Progettare oggi il mondo di domani. Ambiente, economia e sostenibilità
di John Thackara
© 2017 Postmedia Srl, Milano Published by arrangement with Thames & Hudson Ltd, London, How to Thrive in the Next Economy © 2015 Thames & Hudson Ltd This edition first published in Italy in 2017 by Postmedia Books, Milan Italian edition © 2017 Postmedia Srl Traduzione dall'inglese di Antonella Bergamin Cover design by Lisa Ifsits www.postmediabooks.it ISBN 9788874901944
Progettare oggi il mondo di domani Ambiente, economia e sostenibilitĂ John Thackara
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1 Cambiare: 7 dalla riduzione del danno al miglioramento dell’esistente 2 Radicarsi: 21 dal risanamento del suolo a pensare come una foresta 3 Tutelare le risorse idriche: 35 dalla raccolta dell’acqua piovana al recupero dei fiumi 4 Abitare: 51 dalla depavimentazione della città ai percorsi di impollinazione 5 Nutrire: 71 dall’agricoltura sociale al cibo come bene comune 6 Vestirsi: 89 dal terriccio alla camicia e dal suolo alla pelle 7 Spostarsi: 103 dalle bici cargo al pendolarismo cloud 8 Avere cura: 127 dalla cura al prendersi cura, da me a noi 9 Beni comuni: 143 dal denaro sociale all’arte di ospitare 10 Sapere: 163 dai modi di vedere ai modi di agire Note Bibliografia Ringraziamenti Indice nomi
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Cambiare: dalla riduzione del danno al miglioramento dell’esistente
Mentre percorriamo la lunga strada campestre che collega Kanpur a Lucknow nell’Uttar Pradesh indiano, ci imbattiamo, a un polveroso incrocio, in un gigantesco schermo piazzato sul piano di un camion. Insieme a una dozzina di abitanti del villaggio, quattro ciclisti e una mucca, ci mettiamo a fissarlo incantati. A sinistra dello schermo appare il paesaggio rovente, polveroso e desolato sulle due rive del fiume Gange al centro della cui gigantesca pianura fertile ci troviamo ora. A destra dello schermo risplende un futuro migliore: città pullulanti di vita, catene di montaggio robotizzate e treni ad alta velocità. A questa sequenza prima–e–dopo segue un video a schermo intero nel quale le simulazioni di edifici residenziali spuntano come funghi dalle scintillanti distese erbose che costeggiano le rive del Gange. “Benvenuti a Trans–Ganga High Tech City”, spiega la voce fuori campo. “Possa la fortuna essere sempre a vostro favore”, mormora la mia giovane compagna. “Sembra Hunger Games”, dice, spiegandomi il riferimento a un film che sono l’unico al mondo a non aver visto nel quale una ragazza di nome Katniss vive in una nazione distopica e post–apocalittica. Ogni anno il Campidoglio, dove vivono i ricchi, afferma il proprio potere sulle regioni povere che lo circondano organizzando gli Hunger Games nei quali ragazzi e ragazze, scelti attraverso una lotteria nelle aree povere, si sfidano in una battaglia all’ultimo sangue trasmessa in diretta televisiva. Apprendo così che “Possa la fortuna essere sempre a vostro favore” è la frase che l’odioso presidente proferisce all’apertura dei Giochi nei quali tutti i concorrenti salvo uno moriranno. Trans–Ganga High Tech City sembra proprio una copia di Hunger Games: una luccicante città recintata circondata da miseria sociale e paesaggi degradati. Trans–Ganga è una delle cento città indiane chiavi in mano che le società immobiliari hanno in programma di realizzare su aree verdi totalmente ripulite dai piccoli agricoltori e dalla biodiversità che le abitano. Agli investitori si assicura che saranno approvate leggi speciali per garantire che milioni di indiani poveri siano “esclusi dai privilegi di questa grande infrastruttura”1. Gli impatti fisici e sociali sono già abbastanza inquietanti ma sono le voci 7
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Terra”, una “trasformazione globale dei valori” di questo tipo è già iniziata26. Questo modello di pensiero post–materialista non è prerogativa solo dei verdi dei paesi sviluppati. Secondo il WGBU, Una maggioranza significativa in Corea del Sud, Messico, Brasile, India e Cina “sostiene misure ambiziose di protezione del clima” e “accoglierebbe con favore un nuovo sistema economico” volto a realizzare questo risultato27. Anche se i valori descritti dal WGBU sono “latenti” – e tutta una serie di leggi, oltre che l’inerzia istituzionale, rimangono un ostacolo – la conclusione è che il cambiamento politico e sociale sul terreno è reale, e sempre più consistente. Da qui scaturisce un interrogativo interessante: se sono possibili cambiamenti di paradigma profondi nelle visioni scientifiche del mondo; se, come hanno dimostrato gli scienziati, le “sorprese ecologiche” possono trasformare i sistemi naturali; e se, come prevedono i think tank militari, gli stati monolitici di oggi possono essere trasformati mediante la “multi–polarizzazione”, in questo caso, è sicuramente possibile che un cambiamento di fase profondo nei sistemi di convinzioni culturali stia letteralmente strappando l’asfalto dalla strada per consentire la comparsa di qualcosa di completamente nuovo. Questo scenario implica una conseguenza incoraggiante. Se, in un’epoca di reti, anche le azioni più piccole possono contribuire alla trasformazione dei sistemi nel loro complesso, allora, forse, i nostri sforzi appassionati ma finora striminziti non sono stati del tutto vani. È come l’immagine di un puzzle che emerge lentamente con l’aggiunta di un pezzo dopo l’altro.
