Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta

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Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta di Raffaella Perna Š 2013 Postmedia Srl, Milano Design: Marina Metaxa www.postmediabooks.it ISBN 9788874901081


Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta

Raffaella Perna

postmedia books



Il contesto storico e politico italiano 7

Arte femminista e medium fotografico 13

SpecificitĂ del contesto artistico italiano 21

Altra misura: fotografia e arte femminista in mostra 25

Alfabeti della differenza 43

Autoritratti fotografici 65

Postfazione di Silvia Bordini 103 Bibliografia 106


Paola Agosti, Manifestazione di studentesse femministe, Roma, febbraio 1976


Il contesto storico e politico italiano

Negli anni Sessanta e Settanta il movimento femminista italiano presenta caratteri distintivi che è opportuno delineare, seppur sinteticamente, al fine di contestualizzare storicamente la ricerca artistica femminista emersa negli stessi anni nel nostro Paese. In controtendenza rispetto alla maggioranza dei movimenti europei e americani, il femminismo in Italia assume una posizione antagonista rispetto al modello emancipazionista e garantista affermatosi nelle società liberali occidentali a partire dalla fine del XIX secolo: esso svolge un’azione di critica radicale verso gli obiettivi di conquista di uguaglianza giuridica e di parità formale tra i sessi, perseguiti fin dal secondo dopoguerra dalle due organizzazioni politiche femminili, il Centro italiano femminile (CIF) e L’Unione donne italiane (UDI), nate durante la Resistenza per iniziativa, rispettivamente, della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista1. Molti gruppi del neofemminismo italiano si schierano contro le leggi di protezione delle donne varate nei primi anni Settanta, criticando tra l’altro la legge di tutela della lavoratrice madre approvata nel dicembre del 1971 (che prevede un trattamento di favore nell’orario e nelle mansioni lavorative), perché in essa viene riconosciuta implicitamente l’idea che la cura domestica e familiare sia un dovere sociale riservato alle donne. Dietro il concetto di emancipazione le femministe vedono un modo per ratificare la presunta debolezza del sesso femminile, attraverso una politica di protezione che ha come conseguenza quella di assegnare alla donna il doppio ruolo di lavoratrice e angelo del focolare. Il neofemminismo italiano muove dal presupposto che la differenza femminile «non chiede tutela o protezione, ma diritto di esistenza […]. Il concetto di uguaglianza così come si è affermato nella storia altro non sarebbe che il tentativo di omologare le donne agli uomini in modo forzato e innaturale, ovvero renderle cittadine equiparandole semplicemente all’ordine politico maschile, neutro e universale per definizione»2. Sulle implicazioni e i risvolti negativi del concetto di uguaglianza si sofferma Carla Lonzi nel celebre pamphlet Sputiamo su Hegel (1970), in cui l’autrice affronta il rapporto tra uomo e donna in termini di differenza: «L’uguaglianza è un principio giuridico: il denominatore comune presente in ogni essere umano a cui va reso giustizia. La differenza è un principio esistenziale che riguarda i modi dell’essere umano, la peculiarità delle sue esperienze, delle sue finalità, delle sue aperture, del suo senso dell’esistenza in una situazione data e nella situazione che vuole darsi. Quella tra donna e uomo è la differenza di base dell’umanità. […] L’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti. È quanto si impone loro sul piano 7


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della cultura. È il principio in base al quale l’egemone continua a condizionare il non-egemone»3. Nell’operare una critica al sistema maschile dominante, le militanti femministe ritengono necessario allontanarsene, mettendo in atto forme di separatismo e dando vita a gruppi, spesso di dimensioni ridotte, in cui sperimentare la pratica dell’autocoscienza. Il confronto avviene a partire da sé e dalla propria esperienza, nella convinzione che il vissuto personale abbia rilevanza politica. Soltanto nella seconda metà degli anni Settanta si assisterà invece a un avvicinamento di numerosi gruppi femministi alle istituzioni e alle organizzazioni femminili dei partiti della sinistra storica: una convergenza tra le militanti femministe e l’UDI si avrà in particolare in occasione delle mobilitazioni di piazza del 1976 per l’approvazione della legge sull’aborto e nel caso del progetto di legge contro la violenza sessuale, il cui difficile iter legislativo si protrarrà fino al 1996. Anche nel rapporto con il movimento studentesco – con cui pure il femminismo condivide il carattere anti-istituzionale e anti-autoritario e la critica alla famiglia patriarcale – si opera una frattura, dovuta principalmente al riproporsi all’interno della comunità studentesca di modelli di comportamento tradizionali. «Il giovane è oppresso dal sistema patriarcale», scrive Lonzi, «ma pone nel tempo la sua candidatura a oppressore; lo scoppio di intolleranza dei giovani ha questo carattere di interna ambiguità»4. Divergenze, talvolta anche molto profonde, caratterizzano lo stesso movimento femminista, che non presenta una fisionomia unitaria, ma esprime prospettive e orizzonti molteplici. Il dibattito sull’aborto, come prima quello sul divorzio, spacca l’opinione pubblica italiana e divide i gruppi femministi: se il Movimento di liberazione della donna (MLD), costituito nel 1970 e federato al Partito Radicale, ha tra i suoi primi obiettivi la liberalizzazione e la legalizzazione dell’aborto al fine di conquistare il diritto di disporre liberamente del proprio corpo5, il gruppo di Rivolta Femminile, a cui fanno capo, oltre a Lonzi, anche artiste come Carla Accardi e Suzanne Santoro, ritiene invece che una legge per depenalizzare l’aborto non ponga rimedio alla condizione di subalternità sessuale delle donna: «L’uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire: sola, gratificata, degna della collettività. Ma la donna si chiede: Per il piacere di chi sono rimasta incinta? Per il piacere di chi sto abortendo?»6. In questa prospettiva, la legge sull’aborto non fa altro che perpetuare il predominio della sessualità maschile su quella femminile; per le femministe di Rivolta Femminile l’obiettivo indispensabile da conseguire per mutare i rapporti di forza tra i sessi


Paola Agosti, Manifestazione femminista per la festa della donna, Roma, 8 marzo 1978


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Verita Monselles, copertina di “Effe�, settembre 1975


Arte femminista e medium fotografico

L’attività dei gruppi femministi ha prodotto un vasto e articolato novero di teorie volte a comprendere l’operato delle istituzioni, il funzionamento dell’ideologia e i meccanismi con cui le immagini creano significati e influenzano il fruitore, dando avvio a un processo di critica e di sostanziale ridefinizione delle modalità di rappresentazione vigenti. Considerato nel suo complesso, il femminismo ha costituito la sfida forse più radicale al pensiero occidentale e alla cultura patriarcale della società capitalista; la sua storia tuttavia si lega a una pluralità di prospettive e di azioni eterogenee che hanno generato e continuano tuttora a generare intensi dibattiti. In ambito artistico si assiste a un’analoga molteplicità di pratiche, di forme e di media adottati: è dunque utile chiarire sin d’ora il senso in cui si adopera l’espressione “arte femminista” e soprattutto i criteri per cui si è scelto di analizzare la sperimentazione femminista italiana proprio a partire dall’uso del medium fotografico. Il dibattito critico degli ultimi quarant’anni ha toccato questioni complesse che implicano, tra l’altro, l’opportunità di riscrivere la storia o, per meglio dire, le storie dell’arte a partire da un’ottica della differenza che tenga conto anche dell’esperienza di autrici poste ai margini del sistema dell’arte e si interroghi sulle motivazioni di tale marginalità8. Il discorso femminista si è soffermato sulla possibilità stessa di rintracciare tratti specifici di un’arte delle donne9, avendo tuttavia presente l’insidia del formulare interpretazioni di carattere essenzialista, basate cioè su una concezione del femminile come categoria biologica e astorica, sganciata dall’analisi dei fenomeni socio-culturali10. Nel contempo la critica femminista non si è limitata a proporre una lista di nomi di donne da aggiungere a un modello di storia dell’arte fondato su criteri maschili, impegnandosi invece a smantellarne i presupposti e a immaginare canoni alternativi per scrivere la storia11. Con uno sguardo fortemente autocritico, la teoria femminista si è rivolta al proprio interno per mettere in discussione le proprie metodologie e i propri modelli interpretativi e per analizzare la propria complicità nei confronti delle stesse ideologie da decostruire. È il pensiero femminista ad avere messo in guardia sulla parzialità dello sguardo e del punto di vista di chi scrive e interpreta la storia. La critica d’arte si è concentrata sui legami tra femminismo, modernismo e postmodernismo12 e, in tempi più recenti, sulle aperture e sui cambiamenti generati dalla prospettiva postcolonialista e dal fenomeno della globalizzazione13. Gli studi femministi hanno affrontato in via prioritaria le relazioni ambigue e instabili tra arte, politica e soggettività, trovando punti di tangenza con i Raffaella Perna

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Suzanne Santoro, Senza titolo, 1973

tentativo nostalgico di riproporre il paradigma modernista della purezza dei mezzi espressivi. La scelta si lega piuttosto all’idea che il superamento della divisione tra generi artistici e del concetto di autonomia dell’arte, che le neoavanguardie ereditano dalle avanguardie storiche, sia strettamente connesso all’uso della fotografia intesa come ready-made e all’assunzione più o meno consapevole, all’interno della pratica estetica, della “logica dell’indice”, teorizzata proprio nella seconda metà degli anni Settanta da Rosalind Krauss22. Mediante la ripresa della tripartizione dei segni, suddivisi in indici, icone e simboli dal filosofo Charles S. Peirce, e rielaborando il concetto di fotografia come «messaggio senza codice»23 espresso all’inizio degli anni Sessanta da Roland Barthes, Krauss interpreta l’indicalità del medium fotografico come modello operativo per pratiche artistiche eterogenee, ma accomunate da una sostanziale aderenza tra opera e oggetto reale. La fotografia, in qualità di indice, procede per connessione fisica con il suo referente esterno; da qui, secondo Philippe Dubois, deriva il suo statuto di immagine-impronta, caratterizzato dalle qualità di singolarità, di attestazione e di designazione: l’immagine fotografica rinvia sempre a un solo e unico referente, attesta ontologicamente l’esistenza di ciò che mostra e per di più lo “addita”, spostando l’attenzione su di esso24.


