Fotografia e materialità in Italia. Franco Vaccari, Mario Cresci, Guido Guidi, Luigi Ghirri

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Fotografia e materialitĂ in Italia Franco Vaccari, Mario Cresci, Guido Guidi, Luigi Ghirri

Nicoletta Leonardi

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Fotografia e materialità in Italia Franco Vaccari, Mario Cresci, Guido Guidi, Luigi Ghirri di Nicoletta Leonardi Š 2013 Postmedia Srl, Milano Book design: Alessandra Mancini Cover design: Marina Metaxa www.postmediabooks.it ISBN 9788874901050


Fotografia e materialitĂ in Italia Franco Vaccari, Mario Cresci, Guido Guidi, Luigi Ghirri

Nicoletta Leonardi

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Introduzione

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1 Dalla pagina alla strada e ritorno: fotografia, poesia visiva e materialità nella ricerca artistica di Franco Vaccari

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2 La fotografia come oggetto materiale che agisce sul reale: Mario Cresci fra attivismo urbano e urbanistica partecipata

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3 Farsi macchina: la fotografia fenomenologica di Guido Guidi come specchio del reale nel mare dell’oggettività

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4 Fra realtà e rappresentazione: i trompe l’œil fotografici di Luigi Ghirri

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Conclusioni

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Copertina del volume Alberto Lattuada, Occhio Quadrato, Corrente Edizioni, Milano, 1941


Introduzione

Questo saggio ha per oggetto un particolare aspetto della pratica fotografica italiana degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: l’incontro fra gli individui e le cose nei contesti ambientali e materiali che essi abitano. Come cercherò di dimostrare nelle pagine che seguono, il modo in cui la materialità del mondo in cui viviamo è stata presa a tema da fotografi e da artisti che hanno usato la fotografia è di centrale importanza per comprendere a fondo non soltanto la cultura artistica di quel periodo, ma anche l’interesse verso la città e il territorio di molta della fotografia italiana degli ultimi trent’anni. I contesti materiali intesi come elementi che contribuiscono in maniera decisiva a determinare ciò che noi siamo come individui (contesti di cui facciamo parte come gli oggetti e gli animali in quanto corpi fatti di materia, di carne e di ossa), sono stati oggetto di riflessione all’interno di due fenomeni culturali di grande importanza nella scena artistica italiana degli anni Quaranta e Cinquanta: il neorealismo e l’informale. È dunque necessario guardare all’eredità lasciata da questi due movimenti ai decenni ad essi successivi. Nel 1941 il giovane regista e scrittore Alberto Lattuada pubblica nella sezione “Arte” delle edizioni “Corrente” un libro fotografico dedicato prevalentemente a Milano, dal titolo Occhio quadrato1. La casa editrice è tutto ciò che rimane dell’omonima rivista quindicinale fondata da Ernesto Treccani nel 1938, chiusa forzatamente nel 1940 dal regime fascista per motivi politici. “Corrente” è uno dei principali punti di riferimento della cultura antifascista in Italia alla fine degli anni Trenta. Oltre a Lattuada, fra gli scrittori, gli artisti, i registi e i filosofi che collaborano alla rivista vi sono Luciano Anceschi, Giulio Carlo Argan, Giansiro Ferrata, Raffaele De Grada, Vittorio Sereni, Dino dal Bo, Luigi Comencini, Carlo Emilio Gadda, Enzo Paci, Elio Vittorini. Influenzati dal filosofo Antonio Banfi, di cui alcuni sono allievi, essi si contrappongono alle direttive ufficiali del regime in materia di arte e letteratura, che privilegiano il neoclassicismo e il secondo futurismo; in opposizione all’idealismo crociano, 7


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promuovono un approccio fenomenologico, antidogmatico e descrittivo all’arte, capace di rivelare gli aspetti concreti e materici della realtà. Il gruppo è animato da una profonda fede nell’unità tra arte e vita, e opera nella direzione del superamento dell’autoreferenzialità dell’arte in favore del senso di responsabilità e dell’impegno civile degli artisti2. Il titolo del libro di Lattuada, Occhio quadrato, è un esplicito riferimento al mirino a pozzetto della macchina fotografica Rolleiflex formato 6x6 cm, molto diffusa in quegli anni e utilizzata dallo stesso Lattuada per realizzare i ventisei scatti contenuti nel volume. Con grande rigore formale, Lattuada ci mostra gli spazi urbani italiani privi di ogni retorica autocelebrativa di regime; città vive fatte di uomini, donne, bambini, animali e oggetti di ogni genere rappresentati nella loro materialità, gli uni accanto agli altri, gli uni in dialogo con gli altri, senza alcuna presa di posizione pietistica o ideologica. Certamente l’esempio di Walker Evans è di grande importanza per il giovanissimo Lattuada. Il fotografo americano è noto ai membri di “Corrente”, come dimostra il fatto che nel 1939 American Photographs, volume realizzato da Evans in occasione della sua mostra al Museum of Modern Art di New York, viene recensito sulla rivista da Giulia Veronesi3. Nella prefazione a Occhio quadrato, Lattuada scrive della necessità di abbandonare le “pedantesche ricerche di stile, di rompere il guscio che fa da custodia a un preteso determinato modernismo” e di “ritornare a guardare gli uomini con gli occhi dell’amore”. Attraverso questo realismo affettivo e al tempo stesso privo di ogni sentimentalismo, Lattuada rappresenta un mondo strutturato intorno al rapporto, anch’esso affettivo, fra persone e oggetti: “Nel fotografare ho cercato di tener vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove son rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma è quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni. Selciati di quiete piazzette, case possedute e abbandonate, vecchi muri, collinette cittadine soffocate dalle pietre, uomini per le strade, uomini al lavoro, uomini sospesi alla voce della poesia, uomini vinti, e dappertutto, in qualunque condizione, la tesa volontà di vivere e la necessità di amare e di sperare”. In aperta polemica contro gli strascichi del pittorialismo e gli astrattismi formalisti delle produzioni fotografiche italiane degli anni Trenta, Lattuada conclude il suo testo affermando che la forza della fotografia sta nella rappresentazione del reale, e che tale rappresentazione, in quanto frutto di una scelta, implica una presa di posizione e dunque ha una componente etica: “Mi domando se sia ancora il caso di ripetere che la fotografia è documento, è l’istantanea


Alberto Lattuada, Pulizia all’aperto, in Occhio Quadrato, Corrente Edizioni, Milano, 1941

rivelazione della vita, è un punto di vista che implica giudizio e selezione dei fatti fissati nella loro apparenza essenziale”4. Le fotografie di Lattuada rispondono perfettamente a quanto dichiarato dal regista nella prefazione di Occhio quadrato. Nelle immagini scattate per le strade della periferia di Milano, al mercatino di Sinigallia nel centro della città, e nelle piazze antiche diVenezia, egli presenta agli occhi dell’osservatore un paesaggio italiano fino a quel momento messo in ombra dalla retorica celebrativa del regime. Si tratta di un paesaggio urbano in cui non vi è traccia 9