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Radicarsi: dal risanamento del suolo a pensare come una foresta
È una giornata calda nelle colline pedemontane delle Cévennes, l’area montana della Francia dove risiedo, e mi ritrovo a spalmare un composto fatto di farina di ossa, sangue rappreso, gusci di ostrica tritati e cenere su un cumulo sempre più consistente di legna, rami, foglie e paglia. Ogni strato viene condito, come se fosse sale e pepe, da questo composto polveroso di minerali e attivatori biologici. La preparazione stimola lo sviluppo delle radici, la produzione di micro–organismi del terreno e la formazione di humus. Dobbiamo lavorarci in sei per una giornata intera ma il nostro docente Robert Morez ci assicura che questo cumulo di Cévenol apporterà nutrienti alle piante e garantirà un’efficace ritenzione dell’acqua per un periodo di quattro anni almeno, forse anche più a lungo1. L’invito spiegava che avrei imparato “a costruire un tumulo biointensivo da piantumazione”, ma nella mia mente so che per la prima volta nella mia vita sto producendo suolo, invece di impoverirlo. Durante le pause, che servono, anche a noi, per fare rifornimento di sostanze nutritive, mi spiegano che un terreno sano è a sua volta un sistema vivente – il medium più denso e diversificato di organismi interdipendenti sulla Terra. Un solo cucchiaio di terra contiene circa 50 miliardi di microbi; una sola badilata di terra può contenere più elementi viventi di tutti gli esseri umani mai nati2. Anche là sotto c’è un mondo di intelligenza interconnessa. Interazioni incredibilmente complesse sono alla base delle reti di flora e cibo alle quali dobbiamo tutti la nostra esistenza. In una foresta secolare, milioni di delicatissimi funghi micorrizici si avviluppano alle radici delle piante formando gigantesche reti neurologiche sotterranee. Questi mosaici intrecciati di micelio pervadono gli habitat di membrane capaci di condividere informazioni che sono consapevoli, reagiscono al cambiamento e sono collettivamente improntate alla salute a lungo termine dell’ambiente che le ospita. Questa rete gigantesca e invisibile non si limita a veicolare acqua e sostanze nutritive: diffonde anche le informazioni, e lo fa su distanze notevoli; un normale filamento di fungo micorrizico può avere un’estensione centinaia o migliaia di volte quella della radice di un albero. Questa comunicazione chimica tra 21
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urbane sono in genere ben più interessati a rimanere in contatto gli uni con gli altri che con il suolo. In un mondo in cui meno della metà delle persone vede o tocca il suolo, chiedere alla popolazione urbana di identificarsi con i lombrichi sembra davvero una richiesta esagerata. Per molti anni ho nutrito le stesse perplessità, ma poi ho avuto la rivelazione mentre mi trovavo su un’isola in Svezia dove una cinquantina tra designer, artisti e architetti si erano riuniti per partecipare a una scuola estiva e confrontarsi su due interrogativi: “Che sapore ha questo sistema alimentare?” e “Come pensa questa foresta?”. La mia preoccupazione che il suolo vivente non fosse in grado di smuovere questi progettisti abituati a vivere in città si è rivelata infondata. È stato come spingere una porta aperta: i nostri studenti si sono messi a raspare nella foresta di Grinda come tanti topi di campagna. Hanno individuato una serie di sistemi per catturare il sapore della foresta e metterlo in un recipiente. Hanno preparato biscotti con le bacche del bosco e li hanno barattati con i turisti. Hanno creato sentieri tattili per consentirci di percepire la foresta attraverso i piedi. Un designer lettone ha preparato uno sciroppo a base di pigne e l’ha dato al Professore, che ha apprezzato enormemente. Una squadra ha inventato una Cerimonia di Assaggio del Suolo. Hanno preparato infusi con dieci tipi diversi di bacche presenti sull’isola e li hanno esposti insieme a campioni di terreno prelevati nella zona dove cresce ognuna delle piante; i campioni di terra sono stati esposti in calici da vino. Poi siamo stati invitati a confrontare il gusto degli infusi e quello della terra in silenzio. È stato un momento molto intenso. Pensare ai sistemi, ho concluso, diventa un’esperienza davvero trasformativa se abbinata alla percezione dei sistemi – che è qualcosa che tutti noi bramiamo. “Noi aneliamo a trovare un legame gli uni con gli altri, e con l’anima”, scrive Alastair McIntosh, “ma dimentichiamo che, come il lombrico, anche noi siamo un organismo del suolo. Anche noi abbiamo bisogno di radicarci”28.