Altra misura: fotografia e arte femminista in mostra

Nell’ottobre del 1976 Romana Loda, personaggio chiave nella promozione dell’arte femminista e più in generale dell’arte delle donne in Italia43, il cui ruolo è stato finora scarsamente indagato dalla critica, realizza a Falconara (Ancona) la prima esposizione italiana dedicata in modo specifico ai rapporti tra femminismo e fotografia. La mostra, il cui titolo Altra misura reca in sé un’idea del femminile concepito in termini di alterità e differenza, presenta una rassegna estremamente compatta, concentrata sul lavoro di cinque artiste accomunate dall’uso del mezzo fotografico e da un medesimo approccio diretto e aggressivo alla «ricerca di una identità autonomamente definita», all’interno di una realtà sociale pronta a «standardizzare in piatti stereotipi i ruoli (dell’artista, della donna, ecc.)»44. La fotografia viene intesa da Romana Loda come uno strumento in grado di oltrepassare l’asetticità e l’autoreferenzialità di alcune linee della ricerca concettuale attraverso la sua forte componente «figurale»45: il rapporto di contiguità con il reale proprio della fotografia viene concepito come un modo per trasgredire i canoni di un’arte «edonisticamente ripiegata su se stessa»46, lasciando spazio a ricerche che indagano i contesti socio-politici a partire da una presa di coscienza della differenza di genere. In continuità con le precedenti esperienze espositive curate da Loda, in particolare Coazione a ripetere (1974) e Magma (1975)47, dove erano presenti artiste tre le più interessanti del panorama internazionale (Marina Abramovič, Lygia Clark, Hanne Darboven, Valie Export, Rebecca Horn, Suzy Lake, Annette Messager, Gina Pane, Ulrike Rosenbach, Katharina Sieverding, ecc.), anche Altra misura ha una fisionomia marcatamente internazionale. Tra le artiste presenti, insieme alla francese Annette Messager e alla polacca Natalia LL, figurano le nordamericane Suzanne Santoro e Stephanie Oursler, entrambe residenti a Roma, e l’argentina Verita Monselles, attiva a Firenze. L’alto numero di artiste straniere impegnate sul fronte della ricerca sull’identità femminile stabilitesi in Italia – oltre a Santoro, Oursler e Monselles bisogna ricordare anche Iole de Freitas e Nicole Gravier – induce a sottolineare l’apporto dell’esperienza femminista internazionale all’interno del contesto artistico italiano. A tale fenomeno si riferisce ad esempio Loda quando, introducendo il lavoro di Oursler nella mostra Il volto sinistro dell’arte (1977), sottolinea il ruolo fondamentale della sua precedente esperienza di attivista nelle organizzazioni politiche americane per i diritti civili48. D’altro canto, come ha rilevato Maria Antonietta Trasforini, l’esistenza di un altrove (inteso dal punto di vista geografico, Raffaella Perna

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Tomaso Binga, Alfabetiere murale (particolare), 1976


Tomaso Binga, Alfabetiere murale (particolare), 1976


Tomaso Binga, Poesia muta, 1977

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Alfabeti della differenza

La serie dell’Ecce Homo di Monselles viene esposta tra il 1976 e il 1977 in una successione di mostre, inaugurate a Bari, Padova, Parma e agli Incontri Internazionali d’Arte di Roma76, realizzate in coppia con l’artista salernitana Bianca Menna, in arte Tomaso Binga, che per l’occasione propone la serie fotografica Litanie Lauretane. Le due artiste in questo periodo intrattengono rapporti molto stretti: Binga è la modella ritratta nell’Ecce Homo e Monselles, a sua volta, è la fotografa dell’alfabeto corporeo ideato in questi anni da Binga. «I nostri discorsi», racconta quest’ultima, «naturalmente erano diversi come gli strumenti linguistici, ma un punto in comune emerse dalla nostra condizione di donna, dalla constatazione della nostra tradizionale emarginazione, ma anche dalla nostra volontà di capovolgere questa condizione, di mutarne il segno dal meno al più […]. Tra queste forme [di prevaricazione] individuammo quelle con alle loro spalle una lunghissima storia e come tali ci apparvero tanto più forti e oppressive: i simboli non del sacro, ma certamente di una religione impiegata come instrumentum regni […]»77. Nell’installazione fotografica Litanie Lauretane, presentata talvolta con il titolo Mater, Binga si fa ritrarre nuda mentre assume con il proprio corpo la forma delle lettere alfabetiche, componendo, appunto, la parola Mater. Le foto, realizzate nello studio fiorentino di Monselles, mirano a creare un nuovo alfabeto gestuale che, simbolicamente, si pone come alternativa alla lingua corrente. L’opera si lega alle coeve sperimentazioni della serie Scrittura vivente, di cui Alfabetiere murale (1976) è forse l’opera più celebre. Anche in questo caso vi è la volontà di sostituire la scrittura alfabetica con un alfabeto corporale; il linguaggio, scritto o parlato, viene percepito come una forma di espressione usurata e inautentica, dalla cui formazione il soggetto donna è rimasto escluso. Rigettato il vocabolario maschile, resta la necessità di formulare un linguaggio nuovo, che non sia tuttavia concepito soltanto in opposizione a quello maschile (il che lo ricondurrebbe sempre nell’orbita del canone patriarcale), ma che si ponga al di fuori del canone stesso. La consapevolezza che la donna sia costretta a parlare di sé attraverso il discorso e la lingua dell’altro diviene sempre più chiara all’interno del pensiero femminista italiano. Le scritture viventi di Binga nascono dunque con l’obiettivo di creare un’alternativa radicale al linguaggio maschile; esse sono progettate per riscattare il processo di occultamento della fisicità attraverso una rivalutazione dell’imperfetto, dell’errore, del fuori posto: «non vogliamo più sentirci entità astratte», scrive Raffaella Perna

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Cloti Ricciardi, Alfabeta (particolare), edizione Cooperativa Prove 10, 1975


Cloti Ricciardi, Expertise. Conferma d’identità, 1972

L’esigenza di esplorare e porre in discussione i limiti fisici e concettuali del linguaggio, mostrando le sue implicazioni con la cultura patriarcale, trova riscontro in questi anni anche nella ricerca artistica di Anna Oberto96, fondatrice con Martino Oberto e Gabriele Stocchi dell’importante rivista di sperimentazione verbosiviva “Ana Eccetera”97, pubblicata a Genova dal 1958 al 1971. Nel 1975 l’artista aderisce, insieme a Vincenzo Accame, Ugo Carrega, Corrado D’Ottavi, Liliana Landi e Martino Oberto, al movimento di Nuova Scrittura, partecipando al manifesto del gruppo con la stesura del foglio Nuova scrittura al femminile, nel quale, tramite l’accostamento di parole, segni grafici e immagini fotografiche, l’artista esprime la necessità di una trasformazione radicale del linguaggio: «Recuperare un’espressione creativa autonoma. […] Liberazione dal linguaggio al maschile come liberazione femminile per una inter/azione dei linguaggi (scrittura oralità iconografia videofotomedia) verso un’utopistica manifestatività totale dell’individuo»98. Il suo avvicinamento all’esperienza e alle idee femministe, risalente alla fine degli anni Sessanta, si esprime in collage come Reflex, l’italiana ’69 (in cui, tra l’altro, compare il ritratto fotografico dell’artista ripresa in un gesto libertario, a seno nudo sulla spiaggia di Varigotti) e Situazione. 57


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– scelta che implica un ribaltamento del canone di rappresentazione dell’arte occidentale, nel quale la donna è un oggetto silente – accomuni questi lavori, nondimeno il ricorso di Oberto alla polaroid costituisce una differenza non trascurabile. Come ha sottolineato Craig Owens, “l’archeologia del quotidiano” di Mary Kelly non contiene fotografie della madre o del figlio, quasi come se per l’artista «le istantanee familiari non fossero la principale forma di memorabilia della nostra cultura»101. Ciononostante Kelly sceglie proprio una foto che la ritrae con il figlio in grembo – riprendendo la tradizione iconografica della Madonna con il Bambino – per il frontespizio del libro Post-Partum Document (1983), che documenta l’omonima serie. Secondo Owens l’immagine è da porre in relazione alla già citata teoria freudiana, a cui fa riferimento la stessa Kelly nel volume, secondo la quale il figlio rappresenterebbe Anna Oberto, L’Utopico. Eanan o la scoperta delle origini della scrittura, 1974 per la madre un sostituto del fallo, cosicché per quest’ultima la perdita del figlio equivarrebbe alla perdita di una pienezza simbolica: «Nella fotografia in questione il bambino – in posizione eretta nel grembo della madre, contenuto interamente nella silhouette del suo corpo – anzi sembra fungere da fallo materno»102. Interpretazione che per il critico è sostenuta anche dall’attributo di forma fallica tenuto in mano dal bambino (un microfono collegato a un registratore), che istituisce inoltre un legame tra il possesso del fallo e l’accesso all’ordine simbolico del linguaggio. Diversamente Oberto inserisce le foto di Eanan in tutti i fogli che compongono la serie Diario v’ideo senti/mentale, ricorrendo a questo medium per tracciare promemoria visivi, da raccogliere in una narrazione intessuta di ricordi e suggestioni: un racconto intimo e quotidiano, in cui la fotografia esibisce una fattura amatoriale, priva di ricercatezze e virtuosismi formali. La presenza corporea dell’artista si riduce ai minimi termini: nell’unica foto che la ritrae – posta significativamene