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Alberto Lattuada, Fiera di Sinigallia, in Occhio Quadrato, Corrente Edizioni, Milano, 1941

del tradizionale rapporto gerarchico fra le figure, e fra queste e lo sfondo. Nessuna delle immagini pubblicate nel libro ha un protagonista unico, perché Lattuada privilegia la rappresentazione della gente e delle cose nei contesti ambientali e relazionali che occupano. Questo paesaggio italiano fatto di persone e cose in continuo dialogo fra loro, che Lattuada guarda con “gli occhi dell’amore”, annuncia il clima culturale della prima fotografia neorealista, di una fotografia cioè ancora del tutto scevra dai convenzionalismi della retorica legata alla denuncia sociale che sopraggiungono dalla fine degli anni Quaranta5. Ma ciò che più conta ai fini del mio discorso è che il realismo affettivo di Lattuada proietta la sua ombra


lunga sulla ricerca artistica che negli anni Sessanta e Settanta si sviluppa intorno alla fotografia e, attraverso di essa, sulle produzioni fotografiche degli ultimi decenni. Parallelamente all’affermarsi del neorealismo nascono le neo-avanguardie artistiche. Come già teorizzato da Renato Barilli nei suoi primi scritti di giovane interprete e partecipe del fenomeno alla fine degli anni Cinquanta, uno degli ingredienti fondamentali delle neo-avanguardie è la componente esistenziale-fenomenologica. Secondo lo studioso, la ricerca artistica di quel periodo riflette gli orizzonti teorici della fenomenologia della percezione di Maurice Merleau-Ponty, dell’Husserl del “mondo della vita”, del primo Sartre, di Enzo Paci e Luciano Anceschi, del pragmatismo di John Dewey. Con la sua ‘mondanità’ basata sull’imprevisto e sul contingente, l’informale incarna perfettamente i presupposti epistemologici, etici e affettivi dell’idea dell’essere al mondo inteso come processo di interazioni transazionali fra gli individui e l’ambiente. Esso esprime il rifiuto dell’astrattismo geometrico delle avanguardie razionaliste in favore del culto della vita e dei fattori contingenti a essa legati. Dalla filosofia di Merleau-Ponty “alla pittura di Pollock, Fautrier e Dubuffet il comune progetto di aggredire il mondo, l’ambiente, la natura viene ‘sentito’ (...) come contatto immediato scorrente attraverso canali nudi, di una condizione antropologica primaria ed elementare”6. Per questa via, Barilli si distanzia dall’idea della pittura informale come fenomeno esclusivamente introspettivo e privato; al contrario, ne sottolinea l’apertura verso il mondo. L’interpretazione fenomenologica dell’informale come arte mondana proposta da Barilli è legata al pensiero dello storico bolognese dell’arte Francesco Arcangeli, che nel 1954 pubblica su “Paragone” il saggio “Gli ultimi naturalisti”7. Secondo Arcangeli, l’informale rappresenta l’ultimo capitolo di una storia articolata intorno al concetto di natura come qualcosa che “si guarda, si respira, si sente, si soffre, ancor prima che la si dica in parole”; una storia che si sviluppa in Italia, e in particolare in territorio padano, a partire dall’XI secolo con Wiligelmo, Vitale da Bologna, Vincenzo Foppa, Moretto, Caravaggio, Giuseppe Maria Crespi e Antonio Fontanesi8. L’ultimo naturalismo ha tratti decisamente empiristici ed è espressione del clima culturale del momento, caratterizzato in Italia dal dibattito fra fenomenologia, spiritualismo ed esistenzialismo positivo. Esso si basa sull’idea che la natura è il frutto di un incontro a due in cui il corpo, nella complessità del suo esistere, è l’unica realtà di relazione, e in cui la materia prevale sul segno. A partire da questi presupposti, Arcangeli esprime un deciso giudizio negativo sul cubismo e sull’astrattismo, il cui anelito verso l’equilibrio e il controllo da parte della mente umana rappresenta quella barriera della razionalità che egli 11


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vuole oltrepassare. Bisogna “squilibrare”, ma non alla maniera del monologo espressionista che suda “orgoglio stravolto in angoscia solitaria”9. L’incontro a due corpo-mondo, in cui la natura è partecipata attraverso i sensi, frena al tempo stesso ogni astrattismo e ogni espressionismo e, mettendo sotto scacco la mente umana, si presenta come espressione ultima del naturalismo. Perfetta espressione di questa linea poetica è, secondo Arcangeli, l’opera degli artisti contemporanei da lui promossi, fra i quali Ennio Morlotti e Pompilio Mandelli. L’informale è l’ultima espressione del naturalismo non soltanto in senso cronologico ma anche, e soprattutto, nel senso della trasformazione che il concetto di natura subisce con il passare dei secoli. Esso riflette un mondo in cui non è più pensabile rappresentare la natura a distanza, un mondo da cui il pittore non può uscire per osservarne i tratti. L’artista di Arcangeli è un corpo gettato nella materialità dell’esistente in un incontro che non prevede alcun progetto prestabilito, alcuna regia mentale. Ma se da una parte le tecniche materiche e gestuali indicano la volontà di proiettarsi verso l’esterno, dall’altra parte la pittura informale rimane entro i

Pagina dal catalogo La Biennale di Venezia. XXVIII Esposizione biennale internazionale d’arte, Alfieri Editore, Venezia 1956. Nell’immagine l’opera di Pompilio Mandelli Paesaggio Grigio (1955), presentata con altri 13 dipinti dell’artista nella sala XLI. Nello stesso catalogo è pubblicato il testo di Francesco Arcangeli, Pompilio Mandelli (pp. 326-328)


confini del quadro e rifugge gli strumenti della tecnologia. È solo negli anni Sessanta che, ancora secondo Barilli, l’oggetto artistico – sia esso il quadro o la scultura – “rivela di non poter essere più contenuto” in sé stesso, e “accenna a occupare una spazialità ben concreta”10. La nuova informalità aperta e mondana di cui scrive Barilli trova espressione nell’emergere di fenomeni come l’arte povera, la body art e l’arte concettuale, anch’essi in parte basati, come la pittura informale, sul modello esistenziale-fenomenologico dell’essere nel mondo. L’informale espanso in tempi e spazi reali si esprime attraverso gli strumenti dell’assemblaggio e del ready-made, giungendo alle forme dell’environment, dell’happening, della performance, e infine del comportamento. Grazie anche al contributo di Marshall McLuhan, questa mondanità si apre inoltre all’uso degli strumenti tecnologici fra i quali la fotografia e il video11. Non è dunque un caso che alla Biennale di Venezia del 1972 Francesco Arcangeli e Renato Barilli, ai quali viene affidata la curatela del Padiglione Italia, presentino una mostra dal titolo Opera o comportamento?. Nel testo di presentazione della mostra, Barilli scrive dell’allargamento dei mezzi di azione degli artisti oltre i confini ristretti delle belle arti, e del comportamento come strumento di “riscatto programmatico di tutte le nostre facoltà, di tutti i tipi di intervento sul mondo, a cominciare da quelli più sfuggenti e precari, nella convinzione che i tempi (a livello sociale, economico, tecnologico) siano maturi per ritrovare il piacere immediato del vivere, dell’essere, e abbandonare i gravi sacrifici del cancellarsi in un prodotto staccato”12. L’inclinazione fenomenologico-esistenziale della ricerca artistica italiana ha determinato il persistere nel nostro paese, anche negli anni in cui il pensiero postmoderno ha dominato la scena culturale internazionale, dell’idea della realtà come un fatto indipendente dagli schemi linguistici, concettuali e interpretativi utilizzati per definirla. Questa mancata adesione al postmodernismo da parte dell’arte italiana è stata spesso interpretata come il sintomo di un ritardo culturale13. A mio avviso, più che di un ritardo si tratta una differenza culturale rispetto a un modello dominante. Uno degli scopi di questo libro è dimostrare che questa differenza ha le sue ragioni, le sue radici storiche e anche la sua ‘attualità’. Negli ultimi anni, infatti, sono emerse voci di critica nei confronti del modello interpretativo postmoderno, che considera l’oggettualità degli artefatti culturali un mero supporto per la loro produttività testuale, per il loro status di beni di consumo, per l’analisi dei loro significati come veicoli di forme di potere, come depositari delle ideologie e dei desideri proiettati su di essi. L’interesse crescente nei confronti della materialità come oggetto di studio e di riflessione nei settori della storia della fotografia e della storia dell’arte è espressione di questo mutato clima culturale. 13


