Media, New Media, Postmedia

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Media, New Media, Postmedia di Domenico Quaranta prima edizione Š 2010 Postmedia Srl, Milano seconda edizione Š 2018 Postmedia Srl, Milano www.postmediabooks.it ISBN 9788874900558


Media, New Media, Postmedia Domenico Quaranta

postmedia books


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Introduzione alla seconda edizione

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Prologo

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N ew M edia A rt La questione terminologica Genere o movimento? I limiti cronologici Cosa significa “New Media”? Cosa significa “medium”? Una definizione fondata sul medium? La New Media Art è “un mondo” Mondi dell’arte

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B reve storia della N ew M edia A rt Gli anni Sessanta Gli anni Settanta Gli anni Ottanta I primi anni Novanta


Due mondi a confronto

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Arte contemporanea: l’idea dell’arte Arte contemporanea: la figura dell’artista Arte contemporanea: i confini Arte contemporanea: il valore New Media Art: l’idea dell’arte New Media Art: la figura dell’artista New Media Art: i confini New Media Art: il valore Internet, un nuovo contesto per l’arte Internet: la figura dell’artista Internet: i confini Internet: il valore

New Media Art e arte contemporanea. La danza boho 101 Si aprono le danze (1996 - 1998) The Next Big Thing (1999 - 2001) Gli anni del ripiegamento (2002 - 2010) Una forma specifica di contemporaneità Mercato e collezionismo L a prospettiva postmediale 143 Il breviario del curatore Quale destino per il mondo della New Media Art? La condizione postmediale Nativi digitali Altre prospettive critiche Conclusioni Bibliografia 183



Introduzione alla seconda edizione

Media, New Media, Postmedia è stato scritto tra il 2008 e il 2010, per aiutare innanzitutto me stesso a venire a capo di quello strano conflitto tra mondi dell’arte di cui facevo, e faccio tutt’oggi esperienza quotidianamente, nel mio lavoro di docente, critico e curatore; per metterne a fuoco e spiegarne le dinamiche e le motivazioni profonde, per studiarne e illustrarne gli sviluppi storici, e per indicare una via d’uscita possibile. I mondi dell’arte a cui faccio riferimento sono il mondo dell’arte contemporanea “mainstream”, con la sua popolazione di artisti e professionisti e il suo paesaggio di musei, gallerie, biennali, premi, fiere, riviste; e il mondo della cosiddetta New Media Art, messo a punto tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del Novecento per ospitare, sostenere, nutrire, discutere, valorizzare e conservare la sperimentazione artistica con le nuove tecnologie in una fase storica in cui queste ricerche erano, con poche eccezioni, ignorate dal mondo dell’arte. Il conflitto è, ovviamente, quello relativo al posizionamento di queste pratiche artistiche, in un momento - la svolta di Millennio - in cui, complice l’esplosione della rivoluzione digitale, il mondo dell’arte ha cominciato finalmente a riconoscerne la rilevanza e l’urgenza culturale. Ho definito “strano” questo conflitto perché per chi l’ha vissuto, e lo vive, in prima persona non è sempre facile percepirlo come tale. L’averlo messo a fuoco, rilevandone e illustrandone le dinamiche, rimane probabilmente, almeno a livello personale, una delle massime conquiste di questo volume. Non si tratta di un conflitto armato, con parti ben identificabili per divisa, lingua, territorio e ideologia; eppure, una separazione esiste, ed è rimasta nonostante i notevoli sviluppi che ci sono stati nel periodo - quasi un decennio - che separa la prima stesura di Media, New Media, Postmedia (2010) da questa seconda edizione (2018). Media, New Media, Postmedia . 7


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Gli anni in cui questo libro è stato scritto risentivano ancora fortemente del senso di delusione generato dal fallimento del primo massiccio tentativo di incorporare la New Media Art nel mondo dell’arte mainstream, avvenuto - come si racconta nel quarto capitolo - a cavallo del Millennio. Dopo i fasti di mostre come 010101: Art in Technological Times (MoMA, San Francisco 2001) e Bitstreams (Whitney Museum, 2001), erano numerosi i fattori che contribuivano a generare l’impressione, per molti versi fondata, che l’attenzione del mondo dell’arte contemporanea - soprattutto istituzionale - nei confronti dei linguaggi digitali fosse stato un fuoco fatuo, passato senza lasciare conseguenze significative. Fatti come la crisi della New Economy - che sembrava togliere urgenza culturale all’arte che adottava i linguaggi, i temi e le forme dell’era digitale; come la soppressione o il rallentamento delle attività online di tanti musei (dal Guggenheim al Whitney alla Tate London); come il licenziamento o la marginalizzazione di alcune figure curatoriali emerse nel decennio precedente (ad esempio Steve Dietz, che aveva guidato le New Media Initiatives del Walker Art Center di Minneapolis); o come la scarsa o nulla presenza di artisti di area New Media nei principali eventi di settore. Ma nonostante questa delusione, attorno al 2010 si cominciavano a notare i timidi segnali di un nuovo dinamismo, un senso di ripresa, grazie soprattutto a una nuova generazione di artisti - quella che più tardi sarebbe stata chiamata “generazione post internet” - che, bypassando il problema del mezzo, traducevano il loro lavoro sul vivere in un mondo iperconnesso e intriso di tecnologia in forme - stampe, sculture, video, installazioni accettabili per il mondo dell’arte, costruendo un rapporto con il mercato dell’arte, che era stato, fino a quel momento, l’anello debole della catena. Gli anni successivi hanno visto questo processo consolidarsi. Nel 2011 l’artista americano Cory Arcangel, che già nel 2009 aveva conquistato la copertina di Artforum, si vede offrire un intero piano del Whitney Museum per una corposa personale intitolata Pro Tools, che porta nel museo installazioni realizzate con videogiochi, sculture cinetiche, video collage da YouTube, disegni al plotter, grandi stampe astratte concepite come dimostrazioni dei gradienti di Photoshop, in un dialogo serrato tra pratiche amatoriali e strumenti professionali1. Lo stesso anno, il MoMA PS1 di New York celebra Ryan Trecartin, autore di video installazioni frenetiche, che con un trucco pesantissimo e una recitazione sempre sopra le righe, barocchi effetti di postproduzione e gerghi di internet sembrano catturare il disordine contemporaneo come pochi artisti sono riusciti a fare2.