a conclusione della serie – è ritratta di profilo, con il volto in parte coperto da un filo rosso che la unisce in senso metaforico al figlio. Il suo sguardo, tuttavia, è presente e percepibile in ogni foto: s’intuisce dallo sguardo stesso del figlio nel momento in cui la guarda mentre ella lo ritrae (anche se lo spettatore non può vederla, è consapevole della sua presenza dall’altra parte dell’obiettivo) o nelle inquadrature dall’alto, che seguono il suo movimento di adulta nell’atto di piegarsi verso il basso per osservare e fotografare il bambino. La scelta di esprimere l’esperienza della maternità attraverso l’uso di foto tratte dal proprio repertorio familiare ricorrerà anche nell’installazione realizzata nel 1977 da Amalia Del Ponte, in occasione della mostra Sulla casa di fronte, curata da Lea Vergine all’interno della rassegna Expoarte di Bari. L’artista instaura un dialogo simbolico tra due fogli Anna Oberto, L’Utopico. Eanan o la – l’uno raffigurante una tavola botanica, scoperta del linguaggio, 1974 l’altro esoterici geroglifici a forma di chiocciola – e un album di foto datato 1976-1968: «i primi otto anni della figlia di Amalia, 8 ovvero l’infinito dell’incontro tra madre e figlia, dello specchiamento, dell’incastro, della memorizzazione reciproca, patto grave, irreversibile, discretamente vertiginoso»103, come è stato definito da Annemarie Sauzeau Boetti nella recensione della mostra apparsa su “Data”. Negli stessi anni, la dimensione della sfera intima, dei legami familiari e del ricordo riveste una funzione centrale anche nell’installazione fotografica Origine, realizzata nel giugno del 1976 da Carla Accardi nel già citato spazio della Cooperativa di via Beato Angelico a Roma, dove l’artista ricopre le pareti espositive con nastri di sicofoil su cui vengono montate stampe fotografiche appartenenti al vissuto della propria famiglia, in particolare della madre e di una prozia104. Benché la dimensione ambientale e l’uso della plastica trasparente entrino a far parte dell’arte di Accardi fin dal decennio precedente, Origine, proprio a causa 61


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Carla Accardi, Origine, foto dell’installazione alla Cooperativa di via Beato Angelico, Roma, 1976. Nella pagina accanto Carla Accardi con la sua opera.

dell’uso della fotografia, può esser considerata un lavoro atipico che, come spiega all’epoca l’artista, «nasce come punto di confluenza di alcuni motivi da me vissuti nell’elaborazione e nell’analisi del rapporto tra conscio e inconscio, madre e figlia»105. Un’opera di carattere profondamente autobiografico, dove il ricordo impresso nelle foto è funzionale all’autonarrazione dell’artista: una sorta di autoritratto à rebours, disseminato nello spazio e nel tempo, in cui Accardi ritrova le proprie radici e ripercorre la propria storia attraverso i ritratti delle progenitrici; donne insofferenti ai dettami sociali e culturali, nella cui esperienza esistenziale l’artista si riconosce. Tale processo di identificazione diviene ancor più evidente nel recente riallestimento dell’opera, realizzato nel 2007 presso il Centro Luigi Di Sarro a Roma106, in cui Accardi affianca i suoi ritratti fotografici alle immagini materne.


Autoritratti fotografici

«Fotografare sé stessi è inevitabilmente un’impresa schizoide»107, in cui si fa esperienza dello scarto tra la percezione interna del sé e il sé esterno percepito dagli altri: l’autoritratto fotografico attiva e mette in gioco la consapevolezza di sé come altro. Lo strumento fotografico riproduce lo sguardo altrui che si posa su di noi (con un inevitabile effetto di controllo) ma, nel momento stesso in cui ci si pone contemporaneamente davanti e dietro l’obiettivo, tale meccanismo di visione s’inverte e la fotografia diviene un mezzo di autoproiezione, attraverso il quale scegliere la veste in cui rappresentarsi agli occhi dell’altro: ci si rivela per come si pensa di essere e per come si vorrebbe essere, assumendo un ruolo attivo nelle dinamiche della visione e della rappresentazione. Per la donna, da sempre oggetto 65


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Marcella Campagnano, dalla serie L’invenzione del Femminile: RUOLI, 1974-1980

dello sguardo e della rappresentazione altrui (dalla tradizione artistica fino alla comunicazione mediatica e alla pornografia), l’autoritratto fotografico costituisce dunque una pratica per riappropriarsi del potere di autonarrazione e uno strumento conoscitivo attraverso il quale sperimentare la propria singolarità: travestimenti, camouflage, immagini raddoppiate allo specchio, come si vedrà, sono strategie per verificare la natura mutevole del sé e mettere nel contempo in crisi la rigidità delle immagini convenzionali del femminile e del maschile. L’esperienza del sé e dell’autoritratto si intreccia strettamente con la rappresentazione collettiva del genere nella serie L’invenzione del Femminile: RUOLI (1974) di Marcella Campagnano, pubblicata nel 1976 nel libro Donne Immagini108 ed esposta, tra l’altro, nell’importante rassegna Venezia ’79. La Fotografia109. L’artista coinvolge le compagne del collettivo femminista milanese in una sequenza di travestimenti che le vede impersonare di volta in volta i ruoli stereotipati di madre, prostituta, sposa, casalinga, amante. La posa fotografica è preceduta da un lungo rituale di mascheramento, in cui ogni donna aiuta l’altra a entrare nei panni che altri le hanno cucito addosso: «Il porsi di fronte all’obiettivo


ha significato spesso il desiderio di verificare e articolare il rapporto fra l’immagine di sé che ciascuna donna cerca di avere e l’immagine che l’obiettivo, lo sfondo, lo sguardo di altri le assegnano»110. Un tale processo di trasformazione identitaria propone un’idea di femminilità come simulazione di gesti, pose ed espressioni acquisiti attraverso l’imitazione; performando i ruoli stereotipati del femminile, Campagnano mette in rilievo il carattere ambiguo dell’identità come costruzione sociale. Similmente al libro fotografico Les tortures volontaires (1974) di Annette Messager, Campagnano riflette sull’introiezione da parte delle donne di modelli estetici e comportamentali maschili e sul bisogno di conformare il proprio corpo e la propria identità su canoni altrui. Tuttavia, diversamente dall’artista francese, Campagnano non raccoglie immagini dall’universo mediatico, ma ricorre alla pratica del ritratto e dell’autoritratto, fotografandosi mentre si traveste insieme alle altre donne. L’artista non istituisce differenze tra sé stessa e le compagne fotografate, per dare vita a un autoritratto collettivo fondato sulla reciprocità e sullo scambio, dove l’esperienza del sé si confonde con l’esperienza dell’altra. In tale pratica relazionale si colloca lo scarto tra queste immagini e gli autoritratti 67


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della serie A Portfolio of Models (1974) di Martha Wilson, dove l’artista assume le identità della casalinga, della professionista o della diva, attraverso pose e indumenti stereotipati. L’aspetto partecipativo dell’opera di Campagnano si evidenzia in particolare nella mostra allestita nel giugno del 1979, nell’ambito della rassegna espositiva promossa a Milano dal Collettivo di111, presso la galleria di Porta Ticinese di Gigliola Rovasino, in occasione della quale l’artista allestisce una sorta di studio di posa, realizzato con un fondale di moquette grigia e una serie di abiti per travestirsi (offerti dalla ditta Fiorucci), in cui ritrae con un apparecchio polaroid chiunque intenda farsi fotografare, mascherato o meno, per appendere subito dopo le foto alla parete. Con un processo che presenta analogie con la serie delle Esposizioni in tempo reale di Franco Vaccari (opere in cui la fotografia è intesa «come azione e non come contemplazione»)112, il soggetto ritratto è sollecitato ad assumere un ruolo dinamico e il medium fotografico diventa lo strumento per documentare l’azione dei modelli che si trasformano, spesso con atteggiamenti ludici, davanti all’obiettivo e al pubblico della galleria. Grazie alla rapidità del meccanismo polaroid l’immagine viene esperita nel momento stesso del suo farsi: il tempo tra la ripresa e la stampa si accorcia drasticamente, dando luogo a un’esperienza “in tempo reale”. Le foto di Campagnano sono concepite su un modulo formale preordinato, basato sulla struttura sequenziale e sull’uso della griglia; i ritratti sono sempre a figura intera, lo sfondo è neutro, lo sguardo delle performer-modelle dritto in camera. Tale scelta si spiega con la volontà di allontanarsi dal modello di Henri CartierBresson di foto à la sauvette, dove il soggetto ritratto non mostra consapevolezza né compartecipazione allo scatto e l’azione stessa del fotografare, talvolta, può assumere tratti predatori. Su questo aspetto l’artista in seguito scriverà: «Con le nostre esperienze abbiamo tentato di chiarirci se esisteva la possibilità di uscire dagli stereotipi che fanno della velocità di sguardo e della sapiente regia di ripresa i momenti forti e qualificanti di ciò che viene normalmente considerato il lavoro fotografico. Nascono così le nostre immagini che non sono certo il risultato di chissà quali sapienti appostamenti e furti (fotografia come “caccia”) ma, al contrario, operazioni in cui prevale la circolarità e l’interscambio di ruoli e funzioni (fotografia come “agricoltura”?)»113. Nel 1977 i Ruoli di Marcella Campagnano vengono esposti nella rassegna La donna realizzata nell’ambito della sezione culturale del Sicof di Milano, a cura di Lanfranco Colombo, accanto alle foto di Carla Cerati e Paola Mattioli che, in questi


