi sicura che nessuno avrebbe potuto prendere il suo posto di maestra nell’arte metallurgica, i popoli d’Europa più progrediti come l’Inghilterra e la Germania essendo ancora tutti intenti negli antichi sistemi del lavoro a mano. Ma ecco che la necessità della guerra4 obbligò quei superbi americani a mendicare presso i popoli d’Europa i prodotti dell’industria militare. Quando nel 25 Luglio 1861 Mac-Clellan prendeva il comando dell’esercito degli Stati Uniti forte di 100,000 uomini, non disponeva che di 30 miserabili pezzi di artiglieria di calibri diversi con 650 artiglieri e
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Si riferisce alla guerra di Secessione americana (1861-1864).
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400 cavalli. Per colpa del ministro della guerra Floyd erano stati catturati gli arsenali di Harpers-Ferry, Baton-Rouge, Little-Rock, MountVernon, Augusta, Richemond ed altri ancora, gli Stati del Sud poterono quindi servirsi delle fabbriche d’armi tolte a quelli del Nord. Per lungo tempo si dovette far fronte ai bisogni della guerra con armi di ogni specie le più imperfette, avanzi e scarti di fabbriche, prese specialmente dall’Inghilterra. La grande energia del generale Barry fece superare agli Stati Uniti le grandi crisi, egli mise a contribuzione le moltissime officine, le inesauribili risorse metallurgiche onde è fornita la Pensilvania, organizzò e diresse il lavoro dell’industria privata, e riuscì ad improvvisare tanta artiglieria come mai né prima, né dopo fu veduta. Nel marzo 1862 l’esercito del Nord portava già in campagna 92 batterie complete; negli stabilimenti di New York furono fabbricati 3000 cannoni Parrott; la colossale fonderia di Furt-Pitt a Pittsbourg che per mezzo di ferrovia comunica con tutti i grandi centri degli Stati Uniti diede un prodotto settimanale medio di 22-24 cannoni ed obici; furono create nuove manifatture d’armi portatili. I risultati ottenuti da questa prodigiosa attività fecero ritenere a molti inutile la preparazione in tempo di pace del materiale da guerra, perché questi avrebbe potuto essere improvvisato in tempo di guerra. Ma costoro non considerarono: 1° che non mai come durante quella guerra scoppiò e si rese inservibile maggior quantità di artiglieria; 2° che la guerra d’America fu lunga, disastrosa, dispendiosa appunto perché gli Stati Uniti non eransi trovati pronti ad agire decisamente sul principio della campagna; 3° che la potenza produttrice degli Stati Uniti d’America nell’industria metallurgica, il senso pratico, l’energia, la precisione, la disciplinatezza del lavoro in quel popolo rendono possibile di ottenere in pochi giorni ciò che in altri paesi, in Italia ad esempio, non sarebbe dato di compiere in molti anni. La guerra d’America avrebbe potuto esercitare salutari effetti per l’indirizzo da darsi alla produzione del materiale da guerra specialmente in Italia, invece non ebbe forza di scuotere le tradizioni della scuola piemontese. Gli Stati Uniti d’America non hanno dimenticato la dura esperienza fatta nella guerra di secessione e oggidì, mentre lasciano nella costruzione del materiale da guerra gran parte all’industria privata, tengono in esercizio 25 colossali grandissimi stabilimenti governativi, arsenali, fonderie, manifatture d’armi. Gli arsenali di Watertown, Waterlief, Washington, Bringeburg, Saint-Louis, Alleghany, Port Mouroë intrattengono da 6 o 7000 operai e sono rimarchevoli per la loro posi-
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zione su linee ferroviarie e grandi corsi d’acqua, l’ordine, la disciplina che li governa, la perfezione delle macchine e la prodigiosa loro potenza produttiva. La divisione del lavoro, che è una delle grandi prerogative della metallurgia americana, fu applicata naturalmente anche alla costruzione del materiale da guerra. Così mentre tutti gli arsenali sono in grado di provvedere alla riparazione del materiale d’artiglieria in generale ed alla confezione delle munizioni da guerra, a ciascuno di essi poi è riservato un oggetto speciale di fabbricazione. Gli affusti in ferro vengono costrutti esclusivamente a Fort Mouroe e a Watertown; gli affusti in legno a Waterlief, Alleghany e Washinghton. Lo harnachement si fabbrica a Watertown ed a Waterlief. I grandi ateliers di riparazione soprattutto per le armi portatili sono a Saint-Louis ed a Washinghton. I proiettili compressi escono dagli arsenali di Saint-Louis, Washinghton e Alleghany; Waterlief è capace di costrurre 150,000 cartucce al giorno. Governo e privati si sostengono nella fabbricazione dei cannoni con le stesse discipline e norme nelle fonderie di Fort-Pitt a Pittsbourg, di Scot a Reoding, di Coldspring a New York, di South-Boston, di Builder a Providence. Così pure nella produzione delle armi portatili da fuoco e bianche, le grandi manifatture governative di Springfield e di Herpers Ferry gareggiano con quelle private di Colt, Robbins, Lawrence e coi grandiosi stabilimenti della Società per la costruzione delle Carabine Sharpe. La fabbricazione della polvere è affidata all’industria privata, e specialmente ai grandi polverifici di Dupont a Brandiwine e di Hazard a Hazardville i quali nell’ultima guerra hanno abbondantemente provveduto ai bisogni dell’esercito. Una cosa degna di nota in questi stabilimenti dell’industria militare americana si è che quasi tutti si trovano nella Pensilvania, ove sorsero sotto l’impulso dell’ultima guerra, rincantucciati in quella lingua di terra che si protende fra l’Atlantico da una parte, il S. Lorenzo coi suoi laghi dall’altra, e dove sono altresì i maggiori centri di vitalità degli Stati Uniti. Così la forza irresistibile degli avvenimenti militari ha costretto questa potente nazione industriale a mettere al sicuro i grandi laboratori della sua potenza militare. È bene osservare come, al pari che negli Stati Uniti di America, in Inghilterra i recenti trovati e le grandi costruzioni riferentesi alla metallurgia applicata all’artiglieria, alla difesa delle coste, alla marineria, alla costruzione in ge-
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nere degli attrezzi da guerra, sono dovuti quasi tutti a valenti meccanici industriali che furono ben di rado ufficiali dell’esercito. Essi portarono l’industria metallurgica negli arsenali a grande perfezione, ma non ebbero sempre il senso pratico e speculativo dell’artigliere e dell’ingegnere militare, è per ciò che nei momenti di crisi fu ognora necessario l’intervento di una energica individualità militare per disciplinare e rendere pratico il lavoro dell’industria nazionale. Se si paragona questo indirizzo con quello diametrialmente opposto seguito in Francia, si vede come per vie opposte si possa arrivare a conseguenze ugualmente fatali per l’industria metallurgica militare. INGHILTERRA. – L’Inghilterra aveva attraversato 7 anni prima, cioè in occasione della guerra di Crimea, una crisi perfettamente identica a quella degli Stati Uniti d’America. Questo Stato pare destinato dalla natura ad essere principe nell’industria metallurgica del mondo, per l’abbondanza e facilità di estrazione delle materie prime, la facilità delle comunicazioni di terra e di acqua e degli spacci. Ivi l’industria privata aveva preso un colossale sviluppo e tutta dedita a provvedere il mondo dei suoi prodotti, strappava al Governo ogni monopolio sulla produzione del materiale da guerra. Da lungo tempo le fabbriche d’armi private di Londra e Birmingham erano considerate come gli arsenali di tutti i popoli. Ma poco a poco per l’incuria del Governo, la carezza sempre crescente della mano d’opera, il rifiuto che gli operai opponevano al lavoro a macchina, il cattivo sistema seguito dall’amministrazione militare nei suoi rapporti colle fabbriche d’armi private, la mancanza di una manifattura governativa che servisse di modello alle precedenti, la concorrenza delle fabbriche estere e specialmente di quelle belghe, la cessazione di ordinazioni governative ed estere, la fidanza di tutti nella pace universale, le oziose discussioni scientifiche sulle armi, tutte queste cause portarono le fabbriche inglesi ad un tale grado di assopimento e di esaurimento, che metodi, tradizioni di fabbricazioni andarono perduti, il Governo non trovava più né intraprenditori, né operai cui dare commissioni di armi. Quando l’Inghilterra s’impegnò nella guerra di Crimea non solamente mancavanle più migliaja d’armi a fuoco per armare le truppe di terra e di mare e per completare le riserve, ma alle celebri fabbriche di Londra e Birmingham, riusciva impossibile di produrre più che 2025,000 armi all’anno. Nel 1851 il Governo aveva ordinato con gran premura 23,000 fu-
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cili Miniè all’industria privata, ma non poteva averli che nel 1855. Nel 1853 lord Harding gran mastro d’artiglieria avendo deciso di armare tutta la fanteria col nuovo fucile Enfield diede commissione di 23,000 di tali armi facendo vive istanze a tutti i fabbricati d’Inghilterra per la pronta loro costruzione, invece sulla fine del 1854 non erano ancora ultimate. In quell’anno l’Inghilterra si trovava nella necessità di procacciarsi 341,000 fucili per l’esercito attivo, 450,000 per la riserva e 150,000 per le colonie, nè sapeva dove rivolgersi. Per fare fronte ad un così grave stato di cose Lord Raglan, nuovo gran mastro d’artiglieria, fu costretto a prendersi il rifiuto delle manifatture estere; diede grandi ordinazioni di armi in Belgio e chiese al Parlamento un credito di 100,000 lire sterline per fondare ad Enfield presso Londra una fabbrica d’armi sul piede di una produzione di 30,000 fucili l’anno. Protestò, negò in sulle prime il Parlamento adducendo i principi economici della libertà di produzione, ma poi dovette cedere sotto le stringenti necessità della guerra. Una Commissione di Ufficiali, industriali e meccanici fu inviata negli Stati Uniti a far incetta di macchine e studiare i sistemi di fabbricazione delle armi, onde si può dire che dalle fondamenta fu rinnovato l’indirizzo della industria militare in Inghilterra. A dirigerla si presentarono somme individualità nelle quali, come dicemmo, l’ingegnere ed il meccanico, preponderavano sull’artigliere, tali furono Withworth, Fraser, Blakeley e soprattutto il grande Armstrong che per tanto tempo ebbe la direzione della Woolwich e fu l’espressione più elevata di questo tipo di ingegneri metallurgici inglesi. Essi furono che mantennero in Inghilterra ardentissime le lotte riflettenti il materiale di artiglieria, lotte che elevarono talvolta fino all’altezza di questioni di Stato. Disponevano di potenti partiti e, facendosi di essi sgabello, imponevansi alle amministrazioni, ai governi, alle rappresentanze politiche; veri tiranni dell’industria metallurgica. Ma forse che tutte queste lotte, e le inesauribili ricchezze dell’industria metallurgica nazionale fecero l’Inghilterra progrediente nel materiale d’artiglieria? Tutto all’opposto, essa rappresentò sovente in Europa la più ostinata reazione contro ogni progresso. Mentre le altre nazioni adottavano il caricamento per la culatta e si sforzavano di produrre artiglierie d’acciaio, l’Inghilterra, la più grande produttrice d’acciaio fra le nazioni del mondo, ritornava al bronzo, licenziava Armstrong dalla Woolwich dopo di averlo elevato ai più alti onori e fatto segno degli elogi più entusiastici, avere
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speso 25 milioni per provare il suo materiale d’artiglieria, e ritornava al caricamento per la bocca nel quale sistema tuttora persevera. Armstrong, violentemente attaccato dai seguaci di Withworth, riunivasi ai suoi partigiani, fondava a Elswich presso Newcastel immense officine per la fabbricazione di ogni specie di materiale d’artiglieria, soverchiando le industrie del governo. Così cacciati per la porta, questi despoti dell’industria metallurgica, rientravano per la finestra, sempre imponendosi al governo. Malgrado questo predominio dell’elemento industriale e borghese su quello militare, l’Inghilterra potè risolvere completamente il problema dell’accentramento dei suoi stabilimenti militari. In Inghilterra come negli Stati Uniti d’America, in Prussia, in Austria, in Russia, gli stabilimenti di metallurgia applicata alla produzione delle armi ed arredi da guerra hanno il loro nerbo in un grande emporio situato presso la capitale dello Stato. L’arsenale di Woolwich, il più vasto del modo, è il centro della potenza militare d’Inghilterra, comechè ivi si racchiuda tutto quanto è necessario ad equipaggiare ed addestrare le flotte, gli eserciti inglesi, senza parlare dei ricchissimi arsenali della Torre di Londra, del Chatham, della grande fabbrica d’armi di Enfield, dei moltissimi stabilimenti metallurgici militari di Londra. Ma tutti questi opifici non che le fabbriche d’armi di Vevasseur, di Amstrong a Londra, ricevono però il loro primo alimento dalle potentissime fabbriche di acciaio di Firth o di Cammel e Brown ed altre molte nel distretto di Scheffield, onde mancando questi, una grave scossa verrebbe portata a tutti la fabbricazione del materiale da guerra in Inghilterra. Vivamente si preoccuparono militari ed il Governo in Inghilterra della sicurezza degli stabilimenti militari nel caso di un invasione; la Commissione per la difesa d’Inghilterra propose, or sono pochi anni, “che si fosse fortificato Woolwich, poiché è desso il nostro unico gran deposito di munizioni da guerra per i servizi di terra e di mare, e la piazza ove queste munizioni si fabbricano; deve dunque essere considerato come punto vitale. È difficile di esagerare le conseguenze della perdita ed anche della sospensione temporanea dei lavori di questo grande arsenale, durante il tempo di guerra; se ne sentirebbero gli effetti per tutto il regno. La Commissione di difesa d’Inghilterra dichiara la fortificazione di Woolwich di maggior importanza che non quella stessa di Londra. Siccome non si può mettere Londra in stato di resistere dopo una disfatta dell’esercito in campagna, facciamo che i nostri cantieri ed arsenali convenien-
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temente fortificati possano diventare piazze di rifugio ove continuare la resistenza del paese ed organizzare nuovi mezzi di difesa; mentre che, se i nostri cantieri ed arsenali non potessero offrire resistenza, tutti i mezzi di difesa cadrebbero nello stesso tempo che la capitale, e la potenza del paese sarebbe in realtà distrutta. La fortificazione dei nostri cantieri ed arsenali aiuterebbe materialmente la difesa di Londra stessa giacché ecc. ecc.”. “I nostri commissari sono per questi motivi persuasi che sotto tutti i rapporti, la fortificazione dei nostri cantieri ed arsenali è di assoluta necessità per la sicurezza del regno”. La Commissione riteneva necessario che Woolwich sopravvivesse alla caduta di Londra stessa; nell’impossibilità di difendere direttamente questo emporio dell’industria militare senza dare un immenso sviluppo alle opere di fortificazione, essa proponeva di elevare un campo trincerato a Schooters discosto circa 2000 metri, fortificando altresì Chatam ove doveva essere riunito il materiale da guerra non appena confezionato. Altri proponevano di concentrare gli stabilimenti militari nella località di Beau-Desert stabilendovi un campo trincerato; Brialmon suggeriva quella di Croydon, tutti i militari insomma convenivano sulla necessità di mettere al sicuro quegli stabilimenti. Gli ardenti voti degli inglesi sono stati or ora esauditi. BELGIO. – Il Belgio aveva saputo mostrare al mondo come non fosse mestieri essere un grande Stato per avere una potente industria siderurgica militare. Per lungo tempo da Liegi (ove erano accentrati gli stabilimenti militari di quel piccolo regno) uscirono le artiglierie e le armi portatili destinate agli eserciti di quasi tutta Europa; là si discutevano i rinnovamenti da introdursi nelle artiglierie e nell’arte siderurgica, ed ai responsi, alle teorie di quella celebre scuola tutti applaudivano. Un nembo di grandi e piccole officine e manifatture private circondavano e soccorrevano Liegi usufruendo delle potenti risorse mineralogiche del suolo. Ma uno spirito soverchiamente pacifico e speculativo, torpore, rigidezza ed immobilità d’idee, soverchia fiducia nelle proprie forze s’impadronirono di questa metropoli dell’industria militare, appunto allora che sarebbe stata necessaria somma energia, forza espansiva, elasticità e spirito di progreso. La grande fonderia reale di Liegi fu tosto soverchiata dagli stabilimenti di Inghilterra, America e Francia ed a nulla valsero gli sforzi dell’abile suo direttore, il generale Nevens, e della ben nota scuola delle miniere.