Ryan Trecartin, K-CoreaINC.K (section a), 2009. Video installazione. Photo: Matthew Septimus. Courtesy MoMA PS1, New York

Nel settembre 2012, Artforum esce con un numero monografico dedicato ai “nuovi media dell’arte”, curato da Michelle Kuo. La pubblicazione ha il sapore di un evento, soprattutto per chi ricorda l’infelice telegramma (menzionato anche da Kuo nella sua introduzione) con cui, nel 1967, l’editor di Artforum Philip Leider rifiutava un manoscritto sulla computer art scrivendo al suo autore: “Non credo che Artforum curerà mai un numero speciale sull’elettronica o sui computer in arte, ma non si può mai sapere”. L’articolo più letto e discusso di questo numero è un intervento di Claire Bishop intitolato significativamente “Digital Divide”, in cui l’autrice, dopo aver constatato il fallimento delle attese dei primi anni Novanta - quella “sensazione diffusa per cui le arti visive sarebbero diventate digitali” - pone domande come:

Hans Ulrich Obrist in conversazione con Ryan Trecartin, DLD14, Monaco 2014. Courtesy DLD Conference


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Quindi, perché ho l’impressione che l’aspetto e il contenuto dell’arte contemporanea abbiano curiosamente fallito il compito di rispondere al cambiamento totale introdotto nella nostra vita lavorativa e privata dalla rivoluzione digitale? Se molti artisti usano le tecnologie digitali, quanti realmente affrontano la questione di cosa significhi pensare, vedere e trasmettere le emozioni attraverso il digitale?3

Bishop dichiara esplicitamente che l’oggetto del suo studio è il mondo dell’arte contemporanea mainstream, non la “sfera specializzata della new media art”, di cui riconosce l’esistenza e la marginalità, ma solo per riconsegnarla a questa sua alterità. Prevedibilmente, l’articolo ha suscitato le immediate proteste di chi sosteneva che Bishop non riuscisse a vedere qualcosa che già c’era; ma “Digital Divide” può essere letto più correttamente a posteriori come la dichiarazione esplicita di una necessità: il bisogno di veder tornare l’arte contemporanea ad assolvere una delle sue funzioni, quella di aiutarci a decodificare il presente; e di riscontrare una maggior corrispondenza tra una quotidianità sempre più segnata dall’impatto del digitale e le pratiche artistiche del nostro tempo. Nel 2012, i tempi sono ormai maturi perché ciò accada. Tra 2012 e 2013, il popolo dei “connessi” raggiunge i 2,6 miliardi di persone (diventeranno 3 miliardi nel 2015). Dalla crisi della New Economy sono usciti giganti corporativi come Google e Facebook. Anche grazie agli smartphone, apparsi sul mercato nel 2007, il social networking è ormai un fatto diffuso. Eventi come la primavera araba, l’emergere di Anonymous, il caso Wikileaks, l’affare Snowden, l’economia virtuale dei Bitcoin, risvegliano in tutti, compresi i non connessi, la sensazione di vivere in un tempo nuovo, con cui volenti o nolenti si devono fare i conti. Nel mondo dell’arte, non c’è addetto ai lavori che non riceva e-flux, un servizio di newsletter nato nel 1998 a cui nel 2008 viene associato un journal, su cui scrivono autori come Boris Groys e Hito Steyerl, che fanno riflettere tutti sull’impatto del digitale con saggi capitali come “In Defense of the Poor Image” o “The Weak Universalism”4. C’è poi il fatto generazionale: le nuove leve dell’arte, ossia gli artisti nati verso la fine degli anni Ottanta, un mondo senza internet non l’hanno quasi mai conosciuto. Sono cresciuti con uno o più dispositivi in mano, vivono la socialità in una maniera completamente “filtrata” dal digitale, e incorporano naturalmente temi, estetiche e linguaggi del digitale nel loro lavoro. Nel 2013 l’espressione “post internet”, nata qualche anno prima


nella nicchia discorsiva della net art, diventa di tendenza nel mondo dell’arte, manifestandosi attraverso simposi, pubblicazioni, mostre museali ma soprattutto a livello di mercato. Parlando dell’edizione di Frieze di quell’anno, è lo stesso direttore della fiera a sottolineare come il post internet sia una delle tendenze più interessanti abbracciate dalle gallerie giovani5. Nel gennaio del 2013, Hans Ulrich Obrist e Simon Castets lanciano la piattaforma 89plus in collaborazione con il Google Cultural Institute: si tratta di un progetto di ricerca sulla generazione di innovatori nati dal 1989 in avanti6. Il progetto viene annunciato l’anno prima con un panel alla Digital, Life, Design Conference (DLD Conference) di Monaco, una piattaforma su cui saranno invitati a intervenire artisti come Cory Arcangel, Rafael Rozendaal, Ryan Trecartin, solo per citarne alcuni7. Nel 2015 Obrist dà alle stampe, con Shumon Basar e lo scrittore Douglas Coupland, il libro The Age of Earthquakes. A Guide to the Extreme Present, un saggio / manifesto ricco di contributi visuali di artisti della generazione post internet, e di statement di bruciante efficacia come: “How old are you? I’m seven iPhones old” o “My mother knows what an algorithm is. She’s 77. That’s just weird”8. Nell’ottobre 2014 l’artista di origine argentina Amalia Ulman svela che il suo Instagram feed degli ultimi mesi, in cui la sua immagine pubblica viene progressivamente distrutta dall’apparente caduta in un abisso di delusioni amorose, foto sexy in alberghi di lusso, twerking e chirurgia estetica, è in realtà una “social media performance” intitolata Excellences & Perfections9. Al progetto viene riservata un’attenzione con pochi precedenti, che lo porta nel 2016 fin dentro alle stanze della