Marcella Campagnano, dalla serie L’invenzione del Femminile: RUOLI, 1974-1980

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stessi anni, sono impegnate in una ricerca sull’identità femminile in cui l’immagine fotografica è intesa in senso eminentemente autoriflessivo. Dalla pratica del reportage sulla condizione sociale della donna – dove tuttavia, secondo Mattioli, il rapporto tra fotografo/fotografato rimane inalterato rispetto alla tradizione del reportage114 – entrambe si spostano verso una pratica fotografica che interroga le differenze di genere e la relazione tra immagine di sé e immagine esterna. In Professione fotografa, Cerati riflette sulla condizione di persona «dimezzata e sdoppiata»115 insita nell’essere una fotografa donna, attraverso la ripresa dei gesti quotidiani di colleghe in cui si immedesima e si rispecchia, mentre Mattioli nella serie Faccia a faccia (indicata talvolta anche con il titolo Donne allo specchio) s’interroga sul rapporto con la propria immagine riflessa, analizzando i modi di rapportarsi allo specchio di un gruppo di donne: «In ognuna di loro mi rispecchio anch’io», scrive Mattioli, «perché è nell’altra che ritrovo frammenti diversi del mio stesso guardarmi»116. L’anno successivo proseguirà la ricerca sull’identità nel volume collettivo Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo117, riflettendo nuovamente (anche attraverso lo studio degli scritti di Luce Irigaray e di Lea Melandri118 sull’ambiguità dello sguardo e sulla necessità di abbandonare il ruolo di specchio dell’uomo: «Le donne si guardano allo specchio e in questo guardarsi allo specchio quanta parte c’è di tendenza a corrispondere agli stereotipi dell’altro sguardo, e quanta parte di ricerca reale di sé, di risposta alla violenza interiorizzata come negazione della propria esistenza?»119 La relazione tra la capacità di duplicare il reale dello specchio e l’indicalità della pratica fotografica è stata oggetto negli ultimi trent’anni di importanti saggi e mostre120. Essa ha costituito una ragione di profondo interesse per la sperimentazione estetica, divenendo, com’è noto, un motivo portante del movimento surrealista e della sua lettura critica. Tale questione è un nodo centrale anche per la ricerca della neoavanguardia femminista degli anni Sessanta e Settanta, quando, come in parte si è visto, i legami tra corpo, identità e fotografia sono


Paola Mattioli, Faccia a faccia: Paola, 1977

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del medium), implica che un’immagine fotografica, a dispetto della sua presunta trasparenza, rimandi al processo fotografico in sé stesso123. Lo specchio nella foto è dunque un’immagine interna che funziona come metafora della fotografia intesa in qualità di specchio del reale. Tale effetto di duplicazione, spiega Owens, trova riscontro nella reduplicazione linguistica propria della lallazione infantile, segno, secondo Roman Jakobson, dell’entrata del soggetto in un ordine simbolico: la reduplicazione indica che un’espressione non è soltanto un suono naturale, ma che è emessa secondo un codice, con l’intenzione di significare. La reduplicazione linguistica è stata usata dall’antropologia come modello esplicativo della struttura dei miti, basata su isomorfismi multipli intesi come strumenti di significazione. Owens estende tale corrispondenza anche al campo fotografico, sostenendo che la celebre teoria di Roland Barthes, secondo cui la fotografia è un «messaggio senza codice», può valere per il dispositivo tecnico della fotografia, ma non è in grado di giustificare la capacità interna di generare e organizzare significati propria del linguaggio fotografico, resa evidente dal processo di mise en abîme prodotto dalla duplicazione dello specchio. Leggendo l’opera di de Freitas alla luce di tali considerazioni, l’uso dell’abîme creato dalla reiterazione degli specchi davanti ai quali il corpo dell’artista si contorce (in una visualizzazione dell’idea di Lacan del corpo in frammenti) si può interpretare come la volontà di avviare uno scavo introspettivo (un «viaggio dentro me stessa»124, scrive l’artista), una regressione allo stadio infantile per rivivere, simulandolo, il momento-soglia in cui il soggetto inizia a riconoscersi come unità nell’immagine speculare: «Lo stadio dello specchio è un dramma la cui spinta interna si precipita dall’insufficienza all’anticipazione – e che per il soggetto, preso nell’inganno dell’identificazione spaziale, macchina fantasmi che si succedono da un’immagine frammentata del corpo a una forma, che chiameremo ortopedica, della sua totalità – ed infine all’assunzione dell’armatura di un’identità alienante che ne segnerà con la sua rigida struttura tutto lo sviluppo mentale»125. L’atto del fotografarsi diviene dunque per l’artista lo strumento per comprendere il proprio sviluppo identitario: «Impiego la foto come mezzo per conoscermi […]. Le immagini registrano i miei diversi stati psichici. L’analisi personale è divenuta la ragione del mio lavoro fotografico, in continuità con i miei studi di danza contemporanea (1965-1970) e l’analisi di gruppo (1968-1970)»126, scrive l’artista nel 1974 sulle pagine della rivista francese “ArTitudes International”. Il corpo, ritratto in torsioni e movimenti innaturali, agevolati appunto dallo studio


Francesca Woodman al Pastificio Cerere, Roma 1977 Copyright: Enrico Luzzi

della danza, è percepito dall’artista come il luogo in cui si esplicita la dimensione alienata del sé; il corpo è vissuto come qualcosa di autonomo ed estraneo, ma nel contempo aderente come una pellicola: un «corpo-buccia» che l’artista sollecita e provoca come se fosse il corpo di un altro127. Le superfici specchianti, come si vedrà, enfatizzano la duplicità dello sguardo e la disarticolazione del corpo anche negli autoritratti fotografici dell’artista americana Francesca Woodman, stabilitasi a Roma tra il 1977 e il 1978 per seguire i corsi organizzati nella capitale dalla Rhode Island School of Design128, che già frequentava a Providence. Dalla seconda metà degli anni Ottanta a oggi sul suo lavoro si è scritto molto: la coerenza del suo corpus di opere (circa ottocento realizzate tra il 1972, quando l’artista era giovanissima, e il 1981, anno della morte) e la pluralità di letture offerte dalle sue fotografie hanno contribuito alla odierna fortuna critica di Woodman, in particolare tra le storiche dell’arte che si occupano di Women’s Studies. Sebbene in tempi recenti le interpretazioni femministe del suo lavoro siano state criticate per non essere riuscite a contestualizzarlo alla luce delle coeve pratiche artistiche e fotografiche129, cionondimeno la teoria femminista ha offerto chiavi interpretative fondamentali per la comprensione della sua opera; questo nonostante il fatto che Woodman non sia stata una femminista 75


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Nicole Gravier, Mythes et ClichĂŠs. Fotoromanzi, serie Attesa, 1976-1980


della galleria e il pubblico è costretto a guardare la stanza dove si trova l’attrice attraverso una spia ottica: «Gli spettatori, uno per uno facendo la fila godono la falsa intimità della scena»145. La documentazione fotografica dell’opera pubblicata in catalogo – unica traccia residuale dell’azione, se si eccettua l’esistenza di ephemera146 – viene realizzata da Plinio De Martiis, che oltre a essere il gallerista e l’ideatore della rassegna è anche un fotografo professionista147, ed è impaginata dal designer e artista Magdalo Mussio. Il reportage privilegia il processo di fruizione dell’opera piuttosto che i gesti della performer: le prime nove fotografie, stampate su sette pagine alternativamente in bianco e nero e color seppia, ritraggono il pubblico presente alla Tartaruga (sei di esse riprendono gli spettatori proprio nell’atto di guardare attraverso la spia ottica), mentre solo due pagine sono dedicate agli scatti che ritraggono l’attrice; il comportamento del pubblico assume così un peso anche maggiore rispetto al comportamento di Calandra. L’opera di 87


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Nicole Gravier, Mythes et ClichĂŠs. PubblicitĂ , 19781980


Fioroni rende manifesto il feticismo insito nello sguardo filtrato da un dispositivo ottico (imparentato con l’obiettivo fotografico), offrendo all’occhio del pubblico la visione privata di una donna in camera da letto, con un processo che è stato posto a confronto con la fruizione attivata da Étant donnés: 1° la chute d’eau/2° le gaz d’éclairage... (1946-1966) di Marcel Duchamp148; il reportage fotografico amplifica ulteriormente questo aspetto: gli spettatori ripresi nell’atto di spiare sono tutti significativamente di sesso maschile, mentre la donna, oggetto dello sguardo, è ritratta “in quanto corpo”, semi-svestita149. La posizione voyeuristica assunta dagli spettatori de La spia ottica, come si è detto, è affine a quella proposta dalle opere di Gravier, proprio per il ricorso a inquadrature fotografiche che accompagnano lo sguardo dello spettatore fin dentro lo spazio privato del femminile. La critica dei processi della visione portata avanti da Gravier, tuttavia, non propone la fruizione dal vivo di un’opera performativa ma, in linea con le coeve esperienze di fotografia postmoderna e appropriazionista emerse oltreoceano e promosse dalla galleria newyorkese Metro Pictures, filtra il reale attraverso la riproduzione fotografica, concentrandosi sull’aspetto mediatico e socio-culturale degli stereotipi di genere. Nel 1978, in occasione della mostra al Laboratorio in via Maroncelli a Milano, l’artista espone fotografie a colori in cui impersona e mima le protagoniste dei fotoromanzi, accanto alle immagini in bianco e nero dei fotoromanzi stessi, creando lungo le pareti dello spazio espositivo un percorso critico in cui pone l’accento sullo scarto tra realtà e finzione150; nel confrontare il fotoromanzo originale con la sua copia “recitata”, l’artista distoglie il fruitore dalla finzione narrativa, riportandone l’attenzione sui meccanismi di formazione del significato attraverso cui si perpetua una concezione patriarcale della sfera sentimentale ed erotica. Nonostante la molteplicità di prospettive offerte dalle opere analizzate, ciò che emerge da questa ricognizione è la centralità assunta dalla realizzazione di azioni o messe in scena create esclusivamente per l’obiettivo fotografico. Eventi in cui la fotografia non è pensata soltanto come uno strumento di supporto alla memoria, né come una registrazione a posteriori, ma è parte integrante del progetto e dell’esistenza stessa dell’opera. La fotografia è già incorporata nell’azione, in quanto il processo di “messa in immagine” è congenito all’azione stessa e ne influenza la concezione e lo svolgimento (oltre che, ovviamente, la diffusione e la commercializzazione). L’atto performativo non ha luogo davanti a un pubblico in carne e ossa, ma si svolge in funzione del futuro fruitore della stampa fotografica, il quale, tuttavia, una volta davanti a queste foto, si troverà chiamato in causa in modo personale e diretto. Queste lo interrogano infatti in maniera esplicita, attraverso il ricorso allo sguardo rivolto in camera (Campagnano, La Rocca, Tomaso Binga) 89


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Tomaso Binga, Carta da Parati, 1976-1978


Note 1 Cfr. Lussana Fiamma, Il movimento femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie, Carocci, Roma 2012.

