Il complesso Arte-Architettura

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Il complesso Arte~Architettura Hal Foster

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Il complesso arte-architettura di Hal Foster Š 2017 Postmedia Srl, Milano The Art-Architecture Complex Š 2011 Verso, London Traduzione dall'inglese di Kevin McManus www.postmediabooks.it ISBN 9788874901708


Il complesso arte-architettura Hal Foster

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uno

Prefazione

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Costruire immagini

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Prima parte Stili globali due tre quattro

Civica Pop

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Palazzi di cristallo

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La ModernitĂ leggera

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Seconda parte Architettura e arte cinque sei sette

Terza parte

Gesta da neo-avanguardia

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Macchine postmoderne

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Musei minimalisti

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vicende del medium dopo il minimalismo

otto

La scultura ripensata

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nove

Film messi a nudo

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dieci

Pittura senza limiti

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Costruzione vs. immagine

259

Indice dei nomi

286

undici



Prefazione

Negli ultimi cinquant’anni numerosi artisti hanno allargato gli ambiti di pittura, scultura e film allo spazio architettonico circostante, proprio mentre numerosi architetti esploravano il campo dell’arte visiva. A volte una collaborazione, a volte una competizione, questo incontro costituisce oggi, nell’economia della nostra cultura, la base principale per la produzione di immagini e la configurazione degli spazi. La sua importanza risiede solo in parte nel ruolo sempre maggiore dei musei d’arte; essa chiama in causa l’identità di molte altre istituzioni, in un momento in cui tanto le grandi imprese quanto i governi si servono del nodo arte-architettura per attirare business e per mettere il proprio marchio sulle città con centri per le arti, festival ed altri eventi ad esse legati. Spesso, peraltro, proprio nel punto di convergenza tra arte e architettura affiorano in primo piano le questioni legate ai nuovi materiali, alle nuove tecnologie e ai nuovi media; anche in ragione di ciò, questa connessione richiede un’urgente verifica. Inizierò tracciando brevemente il ruolo dell’immagine e della superficie in architettura, dagli anni della Pop Art fino ad oggi, e concluderò con una conversazione con uno scultore che da molti anni propone un approccio diverso al costruire, ponendo in relazione materiale e struttura, corpo e luogo: questa divisione è un leitmotif del libro, e area di scontro tra pratiche diverse, sia nell’arte che nell’architettura odierne. All’interno di questa cornice vi saranno tre sezioni, di tre capitoli ciascuna, dedicate ai tre aspetti centrali del complesso artearchitettura. La prima riguarderà tre “stili globali” – ossia le pratiche progettuali di Richard Rogers, Norman Foster e Renzo Piano – che potrebbero rappresentare per la nostra modernità postindustriale quello che gli International Style di Walter Gropius, Le Corbusier e Mies van der Rohe hanno rappresentato per la modernità industriale – espressioni prototipiche la cui forza è al contempo pragmatica, utopica e ideologica. Se oggi la modernità ha un aspetto, i primi responsabili di esso sono Rogers, Foster e Piano1. La seconda sezione sarà dedicata invece ad architetti per i quali l’arte è stata un fondamentale punto di partenza: Zaha Hadid, Diller Scofidio + Renfro e un gruppo di progettisti influenzati dal minimalismo, tra i quali Jacques Herzog e Pierre de Meuron. Fino a non molto tempo fa, un prerequisito pressoché necessario per l’architettura di avanguardia era il coinvolgimento con la teoria; recentemente lo è diventato il sodalizio con l’arte. La connessione è spesso significativa, almeno dal punto di vista strategico: la Hadid ha lanciato la propria carriera grazie al

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ritorno al Supermatismo e al Costruttivismo russi, mentre Diller Scofidio + Renfro hanno dato il via al loro studio sposando l’architettura e l’arte concettuale, la performance, le pratiche femministe e citazioniste. E questa reciprocità fra arte e architettura non è meno cruciale per i progettisti di matrice minimal; come i minimalisti hanno aperto l’opera d’arte alla sua condizione architettonica, così questi architetti hanno sviluppato una sensibilità minimalista per la superficie e la forma. Come si può immaginare, un posto privilegiato in questa sezione sarà riservato ai recenti sviluppi nella progettazione di musei. Tutti questi intrecci hanno modificato non solo la relazione tra arte e architettura, ma anche i caratteri di medium quali pittura, scultura e film. La terza sezione si occuperà di queste trasformazioni. “La scultura è ciò in cui s'inciampa quando si arretra per osservare un quadro”, ha argutamente osservato Barnett Newman negli anni Cinquanta, quando la pittura era il termine di paragone per tutta l’arte modernista. Se all’epoca la scultura era dunque liquidata in un istante, mentre l’architettura non era nemmeno presa in considerazione, dieci anni dopo sarebbe stato impossibile ignorarla. Il ruolo centrale dell’architettura nel recente riposizionamento delle arti è uno dei temi principali della terza sezione, che indaga le sculture di Richard Serra, i film di Anthony McCall e le installazioni di Dan Flavin e altri (tra i quali Donald Judd, Robert Irwin e James Turrell). Come la scultura, altri media hanno invaso lo spazio dell’architettura, e a mio modo di vedere i risultati non sono sempre positivi2. Tema ricorrente in questo libro è la modernità, per quanto la nozione stessa mi lasci perplesso. Come ha proposto il sociologo Ulrich Beck, ai nostri giorni la modernità è riflessiva, occupata ad organizzare la propria stessa infrastruttura, e alcuni dei progetti che saranno discussi in queste pagine riguardano appunto la conversione di vecchi siti industriali a vantaggio di un’economia postindustriale della cultura e dell’intrattenimento, dei servizi e dello sport3. In questa ristrutturazione, l’arte recente non si limita a un ruolo quasi passivo: talvolta sono bastate le grandi dimensioni a favorire la trasformazione di magazzini e stabilimenti dismessi in gallerie e musei, e nel processo alcune aree industriali depresse sono rinate come destinazioni modaiole del turismo culturale. Giunti a questo punto, la pretesa separazione di culturale ed economico non ha più senso; una peculiarità del capitalismo contemporaneo è proprio la loro commistione, che sta alla base non solo dell’importanza assunta dai musei, ma anche del rinnovamento operato su tali istituzioni per adeguarle a un’“economia delle esperienze”4. In tal senso, quale rapporto lega l’arte e l’architettura contemporanee a una cultura più ampia che predilige l’intensità dell’esperienza? Questa intensità generale è contrastata dalle intensità specifiche dell’una e


dell’altra pratica? O ne è sublimata? O in qualche modo sostituita? Saranno domande ricorrenti nel libro. I nuovi materiali e le nuove tecniche giocano nella progettazione contemporanea un ruolo estetico, oltre che funzionale: come l’International Style, gli stili globali di Rogers, Foster, Piano e altri si servono spesso di eroiche imprese di ingegneria, e ancora una volta la tecnologia è vista di per sé come una virtù, una forza, quasi un feticcio con il quale scongiurare gli aspetti più insipidi di quella modernità alla quale appartiene (questo nuovo prometeismo è stato favorito, e non ridimensionato, dagli attacchi dell’11 settembre: alti edifici di forme iconiche sono stati progettati per risollevare il morale, oltre che gli interessi finanziari e l’assenso politico. Come dimenticare il fallico grido: “Costruiteli più alti di prima!”?). Le tecniche e i materiali contemporanei tendono a un principio di leggerezza – altro leitmotif del libro – che ha inciso notevolmente sia sull’arte che sull’architettura. In particolare, esso ha portato a una rivalutazione di antichi valori come l’onestà dei materiali e la trasparenza delle strutture, due concetti le cui vicissitudini saranno a loro volta indagate in queste pagine. Ideologema fondamentale della modernità attuale, la leggerezza ha favorito un’astrazione che va oltre qualsiasi precedente modernista – un’astrazione che, si dice solitamente, ripropone quella degli spazi cibernetici e dei sistemi finanziari. Eppure questa leggerezza contiene a sua volta un rompicapo: come si può dunque rappresentare la modernità? Se l’età delle macchine ha avuto una propria inconfondibile iconografia, qual è la nostra? Nel momento stesso in cui rifiutano il simbolismo decorativo dell’architettura postmoderna (che oggi è comunque caduto in discredito), Rogers, Foster e Piano forniscono allusioni silenziose, che a volte hanno risonanza nella sfera civica (Rogers in particolare). Allo stesso tempo, essi ri-significano alcuni tipi architettonici in modi che hanno a loro volta ripercussioni sul pubblico (si pensi