Amalia Ulman, Excellences & Perfections (Instagram Update 22nd June 2014), 2014. C-type print. Courtesy James Fuentes, New York Media, New Media, Postmedia . 11


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Tate Modern. Ulman non è l’unica artista della generazione post internet ad aver guadagnato in fretta una posizione solida nell’empireo dell’arte contemporanea. L’americana Petra Cortright, di cui si parla nell’ultimo capitolo di questo libro, ha avuto uno straordinario successo di mercato, grazie al supporto di alcune gallerie, alla presenza nelle aste, e all’appoggio del collezionista art flipper Stefan Simchowitz. La sua stampa digitale su alluminio Bastel Karten Utility (2014) ha superato i 56.000 dollari in un’asta di Phillips, New York10. Anche la carriera dell’artista canadese Jon Rafman ha avuto una notevole accelerazione negli ultimi anni, con una solida presenza sia in ambito istituzionale che di mercato, fino al ruolo da protagonista ottenuto nella Biennale di Berlino del 2016, curata da DIS Magazine, un’altra figura centrale di questi anni sia in ambito editoriale che curatoriale. Lì, Rafman ha esposto delle inquietanti sculture di animali che si nutrono l’uno dell’altro e una installazione di realtà virtuale visibile attraverso un Oculus Rift, in una celebrazione del “collasso del reale”, come recitava la didascalia che accompagnava il lavoro11. Nonostante la brevità del periodo che stiamo considerando, delucidare le dinamiche che hanno portato il mondo dell’arte contemporanea a rispondere alle richieste avanzate da Claire Bishop va oltre le ambizioni di questa breve introduzione. Hanno contato molto il consolidarsi o l’emergere di figure curatoriali importanti: come Lauren Cornell, che dall’organizzazione no profit Rhizome è migrata verso il New Museum di New York, curando con Ryan Trecartin la New Museum Triennial del 2015; o come Omar Kholeif, editor del volume You Are Here. Art After the Internet e curatore della mostra Electronic Superhighway (2016 - 1966), con cui la Whitechapel Gallery di Londra ha recentemente celebrato cinquant’anni di dialogo tra arte e media12. Ha contato l’intervento in campo di figure già consolidate, come il già citato Obrist o Massimiliano Gioni, con la Biennale di Venezia da lui curata nel 2013; e di istituzioni prestigiose, come il Fridericianum di Kassel, le cui mostre recenti, da Speculations on Anonymous Materials (2013 - 2014) a Images (2016) hanno riservato un’inedita attenzione ai temi dell’età dell’informazione13. Ha contato il successo individuale di alcune figure di artisti, non tutti giovani o giovanissimi, in grado di sviluppare un discorso sull’estremo presente in forme adeguate alle aspettative del mondo dell’arte contemporanea: ai nomi già citati, potremmo affiancare disordinatamente quelli di Hito Steyerl, Laura Poitras, Metahaven, Trevor Paglen, Oliver Laric, Simon


Jon Rafman, Installation view of The Swallower Swallowed, Rhino/Bear, 2016, Veduta di Pariser Platz, 2016. Courtesy Jon Rafman; Future Gallery, Berlin; Foto: Timo Ohler

Denny, Cao Fei, Seth Price, Ed Atkins, invitando il lettore a cercare da solo di completare il quadro, by googling their names. E ha contato, in maniera prevedibile, l’ingresso in campo di un attore rimasto ai margini fino a questo momento: il mercato dell’arte. È stata la sua espansione a dare supporto, e una necessaria base economica, a tutto quanto abbiamo raccontato qui sopra: attraverso la nascita di nuove gallerie, come Carroll / Fletcher, Londra e Turner Contemporary, Los Angeles, che dedicano a questo settore un sostegno crescente, anche se non esclusivo; grazie al consolidamento di progetti galleristici già esistenti, come Postmasters Gallery e Bitforms, New York o DAM Gallery, Berlino; al varo di iniziative come Paddles On!, l’asta tematica dedicata da Phillips all’arte digitale che con le sue due edizioni, quella del 2013 a New York e quella del 2014 a Londra, ha introdotto nel mercato delle aste artisti come Petra Cortright, Michael Manning, Michael Staniak e Jonas Lund14. Media, New Media, Postmedia . 13


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Siamo così arrivati all’oggi, e alla necessità di rispondere a una domanda. Si è finalmente sanata quella separazione tra arte contemporanea mainstream e New Media Art, a cui è stato dedicato questo libro? Ha ancora senso oggi la constatazione espressa nel 2012 da Claire Bishop, secondo cui l’arte contemporanea non sia stata in grado di rispondere alla rivoluzione digitale? A prima vista, potrebbe sembrare che l’auspicio espresso nelle pagine finali di Media, New Media, Postmedia - che la New Media Art si spogliasse della sua specificità mediale ed erompesse nel territorio dell’arte contemporanea abbracciandone l’approccio postmediale - sia giunto a compimento esattamente in questo modo. Un esempio tra i tanti, individuato aprendo la posta su una delle tante tab del browser su cui sto scrivendo. Lì, un comunicato dell’1 marzo 2017 mi informa che ha da poco aperto, al MAXXI di Roma, una mostra dal titolo PLEASE COME BACK. The world as prison?, curata dal direttore del museo Hou Hanru e da Luigia Lonardelli. Il comunicato inizia con una citazione da 1984, di George Orwell, a cui segue un highlight: “26 artisti e 50 lavori parlano della prigione come metafora del mondo contemporaneo, e del mondo contemporaneo come metafora della prigione: tecnologica, iperconnessa, condivisa e sempre più controllata”15. Fra i ventisei artisti compaiono nomi come AES+F, Simon Denny, Harun Farocki, Jill Magid, Trevor Paglen. Un museo di arte contemporanea, un paese che non brilla per capacità innovativa in campo artistico, due curatori eccellenti che non hanno mai dimostrato un interesse speciale per linguaggi e tematiche dell’era digitale, eppure questo è il risultato: una mostra sul panopticon contemporaneo, ricca di artisti con un indiscusso pedigree nell’area di ricerca di cui si parla in questo libro. Dovremmo ritenerci soddisfatti. Dovremmo? In parte, sì. Ma torniamo all’articolo di Claire Bishop, quando scrive: Ovviamente, esiste un’intera sfera di arte “new media”, ma si tratta di un campo specializzato e autonomo: raramente si sovrappone al mondo dell’arte mainstream (gallerie commerciali, il Turner Prize, i padiglioni nazionali a Venezia). Se questa separazione è indubbiamente sintomatica, il mondo dell’arte mainstream e la sua risposta al digitale sono l’oggetto di questo saggio16.