11 Pollock Griselda, Vision & Difference. Feminity, Feminism and the Histories of Art, Routledge, London-New York 1988.

2 Ivi, p. 33.

12 Si vedano in particolare Craig Owens, The Discourse of Others: Feminism and Postmodernism (1983) in Id., Beyond Recognition. Representation, Power and Culture, a cura di Scott Bryson, University of California Press, Berkeley 1992; Pollock Griselda, Feminism and Modernism, in Parker R., Pollock G. (a cura di), Framing Feminism. Art and The Women’s Movement 1970-1985, Pandora, London 1987, pp. 79-122.

3 Lonzi Carla, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta femminile 1, Roma s.d. (estate 1970), pp. 4-5. 4 Ivi, p. 22. 5 Cfr. Spagnoletti Rosalba (a cura di), I movimenti femministi in Italia, Savelli, Roma 1974, pp. 62-87. 6 Sessualità femminile e aborto in Lonzi Carla (a cura di), Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Rivolta femminile, Milano 1974, pp. 69-70. 7 Per un approfondimento sulle reazioni del movimento femminista alla legge n. 194 si veda Calabrò A., Grasso L., Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Storie e percorsi a Milano dagli anni ’60 agli anni ’80, Franco Angeli-Fondazione Badaracco, Milano 2004. 8 Linda Nochlin, Why Have There Been No Great Women Artists?, in “Artnews”, vol. 69, n. 9 gennaio 1971, in Hess T.B. Hess e Baker E.C. (a cura di), Art and Sexual Politics, Collier Books, New York 1973, pp. 1-39.

13 Per un approfondimento si rimanda a Reilly M., Nochlin L. (a cura di), Global Feminisms. New Directions in Contemporary Art, cat. mostra Brooklyn Museum, New York 2007. 14 Cfr. Amelia Jones, Body Art. Permorming the Subject, University of Minnesota Press, Minneapolis-London, 1998; Subrizi Carla, Azioni che cambiano il mondo, Postmedia Books, Milano 2012. 15 Pollock Griselda, Feminism and Modernism, op. cit., p. 93 [trad. mia]. 16 Solomon-Godeau Abigail, Le belle arti del femminismo, in Schor Gabriele (a cura di), Donna e avanguardia femminista negli anni ’70, cat. mostra Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma 2010, p. 34.

9 Lippard Lucy R., From The Center. Feminist Essays on Women’s Art, E.P. Dutton, New York 1976.

17 Loda Romana (a cura di), Altra misura, cat. mostra Galleria del Falconiere, Falconara (Ancona), ottobre 1976, s.p.

10 Per un approfondimento sui problemi affrontati dalla critica d’arte femminista si rimanda a Amelia Jones (a cura di), The Feminism and Visual Culture Reader, Routledge, London-New York 2003; Van Rijsingen Miriam, How purple can purple be? Feminist Art History, in Buikema R., Smelik A. (a cura di), Women’s Studies and Culture. A Feminist Introduction, Zed Books, 1995.

18 Carluccio L., Palazzoli D. (a cura di), Combattimanto per un’immagine. Fotografi e pittori, cat. mostra Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino, marzo-aprile 1973. 19 Perna Raffaella, Il rapporto tra fotografia e neoavanguardia negli speciali fotografici degli anni Settanta, in Gallo F., Zambianchi C. (a cura di), L’immagine tra materiale e virtuale. Contributi in onore di Silvia Bordini, Campisano Editore, Roma 2013, pp. 69-80. Raffaella Perna

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20 Segnati da un destino editoriale più felice sono invece On Photography di Susan Sontag, edito in America nel 1977 e prontamente tradotto in Italia nel 1978, e Photographie et société di Gisèle Freund, pubblicato da Einaudi due anni dopo la sua riedizione aggiornata e ampliata del 1974. 21 Vaccari Franco, Fotografia e inconscio tecnologico, Punto & Virgola, Modena 1979; nuova edizione ampliata a cura di Valtorta Roberta, Einaudi, Torino 2011. 22 Krauss Rosalind, Notes on the Index I e Notes on the Index II, in “October”, nn. 3-4, primavera e autunno 1977, [trad. it. Note sull’indice I e Note sull’indice II, in L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, a cura di Elio Grazioli, Fazi, Roma 2007, pp. 209-233]. Per un approfondimento sul rapporto tra fotografia e ready-made si vedano Marra Claudio, Fotografia e pittura nel Novecento, Bruno Mondadori, Milano 1999 e Signorini Roberto, Arte del fotografico. I confini del fotografico e la riflessione teorica degli ultimi vent’anni, CRT, Pistoia 2001. 23 Barthes Roland, Le message photographique, in “Communications”, n. 1 (1961), p. 128. 24 Dubois Philippe, L’acte photographique et autres essais, Nathan, Paris 1990; [trad. it. L’atto fotografico a cura di Valli B., Quattro venti, Urbino 1996]. 25 Ivi, pp. 76-77. 26 Foote Nancy, The Anti-photographers, in “Artforum”, settembre 1976, p. 50. 27 Barthes Roland, La chambre claire. Note sur la photographie, Cahiers du CinémaÉditions Gallimard-Seuil, Paris 1980; [trad. it. La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980, p. 108]. 28 Blessing Jennifer (a cura di), Rrose is a Rrose is a Rrose: Gender Performance in Photography, cat. mostra Guggenheim Museum, New York 1997. 29 Bordini Silvia, Davanti e dietro l’obiettivo, dentro e fuori l’immagine, in Iamurri Laura

(a cura di), Autobiografia/Autoritratto, Palombi Editore, Roma 2007, p. 50. 30 Casero Cristina, L’obiettivo non è obiettivo. Considerazioni sulla fotografia come strumento di denuncia in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, in Casero C., Di Raddo E. (a cura di), Anni ’70: l’arte dell’impegno, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano) 2009, pp. 133-152. 31 Lewis Hine, Social Photography. How the Camera May Help in The Social Uplift, in Proceedings, National Conference of Charities and Corrections (giugno 1909), in Smargiassi Michele, Un’autentica bugia, Contrasto, Roma 2009, p. 12. 32 Cfr. Cavarero Adriana, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, in Cavarero A., Restaino F., Le filosofie femministe. Due secoli di battaglie teoriche e pratiche, Bruno Mondadori, Milano 2002. 33 Nochlin Linda, Why Have There Been No Great Women Artists?, op. cit. 34 De Cecco Emanuela, Trame: per una mappa transitoria dell’arte italiana femminile degli anni Novanta e dintorni, in De Cecco E., Romano G., Contemporanee. Percorsi e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, Postmedia Books, Milano 2002. 35 Simona Weller è autrice de Il complesso di Michelangelo. Ricerca sul contributo dato dalla donna all’arte italiana del Novecento (1976), tra le prime rassegne italiane ad ampio raggio sull’arte delle donne. Mirella Bentivoglio, contestualmente alla propria attività artistica, organizza numerose esposizioni collettive dedicate al linguaggio artistico femminile, come ad esempio l’importante mostra Materializzazione del linguaggio. La Biennale di Venezia 1978, Arti visive e architettura ai Magazzini del Sale. Per un approfondimento sull’attività curatoriale dell’artista si rimanda a Bentivoglio Mirella, I segni del femminile, in Ferrari Daniela (a cura di), Poesia visiva. La donazione di Mirella Bentivoglio, cat. mostra MART, Rovereto, novembre 2011-gennaio 2012, pp. 15-25.


36 Corgnati Martina, Artiste, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 279. 37 La Cooperativa di via Beato Angelico viene fondata a Roma nell’aprile del 1976 da Carla Accardi, Nilde Carabba, Franca Chiabra, Regina Della Noce, Nedda Guidi, Eva Menzio, Teresa Montemaggiori, Stephanie Oursler, Silvia Truppi, Annamaria Colucci; sull’argomento si veda Almerini Katia, Cooperativa Beato Angelico: arte femminista degli anni ’70, in “art a part of cult(ure)”, http://www.artapartofculture. net/2011/07/12/cooperativa-beatoangelico-arte-femminista-degli-anni-70-dikatia-armerini [ultimo accesso effettuato il 20 dicembre 2012]. Nel sito, di cui Barbara Martusciello è cofondatrice e Caporedattore, sono pubblicate inoltre diverse interviste ad artiste femministe degli anni Settanta raccolte da Manuela De Leonardis. Sull’esperienza di Porta Ticinese si veda Fedi Fernanda, Collettivi e gruppi artistici a Milano: ideologie e percorsi 19681985, Endas, Roma 1986. 38 Lonzi Carla, Autoritratto, De Donato, Bari 1969, nuova edizione a cura di Iamurri Laura, Et al., Roma 2010. 39 Lonzi Carla, La critica è potere, in “Nac”, n. 3 dicembre 1970. 40 Per un approfondimento: Conte L., Fiorino V., Martini V. (a cura di), Carla Lonzi. La duplice radicalità. Dalla critica militante al femminismo di Rivolta, ETS, Pisa 2011; Conte L., Iamurri L., Martini V. (a cura di), Scritti sull’arte, Et al., Milano 2012; Timeto Federica, Il sospetto dell’appartenenza. Il difficile incontro fra arte e femminismo in Italia (2006), in AA.VV., Contro versa, genealogie impreviste di nate negli anni ’70 e dintorni, Sabbiarossa ED, Reggio Calabria 2013. 41 Sauzeau Boetti Annemarie, Negative Capability as Practice in Women’s Art, in “Studio International”, vol. 191, n. 979, p. 24. 42 Oberto Anna, Poesia al femminile, in “Le Arti”, novembre-dicembre 1975, p. 43.