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Allorché si trattò di armare le nuove fortificazioni del gran baluardo difensivo del Belgio, Anversa, la fonderia di Liegi non fu abbastanza potente per fornire i cannoni necessari onde convenne andarli a cercare al gran refugio dei deboli: lo stabilimento Krupp. Se esaminiamo le condizioni degli stabilimenti militari anche nei minori Stati d’Europa vediamo che solo a malincuore le amministrazioni ricorrono agli stabilimenti esteri per quanto riguarda l’artiglieria, pel rimanente si sforzano a trarre tutto dai propri Stati. Ovunque noi vediamo che o sotto la spinta della guerra o per iniziativa propria, furono trasportati al centro degli Stati tutti o la maggior parte degli stabilimenti militari produttori. Così la Spagna, per effetto delle invasioni francesi nel 1794, fu costretta a sostituire alla fonderia di Orbaiceta ed alla fabbrica d’armi di Plassancia quelle di Trubia ed Oviedo. La Turchia europea tiene concentrato il nerbo dei suoi stabilimenti militari a Tofani presso Costantinopoli. La Svizzera deve in gran parte la limitata potenza e perfezione delle sue manifatture militari al fatto ch’esse vengono fabbricate in molti opifici e per ciascun cantone, sebbene siano poi rivedute nell’arsenale centrale della Confederazione a Thoune in luogo forte per natura. Perfino il piccolo principato di Serbia ha centralizzati e resi indipendenti i suoi stabilimenti d’industria militare dall’estero. Esso fabbrica in paese i suoi nuovi cannoni Peabody; a Kragniswitz, eminente e centrale posizione strategica nel principato, tiene i suoi depositi di approvvigionamento, l’arsenale, la fonderia di cannoni, la fabbrica affusti capaci di somministrare una batteria completa di 6 pezzi alla settimana. Tutte le munizioni vengono fabbricate in paese e nulla viene importato dall’estero. Indipendente sempre, isolata mai: ecco la formola che sebbene con caratteri diversi tutti i governi d’Europa hanno scritto sulla bandiera dei loro stabilimenti militari, ecco l’assioma per la prosperità della metallurgia militare come di quella privata. Questa industria aborre dall’isolamento come già fu detto della natura pel vuoto; isolamento vuol dire per essa infallantemente regresso, debolezza, esaurimento di ogni forza vitale generatrice e perfezionatrice; non v’ha ad illudersi su di ciò, la natura non s’inganna, né si può sforzare. Il trovare la giusta via degli accordi tra l’industria militare e quella privata è certamente cosa al sommo grado difficile; ogni nazione, producendo l’industria metallurgica a sua immagine, regola a suo modo tali accordi;
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da questi si rivela la ricchezza, energia, solidità interna di uno Stato, la prudenza dei governi, il modo con cui essi sanno preparare la guerra con senso pratico e costanza; iniziarla celermente; condurla con serenità, energia, rapidità. Là ove l’industria metallurgica è per sua natura severa, esatta, ordinata, il compito dei governi è certamente più agevole che non dove essa è fiacca, leggera, avidamente speculatrice, incostante, infida; in questi ultimi casi, l’azione centrale del governo dev’essere più potente e diretta. Stabilire le condizioni di questi accordi non è che stabilire una formola nella quale entrino tutti i dati sulle forze vive di una nazione, dati cui è necessario mutare continuamente il coefficiente d’importanza esplorando a fondo e con occhio pratico le vicende dell’organismo interno della nazione. Da noi non si studia dell’industria metallurgica militare estera che la parte delle macchine e degli attrezzi, senza preoccuparsi di vedere come i governi risolvono questo intricato problema della metallurgia militare. Si cerca imitare il lato meccanico non quello che si riferisce alla politica ed all’economia nazionale, ora siccome ad ogni momento mutano le macchine, così i nostri insegnamenti non hanno mai che il valore d’un giorno. Poniamo invece una volta razionalmente il problema della nostra industria militare e manteniamolo con quella costanza che è la forza delle istituzioni, regolandone le modalità secondo i dati di sensibilissimo termometro e le leggi del continuo progresso. Rappresentando con m la potenza degli stabilimenti militari, con n la potenza degli stabilimenti nazionali che possono produrre materiali da guerra, con e la forza espansiva militare-politica che vivifica la nazione, il valore di P cioè della potenza del materiale da guerra potrebbe essere rappresentato da P = (m n)e, laddove ai tempi passati si sarebbe applicata la formola P = (m +n)e. Infatti, allora salvo il caso di e negativo (cioè di una nazione schiava o impotente per decadenza od espansiva solo per turbolenza o tumulti od afflitta da una immobilità orientale), salvo questi casi, m ed n potevano indipendentemente l’uno dall’altro, coll’acquistare alti valori, dare a P valori egualmente grandi. Tale era il caso di quelle antiche nazioni militari che aborrendo dall’industria erano ciononpertanto ricchissime in armi; Roma antica informi; e reciprocamente di quegli Stati antimilitari come il Belgio, l’Inghilterra, gli Stati Uniti d’America e che pure fungevano da arsenali del mondo. Ma in oggi i dati del problema sono posti ben
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diversamente, se uno solo di essi ha valore negativo o nullo, il valore di P diventa quasi sempre negativo ed uguale a zero; può bensì acquistare valori altissimi quando ad un valore minimo per uno dei fattori corrispondono valori altissimi negli altri due, ma si richiede ognora un positivo contemporaneamente di tutti e tre ed è su di ciò che i governi delle nazioni tutte si affaticano. Essi cominciano anzitutto a prefiggersi il valore di P cioè del materiale da guerra necessario per essere pronti a combattere e protrarre la lotta con mezzi sempre perfetti e potenti, e siccome non è dato ad alcun uomo né governo di creare o modificare e, forza espansiva politica-militare della nazione, così ricercano un contemperamento fra m ed n che li porti al valore di P prefisso. Ecco quanto dobbiamo fare anche noi; senza illusioni fissiamo il quantitativo di arredi da guerra che ci è necessario per sostenere una lunga guerra nazionale e mantenere il nostro posto in Europa, e regoliamo i valori di m ed n in conseguenza. In avvenire crescerà senza dubbio la forza espansiva della nazione, gli Italiani saranno tratti politicamente, militarmente, economicamente, moralmente dalle loro frontiere, allora diventeranno più produttori e l’azione centrale del governo potrà essere gradatamente ridotta. Tutte le grandi nazioni hanno trovato una soluzione per questa formola e la troverà anche l’Italia purché si accinga a ricercarla colla ferma intenzione di trovarla. Ebbene, io dico che questo m n l’Italia non lo possederà mai, salvo che nella risoluzione della questione Ternana; che se non ci affrettiamo a muoverci non lo troveremo più nemmeno costì. I nostri m ed n hanno già valori minimi e per la maggior parte negativi (per l’imperfezione e la debole potenza dei nostri stabilimenti metallurgici in genere), il trovare un contemperamento positivo per P è perciò di già arduo problema, che potrebbe tra breve diventare insolubile. Accompagnati dall’esperienza delle grandi potenze militari, facciamoci ora ad investigare le condizioni degli stabilimenti metallurgici militari e privati in Italia.
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III. Gli inconvenienti che presentano in Italia gli stabilimenti militari e quelli dell’industria metallurgica nazionale che potrebbero concorrere alla produzione del materiale da guerra, sono di due ordini, alcuni provengono dalla dislocazione, altri dalle condizioni organiche di vitalità. Citeremo: essere esposti ai primi attacchi dell’esercito e della flotta nemica; incagliare potentemente tutte le fasi di una guerra nazionale; rendere impossibile una lunga lotta; convertire un primo insuccesso in un disastro irreparabile. L’isolamento in cui gli stabilimenti militari si tengono di fronte all’industria nazionale li obbliga in tempo di guerra non solo, ma in piena pace a sottomettersi all’industria straniera – triste esperienza fatta dagli italiani nel 1866 sul valore di questa industria – spegne in essa ogni spirito di progresso, e li condanna all’immobilità. Quest’abbandono per parte dell’industria governativa, aggiunto al soverchio numero di stabilimenti per un medesimo ramo d’industria, alla loro vita regionale provinciale, alla insufficienza di raggio di espansione ai prodotti, alla mancanza di sorgenti proprie di vitalità, alla limitatissima conoscenza delle risorse nazionali, al vecchio regime con cui ancora si governano ecc. ecc., perpetua uno stato di crisi nell’industria metallurgica nazionale che compromette la sicurezza dello Stato e dal quale non è possibile uscire che rinnovando tutto dalle fondamenta colla soluzione della questione Ternana.
Chi si è compiaciuto di seguirci all’esame della maniera con cui le principali potenze militari di Europa hanno risolto il grave e complicatissimo problema spettante al materiale necessario ad una guerra nazionale; e non si lascerà sgomentare dalla triste situazione in cui ora trovasi l’Italia sotto tale rapporto e che rileveremo in questo capitolo, vedrà tosto che la risoluzione della questione Ternana si presenta spontanea, e come la sola possibile per uscire da così grave situazione. Com’è che in Italia l’industria metallurgica è giunta all’attuale stato di crisi? Lasciando da banda le illusioni, ecco la nuda verità. L’industria del ferro, attivissima in Italia ancora fino al 1859, si può dire che in oggi più non esiste; sulle sue rovine si è elevata un’ibrida industria di ricottura di ferravecchie, destinata a soddisfare ai bisogni italiani della giornata per l’industria, l’agricoltura, le società ferroviarie e di navigazione. Certamente, se si paragona il quantitativo di ferro che ora si mani-
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pola di seconda o terza mano, colla produzione di ferro di trent’anni fa, si trova un aumento; ma senza parlare che non è possibile stabilire un confronto tra due maniere di produrre tanto diverse, questo aumento raffrontato con quello verificatosi presso le altre nazioni ci fa accorti essere in Italia avvenuto invece un notevole regresso e più specialmente in quel ramo dell’industria metallurgica che si applica alla produzione del materiale da guerra. L’industria metallurgica ancora 20 anni fa era tutta casalinga e modestamente nudrivasi del lavoro a mano, sotto la protezione di fortissimi dazi, con monopolii, appoggi governativi d’ogni genere, lavorava colle materie prime nazionali; minerali, carboni, lignite. Era un industria regionale spezzata, è vero ma nazionale; aveva buone scuole, buoni sistemi, buona direzione nei lavori; non era molto energica né progressiva, ma in complesso occupava un posto onorevole, teneva buon nome in Europa. Il quieto vivere di tale industria fu scosso dalle fondamenta dal rivolgimento politico italiano che, abbattendo le barriere protezioniste, levando ogni sorta di monopoli, mise l’industria metallurgica bruscamente allo scoperto, in balia alle rappresaglie di quella potentissima estera. Ma il maggior male venne in seguito. Negli altri Stati la metallurgia, sorretta dai governi, fomentata dalle ingenti richieste degli eserciti, delle flotte, delle ferrovie ecc. ecc., dopo il 1860 spiegò volo arditissimo, si perfezionò con vertiginosa rapidità, prese proporzioni colossali ed un indirizzo quale nessuno avrebbe mai aspettato. Essa divenne principe dell’industrie, i minimi produttori furono schiacciati o solo ottennero vita legandosi al carro dei maggiori, tutti intenti a conquistare e sottomettere nuovi mercati in Europa; poiché le condizioni di questa industria sono tali che essa non può sostenere senza possedere un raggio di espansione assai vasto. Che avvenne mai in Italia? Posti a contatto mercati metallurgici diversi e fino ad allora ignoti l’uno all’altro, col grave problema di creare dalle fondamenta un esercito, una flotta, una rete ferroviaria, per un grande Stato; colla necessità imperiosa di riformare completamente tutti gli stabilimenti metallurgici per introdurvi il lavoro a macchina, all’industria metallurgica italiana si offriva una magnifica occasione per unirsi, fondersi, ed, appoggiata e cementata dall’azione governativa, gettare le basi di una grande industria nazionale, prendendo immediatamente l’offensiva sui teatri industriali esteri. Inve-
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ce, miserando spettacolo! La costruzione della flotta fu affidata all’estero, le ferrovie furono vendute, gli stabilimenti militari piemontesi rimasero nel loro isolamento coll’antico spirito di autonomia imitato sulle istituzioni francesi e che applicarono ai nuovi stabilimenti militari ereditati. Fecero un tentativo per riconoscere il nuovo ambiente e ricercare alimento nell’industria nazionale, ma poi subito si gittarono nelle braccia dell’industria estera. Mentre intorno a noi tutto progrediva e si trasformava, noi soli restavamo immobili, l’industria metallurgica militare e quella privata continuavano ad essere regionali, provinciali. Una lotta minuta di vita e di morte si impegnò colla produzione estera. Lo spirito di conservazione spinse naturalmente i produttori a riunirsi; rimanendo sempre nella cerchia della provincia, i più potenti fra essi fondarono la Società Cointeressata delle regie miniere e fonderie di Toscana, la Società delle costruzioni meccaniche nel Veneto, la Società nazionale di industrie meccaniche a Napoli ecc. ecc. Ciascuna di queste Società si sforzò di elevare grandiosi stabilimenti metallurgici affettando gravità moderna, mettendosi all’ombra di una stazione ferroviaria, di un cantiere, sotto la protezione di Società di navigazione, di industria, agricoltura, strappando qualche ordinazione ai ministeri della guerra e marina, mendicando qualche agevolamento sui dazi e trasporti. Ma tutti questi stabilimenti non hanno che l’aspetto della potenza, pajono robustamente costituiti ed invece non vivono che di un’agonia prolungata, di espedienti, di combinazioni finanziarie. Delle moltissime minori officine ond’era popolata l’Italia, che avvenne? Impotenti a trasformarsi esse rimasero nell’antico stato ed offrono l’immagine di veri musei dell’industria metallurgica; alcuni restando col corpo nell’antico si sono atteggiati alla moderna, ma non sono che sepolcri imbiancati. L’esito della lotta contro la produzione straniera non poteva essere dubbio: questa, operando con forze fresche, ben organizzate, riunite, battè alla spicciolata la nostra industria composta di vecchi ed impotenti elementi che combattevano in ordine sparso, senza unità di direzione, senza speranza di avvenire. Tutti si affrettarono ad abbandonare il lavoro nelle miniere che è per l’arte metallurgica quel che lo studio della natura per le arti belle, si ridussero all’arte dell’imbianchino, cioè alla ricottura di ferravecchie e ghise straniere o nostrane. L’industria metallurgica italiana venne presto a trattative con quella straniera; accettò da essa ora carboni, ora ferri, ora ghise, ora acciaio; sovente tutto, perfino gli
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operai, i direttori, le istituzioni; la maggior parte dei nuovi stabilimenti si collocarono sulle più facili vie all’importazione non preoccupandosi che di ricevere a buon mercato e celermente i prodotti esteri; essi s’accalcano sulle frontiere avidi di vitalità straniera, il più delle volte non sono che colonie straniere accampate sul suolo italiano. Esposte così brevemente le vicende dell’industria metallurgica in Italia, passiamo ad esaminare sommariamente le condizioni dei principali circoli di produzioni di tale industria, per poi rilevarne gli inconvenienti sotto il punto di vista militare; inconvenienti che sono di due specie, gli uni derivando dalla dislocazione di quei stabilimenti, gli altri dalle condizioni organiche della loro vitalità. Quanto agli stabilimenti militari, dopo l’abbandono di quelli delle Calabrie ed altri minori interni nell’Italia, si riducono su due scacchieri (non parliamo dei tre arsenali marittimi di Spezia, Napoli, e Venezia): I. Presso la frontiera delle Alpi Cozie, cioè: Torino. – Fabbrica d’armi, fonderia di cannoni, arsenale di costruzione (carreggio ed affusti), laboratorio pirotecnico, opificio meccanico (buffetterie, vestiario, bardature), laboratorio di precisione. Fossano.– Il maggior polverificio militare dello Stato. II. Sulla frontiera marittima della Campania, cioè: Torre Annunziata, fabbrica d’armi; Napoli, fonderia di cannoni; Scafati, un polverificio secondario; Capua, un laboratorio pirotecnico, senza contare l’arsenale di costruzione di Castellammare per la marina. Aggiungasi a Genova una fonderia di projettili ed una raffineria di Nitri; nelle valli del Bresciano una fabbrica d’armi; questi opifici sussidiati da altri dell’industria privata e tutti su frontiere di terra e di mare. Gli stabilimenti d’industria metallurgica privata si raggruppano su due linee di frontiera, quella litoranea del Mediterraneo e quella Alpina. Consideriamone brevemente le condizioni. Il teatro di azione dell’industria siderurgica litoranea si compone di quattro ben distinti scacchieri che abbracciano le coste di Liguria, Toscana, Campania e Palermo. Se si eccettuano gli stabilimenti Toscani, che è mai tutto questo apparato se non una finta mostra d’industria? Questi stabilimenti di Sestri Levante e Ponente, di Voltri, di Savona, di Genova, di Foce, di Sampier d’Arena ecc. posseduti dal Peirano, Tardy,
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Gravero, Ansaldo, Bottegolier, Gilet, Westrmann, Tassari ecc.; le officine meccaniche di Napoli, di Pietrarsa, dei Granili, di Iscitella di Castellamare; le fonderie di Delamorte, Maltherson, Patisson, Juppy a Napoli, le ferriere di S. Agata dei Goti, di Torre Annunziata, ecc., il grande stabilimento metallurgico l’Orotea, (unico rappresentante dell’industria metallurgica siciliana) al servizio della Società navale Florio? Non sono che stazioni d’approdo, colonie d’industria siderurgica straniera accampate sulle coste italiane. Dai luoghi non prendono tampoco l’acque come forza motrice, tutto viene loro dall’estero; materie prime, maestranze, direttori d’officine; sovente ricevono anche la materia già confezionata, essi non fanno che manipolarli, ricomporre i pezzi e smerciarli. Sono in certo modo bagarrini, intermediari tra i produttori esteri ed i consumatori italiani. La loro esistenza risente perciò di tutte le crisi economiche industriali estere ed italiane, essi trascinano una vita compassionevole mendicando lavori e favori al governo, a società ed amministrazioni; si agitano nell’incertezza, nell’ignoto, continuamente assaliti da sgomenti e minacce di fallimento. La produzione prima del ferro su questo mercato siderurgico è completamente cessata; nella Riviera non v’ha più traccia di quella già fiorente industria del ferro colla miniera detta Catalana che facevasi col minerale dell’Elba ed il legname di Riviera. Nel Napolitano il cessato governo aveva fatto tutto quanto era compatibile ed incompatibile per sviluppare l’industria prima del ferro, spese d’impianto, di manutenzione, di esperienze, di esplorazione, costruzioni di grandiosi stabilimenti, scuole e lavori di miniere, dazi, protezionisti, monopoli, nulla avevano trascurato i re di Napoli facendola da mecenati, da industrianti, da amministratori, perché fiorissero gli stabilimenti metallurgici nelle Calabrie, nei monti di Campoli e di Atina, in Terra di Lavoro, gli affidavano ora a Società, ora li ritraevano sotto l’egida governativa, non mai perdevanli di vista. Di tutta questa attività nulla più rimane, tutti quegli stabilimenti sono deserti, non abitati che dai loro adamitici macchinismi; le strade d’accesso alle miniere, i forni, i ricoveri, tutte le opere per l’estrazione del minerale sono andate a rovina; lugubre è lo spettacolo che essi offrono nella loro solitudine. Tale è la fine della ferriera di Canneto che il governo borbonico impiegava fin dal 1852 nella confezione dei projettili, usufruendo delle risorse mineralogiche dei monti del Liri e Melfa e delle forze idrauliche di quest’ultimo fiume. Il grande stabilimento di Atina con tre alti
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forni, ricco di miniere, d’acque motrici, di legnami, di comunicazioni, d’ogni ben di Dio, è a rovina. Che dire delle vaste ferriere calabresi di Mongiana, Ferdinandea, S. Eufemia. Esse si nutrivano delle miniere omonime, degli immensi boschi di Stilo e S. Maria, li animava la forza motrice del Ninfo e dell’Alaro, disponevano delle ligniti di Gerace e Briatico delle grafiti di Olivada. Organizzati da celebri ingegneri e fonditori tratti da Ferdinando e Murat, da Spagna e Francia, alimentavano notevoli fabbriche d’armi, a Ferdinandea, Torre Annunziata ed agli arsenali di Costruzione di Napoli e Castellamare, davano vita a grosse colonie di operai e ad interi villaggi. Ora un silenzio di morte regna da quelle parti. Veramente vertiginosa è stata dunque la decadenza dell’arte metallurgica napoletana dopo il 1860; di presente tutta l’attività si è rifugiata sulle coste, ha perduto ogni impronta nazionale, poltrisce attorno alle stazioni navali e ferroviarie, manipola senza produrre. Vedasi ad esempio lo stabilimento di Pietrarsa da 1,400 operai che aveva pochi anni or sono, è ridotto a 500. La metallurgia Toscana ostenta potenza e floridezza, ma la sua prosperità è momentanea, illusoria, come quella del colosso di Daniele. Lusinghiero ne è a prima vista l’aspetto poiché nutresi interamente di elementi nazionali, abbraccia tutte le successive elaborazioni del ferro, dall’estrazione del minerale dalle celebri miniere d’Elba, alla sua riduzione in acciajo Besmer, usufruendo di potenti forze idrauliche, di combustibili che sono i migliori d’Italia. Grandiosi stabilimenti appartenenti a Società od a privati (come ad esempio quelli del Masson) si vedono disposti a scaglioni, dalle coste nell’interno della Toscana: a Pescia, Piombino, Follonica, Volpiano, Cecina, Colle d’Elsa, Montebamboli, S. Giovanni etc. fino nelle valli di Firenze e Pistoja. Sotto la protezione governativa alcuni di questi stabilimenti raggiunsero un grado notevole di prosperità e somministrarono i loro prodotti agli arsenali di Spezia e Venezia. Ma ahimè quante sono le dolenti note! Le miniere dell’Elba, soggette a continue peripezie nella lotta tra i produttori stranieri e nazionali, deperiscono sempre più, fra 30 anni, secondo il calcolo dei geologi, esse non saranno più produttive, onde verrà scosso dalle fondamenta tutto l’edificio metallurgico toscano. Ciò è avvertito naturalmente dai produttori ed è causa di grande malessere, di immobilità, nessuno s’impegna in serie e nuove opere. Aggiungasi la malaria che obbliga a sospendere i lavori negli stabilimenti toscani per
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6-7 mesi dell’anno onde ne riesce sconvolto, turbato tutto il loro regime economico, la loro azienda, obbligando a continue riparazione e spese d’impianto, elevando considerevolmente il costo della mano d’opera, cagionando grande quantità di inconvenienti tecnici e amministrativi che rendono tali stabilimenti inetti ad essere condotti dall’industria privata. I prodotti in ghisa e ferro degli stabilimenti toscani furono per un momento accolti favorevolmente sui mercati italiani. Il passato governo vedendo che la natura aveva accumulato nella Toscana a larga mano tutti gli elementi necessari all’industria siderurgica, con grande diligenza si era fatto ad isolarla per gelosamente custodirla e svilupparla a proprio modo. Ma a tutte queste mal intese cure, l’industria corrispose facendosi neghittosa e fiacca, onde il perdurare quasi esclusivo del processo bergamasco. Non appena col rivolgimento italiano furono abbattute le barriere protezioniste, la fabbricazione, furiosamente assalita dalla concorrenza estera, decadde nelle ferriere di secondo e terzo ordine, mentre i grossi centri di produzione nelle Maremme ed in Valle d’Elsa iniziarono con l’appoggio del governo un’ostinatissima lotta conosciuta da tutti sotto il nome di quistione delle Miniere dell’Elba. Ora questo appoggio governativo viene a mancare, i mercati nazionali, perfino quelli di Toscana, cominciano a preferire le ghise straniere, pel semplice ma essenziale motivo che queste giungono nelle loro officine di miglior qualità ed a minor prezzo di quelle toscane. Tutti sentono che per l’industria metallurgica toscana non è più questione che di pochi anni di vita, ma che essa è irremissibilmente perduta. A rendere più pericolosa la lotta s’aggiunge la difficoltà sempre crescente per l’esportazione del minerale dalle miniere dell’Elba ed invece la concorrenza delle abbondanti miniere di Bona ed Algeri in Africa di cui servesi Creusot, delle miniere spagnuole nella Catalogna, Murcia, Almeria, che fanno capo ai porti di Catalogna e Cartagena; le miniere di ferro della Sardegna a Capoterra congiunta con linea ferroviaria alla costa e delle quali si alimenta l’officina francese di PetinGaudet. Le grandi ferriere di Toga e Solenzara nella Corsica le quali da sole producono tanta ghisa quanto i distretti ferriferi di tutta l’Italia continentale e che pure sono al servizio delle sopradette società. Nelle valli del Pistojese si contavano ancora pochi anni or sono gran quantità di ferriere stabilite lungo il corso delle acque motrici, a Mammiano, Sestajone, Pontempetri, Satornana, Cireglio, S. Felice, Piteccio, Candeglia, Capostrada, Piastrelle, Uzzo, Gutigliano, Celle etc.