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Tutelare le risorse idriche: dalla raccolta dell’acqua piovana al recupero dei fiumi
In Brasile, il monumentale albero Jequitibá [o Patriarca da Floresta, NdT] sposta centinaia di litri d’acqua nella sua chioma ogni giorno senza bisogno di pompe o di elettricità o di nessuna delle infrastrutture costose e ad alto uso di risorse dalle quali dipendono le città moderne. Per me l’albero Jequitibá rappresenta un simbolo vivente di un futuro emergente nel quale i modi in cui usiamo e con i quali pensiamo all’acqua sono nuovamente fondati sulla conoscenza del luogo e della risorsa idrica e non su una meccanica assetata di energia che prevede di trasportarla altrove. Da secoli, scaviamo, costruiamo dighe e canali e cementifichiamo fiumi e risorse idriche senza preoccuparci molto delle conseguenze. Ci abbiamo costruito sopra le nostre città. Li abbiamo riempiti di inquinanti. Abbiamo pompato dal sottosuolo acque di falda un milione di volte più rapidamente di quanto la natura sia in grado di ricrearle. E abbiamo costruito dighe – 48.000 grandi dighe, e il numero è destinato a crescere1 – che comportano l’evacuazione di intere popolazioni sconvolgendo l’equilibrio idrogeologico, estuari e lagune. L’uso estrattivo a scala industriale che facciamo dell’acqua ha anche accelerato il cambiamento climatico. Quando l’acqua viene spostata dal luogo in cui la natura l’aveva collocata, in bacini idrici e falde acquifere, i fiumi non raggiungono più l’oceano, le falde si prosciugano e i deserti si espandono. E quando la vegetazione scompare dal territorio, se ne va anche la biomassa verde che in precedenza assorbiva l’acqua piovana; i vapori delle nuvole scompaiono e i deserti sostituiscono gli ecosistemi viventi. L’albero Jequitibá potrebbe essere una fonte di ispirazione per i progettisti e i costruttori di città del mondo che si trovano ad affrontare la precarietà crescente della risorsa idrica, se solo fossimo propensi a prenderla in considerazione. Ma così non è. La frattura metabolica che ho descritto nel primo capitolo ci ha fatto perdere di vista la realtà che l’acqua è un sistema vivente; anche quando ci soffermiamo a pensare all’acqua, la consideriamo un liquido che fuoriesce da un rubinetto. Per capire quanto siamo distanti ormai dalla realtà vissuta dell’acqua, provate a fare questo esperimento mentale. Immaginate di svuotare 35
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Abitare: dalla depavimentazione della città ai percorsi di impollinazione
È l’inizio di settembre. Ogni giorno è buono, ormai, perché la famiglia di rondini che ha trascorso l’estate sotto la grondaia fuori dal mio studio si trasferisca a sud per l’inverno. La maggior parte delle rondini seguirà la costa occidentale dell’Africa per evitare il Sahara; qualcuna potrebbe spingersi ancora più a est lungo la Valle del Nilo. Inizialmente se la prenderanno comoda, fermandosi di tanto in tanto per accumulare grasso di riserva ma poi acquisteranno velocità. Tra quattro mesi, quando qui al nord sarà quasi Natale, avranno raggiunto la loro destinazione: il Botswana, la Namibia o il Sudafrica. Dopo appena due mesi passati a ingozzarsi di insetti, riprenderanno il viaggio epico sulla via del ritorno. Le più robuste ce la faranno in sole cinque settimane, viaggiando per 320 km al giorno (hanno fretta di tornare al loro sito di nidificazione prima che qualche altro uccello se ne appropri). E io che pensavo di essere un recordman degli spostamenti in aereo. Dal punto di vista costruttivo, il nido delle rondini non ricorda certo il Taj Mahal: è una struttura sgangherata, fatta di palline di fango e paglia, appiccicata al muro in modo sbilenco. Ma sembra del tutto adatto alle rondini, o meglio, lo è l’habitat circostante. La loro dimora fisica è un luogo sicuro nel quale allevare i piccoli ma ciò che richiama le rondini ogni anno è l’ambiente nel suo complesso: lo spazio aperto che agevola il volo; l’acqua dolce del fiume; gli insetti da catturare come cibo per sé e i piccoli. Mentre sento le rondini garrire eccitate sopra di me, invidio la leggerezza con la quale riescono a vivere. Penso ai loro bisogni energetici esterni, che sono minimi, e ai prodigiosi flussi energetici e ai miliardi di tonnellate di risorse, assorbite da terre lontane, che occorrono invece alle nostre città per funzionare; gli ascensori nei nostri grattacieli; le gigantesche pompe che ci forniscono acqua e aria e tengono asciutte le nostre metropolitane; il cibo industriale nei nostri negozi; l’acqua che fuoriesce dai rubinetti. Turbato da questo contrasto tra il nostro stile di vita e quello delle rondini, ho girato gli interrogativi seguenti a un’assemblea di amministratori di case: abbiamo davvero bisogno di costruire altre scatole? Davvero la nostra 51