43 Romana Loda è stata tra le promotrici più attive dell’arte femminista in Italia: attraverso l’organizzazione di numerose mostre collettive e l’attività della galleria Multimedia di Erbusco (Brescia) ha sostenuto le ricerche di artiste quali, tra l’altro, Stephanie Oursler, Suzanne Santoro e Tomaso Binga. Le sue mostre hanno avuto importanti ripercussioni sullo studio dell’arte delle donne in Italia: nella lunga intervista realizzata da Ester Coen a Lea Vergine, ad esempio, quest’ultima ricorda come nel 1975 proprio durante una mostra organizzata a Brescia da Loda abbia iniziato a prendere in seria considerazione l’idea di occuparsi di arte al femminile e a concepire il progetto che nel 1980 la porterà a realizzare l’esposizione L’altra metà dell’avanguardia. 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche; in Coen Ester (a cura di), Schegge. Lea Vergine sull’arte contemporanea. Intervista di Ester Coen, Skira, Milano 2001, p. 38. 44 Loda Romana (a cura di), Altra misura, op. cit., s.p. 45 Ibidem. 46 Ibidem. 47 La mostra ha più edizioni: Loda Romana (a cura di), Magma, cat. mostra Castello Oldofreddi, Azienda Autonoma Stazione Soggiorno, Iseo 29 novembre-18 dicembre 1975; Ead. (a cura di), Magma, cat. mostra Galleria Michaud, Firenze 1976; Ead. (a cura di), Magma. Rassegna internazionale di donne artiste ideata e realizzata da Romana Loda, cat. mostra Museo Castelvecchio di Verona, febbraio 1977. Nella terza edizione le artiste in mostra sono: Marina Abramovič, Tomaso Binga, Marisa Busanel, Vana Caruso, Lygia Clark, Betty Danon, Hanne Darboven, Iole de Freitas, Valie Export, Nicole Gravier, Rebecca Horn, Suzy Lake, Liliana Landi, Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Libera Mazzoleni, Marisa Merz, Annette Messager, Verita Monselles, Natalia LL, Stephanie Oursler, Gina Pane, Lucia Pescador, Diana 95


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Rabito, Edda Renouf, Andreina Robotti, Dorothea Rockburne, Franca Sacchi, Sandra Sandri, Suzanne Santoro, Katharina Sieverding, Mariella Simoni, Berty Skuber, Nanda Vigo, Dorothee Von Windheim.

Chave Anna C., “Is this good for Vulva?”. Female Genitalia in Contemporary Art, in The Visible Vagina, cat. mostra Francis M. Naumann Fine Art, LLC-David Nolan Gallery, New York 2010, pp. 7-27.

48 Loda Romana (a cura di), Il volto sinistro dell’arte, cat. mostra Galleria De Amicis, Firenze 29 ottobre-26 novembre 1977, s.p. Alla mostra prendono parte, oltre Oursler, Marina Apollonio, Mirella Bentivoglio, Valentina Berardinone, Tomaso Binga, Renata Boero, Dadamaino, Giosetta Fioroni, Lucia Marcucci, Libera Mazzoleni, Verita Monselles, Lucia Pescador, Sandra Sandri, Suzanne Santoro, Grazia Varisco, Nanda Vigo.

56 Tickner Lisa, The Body Politic: Female Sexuality and Women Artists since 1970, in “Art History”, giugno 1978, vol. 1 n. 2, pp. 236-249, ora in Parker R., Pollock G. (a cura di), Framing Feminism. Art and The Women’s Movement 1970-1985, op. cit. p. 268.

49 Trasforini Maria Antonietta, Decostruzioniste ante litteram. Artiste in Italia negli anni Sessanta e Settanta, in Iamurri L., Spinazzé S. (a cura di), L’arte delle donne nell’Italia del Novecento, Meltemi, Roma 2001, cfr. pp. 190-192.

57 Ivi, p. 269. 58 Mulvey Laura, You don’t know what is happening, do you, Mr Jones?, in “Spare Rib”, n. 8 1973, pp. 13-16. 59 Sauzeau Boetti Annemarie, Dalla barca alla culla. A proposito di Susanna Santoro, in “Data”, n. 22, estate 1976, p. 39.

54 Jourdan Clara, Insieme contro. Esperienze dei consultori femministi, La Salamandra, Milano 1976.

60 Negli anni Ottanta le opere vulvari di Santoro, insieme a quelle di artiste internazionali quali Judy Chicago e Miriam Shapiro, vengono giudicate negativamente da esponenti della critica poststrutturalista di orientamento marxista e lacaniano, come Griselda Pollock e Rozsika Parker, perché ritenute essenzialiste, tese cioè a ricondurre le differenze tra uomo e donna al dato naturale, invece di concentrarsi sulle asimmetrie dei rapporti di potere esistenti sul piano storico, culturale, economico e sociale. Per un quadro sul dibattito tra essenzialismo e antiessenzialismo si rimanda a Rozsika P., Griselda P., Old Mistresses: Women, Art and Ideology, Pandora, London 1981; Broude N., Garrard M.D. (a cura di), The Power of Feminist Art. The Movement of the 1970s, History and Impact, Harry N. Abrams, New York 1994; Robinson Hilary (a cura di), Feminism Art Theory. Anthology, 1968-2000, Blackwell, Oxford 2001; Amelia Jones (a cura di), The Feminism and Visual Culture Reader, Routledge, London-New-York 2003.

55 Sulla molteplicità degli usi e dei significati dell’esposizione dei genitali femmminili nell’arte contemporanea si veda

61 Bois Y.A., Krauss R., L’informe. Mode d’emploi, cat. mostra Centre Pompidou, Paris 1996, [trad. it. dalla versione inglese

50 Santoro Suzanne, Towards New Expression. Per una espressione nuova, Rivolta Femminile, Roma 1974. 51 Per un approfondimento sulla teoria della differenza sessuale e sul femminismo italiano negli anni Settanta si rimanda alla bibliografia contenuta in Cavarero A., Restaino F., Le filosofie femministe. Due secoli di battaglie teoriche e pratiche, op. cit. 52 Irigaray Luce, Ce sexe qui n’en est pas un, Les Éditions de Minuit, Paris 1977, [trad. it. di Muraro Luisa, Questo sesso che non è un sesso, Feltrinelli, Milano 1978, p. 19]. 53 Santoro Suzanne, Towards New Expression. Per una espressione nuova, op. cit., s.p.


del testo a cura di E. Grazioli, L’informe. Istruzioni per l’uso, Bruno Mondadori, Milano 2003]. Krauss inizia a riflettere sull’informe già a partire dalla prima metà degli anni Ottanta nei saggi No More Play (1983), ora in Ead., The Originality of the Avant-Garde and Other Modernist Myths (1985), [trad. it. a cura di E. Grazioli, Non si gioca più, in L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 49-91] e Ead., Corpus delicti (1985), ora in Ead., Le Photographique (1990), [trad. it. a cura di E. Grazioli, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 169204]. Ringrazio Claudio Zambianchi per avermi dato la possibilità di leggere il suo saggio Le forme dell’informe, in corso di stampa. 62 Colloquio con l’artista tenuto il 25 novembre 2012. 63 Cfr. Irigaray Luce, Ce sexe qui n’en est pas un, op. cit. 64 Oursler Stephanie, Un album di violenza, Edizioni delle donne, Roma 1976. 65 Fraire Manuela, introduzione a Un album di violenza, op. cit., s.p. 66 Ivi, s.p. 67 Loda Romana (a cura di), Il volto sinistro dell’arte, op. cit. 68 Per un approfondimento si veda Muzzarelli Federica, Formato tessera. Storia, arte e idee in photomatic, Bruno Mondadori, Milano 2003. 69 Gilardi Ando, Wanted! Storia tecnica ed estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria, G. Mazzotta, Milano 1978. 70 Monselles Verita, in Loda Romana (a cura di), Il volto sinistro dell’arte, op. cit. 71 Berger John, Ways of Seeing, Penguin, London 1972; [trad. it. a cura di Nadotti M., Questione di sguardi, Il saggiatore, Milano 1998, p. 49]. 72 Bourdieu Pierre, La domination

masculine, Seuil, Paris 1998 [trad. it. a cura di Serra A., Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998]. 73 Loda Romana, Verita Monselles, in Magma. Rassegna internazionale di donne artiste, Verona 1977, op. cit., p. 48. 74 Coleman A.D., The Directorial Mode. Notes Toward a Definition, in “Artforum”, Photography Issue, settembre 1976, pp. 55-61. 75 Su un’idea analoga a quella formulata da Coleman si basa l’importante mostra inaugurata nel 1979 al San Francisco Museum of Modern Art, Fabricated to be Photographed, seguita nel decennio successivo da rassegne come Images Fabriquée (1983) o Théâtre des réalités (1986). 76 Nel 1976 Binga e Monselles inaugurano le mostre a due: Noi donne, Galleria Centrosei, Bari; Litanie Lauretane – Ecce Homo, Studio Del Monaco, Bari; Mater – Ecce Homo, Galleria Eremitani, Padova; nel 1977: Mater – Ecce Homo, Galleria Lamanuense, Parma; Litanie Lauretane – Ecce Homo, Incontri Internazionali d'Arte, Roma; Penne alla Binga e Sangrilla alla Monselles, Studio Out-Off, Milano. 77 Binga Tomaso, in Lux S., Zeuli M.F. (a cura di), Tomaso Binga. Autoritratto di un matrimonio, Gangemi, Roma 2005, p. 112. 78 Binga Tomaso, in Magma, op. cit., p. 15. 79 Schor Gabriele, Vorrei uscire da qui! Birgit Jürgenssen: opere degli anni Settanta, in Schor Gabriele (a cura di), Donna e avanguardia femminista negli anni Settanta, cat. mostra Galleria Nazionale d’Arte Moderna Roma, febbraio-maggio 2010, pp. 196-206. 80 Ferrari Daniela (a cura di), Poesia visiva. La donazione di Mirella Bentivoglio, op. cit., pp. 218-219. 81 Saccà Lucilla (a cura di), Omaggio a Ketty La Rocca, cat. mostra Palazzo delle Esposizioni, Roma, 15 marzo-16 aprile 2001; Museo di Arte Contemporanea e 97