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Franco Vaccari, Ricordo di Mario Merz alla XXXVI Biennale di Venezia, 1972. Collage fotografico, 73x35 cm. Archivio dell’artista, Modena

Pur avendo certamente contribuito ad una migliore comprensione degli usi della fotografia come strumento di controllo ideologico e sociale, gli studi postmoderni sulle basi epistemologiche della produzione, della distribuzione e del consumo delle immagini hanno per lo più trascurato gli aspetti relativi alla materialità14. In particolare, il modo in cui le forme materiali e di presentazione delle fotografie proiettano l’immagine nello spazio dell’osservatore non è stato oggetto di sufficiente analisi negli ambiti della riflessione teorica sulla fotografia e degli studi sulla storia della fotografia e sulla storia dell’arte. La tendenza più diffusa è stata quella di considerare la fotografia come un fenomeno sostanzialmente visivo. Se per la gran parte del XX secolo nell’ambito della storia e della critica d’arte l’orientamento dominante è stato quello di analizzare le opere utilizzando metodologie mutuate dalla linguistica, di negare la risposta emotiva privilegiando un rapporto sostanzialmente concettuale e incorporeo con l’estetica, oggi ci si comincia a chiedere, per dirla con William J.T. Mitchell, cosa realmente le immagini vogliano da noi, quale sia la loro “personalità”, a quali coinvolgimenti fisici, sociali, erotici ed emotivi esse diano vita15. Se si pensa alle fotografie nella prospettiva della loro materialità, appare evidente come non sia sufficiente limitarsi ad interpretarle esclusivamente come un insieme di significati e di ideologie trasmessi attraverso ciò che le immagini rappresentano. È necessario un approccio multisensoriale. Sebbene il contenuto delle immagini sia importante, bisogna guardare anche alla “vita


sociale” delle fotografie come oggetti e ai modi in cui gli aspetti materiali contribuiscono a determinarne il significato negli album, nelle gallerie, nei musei, negli archivi, nelle case private, e perfino nei personal computer, negli smartphone e negli smartpad. Questo cambiamento di prospettiva – dall’immagine come unica depositaria del contenuto e del significato all’analisi delle forme materiali e di presentazione e dei diversi usi delle fotografie – è essenziale per comprendere a fondo la fotografia come oggetto che ha un ruolo nella nostra società. Un contributo fondamentale per la comprensione della vita sociale degli oggetti è venuto dalla ‘svolta materiale’ in ambito antropologico, dalla ‘svolta sociale’ in ambito storico-artistico, e infine dalla sociologia dell’arte. In questi diversi settori, studiosi come, per citarne alcuni fra i più importanti, Daniel Miller, Arjun Appadurai, Igor Kopytoff, Michael Baxandall e Jeremy Tanner, hanno mostrato che gli artefatti non possono essere discussi soltanto secondo modelli linguistici e che il “visuale” fa parte delle forme materiali dell’azione sociale16. Al superamento della concezione dell’artefatto culturale come schermo sul quale proiettare ‘formazioni discorsive’ ha contribuito l’antropologo Alfred Gell, secondo il quale gli oggetti e tutti gli esseri viventi (dagli animali alle piante) non sono semplici recipienti passivi delle azioni e delle intenzioni umane. Nella misura in cui il loro essere al mondo produce delle conseguenze sociali e sensoriali, gli oggetti sono attori sociali esattamente come gli individui17. Anche nell’ambito degli studi sulla scienza e la tecnologia si è giunti a posizioni analoghe. La teoria dell’attore-rete, sviluppata da Michel Callon, Bruno Latour e John Law prevede che ogni fatto sociale sia il prodotto di una complessa rete di relazioni materiali e semiotiche in cui interagiscono attori sociali umani e non umani, questi ultimi definiti attanti18. Le prospettive illustrate sopra costituiscono la cornice metodologica di questo saggio. Esse offrono infatti modelli interpretativi estremamente utili per comprendere i diversi modi in cui la materialità compare nell’ambito della fotografia contemporanea italiana, all’interno di una tradizione improntata al realismo affettivo di Lattuada e all’eredità dell’informale inteso come istanza estrema del naturalismo. Ho scelto di trattare il rapporto fra fotografia e materialità in Italia concentrando la mia attenzione sul lavoro di quattro autori: Franco Vaccari, Mario Cresci, Guido Guidi e Luigi Ghirri. Con modalità ed esiti eterogenei e talvolta perfino antitetici, ciascuno di loro prende a tema la materialità dei contesti in cui viviamo e l’importanza che il dialogo fra individui e oggetti ha nelle complesse reti di relazioni che costituiscono i luoghi. L’arco temporale preso in esame si apre con il 1965, anno in cui Franco Vaccari realizza le sue prime poesie visive attraverso le quali porta nello spazio della pagina 15


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la materialità dell’esperienza della strada; prosegue con l’uso della fotografia come oggetto che agisce sul reale nell’ambito delle esperienze di attivismo urbano e urbanistica partecipata di Mario Cresci; passa per la fotografia fenomenologica di Guido Guidi, che si sviluppa attorno alla visione intesa come esperienza corporea e sensoriale, oltre che intellettuale, in costante dialogo con la teoria e la pratica dell’urbanistica; si chiude nel 1980, quando Luigi Ghirri, conclude il ciclo di lavori raggruppati sotto il titolo di Still-Life, passando da una fotografia che oscilla continuamente fra realtà e rappresentazione e che ha per protagonisti principali gli oggetti, ad una fotografia di paesaggio che è pura immagine, che privilegia cioè l’idea della fotografia come rappresentazione rispetto a quella della fotografia come oggetto materiale.