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etc. Ciascuna era generalmente costituita da due fuochi d’affinazione (bergamaschi o contesi) da magli e maglietti, e capaci di occupare 170 operai e di produrre 20,000 quintali di ferri in sprangoni, verghe, vomeri e strumenti diversi. Ora queste piccole officine sono quasi tutte scomparse, identicamente nelle valli di Serravezza ed a Ruosine ove esistevano parecchie piccole ferriere il cui lavoro era limitato all’affinazione di piccole parti di ghisa di Follonica mista a ghisa inglese, oppure col rimpasto di rottami. Anche lo Stato Pontificio aveva la sua industria metallurgica nelle ferriere di Tivoli, Terni, Spoleto delle Marche e del Bolognese, che traevano le materie prime dagli stabilimenti toscani e napoletani. Ora in quali miserande condizioni siano ridotte queste ferriere è troppo noto perché sia d’uopo parlarne.* L’organizzazione dell’industria metallurgica Alpina è certamente opera ammiranda, ma essa ha fatto completamente il suo tempo, i suoi scali non sono che insigni monumenti di chi vorrà scrivere la storia della metallurgia in Italia. Tre e ben distinti sono gli scacchieri del teatro di operazione della metallurgia alpina: il primo abbraccia le valli dell’alto Veneto, il secondo le valli tutte di Lombardia, il terzo le valli piemontesi nelle Alpi Pennine. L’organizzazione del lavoro vi è comune e raggiunge l’eccellenza nei monti di Lombardia. Anzitutto trovasi o per meglio dire trovavasi nelle alte regioni delle valli una linea doppia or tripla di posti avanzati di miniere e raffinerie per esplorazione ed escavazione del minerale, ivi esistono pure i primi forni per la riduzione del minerale grezzo. Più indietro ove le acque cominciano ad acquistare potenza e scendono a salti, ove facili si fanno le strade ampi i fondi delle valli; ivi trovansi i grandi forni i primi opifici per la lavorazione della ghisa. Agli sbocchi delle valli, infine, sonvi gli opifici maggiori che trasformano il ferro in acciaio, armi, macchine, arnesi di agricoltura ed industria, aiutati da una miriade di piccole fucine che compiono il lavoro a cottimo o per iniziativa. Ivi potente è la forza idraulica dei fiumi, facile la condotta del legname dai monti e delle torbe e ligniti che ritrovansi agli anfiteatri morenici allo sboccare di quelle valli; ivi facili le comunicazioni coll’interno d’Italia con Torino, Biella, Vercelli, Novara, Milano, Bergamo, Belluno, Treviso, ove vengono spedite, le materie prime che alimenta* Della ferriera di Terni abbiamo già fatto cenno nel precedente lavoro: Sulla straordinaria importanza militare industriale di Val Ternana, Terni 1872.
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no grandiosi stabilimenti meccanici. Ebbene quasi tutto questo immenso apparato d’industria è caduto col cadere delle barriere doganali, non appena le nuove vie del Cenisio, Brenner aprirono all’Italia le materie prime di Francia, Inghilterra, della Stiria e della Carinzia, l’industria metallurgica alpina presa in certo modo alle spalle si ripiegò prontamente dai monti sulle maggiori officine agli sbocchi delle valli. Nulla diremo delle miserande condizioni in cui trovansi gli stabilimenti di ferro e rame del Bellunese a Sedico, Zoldo Posina etc. etc. Quale fu la sorte dei celebri ferri di valle d’Aosta che già nutrivano tutta l’industria metallurgica del Piemonte? Ivi le ferriere, tra grandi e piccole, ascendevano a ben 21 più 90 forni di torrefazione, di cui una parte nella bassa valle (stabilimento di Quincinnetto, Ponte S. Martino, Carema, Capella Ferrata, Verres, Praz, Glaire, Priod, Bard), parte nella media valle (a Ermaville, Villanova, Liverogne, Gignod, Introd) nutrite da eccellenti miniere, potenti forze idrauliche, vasti boschi, ligniti e torba allo sbocco delle valli, antracite in quella alta. Ora di tutti gli alti forni quelli soli di Ponte S. Martino e Villanova conducono vita stentata alla giornata, gli altri sono deserti e diroccati; di tutte le miniere di ferro quelle sole di Traversella e Cogne sono ancora esplorate. L’industria siderurgica valdostana è destinata a cadere ancora più in basso perché i suoi ferri portati sui mercati di Torino, costano assai più e sono meno perfetti di quelli ivi provenienti dall’Inghilterra. Nelle valli lombarde la lotta contro la concorrenza straniera fu più ostinata, capitanata da arditissimi ed intelligenti industriali come il Glisenti, il Gregorini, i quali, non sussidiati da alcuno, non temettero di lottare e vincere tutte le difficoltà per la fabbricazione dell’acciaio mettendosi in concorrenza colla produzione straniera; stoffa d’uomini questa di cui andrebbero altere le più potenti nazioni metallurgiche. Ma da altra parte che mai è avvenuto di tutti gli opifici che si vedevano disposti a scaglioni da chi rimontava il corso del Galdone (Valsassina) da Lecco a Ballabiano; dei 50 opifici di Val Trompia, delle 24 di Val Sabbia, delle 16 di Val Caffaro e della riviera del lago di Garda? Le 120 officine di ferro di Val Camonica erano scese pochi anni or sono a 72; le 20 fucine di valle seriana calarono tosto a 10; la Valtellina produceva già 3,000 quintali di ferro in verghe nel 1869 non ne dava più che 1,500. Di tutte queste piccole fucine se si tolgono i forni Siemens di Gregorini e Glisenti le altre non contengono che uno o due fuochi d’affinamento di origine medioevale. Vediamo brevemente quale contributo dà l’industria privata all’am-
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ministrazione della guerra. Per quella dell’Italia peninsolare ed in genere del teatro litoraneo non sussiste più alcun rapporto; il Napoletano e la Sicilia sono anzi diventati due centri attivissimi di importazione alle armi straniere, non mettiamo fra le risorse la fucina del Toni a Roma ove si accozza un pò di tutto, quelle di Chiarolanza a Napoli, la piccola fucina d’armi del Scipona nel Matese mossa a braccia d’uomini, ed altre minori. Il contributo dato dall’industria siderurgica alpina ai prodotti della guerra fu già rilevantissimo; sospinta continuamente dalla potenza militare e politica della casa di Savoja, della repubblica di Venezia, degli imperi di Spagna e Austria che successivamente dominarono in Lombardia, nutrita da secolari guerre di preponderanza, diretta da abilissimi ingegneri Italiani, ivi si compierono tutte le trasformazioni e gran parte delle convenzioni dell’artiglieria nei suoi rapporti colla metallurgia. Oggi tutta questa attività si è spenta, salvo nelle valli del Bresciano e del Lecchese, regioni da tempi remotissimi fra le più celebri di Europa per la fabbricazione delle armi. A Sarezzo la famiglia dei Bailo provvide per secoli interi di artiglieria la repubblica veneta; alla fonderia della franconia in Brescia lavorarono per più generazioni i celebri fonditori Conti che cogli Alborghetti furono gli Armstrong della repubblica veneta. Attorno alla fabbrica di Sarezzo si trovavano le fucine di Tergola, Vergobbia, Rasega, Lumezzane ed altre molte, mentre a Gardone una rinomata fonderia diretta dai Chinelli lavorava pure per la repubblica veneta. Da queste valli bresciane i Lazzarini, i Cominazzi, spargevano ovunque le loro celebri manifatture; Serafino da Gardone compieva finissime armature per Carlo V; qui operavano il Muziano che fu illustre fabbricatore di armi bianche, il Chinelli che immaginò le prime artiglierie leggere etc., tutti gli innovatori d’armi trassero quivi a studiare, imitare, scoprire. Furono insomma queste valli lombarde arsenale inesauribile d’onde Venezia prima, poi gli Spagnoli signori di Milano, ricavarono le loro armi. Anche durante il regno napoleonico, una fabbrica d’armi fu eretta a Cajonvico, in quel di Rezzate, sul naviglio di Cajonco, ma cadde col cadere di quella dominazione. Sotto il governo austriaco riprese nuovo slancio la fabbricazione delle armi nel Bresciano; poi illanguidì per effetto della politica sospettosa iniziata dopo il 1848. Ora è poco tempo, in Val Trompia ed in quei medesimi territori di Carcina, Valgobbia, Caino, Gardone, Intrino, Lumezzane, Sarezzo, Zanano etc., esistevano ancora ben cinquanta
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officine di armi, daghe, bajonette, fucili, bacchette, ecc. Eccezion fatta di quelle del Glisenti a Carcina, del Pedrotti-Uberto a Gardone e di altre pure a Gardone governative, per la riparazione di armi, tutte le altre sono formate da piccoli edifici detti fucine, con fondazione analoghe e della massima semplicità, si trovano disposte a scaglioni, lungo un medesimo corso d’acqua che loro dà la forza motrice, e contengono tutte un fuoco d’affinamento, un altro per i riscaldi a due magli. Per tali lavori d’armi nella valle di Trompia eransi formati molti intelligentissimi operai, ma per la scemata operosità fu loro mutata destinazione, ed invece di fucili ed armi bianche fanno sale da ruote, cerchi per carri, chiodi, lime, vanghe, badili, zappe, falci, forchette, coltelli. Attualmente non sonvi che Glisenti, Bordoni, Micheloni, Premoli, Sabetto e qualche altro che fabbricano armi di lusso e da caccia nelle loro officine di Brescia e Gardone servendosi dell’acciaio Glisenti. In Val Sabbia la fabbricazione delle armi è interamente scomparsa. Gran parte delle antiche fucine d’armi del Bresciano sono convertite in molini, in forgie, in fabbriche di tela, altre sono diroccate. Solo nel Lecchese ha preso qualche sviluppo l’industria delle armi colle nuove fabbriche del Colombo per fucili da caccia e revolver e cartucce metalliche (annualmente 7,000 revolver, 7 milioni di cartucce), traendo da Francia l’acciaio fuso, dal Tirolo e della Svizzera la legna ed il carbone. Si capisce facilmente quali difficoltà debbono incontrare questi fabbricatori italiani di armi, quando si considera che i fucili delle fabbriche di S. Etienne giungono sui mercati d’Italia a prezzi assai minori ed in qualità assai superiori. La dislocazione e vita regionale, provinciale, degli stabilimenti metallurgici italiani produce inconvenienti tecnici, militari, amministrativi non lievi. Tali stabilimenti erano pienamente favorevoli alle mire ed esigenze politiche, militari, industriali dei passati governi italiani; così la monarchia di Piemonte, concentrando i suoi nella capitale, allora potente fortezza, al centro dello Stato, alla portata delle risorse mineralogiche delle Alpi, aveva risoluto il problema, come si conveniva ad una armigera monarchia. L’Austria, che aveva la sua base di operazione militare contro l’Italia nel Tirolo e Quadrilatero, protetta sui fianchi dalla neutralità Svizzera, faceva egregiamente a fomentare il lavoro nelle classiche fabbriche d’armi bresciane, e la coltivazione del ferro nelle valli lombarde in genere. Il regno di Napoli, il Granducato di Toscana, lo Stato della Chiesa, tutti fomentava-
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no l’attività metallurgica regionale, e la dirigevano a seconda degli interessi loro militari, politici, amministrativi. Ma tutti questi stabilimenti si trovano per i bisogni del Regno d’Italia dislocati a rovescio e in modo che se il nostro mal genio ve li avesse appositamente disposti, non avrebbe potuto far peggio. I soli stabilimenti per la metallurgia e la industria dello zolfo negli Stati Pontifici a Tivoli, Terni, Spoleto, nelle Marche, nel Bolognese, potrebbero servire ai nuovi bisogni, invece furono questi lasciati in abbandono. Molti inconvenienti derivano alla metallurgia italiana dalla viziata sua vitalità interna, come la mancanza di divisione del lavoro, d’esplorazione, di conoscenza delle materie prime nazionali; le crisi continue cui sono sottoposti gli stabilimenti a motivo delle fittizie loro sorgenti di attività che fa loro risentire ogni scossa economica, commerciale, industriale, che avvenga in Italia ed all’estero; la mancanza di un conveniente raggio di espansione alla produzione, che loro renderà impossibile di superare la grave questione della mancanza del carbon fossile, e li farà impotenti al delicatissimo ramo che riguarda la costruzione del materiale da guerra, e renderà inefficace ogni incoraggiamento governativo. Tutti questi ed altri inconvenienti fanno che non sia possibile risolvere il grave problema dei nostri stabilimenti militari se prima non si è mutato dalle fondamenta l’organismo della industria metallurgica nazionale. Non mancano certamente agli ottimisti ad ogni costo gli argomenti di conforto e di illusione. Essi dicono che se gravi sono le condizioni degli stabilimenti militari, è pur giocoforza tenere questi stabilimenti nella valle del Po, teatro di guerra decisivo per l’Italia, essendochè dalla valle del Po si vince l’Italia. Io non mi farò certamente a confutare questo paradosso, ma pur ammettendo che le vicende delle guerre nella valle del Po siano decisive per l’Italia, perché vorremo rendere maggiormente esposti alla merce del nemico i nostri stabilimenti; mettendoci nell’impossibilità di supplire al consumo enorme in arredi da guerra che verificasi presso i colossali eserciti in campagna; facendo che un primo insuccesso si converta in un disastro e vada a colpire fino al fondo la potenza nazionale. Se è vero che le popolazioni ed il teatro di guerra dell’Italia peninsulare non si prestano ad una vigorosa azione militare, perché vorremo aggravare questa pretesa impotenza dei due terzi dell’Italia ove abbiamo la Capitale, mettendoli nell’impossibilità di ricevere armi ed arredi di guerra, se non al-
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tro per sostenere potenti guerriglie e riprese offensive, manovrando, a cavallo dell’appennino, quella rivolta che ha ognora fiaccato gli eserciti più colossali e saldamenti costituiti? Perché non vorremo offrire loro un centro di assembramento? Supponiamo che l’Italia sia costretta a partecipare alla prossima guerra orientale e che le nazioni della lega contraria per paralizzare le nostre forze intraprendano colle loro flotte una potente diversione contro la bassa Italia, non è egli vero che noi ci troveressimo ridotti a ben grave partito cogli stabilimenti militari produttori ed i magazzini del materiale confezionato, localizzati nella valle del Po ed ai piedi delle Alpi? Che dovremo capovolgere gran parte del movimento della mobilizzazione, per non lasciare che le popolazioni del mezzodì che hanno già i principali centri di loro vitalità (Napoli, Palermo ecc.) esposti alle flotte nemiche, si trovino prive di arredi di guerra ridotti alla rovina, in balia del nemico? È vero che gli attacchi per mare non temono i nostri militari, ma le formidabili fortezze che Inghilterra e Germania elevano sulle loro coste, mostrano che non tutti sono della nostra opinione e che forse noi potremmo errare. Colle condizioni della militare marina che lascia al nemico il dominio del mare e quindi delle linee di comunicazione litoranee, con le infelicissime condizioni militari del nostro materiale ferroviario, le operazioni di una mobilizzazione, da qualunque parte provenga il nemico, si troveranno potentemente incagliate dalla dislocazione degli stabilimenti militari e privati utilizzabili nella produzione del materiale da guerra, disseminati lungo le frontiere; mentre presso gli altri Stati essi esercitano la loro azione nel colossale e complicato lavorio della mobilizzazione del centro sulla periferia, da noi operano in ordine inverso. Dicono alcuni: noi assicureremo i nostri stabilimenti militari occupando fortemente le Alpi, e facendone una barriera inaccessibile, distendendo lungo le coste linee di torpedini. Ma è egli possibile che vi sia ancora chi crede nei miracoli della muraglia della China applicati alla difesa di uno Stato? Com’è che non si vede che l’epopea guerresca alpina sviluppata dalla monarchia di Savoja fu conseguenza di speciali esigenze politiche, e per più motivi non può applicarsi alla guerra nazionale italiana, alla quale invece conviene ritornare ai principi dell’antica guerra romana? La presenza di questi stabilimenti sarà purtroppo causa che influirà sulla formazione e sullo svolgimento dei nostri piani di campagna, immobilizzerà gran parte delle nostre
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forze e le prime organizzate; per difendere le Alpi, converrà occupare tutti i monti della Riviera, il che ci condurrà ad una fatal guerra di cordone. La mente rifugge dal pensiero di ciò che avrebbe quando i Francesi con ardito colpo pei monti della Riviera entrando nel Piemonte prima che siasi compiuto il lavoro della mobilizzazione, costringessero l’esercito a ritirarsi sui piani di Alessandria; oppure se gli Austriaci o Tedeschi irrompendo nella Lombardia, sul Po ci obbligassero a ritirarci sotto Piacenza o Bologna. Noi saremmo costretti ad abbandonare i nostri stabilimenti al nemico che potrebbe impunemente servirsene, mettendo noi nel rischio di offrire al mondo l’inaudito spettacolo di una nazione vinta prima di combattere. Si è mai pensato all’enormità di questo pericolo? A me pare che desti raccapriccio e sia veramente un delitto lasciare gli stabilimenti militari là ove ora si trovano. Malgrado ciò vi sono ancora ottimisti che si fanno coraggio dicendo che l’esercito durante il periodo della mobilizzazione accelererà la elaborazione del materiale da guerra negli stabilimenti, per avere in tempo tutto l’occorrente; che in oggi le guerre sono brevi, che l’industria nazionale centuplicherà le sue forze animata dal patriottismo ecc. ecc. Ma costoro non pensano che gli stabilimenti militari come quelli privati prendono la maggior parte delle materie prime dall’estero, per le vie del mare e delle Alpi, e che perciò il solo fatto di una probabilità di guerra basterà a produrre una crisi violenta su di essi, irreparabile; operai usi a lavorare con determinati carboni, metalli e sistemi, non possono mutare d’un tratto materie prime ed abitudini, e potendolo producono materiali pessimi che rappresentano elementi negativi di vittoria. La presenza di una flotta nemica sul Mediterraneo e di grossi corpi sull’Alta Durance o nel Tirolo e le loro diversioni, colpi di mano e scorrerie, basteranno a gittare un tale allarme, da obbligarci a sospendere ogni lavoro nei detti stabilimenti. Le guerre sono in oggi micidialissime, ma non è ancora dimostrato che debbano essere brevi. Il fatto che le nazioni organizzano eserciti di prima, seconda e terza linea, destinati ad entrare successivamente in azione, mostra che nessuno crede alle brevità della guerra. E infatti l’azione militare poteva essere breve quando la lotta rimaneva localizzata tra i piccoli eserciti regolari, non oggi che col principio delle nazionalità entrano in azione tutte le forze vive di uno Stato. Esse non possono essere brevi che per quegli Stati i quali, non avendo elementi
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nazionali per produrre materiali da guerra, mettono i loro stabilimenti militari in balia del nemico pascendosi di ridicole illusioni sui miracoli di produzione nel momento del pericolo e sul patriottismo dell’industria. Allora sfido io che dalla valle del Po si vince l’Italia e che per il resto cade come corpo morto cade. Da ogni parte udiamo ripetere: abbiamo valenti tecnici nell’arte metallurgica, uomini probi ed energici, li manderemo a girare gli stabilimenti d’Europa, nomineremo Commissioni incaricate di ispezionare rigorosamente i materiali somministrati dall’industria etc. etc., tutte colpevoli d’ingenuità alle quali ampiamente risponde l’esperienza di Europa più sopra ricordata. Anche l’Italia, sebbene giovanissimo Stato, ha avuto occasione di esperimentare quale assegnamento si possa fare su queste fonti di risorse dell’ultimo momento; anch’essa potè riconoscere come i deboli debbano ritenersi ben fortunati se, vuotando le casse dello Stato, possono nel dì del pericolo ricevere gli scarti delle fabbriche estere in tempo per guadagnare disfatte. Anzi possiamo dire che nessuno Stato ebbe a pagare a più caro prezzo queste esperienze. Si sono forse già dimenticati i risultati avuti dieci anni fa,9 da quella flotta che la nazione comprò dai cantieri esteri a prezzo di ben trecento milioni e di ciò che i tesori del mondo non uguagliamo, una grande vergogna nazionale? La marina si è messa di poi sulla via dell’industria privata per quanto è compatibile coi suoi ordinamenti, ed ha ricavato dal paese tutti i materiali per le costruzioni di quelle magnifiche navi da guerra il Dandolo ed il Duillio che ora riempiono di maraviglia gli Italiani, costretti invece a mettere all’asta tutta la flotta acquistata dall’industria estera. I risultati ottenuti dalla flotta Austriaca con materiale assai meno imponente del nostro, ma tutto composto con materie prime nazionali, fabbricato in paese, ben conosciuto ed apprezzato nel reale suo valore da chi doveva comandarla, mostrano tutto il vantaggio per la marina da guerra di potersi appoggiare ad una potente industria nazionale. Ma di gran lunga maggiore è il vantaggio che ne ritrae l’esercito, poiché in oggi non è più possibile improvvisare navi da guerra nel tempo di guerra ed i cantieri nazionali si trovano per loro natura paralizzati al primo scoppiare delle ostilità, onde tutto il vantaggio che la flotta militare ricava dall’industria nazionale si limita al tempo di pace ed in
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Vedi nota 5, infra p. 6.