ARoS Next Level, Aarhus, Danimarca. Collaborazione tra l'artista James Turrell e Schmidt Hammer Lassen Architects per l'estensione di 1,200 m² del Museo Aros. Foto di Morten Fauerby, Montgomery

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ai terminal aeroportuali di Foster o ai musei d’arte di Piano): secondo Anthony Vidler, l’epoca moderna ha dato all’architettura tre modelli fondamentali5. Il primo, sviluppatosi durante l’Illuminismo, assegnava all’architettura neoclassica un fondamento naturale, ossia il mitico modello della “capanna primitiva” fatta di colonne classiche ottenute dai tronchi d’albero. Il secondo, proposto da Le Corbusier e altri in supporto all’International Style, riconfigurava questi riferimenti ai mondi della natura e della classicità nell’ottica particolare della macchina. Una terza tipologia, importante per l’architettura postmoderna nella versione di Aldo Rossi, Léon Krier e altri, si allontanava dai modelli industriali per ritrovare i tipi costruttivi della città tradizionale. In aggiunta a questi tre stili globali, se ne potrebbe individuare un quarto: come gli altri, esso mantiene un legame con il naturale (oggi legittimato culturalmente come “green design”) e con il classico (Piano ne è l’esempio più sofisticato). La tecnologia è ancora fondamentale (soprattutto in Foster), e la dimensione civica è sempre contemplata (ancora una volta, particolarmente in Rogers). Eppure, ciò che caratterizza maggiormente lo stile globale è il suo “banale cosmopolitismo”: per quanto gli edifici che più lo rappresentano rispondano, al contempo, a condizioni locali e bisogni globali, il più delle volte lo fanno producendo un’immagine del locale da diffondere poi a livello globale. Un esempio assai noto è il Nido d’uccello di Herzog e de Meuron, riprodotto nel logo delle Olimpiadi di Pechino 2008. La figurabilità è dunque un altro tema di questo libro (soprattutto nella seconda sezione), e qui la connessione architettura-arte è esplicita. Uno sviluppo positivo è che alcuni lavori, pur agendo entro le condizioni poste dalla spettacolarizzazione, sono in grado di fare spazio ad esperienze non ancora programmate, o addirittura inattese. Un altro è la capacità di progettare strutture nello spazio in modi che resistono al facile consumismo dell’immagine-evento. La figurabilità rimane però un concetto pericoloso, soprattutto quando si parla dei più recenti progetti per musei d’arte. Alcuni di questi edifici sono talmente performativi o scultorei da dare l’impressione che gli artisti siano arrivati a giochi fatti, nient’altro che complici a posteriori. Altri catturano con tale forza il nostro sguardo da agire su un campo che gli artisti amano considerare il proprio – il visuale. Gli architetti, naturalmente, hanno tutto il diritto di misurarsi in questo confronto, ma a volte, nel fare ciò, rischiano di trascurare altre questioni (programma, funzione, struttura, spazio…) di cui solitamente si occupano in maniera più incisiva di quanto facciano gli artisti. Confusioni di questo tipo sono un altro tema del libro.


Prima di chiudere, mi si conceda di porre un’ultima questione (anch’essa affrontata soprattutto nella terza sezione): il medium artistico. Il dibattito su questo tema ha ristagnato a lungo attorno all’opposizione tra l'ideale modernista di “specificità” e la strategia postmodernista dell’“ibridazione”. Eppure, queste due posizioni si rispecchiavano a vicenda, in quanto entrambe davano per presupposta la natura fissa di ogni singolo medium, incoraggiando gli artisti a rispettarla o ad attuare qualche forma di disturbo su di essa. Io la penso diversamente. Innanzitutto, i medium sono convenzioni-negoziati sociali con una base tecnica; sono definiti e ridefiniti, entro le opere d’arte, in un processo differenziale di analogia e distinzione rispetto ad altri medium, un processo calato in un campo culturale che, essendo determinato da forze economiche e politiche, è a sua volta soggetto ad una continua ridefinizione6. Così, la scultura di Serra è un linguaggio ben distinto, che però condivide aspetti della pittura e dell’architettura (ad esempio, il suo racchiudere, incorniciare i luoghi) proprio nel momento in cui si differenzia da esse (ad esempio, nel suo rifiuto della trasformazione in “immagine”). Allo stesso modo, il film di McCall punta all’autonomia, nella cui ricerca coinvolge però il disegno, la fotografia, la scultura e l’architettura. La questione del medium non è puramente accademica, essendo in corso una cruciale battaglia fra pratiche come quelle appena descritte, che si fondano sulla consapevolezza materiale e spaziale, e una cultura della spettacolarizzazione che tenta di scardinarla. Insomma, quello che voglio suggerire è che la dialettica dell’arte del dopoguerra ha prodotto non solo lo spostamento dall’illusione figurativa allo spazio reale, ma anche una riconfigurazione dello spazio come illusione su larga scala, con importanti conseguenze sull’architettura. Sebbene molti artisti ed architetti prediligano l’esperienza fenomenologica, essi finiscono spesso per offrire l’inverso: l’“esperienza” restituita come “atmosfera” o “affetto”, ossia ambienti che confondono reale e virtuale, o sentimenti che non sono i nostri, ma nondimeno ci chiamano in causa7. Con la falsa pretesa di renderci partecipi, alcuni lavori tendono piuttosto a soggiogarci, poiché più si servono di effetti speciali meno ci coinvolgono come osservatori attivi; così che la riflessività fenomenologica del “vedersi vedere” è contaminata con il suo contrario, ossia uno spazio (un’installazione, un edificio), che sembra mettere in atto la percezione al nostro posto. Si ripropone in una nuova veste il vecchio problema della feticizzazione, che prende i nostri pensieri e le nostre sensazioni, le traduce in immagini ed effetti e ce li rimanda indietro, con nostro grato stupore. Questo volume è scritto in difesa di quelle pratiche che insistono sulla particolarità sensoriale dell’esperienza incarnata nel qui e ora, resistendo alla soggettività stupefatta e alla socialità sospesa derivate dalla spettacolarizzazione.