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Nutrire: dall’agricoltura sociale al cibo come bene comune
Qualche tempo dopo essermi cimentato a produrre suolo nelle montagne delle Cévennes, mi è capitato di trovarmi al centro della città di Carlisle, nella zona nord–occidentale dell’Inghilterra, alle sette del mattino. Il piazzale della stazione ferroviaria era ancora deserto: l’unico veicolo parcheggiato era un grande camion dal quale il conducente stava scaricando confezioni di prodotti alimentari destinati a un bar. Dall’unità di refrigerazione posta sopra al camion proveniva un rumore assordante, una sorta di ruggito così forte che non riuscivo a sentire chi mi aveva chiamato al cellulare, motivo per cui cercai riparo nel bar della stazione. Ma la situazione all’interno non era molto diversa: due macchine per bevande refrigerate emettevano un ronzio tale che il barista ha dovuto alzare la voce per comunicarmi il prezzo del caffè. Una volta arrivato a Londra, qualche ora dopo, mi sono fermato a comprare qualcosa da mangiare da Marks & Spencer dove ho notato un altro rumore di fondo ancora più intenso. Nel tentativo di individuarne l’origine, ho contato 78 metri di celle frigorifere in quello che era un supermercato urbano di dimensioni limitate. Quando sono uscito nella strada affollata di veicoli, il rumore delle celle frigorifere si è unito al ruggito del traffico in una combinazione sonora e non solo. La realtà, infatti, è che il frastuono di quel traffico è da imputare in gran parte al cibo: i prodotti agricoli e alimentari rappresentano ormai il 30% delle merci movimentate sulle strade europee: nel Regno Unito il 25% degli spostamenti in auto avviene per procurarsi il cibo. Mangiamo sempre di più anche mentre ci spostiamo: il 70% delle transazioni effettuate nei fast–food statunitensi si concentra nei drive–in. Sempre più veloci, sempre più grassi: una combinazione letale. Sappiamo già che determinati cibi fanno male ma ancora maggiori sono i danni prodotti dai costi silenziosi e invisibili del cibo industriale. Un regime alimentare disordinato e l’inattività fisica provocano il 35% delle morti evitabili negli Stati Uniti (una tendenza in aumento)1, ma la pandemia di obesità dovuta al cibo non colpisce solo il Nord del mondo. A New Delhi l’obesità colpisce un terzo dei bambini in età scolare principalmente a causa della percentuale di zucchero presente nella loro dieta che è aumentata del 40% nell’ultimo postmedia books
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Il cibo come bene comune Le storie di questo capitolo sono percorse da un unico filo verde che racconta gli sforzi compiuti da persone in contesti diversi per ritrovare un legame con il loro cibo: dove viene prodotto, da chi e in quali condizioni. Queste attività pratiche, locali e a scala umana costituiscono i germogli di un’alternativa al sistema alimentare industriale che, in quanto industria estrattiva, è tanto crudele con gli individui quanto lo è con gli animali e con il territorio. Si delinea ormai piuttosto chiaramente quale dovrebbe essere l’approccio corretto: arare il suolo il meno possibile; tenerlo coperto; aumentare la biodiversità. Più che semplici istruzioni, questi sono valori. I nuovi sistemi alimentari sono esperimenti tanto sociali quanto tecnici che si stanno affermando ovunque le persone si organizzano in quanto gruppi in modi nuovi, non solo per coltivare o per ottenere il cibo ma anche per capire come vivere sul territorio e prendersene cura nel modo migliore. I Community land trust (trust fondiari a gestione comunitaria, NdT), ad esempio, sono un’innovazione molto positiva nella base legale dell’agricoltura sociale. I Food Commons di Fresno si pongono un obiettivo di questo tipo, così come la Fordhall Community Land Initiative43 in Inghilterra: una piccola azienda agricola che attualmente conta ottomila proprietari. Questo approccio al cibo concepito come bene comune si fonda sulla cooperazione, sulla condivisione e sulla custodia44.