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tempo di guerra alla riparazione del materiale. Invece, all’esercito in tempo di guerra il lavoro dell’industria privata riesce non solo utilissimo ma indispensabile. Sotto il punto di vista qui considerato la campagna del 1866 non fu avara di insegnamenti anche per l’esercito, sebbene non siasi allora trattato di una di quelle guerre nelle quali vengono successivamente in azione tutte le forze vive di un popolo, in cui, battuto l’esercito regolare, la lotta viene protratta dalle milizie, dalle riserve, dai volontari, insomma una di quelle guerre a cui ora ci prepariamo tanto attivamente come lo mostrano gli 800,000 uomini circa che ci gloriamo di avere sui quadri. Fu quella una guerra di conquista, offensiva per parte nostra contro un nemico costretto a localizzare le sue truppe sotto l’azione delle fortezze, ben diversa da quelle che dovrà sostenere in avvenire l’Italia contro un’invasione, in cui tutte le parti dello Stato potranno diventare teatro di operazione. La campagna del 1866 fu ancora una guerra regionale, mentre ora l’Italia deve prepararsi a guerre generali, nazionali. Con grande sollecitudine l’amministrazione militare aveva allora riunito un numero di fucili uguale ad l ½ circa della forza della fanteria, inoltre eranvi 100,000 fucili rigati e di diversi modelli provenienti da incette fatte in Francia per gli armamenti anormali che sempre si verificano all’evenienza di una guerra nazionale. Malgrado ciò è noto quanti inconvenienti siansi verificati nelle spedizione delle armi ai volontari che si riunivano in Varese, Como e Lecco, come la cattiva qualità degli arredi che loro furono distribuiti abbia dato luogo a vive lagnanze che furono portate fino alle Camere nella seduta del 21 Giugno. Né valse l’avere spedito con grande sollecitudine sui luoghi i direttori delle fabbriche d’armi di Torino e Brescia, raccolti quanti armaioli militari e borghesi si potevano avere nel Bresciano e Lecchese per riparare quelle armi raccolte in Francia. Ed allora una viva lotta s’impegnò tra il generale Garibaldi ed il governo, ed a questo fu forza di mettergli a disposizione buon numero di carabine svizzere, di carabine Enfield, di carabine dei cacciatori di Napoli, facendo lavorare alacremente il laboratorio pirotecnico di Torino, mettendo tutti a soqquadro i magazzini; malgrado ciò, l’armamento dei volontari diede luogo a continue lagnanze. Consultando il doc. 92 annesso alle Relazione (pubblica) del generale Pettinengo intorno alle commissioni affidate agli stabilimenti mi-
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litari dal 1 Gennaio al 20 Agosto, si vede quale ingente quantità di materiali mancassero all’esercito ed in che posizione insostenibile si fossero collocati detti stabilimenti d’artiglieria cui furono chiesti affusti più che 2,000; avantreni più che 1,400; carri d’artiglieria 650; venti batterie da 6 pezzi; 310 affusti d’assedio trasformati; più che 1,900 cannoni di calibro diverso; 200 obici, 39,000 fucili, 4,200 fra carabine e moschetti, 13,000 sciabole, senza parlare delle migliaia di granate e proiettili. Se tutte queste ordinazioni siano giunte nelle condizioni volute ed in tempo sul teatro di guerra, la relazione non dice, però v’ha a credere che anche i preliminari di pace siano riusciti molto propizi a quegli arredi da guerra. Non bastando i mezzi interni degli stabilimenti a produrre tutti i materiali nuovamente commessi, oltre quelli che già erano stati ordinati in via normale per l’anno 1866, furono autorizzate le direzioni degli stabilimenti a ricorrere all’industria privata e provvedere da essa, per mezzo di trattative quella parte dei materiali voluti che non sarebbersi potuti allestire all’interno degli stabilimenti stessi o allo stato grezzo od allo stato ultimato. Di questa guisa, oltre alle provviste delle materie prime ed al maggiore sviluppo nell’interno degli stabilimenti con proporzionato aumento degli operai, vennero dalle varie direzioni di artiglieria affidati all’industria nazionale 34,000,400 proietti, 153,540 porti di armi,119 macchine diverse, 1596 carri ed affusti; più vennero commessi in Isvezia, dopo accertati che gli stabilimenti nazionali non erano in misura di provvederli, 100 cannoni da 40 F.R. Poco dopo si diedero altre commissioni agli stabilimenti d’artiglieria, ma la impossibilità di produzione, le prospettive di pace, fecero rimandare e sospendere tali ordinazioni. Quanto alle armi portatili, le fabbriche d’armi dello Stato, coi mezzi di cui allora disponevano, potevano produrre annualmente 30,000 fucili o poco più. Questa produzione, che era per se stessa sufficiente per sopperire al consumo annuo in tempo di pace, era lungi dal bastare a fornire prontamente un aumento di fondo proporzionato alla ampliazione che riceveva l’esercito e sopperire in pari tempo al consumo di guerra, e poiché il fondo di 470,000 fucili esistenti nei magazzini al 1° Gennaio 1866 era esaurito, il Ministro avvisò al mondo di provvedere all’estero altri 50,000 fucili di fanteria M 1850 con alzo. A tal fine, nella seconda metà del mese di Giugno, partiva per la Francia e per il Belgio il colonnello d’artiglieria direttore della fabbrica d’armi di Torino, coll’incari-
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co di cercare dove si potesse effettuare questa provvista nel minor tempo possibile, con facoltà di dividere anche le commesse in più località. Or bene, dai successivi rapporti di quest’ufficiale risultò che la provvista non poteva effettuarsi in Francia, essendochè il governo imperiale considerava l’acquisto d’armi come contrabbando di guerra, e non ne avrebbe permesso l’esportazione ai nostri confini. Che avvenne di tale provvista? Solo alla fine di luglio il direttore della fabbrica d’armi di Torino trasmetteva i suoi progetti di contratto proponendo l’acquisto a Liegi di 30,000 fucili in 11 mesi al prezzo di 45 lire ciascuno. Amara derisione! Naturalmente non se ne fece nulla. L’anno prima il Ministero della Guerra, avendo conosciuto i favorevoli effetti dati dalle armi caricatesi per la culatta, nulla tralasciò per aprire trattative col governo prussiano per acquistare un certo numero di fucili ad ago; e dopo parecchie negative, quel governo aderì alla vendita di 6,000 fucili al prezzo di 55 lire ciascuno, dichiarando che sarebbero stati messi a nostra disposizione a Colonia. Mentre però si combinava il modo di far giungere in Italia quei fucili, la Prussia ritirò la fatta concessione. Ecco quale fondamento hanno le speranze sul concorso estero. Che diremo delle polveri? I polverifici bastavano appena a produrre la quantità di polvere che si consuma normalmente dall’esercito e dalla marina, la polvere da guerra esistente nei magazzeni il 1° Gennaio 1866 ascendeva soltanto a 2,700,000 kil., mentre per la normale dotazione delle piazze e dei parchi vari di campagna e di assedio ne occorrevano almeno 6,000,000. Preoccupato il Ministero di tal deficienza di polveri, divisò ai primi presentimenti di ostilità di far fabbricare la polvere da guerra mediante il più spedito mezzo di fabbricazione in uso per la polvere da mina, il che portò la produzione dei polverifici a più che 6,000 Kilog. al giorno. Ma non bastava ancora, perciò il Ministero sul volgere di Luglio inviava in Inghilterra il direttore del polverificio di Fossano, ed in Belgio il direttore della fabbrica d’armi di Torino. I fabbricanti belgi domandarono condizioni esorbitanti, senza garantire la fornitura perché lavoravano pel proprio governo, fu forza stringere i contratti onerosi coi fabbricanti inglesi per un milione di chilogrammi di polvere di fucile. Nuove indagini furono fatte in Svizzera ed in altri paesi dal Ministero, non essendosi rivolti all’industria nazionale perché i piccoli polverifici non ne potevano fornire che limitatissime quantità. Io non ricorderò dell’artiglieria commessa all’estero durante la
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campagna del 18596 e che entrò trionfalmente in Italia molto tempo dopo la pace di Villafranca; né parlerò dei disordini che accagionò nel servizio di munizionamento dell’esercito la disparità dei sistemi di fucile. Ma del resto, senza parlare del tempo di guerra, non abbiamo forse avuto occasione ai nostri giorni in piena pace di esperimentare quale assegnamento si possa fare sull’industria nazionale e privata nelle attuali loro condizioni? Forse si è dimenticato l’appalto dei 13 milioni cartucce metalliche dato a due case nazionali e ad una estera per 4 milioni, cartucce che dovevano essere consegnate nel novembre 1874 e non lo furono nemmeno nel giugno 1875? Sta bene che il governo ebbe la soddisfazione di multare quelle Case e far loro perdere la cauzione; che potè rimediare incaricando di tale provvista lo stabilimento governativo rifornito di nuove macchine; tutto ciò sta bene per il tempo di pace, ma se ci fossimo trovati in tempo di guerra quale sciagura nazionale avrebbe potuto arrecare questo solo fatto! Si è forse dimenticato il risultato ottenuto dalla commessa data all’estero dei 100,000 otturatori? Noi andiamo pian pianino completando l’armamento per l’esercito dei nostri stabilimenti che fabbricano 50,000 fucili l’anno, ma per arrivare ad avere un armamento uniforme per l’esercito, con indispensabile riserva di armi portatili, quanti anni dovremmo noi impiegare? E se una guerra ci obbligasse ad uno sforzo estremo, dove potremo noi dare del capo? Krupp ci provvede delle potenti sue artiglierie, ma per supplire ai guasti al consumo della guerra dove troveremo noi i mezzi? L’industria estera può soddisfare a mala pena alle richieste dei rispettivi governi ora che siamo in tempo di pace, come potrà in tempo di guerra sopperire ai nostri bisogni, non è forse follia, colpevole ingenuità lo sperarlo? Come dicemmo, la Francia nell’ultima guerra ebbe a patire grandemente per deficienza di armi, eppure al 1 Luglio aveva 1,037,555 fucili Chassepots cioè il triplo dei bisogni dell’esercito attivo, le sue manifatture erano in grado di fabbricare in un mese press’a poco quello che le nostre in un anno. Disponeva l’esercito di riserva di 2,400,000 fucili in parte rigati antico modello e in parte ridotti a tabacchiera. Esistevano 500 batterie di 6 pezzi. Più il materiale necessario ed altre 10
Si riferisce alla Seconda guerra d’Indipendenza.
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360 batterie sempre di 6 pezzi. Ma se la Francia si trovò disarmata di fronte ai Prussiani dopo un mese di lotta, che avverrà mai di noi in una guerra nazionale? Ecco una domanda che non dovrebbe lasciare sonni tranquilli a molti in Italia. E ora che abbiamo rilevato i pericoli che derivano alla guerra nazionale dalla attuale dislocazione degli stabilimenti militari, entriamo nel tempio dell’industria metallurgica italiana, esaminiamone la vita intera, le basi psicologiche, udiamo i lamenti, i desideri, le ardenti preghiere di questa tribù industriale che, accasciata nella sua impotenza, invoca da lungo tempo il suo Messia; vecchia di corpo, avvolta in manto moderno, anela il momento della sua redenzione. In Italia sono mal collegate ed incancrenite le basi organiche della vitalità metallurgica, lo spirito vi è guasto, e perciò inutili e ridicoli diventano i lavori di rattoppo; è indispensabile incominciare il lavoro ab imis fundamentis. L’industria metallurgica nazionale, divisa in un’infinità di piccoli centri regionali, si trova nella materiale impossibilità di abbandonare l’antico ambiente e cercare nella perfezione e nell’unità di produzione la sua potenza, crearsi un adeguato circolo di espansione senza del quale non è possibile all’arte metallurgica di sostenersi. Non è il genio della meccanica applicata, nella metallurgia, nella geologia, nella scienza mineraria che manca al paese di Someiller, di Cavalli, di Menabrea; nemmeno puossi dire che manchi l’ardimento, l’intelligenza dacchè si videro sorgere stabilimenti come quelli Glisenti, Gregorini, Masson; neppure fa difetto il desiderio, lo spirito di progresso. Leggendo i voluminosi resoconti dell’ultima inchiesta industriale non si ode che un lamento per parte dei produttori siderurgici, ed è l’abbandono in cui sono lasciate di fronte alla gigantesca concorrenza straniera, la mancanza di lavoro, la mancanza di un opificio direttivo, di scuole metallurgiche, di un’azione centrale, di un impulso unificatore e vivificatore. L’industria privata italiana è avida di partecipare all’attività militare. Tutti promettono di riformare, ampliare dalle fondamenta i propri stabilimenti, di provvederli delle più perfette macchine, pur di aver assicurato la somministrazione di una parte del materiale da guerra. Sartoris, coltellinaio nei pressi di Torino, promette di convertire la sua modesta officina in una vasta fabbrica di armi bianche senza pari, pur di avere assicurata una commissione di 50-60,000 sciabole dall’amministrazione militare. Colombo e Micheloni hanno eretto nuove fabbriche d’armi nel
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Lecchese e non attendono che l’appoggio governativo per dare grande sviluppo alle loro industrie in modo da gareggiare colla concorrenza estera. Glisenti, il più potente rappresentante dell’industria metallurgica militare in Italia, non appena vidde la probabilità di un concorso nei lavori dell’amministrazione militare, rinnovò, ampliò le sue fabbriche, chiamò a raccolta i produttori delle armi nelle valli bresciane, li riunì in una Società. Con questa portò a compimento 30,000 fucili di nuovo modello per l’esercito nonché parecchie migliaia di fucili ridotti, ma poi cessate le ordinazioni si sciolse anche la Società. Durante quel periodo di potenza, Glisenti ebbe commissioni d’armi anche dall’estero; il governo francese gli diede carico per fucili Chassepot però non senza diffidenza e difficoltà, e invece egli fu l’unico a soddisfare a tempo ai suoi impegni, poiché gli armajoli Belgi che avevano avuto ordinazioni per 50,000 ne diedero 8,000; quegli inglesi invece di 40,000 ne diedero 17,000; Glisenti ne ebbe per 20,000 e li diede tutti. Glisenti assicurava la Commissione d’Inchiesta ch’egli potrebbe dare grandissimo impulso alle fabbricazioni degli oggetti in acciajo e ferro necessari alla costruzione delle armi, in modo da far concorrenza alla produzione straniera, quando avesse la sicurezza di essere a questa preferito. Molti esempi si potrebbero trarre agli stabilimenti che sussidiano l’amministrazione della Marina e si vedrebbe come non manchi il buon volere all’industria italiana di sussidiare l’industria militare. Ma queste due industrie non si sono ancora affiatate, non si sono ancora convinte di essere necessarie l’una all’altra, e tutte e due ugualmente indispensabili allo Stato. L’impotenza alla produzione del materiale da guerra si aggira in Italia in un circolo vizioso tra gli stabilimenti militari e quelli privati, ciascuno rimanendo nel proprio elemento, accusa l’altro di essere causa di tale impotenza. Da molti si considera l’industria metallurgica privata come naturale nemica degli stabilimenti militari, come un elemento pericoloso e funesto all’esercito, che è un gioco forza tollerare per la pressione esercitata dai parlamenti; noi stessi siamo i primi a proclamare ai quattro venti la impotenza, maniera questa affatto italiana di imporre i dazi di esportazione sulle ricchezze della nazione. L’iniziativa di un accordo non può venire però che dall’amministrazione governativa; purtroppo in Piemonte non si è mai fatto differenza tra il regime che si conviene ad una fabbrica metallurgica militare e quello di una caserma o di un carcere penitenziario.