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Per descrivere la relazione tra arte e architettura contemporanee, ho usato termini come “incontro” e “connessione”. Perché allora optare, nel titolo, per un termine per certi versi sinistro come “complesso”? La parola è qui intesa in tre accezioni. La prima designa semplicemente i numerosi oggetti complessi entro i quali arte e architettura sono affiancate e/o combinate, talvolta con l’arte ad occupare gli spazi specifici – o solitamente considerati tali – dell’architettura, talvolta con l’architettura a invadere il campo di esclusiva pertinenza – anche qui, presunta – dell’arte. È possibile peraltro dire che nelle tradizioni occidentali, e non solo, queste concrezioni di arte e architettura siano la norma, della quale l’istanza modernista di separazione relativa degli ambiti sarebbe l’eccezione. Uso poi “complesso” per indicare come la sussunzione del culturale all’economico operata dal capitalismo porti spesso a una riconversione di queste combinazioni arte-architettura come attrazioni e/o scenografie urbane. Sebbene il “complesso arte-architettura” sia meno inquietante del “complesso guerra-industria” (o della sua attuale reincarnazione, il “complesso guerra-intrattenimento”), esso merita tuttavia la nostra vigile attenzione. Infine, intendo “complesso” nel senso più o meno clinico di “blocco” o “sindrome”; una sindrome difficile da identificare come tale, proprio perché sembra essere così naturalmente intrinseca alle operazioni culturali odierne. E tuttavia, come in fondo sa benissimo qualsiasi nevrotico, un complesso disattiva molte più facoltà di quanto non ne attivi8. Come il suo predecessore Design & Crime, questo è un libro di critica culturale, oltre che di critica d’arte o di architettura. L’approccio che si propone è a metà tra il commento giornalistico e la teoria specialistica; non cede agli argomenti di tendenza, né al diffuso atteggiamento post-critico9. Capisco bene l’insofferenza che molti provano verso la negatività della critica, la sua presunzione di autorevolezza, la sua ostinata inattualità in un mondo in cui regna il disinteresse; tuttavia, la trovo ancora preferibile tanto alla superficialità dell’opinione a caldo quanto alla passività della ragion cinica, per tacere delle altre opzioni disponibili (cosa ha preso, per intenderci, il posto dell’attività critica? Il bello? Il sentimento? La celebrazione? Chi offre di più?). Si diventa critici o storici per le stesse ragioni per cui si diventa artisti o architetti: l’insofferenza verso lo status quo e il desiderio di trovare alternative. Senza critica, alternative non ce ne sono. Voglio ringraziare Sebastian Budgen, Mark Martin e Bob Bharma della casa editrice Verso per la loro dedizione, Mary-Kay Wilmers e


Paul Myerscough, i miei redattori alla “London Review of Books” (dove sono state pubblicate le prime versioni dei capitoli 2, 3 e 4), così come Tim Griffin e Don McMahon, i miei redattori per “Artforum” (dove sono apparse le versioni preliminari dei capitoli 1, 5 e 6), per il loro sostegno. Sono inoltre grato a Stan Allen, Tiffany Bell, Yve-Alain Bois, Benjamin Buchloch, Richard Gluckman, Richard Serra, Anthony Vidler, Sarah Whiting e Charles Wright per le animate conversazioni che abbiamo intrattenuto su questi temi nel corso degli anni. Un ringraziamento è dovuto anche a Ryan Reineck per il lavoro sulle illustrazioni, e a Julian Rose per aver letto il manoscritto (se lo scambio intellettuale è di rito, gli sono debitore). A Sandy Tait, infine, un grazie per aver curato l’edizione di questo libro con proverbiale attenzione.

1. L’epocale mostra di architettura International Style, tenutasi al Museum of Modern Art nel 1932, fu aspramente criticata per aver posto l’accento sullo stile piuttosto che sulla funzione. In realtà, lo stile aveva finito per essere una funzione di primaria importanza per quel tipo di progettualità, e la stessa cosa si può dire, a maggior ragione, degli odierni “stili globali”.

and Architecture (in un numero speciale di “Art and Design” del 1997, Stan Allen sostiene che “ciò che si trova tra le arti” non è “teatro”, come proposto da Michael Fried in Art and Objecthood, ma “architettura”, ossia che il campo allargato dell’arte dopo il minimalismo ha comportato un’apertura verso lo spazio, oltre che verso il tempo.

2. Il libro consiste in una serie di casi-studio, quasi mai analisi complete; avrei potuto prendere in considerazione anche altre figure, ma queste erano a mio parere le più significative. Sul riallineamento dell’arte dopo il Minimalismo, R. Krauss R. (1979), La scultura nel campo allargato, trad. it. in L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, Fazi, Roma 2007, pp. 283-298). Anthony Vidler offre a sua volta una mappa del “campo allargato dell’architettura” in Vidler A., ed., Architecture Between Spectacle and Use, Clark Art Institute, Williamstown 2008. In Nothing Less Than Literal: Architecture After Minimalism, MIT Press, Cambridge 2005, Michael Linder si occupa del ruolo dell’architettura del discorso minimalista. Infine, in Minimalism: Sculpture

3. Cfr., tra gli altri, Beck U., La società del rischio: verso una seconda modernità, trad. it, Carocci, Roma 2000; Beck U., Libertà o capitalismo? Varcare la soglia della modernità. Conversazioni con Johannes Willms, trad. it. Carocci, Roma 2001. Anche la definizione “banale cosmopolitismo” è derivata da Beck. Concordo con T.J. Clark che la “modernità” sia per molti versi un mito, nella sua promessa di mobilità, e con Fredric Jameson sul fatto che essa tenda ad esteticizzare tutto ciò che incontra. Cfr. Clark T.J., The Painter of Modern Life: Paris in the Art of Manet and His Followers, Alfred A. Knopf, New York 1985; Jameson F., A Singular Modernity: Essay on the Ontology of the Present, Verso, London 2002.

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4. Cfr. J. Pine II, J. H. Gilmore, L’economia delle esperienze, ed. it. ETAS, Milano 2000. Eric Schmidt, AD di Google, parla di un’”economia dell’attenzione”, entro la quale le corporation si contendono “i bulbi oculari” del pubblico. 5. Cfr. Vidler A., The Third Typology, “Oppositions”, 1, 1977. 6. Così definito, un medium non può essere completamente inventato, come qualcuno suggerisce oggi; ovvero, per il fatto di essere costituito in questo modo, può avere solo una minima incidenza sul presente, per non parlare della storia. La stessa arte modernista, proprio mentre aspirava alla specificità, era tentata anche dall’ibridazione (si pensi al Gesamtkunstwerk), e pertanto questa differenza non è sufficiente a distinguerla dall’arte postmodernista. Tuttavia, le due hanno inclinazioni differenti, e basandoci sulla freudiana “scelta dell’oggetto” possiamo definire l’arte modernista “narcisistica”, in quanto esercita la sua libido innanzitutto sull’immagine di sé, e l’arte postmodernista “anaclitica”, poiché si “appoggia” spesso su altri ambiti. Questo appoggiarsi dell’arte all’architettura e viceversa è la dinamica principale del complesso qui studiato. Nel 1978 Rosalind Krauss apriva il suo importantissimo saggio La scultura nel campo allargato con una descrizione di Perimeters/ pavillions/Decoys di Mary Miss: “Verso il centro del campo si trova un piccolo tumulo, una sorta di gobba sul terreno, unico indizio della presenza dell’opera. Avvicinandosi, si può vedere l’apertura quadrata della fossa, nonché l’estremità della scala necessaria per discendervi”. La Krauss collocava “costruzioni di luoghi” come questa tra l’”architettura” e il “paesaggio”, stendendo così la sua mappa strutturalista delle pratiche artistiche, al di là della scultura vera e propria, collocate faccia a faccia con altre opposizioni come “paesaggio”/”non-paesaggio”, “architettura”/”non-architettura” e così via. Nel 1910, in un saggio intitolato semplicemente Architettura, Adolf Loos presentava una scena simile con una morale differente: “Se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e larga tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura” (Loos A., 1910, Architettura, trad. it. in Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972, p. 255). Un mito eziologico