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Vestirsi: dal terriccio alla camicia, dal suolo alla pelle
Durante un viaggio compiuto in Sri Lanka ho avuto modo di visitare uno stabilimento che produce biancheria intima: è stata un’esperienza insolita anche perché l’impianto era dotato di vasche per la raccolta dell’acqua piovana, digestori anaerobici e un ambiente progettato per conseguire un utilizzo razionale delle risorse idriche. In questo paese i produttori di articoli per l’abbigliamento fanno a gara a chi ha lo stabilimento più ecologico. Se pensiamo che l’industria della moda conta oltre un milione di addetti (su venti milioni di abitanti), si tratta di un settore chiave per l’economia di Sri Lanka. Le aziende devono far fronte a due tipi di pressione: da una parte quella di potenti compratori stranieri come Marks & Spencer (unico cliente dello stabilimento che mi trovavo a visitare), Tesco e Victoria’s Secret: gli addetti agli acquisti di quest’ultimo marchio arrivano in genere su grandi elicotteri per ispezionare i capi spesso minuscoli che porteranno la loro etichetta. L’industria dello Sri Lanka deve fare i conti anche con la concorrenza di altri paesi leader nella produzione per l’abbigliamento, dalla Turchia al Bangladesh, che contano a loro volta centinaia di migliaia di imprese piccole e piccolissime. I grandi compratori globali possono spostare la produzione da un paese all’altro, e lo fanno da un momento all’altro se lo ritengono necessario per ragioni di competitività. Non è cosa da poco che un paese come lo Sri Lanka, sottoposto a pressioni di questa intensità, abbia deciso di basare la propria competitività sul fatto che le sue aziende non solo sono concorrenziali, ma anche etiche e sostenibili. La chiave di volta di questa strategia è una piattaforma denominata Garments Without Guilt [Vestiti senza colpa, NdT]1, che vincola le aziende tessili del paese a tutelare i diritti dei lavoratori, creando opportunità per la formazione e la crescita personale e impegnandosi a ridurre la povertà nelle comunità locali. Al convegno sulla moda etica che costituiva il motivo della mia visita abbiamo sentito parlare molto dei compratori inviati dai marchi globali che sembrano interessati unicamente a ottenere prezzi sempre più bassi. Ci hanno raccontato dei ritmi sempre più forsennati del sistema moda che dettano postmedia books
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Spostarsi: dalle bici cargo al pendolarismo cloud
La grossa Audi che ci è venuta a prendere all’aeroporto di Istanbul sfoggiava un ponte di comandi elettronici degno del nuovo Airbus A380. Come altre auto di lusso di pari livello, le Audi richiederanno ben presto codici software da 200 milioni di righe minimo per funzionare1. Per capire meglio cosa significa questo dato, basta pensare che l’avionica e i sistemi di controllo a bordo del nuovo 787 Dreamliner della Boeing utilizzano meno di sette milioni di righe. Quindi le automobili moderne sono estremamente intelligenti, giusto? Beh forse, o forse no. Immaginiamo che il proprietario di uno di questi veicoli da due tonnellate lo guidi per un chilometro per andare a prendere una pizza da 300 g per la cena di sua figlia: si tratta di una scelta intelligente? E se le cavallette che volano in sciami da milioni di individui non si scontrano tra loro, come mai le automobili di oggi “hanno bisogno” di tanta potenza informatica? L’Audi Urban Future Award, il premio del quale sono stato invitato a presiedere la giuria a Istanbul, non ha eluso questo e altri interrogativi imbarazzanti perché la posta in gioco era molto alta. I “future watcher” che lavorano per la Audi avevano notato una tendenza preoccupante nelle visioni riguardanti il futuro delle città che in modo sempre più diffuso non prevedono la presenza di automobili2. Ai problemi di congestione paralizzante, mancanza di spazio e inquinamento atmosferico questi scenari riguardanti il futuro della città sembrano rispondere con soluzioni che fanno a meno delle auto. Volendo capire cosa potrebbe significare questa tendenza per un’industria automobilistica, la Audi ha promosso la Urban Future Initiative per aprire un dialogo sulla sinergia tra mobilità, architettura e sviluppo urbano. Esperti di vari settori sono stati chiamati a discutere di soluzioni innovative per concepire la mobilità in modo collettivo e olistico nelle città. La giuria formata dalla Audi per valutare queste proposte era altrettanto diversificata: ne facevano parte, ovviamente, architetti ed esperti di mobilità ma il nostro gruppo comprendeva anche uno scrittore, un filosofo, un curatore, un designer di reti, un ingegnere esperto di energia solare e un regista. 103
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Avere cura: dalla cura al prendersi cura, da me a noi