1. Lattuada Alberto, Occhio quadrato, Corrente Edizioni, Milano 1941. Il volume è riprodotto integralmente in Alberto Lattuada fotografo: dieci anni di Occhio quadrato, 1938-1948, a cura di Piero Berengo Gardin, Alinari, Firenze 1982. Oltre al fondamentale testo di presentazione al volume di Piero Berengo Gardin, sulle vicende culturali e politiche legate alla pubblicazione di Occhio quadrato si veda Sabastiani Gioia, I libri di Corrente. Milano 1940-1943: una vicenda editoriale, Edizioni Pendragon, Bologna 1998, pp. 42-47. 2. Sul dibattito estetico interno a “Corrente” si vedano Caramel Luciano, La premessa e l’eredità di Corrente, i “realismi” a Milano e a Roma, il Fronte Nuovo delle Arti, in L’arte in Italia: 1945-60, a cura di Luciano Caramel, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 9-20 e Corrente: il movimento di arte e cultura di opposizione 1930-1945, a cura di Mario De Micheli, Vangelista Editore, Milano 1985. 3. Evans Walker, American Photographs, con un saggio di Lincoln Kirstein, The Museum of Modern Art, New York 1938. La recensione compare su “Corrente”, anno II, n. 19, 31 Ottobre 1939. Nello stesso numero della rivista vengono pubblicati scritti di Lattuada e Comencini. 4. Lattuada, Occhio Quadrato, op. cit., pp. XIII-XV.

5. Antonella Russo ha analizzato le diverse fasi del neorealismo fotografico proponendo una convincente periodizzazione che vede la nascita del fenomeno nel 1941 con la pubblicazione di Occhio quadrato e il suo esaurirsi alla fine degli anni Quaranta, quando esso si trasforma in una sorta di realismo convenzionale, retorico e ideologico. Russo Antonella, Storia culturale della fotografia italiana, Einaudi, Torino 2011, pp. 3-94. 6. Barilli Renato, Informale, oggetto, comportamento, 2 vol., Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1979, vol. 1, p. 8. Il pensiero sull’informale come atto mondano e fenomenologico di un Barilli poco più che ventenne compare prima sulle pagine de “Il Verri” per poi confluire in Barilli Renato, L’informale e altri studi, Scheiwiller, Milano 1964 e Id., Per un’estetica mondana, Il Mulino, Bologna 1964. Sempre nel 1964 Barilli pubblica un saggio sulla letteratura italiana contemporanea dal titolo La barriera del naturalismo, Mursia, Bologna 1964. La tesi di Barilli è che il romanzo italiano del Novecento rompe la barriera invisibile fra scrittura e realtà costruita dal naturalismo ottocentesco, basato sull’idea che la natura umana e gli eventi della storia possano essere ricondotti a poche cause essenziali. Secondo Barilli, autori come Pirandello, Svevo e Moravia muovono la letteratura


italiana contemporanea verso una dimensione mondana e fenomenologica. 7. Arcangeli Francesco, Gli ultimi naturalisti, in “Paragone”, Novembre 1954, ripubblicato in Id., Dal romanticismo all’informale, Einaudi, Torino 1977. Sul pensiero di Francesco Arcangeli si veda Pasini Roberto, L’“ultimo naturalismo” e la situazione a Bologna negli anni Cinquanta, in Caramel, Arte in Italia: 1945-1960, op. cit., pp. 189-203. 8. Arcangeli, Dal romanticismo all’informale, op. cit., p. 313. 9. Ivi, p. 316. 10. Barilli, Informale, oggetto, comportamento, vol. 2, op. cit., p. 5. 11. È infatti proprio in quel decennio che escono, anche in traduzione italiana, due fondamentali contributi di McLuhan. McLuhan Marshall, Understanding Media: The Extensions of Man, McGraw-Hill Book Company, New York, Toronto e Londra 1964 [trad. it: Capire i media. Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967]; Mc Luhan Marshall e Fiore Quentin, The Medium Is the Message, Bantam Books, New York 1967 [trad. it.: Il medium è il messaggio, Feltrinelli, Milano 1968]. 12. Barilli Renato, Opera o comportamento? apparso nel catalogo della Biennale di Venezia del 1972 e ripubblicato in Barilli, Informale, oggetto, comportamento, vol. 2, op.cit., p. 97. 13. Uno dei principali fautori di questa tesi è Benjamin Buchloh. Secondo Buchloh, le forti componenti antitirazionaliste e antimoderne delle avanguardie storiche italiane sono state ereditate dalle neoavanguardie (lo studioso si riferisce in particolare all’arte povera), venendo a costituire un “punto di partenza negativo”. Bois Yve-Alain, Buchloh Benjamin, Foster Hal, Krauss Rosalind, Art Since 1900, Thames & Hudson, Londra 2004). [trad. it.: Arte dal 1900. Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo, Zanichelli, Milano 2006, pp. 509-514]. Sull’attualità della cultura filosofica contemporanea italiana come portato della centralità da questa attribuita all’esperienza mondana si veda Esposito Roberto, Pensiero Vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010, pp. 3-33 e pp. 207-265.

14. Per un’approfondita analisi di questi temi, corredata da ricchi apparati bibliografici, si vedano i saggi introduttivi dei volumi Photographies, Objects, Histories: on the materiality of images, a cura di Elizabeth Edwards e Janice Hart, Routledge, Londra e New York 2004, pp. 1-15 e Visual Sense: A Cultural Reader, a cura di Elizabeth Edwards e Kaushik Bhaumik, Berg, Oxford e New York 2008, pp. 3-16. 15. Mitchell W. J. T., What do pictures really want?, in “October”, n. 77, 1996, pp. 71-82; Id., There Are No Visual Media, in “Journal of Visual Culture”, vol. 4, n. 2, Agosto 2005, pp. 257-266. Interessanti contributi in questo senso provengono anche dall’analisi dei rapporti fra arte e neuroscienze. Freedberg David e Gallese Vittorio, Motion, Emotion and Empathy in Aestethic Experience, in “Trends in Cognitive Sciences”, Maggio 2007, vol. 11, n. 5, pp. 197-203. 16. Miller Daniel, Material Culture and Mass Consumption, Blackwell, Oxford e New York 1987 e, dello stesso autore, il più recente Stuff, Polity Press, Cambridge 2010; si vedano inoltre Appadurai Arjun, Commodities and the Politics of Value e Kopytoff Igor, The Social Life of Things: Commodization as Process, entrambi in The Social Life of Things. Commodities in Cultural Perspective, a cura di Arjun Appadurai, Cambridge University Press, Cambridge 1986, pp. 3-63 e pp. 64-94; Baxandall Michael, Painting and Experience in Fifteenth-Century Italy, Claredon Press, Oxford 1972 [trad. it.: Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Einaudi, Torino 1978] e, dello stesso autore, Patterns of Intention: On the Historical Explanation of Pictures, Yale University Press, New Haven 1985 [trad. it.: Forme dell’intenzione: sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Einaudi, Torino 2000]; Art’s Agency and Art History, a cura di Robin Osborne e Jeremy Tanner, Malden (MA), Blackwell 2007. 17. Gell Alfred, Art and Agency: An Anthropological Theory, Claredon Press, Oxford 1998. 18. Latour Bruno, Reassembling the Social. An Introduction to Actor-Network Theory, Oxford, University Press, Oxford e New York 2005. 17


Photomatic d’Italia, 1972-1974. Fotografia a colori e photo strip b/n montate su cartone, 50x35 cm. Archivio dell’artista, Modena. Courtesy P420, Bologna