Come abbiamo visto, la risposta del mondo dell’arte mainstream al digitale è cambiata negli ultimi anni. Ma questa separazione ancora esiste, così come ancora esiste quella supponenza che invita a non guardare a ciò che succede in questo “campo specializzato e autonomo”. Lo sforzo


individuale di alcuni artisti e di alcune rilevanti figure di mediazione ha fatto sì che una fetta consistente di ricerca sul rapporto tra arte e media digitali emergesse con successo al di qua della barriera: ma la barriera è ancora in piedi, e il suo attraversamento in direzione inversa rimane ancora problematico. Se ne può fare esperienza in vari modi, e a vari livelli: in ambito formativo, in Italia, nella separazione dei percorsi di studio e nella segregazione delle Scuole di Nuove Tecnologie nei dipartimenti di Arti applicate. Nella pubblicistica e nell’editoria d’arte, che spesso, con poche eccezioni, si rivela ancora incapace di andare a fondo di determinati linguaggi e tematiche, limitandosi a inserire, di tanto in tanto, artisti particolarmente cool. Nel turismo globale dell’arte, spesso ancora ignaro di contesti come il festival Transmediale di Berlino o Ars Electronica a Linz. Nella mancata integrazione di alcune figure di spicco dei decenni precedenti nella storia dell’arte contemporanea. Nella difficoltà che, ancora oggi, molti artisti incontrano ad approcciare il mercato dell’arte; e nel fatto che, se da un lato gli artisti hanno cercato di adeguarsi alle esigenze del mercato e del white cube, privilegiando linguaggi oggettuali come stampe e installazioni, o linguaggi immateriali già metabolizzati come il video, da parte sua il mondo dell’arte è stato cambiato pochissimo, nelle sue strutture e nelle sue ideologie, dall’avvento dell’arte digitale: acquisire un sito web o una GIF animata è ancora considerato un gesto di collezionismo sperimentale e d’avanguardia; esporre un lavoro interattivo è ancora molto difficile, e portare nel mondo dell’arte tecnologie che non siano di display è ancora molto, troppo raro. Il crollo di questa barriera segnerà anche la fine della persistente attualità di questo libro, che verrà relegato a un interesse di natura puramente storico artistica. Mi auguro che accada, e nel frattempo, che continuiate a leggerlo. maggio 2018

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1. Cory Arcangel: Pro Tools, Whitney Museum of American Art, New York, 26 maggio - 11 settembre 2011. A cura di Christiane Paul. 2. Ryan Trecartin: Any Ever, MoMA PS1, New York, 19 giugno - 3 settembre 2011. A cura di Klaus Biesenbach. 3. Claire Bishop, “Digital Divide: Contemporary art and New Media”, in Artforum, September 2012, pp. 434 - 442. Parte della discussione generata dall’articolo è archiviata a questo indirizzo: www. artforum.com/talkback/id=70724 4. Cf. www.e-flux.com/journal/ 5. Per una riflessione più circostanziata sul post internet, cf. Domenico Quaranta, “Situating Post Internet”, in Valentino Catricalà (a cura di), Media Art. Towards a New Definition of Arts in the Age of Technology, Gli Ori, Pistoia 2015 6. Cf. www.89plus.com 7. La video documentazione delle DLD Conferences è disponibile online, all’indirizzo www.dldconference.com e sul rispettivo canale YouTube. Di particolare rilevanza per la vicenda del post internet è stato il panel “Ways Beyond the Internet”, moderato da HUO, con Cory Arcangel, Nik Kosmas, Daniel Keller, Ed Fornieles, Oliver Laric, Jon Nash, Rafael Rozendaal, Karen Archey. Il video è disponibile all’indirizzo https://youtu.be/ lt75A8vZwdI 8. Shumon Basar, Douglas Coupland, Hans Ulrich Obrist, The Age of Earthquakes. A Guide to the Extreme Present, Blue Rider Press, New York 2015.

9. Cf. Michael Connor, “First Look: Amalia Ulman—Excellences & Perfections”, in Rhizome, 20 ottobre 2014, online all’indirizzo http://rhizome. org/editorial/2014/oct/20/first-look-amaliaulmanexcellences-perfections/ 10. Cf. www.phillips.com/detail/PETRACORTRIGHT/NY010116/109 11. Per maggiori informazioni sulla Biennale di Berlino, cf. http://bb9.berlinbiennale.de/. DIS Magazine è una rivista online, una piattaforma di progetti, un collettivo che si muove tra il mondo della moda e la pratica curatoriale, composto da Lauren Boyle, Solomon Chase, Marco Roso e David Toro. Cf. http://dismagazine.com/ 12. Electronic Superhighway (2016-1966). Whitechapel Gallery, Londra, 29 gennaio - 15 maggio 2016. A cura di Omar Kholeif. Maggiori informazioni all’indirizzo www.whitechapelgallery. org/exhibitions/electronicsuperhighway/ 13. Per maggiori informazioni sugli eventi menzionati, cf. www.fridericianum.org 14. Cf. http://paddleson.tumblr.com/ 15. Cf. www.e-flux.com/announcements/101079/ please-come-back-the-world-as-prison/ 16. Claire Bishop, “Digital Divide: Contemporary art and New Media”, in Artforum, cit.