Quando sono arrivato al Centre for Innovation della Mayo Clinic, ho sentito l’organizzatore del convegno al quale ero stato invitato affermare che “gli specialisti più preparati in un dato ambito non rappresentano i migliori innovatori”. Si trattava di un’affermazione incoraggiante perché mi autorizzava a ritenermi più che qualificato a mettere in guardia uno dei più autorevoli centri di medicina universitaria del mondo, dove ognuno dei 60.000 addetti sa più di medicina di quanto ne sappia io, dal rischio di collasso catabolico che corre il sistema sanitario americano, e a dare consigli sui possibili rimedi a tale situazione. La riflessione fondamentale che intendevo proporre all’evento organizzato alla Mayo era che il picco del petrolio, e il picco del grasso, stanno trasformando la logica che governa attualmente il sistema biomedico globale. In primo luogo perché la transizione energetica che stiamo affrontando renderà insostenibile uno dei sistemi a maggiore intensità energetica del mondo. E in secondo luogo perché, fintanto che il sistema medico continuerà a occuparsi delle cause delle malattie con la stessa efficienza con cui si occupa degli effetti, la popolazione continuerà ad ammalarsi sempre di più. L’edificio principale della Mayo Clinic è una grande costruzione argentea che proclama a gran voce due cose: autorità e intensità energetica. Se cerchiamo su Google “salute” e “efficienza energetica”, la maggior parte dei risultati riguarderà gli edifici ospedalieri e i tentativi di renderli “più ecologici”. Ma gli edifici ospedalieri sono solo uno degli elementi all’interno di un grande sistema distribuito che è sia materialmente pesante che complesso in un modo che lo rende estremamente bisognoso di energia. A livello pratico, la maggior parte dei beni di consumo utilizzati all’interno di qualunque ospedale sono derivati del petrolio: dagli analgesici agli anti–istaminici fino alle valvole cardiache, agli impianti e alle protesi, alle ambulanze e agli elicotteri. Ma l’energia che si può misurare, come quella usata dagli edifici e dalle supposte, è solo una parte del contesto; il fabbisogno energetico totale di qualunque attività imprenditoriale, comprese quelle di tipo sanitario, è quattro o cinque volte maggiore di quanto sia mai stato misurato. Ad esempio, uno studio recentemente condotto nel 127
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Negli Stati Uniti, cinquantasette centri sanitari universitari, tra cui Mayo, Allina e Harvard, si sono consorziati in un organismo denominato Integrative Medicine32. E nel 2014 è nata l’Academy of Integrative Health and Medicine (AIHM) a partire dall’idea che la salute passa principalmente dalla vitalità (o meno) di cibo, acqua, aria e altri ecosistemi, non dai trattamenti erogati negli ospedali. Il collegamento con il cibo si sviluppa ulteriormente: l’AIHM sta promuovendo il principio della salute come bene comune nel quale la salute degli ecosistemi, e delle persone che vivono al loro interno, deve essere considerata in modo unitario.
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Beni comuni: dal denaro sociale all’arte di ospitare
In un sonnacchioso villaggio a un’ora da Bangalore, in India, incontro un gruppo di residenti raccolti intorno a un grande cumulo di ragi (un cereale utilizzato per fare il pane nero), disposto in uno strato sottile sulla strada in un bel cerchio del diametro di sei metri. Sei galline becchettano il grano mentre gli abitanti del villaggio guardano e chiacchierano tra loro. Perché, chiedo, non mettono il grano in una mangiatoia? Gli astanti ridono, bonariamente, e poi mi spiegano che le galline in realtà mangiano vermi così piccoli da risultare invisibili che vanno asportati dal grano prima di poterlo riporre nel granaio. È una soluzione intelligente e low–tech a un problema pratico che assilla i contadini di ogni dove. Quando torno a casa, digito “disinfestazione grano” su Google e mi compare una risposta ipertecnologica: “Opico Model 595 Queit Fan Batch Dryer With Sky–Vac Grain Cleaner”. Quando si tratta di fare di più con meno risorse, mi dico, il mio villaggio vicino a Bangalore batte la Bay Area californiana a mani basse. La parola “sviluppo” è spesso utilizzata per insinuare che noi gente avanzata del nord dobbiamo aiutare i popoli del sud arretrato a raggiungere la nostra condizione. Ma proviamo, invece, a pensare che il cittadino americano medio emette in un solo giorno la stessa quantità di CO2 che un cittadino cinese emette in una settimana, o che un tanzaniano emette in sette mesi. Oppure che un turista di un paese ricco utilizza in 24 ore la quantità di acqua che un contadino del paese che visita consuma in 100 giorni. Vogliamo davvero che queste popolazioni frugali diventino come noi? La parola “sviluppo” sembra avere senso solo per chi vuole imporre quello sviluppo a qualcun altro1. Dall’epoca coloniale a oggi, i ricchi del nord hanno continuato a ritenere senza alcun dubbio il nostro stile di vita più avanzato di quello di tutti gli altri. In particolare, abbiamo tendenzialmente considerato le popolazioni e gli stili di vita esistenti in quei luoghi come ostacoli al progresso e alla modernizzazione. Questo atteggiamento ha portato a uno tsunami di impatti negativi con la progressiva crescita dell’economia globale. Oggi dieci milioni di persone subiscono ogni anno l’allontanamento forzato dalle loro case e 143
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piccola – ognuna delle quali corrisponde a un modo nuovo di alimentarci, ripararci e curarci, in collaborazione con i sistemi viventi – il processo diventa sempre più agevole. Come dice Arundhati Roy, “Un altro mondo non è solo possibile, sta arrivando. Nelle giornate calme, lo sento respirare”49. In altri termini: oggi siamo tutti economie emergenti.