per l’architettura, questo brano può svolgere la stessa funzione per quella forma primordiale di presa di possesso delle cose che è la scultura: l’architettura e la scultura, si può dire, si contendono questo tumulo sepolcrale. Il discorso, a mio parere, verte qui sulla differenzialità mediale, il cui campo è costituito non tanto da opposizioni e negazioni concettuali in stile Krauss, quanto da somiglianze e differenze puramente materiali, formali, funzionali, convenzionali e soprattutto storiche. 7. Per un’analisi dei modi in cui alcuni artisti hanno risposto a questo aspetto dell’”economia delle esperienze”, cfr. Griffin T., Compression, “October”, 135, Winter 2010. 8. Qui, il termine “complesso” ci riporta al campo strutturalista dell’arte recente mappato da Rosalind Krauss. Il teorico A.J. Greimas ha posto i fondamenti del sistema semiotico che porta lo stesso nome, ma che nel suo lavoro ha una valenza diversa: come scrive Fredric Jameson nella prefazione all’edizione inglese di Del senso, “costituisce una mappa virtuale della chiusura concettuale, o addirittura della chiusura dell’ideologia, intesa come meccanismo il quale, sebbene sembri generare un’infinita varietà di concetti e opinioni, rimane di fatto intrappolato in un’aporia o in un circolo vizioso iniziali che non è in grado, con i propri soli mezzi, di modificare dall’interno” (Greimas A.J., On meaning: Selected Writings in Semiotic Theory, trad. ing. University of Minnesota Press, Minneapolis 1987, p. xv). In breve, l’allargamento può irrigidirsi in costrizione. 9. Questo termine ha un significato specifico nel gergo architettonico, laddove è usato per segnalare un nuovo inizio dopo la riflessività di architetti quali Peter Eisenman, e tuttavia può indicare anche un generale disamore verso la critica. Si veda, per esempio, Latour B., Galison P., eds., Iconoclash, ZKM/Center for Arts and Media, Karlsruhe 2002.


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Image Building

Illustrazione da Venturi R., Scott Brown D., Izenour S., Imparare da Las Vegas, 1972. Courtesy: Venturi, Scott Brown and Associates, Inc.


Costruire immagini Di solito associamo il termine “Pop” alla musica, alla moda, all’arte e a molto altro, ma non all’architettura; eppure, il Pop è fin da subito legato al discorso architettonico. L’idea stessa del Pop – ossia, un coinvolgimento diretto con la cultura di massa prodotta dal capitalismo dei consumi nel secondo dopoguerra – emerse all’inizio degli anni Cinquanta nell’ambito dell’Independent Group (IG) di Londra, una variopinta schiera di giovani artisti e critici come Richard Hamilton e Lawrence Alloway, guidati da altrettanto giovani architetti e storici dell’architettura come Alison e Peter Smithson e Reyner Banham. Rielaborata dagli artisti americani nel decennio successivo, la concezione pop fu ancora una volta inserita nel dibattito sull’architettura, soprattutto grazie a Robert Venturi e Denise Scott Brown, e servì da argomentazione a sostegno del linguaggio progettuale postmoderno agli stessi coniugi Venturi, a Michael Graves, Charles Moore, Robert Stern e altri autori degli anni Ottanta, ognuno dei quali proponeva, in qualche modo, immagini derivate dalla pubblicità, dalla storia, o in alcuni casi da entrambe. Generalmente parlando, il principale presupposto al pop fu una graduale riconfigurazione dello spazio culturale, richiesta dal capitalismo dei consumi, entro la quale struttura, superficie e simbolo venivano combinati tra loro in nuovi modi1. Questo spazio misto è con noi ancora oggi e, parallelamente, una dimensione pop persiste nell’architettura contemporanea. Nei primi anni Cinquanta, la Gran Bretagna viveva in uno stato di austerità economica, che per confronto faceva sembrare seducente, agli occhi degli emergenti artisti pop locali, quel mondo del consumismo che per i colleghi americani del decennio seguente avrebbe invece costituito la realtà di tutti i giorni. Comune a entrambi i gruppi, tuttavia, era la sensazione che il consumismo avesse cambiato non solo l’aspetto delle cose, ma è nella natura stessa dell’apparenza che la Pop Art trovava il suo soggetto principale, nell’accentuata visualità di un mondo sempre più artificialmente messo in mostra, nell’iconicità sovraccarica delle personalità e dei prodotti (o delle personalità come prodotti, e viceversa)2. La superficialità dei segni e la serialità degli oggetti, tipiche del consumismo, influenzarono l’architettura e l’urbanistica, proprio come la pittura e la scultura, e a tal proposito, in Architettura della prima età della macchina (1960), Banham auspicava un’architettura pop come radicale aggiornamento della progettualità moderna, alla luce delle nuove condizioni di una “Seconda età della macchina” nella quale la “figurabilità” diventava il principio fondamentale3.

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Prima parte

Stili globali


Pop Civics


Civica Pop Nel 1971 si verificò uno degli eventi più inattesi nell’architettura dell’ultimo secolo: due giovani progettisti, entrambi non-francesi, si aggiudicarono la più importante commissione parigina dopo la Seconda Guerra Mondiale, il nuovo Centre Pompidou, e si ritrovarono improvvisamente famosi. I due – un trentottenne inglese, Richard Rogers, e un trentacinquenne italiano, Renzo Piano – progettarono un edificio esuberante che piacque ad alcuni e scandalizzò altri: una scatola di vetro sostenuta da una struttura in acciaio e cemento, ciascuna facciata una vivace griglia di colonne prefabbricate e supporti diagonali, con un vano ascensore trasparente che serpeggia sul fronte, e altri tubi di servizio nei tre colori primari, ad animare gli altri lati. Pensato come un incrocio tra il British Museum e Times Square, il tutto aggiornato nei termini dell’età dell’informazione, il Beaubourg divenne subito popolare (vanta ancora oltre sette milioni di visitatori all’anno); tuffato com’è in una vastissima piazza, ha anche una buona dose di populismo (Rogers lo definisce “un centro per le persone, un’università della strada”)1. Eppure il progetto non era privo di contraddizioni: un edificio pop, pensato da due architetti progressisti per uno stato burocratico, e in onore di un politico conservatore (il gollista Georges Pompidou), ma anche un centro culturale esaltato come “catalizzatore per la rigenerazione urbana”, ma in parte responsabile dell’ulteriore cancellazione di Les Halles e della graduale gentrificazione dell’area del Marais. Simili tensioni avrebbero successivamente dato il tono alle rispettive carriere di Richard Rogers e Renzo Piano, a lungo identificati con posizioni di sinistra pur avendo beneficiato del mecenatismo di centro e di destra2. Benché nel 1971 fosse ancora giovane, almeno per gli standard dell’architettura, Rogers aveva alle spalle anni di esperienza. Laureatosi all’Architectural Association a Londra, aveva frequentato Yale nel 1961-62, assieme a Norman Foster, con il quale aveva condiviso uno studio fino al 1967, insieme alle rispettive mogli Su Brumwell e Wendy Cheeseman. Per quanto possa sembrare incredibile, il “Team 4” si sciolse per mancanza di lavoro, ma non prima di aver di aver completato un’innovativa struttura per la Reliance Controls a Swindon (nel sud-ovest dell’Inghilterra), che lo studioso di architettura Kenneth Powell descrive come “non una fabbrica né un complesso di uffici, e neppure una stazione di ricerca, ma