1 Dalla strada alla pagina e ritorno: fotografia, poesia visiva e materialità nella ricerca artistica di Franco Vaccari

Il lavoro di FrancoVaccari testimonia il passaggio dall’artistico all’estetico, dall’opera al comportamento, che dilaga nella scena internazionale degli anni Sessanta. Esso riflette un clima culturale in cui la ricerca artistica non è più finalizzata esclusivamente alla produzione di opere, ma anche alla messa in atto di processi e di relazioni che coinvolgono la collettività e nei quali viene meno la differenza fra artista e pubblico. La fotografia come oggetto materiale legato al vissuto quotidiano negli spazi privati domestici e negli spazi pubblici urbani occupa un ruolo di centrale importanza nella pratica e nella riflessione teorica dell’artista. È a mio avviso anche per questo che la figura di Vaccari diviene, fin dalla fine degli anni Sessanta, un punto di riferimento per la cultura fotografica italiana, e in particolare per i fotografi il cui lavoro è indirizzato alla riflessione sui temi dell’abitare, della città e del territorio. La pratica artistica e le riflessioni teoriche di Vaccari sono inoltre di grande importanza per gli artisti contemporanei che, a partire dalla metà degli anni Novanta, lavorano in Italia a progetti di arte pubblica utilizzando i modelli della relazione e della partecipazione1. Laureatosi in Fisica a Milano nel 1962, Vaccari si avvicina alla fotografia alla fine degli anni Cinquanta sulla scia di una serie di autori fra loro decisamente diversi, ma accomunati dall’interesse verso l’esplorazione sistematica di singole situazioni, di un ambiente, di un città, e da uno stile crudo e diretto, lontano da ogni ‘poeticità’. Primo fra tutti l’americano Paul Strand, che nel 1955 pubblica con il giornalista e sceneggiatore neorealista Cesare Zavattini uno dei primi fotolibri editi in Italia: Un Paese 2. Costruito attorno all’idea di una possibile interazione fra cinema, letteratura e fotografia, il volume nasce come il primo di una collana di libri fotografici ideata dallo stesso Zavattini e proposta a Einaudi nel 1952, ma mai realizzata. Il nome della collana è Italia mia, titolo 19


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Stabilimento bagni Dea Fortuna, 1966. Collage fotografico, 16x18 cm. Courtesy Galleria Mazzoli, Modena

‘alti’, l’attenzione verso il kitsch e l’iconografia pop; il superamento della nozione tradizionale di autore in favore di una coralità costituita dalle voci anonime della collettività; l’emergere dello spazio urbano come luogo privilegiato della ricerca artistica; il tentativo di fare della pratica artistica uno strumento di resistenza critica all’alienazione dell’individuo nella società di massa attraverso l’uso ‘detournato’ della tecnologia, ovvero di strumenti mass mediatici quali la fotografia, il film, il video. Nell’introduzione al volume, Adriano Spatola presenta Vaccari come un antropologo della modernità urbana. I graffiti, che trasformano la città in un enorme museo diffuso del rimosso e del represso, rappresentano l’incontro fra le istanze più primitive e radicali dell’uomo e il panorama iconografico della


piacciono, non si riconoscono, e che non mostrano volentieri agli altri. L’intento di Vaccari è proprio quello di rovesciare queste modalità di produzione e finalità d’uso, trasformando i ritratti anonimi prodotti meccanicamente in strumento ludico e liberatorio di riappropriazione degli spazi del quotidiano e di rottura dei confini autoreferenziali del mondo dell’arte20. Come spesso avviene con le esposizioni in tempo reale, il progetto prevede la realizzazione di un libro. Mettendo insieme duemilaseicento foto tessere selezionate fra le oltre seimila raccolte, Vaccari realizza un album fotografico collettivo stampato nel 1973 in cinquecento copie21. A chi accetta l’invito a fotografarsi, l’artista rilascia un attestato di partecipazione numerato e firmato. Dall’attestato è possibile staccare una cartolina da spedire per posta allo stesso Vaccari nella quale ai partecipanti viene chiesto di indicare il proprio indirizzo. Questo consente all’artista di avvertire le persone coinvolte nell’operazione dell’uscita del volume. L’interesse e la curiosità del pubblico verso un libro nel quale è rappresentato il proprio volto garantisce all’operazione un sicuro successo, tanto che le cinquecento copie in vendita si esauriscono immediatamente. Ancora una volta, la formazione scientifica di Vaccari ha un ruolo importante nella sua ricerca artistica. L’operazione della Biennale del 1972 presenta dei forti legami con la camera di Wilson, utilizzata in fisica per la rivelazione di particelle elementari. La camera di Wilson è uno spazio chiuso a tenuta ermetica che contiene aria satura di vapore acqueo. Se all’interno della camera

Esposizione in tempo reale, La Nuova Foglio, Pollenza (MC), 1973 35


Manifestazione di protesta dei terremotati siciliani / Roma, 1968. Stampa eliografica su carta, 46x1300 cm piegata a soffietto. Archivio dell’autore, Bergamo


2 La fotografia come oggetto che agisce sul reale: Mario Cresci fra attivismo urbano e urbanistica partecipata

Seppure con esiti diversi rispetto a quelli di Franco Vaccari, il tema della fotografia come oggetto materiale che esiste in spazi e tempi reali è al centro della riflessione di Mario Cresci. In uno scritto del 1995 dal titolo Emozioni e regole, Cresci mette in relazione il suo interesse verso la materialità alla fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty, che ricolloca le essenze nell’esistenza e che guarda all’uomo e al mondo nella dimensione della loro ‘fatticità’. L’artista fa inoltre esplicito riferimento alla “riduzione fenomenologica di Husserl che vede la verità abitare non più nell’‘uomo interiore’ quanto nel suo essere nel mondo e in esso riconoscersi”. Egli dichiara infine di cercare sempre le ragioni del suo “essere presente” nei contesti sociali in cui si trova ad agire, e di utilizzare la fotografia come strumento capace di “tracciare modelli di socialità non estranei all’identità dei luoghi e delle persone”1. Cresci si presenta come un operatore all’interno della rete complessa di relazioni che lega fra loro le persone, gli animali, gli oggetti e il territorio, e concepisce la pratica artistica come costantemente aperta al confronto con il prossimo e sempre discutibile e soggetta ad aggiustamenti. Fra gli autori presi in esame nell’ambito di questo scritto, Cresci è quello più direttamente attivo sul fronte dell’impegno politico e sociale. Tutto il suo lavoro si sviluppa attorno all’idea dell’intervento diretto sul reale mutuata dalla cultura del progetto architettonico, urbanistico e del design. Impegnato nella ricerca sul campo nell’ambito di una serie di interventi urbanistici di pianificazione territoriale in Basilicata, egli applica le teorie e le pratiche artistiche neo-avanguardistiche, verificandone la validità attraverso il confronto diretto con la realtà sociale. Questo è un fatto straordinario, che restituisce alla ricerca artistica un ruolo di grande importanza nella progettazione del futuro di una comunità. 51