New Media Art

16 ottobre 2003. La Tate Modern di Londra inaugura, nell’ambito del ciclo “Unilever Series”, The Weather Project, un’affascinante progetto di Olafur Eliasson. Nei giganteschi spazi della Turbine Hall, ricavata da una centrale elettrica, Eliasson mette in scena una simulazione ambientale. Dalla parete di fondo, un sole irradia di luce gialla lo spazio, dissipando lentamente la foschia che lo riempie. Quando la nebbia si dissolve, lo spettatore si rende conto che lo spazio, già enorme, è vertiginosamente raddoppiato da uno specchio che riveste l’intero soffitto. Lo specchio è anche responsabile del fatto che percepiamo come un sole ciò che è, di fatto, un semicerchio tempestato di lampadine a monofrequenza. Sia il ciclo della luce che l’emissione della nebbia sono controllati da un complesso sistema tecnologico celato alla vista. Dal 16 ottobre 2003 al 21 marzo 2004, l’installazione è stata visitata da più di due milioni di persone, facendo di Eliasson uno degli artisti viventi più conosciuti al mondo. Molte persone sono tornate più di una volta, stendendosi sul pavimento della Turbine Hall per godersi l'eccezionale simulazione del ciclo solare. Olafur Eliasson ama lavorare a stretto contatto con specialisti appartenenti ai più diversi ambiti disciplinari: architetti, scienziati, designer, meteorologi, informatici. Il suo studio è una sorta di laboratorio in continua evoluzione. L’uso del computer è contemplato in molti dei suoi progetti, come infrastruttura di controllo di installazioni che possono essere interpretate come complesse macchine percettive. Eliasson lavora con la luce e con i meccanismi della percezione, scavando nella storia della tecnologia alla ricerca di strumenti (dai panorami ai caleidoscopi) e di fenomeni (come la rifrazione della luce) per creare situazioni avvolgenti, magiche, destabilizzanti. Media, New Media, Postmedia . 19


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Charles Sandison, Utopia, 2006


L a N ew M edia A rt

è un mondo a parte

Tutto ciò, e tutto quello che non siamo ancora riusciti a spiegarci finora, può essere ricondotto a un semplice teorema: che l’espressione New Media Art identifichi un “mondo dell’arte” totalmente autonomo, e indipendente sia dal mondo dell’arte contemporanea, sia da ogni altro “mondo dell’arte”. Per essere comprensibile, la definizione di New Media Art va rifondata su basi sociologiche anziché tecnologiche. In altri termini: l’espressione New Media Art (così come quelle che l’hanno preceduta e quelle che, eventualmente, la seguiranno) non indica l’arte che utilizza le tecnologie digitali come medium artistico; non è un genere artistico né una categoria estetica, non descrive un movimento né un’avanguardia. Piuttosto, l’espressione New Media Art descrive l’arte che viene prodotta, discussa, criticata, consumata all’interno di uno specifico “mondo dell’arte”, che chiameremo “mondo della New Media Art”. L’idea che per definire la New Media Art si debba fare riferimento a un “contesto”, più che a un movimento o a un determinato uso del medium, non è nuova. In realtà, essa sembra implicita in quasi tutti i discorsi critici sulla New Media Art. Ad esempio, il critico dei media Geert Lovink dedica un intero capitolo del suo libro Zero Comments alla “crisi della New Media Art”. Si interroga Lovink: Perché la new media art viene percepita come una sottocultura oscura e autoreferenziale in via di estinzione? Perché per gli artisti che sperimentano con le ultime tecnologie è così difficile entrare a far parte della cultura pop o dell’“arte contemporanea”? [...] La new media art si è posizionata a metà tra design commerciale e strategie museali, e invece di venirne inglobata è caduta in un abisso di incomprensione24.

Qualche pagina dopo, Lovink spiega che “la new media art può essere descritta come una forma d’arte transizionale, ibrida, una “nube” multidisciplinare di micropratiche”. In un altro passo, la New Media Art viene descritta come una comunità che non produce arte, ma testa, esplora, a beneficio delle (future) generazioni, i mezzi artistici (del futuro). Lev Manovich parla apertamente di due contesti socio-culturali diversi e sin dal 1997 aveva proposto per essi due nomi significativi: Duchamp Land e Turing Land (dove Marcel Duchamp è il padre dell’arte contemporanea e Alan Turing è uno dei padri del computer). Particolarmente interessante, infine, la posizione di Jon Ippolito e Joline Blais, che nel volume At the Edge of Art25, pubblicato nel 2006, avanzano Media, New Media, Postmedia . 31


Il Macintosh 128k (1984), il primo computer a interfaccia grafica

Lรกszlรณ Moholy-Nagy, Licht-Raum-modulator, 1922-1930, replica 1970. Bauhaus Archive Berlin


Breve storia della New Media Art

Questo capitolo intende fornire un supporto storiografico alla tesi espressa nel precedente: che un nucleo multidisciplinare e variegato di ricerche sia evoluto in una nicchia, per poi stabilizzarsi in un “mondo dell’arte” del tutto autonomo. Per farlo, trascureremo le caratteristiche estetiche e culturali della New Media Art per soffermarci, attraverso alcune case history emblematiche, sulla sua storia sociale. G li