Crystal Palaces

Reichstag, Nuovo Parlamento Tedesco, Berlino, 1992-99


Palazzi di cristallo Esiste ai nostri giorni un architetto che abbia firmato tante vedute urbane quante Norman Foster? Dai tempi di Christopher Wren, forse nessuno ha modificato così radicalmente lo skyline di Londra, dalla Swiss Re Tower nella city fino all’arco di Wembley, nella parte nord. Nato nel 1935, Foster ha tutto il diritto di non essere modesto, e in effetti condisce le descrizioni dei suoi edifici con superlativi come “il primo” e “il più grande”, e verbi come “reinventare” e “ridefinire”1. Peraltro, come i colleghi Richard Rogers e Renzo Piano, Foster è al centro di recenti pubblicazioni in più volumi, quasi a voler superare i massicci tomi prodotti per altri illustri esponenti della professione quali Frank Gehry e Rem Koolhaas, i cui enormi studi, a confronto del suo, sono piccole imprese a conduzione familiare. Perché Norman Foster è anche “Foster + Partners”, uno studio composto da circa 1000 persone distribuite in qualcosa come ventidue uffici. Ci vorrebbero pagine e pagine per stilare un elenco dei progetti, molti dei quali, tra l’altro, realizzati: sette banche, nove ponti, otto progetti urbanistici (come la trasformazione di Trafalgar Square), dieci centri-congressi, trentotto sale espositive, ventotto edifici per l’istruzione e la sanità, trentacinque per lo sport e il tempo libero, trenta complessi residenziali, trentanove piani generali (da fiere e intere città), sedici progetti multi-funzionali, sessantacinque stabili per uffici (tra cui la Hearst Tower a Manhattan, 2000-2006), ventotto modelli per mobili, nove centri per la ricerca e ventiquattro sistemi di trasporto (da yacht privati a terminal ferroviari, stazioni della metropolitana, aeroporti). E i numeri crescono ogni anno2. Come alcuni dei suoi committenti, lo studio di Norman Foster ha un raggio d’azione internazionale, al punto che vi sono multinazionali e governi con strutture più esili3. Tuttavia, nonostante la quantità e varietà dei lavori eseguiti nel corso di cinquant’anni, lo studio ha saputo mantenere uno stile coerente e una qualità costante. Tecnologicamente avanzati, spazialmente grandiosi e formalmente rifiniti, i progetti si collocano su una linea di razionalismo astratto che rasenta la fredda oggettività, ma riescono nondimeno a conservare tratti distintivi che li rendono facilmente riconoscibili; parallelamente a Rogers e Piano, Norman Foster ha prodotto uno stile globale. E non c’è dunque da stupirsi se capi d’azienda e capi di stato cercano costantemente i servizi di questo studio di gran classe, capace di produrre un continuo rispecchiamento di immagini di sé, al contempo tecnocratiche e innovative, che si addice sia ai committenti che allo studio.

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Light Modernity

Museo Fondazione Beyeler, Basilea, 1991-97. Foto: Christian Richters


La modernità leggera Il percorso dell’apprezzato architetto italiano Renzo Piano è attraversato da un’onnipresente tensione. Nato nel 1937 da un’importante famiglia genovese di costruttori, Piano ha spesso sottolineato il proprio attaccamento all’artigianato, alla specificità dei materiali e delle tecniche del fare, e benché il suo studio vanti numerosi uffici attivi con vari progetti sulla scena internazionale, la sua denominazione è ancora Renzo Piano Building Workshop1. D’altra parte, Piano si è guadagnato l’attenzione del pubblico con il Centre Pompidou (1971-77), la più osannata megastruttura high tech dell’epoca, progettata assieme a Richard Rogers, e il suo nome è oggi legato anche a grandi piani urbanistici come la risistemazione dell’antico porto di Genova (1985-1992) e Potsdamer Platz a Berlino (1992-98), oltre che a colossali infrastrutture come il Kansai International Airport (1988-94), per il quale addirittura un’intera isola è comparsa nelle acque della baia di Osaka (grazie all’impiego di non meno di 6000 lavoratori lungo un arco di tre anni). Un’altra prova di questa duplicità è data dal fatto che, a dispetto della facciata di modesto artigiano, Renzo Piano è l’architetto preferito di molte istituzioni – culturali, accademiche e aziendali – di alto profilo. Alla prima categoria appartengono la Menil Collection a Houston (1982-87), un delizioso museo che distingue il classico Piano dal “pop” Rogers; il museo Beyeler a Basilea (199197) e il Nasher Sculpture Center a Dallas (1999-2003), due elegantissimi templi dedicati a collezioni private; l’Auditorium Niccolò Paganini a Parma (19972001) e il Parco della Musica a Roma (1994-2002), rispettivamente una fabbrica riconvertita e un complesso originale di tre sale concerti rivestite in piombo; il Paul Klee Museum a Berna (1999-2006) e l’estensione della Morgan Library a New York (2000-2006); nuove sezioni del High Museum ad Atlanta (1999-2005), del Los Angeles County Museum of Art (2003-2008), e dell’Art Institute di Chicago (19992009). Ancora in cantiere, tra gli altri progetti, le ristrutturazioni dell’Isabella Stewart Gardner Museum a Boston e del Kimbell Art Museum a Fort Worth, oltre ad un nuovo edificio annesso al Whitney Museum of American Art a New York. Per quanto riguarda le istituzioni accademiche, Piano ha progetti in fase di elaborazione per atenei come la Columbia, Harvard e la University of Michigan. La torre di cinquantadue piani per la sede del “New York Times” all’incrocio tra 40th Street ed 8th Avenue è stata completata nel 2007, mentre nel 2008 ha visto la luce l’edificio per la California Academy of Sciences a San Francisco, dotato di un tetto ondulato con tanto di prato e lucernario. E si tratta solo di due dei

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seconda parte

Arte e architettura


Neo-Avant-Garde Gestures

Diagramma per la Torre Generali. Citylife Milano. Courtesy: Zaha Hadid Architects


Gesta da neo-avanguardia Nel corso dell’ultimo decennio, Zaha Hadid è passata dallo status di paladina dell’avanguardia nelle scuole d’architettura a quello di archi-star sufficientemente nota, presso le istituzioni, da costruire in poco tempo numerosi edifici, e lanciare altri nuovi progetti. Questa rapida ascesa ha avuto inizio nel 2003, quando il Contemporary Arts Center di Cincinnati (il suo primo edificio negli Stati Uniti) è stato inaugurato tra le lodi entusiaste di gran parte del pubblico e della critica, e ha trovato conferma nel 2005, con il completamento dello stabilimento BMW a Lipsia, prova della sua abilità nel lavorare per l’industria. Nel 2004, Zaha Hadid è stata la prima donna a vincere il prestigioso Pritzker Architecture Prize, mentre nel 2006 il Guggenheim le ha dedicato una retrospettiva sui primi trent’anni della sua attività, esponendo, oltre ai progetti, una selezione dei suoi quadri. Più recentemente, nel 2009, è stato presentato il suo Museo dell’Arte del XXI Secolo (MAXXI) a Roma, accolto da critiche favorevoli, mentre sono ancora in fase di realizzazione altre commissioni, tra le quali si segnalano palazzi per uffici e centri culturali nel Medio Oriente, il teatro d’opera a Guangzhou e un centro acquatico per le Olimpiadi di Londra del 2012. Ormai la Hadid non può più essere liquidata, come erano soliti fare i suoi detrattori di un tempo, come una donna che resiste in una professione da uomini in virtù della sua personalità esuberante e delle sue origini esotiche (è nata a Baghdad nel 1950). Addirittura, i suoi sostenitori sostengono che lei abbia contribuito più di qualsiasi collega al generale ripensamento dei modi di rappresentazione dell’architettura, oltre ad aver saputo sfruttare pienamente le nuove tecnologie digitali. È questo il punto di vista che intendo considerare, con particolare attenzione alla soluzione spesso adottata dalla Hadid, cioè selezionare e riprendere particolari momenti dell’arte e dell’architettura moderniste. Per diversi anni, dopo la laurea in architettura conseguita nel 1977 presso la Architectural Association di Londra, la Hadid non trovò molto lavoro come progettista indipendente; per riempire il vuoto si dedicò a una pittura di stampo modernista, memore soprattutto dell’astrazione suprematista di Kazimir Malevič, che studiò approfonditamente nei suoi quadri, allo scopo di sviluppare un linguaggio astratto utile alla pratica architettonica, ma anche di conferire maggiore dinamicità alle modalità convenzionali della rappresentazione architettonica (planimetria, alzato, prospettiva e proiezione assonometrica). Già nella tesi di laurea, un improbabile progetto per un complesso alberghiero