Nato nel 1942 a Chiavari, in provincia di Genova, fra il 1963 e il 1966 Cresci frequenta il Corso Superiore di Disegno Industriale diVenezia, dove insegnano gli architetti, urbanisti e designer Carlo Scarpa, Angelo Mangiarotti, Mario Bellini e Gino Valle, i graphic designer Massimo Vignelli e Bob Noorda, il fotografo e storico della fotografia Italo Zannier, il filosofo e linguista Silvio Ceccato, esperto di cibernetica2. Il CSDIV, istituito nel 1960 per volontà degli industriali del mobile del Veneto con la finalità di formare giovani professionisti da impiegare nel settore, è un luogo d’avanguardia e di sperimentazione e una scuola dalla didattica innovativa. Esso si ispira al modello della leggendaria scuola di progettazione grafica e di disegno industriale fondata nel 1953 a Ulm (Germania) da Inge Aicher-Scholl, Otl Aicher e Max Bill raccogliendo l’eredità del Bauhaus e del sovietico istituto superiore d’arte Vchutemas, attivo a Mosca fra il 1920 e il 1927. In linea di continuità con la tradizione di queste due scuole, l’obiettivo della Hochschule für Gestaltung di Ulm è superare l’idea del design come attività artistica e di estenderne le applicazioni, attraverso l’industria, a tutti i settori della vita. In particolare, sotto la direzione di Tomás Maldonado, teorico e docente di semiotica e metodologia della progettazione, oltre che progettista architettonico-industriale, la scuola sviluppa il lavoro interdisciplinare in una prospettiva incentrata sul design dei sistemi piuttosto che sul design del prodotto. I laboratori finalizzati all’acquisizione


Manifestazione di protesta dei terremotati siciliani / Roma, 1968. Stampa eliografica su carta, 46x1300 cm piegata a soffietto. Archivio dell’autore, Bergamo

delle competenze pratiche vengono affiancati a lezioni teoriche. L’obiettivo è formare figure professionali capaci di operare su più livelli, dal prodotto al coordinamento dell’immagine aziendale. Nella prospettiva di Maldonado, il progettista è un intellettuale tecnico che ha un ruolo sociale che comporta delle responsabilità verso la collettività. Di qui, la necessità di un’educazione improntata all’etica, capace di garantire il rispetto e la tutela dell’ambiente e di contrastare gli eccessi della razionalità tecnocratica3. Nel periodo in cui Cresci è studente a Venezia, il Corso Superiore di Disegno Industriale è frequentato da alcuni componenti del Gruppo Enne, fondato a Padova nel 1959 da artisti, designer e architetti quali Alberto Biasi, Manfredo Massironi, Edoardo Landi, Toni Costa, Gaetano Pesce, Ennio Ludovico Ghiggio, Alessandro Anselmi. Prendendo di mira il sistema dell’arte e la figura dell’artista, il Gruppo Enne realizza opere-oggetto firmate collettivamente basate sui concetti di anonimato, di diversità e di incoerenza nella produzione. Fondamentali per le ricerche del gruppo sono le teorie dell’informazione e della meccanica quantistica, insieme al concetto di ‘opera aperta’ formulato da Umberto Eco e allo strumentalismo di John Dewey4. L’esperienza trasversale di integrazione e contaminazione di discipline, pratiche e saperi al CSDIV è di fondamentale importanza per l’attività di Cresci. Alla fine degli anni Sessanta, partecipe del clima di grande fervore politico e culturale del periodo, egli svolge contemporaneamente attività 53


Spagna 1978. Otto stampe ai sali d’argento, 7.4x10.5 cm ciascuna. Archivio dell’artista, Ronta (Cesena)


3 Farsi macchina: la fotografia fenomenologica di Guido Guidi come specchio del reale nel mare dell’oggettività

Lo spazio come complessa rete di relazioni semiotiche e materiali che si attivano nel momento dell’esperienza è il tema centrale della ricerca di Guido Guidi. Per Guidi, come per Vaccari e Cresci, la fotografia non è solo rappresentazione, ma l’insieme degli oggetti materiali che la costituiscono come ‘apparato’, oggetti che hanno una propria vita sociale e una propria ‘personalità’; oggetti nuovi e oggetti vecchi usurati dall’uso e dal tempo, e dunque dotati di una propria ‘età’: i negativi, le macchine fotografiche, gli obiettivi, gli esposimetri, i cavalletti, gli ingranditori, le vasche, gli essiccatori, i prodotti chimici per lo sviluppo e la stampa, le carte, i diversi modi di conservare e presentare i negativi e le stampe fotografiche. Connotato da forti componenti performative e rituali, il lavoro di Guidi nasce dall’incontro e dal dialogo con l’esistente, di cui sia l’autore che l’apparato fotografico sono parte integrante. Esso è il frutto di interrogazioni e di relazioni con gli esseri viventi e gli oggetti, di continui ritorni, rimandi e ripensamenti che non prevedono gerarchie e risposte predeterminate. Il suo pensiero non segue i percorsi della logica razionale, che prevede un osservatore posizionato al di fuori del campo di osservazione, ma quelli dell’essere al mondo, nelle cose, fra le cose e con le cose. “Il problema – egli afferma – è quello di essere dentro, come dice Merleau-Ponty. Io non guardo soltanto il paesaggio, ma ne faccio esperienza, perché io stesso sono dentro il paesaggio, vedo il paesaggio che guarda me”1. Guido Guidi nasce a Cesena nel 1941. Frequenta il Liceo Artistico di Ravenna dove, durante gli anni Cinquanta, studia con il pittore Luigi Varoli. Attraverso la figura poliedrica di Varoli, protagonista e animatore della scena artistica romagnola e maestro d’arte di grande influenza sui giovani, Guidi conosce la pittura informale e in modo particolare gli informali americani, di cui lo colpisce il rapporto gestuale e corporeo con lo spazio2. Nel 1959 si iscrive alla Facoltà di Architettura di Venezia, dove studia con Bruno Zevi, Carlo Scarpa e con il pittore spazialista Mario de Luigi, docente di scenografia. 81


fotografia e materialità

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Preganziol 1978-79. Stampa ai sali d’argento, 13x18 cm. Archivio dell’artista, Ronta (Cesena)

risulta l’uso simultaneo di modalità di ripresa molto diverse fra loro. Durante gli anni Settanta, Guidi scatta fotografie su medio e grande formato della città diffusa che si dipana crescendo continuamente, utilizzando la lentezza come metodo fondante del suo lavoro di ricognizione del territorio. Nello stesso periodo, egli realizza una serie di immagini ‘veloci’ con una fotocamera 35 mm utilizzando il flash e il fuoco fisso per assicurarsi il massimo della nitidezza. Si tratta di fotografie scattate in maniera del tutto estemporanea, scegliendo deliberatamente di non guardare nel mirino e di utilizzare il flash, cioè una luce i cui effetti non si possono osservare prima di scattare. Parallelamente, sempre senza guardare nel mirino, scatta delle fotografie al paesaggio dal finestrino dell’automobile in movimento. Ancora una volta, Guidi si pone in posizione dialogica con la macchina fotografica, alla quale chiede di sorprenderlo. Se nel grande formato la sorpresa si materializza in un ‘errore’ che è anche il portato della rudimentalità dello strumento (che come abbiamo visto il fotografo si costruisce da solo), in queste fotografie è la velocità che lascia emergere dettagli altrimenti inosservati. Come nel caso delle fotografie ‘lente’ di grande formato, in