anni

S essanta

La nostra storia ha inizio tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, quando lo sviluppo tecnologico da un lato e la ricerca artistica dall’altro pongono le premesse che rendono possibile il rilancio dell’intreccio tra arte, scienza e tecnologia. Quest’ultimo era tutt’altro che estraneo alla storia dell’arte, essendo stato proposto con vigore sin dalle avanguardie storiche: si pensi al lavoro svolto da Man Ray e da Christian Schad sulla fotografia, al Bauhaus e in particolare a Lazlo Moholy-Nagy, spesso invocato come uno dei padri della New Media Art in particolare per il suo Licht-Raum-Modulator (1930), una scultura cinetica che produce affascinanti giochi di luce. Proprio alle avanguardie storiche si ricollegano quelle esperienze che vogliono andare oltre quello che appare, allora, il vicolo cieco della stagione informale: New Dada, Nouveau Réalisme, Gutai, Happening, Fluxus, arte cinetica e programmata, Optical Art e Pop Art, Video Art. La realtà, come oggetto reale o rappresentato, entra a far parte dell’opera; la cultura pop veicolata dai media diventa oggetto dell’attenzione degli artisti; l’arte si appropria di tutti i media, dal corpo all’oggetto di consumo, dalla pubblicità al televisore alla macchina; sviluppi teorici come la cibernetica e la teoria dell’informazione informano il lessico degli artisti. Racconta, ad esempio, John Brockman a proposito di John Cage: Media, New Media, Postmedia . 39


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5. Ivi. 6. Brent MacGregor, "Cybernetic Serendipity Revisited", in "Proceedings of the 4th conference on Creativity & cognition", October 2002 7. Ivi. 8. Cfr. Catherine Mason, A computer in the Art Room: the Origins of British Computer Arts 19501980, Norfolk, JJG Publishing 2008 9. Billy Klüver, “E.A.T. - Archive of published documents”, 2000, [www.fondationlanglois.org] 10. Cit. in Branden W. Joseph, “Engineering Marvel: Branden W. Joseph on Billy Klüver”, in Artforum, marzo 2004 11. Cfr. Billy Klüver, J. Martin, Barbara Rose (a cura di), Pavilion: Experiments in Art and Technology, New York, E. P. Dutton 1972 12. Gli archivi di E.A.T sono ora disponibili sul sito della Daniel Langlois Foundation for Art, Science, and Technology di Montreal (Canada), che ha contribuito attivamente alla loro digitalizzazione 13. Cfr. Anne Collins Goodyear, “From Technophilia to Technophobia: The Impact of the Vietnam War on the Reception of “Art and Technology””, in “Leonardo”, April 2008, Vol. 41, No. 2, pp. 169-173 e Sylvie Lacerte, “Experiments in Art and Technology: a Gap to Fill in Art History’s Recent Chronicles”, in “Refresh!”, settembre 2008, [online all'indirizzo www.fondation-langlois. org/html/e/page.php?NumPage=1716] 14. Cfr. Taylor Grant, “How Anti-Computer Sentiment Shaped Early Computer Art”, in “Refresh!”, settembre 2008 15. Edward A. Shanken, “Historicizing Art and Technology: Forging a Method and Firing a Canon”, in Oliver Grau (a cura di), Media Art Histories, cit., p. 48 16. Cfr. Douglas Kahn, “Between a Bach and a Bard Place...”, cit., pp. 440 e seguenti 17. Cfr. Benoît B. Mandelbrot, The Fractal Geometry of Nature, New York, W. H. Freeman and Co., 1982

18. Cfr. Annmarie Chandler, “Animating the Social. Mobile Image / Kit Galloway and Sherrie Rabinowitz”, in Annmarie Chandler e Norie Neumark (a cura di), At a Distance. Precursors to Art and Activism on the Internet, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts e London, England 2005 [2006], pp. 153-174 19. Su Les Immatériaux, cfr. anche Francesca Gallo, Les Immatériaux. Un percorso di JeanFrancois Lyotard nell’arte contemporanea, Aracne, Roma 2008 20. Roy Ascott, “Arte, tecnologia e computer”, in AAVV, XLII Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia. Arte e scienza. Biologia / Tecnologia e informatica, cat., Electa, Venezia 1986, p. 33 21. Tom Sherman, “Amare la macchina è naturale”, in AAVV, XLII Esposizione Internazionale d’Arte..., cit., pp. 43 – 45 22. Per la storia di Ars Electronica, cfr. Hannes Leopoldseder, Christine Schöpf, Gerfried Stocker, 1979 – 2004 Ars Electronica, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern-Ruit 2004 23. Cfr. Tatiana Bazzichelli, Networking. La Rete come arte, Costa & Nolan, Milano 2006 24. Vittorio Fagone, in VideoMagazine, 1986. Citato in Tatiana Bazzichelli, 2006, op.cit., p. 98 25. Lioudmila Voropai, “Institutionalisation of Media Art in the Post-Soviet Space: The Role of Cultural Policy and Socioeconomic Factors”. Conferenza tenuta nell’ambito di Re:place, novembre 2007, [online all’url: mediacultures. net/xmlui/handle/10002/449] 26. Cfr. Inke Arns, “And it Exists After All. On the Contemporaneity of the Medial Arts”, 2008. Inedito, courtesy l’autrice 27. Cfr. AAVV, Maurizio Bolognini. Infinito personale, Edizioni Nuovi Strumenti, Brescia 2007 28. Cfr. Nico Piro (a cura di), Etoy – Cyberterrorismo. Come si organizza un rapimento virtuale, Castelvecchi, Roma 1998 29. Lev Manovich, “New Media from Borges to HTML”, op.cit.