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del Novecento, Monsummano Terme, 7 aprile-17 giugno 2001; Vinca-Masini Lara, Per Ketty 25 anni dopo, in Saccà Lucilla (a cura di), Omaggio a Ketty La Rocca, op. cit.; Del Becaro Elena, Intermedialità al femminile: l’opera di Ketty La Rocca, Electa, Milano 2008; Rorro Angelandreina, Dalla parte di Ketty in Schor Gabriele (a cura di), Donna e avanguardia femminista negli anni ’70, op. cit., pp. 46-55; Trasforini Maria Antonietta, Decostruzioniste ante litteram. Artiste in Italia negli anni Sessanta e Settanta, op. cit. 82 Saccà Lucilla (a cura di), Ketty La Rocca: i suoi scritti, Martano, Torino 2005. 83 Dorfles Gillo, In principio erat, Centro Di, Firenze 1971, s.p. 84 Chastel André, L’art du geste à la Renaissance, in “Revue de l’art”, n. 75 1987, trad. it. L’arte del gesto nel Rinascimento in Il gesto nell’arte, Editori Laterza, Roma-Bari 2008, p. 10. 85 Bourdieu Pierre, Un art moyen. Essais sur les usages sociaux de la photographie, Les Éditions de Minuit, Paris 1965; [trad. it. La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, Guaraldi editore, Rimini 1972]. 86 Ivi, p. 61. 87 Cfr. Saccà Lucilla, La vita è un’altra cosa, in Ead (a cura di), Omaggio a Ketty La Rocca, op. cit., p. 24. 88 Oggi Sezione del Museo di Storia naturale dell’Università degli Studi di Firenze. 89 AA.VV. (a cura di), Obiettivo uomo: l’antropologia fotografica di Paolo Mantegazza, cat. mostra Museo di Storia naturale, Firenze, 10 ottobre 2010-31 gennaio 2011. 90 Nella serie delle Riduzioni compare, ad esempio, Autoritratto dell’artista, basato proprio sul ritratto fotografico dell’artista. 91 La Rocca Ketty citata in Vinca-Masini Lara, Per Ketty 25 anni dopo, in Saccà

Lucilla (a cura di), Omaggio a Ketty La Rocca, cat. mostra Palazzo delle Esposizioni, Roma 15 marzo-16 aprile 2001, pp. 12-13. 92 Barilli Renato, Mostre/per sole donne, in “L’Espresso” ottobre 1978, ora in Fioravanti Baraldi Anna Maria (a cura di), Post Scriptum. Artiste in Italia tra linguaggio e immagine negli anni ’60 e ’70, cat. Ottava Biennale Donna, Palazzo MassariPadiglione d’Arte Contemporanea, Ferrara, aprile-giugno 1998, p. 17. 93 Ricciardi Cloti, Alfabeta, Cooperativa Prove 10, Roma 1975. 94 Un uso del ritratto fotografico, per certi aspetti paragonabile a quello di Ricciardi, si ritrova nel libro fotografico di Maria Grazia Chinese, La strada più lunga, pubblicato nel 1976 nella collana Scritti di Rivolta Femminile, curata da Carla Lonzi, dove l’autrice ritrae alcuni momenti dell’attività dei gruppi di Rivolta Femminile nel corso del 1972. Nel testo autobiografico Chinese avverte, tuttavia, l’esigenza di ripartire dalla propria esperienza individuale, dopo gli entusiasmi legati all’azione collettiva. 95 Cfr. Iamurri Laura, L’impronta e il corpo/l’ombra e lo specchio, in Ead. (a cura di), Autobiografia/Autoritratto, op. cit., pp. 34-35. 96 Solimano Sandra (a cura di), Anna Oberto. Mostra antologica 1963-1993, cat. mostra Museo d’Arte Contemporanea di Genova, Villa Croce, Genova 20 ottobre-28 novembre 1993, p. 15. 97 Il titolo della rivista subirà due modifiche, diventando “Ana Etcetera” a partire dal n. 5 e “Ana Excetera” dal n. 9. 98 Manifesto del gruppo Nuova Scrittura, Milano 1975. Ringrazio Anna Oberto per il prezioso aiuto nell’attività di ricerca. 99 Oberto Anna, Manifesto Femminista Anaculturale, in “Ana Excetera” n. 10, ottobre 1971. 100 Gazzotti Melania, Narrative Art, in Gazzotti M., Trolp J. (a cura di), La parola


nell’arte. Ricerche d’avanguardia nel ’900. Dal Futurismo ad oggi nelle collezioni del Mart, cat. mostra Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Rovereto 10 novembre 2007-6 aprile 2008, pp. 512-513. 101 Owens Craig, Posing, in Id. Beyond Recognition. Representation, Power and Culture, op. cit., pp. 204-205, [trad. mia]. 102 Ivi, p. 205. 103 Sauzeau Boetti Annemarie, Le finestre senza la casa, in “Data”, n. 27, lugliosettembre 1977, p. 34. 104 Ringrazio Francesco Impellizzeri e lo Studio Accardi per la collaborazione. 105 Accardi Carla, in “Data”, n. 27, lugliosettembre 1977, p. 37. 106 L’opera è stata ricostruita in occasione della rassegna espositiva a cura di De Candia M., Ferri P., Cose (Quasi) Mai Viste, presso il Centro Luigi Di Sarro di Roma; si veda De Candia M., Ferri P. (a cura di), Idee, processi e progetti della ricerca artistica italiana degli anni ’60 e ’70, Gangemi Editore, Roma 2011, p. 38. 107 Butler Susan, So How Do I Look? Women Before and Behind the Camera, in Lingwood James (a cura di), Staging the Self: Self-Portrait Photography 1840s-1980s, cat. mostra National Portrait Gallery, London 1986, p. 51. 108 Campagnano Marcella, Donne immagini, testo di Campagnano Lidia, Moizzi Editore, Milano 1976. 109 AA.VV. (a cura di), Venezia ’79. La Fotografia, Electa Editrice, Milano 1979, p. 292. 110 Campagnano Lidia, in Campagnano Marcella, Donne immagini, op. cit., s.p. 111 Il Collettivo di è composto dalle artiste Milli B. Gandini, Clemen Parrocchetti, Mariuccia Secol, Maria Grazia Sironi, Giuliana Consilvio, Fernanda Fedi, Giovanna Pagliarani, Marcella Campagnano, Elisabeth Scherffig, Gabriella Benedini,

Lucia Pescador, Lucia Sterlocchi, Valeria Castellucci, Maria Teresa Meneghini, Silvia Cibaldi, Maria Teresa Fata, Nicoletta Frigerio, Livia Lucchini, Lina Salvo; per un approfondimento si rimanda a Fedi Fernanda, Collettivi e gruppi artistici a Milano: ideologie e percorsi 1968-1985, op. cit. 112 Per un approfondimento sull’opera di Franco Vaccari si rimanda a Leonardi Nicoletta (a cura di), Feedback: scritti su e di Franco Vaccari, Postmedia Books, Milano 2007; Panaro Luca, L’occultamento dell’autore. La ricerca artistica di Franco Vaccari, APM, Carpi 2007; Angela Madesani (a cura di) Franco Vaccari. Fotografie 19551975, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007. 113 Campagnano Marcella, I luoghi dello sguardo, a cura di Maria Pia Miani, Centro Donna, Venezia 1995, p. 9. 114 Mattioli Paola, L’immagine fotografica, in Lessico politico delle donne. Cinema, letteratura, arti visive, Gulliver, Milano 1979, ora in Cristina Casero, L’obiettivo non è obiettivo. Considerazioni sulla fotografia come strumento di denuncia in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, op. cit., p. 145. 115 Cerati Carla, Immagini di donne: professione fotografa, cat. sezione culturale Sicof a cura di Colombo Lanfranco, Milano 1977, p. 100. 116 Mattioli Paola, Immagini di donne: la donna e lo specchio, cat. sezione culturale Sicof, op. cit., p. 102. 117 AA. VV. (a cura di), Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, Gabriele Mazzotta, Milano 1978. 118 Mattioli cita in particolare dei passi di Speculum di Luce Irigaray e de L’infamia originaria di Lea Melandri. 119 Mattioli Paola, La frase dello specchio, in AA.VV., Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, op. cit., p. 26. 120 Il tema è vasto ed è impossibile renderne conto in questa sede. Si ricordano come passaggi fondamentali: Eco Umberto, 99


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Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985; Chadwick Whitney (a cura di), Mirror Images, Women, Surrealism and Self-Representation, The MIT Press, Cambridge-Massachusetts-London 1998; Krauss Rosalind, Le Photographique, Éditions Macula, Paris 1990, [trad. it. a cura di Grazioli E., Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1996]; Owens Craig, Photography en ebyme, in “October”, n. 5, 1978, ora in Id., Beyond Recognition. Representation, Power and Culture, op. cit.; Dubois Philippe, L’acte photographique et autres essais, op. cit.

cartoline e documenti risalenti al periodo romano, e Pedicini Isabella, Francesca Woodman. Gli anni romani tra pelle e pellicola, Contrasto, Roma 2012.