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È ben doloroso dover ricordare con una qualche invidia quanto fecero i passati governi austriaci e borbonici in fatto di metallurgia, ma in omaggio alla verità è giocoforza riconoscere che essi seguirono idee assai più elastiche, più progressiste, che non quello piemontese. Per essi gli stabilimenti militari non erano che il vertice di una grande piramide formata da potenti stabilimenti metallurgici nazionali e privati (vedansi gli stabilimenti del Bresciano e delle Calabrie). Nel Piemonte invece i principi di autonomia e di isolamento ereditati dalla Francia entrarono nelle tradizioni, nel sangue dell’amministrazione. Citiamo un esempio per mostrare l’immobilità di spirito che ne derivava. Prima del 1852 tutte le polveri da guerra, come da caccia e da mina, si fabbricavano ancora in Piemonte col sistema dei piloni. Questo procedimento era stato sostituito presso la maggior parte degli Stati da altri più razionali, ma lo stesso non poteva avvenire in Piemonte, dal momento che la Francia era ritornata ai molini a piloni, in odio al processo detto rivoluzionario, perché impiegato durante le guerre della rivoluzione; processo che fu invece adottato dalla Prussia. È stata necessaria l’esplosione del polverificio di Torino (aprile 1852) per costringere l’amministrazione piemontese ad uscire dalla sua immobilità, ed allora, grazie alle sapienti istanze dei S. Robert e Sobrero, potè essere costruito a Fossano un polverificio coi sistemi più perfetti. Speriamo che non si aspetteranno nuove esplosioni per dare movimento allo spirito vivificatore degli stabilimenti metallurgici militari, e che l’Italia, la quale si vanta di aver distrutta, entrando a Roma, l’immobilità cattolica, non rimarrà sola immobile in un ramo così vitale della potenza militare dello Stato, laddove attorno ad essa tutto cammina e si trasforma con velocità sorprendente. L’esempio della repubblica di Venezia ci sta dinnanzi; essa fu nei secoli XVI e XVII, fra le potenze di Europa, una delle più ricche in artiglierie di ogni specie, servivasi delle celebri fabbriche d’armi bresciane ed aveva a sua disposizione i più grandi luminari nella scienza ed arte d’artiglieria e metallurgia dei suoi tempi. Come i Conti, gli Alborghetti nei quali la direzione delle fondite d’artiglieria passava di padre in foglio per più generazioni. Ma volendo la Repubblica col suo spirito sospettoso, misterioso e immobile, tutto isolare e sorvegliare, incagliò potentemente lo sviluppo dell’arte delle armi e paralizzò l’ingegno dei valenti suoi artiglieri; onde essa ebbe è vero gran quantità di artiglierie, ma tutte di mediocre, sovente di pessima qualità. Tali furono sempre e sono più specialmente oggidì gli effetti dell’isolamento in cui
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gli stabilimenti militari si tengono di fronte all’industria privata, esso li obbliga in tempo di guerra non solo, ma in piena pace a ricorrere all’industria straniera, spegne in essi ogni spirito di progresso, li rende immobili, inerti, rompe loro i nervi, lentamente li conduce all’esaurimento di ogni forza vitale. Alle tradizioni della scuola piemontese si deve in gran parte se in Italia non si ha un concetto serio ed esatto della parte che deve spettare all’industria privata nel problema della guerra nazionale. Sovente tale concetto non è posseduto nemmeno dagli uomini più influenti, che sono chiamati a decidere nelle determinazioni politiche militari dello Stato. Per convincersene non si ha che a consultare ad esempio i resoconti parlamentari; si leggano i discorsi dei maggiori propugnatori dell’industria nazionale, i deputati S. Donato, Nervo ad esempio; veggansi d’altra parte i discorsi dei deputati poco propensi all’industria nazionale, noi li udiremo parlare di principi astratti, di scuole protezioniste od antiprotezioniste, dell’opportunità di compensi provinciali, regionali, dei timori di movimenti socialisti ecc., di tutto fuorché dell’essenziale, cioè dei bisogni indiscutibili, irremovibili della guerra nazionale. Il deputato Corte, ad esempio, nella tornata dell’11 Marzo 1875 diceva: “Quel che ci proponiamo ora è l’armamento dell’esercito; non l’industria nazionale... se per favorire l’industria nazzionale dovessimo trovarci in tempo di guerra senza cartucce, sarebbe miglior consiglio di farle fare negli stabilimenti governativi o commetterle all’estero, piuttostochè fare a fidanza coll’industria nazionale, la quale poi non rispondesse ai bisogni. Bisogna soprattutto darci pensiero dei nostri bisogni e lasciare che la questione di un incoraggiamento alle nostre industrie venga in seconda linea ecc. ecc.” Agli occhi della maggioranza e del paese questi due partiti difendono, l’uno gli interessi regionali, l’altro gli interessi dell’esercito, in realtà però né l’uno nell’altro difendono gli interessi dello Stato. Ecco come a lor volta si esprimono i più potenti produttori metallurgici italiani capaci di concorrere, anzi aspiranti alla produzione del materiale da guerra. “Io ho visitato, dice Colombo (vedasi la Relazione della Commissione d’Inchiesta 1872), più volte gli stabilimenti governativi, ho veduto che v’ha un’organizzazione impiantata, una divisione di lavoro non tutt’affatto completa, ma sufficiente, ma ho veduto altresì che si va con un sistema troppo pedante, troppo costoso. L’arma al
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fabbricatore privato che ha la sua officina ben organizzata, con grande divisione di lavoro, costerebbe il 40 per cento di meno che al governo e ciò causa del grande impianto amministrativo delle fabbriche governative, degli interessi dei capitali, della cattiva amministrazione. Insomma credo che il governo in giornata spenda il 40% od il 50% di più che l’industria privata. Ma… direbbero quei signori dell’amministrazione militare, se fossero qui, ma i privati sono venuti e non sono stati buoni… E vero, questi avranno sbagliato, ma voi dovevate cercarne altri, e insistendo li troverete. Io credo che se il governo cessasse di fare l’industriale ed a poco a poco desse tutto all’industria privata i bilanci dello Stato sarebbero migliori.” Glisenti riteneva esservi dell’esagerazione in queste asserzioni e soggiungeva: “Naturalmente la fabbricazione privata, ben condotta, ben diretta, può risparmiare tutte quelle grandi spese generali che il governo è obbligato a sostenere per avere un amministrazione di controllo, cosa questa di cui noi ci passiamo, perché controlliamo tutto da noi. Però anche il governo, massime qui da noi, fabbrica con economia, perché vedo che le tariffe sono studiate e limitatissime; ma v’ha un inconveniente ed è che un ufficiale d’artiglieria sarà un bravissimo ufficiale e potrà riuscire anche un distinto generale, ma non diventerà forse mai un bravo industriale. “A Brescia (continua Glisenti) il governo spende enormi somme per impiantare stabilimenti, ed allo stato attuale delle cose, cioè prendendo gli stabilimenti regi come sono, non come dovrebbero essere, mi obbligherei di fare le 300,000 armi di cui ha bisogno il governo in 5 anni ed al prezzo da stabilirsi da Commissione spassionata, mentre non so, andando di questo passo, se fra tutti e tre gli stabilimenti regi potranno darle in quel termine. Essi non possono voltare un chiodo senza domandare il permesso al governo, noi invece ci pensiamo la notte, poi il giorno traduciamo in atto ciò che vogliamo fare. Una officina governativa ha delle complicazioni inevitabili che l’industria privata non ha”. Continua Glisentti a mostrare come egli somministri alle fabbriche d’armi governative la materia prima, cioè le sbarre d’acciaio fuso ed anche le canne tornite che il governo non è in grado di fabbricare direttamente per mancanza di macchine, specialmente nella fabbrica di Brescia; questi materiali acquistati dal governo sono dati a lavorare a cottimo, al fabbricante A. e B. onde l’azione governativa non è che
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intermediaria. “In Francia, Inghilterra e Germania si chiamano gli industriali, si fanno loro offerte ed una commissione del governo visita gli stabilimenti per accertarsi se i lavori per cui si concorre vengono eseguiti effettivamente negli stabilimenti cui è stata data la provvista… in tal modo si fa economia nell’amministrazione, e se l’impresa conosce l’affar suo vi trova il suo guadagno. “Dunque: trasformare gli stabilimenti governativi e fare in modo che il lavoro che vi si compie sia sotto il controllo dell’autorità governativa tutto commesso all’industria privata”. Fra tante opinioni diverse è difficile di stabilire quale sia praticamente la giusta. Partendo da empirici principi di politica economica, gli esclusivisti hanno ragione, ma li condanna la ragione di Stato e gli interessi stessi di quell’esercito ch’essi credono partecipare. Ma d’altra parte è facile scorgere come nelle attuali condizioni dell’industria metallurgica privata ogni incoraggiamento ed appoggio governativo riesca inutile, illusorio, per lo scopo unico supremo che è di procacciarsi un potente alleato in tempo di guerra e di crisi economiche e metallurgiche all’estero in tempo di pace. Chi è che non vede come sovente con tali appoggi si raggiunga lo scopo diametralmente opposto a quello prefisso, si arrivi ad una mistificazione? È necessario riorganizzare prima l’industria nazionale se si vuole che l’appoggio governativo possa raggiungere lo scopo supremo prefisso e possa giustificarsi la violazione di un principio economico. Non si può negare che l’idea di servirsi, nella costruzione delle armi, di preferenza dell’industria nazionale, ha progredito dal 1860 in poi. Per l’appoggio delle amministrazioni della guerra, della marina, delle Società ferroviarie, sono sorti molti nuovi stabilimenti metallurgici. Senza parlare delle regolari commesse, le amministrazioni delle fabbriche d’armi di Torino, Brescia, Torre Annunziata, traggono molta parte delle armi che costruiscono dall’industria privata locale, circondariale e quindi danno incremento all’industria di quei luoghi. Ma a che serve ciò, se in tempo di guerra saranno quelle le prime regioni invase dal nemico. Le amministrazioni governative, che dagli stabilimenti privati traggono metalli o macchine, si troveranno allora essi pure nell’impotenza di continuare i loro lavori, quindi a nulla avrà giovato l’appoggio loro dato in tempo di pace. E del resto anche in tempo di pace, siccome i nostri stabilimenti metallurgici ricevono la maggior parte delle materie prime nonché gli attrezzi dall’estero, l’appoggio governativo
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non si fa sentire nei suoi effetti industriali che per gli stabilimenti esteri, mentre pei nostri riducesi ad una speculazione finanziaria. Si arriverà mai a capire come siansi lasciati costituire, anzi come siasi incoraggiata la costruzione di molti nuovi stabilimenti metallurgici sulle frontiere di terra e di mare? Come non è venuta spontanea l’idea di attirarli verso l’interno del paese, in luoghi meglio rispondenti agli interessi della sicurezza dello Stato? Si capisce come nelle potenti regioni metallurgiche di America, Germania, Inghilterra, Austria, gli stabilimenti privati si distribuiscano a secondo della forza di attrazione che su di essi esercitano le materie prime, minerali, carboni che debbono nutrirli e che si estraggono sul posto, ma da noi le cose stanno ben diversamente. I nostri stabilimenti sono spinti sulle periferie dello Stato unicamente per avere maggior facilità nel ricevere le materie prime estere cioè dalle vie del mare e da quelle del Censio, della Svizzera, del Tirolo, della Stiria e Carinzia; l’industria non prende sul posto il più delle volte nemmeno l’acqua necessaria come motore, e dalle miniere e dal combustibile italiano trae ben poco profitto. A nessuno verrà certo in mente di costringere gli stabilimenti metallurgici a servirsi delle materie prime italiane e far rientrare in certo modo questa malattia del tributo estero, imponendo forti dazi; sarebbe errore troppo volgare di cui le tristi esperienze sono troppo recenti per ricadervi; ma chi impediva di attirare gli industriali che intendevano stabilire opifici nuovi o rinnovare gli antichi verso l’interno dello Stato, concedendo loro franchigie ferroviarie ed agevolazioni sui dazi come compenso? Sarebbe stato questo un semplice espediente che avrebbe arrecato grandi vantaggi alla causa della guerra nazionale. Conseguenza inevitabile della vita stentata alla giornata della metallurgia italiana è la violazione completa dei principi della divisione del lavoro e della produzione della specialità che è il fondamento della potenza metallurgica in genere, ma specialmente nelle sue applicazioni alla costruzione del materiale da guerra. Da noi ogni opificio per sostenersi è obbligato a fare un po’ di tutto, onde tutto male, lentamente e stentatamente, perché ripetiamo si viola il principio fondamentale della metallurgia che vuole unità nella varietà, e per ogni opificio il lavoro di una specialità. Da ciò la difficoltà sempre crescente di formare e trovare buoni operai e soprattutto capi-fabbrica, nei quali la mancanza di pratica e di esperienza non vien compensata dalla singolare intelligenza, sobrietà, costanza e forza che addimostrarono e pei quali requisiti
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stanno forse al di sopra degli altri operai di Europa. Glisenti ad esempio, per non essere abbandonato dai suoi operai, è obbligato a mutare loro continuamente di lavoro, converte armajoli in meccanici, al lavoro delle viti per le corazzate impiega operai che facevano armi. Senza la debita istruzione nel personale addetto ai forni fusori e di decarburazione (osserva il Peirano) non puossi sperare di avere buon ferro né buon acciajo. I nostri operai sebbene intelligenti, per lo più non sono forniti che di empiriche cognizioni su di un dato lavoro, di modo che per poco che cambi il minerale, il fondente, la natura del combustibile, la ventilazione e simili, eglino difficilmente possono trarsi d’impaccio. Sarebbe stato facile allorché il governo era proprietario delle ferrovie di dare istruzione pratica agli operai nei suoi grandi stabilimenti metallurgici. I nostri stabilimenti metallurgici vogliono eseguire contemporaneamente lavori di fusione e lavori di fucina. Ora se i primi, purché limitati a date specialità cui i nostri minerali si prestano assai bene (come per la fabbricazione di projettili per la marina), sono ancora possibili in Italia, sebbene stentatamente e mercé di un dazio protettore, per i lavori di fucina invece tale è la quantità di combustibile necessario, stante la sua limitatissima potenza calorifera, che è giocoforza rinunciarvi nel modo più assoluto finché durano le attuali condizioni della metallurgia. Gli stabilimenti metallurgici in Italia hanno tutti impronta simile; non sono veramente che laboratori meccanici perché manipolano e non producono ferro. Sono troppi quelli che fabbricano le stesse cose nell’industria militare come in quella privata. Gli elementari principi della guerra nazionale insegnano che molti, sparsi e ben dislocati, debbono essere i magazzeni del materiale confezionato, come pure gli opifici di riparazione, ma che gli stabilimenti produttori debbano invece trovarsi riuniti in luogo opportuno ai bisogni generali e constare di un grande stabilimento per ogni ramo di produzione, senza di che si va incontro ad un’infinità di inconvenienti amministrativi, militari, tecnici. Ma ciò in Italia non si suole né si può intendere perché vi è ancor troppo potente l’egoismo regionale. Eppure è giocoforza che ci persuadiamo che il concentramento è in oggi base di una benintesa fabbricazione di ferro; serriamo le nostre file e ripuliamole dai vecchi elementi; forze fresche, ben disciplinate ed unite ci vogliono per combattere le colossali guerre della metallurgia moderna. Con grandi battaglie strategiche noi otterremo più che con un’eterna guer-
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riglia ed azione di posti, che decima le nostre forze senza mai condurci all’oggettivo prefisso. Il sistema adottato dalle amministrazioni governative nell’incetta di armi ed arredi delle aste pubbliche, contribuisce potentemente a distruggere nei produttori metallurgici nazionali il culto della specialità, che pure se è necessario per tutte le produzioni, per quella delicatissima delle armi è assolutamente indispensabile. V’ha egli qualche cosa di più evidentemente assurdo; si può immaginare un errore più grossolano di queste aste pubbliche che prescrivono le leggi di contabilità tramandateci dalla scuola piemontese? Un tale sistema può convenire alle forniture di pane, di scarpe, di carne ma non all’incetta di prodotti dell’industria metallurgica applicata alle armi. Per pochi centesimi si dà la preferenza ad uno od all’altro stabilimento, dimenticando l’importante; il valore della produzione, onde, anziché stimolo di perfezione, questo concorso governativo diventa rovina dell’industria metallurgica. In Italia, ove non vi sono stabilimenti impiantati su vasta scala, non è mai possibile di trovare un industriale capace di produrre con prontezza e perfezione quelle specialità che gli vengono richieste, poiché a tal fine avrebbe dovuto molto tempo prima prepararsi a sottostare ad ingenti spese d’impianto, educare operai, perfezionare il lavoro, ciò che egli non potrà mai fare senza di aver assicurata una data quantità di lavoro. Ora che avviene di fronte alle aste? L’industriale che conosce il pericolo di essere posposto ad un altro per meschine differenze, non cura la perfezione del lavoro, ma abborraccia molto materiale a buon mercato; oppure sorge una categoria di pirati i quali si gettano tra i produttori, li abbattono o li fanno ritirare, prendono dal governo le commesse cui soddisfano colla produzione straniera. Lo stesso ministro Ricotti ebbe a dichiarare ciò esplicitamente, quando, rispondendo all’interpellanza del deputato Nervo (tornata dell’11 Maggio 1875), disse: “Si è visto che quando si mette per condizione che le provviste siano fatte da nazionali, è sempre un sensale nazionale che prende l’appalto e poi compera all’estero; quindi la questione si riduce ad un mezzo di guadagno più o meno lecito”. Il più potente dei fabbricatori metallurgici italiani, quello che solo potrebbe trovarsi in grado di soddisfare alle improvvise richieste fatte dall’amministrazione militare, il Glisenti, pur esso si lagna del sistema degli appalti e dice: “Il sistema in vigore per gli appalti pubblici è cattivo; noi industriali ci siamo affaticati per raggiungere uno scopo,