Due mondi a confronto

Nel corso degli anni Novanta, a cavallo tra il mondo dell’arte contemporanea e quello della New Media Art, si colloca una pratica artistica che ha piena cittadinanza nel secondo, ma che ha maturato, in anni recenti, caratteristiche che la renderebbero adatta al primo, e il desiderio di superare questa distinzione. Entrambi i mondi devono mediare tra tendenze conservatrici e opzioni innovative; e in entrambi, come hanno scritto i critici Inke Arns e Jacob Lillemose, “ci sono forze che lavorano contro un’integrazione da cui tutti e due potrebbero trarre vantaggio”1. In questo capitolo procediamo a un’analisi comparativa di questi due mondi. Il confronto si fonderà su alcuni nodi concettuali enucleati da Howard S. Becker nel suo Art Worlds: l’idea dell’arte su cui un determinato mondo dell’arte si fonda; la tipologia di artista che vi prospera; il sistema di attribuzione del valore all’opera d’arte; il grado di tolleranza e di permeabilità a proposte eterogenee rispetto a quelle canoniche. Qualche semplificazione sarà inevitabile: in un sistema, le regole garantiscono la sua specificità e necessità, mentre le eccezioni lo rendono permeabile e adattabile a una materia, l’arte, indefinibile e in continuo mutamento. L’introduzione di una terza sezione, relativa a Internet, è resa necessaria dal fatto che proprio nell’avvento di Internet e dell’informatica di consumo si colloca il gene mutante che ha reso la pratica artistica che si confronta con i nuovi media una realtà che si muove tra i due mondi. Media, New Media, Postmedia . 69


Casey Reas, TI, 2004. Software, dischi in legno, computer, proiettore, dimensioni variabili. Courtesy bitforms gallery nyc.


N ew M edia A rt :

i confini

Il mondo della New Media Art si regge su una economia che non prevede, nel suo sistema di distribuzione, un mercato dell’arte. Questo fatto ha notevoli ripercussioni sul modo in cui l’opera d’arte destinata a circolare nel mondo della New Media Art viene concepita e realizzata. Un mercato basato sulla circolazione di un pezzo unico, o limitato a un numero ridotto di esemplari, richiede feticci, oggetti la cui sopravvivenza nel tempo può essere garantita, la cui riproducibilità può essere limitata e il cui valore economico può essere molto più alto di quello dei materiali utilizzati per realizzarlo. Libera da queste costrizioni, l’opera d’arte può diventare immateriale e aperta, può costruirsi attraverso la relazione tra opera e fruitore. Ma rinunciando al feticcio, e a quell’aura che è insieme causa e conseguenza del suo valore economico, l’opera d’arte perde quelle caratteristiche che, sole, permettono spesso di distinguerle da altre tipologie di artefatti. Se a questo aggiungiamo il fatto che il mondo della New Media Art non ha nessuna preclusione nei confronti del valore d’uso dell’opera, ma è al contrario estremamente ben disposto verso opere che stimolino una fruizione attiva; che la techné, nel mondo della New Media Art, tende a prevalere sul contenuto, e che questo stesso mondo è il frutto, come abbiamo già detto, della fuga dai rispettivi “mondi” di figure appartenenti ad ambiti disciplinari differenti, dalle arti visive alla musica, dal teatro alla danza – se accogliamo tutte queste premesse, diventa evidente che l’opera-tipo richiesta dal mondo della New Media Art è, per sua natura, ibrida, e che i confini del mondo sono tutt’altro che definiti. Se il mondo dell’arte contemporanea tende, per vocazione recente, ad aprirsi a differenti ambiti disciplinari, il mondo della New Media Art è multidisciplinare per natura. In realtà, sono completamente differenti i modi di questa apertura: il mondo dell’arte contemporanea arriva, in rari casi e a precise condizioni, ad accogliere, nobilitandole come “arte”, proposte provenienti da differenti ambiti disciplinari; il mondo della New Media Art è il “centro di accoglienza provvisorio” attorno a cui gravitano proposte che, per la loro radicalità o marginalità, non potrebbero trovare casa altrove. Al suo ingresso, l’unico lasciapassare che viene richiesto è quello di un uso creativo delle tecnologie. Detto questo, in esso possono convivere senza problemi progetti di musica elettronica troppo radicali per poter sopravvivere nell’ambito competitivo dell’elettronica commerciale; lavori di Game Design sperimentale, che per le loro caratteristiche non soddisfano – o soddisfano solo in parte – le Media, New Media, Postmedia . 85


Mac Classics, 1997, a cura di Tamas Banovich. Courtesy: Postmasters Gallery, New York


New Media Art e arte contemporanea La

danza boho

Finora ho preso in esame la nozione di New Media Art mettendo in discussione il suo fondamento concettuale e sottolineandone la valenza sociale (se la definizione resiste è perché c’è un mondo dell’arte che si identifica in essa). Ho raccontato la storia di questo mondo e ne ho descritto le caratteristiche in un’analisi comparativa con il mondo dell’arte contemporanea. Infine, ho sottolineato come, in anni recenti, il mondo della New Media Art si sia rivelato inadeguato a rappresentare la complessità della sua pratica artistica, che ha finito per cercare sbocchi sul mondo dell’arte contemporanea. Per capire le dinamiche di questo confronto, si rivela molto utile il riferimento a un fortunato pamphlet sul mondo dell’arte pubblicato da Tom Wolfe nel 1975, Come ottenere il successo in arte1. Wolfe descrive ironicamente il rapporto tra avanguardie e mondo dell’arte come un bizzarro rito di accoppiamento, che si svolge in due fasi: la danza Boho, “nel corso della quale l’artista rivelava di che stoffa fosse fatto nei circoli, nelle consorterie, nei movimenti, negli ‘ismi’ dei dintorni di casa sua, nella bohème, come se non gli importasse nulla del resto”; e la Consumazione, “nel corso della quale gli acculturati provenienti [...] da le monde, esploravano i vari movimenti nuovi e i nuovi artisti della bohème, sceglievano secondo un criterio qualsiasi quelli che sembravano più eccitanti, originali, importanti, ricoprendoli poi con tutti i premi della celebrita”. Nella danza Boho, spiega Wolfe, l’artista si comporta come la donna nella danza dell’apache, mescolando seduzione e disprezzo, offerta e rifiuto, fino alla capitolazione finale: “prima pestava i piedi urlando parole di sfida, simulando indifferenza poi, resistendo con un totale disprezzo alle profferte dello spasimante... dimenandosi sempre Media, New Media, Postmedia . 101


Jennifer Willet, BIOplay: Bacteria Cultures, all'interno del festival Ars Electronica, Linz 2008. Bacteria Cultures è parte di un lavoro piÚ esteso dal titolo InsideOut: Laboratory Ecologies. Courtesy: The Canada Council for the Arts and The Alberta Foundation for the Arts