121 Bignamini Ilaria (testo di), Foto&Idea, Galleria Comunale d’Arte Moderna, Sala del Ridotto del Teatro Regio, Parma aprilemaggio 1976.

131 Suleiman Susan Rubin, Dialogue and Double Allegiance. Some Contemporary Women Artists and The Historical AvantGard, in Whitney Chadwick (a cura di), Mirror Images. Women, Surrealism, and Self-Representation, op. cit., pp. 128-154.

122 Bandini Mirella (a cura di), Fotografia come analisi, cat. mostra Sala delle Colonne Teatro Gobetti, Torino 7 maggio 1977-12 giugno 1977. 123 Owens Craig, Photography en ebyme, op. cit. 124 De Freitas Iole, in Bandini Mirella (testo di), Fotografia come analisi, op. cit., s.p. 125 Lacan Jacques, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, Comunicazione al XVI Congresso internazionale di psicoanalisi, Zurigo, 17 luglio 1949, Écrits, Éditions du Seuil, Paris 1966 [trad. it. a cura di Contri G.B., Scritti, Fabbri Editori, Milano 2010, vol. I, pp. 8794]. 126 De Freitas Iole, in La Photo, testimonianze raccolte da Venturi Luca M., in “ArTitudes International”, n. 12-14, lugliosettembre 1974, p. 18, [trad. mia]. 127 De Freitas Iole intervistata da Sauzeau Boetti Annemarie in Lo specchio ardente, in “Data”, settembre-ottobre 1975, p. 51. 128 Sull’attività svolta a Roma si vedano in particolare: Casetti G., Stocchi F. (a cura di), Francesca Woodman Roma 1977-1981, Agma, Roma 2011, dove, insieme alle opere, vengono riprodotti disegni, lettere

129 Cfr. Townsend Chris, Francesca Woodman: Scattered in Space and Time, Phaidon, London-New York 2006. 130 Solomon-Godeau Abigail, Just like a Woman (1986) in Photography at the Docks. Essais on Photographic History, Institutions, and Practices University of Minnesota Press, Minneapolis 1991, pp. 238-255.

132 Ivi, p. 132 [trad. mia]. 133 Scrive Suleiman: «Se Woodman non aveva ancora visto Unica di Bellemer quando ha realizzato il suo Horizontale, deve averla sognata», in Suleiman Susan Rubin, Dialogue and Double Allegiance. Some Contemporary Women Artists and The Historical Avant-Gard, op. cit., p. 144 [trad. mia]. 134 Cfr. Townsend Chris, Francesca Woodman: Scattered in Space and Time, op. cit. 135 Mughini Giampiero, Libri che guariscono il mal d’aurora, in “Paese sera”, 9 marzo 1978. Nell’articolo viene menzionata anche l’imminente apertura della mostra di Woodman. 136 Krauss Rosalind, Teoria e storia della fotografia, op. cit., p. 116. 137 Ivi, p. 118. 138 Cfr. Armstrong Carol, Francesca Woodman: A Ghost in The House of The “Woman Artist”, in Armstrong C., De Zegher C. (a cura di), Women Artists at the Millennium, The MIT Press, CambridgeMassachusetts-London 2006.


139 Colloquio con l’artista tenuto nel novembre 2012. 140 Posner Helaine, The Self and The World. Negotiating Boundaries in the Art of Yayoi Kusama, Ana Mendieta, and Francesca Woodman, in Whitney Chadwick (a cura di), Mirror Images. Women, Surrealism, and Self-Representation, op. cit., pp. 156-171; Solomon Godeau Abigail, Just like a Woman, op. cit.; Carol Armstrong, Francesca Woodman: A Ghost in The House of The “Woman Artist”, op. cit.; Townsend Chris, Francesca Woodman: Scattered in Space and Time, op. cit. 141 Il titolo dell’opera è tratto dalla scritta autografa posta su alcune stampe della serie, si veda Caruso Rossella, Percorsi cinematici nel lavoro fotografico di Francesca Woodman, in Gabriele Schor (a cura di), Donna e avanguardia femminista negli anni ’70, op. cit., p. 214. 142 Altamira Adriano, La vera storia della fotografia concettuale, Area Imaging, Milano 2007, pp. 124-126. 143 Bravo Anna, Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003. 144 Sull’argomento si veda Perna Raffaella, In forma di fotografia. Ricerche artistiche dal 1960 al 1970, DeriveApprodi 2009, pp. 78-80; per un approfondimento sull’opera di Fioroni si rimanda a Celant Germano (a cura di), Giosetta Fioroni, Skira, Milano 2009.

149 Del resto, secondo la testimonianza di Giuliana Calandra, il pubblico si aspettava di assistere a uno spogliarello; si veda Perna Raffaella, In forma di fotografia. Ricerche artistiche dal 1960 al 1970, op. cit., p. 18. 150 Rinaldi Rosamaria, Nicole Gravier in studio. Fotoromanzi fatti a pezzi, in “Data”, n. 31, marzo-maggio 1978, pp. 52-53. 151 De Cecco Emanuela, Trame: per una mappa transitoria dell’arte italiana femminile degli anni Novanta e dintorni, op. cit. 152 AA.VV. (a cura di), Autoritratti. Iscrizioni del femminile nell’arte contemporanea, cat. mostra Museo d’Arte Moderna di Bologna, maggio-settembre 2013. 153 Conte L., Fiorino V., Martini V. (a cura di), Carla Lonzi. La duplice radicalità. Dalla critica militante al femminismo di Rivolta, op. cit.; Conte L., Iamurri L., Martini V. (a cura di), Scritti sull’arte, op. cit.; Iamurri Laura, Dell’autenticità. Carla Lonzi, l’arte, gli artisti, in Gallo F., Zambianchi C. (a cura di), L’immagine tra materiale e virtuale. Contributi in onore di Silvia Bordini, op. cit., pp. 113-123. 154 Timeto Federica, Il sospetto dell’appartenenza. Il difficile incontro fra arte e femminismo in Italia, op. cit.; Di Raddo Elena, Un’esperienza al femminile: il gruppo “Metamorfosi” 1977-1984, in “Ricerche di S/Confine”, vol. III, n. 1, 2012.

145 Bonito Oliva Achille in Calvesi Maurizio (a cura di), Teatro delle mostre, cat. mostra Galleria La Tartaruga, Roma 6-31 maggio 1968, s.p. 146 Oltre al catalogo, esiste un cartello realizzato dall’artista per la mostra. 147 Pegoraro Silvia (a cura di), L’arte e La Tartaruga. Omaggio a Plinio De Martiis: da Rauschenberg a Warhol, da Burri a Schifano, Skira, Milano 2007. 148 Celant Germano (a cura di), Giosetta Fioroni, op. cit., p. 44. 101


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Ketty La Rocca, Senza titolo, libro d’artista, 1974


Postfazione di Silvia Bordini

C’è stato un periodo, molti anni fa, in cui abbiamo cominciato a chiederci con insistenza perché così poche artiste fossero rimaste nella memoria della storia dell’arte, così poche nei musei, nella saggistica, negli archivi. E così poche nelle mostre d’arte contemporanea – certo con qualche eccezione, comunque poche. La risposta veniva (e viene tuttora) dal riconoscimento della egemonia storica del potere e della cultura maschile, che ha depresso e marginalizzato, e spesso cancellato, l’arte delle donne; imponendo un sistema di linguaggi e ruoli codificati che ha funzionato per millenni e da cui era ed è difficile sottrarsi. Un corollario a questo interrogativo riguardava la possibilità di esistenza di uno specifico linguaggio delle artiste autonomo dai paradigmi dominanti. Perché l’arte è una, l’arte non ha sesso (o forse sì? ci si chiedeva) ma le strutture in cui prende spazio e visibilità, valore e consistenza storica sono tradizionalmente e inequivocabilmente maschili. E lo sguardo di chi osserva è improntato a questi modelli di riferimento. Queste domande erano all’interno di una rete fitta di altri interrogativi, analisi, dibattiti, rivendicazioni, che costituivano il tessuto connettivo del movimento femminista degli anni Settanta. La presa di coscienza. Il partire dai propri bisogni. Il rifiuto della preminenza della logica operaistica e classista. Il personale è politico. La sessualità. La differenza. La sorellanza. Il lavoro casalingo non pagato e non valutato. Il potere maschile. La cultura dominante maschile. L’emancipazione. La liberazione. L’utopia di poter cambiare il mondo e di costruire le fondamenta di un rapporto diverso tra donne e uomini. L’arte, il fare arte, appariva come uno degli aspetti portanti di quella cultura che si voleva rivoluzionare, meno impellente forse di rivendicazioni come la contraccezione, il divorzio, l’aborto terapeutico, meno effervescente, forse, dell’impetuosa creatività delle manifestazioni e tuttavia un territorio da riconquistare. Un compito difficile per un movimento che voleva distanziarsi e differenziarsi da sistemi e istituzioni profondamente segnati dalla storica dominanza culturale maschile. La pratica politica femminista si svolgeva intenzionalmente alla larga da partiti e gruppi politici (all’epoca fiorenti e accaniti sostenitori delle proprie verità), ma anche dalla stampa periodica, da università, gallerie e musei. Autonomia e separatismo, che erano dettati dall’esigenza di crescere al proprio interno, partendo dalla propria condizione e dai propri bisogni, senza interferenze, lavorando su temi comuni a tutte le donne, con le loro affinità Silvia Bordini 103


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