queste fotografie ‘veloci’ il lavoro di Guidi si sviluppa attorno all’incontro fra il fotografo, la macchina fotografica e lo spazio. Anche in questo caso, infine, quest’incontro è connotato da forti elementi rituali e performativi. Una serie di immagini giocose e ironiche scattate a Preganziol nel 1979, nelle quali compare anche l’amico Paolo Costantini, conosciuto da poche settimane tramite Italo Zannier, esemplificano perfettamente quanto illustrato sopra. Uno studente dà a Guidi una fotografia che gli ha fatto. Poco dopo, Guidi incontra casualmente Costantini, gli mette la fotografia fra gli occhiali e l’occhio destro e, mentre lo stesso Costantini indica l’immagine, gli scatta una foto. In una seconda foto, egli ritrae soltanto la mano dell’amico, con il dito indice che punta verso sinistra, fuori dalla fotografia. Infine c’è un’immagine nella quale un grande foglio bianco attaccato al muro con del nastro adesivo campeggia, abbagliato dal flash, su una parete sopra un divano. È vuoto e sembra in attesa di essere utilizzato. Ma cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che il rapporto osservatore/oggetto osservato non è unidirezionale. Che l’oggetto osservato oltre ad essere guardato guarda l’osservatore. Questo succede perché nel dialogo/incontro fra osservatore e oggetto osservato c’è un terzo elemento: la vita. E la vita sta sempre fuori dalla sua rappresentazione.

1. Guido Guidi in conversazione con Antonello Frongia in “L’uomo nero”, n. 9, dicembre 2012, p. 407, numero speciale della rivista a cura di Silvia Paoli e Giorgio Zanchetti dedicato agli incontri “Storie di fotografia” organizzati al Castello Sforzesco di Milano fra l’ottobre 2007 e il marzo 2010 dal Civico Archivio Fotografico del Comune di Milano e dal Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dell’Università degli Studi di Milano.

La prospettiva estetica di Lionello Venturi, Le Càriti Editore, Firenze 2004. Sui rapporti fra Venturi e l’impressionismo si veda Iamurri Laura, Lionello Venturi e la modernità dell’impressionismo, Quodlibet, Macerata 2010.

2. Su Luigi Varoli, artista e musicista, appassionato di cultura materiale e protettore di ebrei e partigiani, si veda Luigi Varoli. Un maestro del Novecento (18891958), a cura di Orlando Piraccini, Editrice Compositori, Bologna 2008.

4. Wölfflin Heinrich, Prolegomena zu einer Psychologie der Architektur, 1886 [trad. it.: Psicologia dell’architettura, con una introduzione di Ludovico Scarpa, Et Al., Milano, 2010]; Id., Kunstgeschichtliche Grundbegriffe: das Problem der Stilentwicklung in der neueren Kunst, F. Bruckmann, Monaco 1915 [trad. it.: Concetti fondamentali della storia dell’arte: la formazione dello stile nell’arte moderna, Longanesi, Milano 1953].

3. Venturi Lionello, Il gusto dei primitivi, Zanichelli, Bologna 1926. Per un’analisi di Lionello Venturi fra pura visibilità e idealismo crociano cfr. Sciolla Gianni Carlo, La critica d’arte del Novecento, Utet, Torino 1995, pp. 148-153; Cardelli Mascia,

5. Sull’influenza esercitata da Wölfflin e Venturi su Carlo Scarpa e Bruno Zevi si vedano Dulio Roberto, Introduzione a Bruno Zevi, Laterza, Roma 2008 e Dal Co Francesco e Mazzariol Giuseppe, Carlo Scarpa 19061978, Electa, Milano 1984. 105


Modena, 1971, dalla serie Catalogo (1970-1979). Stampa a colori da negativo, 20x28 cm. Immagine tratta da Luigi Ghirri, Parma, 1979


4 Fra realtà e rappresentazione: i trompe-l’œil fotografici di Luigi Ghirri

I fotografi che ho fin qui discusso, il cui lavoro è legato al pragmatismo e alla fenomenologia esistenzialista, non mettono in discussione l’esistenza del reale ma anzi ne esaltano la presenza e la materialità. Essi concepiscono l’esperienza come incontro imprevedibile, paritetico e multisensoriale fra l’individuo, l’ambiente e gli oggetti nell’hic et nunc di tempi e spazi reali. La prima ricerca di Luigi Ghirri si colloca in un orizzonte culturale diverso. Raccogliendo l’eredità della pop art, per tutti gli anni Settanta Ghirri indirizza la sua attenzione verso la cultura bassa e lo stereotipo. Per lui, la realtà non è l’esperienza del presente, ma la rappresentazione di un qualcosa che è già stato. Questo fa del ‘primo’ Ghirri un’espressione del fenomeno del postmodernismo1. Tuttavia, collocare il fotografo nell’ambito di questo ampio filone culturale non basta a spiegare interamente il dejá-vù ghirriano. Per comprendere a fondo le ‘rappresentazioni delle rappresentazioni’ di Ghirri è necessario chiedersi di quale particolare declinazione del postmoderno esse siano il sintomo. Poiché, come cercherò di dimostrare in queste pagine, nonostante si possa senza dubbio affermare che le sue immagini parlino l’idioma della postmodernità, esse lo fanno mantenendo un forte accento locale. In altre parole, Ghirri non è mai del tutto disancorato dal reale, né presenta la soggettività come interamente precostituita dal linguaggio. Il racconto autobiografico è infatti ingrediente fondamentale delle sue fotografie: le memorie dell’Italia di provincia degli anni della Ricostruzione, l’infanzia trascorsa nella realtà rurale di Scandiano, in Emilia, la provenienza da una famiglia di artigiani e piccoli commercianti (il padre era falegname specializzato nel montaggio dei mulini a cilindri), l’appartenenza alla piccola borghesia delle villette a schiera costruite nell’Italia del boom economico nelle periferie delle città. In altre parole, Ghirri non è mai postmoderno fino in fondo. Pur nella forma del già visto e del già detto, il legame personale con 109