La

prospettiva postmediale

Alla fine di questo percorso, tre domande restano ancora senza una risposta. Se l’arte già nota come New Media Art sta migrando dal suo mondo nativo al mondo dell’arte contemporanea, che futuro si prospetta per il primo? Se il paradigma dell’esplorazione del mezzo si è rivelato debole, obsoleto e inadatto a promuovere l’arte già nota come New Media Art sul terreno dell’arte contemporanea, quale altra prospettiva critica ci consente di sottolineare la sua specificità e la sua attualità? E infine: è proprio necessario insistere su questa specificità? Lo spettro della responsabilità (e del compito) della critica e dei curatori ritorna in tutte queste domande, e da lì ci conviene partire: critici e curatori devono assumersi buona parte della responsabilità della scarsa reputazione che l’arte già nota come New Media Art ha nel mondo dell’arte contemporanea. Da un lato, la critica specializzata ha compiuto l’errore di voler imporre al mondo dell’arte contemporanea i criteri di valore per cui un lavoro viene apprezzato nel mondo della New Media Art, e di sviluppare un discorso “settoriale” (quando non “settario”), cercando di presentare come un fenomeno unitario una realtà assolutamente eterogenea. D’altro canto, la critica d’arte contemporanea si è rivelata incapace, con poche eccezioni, di superare il gap tecnologico e di affrontare questi lavori con i propri strumenti critici. Oppure, cadendo nel tranello del “fenomeno unitario”, l’ha condannato in massa. “Questo linguaggio manca della profondità e dell’urgenza culturale necessaria per giustificare il continuo e significativo investimento dell’ICA”, ha dichiarato nel 2008 Ekow Eshun, direttore artistico dell’ICA di Londra, per giustificare la chiusura del dipartimento di Live & Media Arts1. Media, New Media, Postmedia . 143


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Dirk Eijsbouts, Interface #4 / TFT tennis V180, 2005. Installazione interattiva, Ars Electronica 2005. Source: rubra. Courtesy Ars Electronica Archive

D’altra parte, non si tratta solo di una questione di “maturità”. Se è vero che l’informatica di consumo è ormai penetrata profondamente nella nostra quotidianità, è altrettanto vero che esistono tecnologie e linguaggi che restano inaccessibili, per costi e per difficoltà di utilizzo, all’artista comune. Se è vero che molta New Media Art può fare i conti con il mercato, è altrettanto vero che per molte ricerche e progetti questa strada risulta a tutt’oggi insostenibile. E se è vero che molta New Media Art puo essere affrontata criticamente senza essere dotati di una particolare conoscenza delle nuove tecnologie, è altrettanto vero che tanti altri lavori non possono essere adeguatamente compresi senza una profonda conoscenza del mezzo e delle sue dinamiche, e continuano a necessitare di un discorso critico specialistico. Facciamo un esempio. Anche se esiste un “hobbismo biotech”, su cui alcuni artisti hanno lavorato, tutt’oggi non è facile per la ricerca biotecnologica uscire dalle università e dai laboratori. Al contempo, dobbiamo riconoscere che le biotecnologie costituiscono, come già notava Jeffrey Deitch all’inizio degli anni Novanta, uno dei fattori di cambiamento più interessanti della nostra epoca. Affrontarle come contenuto e come tema è senza dubbio interessante, ma sarebbe un peccato se agli artisti fosse preclusa la possibilità di averne una conoscenza più approfondita, e di usarle anche come potenziale medium artistico.


Partendo da questi presupposti, l’artista Oron Catts è riuscito a fondare, nel 2000, Symbiotica, un laboratorio di ricerca artistica ospitato dalla School of Anatomy & Human Biology della University of Western Australia (UWA) a Perth. Da allora, Symbiotica offre residenze ad artisti di tutto il mondo, a cui mette a disposizione un laboratorio per la ricerca biotecnologica ben attrezzato e l’esperienza di scienziati e ricercatori. Si tratta di un’opportunità eccezionale, di cui ha approfittato, tra gli altri, il performer australiano Stelarc, che lì ha realizzato il terzo orecchio che oggi esibisce sul proprio avambraccio. Grazie alle possibilità offerte da Symbiotica, Catts (che dal 1996 agisce, con altri due artisti, sotto la sigla Tissue Culture & Art Project) è riuscito a dare vita a installazioni di grande fascino, che indagano le potenzialità e le problematiche dell’ingegneria dei tessuti. Ad esempio, Victimless Leather (2004) è una giacca di pelle in miniatura che “vive” all’interno di un bioreattore. L’opera reagisce al barbaro uso di servirsi di pelle animale per realizzare capi di abbigliamento, a cui l’ingegneria dei tessuti potrebbe offrire un’alternativa. Gli artisti hanno innestato cellule prelevate da un animale vivente (un topo da laboratorio) su una base di polimeri tagliata a forma di giacca, che mantengono in vita e fanno crescere in un ambiente protetto. In realtà, il lavoro ha anche una componente ironica perche, per preservare i “viventi”, il Tissue Culture & Art Project ha creato un “semivivente”, la cui esistenza e il cui sfruttamento porrebbe problematiche etiche analoghe a quelle che stavano cercando di aggirare. Quando, nel 2008, il progetto è stato esposto al MoMA di New York, nell’ambito della mostra Design and the Elastic Mind (a cura di Paola Antonelli), ha suscitato accese reazioni quando la curatrice ha dovuto “uccidere” la

Stelarc esibisce il terzo orecchio, risutato di due operazioni chirurgiche a Los Angeles nel 2006. Foto: Polixeni Papapetrou Media, New Media, Postmedia . 159


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Eva e Franco Mattes aka 0100101110101101.ORG. Copia di www.Jodi.org, 1999, Website


Articoli, libri, cataloghi

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Media, New Media, Postmedia . 191


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