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Sapere: dai modi di vedere ai modi di agire
La mente umana consuma meno energia di una lampadina domestica: questa la scoperta annunciata con grandi squilli di tromba dagli scienziati di Harvard1. Se pensiamo che conta ben 86 miliardi di neuroni e una potenza di calcolo fenomenale, si tratta di una performance tecnica notevole. L’unico difetto del nostro cervello però, è che nemmeno lontanamente ha dimostrato finora una saggezza pari alla sua efficienza energetica: i nostri cervelli con funzionamento a freddo trovano del tutto normale consumare risorse non rinnovabili, a un ritmo sempre più accelerato, in un mondo non infinito. Anche quando sono informati sui gravi costi ambientali e sociali di questo comportamento restano indifferenti e, mancando un’esperienza diretta del contrario, pensano abitualmente che tutto andrà per il meglio. Dunque, il problema non è l’incapacità di elaborazione da parte dei nostri cervelli che, semmai, si trovano a elaborare dati incompleti. Come ho spiegato nel primo capitolo, tutta la nostra società è diventata cieca a livello cognitivo per effetto di una frattura metabolica intervenuta tra l’uomo e la Terra. Le superfici pavimentate e la pervasività dei media ci impediscono di esperire direttamente il danno che stiamo infliggendo ai suoli, agli oceani e alle foreste. La frattura metabolica spiega la nostra capacità di porre la salute dell’“economia” al di sopra di ogni altra preoccupazione. La sua stessa esistenza dimostra che “la catastrofe ecologica è già accaduta”, come recita la memorabile dichiarazione di Timothy Morton2. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Anche chi deve preoccuparsi delle conseguenze per lavoro ragiona in modi bizzarri. Ad esempio, molti brillanti esponenti della finanza e dell’impresa sono intellettualmente consapevoli di vivere in un mondo finito, però rimangono ostinatamente convinti che la crescita economica sia di per sé una cosa buona. Pur essendo figli di un mondo di numeri, sono stranamente indifferenti alle implicazioni della crescita esponenziale. Restano anche incredibilmente ottimisti sulla possibilità di un cambiamento imprevedibile e non lineare; accettano intellettualmente che anche quegli eventi che definiamo con la teoria del 163
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Note
Capitolo 1: Cambiare 1 Vidyut, “Smart Cities or Cleverly Disguised Corporate Colonies”, Aam janata, 14 febbraio 2015, https://aamjanata.com/smart–cities–cleverly– disguised–corporate–colonies/ 2 Bardi, Ugo, “Tainter’s law: Where is the physics”, Our Finite World, 27 marzo 2011, http:// ourfiniteworld.com/2011/03/31/tainters–law– where–is–the–physics 3 Fernández–Savater, Amador, “Strength and Power Reimagining Revolution”, Guerrilla Translation, 29 luglio 2013, http://guerrillatranslation. com/2013/07/29/strength–and–power– reimagining–revolution/comment–page–1/ 4 Macy, Joanna, “The Great Turning”, Ecoliteracy, http://www.ecoliteracy.org/essays/great–turning 5 Morin, Edgar, Homeland Earth: A Manifesto for the new Millennium – Advances in Systems Theory, Complexity and the Human Sciences, Hampton Press, New York 1999 6 De Lond, Brad, “Earl Cook’s Estimates of Energy Capture”, Grasping Reality, 22 gennaio 2012, http:// delong–typepad.com/sdj/2012/01/earl–cooks– estimates–of–energy–capture.html 7 Murphy, Tom, “Can Economic Growth Last?”, Do The Math, 14 luglio 2011, http://physics.ucsd.edu/ do–the–math/2011/07/can–economic–growth–last 8 Tverberg, Gail, “Energy and the Economy – Twelve Basic Principles”, Our Finite World, 14 agosto 2014, http://ourfiniteworld.com/2014/08/14/ energy–and–the–economy–twelve–basic–principles/ 9 Glover, John, “Global Debt Exceeds $100 Trillion as Governments Binge”, Bloomberg, 9 marzo 2014, http://www.bloomberg.com/news/2014–03–09/ global–debt–exceeds–100–trillion–as–governments– binge–bis–says.html 10 Tverberg, Gail, “WSJ Gets it Wrong on ‘Why Peak Oil Predictions Haven’t Come True’, Our Finite World, 6 ottobre 2014, http://ourfiniteworld. com/2014/10/06wsj–gets–it–wrong–on–why–peak– oil–predictions–havent–come–true/ 11 Commons Strategy Group, “The Coming Financial Enclosure of the Commons”, Shareable, 11 giugno 2013, http://www.shareable.net/blog/the– coming–financial–enclosure–of–the–commons 12 “The Financialisation of Nature: Linking food, land grabs, climate & mining”, Gaia Foundation, 10