Conclusioni

Attraverso l’analisi del lavoro di Franco Vaccari, Mario Cresci, Guido Guidi e Luigi Ghirri, questo libro offre una lettura del rapporto fra fotografia e materialità in Italia negli anni Sessanta e Settanta. Esso mette in evidenza come, sebbene con metodi differenti e risultati eterogenei, questi autori abbiano sviluppato la loro ricerca a partire da un approccio multisensoriale alla fotografia intesa non soltanto come rappresentazione, ma soprattutto come oggetto materiale e agente sociale collocato all’interno delle complesse reti di relazioni che costituiscono la base dei legami sociali. Alle radici dell’interesse di questi autori verso la materialità è l’inclinazione fenomenologico-esistenziale di molta ricerca artistica nel nostro paese, che ha determinato il persistere, anche negli anni in cui il postmoderno ha dominato la scena internazionale, di pratiche che non negano alla realtà il suo diritto di esistere al di fuori degli schemi linguistici, concettuali e interpretativi utilizzati per interpretarla, e che non negano all’individuo come corpo fatto di carne ed ossa la sua capacità di un esperienza non mediata del reale. In particolare, è attraverso l’eredità di una tradizione culturale improntata al ‘realismo affettivo’ di Lattuada e all’informale inteso come espressione ultima del naturalismo che il rapporto fra fotografia e materialità si dipana nel lavoro degli autori presi in esame. A partire da questi presupposti, il libro offre un’analisi dell’importanza del rapporto fra poesia visiva, teatro sperimentale, spazio urbano e fotografia nella genesi delle esposizioni in tempo reale di Franco Vaccari; dell’uso della fotografia come agente sociale nell’ambito degli interventi urbanistici realizzati a Tricarico e a Matera da Mario Cresci insieme al gruppo interdisciplinare Polis; del dialogo di Guido Guidi con la fotografia intesa non soltanto come immagine, ma come complesso e multiforme ‘apparato’ materiale fatto, oltre che di negativi e stampe, anche di macchine fotografiche, esposimetri, cavalletti, ingranditori e quant’altro, un dialogo 137


fotografia e materialità

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nato in giovane età e sviluppato poi attraverso il contatto con la teoria e pratica dell’urbanistica ‘dal basso’; della funzione di souvenir dei trompe l’œil fotografici di Luigi Ghirri, a cavallo fra fotografia e rappresentazione. Se alle questioni indicate sopra questo studio tenta di fornire delle risposte, esso apre la strada ad alcuni interrogativi sul tema della materialità che riguardano la fotografia e che necessitano di ulteriori ricerche e approfondimenti. Rimangono a oggi poco studiati i caratteri locali del concettualismo italiano, e in particolare l’interesse verso la materialità e l’impegno politico e sociale, elementi che l’arte concettuale anglosassone ha prevalentemente negato in nome della dematerializzazione dell’oggetto artistico e della nozione dell’arte come linguaggio. I legami fra poesia visiva, poesia concreta e poesia sonora, il teatro sperimentale d’avanguardia e le arti visive in Italia sono ancora in gran parte inesplorati e meritano maggiore attenzione da parte degli studiosi soprattutto per quel che riguarda, per dirla con Adriano Altamira e Franco Vaccari, la messa al bando della metafora, cioè di ogni forma di rappresentazione basata sulla sostituzione per analogia, in favore della metonimia, cioè di una forma di rappresentazione caratterizzata dalla contiguità fisica e semantica, e dunque dalla presenza, dalla fisicità, dalla materialità. Infine, una ricerca specificatamente dedicata all’uso della fotografia nell’ambito dei progetti multidisciplinari di analisi e intervento sul territorio basati sui modelli dell’urbanistica partecipata e della democrazia partecipativa, e legati anche alle politiche di tutela del territorio, di decentramento e di autonomia locale attivate negli anni Settanta, fornirebbe certamente risultati di grande interesse ai fini della ricostruzione della storia del rapporto fra fotografia e territorio in Italia, e offrirebbe interessanti esempi per l’oggi. Come ho cercato di dimostrare in questo libro, le esperienze degli anni Settanta ci insegnano che la fotografia può essere usata come strumento di analisi e di intervento con modalità diverse rispetto al modello della campagna fotografica che – in un mutato clima sociale, politico e culturale – prende piede negli anni Ottanta. Le campagne fotografiche degli anni Ottanta spesso vedono il fotografo lavorare in autonomia, in risposta alla sopraggiunta esigenza di metterne in risalto l’autorialità artistica. Una modalità questa assai lontana dall’attivismo politico e sociale che, sull’onda delle grandi utopie rivoluzionarie, caratterizza il decennio precedente. Negli anni Settanta l’autore non si considera artista, ma piuttosto produttore. In piena coerenza con questo presupposto, i progetti di quegli anni mostrano


come la fotografia possa operare come uno fra tanti strumenti di intervento politico, sociale, culturale e comunicativo in dialogo fra loro, fornendo visioni e idee per l’azione a cavallo fra discipline e pratiche diverse, e indirizzando l’attenzione verso le complesse reti di relazioni semiotiche e materiali che costituiscono la base dei legami sociali. Anche se la cultura italiana occupa un ruolo di centrale importanza in questo studio, ho deliberatamente evitato di tracciare una linea interpretativa articolata attorno al concetto di identità nazionale. Piuttosto che cercare di capire in cosa consista l’italianità delle produzioni artistiche del nostro paese, ho ritenuto più interessante domandarmi perché molti artisti italiani non abbiano mai del tutto aderito al modello postmoderno, e tentare di trovare le radici storiche di questo fenomeno. In questa prospettiva, la questione dell’italianità compare come contenuto che affiora attraverso le vicende biografiche degli autori, nell’incontro fra storie personali, storie locali e storia nazionale, vicende che rimandano a contesti culturali, sociali, politici e istituzionali spesso trascurati quando non del tutto ignorati nell’ambito della storia della fotografia. Per questo motivo, la trattazione del lavoro degli autori si snoda proprio attorno alle storie delle loro vite e ai contesti nei quali ciascuno di essi si è formato e ha operato, talvolta percorrendo vie tutt’altro che semplici o lineari in un momento in cui il mezzo fotografico andava lentamente istituzionalizzandosi in Italia.

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Ringrazio tutte le persone che, in modi diversi, hanno contribuito alla realizzazione di questo lavoro: Matteo Balduzzi ,Giulia Crisci, Melania Foresti, Laura Gasparini, William Guerrieri, Raimondo Innocenti, Alba Morino, Arabella Natalini, Peppino Ortoleva, Luca Panaro, Elena Re, Antonella Russo, Roberta Valtorta. Un particolare ringraziamento va a Mario Cresci e Mariagrazia Dilemmi, Giovanni Franchino, Antonello Frongia, Guido Guidi e Marta Zoffoli, Franco Vaccari e Elisabetta Ronchetti, Stefano Velotti.


Going Public di Boris Groys

Wilhelm von Gloeden Ritratti, travestimenti, tableaux vivants di Raffaella Perna

Art power di Boris Groys

Politica della fotografia di David Levi Strauss

Il radicante di Nicolas Bourriaud

Feedback Scritti su e di Franco Vaccari Postproduction Come l’arte riprogramma il mondo

di Nicoletta Leonardi

di Nicolas Bourriaud

Per un museo della fotografia a Roma di Raffaella Perna e Ilaria Schiaffino

Feedback. La televisione contro la democrazia di David Joselit

Il ritorno del reale L’avanguardia alla fine del Novecento

L’architettura del fallimento

di Hal Foster

di Douglas Murphy

Design & Crime Olafur Eliasson. La memoria del colore e altre ombre informali

di Hal Foster

di AAVV

Il mondo nuovo. Guida tascabile #design #socialmedia #alterazioni L'abuso della Bellezza

di Stefano Mirti

di Arthur Danto

Gerhard Richter La pratica quotidiana della pittura

Programma o sarai programmato Dieci istruzioni per sopravvivere all'era digitale

di Hans Ulrich Obrist

di Douglas Rushkoff

Vite precarie I poteri del lutto e della violenza di Judith Butler 143


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