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Postmodernist Machines

Para-site, 1989. Installazione multimediale


Macchine postmoderne Da una certa distanza, l’Institute of Contemporary Art di Boston (2002-06) ha un’aria quasi modesta: una semplice scatola collocata nell’area portuale, proporzionata ai pochi edifici circostanti, apparentemente lontana dall’iconicità scultorea che caratterizza parecchi musei di recente costruzione. È solo quando giriamo attorno all’austero spigolo dell’edificio, e ci accorgiamo del modo in cui l’ultimo piano si affaccia a sbalzo sulla Boston Harborwalk, che restiamo folgorati dalla sua presenza fisica. Da qui, tra l’altro, possiamo farci un’idea dell’intero progetto, per il quale gli architetti, Diller Scofidio + Renfro (DS+R), hanno prolungato lo stretto camminamento del lungomare con un’ampia piattaforma di travi, che sale a formare una vera e propria tribuna per assistere alle performance all’aperto1. La piattaforma, diagonale, raggiunge in altezza il primo piano – racchiuso da pareti di vetro e occupato da biglietteria, “art lab”, bookshop e bar – per poi proseguire lungo il secondo e terzo piano, a loro volta ricoperti in vetro, dove si trovano il “digital studio”, l’area didattica, gli uffici e la sala-teatro, quest’ultima concepita come una sorta di continuazione interna della tribuna, e anch’essa rivolta verso il porto. Giunti in cima, sopra il terzo piano vi sono gli spazi espositivi, quasi 1600 metri quadri del tutto privi di pilastri: con la sua pavimentazione realizzata a riquadri in cemento di tre metri e mezzo di lato, e i suoi soffitti alti quasi cinque metri, dotati di lucernario e trasparente, questo padiglione neo-miesiano è a tutti gli effetti una luminosa meditazione sulla città, sull’acqua e sul cielo dal quale, grazie al corridoio di vetro che sovrasta il camminamento, si gode un’indisturbata vista sul porto. Sospesa sotto il terzo piano, come la cabina di un’astronave anfibia, la mediateca è uno spicchio fatto di larghi scalini e monitor, che scende a strapiombo verso una finestra allungata affacciata sul mare. È qui che la forma ciclica dell’edificio – il suo sorgere gradualmente dal porto, gli angoli aspri che ne definiscono i volumi, il drastico ritorno al porto – si completa2. Espedienti quali rampe, spirali e strutture ad anello non sono certo una rarità nell’architettura recente: le prime, per esempio, sono state inserite da Zaha Hadid nel suo Contemporary Arts Center a Cincinnati, le altre da Rem Koohlass, rispettivamente nella Seattle Public Library e nella sede CCTV a Pechino. Tuttavia, il precedente immediato dell’ICA è un progetto elaborato nel 2002 dagli stessi DS+R per l’Eyebeam Museum of Art and Technology a New York, e caratterizzato dalla stessa vistosa articolazione a sbalzi. Di fronte alla necessità di costruire spazi atti sia all’esposizione che alla creazione artistica, gli architetti

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Minimalist museums

Yoshio Taniguchi, corridoio Donald B. and Catherine C. Marron all’interno del David and Peggy Rockefeller Building, MoMA, New York, 1997-2004. Courtesy: The Museum of Modern Art


Musei minimalisti Quando ancora non avevano attraversato l’Atlantico, Walter Gropius e Le Corbusier cercavano in America i precedenti dell’architettura modernista, trovandoli nei silos granari e negli stabilimenti in cemento armato e vetro che si succedevano lungo i corsi d’acqua nelle grandi città industriali. Viste da occhi europei, queste strutture apparivano ispirate esclusivamente da criteri funzionali e/o razionali, o piuttosto potevano essere spacciate come tali per ragioni polemiche: quando ad esempio Le Corbusier pubblicò alcune di foto di questi edifici, dapprima nella sua rivista L’Esprit nouveau nel 1919, quindi nel manifesto Vers une architecture del 1923, si preoccupò di cancellare tutti i dettagli decorativi che potessero mettere in dubbio una simile lettura, la cui forza, in fin dei conti, era più stilistica che altro1. Guardare in questo modo all’America, per trovarvi un’origine dell’architettura, era in qualche modo una forma di primitivismo, ma anche, al tempo stesso, di futurismo, dato che questi due grandi europei prevedevano che la produzione industriale, di cui gli Stati Uniti erano la patria indiscussa, avrebbe costituito la condizione di tutto il linguaggio progettuale moderno. Questa America europea, quindi, era un’”Atlantide di cemento”, un luogo quasi mitico che viveva in un paradosso temporale, poiché, come aveva notato Gertrude Stein, era il paese più vecchio di tutti, avendo vissuto più a lungo degli altri nel ventesimo secolo2. Gli esempi industriali proposti da Gropius e Le Corbusier rivelavano una tensione tra volume (i silos) e trasparenza strutturale (gli stabilimenti), quest’ultima complicata da un’ulteriore trasparenza, quella della fotografia, l’unico mezzo attraverso il quale i due architetti avevano imparato a conoscere questi edifici, e che in qualche modo li dematerializzava3: proprio questa doppia tensione tra materialità e dematerializzazione sarà una costante dell’arte e dell’architettura del ventesimo secolo. Esacerbata ulteriormente da un capitalismo dei consumi che trae vita dalla fruibilità dei prodotti (spesso sotto forma di immagini), questa tensione trova la sua definizione nell’arte contemporanea dopo il 1960, governata da una dialettica tra le pratiche che collocano corpi e oggetti negli spazi reali, e quelle che sfruttano invece gli effetti dei segni mediali; pratiche che, per semplificare, raggrupperò sotto le etichette, rispettivamente, di “minimaliste” e “pop”. Questo rapporto dialettico è altrettanto importante in architettura, come si può vedere dal lavoro di progettisti influenzati da questi fenomeni artistici, come Rem Koolhaas, Jean Nouvel, Bernard Tschumi, Steven Holl, Richard Gluckman, Yoshio 119



Terza parte

Vicende del medium dopo il minimalismo


Sculpture remade

Richard Serra, Shift, 1970-72. Cemento, 6 sezioni, King City, Ontario, Canada


La scultura ripensata “Cosa significa per te fare scultura in questo momento?”. Nel 1976 la domanda fu posta a Richard Serra che, all’epoca, aveva solo un decennio di lavoro maturo alle spalle. Questa fu la risposta: “Significa prendersi un impegno a cui dedicare tutta la vita. Significa seguire la strada che mi sono aperto fin dall’inizio, e cercare di compiere, entro di essa, le mosse più astratte possibili. Lavorare a partire dal mio stesso lavoro, e costruire tutto ciò che serve per fare in modo che esso rimanga aperto e vivo”1. In gran parte, questa dichiarazione di intenti resta valida a molti anni di distanza. “Aperto” sta ad indicare che Serra partiva da precedenti importanti – non solo scultori e pittori del livello di Constantin Brancusi e Jackson Pollock ma, come vedremo, anche architetti e ingegneri – che l’artista si impone di destituire, creando uno spazio autonomo per il proprio lavoro, e allo stesso tempo di aggiornare. “Mosse astratte” sottolinea come tale aggiornamento non ammetta ritorni a tradizioni figurative, convenzioni pittoriche di figura e sfondo, o perfino letture o immagini gestaltiche. “Lavorare a partire dal mio stesso lavoro” significa che la sua arte, una volta “aperta”, è guidata dal proprio stesso linguaggio più che da qualsiasi antecedente.Tuttavia, affinché questo linguaggio non diventi involuto in se stesso, il lavoro deve mantenersi “aperto e vivo” tramite il “costruire”, un’attività cioè che richiede materiali, progetti e siti reali. La dichiarazione mette dunque in evidenza tre dinamiche che hanno governato l’arte di Serra fin dalla sua “apertura”, tre forze delle quali l’arte stessa costituisce il fulcro: rapporto con precedenti selezionati, elaborazione di un linguaggio intrinseco attraverso materiali appropriati, necessità di relazione con spazi specifici. Dieci anni più tardi, nel 1986, il MoMA organizzò una mostra intitolata Richard Serra: Sculpture. Qual è, in questo caso, la relazione stabilita dal segno di interpunzione? In un titolo come Piet Mondrian: Painting, sembra quasi trattarsi di un’equazione, una relazione riflessiva di analisi immanente, avendo Mondrian ridefinito la pittura riportandola alle sue linee essenziali e ai colori primari. L’individuazione di tale rapporto era giustificata dal paradigma legato alla specificità mediale su cui si basava l’arte modernista, non più applicabile alla generazione di Serra, il quale, forse, si pone sì l’atavico interrogativo modernista “Che cos’è il medium?”, ma nel tentativo di rispondere un artista come lui non è certo interessato a cercare, modernisticamente, l’ontologia della scultura. Intendiamoci, Serra non tenta di eludere la questione del medium; al contrario,