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Bibliografia
John Thackara
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Indice dei nomi
Abbigliamento 89–101 Agamben, Giorgio 149 Agger, Peder 111 Agostino, Sant’, Città di Dio 168 Agricoltura 22, 23, 25, 26, 27, 33, 36, 41, 45, 46, 55, 58, 61, 65, 72, 73, 76–80, 82, 84–88, 91, 96, 98, 144–146 Agriturismo 84 Agroecologia 86–87 Albania, Shining Cycle Culture 119 Alberi 9, 28, 32, 63, 64, 85, 160, 171 Alliance for a Green Revolution in Africa (AGRA) 73 Allontanamento forzato popolazioni 35, 74, 143 Alpe–Adria Trail 122 Alzheimer’s Society, UK 138 American Forestry Service 64 Animismo 172 Anziani 9, 135–142, 161 Api 62–63, 65, 75, 122, 173 Appreciative Inquiry 158 Aqualon (progetto) 45 Arizona, Università dell’ 38 Articulação no Semiarido–Brasileiro (ASA) 43 Asian Development Bank (ADB) 47 Assistenza sanitaria 132–134, 142, 147 Associated British Foods (ABF) 90 Audi Urban Future Award 103 Automobili, in città 10, 27, 40, 56, 71, 74, 75, 103–125, 144 Bakers Without Borders 78 Bali, sistema idrico 47–49, 154, 157 Banca Mondiale 33 Banca Popolare Etica 150 Bangladesh, progressi sanitari 132 Banks, Sophy 157 Bardi, Ugo 7, 55–6 Baudar, Pascal 63 Becker, Judith 48 Bedale Community Bakery, UK 77 Bedoian, Vic 72 Belgrado, Serbia 52 Beni comuni 146–51 Bennett, Jane 162 Benyus, Janine 62 Berardi, Franco 142 Bergmann, Sarah 61 Bergsten, Arvid 45 Berkeley, Giardino Botanico 94
Berry, Thomas 69, 159 Biciclette 107, 112, 113–118 Biemans, Claudia 63, 64 Big Data 147, 165 Biodiversità 7, 16, 17, 26–29, 31, 33, 45, 61, 65, 69. 78, 80, 86, 88, 123, 154, 173, 174 Biorisanamento 53 Birra 62, 76, 80, 81, 82 Black, Maggie 144 Bollier, David 154, 157 Bordeaux 55.000 (progetto) 53–54 Boskoi (app) 66 Boxtel, Roger van 133–134 Bradshaw, Chris 102 Brandt, Jesper 111 Brasile: albero Jequitibá 35; Piano Nazionale per l’Agroecologia e la Produzione Biologica 86; raccolta dell’acqua piovana 49 Bricks and Bread 60 British Flora 42 British Medical Journal 132 Brixton Beer progetto 76 Brockwell Bake, Londra 81 Buber, Martin 174, 194 Buddismo 172, 176 Buen Vivir (Ecuador) 152–153 Burgess, Rebecca 96 California: Central Valley 36, 75–76 California: Fresno 75–88 California: Sustainable Cotton Project (SCP) 95 Cambiamento climatico 26, 35, 37 Cameron, David 136 Canada 131, 141, Capitalismo 36, 149 Capra, Fritjof 171 Carbone 57, 84 Carbone, Jimmy 80–81 Carlisle, Inghilterra 71, 74 Carson, Kevin 147 Cattan, Elias 40 Cementificazione 58–60, 122 Cemento 28, 52, 56–57, 63, 144 Centers for Disease Control (CDC) 128 Centre for Sustainable Fashion, Londra 91 Cévennes, Francia 71 Chéron, Guilhem 83 Chicago, USA: “Eco–Boulevard” 53
Cibo 11, 16, 21, 22, 26, 30, 32, 47, 51, 55, 57, 61, 64, 68, 71–88, 90, 91, 96, 100, 105, 116, 129, 132, 141, 142, 146, 148, 152, 168 Cina 20, 36, 37, 41, 42, 66, 74, 92, 113, 116, 140 Città Fertile 52–53 Città del Messico 40, 79, Cleveland, Ohio 59–60; agricoltura urbana 75 Cloud 104, 121–122 Coca Cola 74 Collaborative Chronic Care Network 134–135 Colorado, USA 81 Commissione Internazionale sul Cambiamento dell’Uso del Territorio e sugli Ecosistemi 111 Complesso Industria Immobiliare 52, 146 Complesso Medico Industriale 130–132 Conceria 97–98 Conferenza mondiale dei popoli sui cambiamenti climatici (Bolivia) 161 Confini 18, 29 Cook, Earl 10 Correa, Rafael 153 Cotone 86–87, 92 Countryside Stewardship Scheme (Inghilterra) 30 Cuba 79, 132–134 Cullinan, Cormac 159 CycleLogistics (progetto UE) 115 Dahl, Knut Erik 60, 111 Dahle, Cheryl 158 Danimarca 120 De Angelis, Massimo 156 Decker, Kris De 115 Decostruzione, degli edifici 59–60 Demenza 135–139 Denaro 11, 13, 14–15, 22, 58, 77, 86, 99, 111, 123, 128, 137, 141, 146, 148–152, 153, 155, 167 Depavimentazione 55–57, 63 Desertificazione 26 Designs of the Time (progetto) 80 Dewey, John 168 Diamond, Jared 165 Domesday Book (1086) 40 Dongen, Fits van 58 Drescher, James W. 27–28 Duerr, Sasha 94 Dunn, Sarah 53
197