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e quando siamo quasi alla meta, un terzo che non ha mai saputo che cosa sia industria di ferro, viene ad imporci, e ci dice: O mi date tanto, o altrimenti vi guasto l’affare. Questa io credo sia una condizione di cose conosciutissima a tutti; il governo dovrebbe chiamare a sé quegli industriali che fanno quella specie di oggetti che gli occorrono, ovvero cautelare gli appalti con certificati sulla capacità per fabbricare l’oggetto richiesto”. Finché non si gitteranno le basi di una grande azienda nazionale metallurgica nella quale entrino gran parte degli stabilimenti governativi per la guerra, la marina, le ferrovie e molti stabilimenti nazionali, non sarà possibile in Italia di superare quelle naturali condizioni di inferiorità che derivano dalla mancanza di combustibile fossile. Dappoichè le condizioni dell’industria italiana non sono tali da concedere ai prodotti dei singoli stabilimenti quel raggio di espansione indispensabile per supplire al maggior costo del combustibile, è necessario che ci uniamo, allora soltanto combatteremo vittoriosi. È un fatto che nella operazione pel trattamento del minerale di ferro, cioè nella fabbricazione della ghisa, è necessario mettere il combustibile a contatto col minerale, noi non possiamo impiegare né lignite né torbe, ma siamo costretti ad usare carbone di legna, onde ora, specialmente che le nostre foreste sono devastate, le nostre ghise vengono ad acquistare valori altissimi da non poter reggere alla concorrenza estera. Da ciò il piangere che si fa da venti anni a questa parte sulla sventura dell’Italia in fatto di metallurgia perché non ha carbone fossile, sventura che si suole riguardare come irreparabile. Ma se in Italia non c’è il carbon fossile, mettiamoci in grado di andarlo a prendere dove si trova. Se gli Inglesi avessero ragionato come noi, non filerebbero il cotone, né la Germania sarebbe la prima filatrice di lana, la Sicilia dovrebbe essere la più attiva produttrice nell’industrie che si attengono allo zolfo, mentre dà la sua materia prima a tutta Europa per riceverla di ritorno manipolizzata. La valentia industriale sta nell’approfittare di ciò che si ha, ed andare a prendere ciò che manca; finché rimarremo divisi in tanti piccoli e meschini centri di produzione, subiremo in tutte le sue conseguenze gli effetti della deficienza di carbone, invece nella molteplicità e perfezione dei prodotti troveremo la leva per supplire alla natura. Nulla v’ha di più indegno negli uomini come nelle società che la rassegnazione indolente alla povertà; come
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si spiega che una buona metà degli stabilimenti metallurgici italiani, anziché impiegare come forza motrice le acque di cui sì bene è provveduta l’Italia, preferiscono sciupare questo prezioso carbone, mettendosi in luoghi completamente privi di forze motrici idrauliche; come è che i forni sistema Martin, Siemens, Bessemer, i quali per la seconda e terza manipolazione del ferro permettono di impiegare lignite, torbe, tutto ciò che abbrucia, riducendo da 30 a 10 la spesa, non sono adottati che da tre o quattro stabilimenti, mentre gli altri hanno tutti forni medioevali per costruzione e governo. Come è che non si generalizzano i procedimenti meno costosi Pudler, di forni alla contese, forni a gaz, a riverbero, che non si ricercano le opportune miscele tra combustibili italiani e stranieri come fa Gregorini che prende carbon fossile, lignite dalla Stiria, legna, lignite, torbe italiane. Da ogni parte ed ogni giorno si vanno scoprendo in Italia depositi di ligniti e torbe, ma manca un azione centrale che dia modo di sfruttarle. Malgrado il disboscamento, in Italia vi ha dovizia di combustibile, ma questo combustibile non è egualmente distribuito, mentre le montagne del Lecchese non hanno più un fusto da offrire ai molti loro stabilimenti metallurgici, le sterminate foreste della Calabria giacciono quasi interamente inutilizzate. In Italia si fa un gran gridare dei vantaggi che l’America e l’Inghilterra ed altri potenti paesi metallurgici ritraggono dall’abbondanza del combustibile fossile, ma nessuno tien calcolo che da noi la mano d’opera, in tutti i mestieri che riflettono la metallurgia, ha valore tre, quattro, sovente anche cinque volte minore che non in quei paesi, ove la mano d’opera rappresenta il 70-80 % della spesa totale dell’aziende metallurgiche. Siamo dunque giusti e non la natura, ma la nostra pigrizia accusiamo. Consideriamo la Svezia; non si trova essa nelle identiche condizioni dell’Italia per quanto riguarda il carbon fossile? Eppure non occupa essa il primato in Europa nella fabbricazione delle ghise di cui fa colossale esportazione? La superba Inghilterra non fabbrica forse la maggior parte dei suoi celebri acciai con le ghise che è obbligata a trarre dalla povera Svezia? In grazia alla perfezione dei suoi ferracci la Svezia fornisce artiglieria grossa a tutti gli Stati d’Europa, per mezzo delle potenti fonderie private d’artiglieria di Stochenströus nel Sudermann, di Jonköping, Smalend, Narrköping ecc., di cui talune producono più che 5,000 cannoni l’anno. Ma gli Svedesi coltivano con cura i loro boschi; le miniere governano con perfetti sistemi; ge-
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neralizzati vi sono i forni Siemens, ed il procedimento Bessemer a ragione chiamato rigeneratore, poichè la sua apparizione fu la generazione dell’industria metallurgica nei paesi mancanti di carbon fossile. La Svezia dobbiamo tenere sempre d’innanzi alla nostra mente; essa ci mostra che nulla è impossibile alle nazioni sapientemente vigorose; che la povertà delle finanze, la mancanza di combustibili fossili, non giustificano questo mendicare che fa l’Italia all’Europa le ghise, che potrebbe assai bene fabbricare in casa sua. La ricchezza dell’Italia in eccellenti minerali di ferro è proverbiale; dopo la Russia e la Svezia nessun altro Stato la uguaglia. Dalle Alpi alle Calabrie la varietà dei ferri è pari alla varietà della scena della natura; così i ferri idrossidati, ossidati e carbonati dell’Alta Italia e che danno ferracci cristallizzati, grigio, lamellare, moscato cavernoso, i ferri oligisti dell’Italia centrale, i ferri ematici dell’Italia meridionale. Ma appunto per questa grande varietà della specie si richiedono continue, ostinate ricerche delle risorse del suolo e del modo di sfruttarle e combinarle. Specialmente nel delicatissimo ramo della metallurgia che si applica alla costruzione delle armi debbono essere profonde tali ricerche, poiché ad ogni oggetto si addicono speciali miscele di minerali nazionali ed esteri, che vogliono essere trattati più in un modo che in un altro. Quale fu ad esempio la causa che fece fallire le commesse date al Ministero della marina nel 1861 ai fratelli Orlando, direttori delle officine Meccaniche Ansaldo a Sampierdarena, di 1000 tonnellate di piastre per la corazzatura delle navi, se non la cattiva scelta del minerale? Essi impiegarono i ferri nervosi lombardi che danno eccellente acciaio per costruzione di armi in genere ma che non erano atti all’oggetto richiesto, cui si addicevano invece i minerali elbani che danno ferro dolce. In Italia manca completamente questa unità di investigazione la quale non sta solo nella esplorazione del terreno, ma essenzialmente nelle sapienti e soprattutto costanti esperienze delle officine. Gli stabilimenti militari mantenendosi nel loro isolamento, eseguiscono per proprio conto le miscele di metalli necessari alle produzioni militari, miscele che vengono loro prescritte con appositi ordini, di cui è pieno il Giornale d’Artiglieria. L’esperienza però insegna che, per quanto gli ufficiali addetti agli stabilimenti siano animati di zelo pel servizio e sorretti dallo spirito del dovere, non potranno mai in fatto di metallurgia uguagliare l’industria privata diretta da specialisti, consumata da una lunga pratica, che ha vastità di rapporti indu-
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striali, è animata dall’interesse, movente al certo meno nobile dello spirito del dovere, ma assai più operativo, più avido di progresso. L’industria privata è a sua volta in Italia impotente a sviluppare un industria metallurgica nazionale, essa non ha i mezzi per intrattenere ricerche geologiche, scuole di miniere, per eseguire esperienze, onde la nostra è un’industria a mosaico, che però non rappresenta un solo soggetto essendochè ognuna delle industrie regionali conosce e stima meglio le risorse straniere che quelle delle province limitrofe. A ciò si deve il miserando stato in cui sono ridotte tutte le miniere italiane di ferro e rame senza distinzione. In Lombardia ad esempio sono sorte officine metallurgiche rispettabilissime che sono indubitatamente le più perfezionate d’Italia, invece il lavoro delle miniere vi è decaduto orribilmente, non vi è unità e regolarità nelle escavazioni, non processo scientifico; ogni particolare lavora per suo conto scavando buchi di talpe piuttosto che miniere. All’isola d’Elba l’estrazione del minerale è per sua natura assai facile, noi siamo riusciti a renderlo costoso è difficile. Lo stesso dicasi per gli alti forni e le ferriere italiane sfruttate da Italiani, (*) quelle usufruite dagli stranieri presentano
* Il Curioni11 a questo riguardo osserva come “attualmente siamo ben lontani dal vedere dato un buon indirizzo alla metallurgia del ferro, poiché la maggior parte di quelli che si dedicano a questa industria, non arrivan nemmeno a sospettare che siavi qualche cosa di attendibile all’infuori delle antiche pratiche. “Citerò ad esempio ciò che accadde recentemente in uno dei due forni reali di Lombardia. Avviato esso già da più settimane, minacciava ogni momento di rimanere ingombrato per i più piccoli accidenti. Si ricorse ai soliti mezzi di aumentare l’aria, di riscaldarla fortemente, ora di diminuire, ora di accrescere la carica di minerale. Tutto riusciva inutile; si attribuivano gli sconcerti a tutt’altro che alle vere cause. In occasione di una visita a quella ferriera, avendo io osservato che i carboni provenivano da terreni calcari, che la miniera conteneva qualche poco di calce, e che il fondente che si adoperava era calcare, entrai in sospetto che gl’ingombri del forno reale procedessero dal fondente adoperato. Esaminata chimicamente la scorie, la trovai composta di un protosilicato di più basi. Indussi allora il mastro del forno ad aggiungere al fondente circa due chilogrammi di silice per ogni carica. Con grande sorpresa del maestro, il forno si mise subito in buon andamento”. 11
Giulio Curioni (Milano 1795-1878), geologo.
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però ben diverso spettacolo e valgano ad esempio i colossali lavori eseguiti alle miniere di Sardegna che alimentano le grandi manifatture di Petin-Gaudet a St. Etienne. Al primo unirsi delle province italiane, vi fu per vero dire un momento in cui parve che l’industria metallurgica italiana da provinciale avesse voluto farsi nazionale. Furono eseguite parecchie esperienze sulle diverse ghise italiane, ma come di solito dopo i primi tentativi non se ne fece più nulla, tutti si arrestarono dinnanzi alle prime difficoltà. Messe a paragone le nostre esperienze con quelle eseguite dalle grandi nazioni tutte di Europa c’è da arrossire; noi ci siamo limitati ad una vaga esplorazione delle risorse metallurgiche nazionali. Così è che dal 1860 al 1862, furono condotte nella reale fonderia di Torino esperienze sulle ghise Lombarde per riconoscerne l’idoneità nella fabbricazione delle bocche a fuoco; i primi risultati furono soddisfacenti e fecero concepire speranze sulla possibilità di rendersi indipendenti dai mercati esteri e compensare le infelici prove date nel 1859 dalle ghise di Valle d’Aosta e nel 1861 dalle ghise napolitane di Mongiana. In seguito (1865) furono esperimentate le ghise Toscane e specialmente quelle prodotte dagli altiforni di Follonica gettando 4 cannoni di assaggio. Finalmente il generale Cavalli fu incaricato di esaminare le condizioni delle ferriere italiane a capo di una commissione di militari ed industriali. “Le nostre ferriere, scrive Egli nella sua relazione, convenientemente riformate sarebbero in grado di produrre con elementi affatto indigeni il doppio delle provviste di ferri fini d’ogni specie, che possono occorrere nei grandi servizi delle armi, della marina militare e mercantile, e delle ferrovie in tutta Italia e potrebbero quindi supplire non solo alle richieste straordinarie; ma fornire un notevole contingente ad una vantaggiosa esportazione. Se la condizione geologica del nostro suolo privo di buon litantrace, ci costringerà fin che duri lo stato attuale dell’arte metallurgica, ad una vistosa importazione di ferro, l’Italia può ottenere tuttavia dal proprio seno ed a discrete condizioni di pecuniaria convenienza, le armi e gli ordigni guerreschi marittimi e industriali di essenziale importanza. Sviluppandosi sempre più l’industria ferriera, aggiunge il colonnello Bava d’Artiglieria, è possibile che, malgrado la deficienza di carbon fossile, possiamo col tempo procurarci, con risorse nostre proprie, tutte le occorrenze per il materiale da guerra e per il naviglio e riuscire a far prosperare stabilimenti industriali metallurgici sul genere di quelli di Krupp ad Essen, di Armstrong ad Elwick, i quali sono elementi preziosissimi di forze nazionali”.
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Ecco quale era l’opinione del distinto scienziato cui l’Italia avrebbe dovuto affidare i destini della metallurgia, anziché paralizzarne la operosità. L’industria nazionale fece quant’era compatibile colle limitatissime sue forze per esperimentare il valore delle ghise italiane, specialmente per riconoscere l’idoneità alle costruzioni militari. L’anno 1862, in occasione delle esposizioni di Londra e di Firenze, gli egregi componenti il Comitato italiano fecero eseguire nelle officine di Bessemer a Sheffield esperienze sulla trasformazione delle ghise italiane in acciaio col procedimento Bessemer allora appunto comparso, queste esperienze risultarono favorevoli alle ghise lombarde, contrarie a quelle napolitane, furono accettate come responsi ed oracoli e non si fece più nulla; poco dopo quella breve festa della metallurgica italiana, tutto ritornò nel silenzio, nell’abbandono, l’industria metallurgica conservò i suoi caratteri regionali, provinciali, furono abbandonati gli studi geologici, mineralogici, così andò spento quel fuoco di paglia. In quei tempi la necessità di metter in grado l’esercito, in caso di guerra, di provvedere da sé ai propri bisogni, era sentito forse più dai scienziati che dall’amministrazione militare. Giulio Curioni ad esempio, che fu tra i componenti il comitato italiano nell’esposizione del 1862, raccomandava per questo scopo di estendere e perfezionare la fabbricazione di oggetti modellati in prima fusione. Parlando della Svezia diceva: “Diverse ferriere fabbricano esclusivamente, per conto di Governi esteri e privati, cannoni in ferraccio di prima fusione di una grande solidità. Per le prove fatte della grandissima resistenza dei ferracci che si ottengono nella ferriera dell’Allione e di Cemmo nella valle Camonica, si ha la sicurezza che i cannoni fabbricati all’uso svedese, direttamente in dette ferriere potranno reggere al confronto cogli svedesi, dei quali, posti ai nostri arsenali, non costerebbe certo di più. Fabbricandoli in paese, non si correrebbe più il pericolo che i cannoni commessi in vista di una guerra, non vengano consegnati che dopo conchiusa la pace; com’è accaduto nel 1859”.
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IV. Soluzione della grave questione degli stabilimenti produttori del materiale da guerra, coll’organizzazione di una grande azienda metallurgica in Val Ternana, nella quale cogli opifici governativi cioè: arsenali per l’esercito e la marina, stabilimenti meccanici per le ferrovie, entrino i principali produttori metallurgici italiani. Vantaggi di una tale azienda e modo di regolarla. Polverifici e stabilimenti per munizioni da guerra, scuole militari, scuole d’ingegneri e scuole operaie da stabilirsi in Val Ternana. Magazzeni di arredi da guerra e di materiale confezionato, da dislocarsi in varie regioni d’Italia e specialmente in Valle Umbra.
Ci pare di aver dimostrato all’evidenza quanto la questione qui considerata sia grave, vasta e come richiegga provvedimenti pronti e radicali. Continuare nell’attuale indirizzo, sarebbe sconsideratezza imperdonabile e veramente criminosa; come quella che paralizzerebbe gran parte della nostra potenza militare ci renderebbe inabili a sostenere una seria guerra nazionale; d’altra parte non sarà mai possibile di trovare una soluzione efficace a questa grave questione, senza avere prima radicalmente trasformata l’industria metallurgica nazionale. Io non credo che si vorrà, perpetuando un funestissimo errore, erigere nuovi stabilimenti militari indipendenti dall’industria privata; sarebbe come piantarli nel vuoto, ma d’altra parte l’appoggiarsi a questa industria privata nelle attuali sue condizioni organiche e di dislocazione, sarebbe opera vana per gli interessi militari. È necessario riconoscere tutte le forze vive della nazione, chiamarle a raccolta, gittare le basi di un gran centro nazionale di produzione metallurgica nel quale, coll’industria privata cooperino gli stabilimenti governativi per la guerra, la marina, le ferrovie. È solo ponendosi su ampie basi, abbracciando i più potenti fattori dell’industria metallurgica italiana, che sarà possibile al governo di ottenere per la questione del materiale da guerra, una soluzione gratuita o poco meno che gratuita, ricca di elementi di avvenire e di progresso, che risponda pienamente agl’interessi della guerra nazionale. Questi stessi elementi che ora divisi, abbandonati, offrono di loro sì miserando spettacolo, riuniti ben diretti diventeranno argomenti di notevole potenza per la nazione. Ora la natura ha già tutto predisposto all’uopo, essa ci ha preparato in Val Ternana un emporio industriale e militare che risponde a tutti i nostri bisogni. Io non mi farò a segnalarne tutti i vantaggi veramente
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eccezionali; a dimostrare come la sua posizione centrale nell’Italia, lo renda atto a servire ai bisogni della guerra nella valle padana e nell’Italia peninsulare; come esso costituisca il tipo di quelle regioni fortificate che si convengono alla moderna difesa degli Stati, sia ottimo luogo di assembramento alle truppe combattenti nella parte peninsulare dell’Italia e base alle loro riprese offensive; luogo di rifugio in caso di rovesci ed ognora ottimo perno di manovra, caposaldo alla difesa contro gli attacchi provenienti dal Mediterraneo, dall’Adriatico al Po o dal Napolitano. Come senza prima essersi impadronito di questa chiave dell’Appennino, il nemico non possa consolidare le sue imprese né considerarsi come padrone di Roma; cui Val Ternana, per mezzo della linea del Tevere e della sua posizione di fianco, offre validissimo appoggio. Come questa valle Ternana asserragliata fra altissime montagne, attraverso cui non conducono che aspre e lunghe strette, sia suscettibile di essere difesa con poche forze, si presenti assai vantaggiosamente a difese offensive come a difese di sbarramento, possa facilmente rafforzarsi, difficilmente essere attaccata e bloccata. Come la posizione Ternana abbia sicure linee di comunicazioni colle regioni dell’alta e della bassa Italia e buone posizioni complementari e di allacciamento coi circostanti teatri di guerra. E per rapporto alle risorse che essa offre all’industria, risorse tanto necessarie alle grandi posizioni strategiche, citeremo in prima linea la grandissima potenza dinamica delle sue acque, derivante dalla portata loro, dalla loro perennità, ed alla suddivisione del loro percorso su di una linea di successive cascate, la ricchezza in genere delle acque nel bacino Ternano; l’abbondanza del materiale da costruzione, la mitezza del prezzo della mano d’opera, la facilità di trarre risorse dalle più disparate regioni e specialmente il legname tutto all’intorno, i prodotti di zolfo delle Marche e Romagne, i bitumi e litantraci dagli Abruzzi, i minerali e ferri dalla Toscana, dal Napolitano e dalle diverse regioni d’Italia, onde ben può dirsi esserci in Val Ternana posto all’attività metallurgica di tutti gli Italiani. Il ragionare su questi elementi di potenza militare industriale, ci porterebbe troppo a lungo e del resto abbiamo già diffusamente svolti questi argomenti in precedenti lavori, fra cui quello – Straordinaria importanza militare industriale di Val Ternana – Terni, 1872 – cui i Ternani hanno voluto dare pubblicità al certo maggiore di quel che i suoi meriti intrinseci non comportassero. Indicheremo invece il modo con cui potrà essere risoluta la quistione dell’accentramento degli stabilimenti metallurgici italiani in Val Ternana.