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Film stripped bare

Between You and I, 2006. Proiezione digitale. Peer/The Round Chapel, Londra. Foto Hugo Glendinning


Film messi a nudo Entriamo in uno spazio buio, immerso nel ronzio di un proiettore 16 mm; un filo di luce bianca attraversa la stanza vuota e raggiunge la parete antistante. Qui appare un punto, ma a poco a poco il punto diventa un arco, e una piccola sezione di cono prende forma dallo spazio. Lungo i trenta minuti del film, l’arco si estende a formare un cerchio, e un cono completo fatto di luce invade la stanza. Dopodiché, il processo intero ricomincia da capo. Mentre tutto ciò accade, non possiamo resistere alla tentazione di toccare la luce come se fosse un solido, e analizzare il cono come se fosse una scultura; non possiamo che entrare, attraversare e girare intorno alla proiezione, come se fossimo suoi complici, o addirittura i suoi soggetti. È questa l’esperienza offerta da Line Describing a Cone (1973) di Anthony McCall, un classico del “cinema strutturale”1. Trentatré anni più tardi. Di nuovo, entriamo in uno spazio buio, ma non c’è suono: il proiettore, digitale, è silenzioso. Le macchine in realtà sono due, poste sopra di noi, e la figura proiettata, anch’essa doppia, è ai nostri piedi, sul pavimento. Questa figura è ben più complessa di una linea che descrive un cono; non ha infatti un inizio o una fine ben identificabili, e il suo sviluppo non è facilmente anticipabile. A dire il vero, anzi, Facciamo fatica persino a capirlo. Di conseguenza, durante i sedici minuti di questa proiezione, tendiamo ad osservare i tracciati sul pavimento più assiduamente di quanto facciamo con un lavoro orizzontale come Line Describing a Cone, in modo da cercare di districare la logica della sua configurazione nel tempo, la quale a sua volta determina il movimento dei veli di luce che cadono dall’alto, per quanto questa correlazione sia pensata più che percepita. Progressivamente (ci vuole più di una ripetizione), ci accorgiamo che una delle due figure è un’ellisse che si contrae e si espande, mentre l’altra figura, un’onda, si dirige verso di essa; entrambe le forme sono complicate da una linea che si arrotola attraverso l’onda. Allo stesso tempo, una lentissima transizione a tendina collega le due figure, in modo che una eclissi sempre l’altra, creando, contemporaneamente, rotture che a loro volta generano aperture nei veli di luce e collegamenti che invece producono chiusure. Sempre progressivamente, vediamo che nel corso di uno di questi cicli una figura diventa l’altra: l’ellisse si fa onda e viceversa. Questa è l’esperienza di Between You and I (2006), una delle numerose proiezioni verticali realizzate da McCall a partire dal 2004.

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Painting Unbound

Dan Flavin, untitled (to the “innovator� of Wheeling Peachblow), 1963. Luce elettrica, luci fluorescent gialle e rosa; lunghezza cm 245. Foto Billy Jim. Courtesy: Stephen Flavin and David Zwirner, New York


Pittura senza limiti Per dieci anni ho preso Donald Judd alla lettera: gli oggetti minimalisti, pensavo, si oppongono davvero a qualsiasi illusionismo pittorico o spazio virtuale. Ma fino a che punto questa affermazione si addice veramente al suo lavoro, quello giovanile come quello maturo, o al lavoro del collega e amico Dan Flavin? Più in generale: qual è stata la sorte dell’opposizione tra “oggetti specifici” e spazio illusionistico dopo il Minimalismo? E qual è stato il ruolo di artisti come Judd e Flavin in questa vicenda?1 In passato ho sostenuto che il Minimalismo avesse costituito uno snodo tra la pittura tardo-modernista (da Barnett Newman a Frank Stella, per intenderci), punto di rifermento cruciale per Judd, Flavin e gli altri, e l’arte postmodernista, che cercava un superamento dei medium tradizionali attraverso una molteplicità di materiali, processi e situazioni; e che un punto imprescindibile di questa soluzione di continuità fosse stata la formulazione, fin dagli inizi del Minimalismo, dell’“oggetto specifico”, di contro ai retaggi illusionistici ancora presenti nella pittura tardo-modernista2. Tuttavia, è possibile che il Minimalismo, benché teoricamente opposto a questo illusionismo, ne sia di fatto anche sorretto? Che vi sia legato e addirittura profondamente coinvolto? Nella mia formulazione della letteralità, a sua volta influenzata da pratiche postminimaliste come la Process Art, la Body Art e il site-specific, avevo sorvolato su come, nel Minimalismo, l’illusionismo possa non solo essere mantenuto, ma addirittura allargato: si pensi alle superfici riflettenti e alla profondità rifrangente di alcuni box di Judd, o al colore brillante e alla coinvolgente luminosità delle tipiche “luci” di Flavin. O ancora, si consideri come una forma di illusionismo possa scaturire dagli effetti ottici di quell’arte fatta di “luce e spazio” che si sviluppò insieme e oltre al Minimalismo (ne sono esempi i cubi di vetro riflettente di Larry Bell, i dischi di luce raggianti di Robert Irwin, gli ambienti di luce colorata di James Turrell, e così via)3. Per farla breve, se è vero che il Minimalismo contestava i retaggi illusionistici della pittura tardo-modernista, quanto andò a fondo in questa critica, e per quanto tempo? Si trattava forse solo di una rottura parziale e momentanea, una trovata polemica lungo la strada che avrebbe portato al recente trionfo del virtuale (nel pittorialismo digitale di tanta fotografia odierna, ad esempio, o nelle immagini proiettate nella video-installazione), peraltro tutto fuorché limitato all’arte, ed esteso ad esempio, come abbiamo visto, all’architettura? Quest’ultima ipotesi mi porta a domandarmi se, per quanto il Minimalismo rimanga uno snodo fondamentale nella produzione artistica del Ventesimo secolo, i suoi postumi non costituiscano anche, per certi versi, una catastrofe. 193


Building contra Image

Promenade, 2008. Acciaio impermeabilizzato. 5 lastre, m 17 x 4 x cm 12,5. Installazione lungo la navata principale del Grand Palais, Parigi, 2008. Foto: Philippe Monsel


Costruzione vs. Immagine

Hal Foster: Fin dall’inizio, praticamente, hai orientato i tuoi svariati interessi in relazione alla “scultura”. Perché?1 Richard Serra: Credo di potertelo dire. Iniziai con i Prop. Come fai a tenere una forma in equilibrio contro una parete? Come fai a usare questa forma sulla parete per tenerne in equilibrio un’altra che viene dal pavimento? Come puoi appoggiare due cose l’una sull’altra in modo che stiano in piedi? I Prop non avevano precedenti, non erano uno sviluppo degli “oggetti specifici”. Avevo fatto i rotoli di piombo sul pavimento: mi ero accorto che potevo prendere un materiale, arrotolarlo, e quello che ottenevo era comunque un oggetto, anche se faceva riferimento innanzitutto al suo stesso processo produttivo. Il Minimalismo era completamente distaccato dal processo, mentre io ero interessato alle manifestazioni del fare, del guardare e del camminare. In un certo senso, tutti i Prop iniziali si relazionano al corpo, in termini di peso e contrappeso; sono anzi un riferimento astratto al corpo. In seguito, mi sono dedicato ad House of Cards: per quanto sembrasse sul punto di crollare, di fatto stava in piedi autonomamente. Ci si poteva guardare dentro e attraverso, camminarci intorno, e pensai, “Non si scappa, questa è scultura”. Mi resi conto di quali fossero le mie responsabilità. Se dici di essere un “artista”, ti sono concesse molte cose, non hai bisogno di sceglierti un’etichetta legata ad una particolare tradizione. So che si tratta di una cosa molto convenzionale, dire “sono un pittore” o “sono uno scultore”. Ma da giovane, quando mi trovavo a Parigi, non per niente stavo seduto tutte le sere di fronte a Giacometti al La Coupole, e non per niente mi recavo tutti i giorni allo studio di Brancusi. Mi davano forza. Così, dopo aver realizzato la House of Cards, sapevo perfettamente che si trattava di una scultura, non potevo più fare finta di niente. Non era una questione di né… né. Forse ritenevi che il peso della tradizione, in scultura, non fosse soffocante come in pittura, che potesse lasciarti più spazio d’azione? Sì, lo consideravo apertissimo. Non volevo fare la scultura così com’era in precedenza, ma avendo sviluppato una certa conoscenza della tettonica, pensavo che avrei fatto una mia scultura. A parte i punti di riferimento costituiti da Giacometti e Brancusi, c’erano altre fonti, ad esempio David Smith e Mark Di Suvero?

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Hal Foster °

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Cheeseman, Wendy, 20 Cooke, Lynne, 110, 115 Corner, James, 103 Crane, Hart, 152 Crompton, Dennis, 4 Dalí, Salvador, 11, 12 Darboven, Hanne, 115–6 Davies, Mike, 28, 31 De Maria, Walter, 112 de Menil, Dominique, 109–10 de Menil, Philippa, 109–10 de Menil Collection, 52, 56–7, 59 Debord, Guy, 125 Deleuze, Gilles, 161 Derrida, Jacques, 284n49 Dia Art Foundation, 108 Dia Center for the Arts, 111 Dia:Beacon, 109, 117–9, 122–3, 226, 261n12, 261n14, Diderot, Denis, 146 DS+R (Diller Scofidio + Renfro). See also postmodernism about, viii, 257n1, 259n21 approach to site, 259n29 Duchamp, Marcel, 8, 92, 144, 235, Eames, Charles and Ray, 21, 56 Eisenman, Peter, 74, 79, 247n9, 256n16, 272n69 Eliasson, Olafur, 212–4, 286n61 Eliot, T.S., 269n49 Engels, Friedrich, 63 Expressionist architecture, 5, 74,

Foucault, Michel, 173 Frampton, Kenneth, 67, 150, 151, 250n30, 268n41, 269n42, 269n44, 269n46 Freud, Sigmund, 253n6 Fried, Michael, 118, 214, 268n32, 271n62 Friedrich, Heiner, 109, 110, 118–9 Fuller, Buckminster, 4, 9, 50, 56 Futurist architecture, 74, 85, 86

Garrels, Gary, 110 Gehry, Frank Giedion, Sigfried, 3, 106, 260n4 813g.indd 293 Giuliani, Rudolph, 101 Gluckman, Richard, 106, 108, 112, 113 Gober, Robert, 110 Goethe, Johann Wolfgang von, 256n17 Govan, Michael, 114, 115, 261n15, 280–1n26 Graham, Dan, 285n56 Graves, Michael, 1 Gray, Camilla, 192–3, 196 Greimas, A.J., 247n8 Gropius, Walter, 74, 104, 117 Guggenheim Bilbao (Gehry), 14, 116, 221, 230, 263–4n34 Guggenheim Museum, 114 Habermas, Jürgen, 257n29 Hadid, Zaha Harrison, Wallace, 259n30 Hays, Michael, 95–6, 251n38 Heidegger, Martin, 173 Heizer, Michael, 117, 138, 218 Herron, Ron, 4 Herzog, Jacques, and Meuron, Pierre de about, viii, x Hesse, Eva, 159 Hollein, Hans, 261n14 Holzer, Jenny, 110 IG (Independent Group), Irwin, Robert, viii, 115, 183, 206– 9, 229, 283n39, 284n49 Isles, Chrissie, 274n10 Izenour, Steven, 248n4 Jameson, Fredric, 246n3, 247n8 Jencks, Charles, 263–4n34 Jodido, Philip, 58 Johns, Jasper, 192, 240 Johnson, Philip, 77, 259n3 Joyce, James, 280–1n26 Judd, Donald, viii, 108, 134, 135, 145, 182,


184, 185, 187, 188, 207–9, 218, 265n6, 277n2 Kahn, Louis, 23, 55, 150 Kandinsky, Wassily, 275n16 Kant, Immanuel, 211 Kaprow, Allan, 196 Kelly, Mary, 258n14 Kiley, Dan, 259n30 Koolhaas, Rem 11, 12 Kracauer, Siegfried, 285n57, 286n62 Krauss, Rosalind Krens, Thomas, 114 Krier, Léon, x Kubler, George, 136 Kundera, Milan, 62 Lapidus, Morris, 7 813g.indd 295 Laugier, Abbé, 150 Le Corbusier Leibniz, Gottfried, 161 Leider, Phil, 207, 209 Levinas, Emmanuel, 275n19 LeWitt, Sol, 84 Libeskind, Daniel, 251–2n39 Littlewood, Joan, 5 Loos, Adolf, 49–50, 246–7n6 Lord, Chip, 8. Louis, Morris, 196, 204 Lynn, Greg, 256n16 Maillart, Robert, 151, 152, 221 Makowski, Zygmunt, 55 Malevič, Kasimir, 72–3, 74–5, 76, 77 Marey, Étienne-Jules, 93 Markov, Vladimir, 198, 280n19 Marquez, Hudson, 8. Martin, Agnes, 115 Marx, Karl, 63 Mattè Trucco, Giacomo, 65 MAXXI (Roma), 71, 73, 116 McCall, Anthony 273n4, 274n6, 277n30

McLaren Technology, 36 Meier, Richard, 74 Menil Collection, 52, 56–7, 59 Merleau-Ponty, Maurice, 210 Mies van der Rohe, Ludwig, 12, Miss, Mary, 246–7n6 Mitchell, Michael, 246–7n6 Moholy-Nagy, László MoMA (Museum of Modern Art), 77, 119, 120, 121, 122, Moore, Charles, 1 Morris, Robert, 145, 265n6, 282n35 Mosakowski, Susan, 92 Museum of Modern Art (MoMA), 77, 119, 120, 121, 122, 262–3n23 Muybridge, Eadweard, 93 Nabisco, 115 New Museum, 120 Newman, Barnett, viii, 192, 266n10, 284n53 813g.indd 297 Noland, Kenneth, 204 Nouvel, Jean, 124, 126 Novalis, 285n60 Obrist, Hans Ulrich, 258n9 Oldenburg, Claes, 13, 249n21 Olitski, Jules, 204 Ove Arup & Partners, 56, 253n2 painting, 182–214, 277n2 Palermo, Blinky, 115 Paxton, Joseph, 47–8 Pevsner, Nikolaus, 3 Piano, Renzo 10, 19–20, 52, 56 Pollock, Jackson, 133, 196, 266n10 Poons, Larry, 204 Pop design, 1–16, 107, 251–2n39 Postminimalism, 182 Potts, Alex, 284n52 Powell, Kenneth, 20 Price, Cedric, 5 249


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