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I. Sarà anzitutto necessario di decretare per legge il trasporto immediato degli opifici che fanno parte dell’arsenale di Torino in Val Ternana, operazione da compiersi non appena saranno stati in quest’ultima eretti i locali necessari. Vendendo gli antichi fabbricati, impiegando una parte dei fondi assegnati alle fortificazioni, inoltre combinando un’azienda nella quale lo Stato, sempre conservando la direzione suprema dei suoi stabilimenti militari, assicuri un potente concorso di produzione all’industria privata, si potrà compiere questa trasformazione senza scossa per le finanze dello Stato. Anzi sarà possibile affidare all’industria privata anche la costruzione di tutti gli stabilimenti militari con rispettive macchine, lo Stato riserbandosi il diritto di acquistarne il possesso entro un limite di 30-40 anni pagando solo gli interessi del capitale ed una quota di ammortizzazione del capitale. Ma ripetiamo essere urgente che la pubblica opinione in Italia si convinca che la fabbricazione del materiale da guerra non può più restare un monopolio dell’amministrazione militare né servire di compenso economico-politico da distribuirsi a province o regioni; ma che deve diventare un’anima e corpo, frutto di vitalità nazionale. II. Sarà necessario trasportare in Val Ternana anche parte degli stabilimenti metallurgici destinati al servizio della marina militare. In Italia si è fatto e si fa moltissimo per gli arsenali marittimi, e invece quasi nulla per gli arsenali di questo esercito che è pure il solo destinato a far sentire all’Europa che nell’Italia esiste una nuova e potente nazione. Per l’arsenale della Spezia si sono stanziati 53 milioni e non basteranno; pel rinnovamento dell’arsenale di Venezia 11 milioni; come primo assaggio dei lavori al terzo grande arsenale, per quello di Taranto 6 milioni e mezzo. La questione degli arsenali marittimi fu sovente sollevata all’altezza di gravi questioni politiche, più di una volta minacciò l’esistenza di un Ministero. Ugual gelosia non mostrarono le province italiane per avere a facile portata le armi con cui difendere la loro patria, i loro averi, le loro famiglie. Sta perfettamente che il vero risorgimento italiano non potrà andare disgiunto dal ridestarsi della forza espansiva marittima; anzi questo abbiamo cercato di far sentire anni sono, allorché pareva che l’Italia volesse gettarsi al mare.* Ma nelle condi-
* Del Primato Italiano sul Mediterraneo, Torino 1872, Tipografia Bona.
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zioni pratiche del giorno d’oggi, chi non vede l’inconsideratezza di una nazione che mentre vende all’asta la sua flotta, getta tanti milioni per costruire grandi arsenali su tutti i suoi mari; arsenali che appena potrebbero convenire ad una grande nazione marittima? Noi abbiamo voluto fare di Spezia un Woolwich italiano e certamente il disegno è splendido, capace di abbagliare ingegneri militari e navali, ma in pratica quale vantaggio ne trarrà la nazione? Woolwich si collega intimamente colla capitale e coi grandi centri di potenza marittima inglese, formata non solo da colossali arsenali ma da colossali flotte. Spezia invece colla nostra debolezza marittima, nel primo periodo di una guerra contro Francia si troverà bloccata, isolata dalla nazione, potendo la flotta nemica intercettarne le comunicazioni ferroviarie con Genova e colla Toscana. Tutte le nostre dighe e torpedini non verranno che a chiudere maggiormente quel pozzo; noi ci troveremo con un pugno ben serrato, ma mi si permetta la volgare espressione, con un pugno di mosche. Ora l’ultima guerra di Francia ci dimostrò quale vantaggio nei momenti estremi l’esercito possa trarre dal materiale d’artiglieria marittimo, dalle corazzature, da molti lavori in ferro propri agli arsenali di mare. A me pare dunque che fino a quando l’Italia non avrà a sua disposizione potenti flotte, farà cosa sommamente pratica e prudente, a non mettere allo scoperto gli arsenali di mare, su di un mare che non può difendere, imitando l’esempio della Prussia che, quando si trovava debole in forze navali, non indugiò a riunire a Spandau con l’arsenale di artiglieria di terra, quello di mare. Tale necessità appare più specialmente per l’arsenale di Napoli che contavasi sostituire col nuovo arsenale di Taranto. Una parte degli assegni destinati ai tre arsenali marittimi potranno essere impiegati per la costruzione di un arsenale centrale a Terni, da servire ai bisogni della marina sui tre mari che bagnano l’Italia. Sarà questo un provvedimento che non accontenterà gli spiriti regionali ma per contrario eviterà alla nazione, nel dì del pericolo, un gravissimo disinganno. Dall’arsenale centrale di Terni potremo in breve tempo spedire il materiale di artiglieria, munizionamento etc., necessario a rifornire la flotta destinata al servizio delle coste, e che si trovasse nelle stazioni di Civitavecchia o Piombino od alla rada di Gaeta o nel golfo di Napoli o sulle spiagge di Ancona Pescara etc. Così non saremo costretti a destinare la flotta e parte dell’esercito, che dovrebbero essere serviti dagli arsenali, a servire invece gli arsenali, essere inabilitati alle operazioni complessive della campagna. Quando per l’Italia ritorneranno i bei tempi delle repub-
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bliche di Genova e Venezia, allora potrà far mostra sui mari di potenti arsenali coperti in avanti da poderose flotte; pur troppo questi tempi sono ben lontani nel passato come nell’avvenire. III. Siccome le armi non possono stare né amministrativamente né organicamente senza le munizioni, così sarà necessario decretare la costruzione del grande ed unico polverificio da guerra in Val Ternana coll’opportune raffinerie nitri, opifici pirotecnici e per costruzione di cartucce, munizioni diverse. La disposizione delle acque della Nera su di un linea di successive cadute, l’intermittenza e potenza delle acque, la vicinanza delle ricche miniere di zolfo ed opifici chimici delle Romagne e delle Marche, rendono Val Ternana assai acconcia all’uopo. La questione dell’industria delle polveri in Italia nei suoi rapporti coi bisogni della guerra, sia per l’esercito come per la flotta è assai vitale. Nel 1869 fu per legge dichiarata libera l’industria delle polveri, e tosto si videro sorgere molti polverifici, raffinerie nitriti, stabilimenti per la preparazione di prodotti chimici ed altri di simil natura. Ma quasi nessuno di essi potrà essere usufruito in tempo di guerra, perché per la maggior parte si trovano sulle frontiere di mare, nella riviera di Genova (come gli stabilimenti di Berio Sampier d’Arena e diversi altri nella provincia di Genova), a Napoli e Pozzuoli, a Palermo. Urge dunque avere le polveri da guerra al sicuro, là ove si fabbricano le armi tanto più che il polverificio di Fossano trovasi esposto alle scorrerie del nemico in Val Vraita, ove non è in progetto alcun forte di sbarramento, ed il polverificio di Scafati oltre ad essere esposto agli attacchi del nemico sbarcato sulla costa della Campania, non ha più che una potenza di produzione limitatissima. IV. Fra non molto il governo riacquisterà il possesso delle ferrovie tutte del regno, ed allora un grande problema gli si presenterà d’innanzi: la costruzione del materiale ferroviario che costituisce uno dei rami più estesi della metallurgia moderna. Attualmente le tre società padrone delle reti italiane affidano la costruzione di questo materiale a stabilimenti metallurgici litoranei del Genovese, di Toscana e della Campania. Il Governo non vorrà al certo incoraggiare con nuove ordinazioni la dolorosa esistenza di quegli stabilimenti, che in caso di guerra non possono riuscire di alcuna utilità allo Stato; invece si gioverà di questa circostanza per risolvere il problema della metallurgia ternana. Infatti, affidando la costruzione del materiale ferroviario agli stabilimenti metallurgici in Val Ternana, darà uniformità, maggior
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celerità e perfezione alla costruzione di quel suo materiale, che verrà a trovarsi in luogo vantaggioso per essere diramato su tutte le linee italiane, e protetto in caso di guerra: inoltre al governo non sarà difficile ottenere dall’industria metallurgica Ternana un potente contributo nella costruzione del materiale da guerra. V. Con l’allettamento della costruzione del materiale ferroviario, con agevolezze sui trasporti e sui dazi (agevolezze facili a concedersi ora che lo Stato rivede i trattati doganali e viene in possesso delle ferrovie), con la partecipazione alle urgenti costruzioni del nuovo materiale per l’esercito e la marina, il governo potrà sviluppare in Val Ternana una tale forza di attrazione da farvi affluire non solo i principali produttori metallurgici nazionali ma anche quegli stranieri. Lo Stato, mettendosi su di una via francamente liberale, ponendo bene i suoi dati, raccogliendo l’industria privata in una grande società o consorzio, potrà ottenere da essa la costruzioni di tutti gli stabilimenti necessari alla produzione del materiale da guerra, e gittare finalmente le basi di una industria metallurgica nazionale. Dall’industria provinciale dovrà essere sviluppata quella parte che riguarda la prima operazione del ferro, cioè, la sua estrazione dalle miniere e riduzione per mezzo degli alti forni in ghise. Queste ghise, provenienti dai vari circoli industriali italiani, saranno diretti su Val Ternana, ivi manipolate in ferro, acciajo ed attrezzi diversi e combinate per tale scopo anche con ghise straniere. Nell’esercitare la suprema vigilanza su questa grande azienda metallurgica Ternana, il governo dovrà tenere continuamente d’occhio il modo con cui si svolgono le forze vive della nazione, e le condizioni dei mercati metallurgici esteri; mantenendo sempre un indirizzo pratico, elastico, liberale. Dovrà fomentare la emulazione fra i produttori metallurgici ternani lasciando sempre aperto lo stimolo della concorrenza estera acciocché questa li vivifichi li obblighi a continuamente trasformarsi a seguire i progressi dell’arte, il che tutto riuscirà a vantaggio dello Stato. Importa tenersi ben lontani dalle declamazioni delle scuole protezioniste e dei liberi scambisti i cui principi sono ugualmente fuori dalla natura, perché questa non isola mai e nello stesso tempo non lascia mai in balia degli elementi i suoi enti organici qualunque essi siano. Lo Stato ha già troppo disastrosamente esperimentato, negli stabilimenti di Toscana e Calabrie, gli inconvenienti di condurre da se
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medesimo, con istituzioni ed impiegati propri, aziende industriali, perché possa ricadere nell’errore. Lasci che l’industria governativa e l’industria privata si levino dall’attuale attitudine di isolamento, s’accostino, s’intendino; quando esse avranno conosciuto i veri loro interessi non mancheranno di appoggiarsi e di trovare una soluzione pratica per una comune azienda. Certamente nei primi anni la sorveglianza governativa dovrà essere più diretta, ma in avvenire allorché saranno cresciute le forze produttive degli Italiani, allora quest’azione potrà come in Austria, Germania, Svezia, Inghilterra, America, limitarsi ad un semplice controllo sull’attitudine dell’industria nazionale alla produzione del materiale da guerra. Il controllo della grande azienda metallurgica Ternana affidi il governo ai due Parlamenti, la direzione poi rimetta interamente ad un’individualità che per pratica, autorevolezza, energia, riputazione, goda la fiducia del paese; non mai a Commissioni che sono come è noto l’espressione del mal genio italiano, per cui va distrutto potenza operativa, sano criterio, unità d’indirizzo ovunque esse si applichino. VI. L’accentramento di grandi stabilimenti metallurgici, governativi e privati in Val Ternana, darà modo di risolvere altre importantissime questioni, cioè la riorganizzazione delle Scuole militari per le armi speciali, di scuole industriali, di scuole operaie. Cominciamo a fermare l’attenzione sulle prime. È noto a tutti, quanto siano gloriose le tradizioni dell’artiglieria italiana. Fin dal secolo XVI gli ingegneri italiani non avendo una patria da servire, militavano negli eserciti di tutta Europa, godevano il monopolio nella scienza ed arte dell’artiglieria, ed erano tanto temuti, che una piazza assediata da un ingegnere italiano, consideravasi già come mezzo spacciata; così che ai Guerrini, Birniguccio, Pennacchi, Spinola, Serbelloni, Montecuccoli, Conti, ecc. ecc. fu affidata la costruzione degli arsenali di Germania, Inghilterra, Francia, Spagna, Austria. In seguito queste nazioni si svincolarono e levarono ben alto il volo dimenticando gli antichi maestri, ma l’artiglieria italiana continuò a tenere onorevolissimo posto per opera della scuola piemontese sotto i Bertola, Papacino, d’Antony, venendo fino a S. Robert ed al padre della moderna artiglieria il sommo Cavalli; della scuola veneta, sotto i Conti e gli Alborghetti; della scuola napolitana sotto gli artiglieri di Acton e Murat. Ma ahimé in questi ultimi anni come siamo caduti in basso, come è umile il posto
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da noi occupato nell’artiglieria come arte e come scienza. Pari alle nazioni di quarto e quinto ordine siamo costretti a ricercare le nostre artiglierie dal Krupp, e nelle esposizioni del 1867 (Parigi) 1874 (Vienna), nella viva lotta che intorno agli ordigni da guerra agita gli Stati d’Europa, la roba, il nome nostro più non si ritrova. Non v’ha forse esercito in Europa che conti una proporzione di artiglieria esigua come il nostro e si veda condannato in questo supremo elemento della vittoria alla mediocrità, alla immobilità con un avvenire dei più foschi. Causa di questa decadenza non è già che siasi spento il genio inventivo negli Italiani, ma che questo genio non ha più mezzi di tradursi in pratica, costretto a rimanersi in un campo empirico. Il genio delle armi e dell’artiglieria, ha ora mestieri di lungo tirocinio nell’arte della metallurgia. Si considerino tutti i grandi inventori di armi d’ogni specie in questi ultimi anni, e si vedrà che militari o borghesi furono tutta gente cresciuta, vissuta nelle officine. Ma in Italia, dove l’industria metallurgica nazionale non è chiamata che qualche volta ed ancora quasi di soprassalto e di sorpresa alla costruzione del materiale da guerra dove negando il bisogno elementare della guerra moderna cioè della conoscenza profonda delle specialità, si è continuato a pretendere da un istesso ufficiale un buon artigliere da campo e da fucina, in Italia è naturale che la scuola d’artiglieria decada né abbia forza di rialzarsi, che sorga qualche faccendiere ed utopista, non inventori, perfezionatari, appoggiati da salde scuole, che si formino elementi i quali credono di fare gli interessi dell’esercito isolandosi, inceppando la spinta data all’arte metallurgica dall’attività borghese. Noi non riprenderemo mai le antiche tradizioni di artiglieria italiana, né ci metteremo non dico a livello ma dappresso alle altre potenze, se non ritorneremo corpo ed anima alle officine, se non offriremo all’artiglieria, al genio nazionale, un campo pratico ove fermarsi e manifestarsi. Questo campo pratico sarà appunto costituito dagli stabilimenti metallurgici militari e privati di Val Ternana, provveduti di poligoni, polverifici, scuole pirotecniche, di tutto quel complesso di fattori che ritroviamo appunto nei centri di vitalità militare delle altre nazioni. Allora soltanto l’artiglieria potrà mantenersi al corrente nel vertiginoso progresso che fa presso le nazioni, con serie scoperte ed esperienze,
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acquisterà carattere, tradizioni, impronta, forza espansiva sua propria. Perciò non basterà stabilire a Terni la sede dell’Artiglieria da piazza, ma converrà istituirvi una scuola di perfezionamento per gli ufficiali dell’Artiglieria da Campagna, rimanendo però sempre a quella da Piazza la direzione degli stabilimenti militari. Ne basta; ognuno vede la convenienza amministrativa, morale, militare, di avere nelle vicinanze della Capitale, al centro dello Stato, l’Accademia e le Scuole d’Applicazione per le armi d’artiglieria e genio che ora si trovano relegate a Torino, e nelle quali si elaborano i germi della scienza militare italiana. Ora evidentemente nessun luogo sarà più acconcio all’istruzione tecnica di questi giovani elementi che la sede dei nostri stabilimenti militari. Così avremo gettate le basi al rinnovamento dell’Artiglieria italiana, e l’arsenale di Terni, come già quelli di Venezia, Genova, Torino, diventerà simbolo della nuova potenza militare italiana. Identicamente in Val Ternana verrà a trovarsi il centro direttore e perfezionatore dell’industria metallurgica e mineraria nazionale. Abbiamo rilevato come una delle cause dell’impotenza metallurgica italiana sia la mancanza di un centro direttivo che si elevi sull’attività provinciale, rompa una buona volta le pastoje regionali, intrattenga un lavorio di esplorazione serio e scientifico di tutte le materie prime nazionali in minerali e combustibili; abbiamo rilevato gli inconvenienti che derivano dalla mancanza di metodi nell’estrazione dei minerali e nel governo dei metalli, dalla mancanza di pratica ed istruzione tecnica negli operai e capi officine, ingegneri meccanici e industriali. Ora a tutti questi inconvenienti si potrebbe di un colpo rimedio poiché nei vasti opifici metallurgici ternani riuscirebbe facilissimo dare istruzione tecnica agli operai e sviluppare in essi il culto della specialità. Una Scuola di Perfezionamento per gli ingegneri meccanici ed industriali vi potrà essere istituita come sezione staccata della Scuola di Applicazione degli ingegneri di Roma, con istituti tecnici minori e Museo Industriale, sul tipo di quello fondato a Torino nel 1862. Vi potrà essere trasportata ed ampliata la Scuola di mestieri ed arti febbrili e meccaniche istituita nel 1873 nella vicina città di Foligno. Noi abbiamo oggi una Scuola di capi minatori e capi-officina delle miniere, ed anche questa fuori mano, nell’isola di Sardegna ad Iglesias (istituita nel 1871) non ridonda che a vantaggio delle case metallurgiche francesi, padrone delle miniere di quell’isola. È evidente che isti-
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tuendo una simile scuola centrale a Terni e di là portando gli operai ad istruirsi successivamente in tutti i distretti metallurgici d’Italia, soltanto in questo modo si riuscirà a diffondere una pratica industriale metallurgica veramente nazionale. VII. Su di un altro ramo del materiale da guerra è della maggior urgenza volgere l’attenzione. Da che gli eserciti hanno preso dimensioni colossali, le amministrazioni militari hanno quasi tutte riconosciuto la necessità di affidare a potenti compagnie private tutta o gran parte della fabbricazione degli arredi in vestiario, bardatura, buffetterie, che prima si fabbricavano negli stabilimenti governativi. Su tale indirizzo si sono poste in modo ben deciso l’Austria prima, da ultimo la Francia, servendosi ciascuna di potenti società uniche che hanno sedi a Vienna a Parigi. Vi sono è vero ancora eserciti, che si servono all’uopo del lavoro negli stabilimenti militari come Russia, Germania; ivi lo Stato si fa industriale, fornisce 1° i fondi, 2 ° le materie prime essenziali acquistate dall’industria privata, dislocate in vari grandi magazzeni, 3° gli operai con un corpo speciale formato da tutti gli uomini che, per difetto di statura e di costituzione fisica, non sono proprio al servizio attivo. Per far funzionare questa immensa industria militare, esistono commissioni generali e commissioni speciali in ogni Reggimento, ben regolato servizio di tappa; senza parlare delle speciali condizioni di vitalità di quegli eserciti e Stati, che rendono possibile cose che altrove sarebbero impossibili. In Italia, dovendosi per tal ramo di produzione militare prendere una radicale determinazione, non v’ha dubbio che il sistema adottato da Francia ed Austria sarebbe preferibile non solo, ma si può dire, l’unico applicabile. Vendendo i locali e meccanismi dell’attuale opificio meccanico di Torino, si potrebbero incaricare una o più Società della costruzione e dell’esercizio di grandi stabilimenti, coi relativi depositi di materiale confezionato, di cui il principale da stabilirsi a Foligno o nel Perugino; gli altri nelle strategiche posizioni di Bologna e Benevento. In questa località potrebbe pure essere dislocato il materiale confezionato dagli stabilimenti di Val Ternana. Infatti mentre è necessario avere riuniti in un centro unico gli stabilimenti produttori, per quanto riguarda armi e polveri; reciprocamente è della maggiore urgenza organizzare diversi depositi di materiale confezionato pei bisogni della guerra nell’alta, nella media, e nella bassa Italia. Anche qui noi dovressimo pren-
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dere a modello la Germania, tanto più che al suo sistema in special modo ci spinge la conformazione della nostra penisola. Il maggior deposito del materiale confezionato dovrebbe in ogni caso essere collocato sulla linea Cortona-Foligno, linea di allacciamento alle due grandi arterie ferroviarie di Roma-Firenze, Roma-Ancona, e dalla quale si potrà far affluire il materiale su ogni punto dello Stato. La costruzione del breve tronco di ferrovia Terni-Aquila, agevolerà potentemente il servizio degli stabilimenti Ternani e di Vall’Umbria nella guerra nazionale; tale opera è richiesta altresì da ragioni strategiche ed economiche e la sua attuazione è da lungo tempo aspettata. Concludendo, noi preghiamo chiunque ha carità di patria, a voler fermare l’attenzione sulle gravi questioni che abbiamo qui svolto. È impossibile che si voglia continuare nell’attuale stato di cose, più che inconsideratezza sarebbe delitto, che potrebbe apportare alla patria lunghi giorni di dolori, di miserie e di vergogne. Urge prendere una soluzione che risponda agli interessi nazionali che sia definitiva, radicale; perciò i Ternani faranno opera sommamente patriottica se porteranno questa grave questione dinnanzi al Parlamento, e difendendo la causa loro, difenderanno quella della nazione. Giammai l’occasione fu più propizia. L’Italia si trova ora in condizioni simili a quelle del 1860; ha da creare tutto l’armamento e gli arredi da guerra necessari ad un potente esercito; ha da creare tutto il materiale ferroviario necessario alla mobilizzazione di questo esercito, e da completare, rifare quello richiesto pel movimento ordinario; ha da creare dalle fondamenta una flotta. Ma il 1876 ha grandi vantaggi sul 1860, cioè, un’esperienza acquistata a ben caro prezzo, frutto di leggerezza, di spirito provinciale, di idee preconcette, del sistema di non voler mai risolvere le grandi questioni che alla spicciolata, secondo i bisogni della giornata, punto preoccupandoci del domani. Di presente abbiamo unità politica, che rende possibile ciò che non lo era prima dell’annessione di Venezia e Roma, abbiamo le finanze in condizioni migliori, sentimento nazionale più sviluppato, nessuna questione politica interna che distragga l’attenzione del governo e ci obblighi continuamente a provvedimenti transitori a mezzi espedienti. Perché vorremo ora continuare nel sistema di dipingerci da noi medesimi le situazioni meno gravi di quel che non siano, per farci coraggio a girare le difficoltà anziché affrontarle, guardarle di fronte
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nella loro nudità, e risolverle una buona volta per sempre. Si ponga attenzione per esempio agli assegni fissati per il materiale da guerra;* chi è che, conoscendo quanto si fa presso le altre potenze militari, e considerando senza illusioni i bisogni per una guerra nazionale in Italia, non vede essere tali assegni affatto insufficienti? Se l’erario non è in grado di sostenere la spesa veramente necessaria, perché non esploriamo le forze vive della nazione e cerchiamo di rendere produttivi
* L. 16,000,000 per la fabbricazione di armi da fuoco portatili, con relative cartucce e buffetterie distribuite Anno 1875…………………….. L. 1,000,000 “ 1876…………………….. ” 5,000,000 “ 1877…………………….. ” 5,000,000 “ 1878…………………….. ” 5,000,000 L. 6,000,000 per compiere gli approvvigionamenti di mobilizzazione per l’esercito, distribuite Anno 1875…………………….. L. 500,000 “ 1876…………………….. ” 2,000,000 “ 1877…………………….. ” 2,000,000 “ 1878…………………….. ” 1,500,000 L. 4,500,000 per acquisto e trasporto grosso calibro, ripartite Anno 1875…………………….. “ 1876…………………….. “ 1877…………………….. “ 1878……………………..
di materiali per batterie da campagna di L. ” ” ”
100.000 2,900,000 1,000,000 500,000
L. 6,400,000 Per magazzeni ed altre costruzioni militari, distribuite Anno 1875…………………….. L. 900,000 “ 1876…………………….. ” 1,000,000 “ 1877…………………….. ” 2,000,000 “ 1878…………………….. ” 2,500,000 L. 2,500,000 Per armamento delle fortificazioni, distribuite Anno 1876…………………….. L. 500,000 “ 1877…………………….. ” 1,000,000 “ 1878…………………….. ” 1,000,000
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elementi, che offrirebbero a noi come offrono agli altri, appoggi potentissimi? L’Italia ripone gran parte della sua forza nelle alleanze; ebbene il più potente e sicuro dei suoi alleati sarà l’industria nazionale metallurgica, purché convenientemente riformata e diretta. Se in oggi vivessero gli antichi Romani, malgrado l’avversione ed il disprezzo che avevano per le industrie in genere, non mancherebbero di dichiarare la metallurgia sacra al dio Marte non solo, ma agli Dei tutti dell’Olimpo. Mostriamo che con Roma abbiamo anche acquistato il senso pratico degli antichi romani; non mai quanto oggi l’Europa ci addita quanto sia vero il detto dell’immortale Bergelius, che la potenza dell’industria metallurgica è il termometro della civiltà delle nazioni.
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INDICE DEI NOMI DI PERSONA
Indice dei nomi di persona
Indice dei nomi di persona (i numeri si riferiscono alle pagine; n= nota)
Acton John Francis Edward, 197. Agilulfo, re dei Longobardi, 24, 89. Alborghetti, famiglia di fonditori, 166, 178, 197. Annibale, militare cartaginese, 19, 2425, 89-90, 101. Armstrong, famiglia, 70, 166, 179. Armstrong William, 51, 151-152. Asdrubale, militare cartaginese, 11, 101. Augusto, vedi Ottaviano Caio Giulio Cesare. Baglioni, famiglia, 24, 89. Bailo, famiglia, 166. Bajardi, militare, 125. Balbo Cesare, 47, 47n. Barry, generale, 148. Bava Beccaris Fiorenzo, 70. Belisario, militare bizantino, 24-25, 28, 89-90, 92. Bergelius, 203 Bertola, artigliere, 197. Biffart, ufficiale, 23, 89. Birniguccio, ingegnere, 197. Bixio Nino, 23, 30n. Blakeley, ingegnere, 151. Bodoni, ingegnere, 50. Bordoni, fabbricante di armi, 167. Brandolini, ingegnere, 49. Brialmont, studioso di questioni militari, 37, 71, 107. Brignone Filippo, 61, 61n, 62, 71. Brin Benedetto, XII, XVIII. Campana Vicenza, IX.
Campionnent Jean Etienne, 101, 106. Campofregoso, vedi Campo Fregoso Luigi. Campo Fregoso Giuseppe, IX. Campo Fregoso Luigi, IX-XII, XIIn, XIII-XV, XVn, XVI, XVIn, XVII, XVIIn, XVIII, XVIIIn, XIX, XIXn, XX-XXI, XXIn, XXII, XXIIn, XXIII-XXV, XXVn, XXVI, XXVIn. Carlo V, 166. Carlo VIII, 4, 81. Cavalli Giovanni, 69, 128, 189, 197. Cavour Benso Camillo, conte di, 126. Cenni di Pepo, 66. Chabod Federico, XX. Chambray, marchese di, 37, 108. Chinelli, direttore di fonderia, 166. Cimabue, vedi Cenni di Pepo. Colbert Jean Baptiste, 6. Coletti Ottavio, XIV. Colombo Giuseppe, 167, 176, 179. Cominazzi, famiglia di fonditori, 166, 178, 197. Conti, famiglia di fonditori, 166, 178, 197. Corte, deputato,179. Covino Renato, XXVn. Croydon, studioso di questini militari, 37, 107, 153. Curioni Giulio, 188n, 190. d’Antony, artigliere, 197. D’Artein, direttore di fonderia, 134. Demidoff, famiglia regnante russa, 141. Donato S., deputato,179. Dreyse, armaiolo, 135, 141.
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Indice dei nomi di persona
Enrico IV di Franconia, 24, 89. Escoffier George Auguste, 135. Fabio, vedi Quinto Fabio. Fanti Manfredo, 23, 25, 25n, 44, 90. Farnese Pier Luigi, 29, 92. Farnesi, famiglia, 24, 89. Faustini Pietro, XIn, XII, XIIn, XIV, XVI, XVIn-XVIIn. Floriano Marco Annio, XIII, 66. Floyd, ministro della guerra, 148. Fortebracci, famiglia, 24, 89. Fortebracci Andrea (detto Braccio da Montone), 29, 92. Fortebraccio, vedi Fortebracci, famiglia. Fortebraccio, vedi Fortebracci Andrea (detto Braccio da Montone). Fraser, ingegnere, 151. Frimon, generale, 17. Gallo Giampaolo, XVIIIn. Gallo S., 33, 95. Garibaldi Giuseppe, 172. Gattapone Matteo di Giovannello, 34, 95. Gay-Lussac Louis Joseph, 50. Ghisleri Antonio Michele, 103. Gioberti Vincenzo, XIII, 115. Giotto di Bondone, 66. Giovanni di Pietro, 66. Glisenti, produttore metallurgico, 165, 167, 176-177, 179, 184. Gregorini, 165, 176, 186. Gruber, imprenditore, 66. Guarnieri Armando, XIV, XVII, XVIIn. Guerrini, ingegnere, 197. Harding Warren Gamaliel, 151. Humboldt Karl Wilhelm von, 54.
Kranz, ingegnere, 68. Krupp, imprenditore, 70, 124, 140142, 146, 175, 179, 198 Laage, studioso di questioni militari, 37, 109. Ladislao, re di Napoli, 29, 92. Lazzarini, famiglia di fonditori, 166. Le Boeuf, maresciallo, 129, 132, 136. Lemoine, generale, 11. Leonida, re di Sparta, 125. Lillenfeld, generale, 143. Luigi XIV, 83, 124. Machiavelli Niccolò, 118. Mac-Clellan, militare, 147. Madelaine, studioso di questioni militari, 37, 109. Maestri Pietro, 105, 105n. Manni, imprenditore, 66. Marmont Auguste Frédéric Louis Viesse de, 108, 120. Massarucci Alceo, 66, XVII. Masson, imprenditore, 162, 176. Maurigi, deputato, 122. Mazzilli Walter, XVIIIn. Mazzini Giuseppe, XIII. Menabrea Luigi, X, 56. Menicocci, consigliere comunale di Terni, X-XI. Mezzacapo, fratelli, 23, 54, 97. Mezzacapo Carlo, 4, 17n. Mezzacapo Luigi, 4, 17n. Micheloni, fabbricante di armi, 167, 176. Mirenghi, imprenditore, 66. Moltke Helmuth Karl Bernhard von, 78, 78n, 113. Monge, direttore di fonderia, 132. Montecuccoli Raimondo, 71, 197. Murat Gioacchino, 197.
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Indice dei nomi di persona
Musselins, generale, 143. Muziano, fabbricante di armi, 166.
Ricotti Magnani Cesare, 127, 184. Robert S., 178, 197. Rocquancourt, studioso di questioni militari, 37, 108.
Napoleone I, 17, 44, 83, 97-98, 103, 106, 132. Narducci, vedova Iacobini, IX. Narsete, militare bizantino, 24, 89. Nervo, deputato, 179, 184. Nevens, generale, 153. Niel, militare, 132. Orlando, fratelli, 187. Ottaviano Caio Giulio Cesare, 24, 28, 89, 92. Paischens, generale, 109. Paixham, studioso di questioni militari, 37. Papacino, artigliere, 197. Pedrotti-Uberto, produttore metallurgico, 167. Peirano, imprenditore, 160, 183. Pennacchi, ingegnere, 197. Pepoli Gioacchino Napoleone, XX, 13, 38, 65-66. Perrier, tecnico industriale, 132. Perugino, vedi Vannucci Pietro . Pettinego, generale, 172. Pianciani, famiglia, 66. Pietro il Grande, 143. Pio V, vedi Ghisleri Antonio Michele. Premoli, fabbricante di armi, 167. Quinto Fabio, 26, 91, 101. Raglan, artigliere, 151. Rampalti, studioso di questioni militari, 47. Reffy, imprenditore, 139. Rènan Joseph Ernest, 65, 65n.
Sartoris, coltellinaio, 176. Sauvage, imprenditore, 135. Schmidt, generale, 24, 34, 89. Schneider, generale, 24, 89. Sconocchia Adriano, XIV-XV, 51, 51n, 52. Serafino da Gradone, 166. Serbelloni, ingegnere, 197. Serse, re dei Persiani, 125. Sforza Attendolo, 29, 92. Silvestrelli Luigi, XIV. Sobrero Ascanio, 178. Spagna, vedi Giovanni di Pietro. Spinola, ingegnere, 197. Stoffel, militare, 136, 142. Tacito Cornelio, XIII, 66. Talk, imprenditore, 50. Tartaglia Ascanio, 29, 92. Thiers Adolfo, 26n. Totila, re degli Ostrogoti, 24, 89. Uchatius, generale, 146. Vannucci Pietro, 66. Verchère de Reffye, 134. Vespasiano Tito Flavio, 11, 101. Vitellio Aulo, 11, 101. Vitige, re degli Ostrogoti, 25, 90. Vittorio Amedeo II di Savoia, 124. Wellington Arthur Wellesley, duca di, 4, 82. Werndl, imprenditore, 145, 147. Withworth, ingegnere, 151-152.
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Volumi pubblicati 1. Relazione sulla Miniera di Ferro di Monteleone e Ferriera di Terni presentata dal cit. Scipione Breislak ispettore de’ lavori mineralogici della Rep. Romana al cit. Toriglioni ministro dell’Interno, Roma, presso il cittadino Vincenzo Poggioli stampatore dell’Istituto Nazionale, anno VI Repubblicano, edizione facsimilare su concessione della Biblioteca Comunale di Terni, a cura di Vincenzo Pirro, Giada/Icsim, Perugia 2000. 2. Guido Bergui, Le acque publiche gli acquedotti di derivazione e le utilizzazioni idrauliche del territorio di Terni. Nei sommari riguardi: tecnico, legislativo e storico. Con 5 tavole di disegni fuori testo, Alterocca, Terni 1936, edizione facsimilare su concessione della Biblioteca Comunale di Terni, a cura di Vincenzo Pirro, Giada/Icsim, Perugia 2001. 3. Intorno alle miniere di ferro e alle ferriere dell’Umbria meridionale, a cura di Vincenzo Pirro, Crace/Icsim, Perugia 2003. 4. Sull’avvenire industriale di Terni. Scritti di Luigi Campo Fregoso, a cura di Vincenzo Pirro, Crace/Icsim, Perugia 2005.
finito di stampare nel maggio 2005 da Nobili Grafiche, Terni
Sull’avvenire industriale di Terni
L
uigi Campo Fregoso fu, per formazione e professione, essenzialmente un militare che la guerra concepì secondo lo spirito dell’ultimo Risorgimento. Approdò alla storia sempre per ragioni militari, adottando l’ottica geopolitica che gli derivava dalla filosofia giobertiana del primato italiano sul Mediterraneo. Nacque a Milano il 17 dicembre 1844, da Giuseppe e da Vicenza Campana. Nel capoluogo lombardo intraprese la carriera militare a soli diciotto anni, come soldato Volontario nell’Esercito. Fu allievo nel Collegio Militare di Milano e quindi allievo alla Regia Militare Accademia per l’arma di Cavalleria dal 1862 al 1864. Promosso sottotenente nel Reggimento Savoia Cavalleria con decreto del 28 agosto 1864, partecipò alla Terza guerra d’Indipendenza come applicato dapprima al Quartier Generale del 2° Corpo d’Armata e poi all’Ufficio del Corpo di Stato Maggiore. Il suo primo impatto con la realtà umbra risale al settembre del 1868, quando venne destinato presso lo Stato Maggiore della Divisione Militare di Perugia. Dal 1869 al 1873 fu addetto al Corpo di Stato Maggiore delle Truppe con incarichi presso il Comando generale del Corpo. La sua carriera militare fu rapida ma breve. Nel 1874 venne promosso capitano di Stato Maggiore; più tardi, e precisamente nel settembre del 1882, ottenne il grado di maggiore nel Reggimento Genova Cavalleria. Nel 1884 abbandonò l’esercito, per contrasti con i comandi superiori. Visse fino al 1908 quasi dimenticato, soffrendo le angustie della povertà e della solitudine. Concluse i suoi giorni nel buio della follia. Luigi Campo Fregoso legò il suo nome a un unico grande progetto: l’organizzazione nella Val Ternana di un vasto complesso industriale-militare per mettere l’Italia in grado di difendersi in caso di attacco da parte dell’Austria o della Francia, come pure di affrontare una politica d’espansione nel Mediterraneo. Su quella che egli chiamava la “Questione Ternana” pubblicò, tra il 1871 e il 1876, tre opere Il campo trincerato di Terni nel sistema difensivo dell'Italia peninsulare; Sulla straordinaria importanza militare industriale di Terni; Sulla riorganizzazione dei nostri stabilimenti militari per la produzione del materiale da guerra e dell’industria metallurgica nazionale. Questa trilogia viene ora pubblicata in un unico volume con l’intento di ricostruire un momento importante della storia di Terni, così come venne interpretato negli ambienti militari e istituzionali di fine Ottocento.
Sull’avvenire industriale di Terni
scritti di Luigi Campo Fregoso a cura di Vincenzo Pirro
ISBN 88-87288-49-6
CRACE / ICSIM
euro 15,00 (IVA inclusa)
CRACE / ICSIM